Sei sulla pagina 1di 59

20/10/2020

[prof. Ugo Villani]

Testi di supporto: Runzitti Diritto Internazionale (2019), Conforti Diritto Internazionale (2018), Focareli
Diritto Internazionale (2019), Salerno Diritto Internazionale (2019), Cassese Diritto internazionale (2017).
Cassese caratterizzato dalla sua particolare sensibilità, adatto a chi è appassionato di Scienze politiche.

Il diritto internazionale è il diritto che governa i soggetti appartenenti alla comunità internazionale, quindi
gli stati (anche se recentemente vi sono aggiunti altri tipi di attor)i. Le sue tre funzioni sono le seguenti:

1. Normativa
2. Esecutiva
3. Accertamento del diritto (che nell’ordinamento interno sarebbe quella giuridica).

In ambiente nazionale è lo Stato ad esercitare queste funzioni, mentre a livello internazionale esse
assumono un carattere molto diverso (in termini di atti e misure che si possono prendere). All’interno dello
Stato la struttura è organizzata in enti e apparati, e in senso verticale, mentre nella comunità internazionale
gli stati si pongono nei reciproci rapporti come enti sovrani, che si riconoscono nella propria identità
territoriale dove godono di potere esclusivo (nel senso di poter rifiutare qualsiasi forma di intervento
esterno)  principe et reges, superiorem non recognoscentes, non riconoscono alcuna autorità superiore.
Si tratta quindi di una comunità composta da eguali. Come si è arrivati alla moderna comunità
internazionale?

In un mondo come quello medioevale, tutti i poteri discendevano dalle due fonti rappresentate dal potere
secolare e quello papale. Era una comunità, a differenza di quella moderna, verticistica e autoritaria. Un
esempio di questo tipo di autorità è quella di derimere le liti tra sovrani, o assegnare poteri e terre ad uno
piuttosto che un altro. In seguito alla scoperta dell’America, la regina di Castilla e il Portogallo avevano una
disputa riguardante l’appropriazione delle terre americane. Si rivolsero quindi al papa, Alessandro VI, che a
sua volta emanò una bolla (1493) con la quale segnò una linea di separazione tra le terre di Castilla e quelle
portoghesi nel Nuovo Mondo – un vero e proprio arbitrato, dove un terzo risolve una disputa tra due
soggetti. Un esempio più recente di questo tipo di meccanismo si svolse non molto tempo fa, con papa
Giovanni Paolo che intervenne tra Cile e Argentina. Il papa e l’imperatore esercitavano un potere che
detenevano naturalmente, avendo una posizione sovraordinata alle parti.

E per quanto riguardava il resto del mondo (considerando i centri di potere, non certo le tribù
dell’America)? Mentre con la Cina non vi erano rapporti e quindi nemmeno accordi legali, con il Medio
Oriente (e quindi l’islam), vi erano frequenti rapporti ma pessimi, e scarso riconoscimento reciproco o
paritario. In seguito alla rivoluzione luterana, poi, la scissione all’interno del mondo cristiano mise in
difficoltà l’autorità politica del papa e il suo potere giuridico. Ciò che segnò però la fine di un mondo e
l’inizio di un altro fu la Pace di Vestfalia 1, con la quale si venne finalmente a concludere la Guerra dei
Trent’anni (1618-1648). Perché quest’evento è così significativo? Perché si prese atto della divisone
religiosa, della fine dell’unità religiosa e della pari dignità di cattolici e protestanti, che trattarono l’accordo
vedendosi reciprocamente come pari. Finì l’autorità che papa e imperatore avevano precedentemente
esercitato, e per questo motivo il 1648 viene considerato l’inizio della comunità internazionale.

Sebbene episodi simili si possano rintracciare anche più indietro nella storia delle relazioni internazionali,
essi avevano ancora un carattere bilaterale e furono occasionali.

1
Corrispondente in realtà a due trattati: quello di Münster e quello di Osnabrück
Tuttavia, la comunità internazionale non è e non è mai stata veramente paritaria, piuttosto anarchica con
attori più potenti (la Cina e gli Stati Uniti non possono essere considerati come San Marino o il Timor Leste)
che nutrono aspirazioni egemoniche. E lo stesso era in passato, nel così detto Concerto Europeo – i rapporti
di forza non sono e non erano tutti uguali. A proposito di quest’ultimo, nel 1856, con il Trattato di Parigi, i
suoi membri invitarono la ‘Sublime Porta’ ad entrare a godere dei vantaggi di tale comunità.

Oggigiorno, però, a prescindere della superiorità numerica e/o economica di certi attori, nella comunità
internazionale ciò non si traduce in rapporti di subordinazione e dominio tra i membri dell’ONU – essi sono
tutti parimenti sovrani e uguali di fronte al diritto internazionale (il quale serve a rendere pacifica la loro
coesistenza). Man a mano che emergono interessi comuni tra gli stati (politici, economici, scientifici ecc.), di
origine interna e statale, essi sentono la necessità di collaborare per meglio soddisfare tali esigenze: a quel
punto si riduce la domestic jurisdiction e aumenta lo spazio di leggi comuni. È così che emergono nuove
istituzioni, come l’OMS, l’ONU e altre organizzazioni di carattere territorialmente più ridotto, dove gli stati
rinunciano volontariamente a parte della loro sovranità, concedendola a queste organizzazioni
internazionali, per collaborare insieme. Questi enti diventano quindi nuovi attori della comunità
internazionale, ma sempre al fianco degli stati e mai al di sopra di essi!  L’ONU stesso si basa
sull’eguaglianza sovrana tra gli stati, come dice il suo Statuto.

Per quanto riguarda l’individuo, nella concezione tradizionale del diritto internazionale esso non era
soggetto ma oggetto, subordinato all’autorità statale, per il quale lo Stato non era obbligato a dare conto di
fronte alla comunità internazionale. Oggi, invece, l’individuo è diventato titolare di diritti azionabili a livello
internazionale, che può far causa a uno Stato di fronte alla Corte dei diritti dell’uomo.

LE FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE:

Nei paesi Common law si seguono norme consuetudinarie, non necessariamente codificate. Nella comunità
internazionale, che status hanno gli usi del Common law? La norma viene creata dai consociati dalla propria
condotta, quindi le norme consuetudinarie esistono, ma un'altra fonte è data dagli
accordi/trattati/convenzioni tra gli stati, che ne accettano il contenuto (sottoscrivendo un contratto). In
questo senso, la differenza principale con il diritto interno sta nel fatto che gli accordi tra privati non sono
considerati fonti di diritto, mentre ciò avviene internazionalmente, almeno tra quelli che lo contraggono. I
contraenti creano una norma per le loro specifiche relazioni.

E per quanto riguarda l’attuazione dell’accordo? Com’è possibile far in modo che le parti rispettino
l’accordo? Anche nel caso dell’attuazione sta ai consociati farla rispettare (‘si fanno giustizia da soli’), si ha
quindi l’autotutela. Mentre essa è del tutto eccezionale nel diritto statale (e.g. legittima difesa), in quello
internazionale è la norma  per vincolare un consociato all’accordo si può ricorrere a diversi mezzi,
all’accordo stesso o ad un compromesso attraverso arbitrato, in cui si deferisce la decisione ad un terzo
attore (collegiale o singolo), la cui decisione/sentenza sarà obbligatoria. La funzione giudiziaria stessa ha
quindi, comunque, una base sociale che ricade sugli stessi attori.

APPUNTI DI DAVIDE:

Iniziamo dai possibili libri che si possono cercare e sfruttare per questo corso. Gli autori che sottoponiamo
sono:

● Ronzetti, Diritto Internazionale, Sesta Edizione 2019.


● Conforti, a cura di Iovane, Diritto Internazionale, XI edizione 2018.
● Focarelli, Diritto Internazionale, CEDAM, V Edizione, 2019.
● Salerno, Diritto Internazionale, CEDAM, V Edizione, 2019.
● Cassese, a cura di Frulli, Diritto Internazionale, III Edizione, 2017.
Questi sono i libri che potrebbero essere utilizzati per seguire il corso attivamente. Il diritto internazionale è
in continua mutazione e nello studio della materia è chiaramente rilevante l’attenzione alla prassi,
all’accadimento contemporaneo. Conforti è tra i più usati ma è problematico. Non complesso, o complicato,
ma problematico perché affronta i problemi e dà delle proprie risposte, che possono persuadere o meno.
Testo ottimo per chi viene da studi giuridici. Cassese, giurista e combattente dei diritti umani (già
presidente del tribunale contro i crimini in Ex-Jugoslavia), è un testo che risente positivamente della sua
sensibilità per certe tematiche e che quindi particolarmente è adatto a chi ama le scienze politiche.

Partiamo con l’ABC della materia. Il diritto internazionale è l’ordinamento giuridico, sistema o complesso
delle norme giuridiche, che regola la vita e le relazioni della comunità o società internazionale. Se il diritto
regola sempre il sistema sociale in qualche modo, qui i tipi di rapporti sociali sono tra quelle entità
nazionali, gli stati. Oramai, non più solo dagli stati. Originariamente, ovviamente, i protagonisti (non i
soggetti, termine giuridico) erano proprio solo ed esclusivamente le entità statutarie.
L’ordinamento di questa comunità presenta delle caratteristiche diverse dal diritto interno, quello statale,
che copre l’ambito di una comunità interna, come quella italiana, ha una propria organizzazione, delle
proprietà autorità e strutture. Nella comunità statale lo Stato e i suoi organi, i suoi poteri e le sue appendici,
svolge quelle funzioni che in ogni ordinamento giuridico sono immancabili che riguardano la produzione
normativa (creazione della norma); l’esecuzione o attuazione della norma giuridica che vuol dire anche
imporla verso i soggetti recalcitranti; la funzione di accertamento del diritto, la sua definizione in caso di liti
tra soggetti e che nell’ordinamento interno è la funzione giudiziaria intorno. Queste tre caratteristiche sono
fondamentali perché il diritto sia tale. Nello Stato le tre funzioni sono coperte da esso stesso con le sue
appendici.
Nel diritto internazionale, invece, queste tre immancabili funzioni esistono (o non parleremmo di diritto
internazionale) ma hanno caratteri profondamente diversi dal diritto interno. Parliamo di differenze nei tipi
di atti e misure che si possono prendere, e da chi li prende.
C’è una profonda differenza tra comunità di stati e quella interna ad uno di essi. Internamente ad uno stato
abbiamo un diritto gerarchico, organizzato con strutture, enti, apparati che rispondono a una certa
struttura statuaria. Nella comunità internazionale ciò non sussiste perché ogni stato si pone come un
elemento sovrano, con la sua territorialità e la sua comunità territoriale. Questo ovviamente vuol dire in
parte precludere a ogni stato di entrare negli affari di un altro strato. Molte espressioni latine saranno
presenti nel corso, come quella antichissima di Bartolo da Sassoferrato: “Principes et reges, superiori non
recognoscentes2”, che ben descrive anche la situazione attuale. Non re e principi, ovviamente, ma stati che
non riconoscono autorità superiori.
Ogni stato, nel rapporto reciproco con un altro stato, è sovrano nel proprio territorio e riconosce che ogni
altro stato è sovrano nel suo, senza che vi sia un’entità superiore. Volendo usare le antitesi, termini
antitetici rispetto alla comunità statuale, è una comunità anorganica, perché mancano apparati. O, se non
anorganica, anarchica. È un tipo di società orizzontale perché i soggetti son tutti tra di loro sullo stesso
piano teorico. Si potrebbe dire anche decentrata, in quanto i poteri non sono in mano a una entità
superiore ma ai diversi consociati. Sfumature terminologiche, nella sostanza le espressioni mettono in luce
l’assenza di una autorità superiore e della presenza di una certa egualità tra gli stati.
Come siamo arrivati alla moderna comunità internazionale come la conosciamo, di enti sovrani, privi di
autorità superiori? Questa nasce, e nasce il suo diritto internazionale, in un lungo processo storico che si
svolge tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVII, con Vestfalia. Tra questi due estremi temporali avviene
che, a poco a poco, si rompe e si deteriora quello che è l’organizzazione politica e sociale medievale.
Stiamo ovviamente guardando all’Europa. Non per una visione eurocentrica, ma perché storicamente la
moderna comunità internazionale e il suo diritto trovano la nascita in Europa, divenendo via via un
processo globale. Certi fenomeni han preso le mosse dall’Europa, e ciò va considerato. Il mondo medievale
si viene a logorare intorno questi anni ed è l’opposto della comunità di eguali. La reductio ad unum è un

2
Forma non accurata al 100 per 100.
tratto medievale europeo, la riduzione verso l’unità. Nel Medioevo di due, perché ci son due autorità
superiori in lotta tra di loro, i due soli di Dante: papa e imperatore. È un mondo unitario dal punto di vista
religioso che, in fondo, sostiene, rafforza e giustifica il potere politico sia del Papa che dell’Imperatore. È un
mondo complesso quello medievale, in cui tutti i poteri tendono a discendere da uno o dall’altro, da
un’autorità papalina o da quella imperiale.
Ci sono alcuni episodi significativi di questa struttura in cui papa e imperatore devono attribuire potere,
assegnare potere, dirimere discussioni. Un evento particolare è poco dopo la scoperta delle Americhe tra il
regno di Castiglia della Cattolicissima Isabella e il Portogallo. Vi è una disputa di appropriazione delle terre
nelle Americhe. Naturale, per questa disputa, diventa sottoporla al papa Borgia Alessandro VI.
Egli farà una Bolla, la Inter Caetera del maggio 1493, disegnando una linea di separazione all’altezza di Capo
Verde per dividere tra dove si potrà espandere Castiglia e dove il Portogallo. È un arbitrato, ovvero un terzo
che rispetto alle parti litiganti prende una decisione accettabile. Esso è ancora presente oggi, ma è
fondamentalmente diverso.
Se due stati volessero sottoporre una loro lite al papa Francesco (cosa non del tutto folle, perché tra
Argentina e Cile han proprio sottoposto alla mediazione di papa Giovanni Paolo II), affinché quel terzo abbia
il potere di decidere con sentenza tale lite, prevede che i due stati d’accordo decidano di lasciare il potere a
tale entità terza, come a un Tribunale del Diritto del Mare. Abbiamo un esempio recentissimo perché un
tribunale arbitrale ha risolto le tensioni tra India e Italia per la questione dei due marò sull”’Enrica Lexia”,
avendo le due nazioni lasciato a questo tribunale il potere decisionale.
Nel caso tra Castiglia e Portogallo, il papa (ma anche l’imperatore) esercita un potere che ha naturalmente.
La sua posizione giuridica è sovrana rispetto alle parti. Con l’accordo di Tordesillas i due stati si misero
d’accordo poi in maniera leggermente diversa dall’arbitrato papalino, ma comunque vi si adeguarono
fortemente. Pochi anni dopo tale trattato, il nuovo papa Sisto IV emanò una nuova bolla per confermare
l’accordo stesso. Ce n’era bisogno? Forse no. Forse però egli sentiva il bisogno di suggellarlo, per
confermare la sua superiorità istituzionale.
In questo mondo in cui le due autorità sovra-ordinate sono stratificate sopra il potere altro, almeno in
Europa. In altre parti del mondo certamente vi erano realtà altre a cui ora non possiamo far riferimento.
Principalmente identifichiamo entità politiche islamiche e cinesi. Che rapporti vi erano?
Non vi erano rapporti paritari. Con la Cina vi erano pochi rapporti, se non nulli. La mancanza di rapporti
sociali non necessita di norma. Con l’Islam invece si ha una situazione altamente conflittuale, di perenne
disconoscimento di pari dignità. Mentre dentro il rispettivo sistema vi era riconoscimento, tra il sistema
papale-imperiale e quello islamico esisteva una quasi perenne conflittualità dovuta alla mancanza di pari
riconoscimento3.
Lo stesso potere papalino troverà la sua frattura con Lutero e il protestantesimo, le famose 95 tesi affisse
nel 1517, con una scissione (già anticipata dalla rottura tra il potere ortodosso e quello cattolico, ma anche
con le sette minori che avevano di per sé indebolito il potere di Roma). Tale scissione contesterà anche il
potere dello stesso Imperatore, già eroso dai nascenti comuni e dalle prime entità nazionali.
Le tesi luterane quindi segnano una certa rottura con il passato. Sarà la pace di Vestfalia, nel 1648, a
segnare decisamente però la rottura del mondo medievale. Nella realtà distingue due trattati, uno a
Münster e uno a Osnabrück che chiudono la Guerra dei Trent’anni, iniziata nel 1618, con la defenestrazione
di Praga4. Fisicamente indifferente, ma il vulnus fu grave, scatenando un conflitto che durò trent’anni e
devastò l’Europa stessa.

3
Non è sempre stato così, ovviamente. Ci son stati dei momenti di rapporti paritari, come nel caso di Federico II
durante la VI Crociata che, come è noto, piuttosto che combattere si servì del negoziato, siglando con il sultano di
Egitto nell’11 febbraio 1209, un trattato commerciale e un matrimonio. Questo è stato l’unico, o uno dei pochi casi, in
cui Islam e Imperatore si pongono sul piano paritario. Episodio fastidioso per gran parte del mondo europeo che costò
una seconda scomunica a Federico II ma che gli valse il nome di Stupor Mundi e Puer Apuliae.
4
I rappresentanti degli Imperatori furono gettati dal castello di Praga dai rappresentanti del Regno di Boemia.
Perché Vestfalia fu così importante? Perché tutt’ora storici e politologi fan riferimento a Vestfalia come una
condizione standard, a cui si rifà costante paragone. Innanzitutto, perché i diversi attori iniziarono a
interagire come aventi pari poteri e diritti, che fossero protestanti o cattolici. C’è chi ha rinvenuto in questi
accordi di Vestfalia una sottospecie di base per le norme internazionali a difesa dei diritti umani, in materia
di religione (essendo presente nel trattato la difesa delle minoranze protestanti e cattolici in stati a
maggioranza diversa).
Il potere imperiale stesso ne sarà scosso. Per quanto imperatore sarà un titolo che continuerà a restare
vero e reale fino a fine Ottocento, il suo ruolo è paritario a quello di altri sovrani, che siano cattolici o
protestanti. La pace di Vestfalia, in maniera quasi plastica, dimostra che l’unità religiosa papalina è finita e
l’autorità politica imperiale è crollata.
La moderna comunità internazionale quindi trova alcune delle proprie basi proprio nella pace di Vestfalia,
nel reciproco riconoscimento di sovranità. Chiaramente è una data simbolo, non è una spaccatura netta,
ma pone delle basi politiche e giuridiche e future. Inoltre, suggella quel fenomeno di logoramento che si
andava già verificando. “Non facit simplus5”, insomma, non è facile interpretare tali eventi ma è una
concatenazione che porta ad un certo risvolto. Certo, uno storico potrebbe andare a ricercare nel diritto
costantiniano, ma anche nei rapporti tra le città greche o tra gli stati della Mesopotamia concetti similari,
ma che ora non ci riguardano. Partire da Vestfalia è giusto perché episodi lontani esistevano, ma erano,
appunto, episodi e non sistematici di una formazione che potremmo definire unitaria e stabile.
Innanzitutto, chiariamo che ovviamente gli stati non sono uguali. Nessuno potrebbe dire che gli USA o la
Russia sono simili a un San Marino o ad un Costa Rica. Questa stessa comunità non è sempre stata
anorganica, in quanto forme di egemonia e forme organizzative sovranazionali son esistite. Il disegno
egemonico napoleonico o hitleriano furono disegni che provarono a cambiare radicalmente le carte in
tavola per ridisegnare tali rapporti. La Santa Alleanza, che dà vita al Concerto Europeo (alla concertazione),
un’unione di paesi che insieme detengono il controllo della situazione internazionale, quindi della comunità
internazionale. Essi si comportano verso i paesi esterni al suo Concerto come l’ONU, ammettendoli o
escludendoli per controllare una situazione instabile.
Il trattato di Parigi del 1856 tra i membri del Concerto e la Sublime Porta ad esempio vide la seconda venire
ammessa quasi alla prima. Un proto-articolo 4 della Carta dell’ONU che prevede l’espansione dell’ONU, che
lo vede partire da 54 stati ed arrivare a 193, circa.
Se anche la differenza nei rapporti di forza forse cambia la prospettiva sull’inorganicità dei rapporti
internazionali, queste non hanno mai avuto giuridicamente un ruolo. Nel senso che, per la legge, vi è
uguaglianza. Socialmente forse i paesi del G7, o militarmente, son superiori ad altri. Vero, ma
giuridicamente questa differenza non sussiste.
Una seconda precisazione su Vestfalia riguarda la sua lontananza temporale. Molte cose sono cambiate,
anche se forse non nell’essenza. La comunità internazionale nasce come entità di enti sovrani che
rivendicano con forza la loro sovranità, il potere esclusivo sopra il proprio territorio e cittadini senza che vi
sia nessun potere altro. Tale dogma di sovranità celebra i suoi fasti fino alla metà del 1800. In questa
situazione, ciascuno stato ha un suo pieno controllo della comunità territoriale, tale che le questioni interne
sono da considerare sempre domestic jurisdiction, sempre una competenza interna (tutt’ora esistente nella
carta dell’ONU).
Lo stesso diritto internazionale, le regole giuridiche che reggono la comunità, riguardano la coesistenza tra
gli stati, non come gestiscono la loro vita interna. Si possono accordare confini, eventuali poteri in un altro
stato, i limiti all’esplicazione della sovranità (quei pochi esistenti). Il diritto però riguarda la coesistenza,
possibilmente pacifica.
Man mano che dalla metà dell’Ottocento iniziano a comparire esigenze comuni, più o meno nobili che
siano, interessi politici, economici, commerciali, tecnici, perfino postali o telegrafici, oggi sull’Internet, che
spesso nascono dall’interno delle società statali grazie a processi di sviluppo industriale e tecnologico,
nascono esigenze collaborative. Ciò per meglio soddisfare certamente i loro comuni interessi. Lo fanno
5
Latineggiante ma non per forza corretta.
concludendo trattati e accordi che son obbligatori, come si vedrà in futuro, da parte dei firmatari. La sfera
quindi esclusivamente riservata agli stati e alla normativa statale si erode, lentamente. Dovendo cooperare,
gli stati accettano di dover rendere conto di ciò che fanno. Esempio: il trattamento degli individui, ovvero i
diritti umani.
Questo diritto sempre più di cooperazione e non mera coesistenza, fa nascere sia interessi comuni, ma
anche valori condivisi tra diversi stati. Via via sono la pace, che è un bene universale. I diritti fondamentali
saranno un’altra conquista. Ad oggi potrebbero essere la tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile. Valori
condivisi tutelati da accordi e trattati internazionali. Sulla stessa scena internazionale, specie per il
perseguimento di quelle esigenze condivise, compaiono attori quali le organizzazioni internazionali. Essi
sono inizialmente tecniche, come quelle dedicate all’igiene (antenata dell’OMS), o la Società delle Nazioni,
organizzazioni di carattere geografico più limitato o tematizzate su una specificità, come la Comunità
Europea, oggi Unione, o quella africana.
Son organizzazioni che ovviamente limitano la sovranità delle nazioni, diventando a volte nuovi e
importanti attori, ma sempre accanto, ancora non al di sopra degli stati. Per ora, nemmeno questo
fenomeno ha fatto venir meno il dato di una comunità tra eguali 6. Manca comunque l’esistenza di un super-
stato, nemmeno l’ONU si pone così.
Nel diritto internazionale classico ottocentesco l’individuo, la persona umana, è non-soggetto, oggetto della
potestà statale. Un suo avanzamento a soggetto nasce solo con la contemporaneità. Prima di ciò il potere
esclusivo statuale si espandeva sul territorio e sui cittadini/sudditi. Non che ciò significasse un trattamento
negativo di tali individui, solo che ciò restava nelle competenze statali.
Vi è stata un’evoluzione con l’emergere anche di quei valori condivisi. La persona umana diventa attore
sulla scena internazionale, di ovvia debolezza rispetto allo stato, perché comunque sottoposto al potere
statuale, ma non è più una pertinenza. Un cittadino può appellarsi oggi ad esempio alla Convenzione dei
Diritti dell’Uomo per poter sancire un proprio diritto, arrivando anche a portare una causa contro lo stato.
Nonostante ciò, non vi è autorità sovra-ordinata agli stati. È comunque una comunità orizzontale,
nonostante gli stessi stati si siano progressivamente ridotti i propri poteri, in un quadro generale più
articolato in cui coesistono attori quali organizzazioni internazionali, ONG, attori individuali.
Le essenziali funzioni di un sistema giuridico (accertamento, esecuzione, creazione normativa) si possono
realizzare pur in assenza di un’autorità superiore. Sul piano delle funzioni dell’ordinamento giuridico
bisogna trovare dei procedimenti che prescindano dal legislatore, che qui non c’è in senso statale. Non c’è
un decreto-legge, ma internazionale. Su questo piano manca il senso della forza pubblica. Prescinde,
ancora, da un giudice internazionale, che manca (eccetto in alcuni casi).
Ciò che caratterizza tale situazione nel diritto internazionale, nella comunità internazionale, è che non c’è
né legislatore né gendarme né giudice perché non c’è ente sovraordinato. Eppure, tali funzioni esistono
perché altrimenti non parleremmo di diritto. Sarebbe analisi sociologica, politologica o economica, non
giuridica. Tali funzioni esistono grazie ad attori congeniali ad una comunità in cui manca un attore
superiore. In una parola, le funzioni essenziali del diritto vengono svolte, direttamente o indirettamente,
dagli stessi consociati. Non c’è uno superiore, quindi i valori normativi sono espressione della base sociale,
in tal caso di nazioni.
Analizzando da vicino tali processi, potremmo vedere le fonti giuridiche, le fonti del diritto. Il fatto, o
procedimento, attraverso il quale viene creata, modificata o estinta una norma giuridica. Esempio: in Italia
e in altri ordinamenti simili, la prima fonte di diritto è la legge 7.

La fonte del diritto internazionale è imputabile e vede come attori protagonisti gli stessi stati, che restano i
principali, per ora, soggetti d’ordinamento. Due sono le fonti principali produttive di per sé e che vedremo
in futuro: la prima fonte è la consuetudine. Cos’è, di per sé? La consuetudine è un fenomeno costituito dalla

6
Certo, ma già porre l’Europa come paritaria alle nazioni non è di per sé una vittoria?
7
Procedimento fatto in una maniera decisa che regola gli affari di stato.
prassi, cioè forme di condotta e di comportamento prolungate nel tempo dagli stati stessi. Da quanti? Da
quanto tempo? Più o meno vario. Tale condotta, o comportamento, viene tenuto con la convinzione che
corrisponda alla conduzione di un certo obbligo giuridico. Ovvero, tale comportamento non si svolge per
pura fattualità temporanea. Ma la condotta, tenuta costantemente, di stati che la reputano in qualche
modo obbligatoria. Tipico è ad esempio il trattamento degli agenti diplomatici stranieri. Se gli stati
riconoscono immunità agli ambasciatori, ma non solo, nel proprio territorio (per esempio riconoscendo che
non li possono arrestare, processare, mettere le forze pubbliche nella loro sede) non è cortesia, ma son
convinti di essere giuridicamente obbligati a tenere tale condotta. Sono convinti che arrestare un
ambasciatore vorrebbe dire commettere un illecito internazionale, antichissimo. Ci si potrebbe chiedere, da
internazionalisti, perché Attilio Regolo è passato alla storia. Spedito dai romani ai cartaginesi, fu chiuso in
una botte e spedito in mare, ad annegare. Perché è passato alla storia? Perché l’azione cartaginese fu
reputata un crimine contro il nunzio, ambasciatore. In un’epoca in cui sacro e giuridico si andavano
confondendo (si parla ancora oggi di sacralità dell’ambasciata, per accentuarne la portata anche etica),
l’omicidio di Regolo fu considerato un crimine efferato. Già all’epoca, evidentemente, c’era da parte
romana di un rispetto verso l’ambasciatore, una doverosità giuridica.

Nel diritto internazionale la consuetudine come fonte primaria di diritto è importante anche perché è
l’unica fonte, l’unico procedimento (nonostante non vi sia nessuna procedura qui, la consuetudine è un
fatto dato), in cui dato l’opinio juris che si rispetti il diritto, che è generale. Nel senso che tutti i soggetti son
condizionati a tale procedura consuetudinaria, anche chi è nato solo dopo la sua istituzione. 8 Tale
produzione normativa nasce dalla base sociale, dagli stati, che con la propria condotta e i propri
coinvolgimenti nel rispetto della condotta, creano e mantengono la norma. È un tipo di fonte coerente con
l’idea paritaria di un sistema anorganico.
Una seconda fonte è l’accordo tra stati. Certo, non esistono solo gli stati, ma semplifichiamo il linguaggio.
Accordi che, da un punto di vista terminologico, hanno una pluralità di termini per descriverne il fenomeno.
Può essere il patto, la convenzione, il trattato. Giuridicamente è la sostanza che conta, non come viene
definito alla fine dei conti. L’accordo è un incontro di volontà tra due o più stati che si mettono d’accordo,
contrattualmente, per sottoscrivere un contratto poi che deve essere firmato e sottoscritto. I vari membri
esprimono la propria volontà a stipulare e attenersi poi obbligatoriamente a quel testo firmato e accettato
e sottoscritto. La regola aurea del diritto internazionale, pacta sunt servanda, ovvero i patti vanno rispettati,
sempre.
La differenza, con il diritto interno, è più una sfumatura tecnica che di sostanza. Nel diritto interno nessuno
si sognerebbe di dire che il contratto è fonte di diritto. Nel diritto internazionale invece lo è. È un atto che
produce norme da rispettare, come la consuetudine, ma solo tra le parti concludenti. Curiosando, anche nel
Codice Civile Italiano con l’articolo 1372 si afferma che il contratto è legge tra le parti. È un modo per dire
che tra le parti ha un valore legale, per rafforzare quindi l’idea che il contratto ha carattere obbligatorio.
Dire che l’accordo internazionale nasce dal basso è scontato e ovvio, perché ovviamente son le parti stesse,
contraenti, che decidono di creare la norma. Se vogliono, firmano. Se non vogliono, non stipulano. La
funzione normativa c’è e parte, comunque, dal basso. Se nella consuetudine generale prodotta da tutti i
consociati, nell’accordo son le parti coinvolte.

L’attuazione della norma, anche coercitiva, che strumenti trova nella comunità internazionale? L’attuazione
del diritto è nelle mani dei consociati stessi. Brutalmente, ognuno si fa giustizia da sé. Nel diritto
internazionale l’istituto, il congresso di norme attraverso le quali lo stato può provvedere ad attuare i propri
diritti casomai un secondo attore violi i propri diritti, ecco l’istituto è l’auto-tutela. Lo stesso titolare del
diritto che, giuridicamente, ha il potere di adottare misure contro quello stato che lo viola per ottenere
soddisfazione. L’auto-tutela è del tutto eccezionale nel diritto statale. Nel diritto statale esiste l’apparato di
8
Distinguiamo tra quei codici civili in cui gli usi e costumi sono anche legge di consuetudine, come nel caso britannico.
In presenza di norme scritte predominanti, come in Italia, per esempio gli usi intervengono solo in assoluta mancanza
di norme scritte a riguardo.
sicurezza, il gendarme e il giudice. Pensando al diritto penale, la legittima difesa è una eccezione nel diritto
italiano. Ci sono problematiche in questo caso, perché l’auto-tutela è difesa di un diritto percepito. Ma chi
ha definito come tale diritto sia giusto o meno e sia davvero violato?
Ciò che rende insoddisfacente, ancora, tale istituto, è che lo stato più forte può usare tali misure
maggiormente rispetto a uno stato debole. Certamente uno stato debole potrebbe usarlo, ma ha dei limiti
reali.

Infine, la funzione giudiziaria del diritto interno, decidere tra le problematiche tra due soggetti (le famose
cause, che non chiedono il permesso), esistono anche nel mondo internazionale. Non esiste certamente il
giudice con autorità come nello stato. Cosa succede allora? Esistono due strumenti in particolare. Il primo è
l’accordo intenzionale, in quanto quella fonte di diritto internazionale può essere anche soluzione di
controversie, in quanto con un accordo simile si potrebbero risolvere alcune problematiche. Sono i
protagonisti che trovano una soluzione.
Un altro strumento è il compromesso, che è sempre un accordo, che porta all’arbitrato. Le parti di una
controversia, se vogliono insieme e consensualmente, attribuiscono a un terzo, deferendo ad esso il potere
e il compito di emanare una sentenza, impegnandosi preventivamente a eseguirla. L’atto col quale
deferiscono tale lite all’arbitro che può essere un collegio come il Tribunale del caso “ Enrica Lexia”, è un
compromesso che è di per sé un accordo che però non porta direttamente a una soluzione, ma la
deferiscono al terzo. Nel momento in cui viene emanata la sentenza, dà la sensazione di esercitare un
potere dall’alto ed effettivamente tra le parti è obbligatoria. Però, è anche vero che l’arbitro che ha il
potere di giudicare lo prende dalle parti stesse, essendo loro ad attribuire il potere all’arbitro. Ancora una
volta, la funzione giudiziaria che si esprime come sentenza obbligatoria ha una base sociale.
Tutte le funzioni, anche quelle di soluzione e accertamento, esistono nel diritto internazionale ma son
sempre forma di espressione, diretta o indiretta, degli stessi attori. Tale quadro è reale, ma ha subito dei
perfezionamenti tecnici nella contemporaneità, grazie all’intervento di organizzazioni (son stati semplificati
nei processi, escludendo o limitando alcuni poteri degli stati).

22/10/2020

Le caratteristiche del diritto internazionale, per quanto riguarda la produzione normativa, quindi, sono la
consuetudine e l’accordo. In caso di defezione abbiamo visto quali sono i mezzi per costringere una parte a
rispettare gli accordi, quindi attraverso arbitrato, con un terzo che, tramite il compromesso di entrambe le
parti, viene coinvolto per redimere la controversia.
Si può dire che le fonti del diritto internazionale quindi vengono create dal basso, visto che sono gli stessi
soggetti coinvolti che le definiscono. Esistono però anche degli strumenti interni, negli ordinamenti degli
stati singoli, che permettono di far rispettare le norme internazionali generalmente conosciute
(consuetudinarie) – come è anche previsto dalla Costituzione italiana.

C’è da aggiungere che la spinta all’organizzazione, all’individuazione di interessi e valori condivisi,


all’arricchimento della comunità internazionale (in primis con le organizzazioni Internazionali) ha corretto,
nel corso del tempo, le mancanze del diritto internazionale, facendo emergere delle norme consuetudinarie
che hanno una particolare forza precettiva: le ius cogens, le norme inderogabili, e.g. quelle che stabiliscono
l’autodeterminazione dei popoli, o che vietano i genocidi. Queste norme, rispetto ad altre sempre
consuetudinarie, hanno una forza più vigorosa. Ciò è dovuto al fatto che normalmente le consuetudini
possono essere riviste, ad esempio attraverso un accordo tra stati, ma ciò non vale per le ius cogens: una
loro violazione ha sempre delle conseguenze e più gravi che in caso di altri illeciti.
Sul piano normativo, il quadro è arricchito anche dai documenti derivanti dalle organizzazioni
internazionali: nel caso dell’ONU, le decisioni del Consiglio di Sicurezza devono essere rispettate dagli stati –
quest’organo gode quindi di un certo potere autoritativo, ma ciò è perché gli stati membri, d’accordo,
hanno volontariamente accordato così in principio, concedendo in mutuo accordo questo potere al CS.
Persino la guerra è regolata dalla ius cogens: mentre un tempo, in caso di guerra, si metteva da parte la
legge dei tempi di pace, e si adottava la legge della guerra, ciò adesso è profondamento cambiato! Gli atti di
minaccia e violenza verso un altro stato sono vietati, e ciò nella Carta dell’ONU non è semplicemente visto
come un meccanismo di autotutela, ma piuttosto come una tutela consociata. Se hanno luogo atti ostili
verso un membro da parte di un altro paese, vengono innescati tutta una serie di meccanismi di
“solidarietà”, con forme di intervento anche semplicemente diplomatiche mirate al mantenimento della
pace.
Anche sul piano della risoluzione di controversie, a parte il già citato compromesso, esistono i tribunali
internazionali (come la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, principale istituto giudiziario dell’ONU) che
permettono di rendere questi processi più automatici ed efficienti. Chiaramente, anche qua, si ha una
volontà da parte degli stati a voler sottoporre il loro caso di fronte all’autorità giudiziaria internazionale e
alla sua eventuale sentenza.

I protagonisti della comunità internazionale:

- Lo Stato, il principale soggetto giuridico e destinatario delle norme internazionali. Originariamente è


l’unico soggetto di questo sistema e, anche se oggi non è così, rimane il primo fra tutti. Ciò è
particolarmente vero per le norme consuetudinarie, che normalmente non riguardano gli altri soggetti
(non tutte le norme internazionali si rivolgono a tutte le personalità giuridiche)
o Cos’è, tuttavia, lo Stato per il diritto internazionale? I suoi organi di governo (in senso ampio,
non esclusivamente l’esecutivo), piuttosto che il suo popolo (e ciò deriva sempre da norme
consuetudinarie, non è una scelta ideologica ma prassi). Anche se dovesse essere un individuo a
chiedere, mettiamo, risarcimento alla Germania per essere stato sottoposto ai lavori forzati
durante la seconda GM (com’è stato effettivamente riconosciuto dalla Corte di Cassazione
italiana), sarebbe l’Italia a presentare la sua causa, e non il singolo.
Lo stato è poi caratterizzato dalla sovranità, traducibile (anche) come la sua potestà legislativa,
alla quale è poi collegata la sua giurisdizione: essa si può estendere all’estero laddove, ad
esempio, una coppia si sposi all’estero o un suo cittadino compi un crimine, avendo quindi
un’applicazione extraterritoriale. Non può certo però esercitare una qualsiasi coercizione nel
territorio di un altro stato (tipo pignorare un bene e compiere un arresto): gli atti esecutivi sono
sempre e comunque strettamente territoriali  emblematico il caso degli agenti israeliani che
arrestarono Eichmann nel 1960 in Argentina: nonostante la comprensione verso Israele, il CS
dell’ONU dovette riconoscere che il fatto rappresentava un illecito.

Quali sono, comunque, i requisiti che uno Stato deve avere per essere personalità giuridica internazionale
(come sempre, per prassi)? 1) sovranità territoriale, quindi controllo sul proprio territorio 2) un popolo sul
quale esercitarla 3) un apparato di governo (sempre in senso ampio) effettivo e indipendente. Tuttavia,
recentemente il concetto di effettività è stato parzialmente sostituito da quello di legalità internazionale,
soprattutto per quei casi in cui il potere esercitato, benché effettivo, non sia considerato legittimo (in luce
del principio ex iniuria ius non oritur, secondo il quale la legge non può scaturire da fatti criminosi 9) – basti
9
Ovvero, si, il diritto nasce dai fatti ma allo stesso tempo non può nascere legge dall’illecito. Progressivamente, ecco, si è scalfita la
pienezza di questo principio con quello di legalità internazionale. Nel senso che stato che son venuti a crearsi in violazione di norme
cogenti, di jus cogens che hanno una particolare forza precettiva, non vengono riconosciuti anche se effettivi e stabili.
L’ONU lo porterà a sistema. Nel 1965 la Rhodesia meridionale si dichiarò indipendente dalla Gran Bretagna. La Rhodesia nasce sotto
i precetti della de-colonizzazione ma mantenendo un livello di apartheid e di controllo della minoranza. L’ONU condannerà tale
nascita, non riconoscendo lo stato di per sé ma rimarrà come entità concettuale. La Rhodesia sparirà negli anni ’80 divenendo lo
Zimbabwe. In Rhodesia l’apartheid viene considerato appunto come una violazione dei diritti umani e del diritto di auto-
determinazione dei popoli, motivo per il quale l’ONU manterrà il suo non-riconoscimento. (Continua sotto)
pensare al decisamente inefficace potere di al Serraj il quale, nonostante non abbia controllo sullo stato
libico, è comunque riconosciuto come suo leader dal molti paesi. Per quanto riguarda il secondo criterio
che deve caratterizzare l’autorità del governo, essa dev’essere originaria (il quale è un termine molto più
giuridico di ‘effettiva’): il governo dev’essere portatore di una costituzione che, appunto, ne provi
l’indipendenza – non parliamo quindi di un apparato di governo indipendente in senso pratico e concreto (il
che è sempre più difficile in una comunità internazionale sempre più interconnessa), ma tale in quanto con
un ordinamento propriamente suo. Ad esempio,  gli stati interni agli Stati Uniti, quali il Texas o la California,
godono di poteri molto vari e differenziati, ma non sono riconosciuti dal diritto internazionale come stati di
per sé perché le loro leggi non sono originarie, il loro ordinamento non è originario. La Costituzione
americana o italiana si poggiano solo su loro stesse. Le leggi e statuti regionali nascono da essa. Dal punto
di vista internazionale, essendo gli enti locali non riconosciuti dal diritto internazionale, hanno il loro ruolo
come organi dello stato. Perché le loro azioni sono inputate allo stato come ente del diritto internazionale.
Per capire: nel 2004 vi fu una sentenza verso l’inputato Đukanović, presidente del Montenegro, che era
ancora parte della Serbia-Montenegro. L’avvocato di Đukanović pretese l’immunità. La Corte di Cassazione
risposte però che il Montenegro non era ancora indipendente, ma uno stato federale presente in una
federazione. Di per sé non era soggetto di diritto internazionale. Riuscì comunque a sfuggire alla richiesta di
arresto divenendo capo di governo poi anche del Montenegro indipendente.

27/10/2020

E il riconoscimento degli altri stati? È necessario alla legittimità di uno stato?

Innanzi tutto tale riconoscimento può essere de facto, ovvero quando non ci si pronuncia sulla legittimità
dello stato appena formato. Se oltre all’esistenza si riconosce anche la legittimità di uno stato, invece, si
parla di riconoscimento de jure. Solitamente il riconoscimento è reciproco e ad esso si accompagna
l’instaurazione di relazioni diplomatiche (i.e. invio di delegazioni diplomatiche per avere la rappresentanza
del proprio stato nel territorio dell’altro).
Il riconoscimento può essere esplicito, contenuto in un documento, o implicito, manifestato attraverso
azioni che non siano documenti specifici. Un esempio di questo ultimo caso è l’attribuzione dello status di
osservatore da parte dell’ONU alla Palestina. Quest’ultima deteneva già tale status, ma con la risoluzione
apposita si parlava di “Stato della Palestina”, il che rappresentò un grande successo diplomatico per i
palestinesi. 138 paesi, tra cui l’Italia, votarono a favore, riconoscendola quindi (implicitamente) come uno
stato.
Per alcuni paesi che affrontano problemi sul teatro internazionale, essere riconosciuti può rappresentare
una grande conquista che ne rafforza lo status. Un altro esempio è quello di Israele: quando nel ’48 si
dichiarò come stato, non fu riconosciuto dai paesi arabi e cominciò la prima guerra arabo-israeliana, e
quando nel ’78 venne riconosciuto dall’Egitto tale riconoscimento fu particolarmente significativo. Quando
un paese viene riconosciuto dai propri nemici, ciò rappresenta una conquista politica.

Un altro caso lo abbiamo con Cipro del Nord, la parte della Repubblica del Nord di Cipro, filo-turca. Anche in tal caso l’ONU non ha
riconosciuto tale stato, perché questo stato è nato de facto grazie ad un’aggressione militare turca.
Ancora, prima della fine dell’apartheid in Sud Africa, nel 1976, furono creati dal governo sudafricano diversi staterelli di nessuna
rilevanza. Staterelli basati sulla separazione delle razze di per sé. Questi stati bantustan non vennero mai riconosciuti dall’ONU.
Daesh, ad oggi, non è mai stato riconosciuto come stato da nessuna nazione ma è esemplare dello stesso ragionamento. Anche nel
nord del Mali successe la medesima cosa con altre cellule terroristiche. Di per sé il Consiglio di Sicurezza disconosce e chiede di
disconoscere stati nati in violazione di norme e principi fondamentali del diritto internazionale (dei principi di jus cogens) quale
diritto di non aggressione, la protezione dei diritti umani e il diritto all’auto-determinazione dei popoli. Violarli vuol dire violare il
diritto e non poter essere stati. Tendenzialmente le nazioni seguono i medesimi principi, attenendosi alle indicazioni del Consiglio
sul riconoscimento di alcuni stati.
L’effettività rimane la regola per dire cosa sia e cosa non sia stato, ma rimane anche il suo limitare la salvaguardia verso il rispetto di
quei diritti cogenti e diciamo basilari.
Uno stato non riconosciuto, comunque, non è impossibilitato a relazionarsi agli altri: i suoi cittadini vengono
riconosciuti come appartenenti ad esso, le sue navi hanno bandiere e nazionalità. Tanto più, esso non viene
esentato dalla responsabilità per eventuali illeciti. Quindi la prassi, di fatto, dimostra che uno stato non
riconosciuto ha comunque un’entità manifestazione della sua sovranità. Ciò ci porta a capire che il
riconoscimento non ha un valore costitutivo, ma ha più che altro effetto politico e, in parte,
giuridico/dichiarativo: lo stato che ne riconosce un altro non può negarne la soggettività e si trova quindi in
una situazione di preclusione (non può negarne le implicazioni). Non si può poi revocare il riconoscimento a
piacimento, ma si può piuttosto revocare la relazione diplomatica.

La rilevanza del riconoscimento quindi non è costitutiva, però se l’intera comunità internazionale si rifiuta
di riconoscere uno stato, respingendo ogni forma della sua pretesa sovranità e considera privi di valore ed
effetto i suoi atti amministrativi, allora lo stato è un’entità di fatto ma non può nascere come soggetto (del
diritto internazionale). Lo stato in questione non può quindi entrare in un rapporto di sociabilità con gli altri
– neanche in relazioni negative. È completamente isolato.

APPUNTI RECUPERATI:

Torniamo al discorso della soggettività statuale. Lo stato perché sia tale deve avere un apparato
governativo che sia effettivo (valutazione che implica una costatazione di fatto di una realtà, “ Ex facto
oritur ius”) e per l’altro verso sia indipendente, cioè originario (valutazione che è strettamente giuridica).
Ci si chiede se, dinanzi questi due elementi, occorra qualcosa in più, ovvero il riconoscimento degli altri
stati. Ora, il riconoscimento è un atto che è estremamente diffuso nella prassi internazionale. È un atto con
il quale uno stato constata l’esistenza di un altro stato. Se ciò si limita alla constatazione di esistenza di un
altro stato, è un riconoscimento de facto, cioè constata l’esistenza di tale stato senza pronunciarsi sulla sua
legittimità. Se lo stato che riconosce dice che lo stato che è nato precisa anche tale stato è venuto
all’esistenza con una certa legittimità, il riconoscimento che non riguarda solo l’esistenza ma anche la
legittimità, si dice de jure. In una prima fase gli stati vengono riconosciuti de facto, successivamente anche
de de jure. Nella prassi, diffusissima, la riconoscenza è reciproca. Uno riconosce l’altro, che riconosce il
primo. Al riconoscimento si collega l’instaurazione di rapporti diplomatici, tramite l’instaurazione di
missioni diplomatiche nei due stati.
Parliamo sia di riconoscimento esplicito, formale dentro o fuori un accordo; sia implicito, legato quindi a
una condotta non equivoca, ovvero che in maniera indubbia esso manifesti la volontà di riconoscere tale
stato, tale riconoscimento potrebbe essere avvenuto.
Il riconoscimento è vitale, a livello politico, a maggior ragione se tale riconoscimento arriva da paesi con i
quali a lungo han contestato l’esistenza e nascita dello stato in questione. L’autorità stessa dello stato viene
fortificata da questi eventi di riconoscimento, in particolare gli stati nati dal conflitto. Pensiamo al processo
sanguinoso di dissoluzione dell’ex-Jugoslavia. Man mano che Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina,
Macedonia e Serbia (non più Macedonia), si proclamano indipendenti in una guerra civile, il giungere di
riconoscimenti (alcuni prematuri, in quel momento iniziale degli anni ’90), furono elementi di forte
sostegno. L’unico momento di divisione consensuale fu tra Serbia e Montenegro. Pensiamo però alla
problematicità del Kosovo nel 1998, che aveva tutto l’interesse ad ottenere un riconoscimento pubblico per
garantire in quel momento di dubbio internazionale sulla sua esistenza. Ancora, problemi aperti sono per
esempio l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, separatisti dalla Georgia, che han riconoscimenti solo da Russia e
forse Venezuela. 
Secondo una tesi superata, il riconoscimento avrebbe valore costitutivo, ovvero con esso può essere
attribuita la soggettività internazionale allo stato riconosciuto. Nel diritto interno, l’atto costitutivo di una
persona giuridica ne sancisce la sua nascita. È una tesi superata e contro la quale son legittimi molti
argomenti logico-giuridici. Uno tra i primi è che il principio di riconoscimento costitutivo è contrario alla
parità degli stati, perché uno stato dovrebbe subordinare la sua esistenza al placet di altri stati. Inoltre, ciò
avrebbe valore solo per chi riconosce lo stato. Ma la soggettività di ogni ordinamento giuridico è erga
omnis. O si è soggetti, o non lo si è.
L’argomento più decisivo, contro la tesi del valore costitutivo, è desumibile dalla prassi stessa. Teniamo
presente comunque che la prassi nel diritto internazionale, se accompagnata dal convincimento e
concordia tra stati, esprime regole giuridiche, una norma. Quello che constatiamo nella prassi è che lo stato
non riconosciuto non viene privato della capacità di relazionarsi con gli altri, per certi aspetti. Il territorio di
uno stato non riconosciuto da taluno anche da questo taluno non viene visto come un territorio di nessuno,
disponibile alla conquista. I cittadini di questo stato, le sue navi, son comunque da ricondurre a uno stato.
Pur non volendo riconoscere uno stato, lo stato che non lo riconosce ben si guarda dal considerare privo di
sovrano un territorio, privi di cittadinanza i cittadini o privi di bandiera le navi, e inoltre non lo considera
privo di responsabilità da illecito. L’illecito presuppone la soggettività, va detto. La prassi degli stati è che lo
stato non riconosciuto non è mai entità di fatto, perché le sue manifestazioni di sovranità sono prese in
considerazione comunque.
Questo però ci porta a escludere che il riconoscimento quindi sia il valore costitutivo dello stato, anzitutto
non vuol dire anche che il riconoscimento sia solo di rilevanza politica. È politicamente importantissimo, ma
ha anche effetti giuridici, o di valore dichiarativo. Che cosa si intende? Si intende che lo stato che ha
riconosciuto un secondo stato non può poi negarne la soggettività. Lo stato che riconosce si viene a trovare
in una forma di preclusione. Non può rimettere in discussione che quello stato esiste (riconoscimento de
facto) o lo è anche legittimamente (de jure). C’è una presa in carico di una posizione non negabile. Alcuni
affermano che nella prassi avvenga una revisione del riconoscimento. Il Ronzetti, ad esempio, è tra questi.
Invoca la prassi della revocabilità. Questo negherebbe l’idea dichiarativa del riconoscimento stesso. La
prassi alla quale si fa riferimento non sembra dirci che gli stati neghino poi in secondo luogo il
riconoscimento, di per sé al contrario solo la revoca della missione diplomatica. La rilevanza del
riconoscimento.

Il riconoscimento quindi non è costitutivo. Lo stato deve avere altre caratteristiche già viste, al di là del
riconoscimento. Se questo è vero che però bisogna ammettere che se l’intera comunità internazionale
rifiuta, disconosce uno stato e nel disconoscerlo respinge ogni forma di manifestazione della sua pretesa
sovranità, le considera prive di qualsiasi effetto giuridico, atto amministrativo e così via. Se quindi l’intera
comunità internazionale, sul piano diplomatico ma colla sistematica negazione di sovranità, in questo caso
possiamo dire che lo stato forse è de facto ma non nasce come soggetto. Teorizziamo quindi qui che per la
soggettività internazionale non serve il riconoscimento di tutti gli stati, ma che sia capace almeno di avere
un rapporto di sociabilità. Ci siano cioè relazioni, anche cattive, ma pur sempre relazioni sociali con gli altri
stati. Un perfetto isolamento dalla comunità internazionale non permette di raggiungere la posizione
internazionale.
 Ancora una volta, guardiamo alla prassi. Quella dichiarazione Stimson sul Manchukuo ad esempio si è
ripercossa nel tempo colpendo quelle nazioni nate in violazione dei diritti cogenti e fondamentali del diritto
internazionale, lo ius cogens, quali il divieto di aggressione; del principio di auto-determinazione dei popoli.
Nei casi prima citati, la comunità internazionale e la totalità, o quasi, del mondo, han disconosciuto quelle
realtà, nate in violazione dei principi di diritto cogente (rispetto dei diritti umani e dell’auto-determinazione
dei popoli, principio di non aggressione). Stati come quelli del bantustan hanno mai avuto davvero la
statualità internazionale, né la Rhodesia Settentrionale, i cui atti erano riconosciuti solo in Sud Africa.
Affinché tale isolamento, tale da pregiudicare le possibilità di socialità di tali stati, non bastino atti politici e
risoluzioni ONU. C’è bisogno che in via di fatto vi sia un rigetto sistematico da parte degli altri stati di
qualsiasi presunta manifestazione di sovranità. 
Se quindi il riconoscimento non è costitutivo, l’isolamento totale come prima descritto, possa portare alla
negazione della soggettività. Il riconoscimento non crea soggettività. Il disconoscimento generale può però
negarla.
Gli stati sono enti per loro natura territoriali. La sovranità si commisura a un territorio. Sovranità intesa
come potere attuativo, esclusivo e coercitivo dello stato esercitato dentro dei confini. Altri stati, a meno di
aggressione, non possono attuare potere coercitivo nel territorio altrui.
La definizione dei confini si potrebbe rifare a una regola in apparenza semplice. Poiché in ogni questione
che riguarda lo stato domina il principio di effettività, potremmo dire che i confini si definiscono nel senso
che segnano la linea fin dove lo stato effettua, riesce a effettuare, la sua attività di stato. Sarebbe
apparentemente una regola giusta, ma è inefficace. Il vero problema del definire i confini tende a sorgere
laddove la situazione geografica è tale per cui l’esercizio normale e continuato di potere sovrano non è
possibile (un lago, un fiume, una catena montuosa) o, ancora, laddove vi sia una contestazione del potere
sovrano, laddove due stati provino a mettere mano al proprio potere.
Litigi son frequenti, motivo per il quale accordi o arbitrati son spesso la soluzione, insieme ai tribunali, per
arrivare a una chiara definizione dei confini. Forse regole più semplici di tipo consuetudinario esistono per i
confini marittimi. SI parla della delimitazione, sovente spesso necessario fare, tra il mare territoriale e
quello di un altro. Anticipando qualcosa del corso in futuro, la sovranità dello stato, seppur con certi limiti,
si estende al di là della terraferma ma prosegue per i mari territoriali, che parte dalle sue coste e arriva a un
limite di 12 miglia marittime. Spesso sorge un problema per definire il confine marittimo tra due stati
dirimpettai. Per il mare territoriale, ad esempio, esiste una regola consuetudinaria scritta (conferenza di
Montego Bay del diritto del mare), che sancisce come vada considerata una linea che parte dalla linea del
confine e si spinge fino al mare con un andamento equidistante tra le due nazioni, per sancirne la
separazione. Una regola che in generale accontenta tutti e dovrebbe essere di facile implementazione. Se
gli stati si fronteggiano, come nei canali ad esempio (anche se questi seguono regole specifiche) la stessa
linea è parallela alle due coste. Il tutto salvo ci siano circostante speciali, ovviamente. A volte una nazione la
può definire come iniqua, perché dannosa per interessi particolari e così via. In presenza di problematiche
come isole o conformazioni particolari, si ricorre a soluzioni speciali che dovrebbe essere eque e giuste –
poi , in generale, intervengono i rapporti di forza.
Sulla terraferma la situazione è complessa. Ci sono regole consuetudinarie, ma sono tutte derogabili.
Dinanzi un accordo tra gli stati interessati, si possono infatti modificare. Il più delle volte le regole
consuetudinarie hanno un valore integrativo, o interpretativo, degli accordi stessi. Per stabilire i confini si
parte da un accordo e laddove esso non sia chiaro o se usa termini tecnici particolari che possono destare
liti e controversie, il diritto internazionale consuetudinario interviene per chiarire tali termini o integrare
l’accordo che non ha definito la completezza dei problemi.
Frequente è, negli accordi internazionali, l’uso delle montagne come confine. Il più delle volte si usano
confini naturali, quali fiumi, catene montuose, o anche artificiali come il Muro di Berlino; ma anche confini
immaginari che vengono tracciati su una carta geografica.
Esemplifichiamo: tra Francia e Italia le Alpi fan da confine, che non è una linea, ma un punto. Si prende una
catena montuosa, ma il punto preciso quale può essere? Se nulla è scritto, la linea è quella dello
spartiacque ovvero non è la linea più alta ma quella che separa la caduta delle acque in uno o altro stato
(displuvio). Nel caso italo-francese la discussione sul Monte Bianco si muove su questo. Vi è ancora una
controversia in atto, spesso causata dai francesi. Nel l’8 settembre 2015 che il sindaco di Chamonix, in
Francia, mandò dei doganieri in un rifugio alpino considerato però italiano (rifugio Torino). Nel 2019, 7
giugno, sempre il sindaco di Chamonix emanò un’ordinanza per vietare l’uso del parapendio da tutte e due i
lati del parapendio del Monte Bianco. Il 1° ottobre 2020 il governo francese ha emanato dei provvedimenti
che stabiliscono delle misure di protezione dell’habitat naturale comprendente anche il ghiacciaio del
Gigante e il rifugio alpino Torino, italiani. Di Maio ha emesso note di protesta a riguardo.
Da dove nasce il caso, che è un fatto di principio per lo più? La contesa nasce dal fatto che l’Italia fa
riferimento, per affermare che il confine del Monte Bianco fa da confine, che da dove vi sia displuvio quello
sia territorio italiano. L’Italia si fonda su due accordi fatti tempo fa (24 marzo 1860, trattato di Torino, e
Convenzione di Delimitazione 17 marzo 1861), fondati su cartine geografiche che disegnano i confini e che
fan vedere pienamente che son italiani. La Francia ha affermato di non avere cartine a riguardo e che,
comunque, il riferimento è ancora più indietro ed è quello dell’armistizio di Cherasco del 1796 siglato da
Napoleone Bonaparte. 
Il problema dell’assenza di chiarezza sulla linea di confine porta a una controversia che si rifà a trattati
vecchi di due secoli e mezzo. La mancanza di chiarezza offre quindi tali problematiche.

Ancora, spesso i fiumi, per accordo, fan da confine. Ad esempio, tra Iraq e Iran, dove il fiume fa da confine
delle due nazioni e dove spesso si son guerreggiati. Il fiume è il confine. Ma qual è la precisa linea di confine
nel fiume? Come si può definire esattamente il confine come linea? Una regola consuetudinaria che ci aiuta
è che la linea di confine è la linea mediana del thalweg, termine di origine tedesca che indica il canale
principale di navigazione, ovvero equidistante dai due limiti di esso. Una regola abbastanza riconosciuta,
anche da corti come la CIG, che l’ha recentemente applicata. Una regola che normalmente, quindi,
funziona.
In mancanza di accordi gli stati litigano abbastanza spesso. Gli accordi sui confini hanno una loro particolare
stabilità, tendono a non essere messi in discussione in presenza di interessi comuni verso la stabilità delle
frontiere. Una regola fondamentale sul tema, che non è integrativa di accordi ma si impone da sé in qualche
modo sui confini, è una regola che viene anche enunciata con l’espressione latina “ uti possidetis, ita
possidiati”. Tradotta in italiano “Come avete posseduto, continuate a possedere”. Giuridicamente tale
espressione sancisce che la regola consuetudinaria afferma che negli stati nati dalla de-colonizzazione i
confini sono gli stessi confini sanciti dalle potenze coloniali. Esso è stato anche sfruttato, come principio,
nella divisione amministrativa interna di ex territori coloniale. Tale regola quindi ha dalla sua non soltanto
la giurisprudenza consolidata internazionale ma anche importanti dichiarazioni a favore e recepimento di
norme scritte. Nel primo caso, una dichiarazione dei capi di stato dell’Unità Africana (oggi Unione Africana)
del 1964 dichiarava che tale procedimento andasse usato in Africa per le diatribe di confine. Altresì, la
regola venne riconosciuta nell’atto istitutivo del 2000 dell’Unione Africana.
Può sembrare strano che i paesi frutto della de-colonizzazione, che han impiegato anni per liberarsi della
sovranità coloniale, siano stati disponibili ad accettarne i frutti in merito ai confini. Perché ciò è avvenuto?
La sorpresa si può superare per l’esigenza di certezza del diritto, e certezza quindi dei confini e delle loro
definizioni. L’incertezza nei confini è fonte di scontri armati e malumori. Ogni stato ha interesse ad avere
confini stabili, sicuri, facilmente definibili. La regola dell’uti possidetis ha questo vantaggio di facilità.

Continuando nell’esaminare lo stato, esso ha sovranità territoriale e può tendenzialmente far tutto. Ma
cosa non può fare? Quali sono i limiti alla sovranità territoriale nazionale? Ci riferiamo sempre, quindi, ai
poteri che lo stato ha nel suo di territorio.
Un tempo lo stato non aveva alcun limite per quel che riguardava il trattamento dei suoi cittadini. Verso gli
stranieri sì, ma verso i cittadini-sudditi no. La nascita di nuove forme organizzative, trattati e accordi,
organizzazioni anche internazionali, lo stato conosce dei limiti, in particolare verso le “gross human rights
violations”. Allo stato è vietato da norme consuetudinarie, anche cogenti quindi dotate di forza precettiva,
di ricorrere a tortura, trattamenti umani e degradanti, di compiere genocidio, eccidio, apartheid e così via.
Sono limiti di fatto alla consuetudine di potere totale dello stato. Norme che pongono a ciascuno stato un
divieto che deve anche porre verso tutti gli uomini. Ogni stato ha il divieto e ha la pretesa che tutti vi si
adeguino allo stesso tempo.
L’obbligo erga omnes ha quindi una validità particolare nella sua violazione. L’illecito di uno stato è
contemporaneamente verso i suoi cittadini e verso tutti gli altri stati. Questo spiega, giuridicamente, com’è
che tante volte oggi gli stati possano intromettersi negli affari statuali e nazionali altrui.
Ad esempio, ancora, il divieto della forza armata sancita dall’ONU vieta alle nazioni di usare alcune reazioni
verso altri stati per risolvere conflitti.
Ancora, lo stato deve astenersi dall’avere un impatto sull’ambiente non suo attraverso le proprie attività
territoriali. Lo stato non può usare il territorio creando danni ambientali verso altri paesi e deve anche
curare, vigilare, perché i privati seguano la medesima regola. Un primo caso che dimostra l’inizio di tale
prassi è di una sentenza arbitrale del 1941, che riguardava un’industria che, in Canada, produceva e
inquinava negli USA. Fu condannata. Si è ancora distanti dalla silent spring del 1962 della Carson,
dall’ecologia, ma è un inizio. Dagli anni ’70 tale il divieto divenne più sistematico. Tale principio venne
ripreso da altri accordi internazionali, quali Oslo e Rio, riprendendo a loro volta diverse sentenze come
quella del 2010 Argentina vs Uruguay, che riconosce tale divieto verso alcune fabbriche di aste di carta sul
fiume Uruguay e sancisce il divieto ad inquinare.
Altro limite della sovranità territoriale sta nel dovere, da parte degli stati, di impedire che partano attacchi
verso territori di altri stati. L’atto più importante che sancisce il divieto di tollerare tale partenza di attacchi,
quindi il dovere di usare misure di contenimento ad hoc (riguardanti la preparazione e il lancio), è una
dichiarazione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1979 (Dichiarazione sulle relazioni amichevoli), ripreso
da una dichiarazione del 1974 e dalla giurisprudenza, sentenza 1976, Nicaragua vs. Stati Uniti. Gli Stati Uniti
persero la causa dinanzi la CIG ma non eseguirono mai la sentenza. In quell’occasione, sotto vari profili, la
Corte affermò il dovere degli stati di impedire, di prendere misure, atte a evitare la partenza di attacchi
ribelli e terroristici verso latri stati. Nel caso, gli USA armavano i ribelli contras contro il governo sandinista
dell’epoca.
Sempre sotto il profilo dei limiti all’uso del proprio territorio, vi è un divieto degli stati di modificare il corso
di laghi e fiumi comuni che attraversano più stati, vietandogli di nuocere ad altri stati. Funziona anche con
le dighe? Questa è una regola non sempre riconosciuta. Tutte queste norme devono essere riconosciute.
Sono tendenze, quindi possono essere incerte. Se ne siamo sicuri, invece, c’è la norma; se non ne siam
sicuri, c’è la tendenza. Le norme tendenzialmente ci sono, possiamo riconoscerle: vi è un divieto a
modificare il corso di fiumi e laghi.

29/10/2020

Restando sempre sul piano del diritto internazionale consuetudinario, vediamo i limiti alla sovranità dello
stato. Di antica formazione e vigente, un limite è sugli stranieri e sui loro beni, sul loro trattamento. Si tratta
di regole di antica formazione, di un tempo in cui potremmo dire che il diritto internazionale aveva più
attenzione verso il trattamento degli stranieri che dei sudditi-cittadini di una entità statale.
La libertà dello stato un tempo permetteva di cacciare o bloccare la presenza di uno straniero sul proprio
territorio, ma ad oggi vi sono più stringenti limiti. Sul piano del diritto consuetudinario, al di fuori dei trattati
ad hoc, esiste un divieto “non refurmar”, non respingimento, ovvero il divieto di respingere ad oggi uno
straniero verso un paese nel quale ci siano serie ragioni di temere che egli sarebbe soggetto a possibili
danni alla propria vita o a un trattamento inumano. Tale regola oggi è di diritto generale internazionale. Si
può non ammettere uno straniero, non si han obblighi giuridici in tal senso; allo stesso modo non può
respingerlo verso certi paesi.
Per quel che riguarda il trattamento degli stranieri legittimamente in uno stato, da sempre vige quindi un
sistema di obblighi e di protezione dello straniero e dei suoi beni. Ci si articola qui su due livelli: su un
obbligo che è un divieto (quindi negativo), ovvero lo stato non può esigere dallo straniero sul suo territorio
prestazioni che presuppongano un attaccamento sociale forte quale la cittadinanza, ovvero uno stato non
impone ad esempio a uno straniero il servizio militare obbligatorio, perché tale prestazione si può imporre
solo al cittadino (che è un sacro dovere, ad esempio, per i cittadini italiani); vi è poi l’obbligo positivo, di
protezione, atto a spingere gli stati a prendere delle misure a favore dello straniero e dei suoi beni stessi.
L’obbligo di protezione consiste in un obbligo di tipo preventivo. L’entità statuale deve, nei limiti del
possibile e dell’umano richiedere, stabilire delle misure per tutelare la persona fisica e i suoi beni stranieri
da reati. Lo stato deve insomma avere un apparato di pubblica sicurezza che funzioni normalmente verso
anche lo straniero. Ciò non vuol dire ovviamente un poliziotto per ogni turista, ma sapere che vi è un
sistema solido. L’obbligo preventivo di tutela dello straniero va commisurato al momento, luogo geografico,
alla natura dello straniero. Si può pensare che in presenza di xenofobia, ad esempio, uno straniero in uno
stato altro potrebbe rischiare di più e questo dovrebbe portare ad un aumento della sicurezza verso di esso.
Se le misure preventive non funzionano, per colpa o presenza di un grave problema nel sistema di
sicurezza, errore o momento di falla, il dovere di protezione verso gli stranieri si esprime in un successivo
livello, ovvero in quello in cui lo stato territoriale ha il dovere di garantire giustizia allo straniero. Si ha un
momento repressivo, in cui lo stato deve dimostrare che nel suo sistema giudiziario lo straniero possa
ottenere giustizia e ristoro dei danni subiti.
Fino a questo momento è lo straniero, con i suoi beni, che è in giuoco come possessore di un diritto. Se
peraltro la giustizia non viene servita, lo stato territoriale non vuole o non può o non riesce ad amministrare
giustizia, a questo punto la causa, anzi, le ragioni dello straniero vengono esercitate dal suo stato di
appartenenza. In altri termini, dinanzi questi catastrofici errori, lo stato di cittadinanza dello straniero può
agire contro lo stato dove il danno è avvenuto. È un rapporto, quindi propriamente internazionale a questo
punto. Può avvenire in modi diversi.
Questo intervento dello stato di cittadinanza è l’istituto della protezione diplomatica. Si chiama diplomatica,
ma non si lega alle missioni diplomatiche di per sé. Il governo, i suoi apparati, i suoi organi competenti
statuali, faranno le loro rimostranze allo stato territoriale dove il danno è stato subito. Questo diritto di
protezione diplomatica si può esprimere in una protesta diplomatica (come la consegna di una nota da
parte del ministero degli esteri allo stato territoriale) o, in maniera più intesa ed efficace, la protezione
diplomatica si potrebbe esercitare come richiesta di un risarcimento dei danni, come ristoro dei danni.
Ancora, nella richiesta di sottoporre il caso ad arbitrato o corte internazionale. Ciò che non può mai fare è
ricorrere a misure di tipo armato e violento, in teoria.
Tale protezione diplomatica può scattare innanzitutto solo se il cittadino che ha subito la lesione non sia
riuscito a ottenere giustizia. Ci abbia provato, quindi, e abbia fallito. La condizione, o clausola, viene definita
del previo esaurimento dei ricorsi interni. Lo straniero ha il diritto, e il dovere ai nostri fini, di rivolgersi al
giudice e di esaurire i rimedi giudiziari nello stato territoriale. Fare quindi le classiche tre cause in Italia a tre
livelli. Se i tre livelli venissero esauriti senza giustizia, solo allora potrebbe ricorrere allo stato di
cittadinanza, che prende le parti del suo cittadino.
Altra precisazione: quando si parla di diritto di protezione diplomatica, da un punto di vista giuridico
internazionale si parla di un diritto dello stato di cittadinanza. È indubbio che lo stato prenda le parti del
cittadino. In senso strettamente giuridico, il diritto è dello stato. Il cittadino che ha subito la lesione ha
subito un danno ma il diritto ad intervenire è dello stato, sul piano internazionale. Dire che è un diritto dello
stato vuol dire che lo stato può esercitarlo o meno, può decidere anche il modo con cui esercitarlo. Sta allo
stato decidere, non al cittadino.
Lo stato è quindi soggetto e protagonista, ma vi è una generale tendenza a voler migliorare la situazione
dell’individuo come figura che può, ad esempio, richiedere al proprio stato di cittadinanza di chiedere la
protezione diplomatica. O anche tendenze che costringano lo stato a dare le somme ricevute come
risarcimento al cittadino colpito.
Poiché parliamo sempre di diritto internazionale tra stati, tentativi importanti sul piano politico fatti in
passato per mitigare l’esercizio di tale diritto, o bloccarlo del tutto, son stati fatti – ma deboli. Perché?
Perché nel mondo il diritto di protezione diplomatica è legato anche al settore degli investimenti economici,
fino a pochi anni fa ad esempio vi erano paesi in via di sviluppo dove avvenivano gli investimenti e dei paesi
sviluppati che investivano, da cui provenivano le figure giuridiche individuali. I benefici e malefici dello
sviluppo spingevano i paesi in via di sviluppo a cercare la salvaguardia, ad esempio, delle proprie risorse
territoriali (rifacendosi anche alle idee di sovranità illimitata su di esse). I paesi di investimento hanno per
cui sempre cercato di mantenere le mani libere per nazionalizzare imprese, espropriare beni ai cittadini
stranieri, trovando ovviamente dall’altro lato uno stato e imprese a loro volta ben poco interessate. Per
cercare di bloccare quindi i paesi investitori Carlos Calvo, giurista argentino, ha formulato la sua omonima
clausola: Secondo questa clausola, recepita in varie convenzioni latinoamericane, gli investitori stranieri
rinunciano alla protezione diplomatica degli Stati di appartenenza, accettando le leggi e la giurisdizione
degli Stati in cui effettuano le loro operazioni commerciali.
Scopo della Calvo è evitare l’abuso o l’uso indiscriminato della protezione diplomatica. Se gli stranieri sono
soggetti alle leggi e alla giurisdizione dello Stato ospitante, la protezione diplomatica torna comunque a
operare se viene negato un regolare accesso agli organi locali di giurisdizione.
Clausole come quella “Calvo” han perso di validità nel momento in cui il confine tra investitore e
investimento si è un po’ perso, confuso. In tal confusione, procedimenti ablativi come espropriazione e
nazionalizzazione sono resi leciti, lo sono per forza, ma sono tendenzialmente più accettati in presenza di
indennizzi, che devono essere pronti, adeguati ed effettivi. Pronto e adeguato son un grande limite per le
nazioni in via di sviluppo, ovviamente (non a caso la clausola è americana), il che porta all’impossibilità
materiale di svolgere tali operazioni seguendo tali clausole.
Il dialogo e gli accordi han reso meno combattivi tali processi. Gli atti ablativi son visti come possibili atti
leciti, non più come danno ai cittadini stranieri, ma con indennizzi che vengono negoziati spesso tra i due
stati o tra lo stato e l’impresa straniera. Nella prassi quotidiana contemporanea, e parliamo di diritto
pattizio oramai, ci sono strumenti come una convenzione del ’65, la ICSID (International Center for
Settlement of Investiment Disputes), entrata in vigore nel ’66, che svolge il lavoro di conciliazione e arbitrato
non tanto tra stati, ma tra lo stato di investimento e le persone giuridiche investitrici.
Altre convenzioni e prassi limitano l’attività degli organi dello stato, intesi come individui esplicatori di
pubblici poteri, dal capo dello stato al giudice, al parlamentare o al sottosegretario, tutti coloro che
detengono potere in uno stato insomma. 
Una prima regola che possiamo trovare è che gli organi dello stato straniero godono, in uno stato
territoriale, di una protezione mentre esercitano la propria funzione tramite atti ufficiali. È una immunità
dalla giurisdizione territoriale da parte di questi organi stranieri. Essi godono di questa immunità, sono
esenti dalla giurisdizione penale e civile di uno stato territoriale nell’esercizio delle proprie funzioni. La
funzione di tale organo deve essere quella del proprio stato di cittadinanza e, in tal frangente, il soggetto in
questione è intoccabile da processi di tipo penale e civile. Gli ambiti dell’immunità giuridica funzionale non
sono condivisi esattamente da tutti nella loro interezza.
Una norma ovviamente c’è, che esprime la consuetudine. Due casi per esemplificare in Italia. L’uccisione
del funzionario italiano Calipari, 4 marzo 2005, è il primo. Siamo all’indomani dell’attacco all’Iraq da parte di
diversi paesi occidentali. Una giornalista italiana de “Il Manifesto”, Giuliana Sgrena, viene rapita da milizie
locali e Nicola Calipari, dei servizi segreti, viene mandato a risolvere la situazione. Riesce a riprendere la
giornalista ma la macchina viene poi crivellata di proiettili da soldati americani a un check-in. La
giurisdizione penale sarebbe italiana per un suo organo dello stato condotto all’estero. La Corte di
Cassazione ha imputato Lozano, cittadino americano, con la sentenza 4 luglio 2008, la quale sancisce che
egli gode di immunità giuridica penale avendo agito come organo degli Stati Uniti, non come persona
Lozano, ma come soldato. L’uccisione di Calipari viene quindi imputata, giuridicamente, agli USA.
L’individuo non può essere giudicato per immunità ma restano il giudizio e la valutazione verso gli Stati
Uniti nell’aver commesso o meno un illecito internazionale.
Parliamo ora invece della sentenza arbitrale tra Italia e India del 2 luglio 2020, sul tema Enrica Lexie e la
morte dei due pescatori indiani. Evento noto, la morte di due pescatori nel 15 febbraio 2012, il caso di due
marò imbarcati che, nell’esercizio della propria funzione avevano ucciso due pescatori nella notte,
scambiandoli per pirati. Ovviamente ci son dubbi su chi si debba tenere il processo. India e Italia si
accordano per sottoporre il caso a sentenza arbitrale, che affermerà che l’India non può processare i due
marò perché hanno agito come organi di stato italiani, nell’esercizio delle loro funzioni. L’atto è imputabile
all’Italia come nazione, non ai due marò come persone. 
Nella sentenza viene aggiunto che l’Italia si è impegnata poi a processare, internamente, i due marò stessi.
L’Italia dal tribunale fu comunque condannato a risarcire l’India per la violazione del diritto alla libera
circolazione in mare aperto, per i danni materiali (tra cui le vite dei due pescatori), arrecati.
Primo punto tecnico: non si possono processare i marò come persone, ma solo l’Italia può. L’Italia viene
imputata dell’atto compiuto e dovrà anche pagare i punti.

Eccezioni dell’immunità esistono. Dinanzi fatti essenziali, infatti, l’organo può essere condannato dallo stato
territoriale in virtù di crimini internazionali, crimini che son usciti sulla scena fin dal processo di Norimberga
(quindi parliamo di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, quali genocidio o bombardamenti
indiscriminati). Simultaneamente atti simili sono imputati all’individuo e allo stato: uno vi risponde come
atto individuale penale, l’altro come illecito internazionale.
Significativa è una dichiarazione del 1° ottobre 1946 che sancisce appunto che sono gli uomini a
commettere crimini simili, e solo punendo tali individui le regole del diritto possono essere ivi applicate. Vi
è inoltre una categoria di organi dello stato che non godono di immunità e sono le spie. In caso di
spionaggio, una spia che commette reato non ha diritto all’immunità. Ci deve essere per l’immunità una
forma palese dell’esercizio funzionale.
Rispetto a questa immunità, va precisato che essa è perpetua. Nel senso, permane anche qualora
l’individuo abbia perso la sua capacità di organo, quale ad esempio la scadenza di un mandato politico o il
pensionamento. È un punto importante, sia chiaro, perché sancisce che tale individuo anche al di là della
sua carica non può essere imputato di ciò che ha fatto quando organo. L’atto, giuridicamente, è dopotutto
sempre imputato allo stato, quindi rimane dello stato che il soggetto sia ancora organo o meno.
Alcuni organi dello stato godono di una specifica disciplina e specifiche immunità, in un trattamento quindi
privilegiato. Anzitutto, seguendo il diritto internazionale, parliamo del capo dello stato, capo del governo e
delegato agli affari esteri. Essi godono per diritto internazionale consuetudinario, confermato da quello
nazionale a volte, di immunità personale, ovvero non possono essere sottoposti a processo nemmeno per
fatti privati, quindi non quando agendo come organo dello stato. Questa immunità, personale, è
temporanea. Nel senso che gli atti commessi personalmente vengono protetti solo finché in carica. Tale
immunità non vale contro i tribunali internazionali, come la corte dell’Aia. La difesa per queste tre figure
insomma, la loro impunità per qualsiasi crimine finché in carica, non vale contro le corti internazionali di
giustizia.
Per quel che riguarda i crimini internazionali c’è una diffusa tendenza, da parte di molti stati, a prevedere
per tale insieme una giurisdizione penale universale. Cioè, per i crimini internazionali la giurisdizione si
afferma anche in virtù dell’assenza di una connessione tra l’individuo che ha commesso i crimini (in
funzione nella carica e commessi dopo) e lo stato giudicante. Una prassi che si è venuta a costruire da tipo
tre decadi. Questo per merito soprattutto dei giudici belgi e spagnoli. In Belgio s’era fatta una legge molto
punitiva sul tema. Il caso in questione fu l’arresto di Pinochet, fermato e arrestato dopo aver perso il potere
in Cile. In Belgio era previsto che organi stranieri, anche in contumacia, potessero essere giudicati per
crimini internazionali. Oggi un po’ tutti gli stati possono sottoporre organi stranieri, senza più funzione,
anche senza alcun contatto tra reato e persone, purché tale straniero sia nel territorio dello stato, a
processo per crimini internazionali. Parliamo di crimini internazionali, in ogni caso, crimini gravi.

Agenti e sedi diplomatiche godono di immunità e privilegi. Agenti diplomatici sono organi dello stato inviati
in forma permanente in un altro stato per guidare la missione diplomatica e che ruotano intorno
l’ambasciata. L’instaurazione di relazioni diplomatiche è sempre reciproca. La loro base è,
contemporaneamente, sempre consensuale. Tale consenso avviene anche per le singole persone inviate
nella sede diplomatica. Ogni membro deve avere un gradimento dallo stato territoriale e il gradimento e il
riservo avviene sempre in forma privata. Nel pubblico avviene l’accreditamento del territorio all’organo
diplomatico, tendenzialmente attraverso la lettera di nomina, ricevendo una lettera di accreditamento dal
governo locale di ricambio.
Tali norme di antichissima formazione impongono allo stato territoriale, che ospita l’ambasciata dell’altro
stato, un dovere di inviolabilità, sia verso l’agente che nei confronti della sede dell’ambasciata. Inviolabilità
vuol dire che lo stato territoriale non può mai entrare e intervenire coercitivamente nelle sedi della
missione. La prima immunità, possiamo definirla. Tale inviolabilità si estende alla dimora privata
dell’ambasciatore e si estende all’archivio dell’ambasciata e alla cosiddetta valigia diplomatica, che è una
valigia che porta i seni del corpo diplomatico, ma può essere un qualunque contenitore. Ad esempio, in
Svezia, venne intercettata una valigia diplomatica sovietica che era un tir.
Poiché le sedi sono inviolabili, si usa dire che esista per loro un regime di extra-territorialità. Si può usare
tale espressione perché manifesta in qualche modo la sacralità della sede, ma giuridicamente essa
costituisce errore. L’ambasciata francese a Palazzo Farnese è comunque territorio italiano. Resta inviolabile,
ovviamente, ma non è davvero fuori dal territorio.
Lo stato territoriale ha il dovere di particolare protezione verso la sede diplomatica. Non più generale
protezione dei cittadini stranieri, ma proprio di una protezione particolare, espressa attraverso per esempio
servizi di guardia. Quindi sia diritto generale di protezione dello straniero che particolare protezione verso
la sede diplomatica. Quest’ultima espressa sia come principio di inviolabilità che di protezione.
Tali diritti si estendono a coloro che godono di status diplomatico, diverso dallo status amministrativo nella
sede diplomatica.
Tale complesso di immunità e privilegi degli agenti diplomatici è stabilito da secoli non per dare privilegi a
queste persone di per sé, ma con lo scopo che viene espresso in latino ne impediatur legatio. Ovvero una
proposizione finale negativa, “affinché non sia negata la legazione”. Garanzie perché la missione possa
funzionare correntemente.
Tale trattamento si estende anche al ramo familiare della missione diplomatica. Vi è una convenzione nel
1961 su appunto le immunità e privilegi di tali agenti diplomatici che lo chiarisce. Ratificata da quasi tutti gli
stati e che conferma il diritto consuetudinario (una convenzione di codificazione). I familiari insomma sono
coloro che fan parte del ménage, la convivenza ne è il dato più importante.
L’agente diplomatico quindi ha ampia immunità dalla giurisdizione penale e civile. Nel paese dove opera,
quanto meno. È difeso dal suo essere agente diplomatico. Tale immunità è assoluta per quella penale e ha
eccezioni nel ramo civile. La sottrazione ai giudici dello stato vale in maniera perpetua per gli atti compiuti
in veste ufficiale (qui si torna all’organo dello stato come prima descritto), non per quelli personali. Le cause
contro agenti diplomatici si potrebbero muovere allo stato di appartenenza? Risponderemo in un altro
momento.  Il diritto all’immunità rimane comunque un diritto allo stato straniero, quindi è un diritto che
può essere rinunciato. L’immunità vale comunque nello stato dell’esercizio delle sue funzioni, non in quello
di cittadinanza. 
Ci sono delle misure che lo stato territoriale può prendere contro agenti diplomatici. Ad esempio lo status
di “persona non grata”, ovvero gli viene ridato il passaporto e un lasso di tempo per abbandonare il paese
dal momento della cessazione della funzione diplomatica riconosciuta. Un’altra misura ancora più severa
può essere quella della rottura delle relazioni diplomatiche con un paese. Se non vi è il consenso,
dopotutto, crolla del tutto la base consensuale.
Tali norme appena elencate non valgono comunque per tutti gli ufficiali diplomatici di per sé. Variano per le
diverse funzioni all’interno del lavoro come organo all’estero. Il console, esemplifichiamo, è un agente
amministrativo dell’organo statuale. Manca dell’immunità personale, ha solo quella funzionale.
3/11/2020

Proseguiamo con i limiti alla sovranità degli stati:


L’immunità degli stati stranieri  sovente, l’attività svolta da organi di stati stranieri (tipo ambasciatori)
nell’esercizio delle proprie funzioni è imputata allo stato straniero. Ad esempio, un contratto stipulato
dall’ambasciatore per trasferire l’ambasciata in un certo immobile è un’imputazione giuridica allo stato a
cui l’ambasciatore appartiene. Se il pagamento non avviene, l’ambasciatore gode di immunità, ma lo stato
ospite può quindi fare causa allo stato straniero? La cosa riguarderebbe naturalmente la giurisdizione civile
(solo le persone fisiche possono compiere atti penali, oggigiorno esistono alcune eccezioni ma è ancora
vero in linea generale), e originariamente in questa materia vigeva una regola consuetudinaria di immunità
assoluta, piena, non sarebbe stato possibile processare nemmeno lo stato straniero. Questo derivava da un
principio strutturale per cui uno stato non può essere soggetto alla sovranità di un altro, in quanto tutti
godono di pari sovranità. Il vecchio brocardo latino in questo caso è par in parem non habet giudicium. Un
soggetto non può giudicarne un altro eguale a lui. Questo risultava nella sottrazione, in ogni caso, di uno
stato dal giudizio di un altro – questa norma è stata tuttavia temperata nella sua assolutezza attraverso la
prassi giudiziaria. Furono i giudici italiani a belgi ad iniziare, specialmente a inizio Novecento, a fare una
distinzione: l’immunità assoluta si applica quando lo stato si comporta da soggetto sovrano, ad esempio, se
fa un contratto per sistemare la sede dell’ambasciata sta agendo da soggetto sovrano, ma se agisce alla
stregua di un cittadino privato (ad esempio acquistando quote di una società in un altro stato), non
nell’esercizio dei suoi poteri sovrani e per il perseguimento delle proprie finalità di ente sovrano, allora
l’immunità dalla giurisdizione non si giustifica più. È nata quindi una divisione tra gli atti compiuti dallo stato
come ente sovrano, gli iure imperii, che godono di immunità, e quelli compiuti al di fuori di questa
competenza, gli iure privatorum/gestionis. Si è arrivati quindi all’immunità ristretta/relativa degli stati, non
più assoluta.
Tale distinzione è stata seguita da una serie di convezioni internazionali formulate in questa materia: la
Convenzione di Basilea 1989 e la Convenzione di New York del 2004 sono tra queste. C’è anche un evento
in particolare che spinge i giudici ad essere particolarmente cauti sull’immunità assoluta: la Rivoluzione
d’Ottobre (1917), poiché in seguito ad essa qualsiasi azione convenzionalmente svolta da privati era, per
forza di cose visto il monopolio dello stato sull’economia, in realtà scaturita dallo stato sovietico. In tempi
più recenti, invece, il problema fu posto dai bond argentini  i loro sottoscrittori erano spessissimo privati,
e nemmeno argentini. Da ciò derivò che molti singoli privati si trovarono in causa contro lo stato argentino
per riavere i loro soldi. Nel caso italiano, la nostra Corte di cassazione afferma che l’emissione di
obbligazioni va considerato come un atto privatistico, quindi soggetto ad azioni giuridiche. Di lì a poco, lo
stato argentino di fronte a questa massa di creditori, ricorse a misure di ristrutturazione del debito, quindi
modificando le condizioni del debito, ad es. dell’interesse e di dilazione. Queste azioni di ristrutturazione
erano invece sottratte al giudizio giuridico poiché attuate per far fronte alle emergenze interne di carattere
anche sanitario  un fine quindi relativo alle funzioni sociali e statuali del governo argentino.
La distinzione tra azioni privatistiche e statuali diventa complessa soprattutto quando si parla di rapporti di
lavoro: basti pensare ad un impiegato presso ambasciata straniera, licenziato ingiustamente o al quale non
sono state concesse le ferie (episodi abbastanza frequenti) – come si opera la distinzione tra iure imperii e
iure gestionis? È effettivamente difficile, poiché in un certo senso questi rapporti di lavoro sono sempre
legati ad una finalità pubblicistica (è pur sempre di ambasciate che si parla), ma alcune di queste sono
piuttosto private, ad esempio quando entrano in gioco mansioni legate ad eventi culturali, frequentemente
organizzati dalle ambasciate. Si guarda allora non alle mansioni svolte, ma alle azioni giudiziarie: chi fa
causa allo stato straniero, cosa vuole ottenere? Ad esempio, in caso di licenziamento, si vuole un
annullamento di tale licenziamento? In questo caso permane l’immunità, in quanto il giudice, diciamo
italiano, non può imporre allo stato americano cosa fare a questo riguardo (non si può esigere un facere).
Se invece il lavoratore è ancora incardinato nella funzione dello stato straniero, ed egli chiede ad esempio il
risarcimento di un arretrato, o un’indennità di buonuscita, allora l’immunità è sospesa. Non si tratta infatti
di mansione del lavoratore o organizzazione dello stato straniero, ma di un compenso legittimo che
ristabilisca la giustizia e che non vada ad incidere sulla struttura organizzativa dello stato straniero.
Italia, Grecia  uccisioni in massa di civili da parte delle truppe naziste imputate al successivo stato
tedesco. Quest’ultimo insisteva nel rivendicare la propria immunità, in quanto tali azioni erano sì crimini
efferati, ma svolti nell’esercizio delle funzioni sovrane. La Germania fece quindi causa all’Italia, in seguito
alla condanna subita da un giudice italiano, rivendicando la sua immunità derivata dalla iure imperii: nel 3
febbraio 2012 l’Italia perse la causa presso la Corte Internazionale di Giustizia. La Germania venne ritenuta
responsabile, ma pur sempre immune ed esente dalla possibilità italiana di farle causa (non si parlava infatti
di responsabilità o meno). L’Italia aveva quindi commesso un illecito internazionale quando la Cassazione
emanò la precedente sentenza contro la Germania. [lo iure imperii prevalse sullo ius cogens?]

Un giudice di Firenze sollevò però la questione dell’incostituzionalità, che riguarderebbe questa norma
dell’immunità, ritenuta contraria all’art. 2 della nostra costituzione. Egli sottopose il caso alla Corte
costituzionale, che emanò una sentenza destinata ad entrare nella storia: comunque la pensasse la CIG, se
la norma dell’immunità sottrae gli stati dal giudizio del giudice anche nel caso di crimini internazionali, tale
norma non può entrare nel nostro stato, in quanto infrange i diritti inalienabili della persona (secondo la
nostra costituzione). Cosa resterebbe di un diritto fondamentale della persona se non potesse essere difeso
davanti a un giudice? In conclusione, l’immunità non può operare e la giurisdizione sì, secondo la nostra
Corte suprema, quella costituzionale. In ogni caso, non vi fu alcun seguito alla cosa. La causa non sarebbe
nemmeno potuta essere portata in Germania, davanti ad un giudice tedesco.

Parte di appunti di Iannace:

Quando abbiamo parlato dell’immunità funzionale, abbiamo detto che in presenza di persone che
realizzano criminalmente programmi pubblicistici, agendo come pubblici funzionari, essi sono giudicabili.
Aggiungiamo che non solo vi troviamo la responsabilità personale dell’agente, ma anche quella dello stato
di cui l’individuo era organo e per cui ha compiuto quella violazione. Sono problemi tornati
drammaticamente all’attenzione specialmente durante la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia e in Ruanda, ma
non solo. Se una persona, quale il signor Ferrini, durante la Seconda Guerra Mondiale, come militare
italiano, dopo l’8 settembre viene catturato dai tedeschi e messo in un campo di concentramento, ridotto in
schiavitù, e sopravvive, può far causa contro la Germania davanti i giudici italiani, per ottenere un
risarcimento degli enormi danni patiti? E lo può fare in questo caso perché la Germania, seppur come
successore del Terzo Reich, ha commesso un crimine grave di guerra?
Se ci poniamo nella classica ottica del diritto internazionale, la risposta sarebbe che, pur in presenza di un
crimine di guerra del Terzo Reich, non c’è dubbio che tale atto è stato compiuto nell’esercizio di funzioni
sovrane. Un crimine sì, ma funzioni sovrane (per quanto altamente discutibili), ivi vige l’immunità dalle
giurisdizioni. Non è apparsa tale ai giudici italiani. Come avrebbe comandato la prassi. Ferrini, sopravvissuto
al ’43, fa causa contro il governo tedesco, pretendendo il risarcimento dei danni. La norma del Codice civile
italiano in tal senso è l’articolo 2043, il quale prevede la responsabilità aquiliana o extra-contrattuale sugli
illeciti, la violazione del principio del non far male a nessuno. Non l’inadempienza di per sé di un contratto,
ma un vero illecito.
La Germania si difese sancendo che tali crimini efferati furono esercitati come atti sovrani, ivi coperti
dall’immunità. La Cassazione, con una sentenza celebre dell’11 marzo 2004, n. 5044, stravolse tutto
l’affermato precedentemente. Sì, gli stati stranieri per l’attività pubblicistica godono di immunità da
giurisdizione, ma veniva sancita anche la nascita di una norma consuetudinaria cogente (quindi
particolarmente forte come precetto) che vieta il genocidio, i più gravi crimini di guerra e quelli contro
l’umanità. Dinanzi tale norma cogente, superiore alle normali norme internazionali quali quelle
dell’immunità, in presenza di un conflitto di interessi tra immunità e norma cogente, prevale la seconda.
Vinse quindi Ferrini.
Vicino la giurisprudenza italiana, ci furono sentenze greche su problemi analoghi, sempre incentrate su
problemi legati al secondo conflitto mondiale, dovute a eliminazioni di massa di civili e altri atti violenti
condotti durante la guerra. Dinanzi la giurisprudenza italiana, la Germania, pur riconoscendo che si
trattasse di crimini gravi e che andavano condannati, insistette nell’affermare e nel rivendicare la propria
immunità dalla giurisdizione italiana. A seguito della sentenza Cassazione 2004 la Germania fece causa
all’Italia dinanzi la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, la più fondamentale delle organizzazioni
giudiziarie dell’ONU. Ci fu quindi una causa Germania vs. Italia sul tema dell’immunità. La Corte
Internazionale di Giustizia arriverà a una conclusione il 3 febbraio 2012, con una sentenza molto lunga la
quale diede ragione alla Germania, affermando che anch’essa riconosceva l’efferatezza dei crimini e la
responsabilità tedesca, ma che non era possibile garantire una causa dinanzi giudice italiano dello stato
tedesco. Per la CIG prevaleva insomma l’immunità, sottraendo ai giudizi nazionali gli atti iuri imperi, anche i
crimini più gravi. Altri mezzi son possibili per ottenere riparazioni, ma non muovendo causa a partire da
giudici italiani. 
Cercando il nocciolo del ragionamento della CIG, noi abbiamo due norme, una cogente sulla responsabilità
dello stato per crimini e una sulla immunità. Queste due norme non si incontrano mai. È vero che c’è
responsabilità ma c’è l’immunità dalla giurisdizione allo stesso tempo. In poche parole, la Cassazione (ivi
l’Italia) aveva compiuto un illecito.
L’Italia eseguirà la sentenza internazionale, con una legge dedicata alla riapertura dei processi tesi alla
condanna della Germania. Un giudice fiorentino farà insorgere un problema di incostituzionalità. Essa
riguarderebbe la norma sull’immunità che entra in contrasto con i diritti fondamentali (articolo 2) e sulla
tutela dei diritti giudiziari (articolo 24). La Corte costituzionale emanerà una sentenza, storica, 21 ottobre
2014, n. 2038. Una sentenza ampia che afferma, in sostanza, che comunque la pensi la CIG (pur nel rispetto
della sua giurisdizione), le fonti giuridiche esterne son ben accette nella giurisprudenza italiana, ma solo se
non pregiudicano l’identità costituzionale nazionale. La Corte quindi sancì che c’erano dei diritti
fondamentali violati da crimini internazionali sotto norme cogenti e che l’incapacità di rispondere a quei
crimini era un grave danno.
Si apre in tal senso una frattura tra la Corte costituzionale e CIG, seppur non v’è stato alcun seguito. Sul
piano dell’immunità la Corte costituzionale mise inoltre in luce che esisteva l’impossibilità di muovere
quella medesima causa in Germania. Ci fosse stata tale possibilità, si sarebbe trovato un middle ground.
Tale impossibilità fu messa in luce dalla Corte costituzionale, sancendo che da nessuna altra parte si
sarebbe potuta chiedere giustizia. Le sentenze di condanna alla Germania fioccarono in Italia appena dopo
quella della Corte costituzionale. La Germania non reagì, pur potendo ricorrere al Consiglio di Sicurezza
dell’ONU (art 94 comma 2). La posizione italiana, pur isolata, sancì in qualche modo un precedente.
L’auspicio della Corte costituzionale, pur fondandosi sui principi costituzionali e quindi non
sull’interpretazione di norme internazionali, è stata come quella dei giudici italiani e belgi che misero in
moto una revisione delle norme sull’immunità dalla giurisdizione per restringere tale immunità ed
escludere gli atti iure privatorum. Si auspicava un simile atteggiamento per escludere dall’immunità quei
casi in cui lo stato deve rispondere a crimini internazionali e le vittime non possono ottenere
compensazione in nessun altro ambito.

Abbiamo visto immunità che vedono l’esenzione dello stato straniero da una giurisdizione. Però esistono
non solo processi di cognizione, ma anche processi esecutivi, che si attivano qualora una persona non
risponda a una causa persa. Nel nostro caso, verso stati inadempienti che non eseguono una sentenza in
maniera spontanea, e quindi i loro beni vengono aggrediti. Riguardo le azioni esecutive, quali il sequestro
giudiziario di beni da vendere all’asta per ottenere risarcimento, o anche azioni di tipo cautelare, esiste una
differenza sull’immunità sull’esecuzione.
Non si può procedere in via esecutiva, con la forza, di beni stranieri (in territorio proprio) se non in alcune
condizioni particolari. Ovvero per quella sovranità sempre della distinzione tra attività pubblicistica e
privatistica. Si può agire su un bene straniero se questo è detenuto per una finalità privatistica.
Ci può essere giurisdizione quindi su stato straniero per iure privatorum o per violazioni gravi del diritto. I
beni aggredibili sono però quelli detenuti per ragioni privatistiche.
Si possono aggredire i soldi stranieri? Si potrebbe dire sia di sì che di no, in quanto i soldi di per sé non
hanno una destinazione se non immobili. Alcuni giudici però affermano che, se i depositi bancari non han
specifica privatistica, sono in partenza pubblicistici, ivi non aggredibili. Rimaniamo con un punto
interrogativo perché non c’è di per sé concordia.

C’è una tematica ulteriore che va affrontata, ovvero il tema che si usa chiamare “le vicende di uno stato”.
Esse sono le modifiche che riguardano o il territorio o la forma di governo di uno stato. Normalmente, nei
manuali, tale tematica viene trattata sotto il profilo della successione degli stati ai trattati. Ci si chiede cosa
accade circa la partecipazione ai trattati stipulati da uno stato quando questo stato subisce una modifica
territoriale, o un mutamento fondamentale nella forma governativa. Ne rimane parte? Si estingue il
trattato? Si vedrà, ma ora affrontiamo le “vicende di uno stato”. Esso si unisce al tema della continuazione o
estinzione di uno stato. Sicuro tale problema si lega agli accordi internazionali. Il problema però di base è
l’identità dello stato. Lo stato che subisce tali mutamenti fondamentali rimane lo stesso di prima, o cambia?
Ciò riguarda tanto i trattati quanto la partecipazione alle organizzazioni internazionali, l’assunzione dei
debiti, ma anche gli illeciti. Uno stato nuovo è responsabile di quel che è stato compiuto dagli stati vecchi?
Il problema dell’identità è quindi fondamentale. Ricordiamo una sentenza del 2007 della CIG, Bosnia
Erzegovina vs Serbia Montenegro, dove si sollevava un’accusa di genocidio contro la Serbia. Nel 2006, unico
caso in cui si è risolto pacificamente un problema tra nazioni jugoslave, il Montenegro dichiarò la
separazione dalla Serbia. La CIG anzitutto quindi escluse dal processo il Montenegro stesso, che era uno
stato nuovo non legabile ai crimini passati e alla loro eventuale fattualità.
Facciamo riferimento a dei fenomeni di cambiamento: annessione o incorporazione, spesso considerati
diversi ma nella prassi uguali. È il fenomeno per cui uno stato amplia la propria territorialità verso un
territorio di un altro stato o un territorio nullius, di nessuno (impraticabile ad oggi) e segue delle precise
regole. Il diritto internazionale consuetudinario ne traccia alcune. Prima condizione, lo stato deve avere la
volontà di annettere. Seconda condizione, occorre l’effettività dell’autorità di governo, cioè che chi annette
riesca di fatto a insediare i propri poteri nel territorio annesso.

5/11/2020

Quando abbiamo parlato dell’immunità della giurisdizione, non solo di stati ma degli organi degli stati
stranieri, nel caso di cause civili (licenziamenti, inadempimenti contrattuali) abbiamo visto che l’immunità
significa che non si può essere convenuti in giudizio, è proprio impossibile fare causa allo stato straniero o
ai suoi organi. Viceversa, lo stato straniero, il console, il ministro, può fare causa contro un comune
cittadino (!). Questa disparità rende ancora più sensibili nel tentativo di mitigare l’immunità.

Quando si parla di annessione/incorporazione, invece, è necessaria la volontà e l’effettività dell’annessione


– come abbiamo già visto. Nel caso dell’Isola di Palmas, contesa tra Stati uniti e Olanda, il giudice scrisse
che i titoli di acquisto della sovranità internazionale nel moderno diritto internazionale sono basati su un
effettivo atto di conquista: lo stato cedente e quello cessionario devono effettivamente disporre del
territorio. L’occupazione, per costituire effettivo titolo dell’annessione, deve garantire anche servizi
(sicurezza e stabilità in primis) per i cittadini del territorio in questione.

La sovranità sull’ex Sahara spagnolo: nel 1884 il territorio era stato colonizzato dagli spagnoli, che poi
l’avevano lasciato nel 1974. In seguito a ciò il Marocco ha cercato di stabilirvi la propria sovranità (prima del
1884 c’era una relazione tra i cittadini del deserto e i capi religiosi marocchini). La Corte Internazionale
dette la propria opinione in proposito, dicendo che ai fini della sovranità ripresa da parte del Marocco
sull’ex Sahara spagnolo i legami religiosi non avevano alcun valore. Il Marocco non ha tutt’ora titolo di
sovranità sul Sahara.
Rimanendo sull’annessione, in particolare quella parziale, uno stato che cede una parte del proprio
territorio subisce una modifica territoriale, ma non sulla propria soggettività, la sua personalità giuridica e
sovranità sussistono – viene solo ridotta la sua ampiezza territoriale.  esempio dell’Alaska, che
originariamente apparteneva alla Russia, che poi la vendette agli Stati Uniti. Oggigiorno una cosa del genere
sarebbe impossibile, infatti l’idea di acquistare la Groenlandia alla Danimarca, proposta da Donald Trump,
fu assurda.

I trattati di pace con i quali uno stato cede parte del proprio territorio ad un altro, non determinano
istantaneamente un passaggio di proprietà! Vengono determinati solo degli obblighi e diritti, fin dal primo
momento: ovvero c’è l’obbligo di ritirarsi, da parte dello stato cedente, di lasciare il territorio libero e
ritirare le proprio istituzioni. Ma il passaggio di proprietà si determina solo quando tale ritiro e
l’insediamento da parte dell’altro paese (nuovo proprietario) sono avvenuti. In caso contrario, ovvero se il
paese cedente non si ritira subito, si sta compiendo un illecito.

Per quanto riguarda l’annessione totale, invece, il fenomeno incide chiaramente sulla stessa soggettività
degli stati (di quelli annessi, chiaramente). Il paese totalmente annesso si estingue come soggetto di diritto
internazionale: guardando la prassi, l’ipotesi più comune di annessione totale è la debellatio, ovvero la
sconfitta nella guerra. Quando un paese vince in guerra debella il perdente e si appropria del territorio. Gli
esempi sono tantissimi, come quello dell’Italia e dell’Etiopia nel ’36, dell’Anschluss nel ’38, dell’annessione
delle repubbliche baltiche da parte dell’URSS. Un altro esempio è quello del Belgio appropriatosi del Congo:
Leopoldo, simultaneamente re del Belgio e Capo di Stato del Congo, decise di “regalare” il secondo al suo
stesso paese, firmando un contratto con sé stesso. Per quanto sia un caso bizzarro, c’è stato recentemente
un episodio dove un paese ha deciso di cessare di esistere per essere incorporato ad un altro: la
Wiedervereinigung della DDR con la FDR.

Questo tipo di procedure sono oggi però mitigate da un principio internazionale: se un tempo la debellatio
era un fenomeno consueto, a partire dalla Dichiarazione Stimson (1932), concernente la Manciuria, si è
stabilito un principio internazionale per cui gli acquisti territoriali operati in conflitto con le norme
inderogabili, imperative, ius cogens, non sono riconoscibili. Non producono quindi acquisti di sovranità,
sono solo de facto (e non de iure). L’annessione non è fatta quindi solamente di atti volontari ed effettivi da
parte degli stati, perché il disconoscimento giuridico viene imposto da una regola internazionale, non è né
una facoltà degli stati né una scelta politica, ma rientra in una cornice di progetti promossi dall’ONU che
costituiscono regole consuetudinarie. Gli stati sono tenuti a respingere quelle situazioni nate da condotte in
contrasto con lo ius cogens (come il divieto di aggressione!). La prassi è ricca, fin dagli anni 60/70, quando il
Sudafrica cercò di annettere la Namibia, di casi in cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’AG e la CIG vedono
come nulla questo tipo di sovranità acquisita. L’illecito, in questi casi, sta proprio nella violazione del
principio cogente dell’autodeterminazione dei popoli.

Tornando al caso del Marocco e del Sahara, si ha l’opinione della Corte del 1975, che sottolinea il diritto
all’autodeterminazione del popolo Saharawi a formare uno stato indipendente – che ha anche implicato
che gli accordi tra UE e Marocco a livello commerciale, non possano applicarsi anche ai prodotti provenienti
dai territorio Saharawi, ma solo a quelli originari del Marocco.

La prassi in tal senso è molto ampia e non è fatta solo di scelte volontarie di enti come l’UE, l’ONU e così via.
Oggi il disconoscimento, il rifiuto giuridico di acquisti territoriali contrari allo ius cogens è imposto, quindi
non tanto scelta politica, ma piuttosto un obbligo. Perché? Perché ci sono progetti di convenzioni promossi
dall’ONU riguardanti le responsabilità di stati in atti illeciti che in larga parte esprimono, traducono in scritto
le regole consuetudinarie. Tra questi progetti ne abbiamo uno, del 2001, in cui si afferma che sia stati che
organizzazioni internazionali son tenuti a non riconoscere le situazioni nate in violazione di norme di ius
cogens. Il disconoscimento, il rifiuto di dare valore giuridico ad acquisti territoriali contrari è quindi imposto
dal diritto consuetudinario. È una conseguenza dell’illecito.
L’autodeterminazione dei popoli, ad esempio, facente parte di questo ius cogens, è stato spesso usato
proprio per difendere altri stati da occupazioni altrui, come nel caso della Namibia occupato dal Sud Africa,
disconosciuto da ONU, Consiglio di Sicurezza e pure CIG.
Nel caso sahrawi, ad esempio, viene sancito proprio come vi sia un loro diritto a esistere come stato, non
ancora realizzato. Per capire che non parliamo però di teoria, c’è un giudizio della Corte di Giustizia Europea
che sancisce che l’UE non può fare degli scambi con il Marocco per beni e merci che partano proprio
dall’area dell’ex-Sahara spagnolo perché quella sovranità non è stata riconosciuta. Si possono fare accordi
applicati solo al territorio originale del Marocco. Sempre in tal problema marocchino, per esempio,
parliamo di una ragione statuaria, quella del sultano, che ha che fare con un tipo di potere diverso. La
sovranità giuridica però deve essere un effetto di governo.
Un esempio di annessione tramite forza c’è stato nel caso del Vietnam del Sud a vantaggio di quello del
Nord. Il Vietnam si “riunifica”, un termine ipocrita per descrivere l’annessione. La vicenda del Vietnam è
politicamente estremamente sensibile. Per una intera generazione è stato simbolo dell’imperialismo
americano, con la contrapposizione tra posizioni pacifiste e quelle militariste anticomuniste. Al di là delle
cause morali o etiche, di per sé è un’occupazione di fatto e l’eliminazione di un nemico.
Il disconoscimento di tali occupazioni ad oggi è garantito da regole giuridiche, ma per determinare
realmente l’impossibilità della presa di sovranità bisognerebbe andare oltre l’atto politico, le parole, ma si
dovrebbe esprimere in fatti concreti il rifiuto e il rigetto delle manifestazioni di quella sovranità intesa come
illegittima.

C’è un fenomeno simile all’incorporazione, storicamente, ma giuridicamente molto diverso.


Nell’incorporazione totale, come la riunificazione tedesca, c’è uno stato che si estingue e uno che estingue
l’altro. Un fenomeno giuridicamente diverso però è quello della fusione o unificazione. Qual è la differenza?
Dal punto di vista materiale, l’effetto è lo stesso. Ci sono due stati di partenza (di prassi) i cui territori si
uniscono. Nel caso della fusione tutti e due gli stati, giuridicamente, si estinguono per dar vita a un nuovo
soggetto di diritto internazionale, il quale dovrà fare domanda di ammissione all’ONU, a esempio; può
rifiutare accordi firmati dai paesi iniziali. Certo si distingue difficilmente dall’incorporazione, ma nella
fusione abbiamo la novità, lo stato nuovo. L’elemento di novità è dato dalla novità nelle strutture e
nell’apparato di governo, nell’autorità del nuovo stato.
Se esse permangono da parte di uno stato, e si estendono sull’altro, allora c’è continuità e incorporazione.
Se invece vengono fuori nuovi organi, quali una nuova organizzazione e costituzione, allora possiamo
guardare ad una fusione. Casi di fusione sono quelli della Tanzania, nel ’64, frutto della fusione di Zanzibar e
Tanganica.
Questo nuovo stato quindi non ha doveri preesistenti, né accordi preesistenti da rispettare.

Nella fusione e nell’annessione abbiamo visto due territori che si uniscono, poi abbiamo il fenomeno
contrario: quello della secessione o distacco. C’è uno stato che perde un pezzo del suo territorio. Territorio
che può andare ad essere annesso ad altri stati o, ancora meglio, che dà vita a una nuova realtà statuale.
Nel fenomeno della secessione o distacco, quindi, un pezzo prende una nuova autorità e quello vecchio
persiste nel suo stato giuridico. Il diritto internazionale prende atto di questo fenomeno. Non bisogna però
credere che il diritto contempli una specie di “diritto alla secessione”, il diritto di un territorio di staccarsi
dal suo stato originale. Di regola, esso non esiste. Anzi, la regola che i terzi stati devono rispettare è quella
di rispetto proprio verso l’integrità degli stati. Non esiste un diritto di secessione della Catalogna, non ha
diritto di lasciare la Spagna. Abbiamo esempi anche in Italia, sia chiaro, con la vecchia espressione leghista
della secessione. Quello che fa il diritto internazionale quindi è valuta ex-post, dopo che il fenomeno è
avvenuto. Non dona tale diritto, ma prende nota. La secessione avviene sempre con rispetto di quella citata
effettività, ovvero il fatto che nel territorio staccatosi vi sia insediata stabilmente una nuova autorità di
governo. Le secessioni quindi avvengono, pacificamente (come nel caso islandese e montenegrino),
violento (Confederazione da Unione) ma anche quel fenomeno di decolonizzazione che giuridicamente si
colloca qui, nella secessione.

C’è un altro fenomeno simile alla secessione ma giuridicamente diverso, ed è lo smembramento o la


dissoluzione. Avviene quando uno stato si divide in più entità territoriali nuove, due o più, in cui nessuna
rappresenta la continuazione del primo stato. L’Algeria dalla Francia è chiaramente una secessione, ma se
vedessimo il caso dell’URSS, leggeremmo la Russia che segue di fatto l’URSS, rendendo tutti gli altri stati
secessionisti? 
Per distinguere smembramento da secessione quindi, ciò che viene in rilievo è l’organizzazione di governo.
Cioè, se in uno stato resta lo stato assetto di governo (costituzionale, organi supremi e così via), c’è
secessione. Se alla disgregazione materiale del territorio c’è quella del governo, della costituzione che non
van a ritrovarsi in nessun alto stato, allora è smembramento con estinzione del territorio originario.
Un caso pacifico è stato quello della Cecoslovacchia che nel 1993, circa, si divide in Repubblica Ceca e
Slovacchia. Nessuno dei due è la Cecoslovacchia, la sua continuazione, si identifica con essa. Entrambi,
infatti, chiedono l’ammissione all’ONU subito dopo.
Le due vicende che creano maggiori dubbi circa la loro qualificazione sono ad esempio la caduta dell’Impero
Ottomano o la divisione della Germania in due.
Vediamo due casi più recenti. Nel 1991 si scioglie l’Unione Sovietica insieme al suo partito comunista, che
era il partito-stato dell’ente URSS. Era non casuale che infatti i presidenti dell’URSS siano sconosciuti
rispetto ai leader del PCUS. Nel ’91 si estingue l’Unione Sovietica, più o meno pacificamente attraverso
accordi intra-statuali. In un pezzo nasce la Federazione Russa e una serie di staterelli più o meno grandi,
come la Georgia o il Kazakhistan e così via. C’è stata quindi una secessione dall’URSS ora Russia, che quindi
continua l’Unione, o sono tutti nuovi, inclusa la Russia? In senso strettamente giuridico, sono tutti stati
nuovi e guardiamo a uno smembramento. Perché? Perché l’autorità originaria, sovietica comunista, si
dissolve e scompare in ogni paese ivi compresa la Russia, dove il nuovo presidente Yeltsin in maniera
polemica e puntigliosa rivendica la propria diversità dal comunismo. La struttura governativa sovietica cade
con la caduta del comunismo. Se tale analisi è giusta, vi è un disequilibrio di potenza chiaro tra Russia e
Armenia, ma certamente si parla comunque di dissoluzione. Eppure, smembrata l’URSS, la Russia quindi
sarebbe dovuta uscire dall’ONU, dal Consiglio di Sicurezza? Eppure in quel momento a tutti serviva la sedia
vuota o meno al Consiglio? Lo si può mettere in discussione? Si arriva a una soluzione diversa. L’ONU, in
tutti i suoi organi, prende atto semplicemente che il membro originario del Consiglio Permanente URSS è
morto e sorge la Russia. Se leggessimo lo statuto della Carta dell’ONU, mai modificata, si direbbe
chiaramente nell’Articolo 23 che lo stato è l’Unione Sovietica, non la Russia. Una soluzione politica
giuridicamente scorretta. Tale scorrettezza emerge con forza se pensiamo alla oramai ex-Jugoslavia.
Nei primi anni ’90 avviene il crollo della repubblica socialista, con le proclamate indipendenza di Croazia,
Slovenia, poi di Bosnia-Erzegovina con il caso più pacifico della Macedonia (oggi Macedonia del Nord). La
Serbia, nella dissoluzione della Jugoslavia, ne è erede o altro paese? Smembramento o secessione? I
cambiamenti di quella Federazione che era la Jugoslavia, e quindi la presenza di tante altre nazioni, sancisce
che nessuno stato sia erede. Legalmente sembra giusto. Caduto l’assetto federale cade il tipo di autorità di
governo e costituzione. Si nota però un double standard, i due pesi e le due misure espressione per la
Jugoslavia e l’URSS, nello stesso periodo di tempo, entrambi casi per Villani di smembramento, vengono
trattate dall’ONU e la comunità internazionale con due mezzi diversi. La politica internazionale è molto
cinica.
Sul piano giuridico va chiarito che non è la Russia che sta usurpando un posto, in qualche modo. Illegittima
a parere di tanti pareri è stata la cessione di un posto prima occupato dall’URSS alla Russia. Se ciò è
avvenuto nell’ottica della inosservanza delle regole giuridiche, ciò è stato anche accettato da ogni singolo
paese membro dell’ONU e da ogni singolo organo dell’ONU. Nessuno ha mai parlato di opposizione, vi è
stata acquiescenza totale. Tale acquiescenza, a meno di toccare norme di ius cogens¸ è una prassi diffusa
nel diritto non solo internazionale. Un contratto annullabile, se colui che aveva titolo a chiedere
l’annullamento non lo fa, viene a sanarsi. L’acquiescenza, accettazione, sana i vizi del caso. Tale doppiezza
dell’ONU non depone a suo favore, ma giuridicamente si può dire che tutto venga sanato dall’acquiescenza.

10/11/2020
Consideriamo l’ultimo profilo relativo ai mutamenti dello Stato: abbiamo visto come i fenomeni di
secessione, smembramento, annessione e fusione funzionano. Quest’ultimo fenomeno riguarda invece
l’aspetto istituzionale, il mutamento rivoluzionario di governo. La denominazione non è ufficiale o
obbligatoria, si parla anche di mutamento totale di governo, ma quello rivoluzionario mette in luce il fatto
che l’assetto costituzionale muta in violazione di quello vecchio. In questo senso esso è rivoluzionario. Da
un punto di vista storico-politico questo mutamento comprende due ipotesi diverse, quasi antitetiche:
quella rivoluzionaria in senso francese o bolscevico, ma anche quella quasi opposta del colpo di stato, come
quella dei colonnelli in Grecia o di Pinochet in Cile. Questi due fenomeni così diversi sono però accomunati
giuridicamente dal loro carattere rivoluzionato – il vecchio assetto costituzionale è infatti violentemente
scalzato. Che succede allo stato che abbia subito un tale mutamento (che non riguarda più il territorio)?

Ci sono due teorie: 1) lo stato sarebbe estinto. Questa è la tesi seguita ad esempio da Conforti, ed è
coerente con l’identificazione tra stato e governo di certe accezioni – se muore il governo, si estingue lo
stato. A ciò consegue poi il fenomeno successorio, con l’istituzione di un nuovo stato. 2) lo stato rimane lo
stesso, c’è una piena continuità tra quello precedente e quello successivo al fenomeno rivoluzionario
(mutata forma regiminis non mutator ipsa civitas), in quanto lo stato si identificherebbe essenzialmente
nella sua comunità, che è rimasta la stessa. Lo stato mantiene quindi anche tutti i diritti e obblighi di quello
precedente, il che non esimerebbe però dalla scelta di trattarlo come tale o meno: guardando la prassi,
tuttavia, si vede come esso venga solitamente trattato come la continuità di quello precedente e se accade
il contrario, ciò va contro la prassi (esempio dell’URSS: non riconoscendosi come continuità dell’impero
zarista, non ne voleva pagare i debiti, il che non venne accettato dalla comunità internazionale). Anche
guardando la prassi delle organizzazioni internazionali, si vede che nel caso dell’ONU dopo una rivoluzione
un paese non viene disconosciuto come membro, ma mantiene semplicemente il suo posto (spesso anche
con le persone fisiche di prima – ma non sempre ovviamente). Stesso vale per OMS e OML. È chiaro però
che, come sempre, è necessario che venga soddisfatto il requisito dell’effettività: solo una volta che il nuovo
governo è insediato e l’incertezza politica è superata, si possono presentare nuove figure rappresentative
presso le OI e venire riconosciute come tali. In caso contrario il riconoscimento sarebbe illecito e
rappresenterebbe un’ingerenza negli affari interni dello stato in questione ( esempio del consiglio
rivoluzionario libico contro Gheddafi, non riconosciuto come insurrezionario ma legittimo governo della
Libia da molti membri dell’ONU, in maniera del tutto ingiustificabile; o del Venezuela, quando Guaidò venne
riconosciuto come nuovo capo dello stato al posto di Maduro – anche dal parlamento europeo – senza
motivo). Il fatto che ci siano tali organizzazioni snellisce il processo di riconoscimento generale, ma ciò non
era lo stesso ai tempi, ad esempio, della rivoluzione di Ottobre e della fondazione dell’URSS.

Quali sono gli altri soggetti di diritto internazionale, oltre lo stato?

- Intanto i governi in esilio (come quello del Kuwait in Arabia Saudita, o dell’imperatore etiope che
lasciò il suo paese in seguito all’occupazione italiana, o quello polacco a Londra durante la WWII).
Ciò è curioso poiché la soggettività è goduta dagli stati, non dai governi… Quindi è meglio dire che
essi hanno delle relazioni politiche con gli altri stati, ma senza godere di personalità giuridica per il
diritto internazionale. Il vero quesito da risolvere, relativo allo stato che invece è soggetto, è quale
sia di più governi quello che lo rappresenta effettivamente  nel caso del Kuwait invaso dall’Iraq, il
suo emiro rimaneva comunque il governo legittimo e quindi il vero rappresentante dell’ente
giuridico Kuwait.
- Gli stati di uno stato federale o gli enti territoriali di questo tipo, Laender, cantoni, regioni come
quelle italiano non lo sono, in quanto sono soggette all’ordinamento nazionale dello stato a cui
appartengono. Le loro azioni vengono quindi imputate allo stato d’appartenenza.
- La Santa Sede ha identità giuridica internazionale – non ci si riferisce al microstato della Città del
vaticano, ma all’autorità suprema di governo della Chiesa cattolica con il pontefice al suo vertice,
che ha un suo ordinamento giuridico (il diritto canonico) e una sua società, la societas fidelium, i
fedeli che riconoscono tale autorità .. Quest’entità va ben oltre la Città del Vaticano (che cessò di
esistere come Stato Pontificio tra il 1870 e il 1929, periodo durante il quale la Santa Sede era priva
di base territoriale).
- Le Organizzazioni Internazionali, cosa sono? Enti con una loro struttura, apparati e organi creati da
più stati mediante dei trattati internazionali, dove sono stabiliti non solo reciproci obblighi e diritti
ma dove si istituisce un’organizzazione mirata al perseguimento dei fini comuni agli stati firmatari.
Esse sono numerosissime e non esistono regole generali sulla loro composizione, anche se
generalmente c’è un organo di base (Conferenza o Assemblea), uno più ristretto con funzioni
operative (Consiglio o Comitato) e poi un Segretariato, praticamente immancabile, che non è
formato da rappresentanti di governi ma individui, persone fisiche che agiscono nell’esclusivo
interesse dell’organizzazione e non del loro paese di provenienza. Perché esse siano riconosciute
come soggetto giuridico internazionale, però, sarebbe necessario che le OI godano di un certo
grado di autonomia dai governi dei loro stati membri: ciò non dovrebbe valere quindi per quegli
enti dove tutte le decisioni sono prese all’unanimità, come ad esempio la NATO. La CIG, tuttavia, ha
una nozione estremamente larga della soggettività e quindi riconosce anche la NATO come
soggetto giuridico. Le OI si vedono riconosciuto anche un certo diritto alla protezione diplomatica,
sia preventivo che di carattere successivo  caso Bernadotte, funzionario dell’ONU: venne inviato
nel ’48, dopo la prima guerra israelo-palestinese, a svolgere operazioni di pace, ma rimase ucciso
nello svolgere il suo lavoro, venendo scambiato per un estremista. La CIG affermò che all’ONU,
avendo soggettività internazionale, spettava il diritto di protezione diplomatica ma per quando
riguardava la funzione di Bernadotte, non la persona (d’altro canto era funzionario dell’ONU, non
cittadino). L’ONU richiese quindi un risarcimento per la perdita del funzionario, mentre la Svezia
(patria di Bernadotte) ricevette un risarcimento per la perdita del cittadino.
E per quanto riguarda l’immunità dalla giurisdizione degli stati? Essa è riconosciuta da tempo anche
alle OI, ad esempio l’ONU ne gode negli Stati Uniti e in Svizzera, dove ha le sue sedi. L’immunità,
anche se non prevista esplicitamente da un accordo, è garantita dalla consuetudine internazionale.
Le organizzazioni concludono anche accordi con stati, con altre OI, e sono anche in grado di entrare
a far parte di altre OI: l’UE, ad esempio, è parte della FAO e dell’OMC. Possono anche prendere
parte alla risoluzione di controversie – praticamente, godono degli stessi diritti internazionali degli
stati. Possono esercitarli però una volta che, dopo la fondazione, sono effettivamente entrate in
funzione. La loro soggettività comunque è ridotta, rispetto ad uno stato: non sono destinatarie di
tutte quelle norme consuetudinarie non compatibili con la sua natura (relative ai cittadini, al mare,
allo spazio atmosferico, il territorio… tutte le norme derivanti dal possesso di un popolo e un
territorio). L’ampiezza della soggettività di un’OI è commisurata, poi, alla sua competenza: essa non
può stringere un accordo o concludere un atto se esso è relativo ad ambiti che non le sono stati
demandati dagli stati membri  ad esempio, alla CIG venne chiesta un’opinione sulle armi nucleari
sia da parte dell’ONU che dall’OMS: per quanto riguarda la seconda, la CIG non riferì il proprio
parere, non riconoscendo le armi nucleari come pertinenti alla competenza dell’OMS (la salute!).

12/11/2020

Sono considerati da sempre e tuttora limitati soggetti del diritto internazionale, come del resto le OI e la
Santa Sede, gli insorti o i movimenti insurrezionali: organizzazioni che si vengono a creare quando una
guerra civile ha luogo in uno stato, e che possono finire per prendere controllo di una porzione del
territorio (importante l’accezione territoriale). Se invece non riescono ad ottenere il controllo di una parte
del territorio, dal punto di vista giuridico non si parla di insorti con personalità giuridica… è quindi premessa
necessaria essenziale la territorialità, la formazione di un governo locale e/o provvisorio.

Le norme che quindi si applicano a quei movimenti insurrezionali che godono anche di territorialità
comprendono la tutela degli stranieri e dei loro beni, come dovrebbe fare un “vero” Stato. Sono destinatari,
comunque, oltre che a questo esempio, di tutte le principali norme che riguardano il diritto umanitario
(specialmente considerati i conflitti armati che solitamente li vedono partecipi). L’art. 3 delle Convenzioni di
Ginevra vide un ampliamento con due protocolli del 1967, dei quali uno si applicava proprio alle guerre
civili/interne, riguardo ai rapporti tra insorti e governo legittimo, e in particolare concernente le tregue e gli
accordi di pace.

Per loro natura gli insorti sono soggetti transitori, che non durano in eterno e che devono per forza evolvere
in un senso o nell’altro: la conclusione può essere che i rivoltosi perdono la guerra e il governo legittimo
ripristina il proprio controllo sul territorio; oppure gli insorti sconfiggono il governo legittimo ed insediano la
propria autorità sull’intero territorio  quindi si ha un mutamento rivoluzionario di governo. A quel punto
non si hanno più insorti, ma semplicemente un nuovo governo. Una terza possibilità è che la guerra civile si
concluda con una definitiva instaurazione di potere degli insorti su quella porzione di territorio che
controllavano  secessione o distacco. Queste sono le uniche tre possibilità conclusive nella vicenda di una
guerra civile.

Affinità con gli insorti le presenta un altro soggetto del diritto internazionale (sempre limitato, ovviamente):
il movimento di liberazione internazionale. Anche quest’ultimo è un’organizzazione strutturata di un
popolo che lotta per realizzare la propria autodeterminazione, tendenzialmente per raggiungere
l’indipendenza, contro le autorità statali. In questo caso non è però necessaria una base territoriale, può
esserci ma senza essere essenziale. Il secondo carattere distintivo di questi movimenti è quello di
perseguire l’obiettivo dell’autodeterminazione. Questi soggetti, quindi, cercano sempre di instaurare un
governo indipendente, e non di sostituirsi a quello precedente come nel caso degli insorti. Questo diritto di
autodeterminazione trova un qualche riconoscimento nella Carta dell’ONU, dove ci sono almeno due
norme che si riferiscono ad esso: nell’art.1, tra i fini dell’ONU, si ha il “fondare relazioni amichevoli basate
sul principio di autodeterminazione dei popoli”; nell’art.55 si apre invece la materia della cooperazione
internazionale in campo economico e sociale, e tra i modi per assicurarla viene di nuovo menzionato il
“rispetto per il principio dell’autodeterminazione dei popoli”. Non viene però specificato a cosa corrisponda
questo principio… Come si è evoluta, nei primi anni di vita dell’ONU e non solo, la concezione di questo
principio? Gradualmente esso ha acquistato un contenuto più concreto e imperativo: tutto è partito da una
dichiarazione della AG dell’ONU del 1960, che lo tradusse in un diritto all’indipendenza per i popoli soggetti
a colonialismo! Divenne quindi un concetto molto più definito e concreto. Questo permise anche di
riconoscere il governo sudafricano come para-colonialista, visto che la sua politica di apartheid lo rendeva
estraneo alla base sociale che pretendeva di governare. Ci sono però anche situazioni più sfumate, dove
non è chiaro se sia legittimo applicare il principio di autodeterminazione o meno… Un’altra dichiarazione
del 1970 riguardava i popoli sotto dominazione straniera (ma non coloniale!), con particolare riferimento
alla Palestina, ma questo rischiava di andare ad abbracciare una moltitudine di analoghe ma ben diverse
situazioni (Curdi, Baschi, Scozzesi eccetera). Dove è necessario tracciare una linea? Va distinto il principio di
autodeterminazione con il diritto alla secessione. Tuttavia per il diritto internazionale non esiste un diritto
alla secessione, dei diritti si vengono a istituire solo una volta che la secessione è avvenuta, e fino alla quale
si parla piuttosto di affari interni… Il diritto alla secessione è contemplato solo nell’ambito
dell’autodeterminazione, quindi se vi è un colonialismo e un popolo oppresso, quando il secondo si slega
dal primo si può eventualmente parlare di diritto alla secessione. In conclusione, il diritto internazionale
non specifica fino a dove si estenda il diritto all’autodeterminazione, ma si può dire che esso si applica nel
caso di popoli diversi e ai contesti nei quali uno opprime l’altro (colonialismo, apartheid, Palestina vs.
Israele), ma non per le ambizioni secessioniste dei movimenti indipendentisti come quello che era la Lega
Nord, in casi come quelli si può parlare semmai di diritti come quelli linguistici, di cui i germanofoni godono
ad esempio in Sud Tirol. Se un’etnia non ha e non ha mai avuto uno stato proprio, come i Curdi, è una
minoranza in qualunque stato si trovi, e come tale dovrebbe godere dei diritti di tutela riservati alle
minoranze.

Appunti recuperati:

Eccetto quindi in caso di dovuti accertamenti, salvo questo, quali sono poi e in cosa consistono i diritti e
obblighi dell’MLN? Essi hanno sicuramente il diritto di operare con tutti i mezzi leciti per perseguire la
propria missione, ma sono destinatari delle norme di diritto internazionale umanitario, tra cui l’obbligo di
non uccidere indiscriminatamente. 
C’è sempre una lotta tra una potenza e un movimento di liberazione. L’espressione spesso usata per i MLN
è quella di Freedom fighters. Per realizzare l’auto-determinazione, i MLN hanno diritto a fare accordi. La
prassi ci mostra molti accordi del genere. Il Sahara Spagnolo, di cui abbiamo parlato, è animato da un MLN,
il Polisario. Quando la Spagna lasciò tale pezzo di territorio, non solo il Marocco ma anche la Mauritania
avanzarono delle pretese. Nel 1979 ci fu un accordo tra Mauritania e Polisario, in virtù del quale i primi
rinunciarono ad avanzare pretese. Di per sé, ciò costituì un riconoscimento del MLN.
C’è poi la questione israelo-palestinese e tutte le sue declinazioni. Ricordiamo il processo di pace di Oslo,
che si è oggi interrotto, il quale prende le mosse da un accordo, una dichiarazione di principi tra Israele e
OLP. Esso è un documento poco impegnativo, paragonabile ad uno statement. I nomi, come direbbe Eco,
son sempre non casuali. Per non impegnarsi troppo ad Oslo, quindi, Israele e OLP usarono delle
“dichiarazioni di principio”. Nel 1993 l’OLP viene ivi dichiarata come “rappresentante del popolo
palestinese”. La speranza della pace in quella dichiarazione di Washington fu molto viva in quel frangente.
Se si cercassero le immagini, verrebbe fuori quella di Clinton, fra Rabin e Arafat. Altra foto, meno nota, fu
quella alla fine della conferenza in cui Rabin mette la mano sulla spalla di Arafat. Un elemento della sua
interruzione fu l’uccisione di Rabin per mano di un estremista israeliano.
Nella soggettività giuridica quindi vi è la capacità di agire e concludere accordi internazionali, specie quelli
concernenti il proprio diritto all’auto-determinazione, come ha fatto l’OLP. Poiché le norme
consuetudinarie nascono dalla prassi, vi è una sentenza esemplare della Corte di Cassazione, numero 1981,
giugno 25 1985 imputati Arafat e Sallah, membri dell’OLP. Si poneva il problema dell’immunità di Arafat
come capo dell’OLP e la CC dette una definizione di movimenti di liberazione nazionale molto specifica. Li
descrive come aventi limitata valenza da attore internazionale, ma che hanno però un ruolo (seppur
limitato) al fine di perfetta parità con gli stati territoriali, in applicazione del principio di auto-
determinazione dei popoli, norma consuetudinaria legata a diritto cogente.
Ovviamente il diritto cambia con il tempo, nel senso che anche le entità cambiano nello scopo e nella loro
conformazione. La Palestina ne è proprio un esempio, in tal senso. Pensiamo al caso di Achille Lauro, la
nave quindi, né il cantante né il sindaco di Napoli. Tale nave, nel 1985, viene sequestrata da terroristi
palestinesi. Non siamo a Sigonella, tra Italia e USA, ma nell’attacco all’Achille Lauro ci fu l’omicidio di un
paralitico turista ebreo americano. Molti anni dopo l’OLP, nel ’97, versò una somma di denaro alla famiglia
del turista ucciso. In qualche modo vi è quindi la presenza di un legame tra organizzazione e responsabili
dell’illecito, la responsabilità dell’organizzazione è palese.
Oggi specialmente, gli aspetti salienti dell’evoluzione della situazione palestinese sono di una notevole
autonomia nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, a seguito anche di quel processo di pace di Oslo, ma
continuano in qualche modo le violazioni alla loro sovranità da parte di Israele. La Palestina ha però fatto
passi avanti dall’essere un’organizzazione. Vedendo le cose importanti: ammessa la Palestina, non l’OLP,
come osservatore all’Assemblea Generale dell’ONU; è nell’UNESCO. Viene ammessa come “Stato di
Palestina”, dimostrando l’avanzamento fatto. Viene ammessa alla Convenzione di Ginevra e a quella di
Roma del ’58.
La Palestina quindi ha intrapreso due importanti azioni giudiziarie: una denuncia presso la Corte Penale
Internazionale perché la Corte Penale indaghi e giudichi su crimini di guerra e contro l’umanità commessi
da Israele nei territori occupati (Cisgiordania e Gaza, soprattutto). Ancora, nel 28 settembre 2018, entrata
nella CIG come membro (osservatore nell’ONU), ha fatto ricorso contro gli Stati Uniti. La motivazione alla
base del ricorso è stata la decisione degli USA di riconoscere Gerusalemme, intera, come capitale di Israele
e di spostarvi la propria ambasciata. Essendo territori occupati militarmente, difficilmente lo si può
considerare come parte territoriale. 

L’ultimo possibile soggetto di diritto internazionale è l’individuo. È soggetto di diritto internazionale o


meno? Soggetto vuol dire che, in base alle norme internazionali, avrebbe diritti e obblighi. Di per sé
l’individuo era oggetto di diritto internazionale del potere sovrano del suo stato. Certo alcune cose son
cambiate, seguendo tre vie di sviluppo:
 La prima riguarda l’attribuzione di certi diritti e doveri all’individuo in seno a certe organizzazioni
internazionali. In tutte ci son delle norme che riguardano lo status dei funzionari. Nell’UE son stati
dati loro in riferimento al loro lavoro. Con la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 1963
(c’era allora la Comunità Europea), nel caso del signor Van Gend en Loose , si affermò che non solo
la Comunità Europea fosse un ordinamento straordinario e sui-generis nel diritto internazionale, e
che la peculiarità fosse che non solo gli stati fossero soggetti ma che anche gli individui che possono
vantare dei diritti e vantarli in sede giudiziaria, discendenti dai trattati europei. Questo però ci porta
ad essere soggetti nel diritto europeo più che in quello internazionale standard.
 Abbiamo ancora una via che conduce ai doveri degli individui, nel caso di crimini internazionali
compiuti dall’individuo. A partire dal trattato di Versailles del ’19, in cui ci fu un tentativo di porre a
processo Guglielmo II di Prussia, vi è una prassi che sancisce la possibilità di processare penalmente
gli individui che han violato le norme internazionali, i.e. crimini quindi di guerra e contro i civili. 
 Il terzo livello, infine, storicamente successivo alla responsabilità penale, è relativo all’enorme
sviluppo delle norme tese ad attribuire all’individuo dei diritti umani fondamentali.

17/11/2020

Come accennato la volta scorsa, la situazione degli individui nel diritto internazionale è cambiata, nel
tempo. Vi sono degli obblighi che gli pongono divieti, e nel caso di inosservanza delle penalità. Quali sono le
norme che indicano i crimini internazionali dell’individuo?

Storicamente, il primo tentativo di definire una siffatta responsabilità penale avvenne a Versailles, quado si
tentò di far riconoscere il Kaiser Guglielmo II come colpevole della Prima guerra mondiale.
Successivamente, alla fine della Seconda guerra mondiale venne introdotto il concetto di “crimini contro
l’umanità” e, dopo, il “crimine di genocidio”. In quel caso, al contrario del Kaiser, alcuni colpevoli vennero
condannati per impiccagione visti i crimini commessi.

Oltre la Convenzione promossa dall’ONU contro i crimini di genocidio, o quella di Ginevra del ’49, ma anche
altre, esistono anche norme consuetudinarie contro la condotta criminale degli individui in ambito
internazionale: non solo quelli già citati (genocidio, pulizia etnica, crimini generici contro l’umanità), ma
anche il ricorso alla tortura. Si è affermata poi la norma consuetudinaria che consente una giurisdizione
statale di carattere universale, che permette quindi agli Stati di sottoporre chi abbia commesso un crimine
internazionale a processo, a patto che ci sia un “contatto”, una relazione con questo individuo (come ad
esempio la presenza dell’imputato sul territorio). Altre norme/convenzioni obbligano lo stato dove si trova
l’individuo a sottoporlo a processo o, in alternativa, ad estradarlo verso un paese che sia disposto farlo. Una
di queste due alternative deve essere soddisfatta: aut dedere aut judicare. A fianco delle convenzioni e
delle norme abbiamo anche le Corti internazionali, per gestire tali cause (finora parlavamo di giudici
nazionali): a partire dagli anni ’90, con i crimini compiuti nell’ex-Jugoslavia e il genocidio del Rwanda, sotto
iniziativa di organizzazioni internazionali come l’ONU, si è cominciato ad istituire dei tribunali speciali
internazionali, tramite accordi internazionali (ai quali venivano attribuiti particolari poteri attraverso tali
accordi o convenzioni). L’idea di corti speciali internazionali ha molti oppositori, tra i quali gli USA, la Russia
ed alcuni paesi africani: questi ultimi hanno rilevato, infatti, che molti dei casi trattati dalla Corte penale
internazionale hanno avuto luogo in Africa e su crimini perpetrati da africani – il che viene considerato una
condotta parziale delle corti e del sistema.

Alla Convenzione del 1998 tenutasi a Roma, dove venne affrontato l’argomento, un ruolo importante venne
giocato dalle organizzazioni non-governative  No Peace Without Justice (sostenute, inter alia, da Emma
Bonino). La Conferenza di Roma portò alla stesura dello Statuto della Corte penale internazionale, che
entrò in vigore nel 2002.

Il tribunale penale internazionale, poi, può procedere solo se il giudice nazionale è unable o unwilling a
giudicare (come dice la stessa Convenzione di Roma) – il ruolo del giudice internazionale è quindi
sussidiario.

Appunti di Davide:

Continuiamo concludendo i soggetti del diritto internazionale, parlando dei soggetti individuali di diritto
internazionale, cosa che un tempo sarebbe stata un’eresia, essendoci una sproporzione di forza tra stato e
individuo. Prescindiamo dalle norme che potrebbero riguardare le funzioni di agenti che lavorano per
organizzazioni internazionali o per l’Unione Europea. Le norme che ci interessano son quelle che
impongono divieti agli individui, e che in caso di inosservanza, prevedono delle pene. 
Cis son norme che vietano quelli che definiamo come crimini internazionali, perché previsti da norme di
diritto internazionale, e che hanno delle responsabilità penali con annessa repressione. Il primo tentativo di
affermare siffatta responsabilità penale di un individuo fu col trattato di Versailles alla fine della Grande
Guerra e il tentativo di condannare Guglielmo II, Kaiser tedesco, accusato di crimini come la violazione della
neutralità di Belgio e Lussemburgo nonostante accordi esistenti tra Reich e i paesi.  Si dice che dato che un
consigliere avesse suggerito di non invadere, Guglielmo II si sarebbe dimostrato non curante. L’accusa, in
maniera molto retorica, fu quella di aver violato la sacralità dei trattati. Trovò asilo politico in Olanda e non
ci fu processo. Fu però un primo momento in cui avviene un tentativo simile, di affermare una
responsabilità individuale a livello internazionale, e di processare un capo di stato.
Come è a tutti noto, dopo la Seconda guerra mondiale, i crimini efferati di molti gerarchi nazisti e leader
tedeschi trovarono responsabilità in un processo, seguito di un accordo (8 agosto ’45), tra le potenze
vincitrici URSS, USA e GB, per processare quei vertici per i crimini di guerra, di aggressione e contro
l’umanità commessi. Ques0tultima categoria uscirà, con una sua autonoma e agghiacciante rilevanza, il
crimine di genocidio. Avremo il processo a Norimberga che porterà a ergastoli, impiccagione e così via.
In numerose convenzioni internazionali, come quella dell’ONU del ’48 contro il genocidio, ma anche le
quattro convenzioni di Ginevra del ’49 che prevedono come crimini le più gravi violazioni degli obblighi e
dei diritti umani, come l’uccisione di prigionieri e il bombardamento di obiettivi civili. Ci son convenzioni
anche su tortura e cos’ via. Va detto che ad oggi, per molti esperti, ci son norme consuetudinarie che
prevedano certe condotte sul piano penale-criminale individuale.
Il quadro delle norme che emergono da queste norme son su genocidio, crimini di guerra, contro l’umanità,
ricorso a tortura e a pulizia etnica. Tali crimini si affermano perché? Perché innanzitutto si afferma una
norma consuetudinaria che sancisce una responsabilità penale che è sottomessa a ogni stato. Ogni stato
può, va detto che è a sua volontà, può imputare una persona (per almeno un contatto) per reati simili.
Ancora, vi son accordi che stabiliscono obblighi tra gli stati per cooperare al fine di reprimere tali stati e che
obbligano lo stato in cui l’imputato si trova a processare quest’ultimo o estradarlo laddove ciò sia possibile.
È un aut aut. O lo si giudica o lo si estrae. Se una cosa del genere funziona, si crea una rete tra gli stati
partecipanti a cui i responsabili di tali crimini non dovrebbero in teoria sfuggire. Ci sono esempi di questo
meccanismo (vicino le convenzioni di Ginevra del ’49).
Una terza via è quella che vede in gioco i tribunali internazionali. Nei primi due casi infatti i giudici son solo
nazionali. In epoca relativamente recente diversi enti internazionali, come l’ONU, han creato dei tribunali
che sono a un livello internazionale perché emanazione dell’ONU, tesi a condannare crimini condotti in
certe situazioni di crisi (come quelli nell’area balcanica o in Ruanda). Oltre all’ONU ci son altri esempi
ovviamente su questi tribunali si può discutere. Poteva l’ONU istituirli? Poi, come tribunali speciali, vuol dire
concentrarsi solo su alcune aree. Perché quei crimini si e altri no? Ci son stati però questi tribunali. Una
realizzazione più importante è la Corte Internazionale Penale dell’Aia. Gli stati, che hanno un potere
punitivo, possono fare un accordo per il quale, per crimini così gravi, conferiscono il loro potere punitivo a
un tribunale creato via convenzione. Molti stati son ostili a questa corte, quali gli USA o la Russia. La Corte
Penale Internazionale si è trovata ad essere attaccata dai paesi africani, motivati che rilevano che quasi tutti
i crimini di cui questa corte si occupa son avvenuti in Africa da africani. Han ragione? Può anche essere. Il
problema è che la convenzione di per sé funziona, ed è importante. Mira a garantire la repressione, e ancor
prima la prevenzione, di crimini gravissimi. Una convinzione del ’98 firmata a Roma, ad esempio, sancì in
questa Conferenza il ruolo di NGO e stati come l’Italia nella lotta sul tema. Personalità come Emma Bonino
furono molto spinte verso il concetto di “No pace senza giustizia”.
I processi alla CPI si possono fare quindi, in tema di rapporti coi giudici interni, in via sussidiaria. Il CPI
procede se il giudice statale competente, dove è stato commesso il crimine, è unable or unwilling, come
dice la Conferenza di Roma. Se ad esempio il paese è in collasso giudiziario. In tal senso è sussidiario. Questi
meccanismi son di diritto internazionale. Vietano agli individui di fare delle cose, attribuiscono alle
violazioni meccanismi di punizione, di pena, e modi di far valere la responsabilità. Queste norme si
rivolgono all’individuo e quindi, sotto tale aspetto, egli è soggetto di diritto internazionale.
Storicamente, nasce sempre prima la responsabilità che la tematica dei diritti umani, in cui vengono dati
dei diritti alle persone. Una svolta sul tema della considerazione dell’individuo è rappresentata dalla Carta
dell’ONU del 1945, con cui si è prefissa l’obiettivo di sviluppare i diritti umani per tutti, senza distinzioni, e si
attribuisce all’Assemblea Generale e al Consiglio Economico e Sociale il compito della promozione e
sorveglianza di tali diritti. L’ONU ha svolto una sua azione poderosa con una pietra d’angolo che è la
Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948. Poi, sia ONU che altre organizzazioni (Consiglio
d’Europa, Organizzazione degli Stati Americani, Unione Africana) han dato vita a una pluralità vasta di
accordi internazionali che si propongono di riconoscere e garantire con strumenti di difesa i diritti umani
fondamentali. Tanti gli esempi possibili. A livello ONU, ad esempio, l’adozione nel ’66 di due patti sui diritti
umani, che son grossomodo la specificazione e la traduzione in termini giuridicamente obbligatori della
Dichiarazione del ’48. A livello regionale, nel senso di regionalismo internazionale, si ha invece documenti
come la Convenzione Europea per i diritti dell’uomo di Roma (1950), che sul piano degli strumenti di
garanzia dei diritti è l’atto più avanzato attualmente esistente. Ciò perché, dato noto, in virtù di tale
convenzione di Roma fu creata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (organo legato al Consiglio d’Europa,
non l’Unione Europea). Dinanzi tale corte gli individui possono far causa agli stati che reputano lesivi dei
loro diritti. C’è un ribaltamento del diritto internazionale. In quello classico l’individuo è suddito e
sottoposto all’autorità statuaria. Qui, invece, l’individuo può far causa, ha diritto di azione giudiziaria contro
uno stato, spesso il suo.
Oltre alle molte convenzioni in materia, in tema di sviluppo, non ci son solo norme pattizie e convenzionali,
che son però al di fuori dello ius cogens. Ci son norme consuetudinarie che si impongono a tutti volenti o
nolenti. Son quelle norme che vietano le gross violation of human rights. Insomma, norme che vietano per
esempio i crimini di genocidio, i gravi crimini di guerra e contro l’umanità, ricorso sistematico alla tortura,
alla eliminazione etnica e di avversari politici. Queste condotte son vietate da norme consuetudinarie son
applicate come divieto agli stati e ivi come diritto all’individuo, di non subire tortura, genocidio, di non
essere messo a morte per un credo politico. Ponendo un obbligo allo stato, stabiliscono un diritto
dell’individuo. Altra osservazione: al di là di accordi internazionali, nel sistema dell’ONU son stati creati
procedimenti e meccanismi di controllo sulla condotta degli stati, che da qualche anno son incentrati nel
Consiglio dei Diritti Umani, fondato già nel 2006 e che più o meno funziona. Poiché è formato dai governi,
corre sempre un rischio di politicizzazione. 
Alla luce di norme che pongono limiti alla sua azione e altre che garantiscono diritti fondamentali
all’individuo di per sé, lo si può considerare soggetto di diritto internazionale, ma certo limitato rispetto a
soggetti come lo Stato. Per quanto riguarda i soggetti, si può dire che qui abbiamo concluso.
Ne esistono altri di attori, pensiamo solo alle multinazionali, alle NGO, alle società di rating. Per quanto
riguarda quest’ultime, se una continuasse a bocciare uno stato ciò potrebbe portare al suo fallimento,
quindi son potenti, hanno un potere. A volte la loro attività ha decisamente una sua rilevanza, ma parlare di
soggettività in tal senso è un discorso forse esagerato, e forse sterile, perché anche ammettere la loro
soggettività non cambia lo stato delle cose.
Passiamo ora alle fonti del diritto internazionale. Cosa vuol dire fonte, per i poveri non giuristi del gruppo?
Essi sono gli atti o i fatti che producono delle norme giuridiche, nel nostro caso internazionale. Le fanno
nascere, le modificano o le estinguono. Di per sé abbiamo già fatto una osservazione su tale norma che
abbiam richiamato spesso. Parlando di norme consuetudinarie o pattizie abbiamo anticipato la cosa.
Ma dobbiamo ricostruire il quadro d’insieme, l’architettura delle fonti del diritto internazionale, citando un
articolo di partenza utile al nostro caso. Esso è un articolo contenuto nello statuto della Corte
Internazionale di Giustizia. L’articolo 38 infatti di questo statuto, annesso alla Carta dell’ONU, sancisce che
la Corte Internazionale di Giustizia risolve le dispute tra i pesi. Le norme son specificate essere le
convenzioni internazionali, la consuetudine, i principi generali riconosciuti dalle nazioni civili.

Iniziamo da norme da accordo e da consuetudine. La CIG parla di norme perché comunque decide sulla
base di esse. L’architettura delle fonti va indagata nei suoi meccanismi anche di nascita. Didatticamente,
iniziamo dal fatto che la CIG riconosce una prima fonte, la fonte di primo grado, che è la consuetudine
internazionale. Tali norme le definiamo di primo grado. Riservandoci di tornare su come riconoscerle,
giustifichiamo qui l’attributo di fonte di primo grado. Perché? Perché tra le norme consuetudinarie (diritto
del mare, immunità degli agenti, protezione degli stranieri) vi è una norma non materiale. Materiale è
quella che sancisce diritti e obblighi. Qui ne abbiamo una strumentale, o sulle fonti del diritto
internazionale. Tale norma la si può enunciare con  una espressione “pacta sunct servanta”, ovvero i patti
devono essere rispettati.
Gli stati si comportano sempre tenendo a mente che ogni patto è giuramento di sangue e va rispettato. Tale
norma consuetudinaria è la base giuridica degli accordi internazionali. Perché gli accordi producono a loro
volta norme giuridiche e son obbligatori? Lo sono perché c’è una norma consuetudinaria che dona
all’accordo l’idoneità a creare norme internazionali, obblighi e diritti. Per questo la consuetudine è di primo
grado. La sua giuridicità dipende solo da sé stessa e lo è soprattutto rispetto all’accordo, che deriva il suo
potere di creare normi giuridiche da una norma consuetudinaria. Ivi è di secondo grado, fonte di secondo
grado.
Anche l’accordo internazionale può contenere norme materiali, quindi che impongono divieti e obblighi e
diritti, ma può anche a sua volta prevedere ulteriori fonti di diritto internazionali. Prevedere che ulteriori
atti e fatti creino norme internazionali. Un esempio molto semplice sono gli atti obbligatori dell’ONU. Se
guardiamo alla Carta dell’ONU, nell’articolo venticinque si prescrive che gli stati membri devono seguire le
decisioni del Consiglio di Sicurezza. Ciò vuol dire che tali decisioni son obbligatorie e gli stati devono
seguirle e obbedire. Significativo è tale articolo. L’articolo 25 è norma di secondo grado, ma prevede
un’ulteriore fonte, ovvero la decisione del Consiglio di Sicurezza, fonte di terzo grado. Su che base diciamo
che tali decisioni son vincolanti? Sulla base dell’articolo 25, che prende fattualità dalla norma di primo
grado. Un esempio che ci permette quindi di osservare, in questa architettura, la presenza di minimo tre
gradi per le nostre fonti di diritto internazionale.
Quindi prima la norma consuetudinaria, poi il “pacta sunct servanta” che sancisce deriva dalla
consuetudine, infine questi accordi finali che derivano da altri accordi. Parliamo in questo caso di un imbuto
rovesciato (una piramide). Ciò non vuol dire che tra le tre fonti vi sia un rapporto di maggiore o minore
forza gerarchica. Non vuol dire che quello tra accordo e consuetudine sia equivalente al rapporto tra
Costituzione e legge ordinaria. Le leggi, se in contrasto con la Costituzione che regna sovrana, possono
essere dichiarate invalide dalla Corte costituzionale.
Ciò non avviene nel diritto internazionale. I livelli non sono in rapporto gerarchico di per sé. Il rapporto è
una questione di sistematicità. La norma consuetudinaria e quella pattizia hanno lo stesso rango di per sé.
C’è una forza giuridica pari, ma c’è differenza. La consuetudine generale vale per tutti mentre l’accordo vale
per i firmatari. Un accordo può benissimo derogare, modificare, tra le parti, la norma consuetudinaria. Basti
pensare alle norme sulla sovranità inviolabile degli stati. Nessuno stato può usare la forza coercitiva nel
territorio altrui, ma in presenza di accordi può avvenire per esempio che la Guardia di Finanza vada in
Svizzera. L’accordo sancisce una specialità tra le parti. L’accordo viene fatto spesso proprio per ovviare alla
norma consuetudinaria. La norma speciale deroga sempre quella normale-generale. Come vedremo,
l’accordo può derogare la consuetudine nel rapporto tra le parti. 
Inoltre, però, una nuova norma consuetudinaria può modificare un accordo. In che senso? Nel sistema
dell’ONU, articolo 27 della Carta, si stabilisce che le decisioni del Consiglio di Sicurezza sono prese con nove
voti favorevoli su quindici, se essi comprendono tutti i membri permanenti. Ciò vuol dire che l’astensione
volontaria di uno di essi, alla luce delle norme, vale come veto perché non dà quel totale di quindici. Fin da
decenni però si è consolidata una prassi mai contestata in base alla quale, purché ci siano nove favorevoli,
l’astensione di un membro permanente non precluda l’atto. È una modifica che è avvenuta per via
consuetudinaria. L’atto viene adottato se ha nove voti favorevoli su quindici senza voti contrari del
Consiglio Permanente. Non più l’astensione, quindi, ma solo in caso di contro. Non ci son molti esempi, sia
chiaro, della consuetudine che col tempo o meno va a prevalere sull’accordo.
La pari efficacia tra norme consuetudinarie e accordi non è regola assoluta, non più da qualche decennio
almeno. Perché? Perché si sono via via affermate delle norme consuetudinarie, frutto di prassi tra stati
quindi opinio iuris, convincimenti di validità giuridica, che sono dotate di una particolare forza precettiva.
Abbiamo qui dei comandi inderogabili, che non si disattendono, che abbiamo citato spesso, le norme di ius
cogens. Sono le norme imperative, nucleo duro di norme consuetudinarie che a differenza di altre non si
possono derogare nemmeno per accordo. Il consolidamento di tale categoria di ius cogens e il suo
riconoscimento è avvenuto in una convenzione multilaterale promossa dall’ONU, ed è la Convenzione di
Vienna del 1969 sul Diritto dei Trattati. Tale convenzione ha lo scopo di disciplinare tutti i trattati, le
questioni, le materie che li riguardano, la loro stipulazione, la loro interpretazione, effetti, invalidità,
estinzione e così via. È come se fosse la parte di codice di civile contrattualistica e che viene compresa nello
studio del negozio giuridico.
La Convenzione del 1969 per la prima volta parla, nel suo articolo 53, di norme cogenti. Esso ha come
rubrica proprio i trattati in conflitto con norme consuetudinarie imperative (o ius cogens, terminologia
oramai ufficiale). Tale norma ci dice che è nullo qualunque trattato che al momento della sua conclusione
sia in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. È norma imperativa del diritto
internazionale generale una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati nel suo
insieme, rispetto la quale non sono consentite deroghe e che può essere modificata solo da norme di
eguale valore. Non è una norma unica, l’articolo 53, perché nella Seconda convenzione dei diritti dei trattati
delle organizzazioni nel 1986, si inserì una norma uguale sui trattati delle organizzazioni.
Cosa ci dice tale norma? Che nullo è il trattato contro lo ius cogens. È una modifica profonda, perché mette
un rango superiore alle norme imperative rispetto alle altre. Un accordo in conflitto viene visto come nullo
se contro una norma imperativa cogente. Chiaramente poniamo la base per una gerarchia, in tal caso.
Come nella legge nazionale che fa nullo l’accordo che va contro la legge imperativa (costituzionale). 
Secondo punto, quali sono quindi le norme cogenti? In concreto, dove stanno? Come si definiscono? Si
tratta di norme di diritto internazionale generale accettate e riconosciute dalla comunità internazionale
dalla comunità degli stati nel suo insieme in maniera inderogabile. Non vuol dire nulla? È tautologica? Nella
realtà forse un concetto c’è, nascosto. Sono norme di ius cogens quelle che la comunità internazionale
considera intoccabili e intangibili. Pare si possa dire che tale concetto, più che elenco di norme (e forse è un
bene per evitare che il sentire degli stati vi incida), sia definito dall’irrinunciabilità. Norme dunque come le
altre, fatte sempre di prassi e opinio iuris, ma laddove tale opinio non è solo convinzione che la condotta sia
doverosa per norma giuridica, ma la convinzione che tali norme non possano essere sacrificate. È un
concetto, una definizione precisa, non tautologica secondo Villani. Pone infatti un compito all’interprete. Il
dovere di non aggressione, ad esempio, potremmo inserirlo tra le norme cogenti vincolanti. Accordi come
quelli NATO vengono infatti costruiti in virtù di legittima difesa, mai di aggressione pura. La materia dell’uso
della forza è forse quella più facile in cui è possibile trovare questa opinione condivisa dagli stati per cui vi
siano dei divieti di aggressione e uso della forza in maniera cogente. Accordi che prevedano l’uso
dell’aggressione son quindi nulli. C’è poi il diritto di autodeterminazione dei popoli, come quelli coloniali o
che lottano contro regimi razzisti ma anche popoli che semplicemente hanno diritto alla libertà. In luce di
questo principio cogente, degli accordi che prevedano azioni colonialiste non sarebbero validi.
Ancora, i diritti fondamentali degli individui son tutelati da delle norme che vietano la loro violazione e sono
cogenti. È ovviamente cogente il diritto di non essere schiavi e nessun accordo che preveda la schiavitù
sarebbe valido. Qualsiasi atto giuridico, disciplina e formulazione a parte, che porti una persona verso un
paese dove potrebbe essere ucciso o sottoposto a trattamenti inumani, tortura, viola il diritto umano, la
norma cogente, è invalido. Questo è stato anche sancito dal Tribunale da Trapani, il quale dichiarò che il
non respingimento per motivi umanitari è proprio una norma cogente. Questo è uno dei tanti esempi.
Il memorandum di intesa del 2 febbraio 2017 tra Italia e Libia, firmato da Gentiloni e non da Salvini (si può
sempre sbagliare) e che prevede collaborazione tra i due paesi, con soldi alla malavita organizzata libanese
di fatto, è stato reso nullo in quanto contro lo ius cogens proprio dal Tribunale di Trapani.
Dietro queste norme ci sono dei valori. Ci son in qualche modo valori di rispetto della pace, dei diritti umani
e così via. Anche la tutela dell’ambiente si è diffusa, in parte, come un comune sentire per il quale almeno
le norme che vietano i disastrosi danni ambientali son cogenti.-

Un altro punto dello ius cogens da mettere in luce è che nella definizione dell’articolo 53, si dice che una
norma cogente è quella che è riconosciuta come tale dalla comunità degli stati e così via, e che una norma
cogente imperativa viene modificata da un’altra norma cogente imperativa equivalente, in qualche modo,
mentre le norme consuetudinarie normali sono subordinate allo ius cogens. Quindi lo ius cogens è diritto
precettivo superiore.

Continuando a ricostruire le fonti, c’è un cenno ultimo alle fonti di terzo grado, o previste da accordi, come
quelle del Consiglio di Sicurezza e delle sue decisioni. Quel che ci interessa è che vi è un rapporto tra
l’accordo che prevede le fonti di terzo livello (come la Carta dell’ONU) e la fonte stessa, in questo caso la
decisione del Consiglio di Sicurezza. Anzitutto, bisognerebbe vedere i limiti alle fonti previsti dagli accordi, e
nei confronti di chi operano. Una prima osservazione certa è che la fonte di terzo grado non può avere una
sfera di efficacia superiore all’accordo che lo prevede. Può prevedere i membri dell’accordo, ma non stati
terzi, perché di per sé l’accordo è valido tra gli stati membri di quell’accordo. Se il raggio d’azione
dell’accordo si limita alle parti, allora ciò segna anche il limite non superabile dal terzo grado. L’articolo 25
dell’ONU sancisce che le decisioni del Consiglio di Sicurezza son obbligatorie per gli stati membri.
Ancora, ci son volte in cui addirittura gli accordi prevedono delle decisioni di terzo grado, e limitate a
singole parti dei membri. Una decisione del consiglio di sicurezza potrebbe coprire solo alcune nazioni,
quindi avere destinatari ridotti rispetto la Carta dell’ONU.

Se gli stati dinanzi la Corte Internazionale di Giustizia, per l’articolo 38, decidono insieme di non usare le
norme consuetudinarie, ecco che i giudici della CIG possono andare per via equitativa. Non applicano
quindi una norma esistente, ma una contingente a quel momento specifico. Quell’accordo è fonte di un
diritto nuovo, ovviamente. Queste sono sentenze dispositive. Le sentenze che applicano un diritto nuovo
per il caso di specie, specifico. Se ci fosse il diritto esistente, sarebbe una sentenza dichiarativa. Creando
una nuova norma, questi specifici casi son sempre di terzo grado, venendo da un accordo (articolo 38). La
sentenza dispositiva, come gli accordi, è efficace solo per le parti in causa. Se la Carta della CIG vale per tutti
gli stati membri dell’ONU, la sentenza dispositiva no.
Più che i limiti delle fonti di terzo grado, infatti, forse è ancora più importante sottolineare i limiti oggettivi
nei contenuti, non soggettivi nei destinatari.
La decisione del Consiglio di Sicurezza è fonte di terzo grado solo se rispetta, per cominciare, le norme della
Carta dell’ONU su votazione, competenze di origine e così via. Se per esempio con un atto si volesse
dichiarare guerra, compiendo un’aggressione, ci sarebbe invalidità perché ciò violerebbe la stessa Carta
dell’ONU. Allo stesso modo, l’Unione Europea ha dato alla sua Corte di Giustizia il ruolo di condannare
quelle norme e quei regolamenti che violino i trattati europei fondanti, sancendo quindi una giurisdizione
chiara.

Il quadro complessivo, quindi, qual è? Abbiamo un sistema con consuetudine, accordi e fonti di terzo grado.
A livello di gerarchia, sappiamo che lo ius cogens, da un punto di vista di forza, regna sovrano su tutto.
Segue allo ius cogens l’accordo internazionale e le normali consuetudini. Sono entrambe sotto perché
anche l’accordo contro lo ius cogens è nullo. Infine, sotto gli accordi abbiamo le fonti previste dagli accordi,
come gli atti di organizzazioni internazionali (atti del Consiglio di Sicurezza, dell’Unione Europea, allegati
tecnici dell’Organizzazione dell’Aviazione Civile), sono inoltre subordinati in contenuti, membri e spazio, agli
accordi da cui la fonte deriva.
19/11/2020

Per concludere il precedente argomento: anche se leggermente dibattuta, è oggi tesi largamente affermata
che l’individuo sia soggetto, benché limitato, di diritto internazionale – dopotutto, vi sono specifiche norme
indirizzate a lui.

Concentriamoci ora sul concetto della consuetudine, fonte di primo grado del diritto internazionale: essa
non è un atto, ma un fenomeno, consistente nella ripetuta condotta uniforme tenuta dalla generalità degli
stati in una certa materia, accompagnata dal fatto che questa condotta sia giuridicamente doverosa. La
prima caratterista è la diuturnitas (condotta prolungata, appunto) – un elemento oggettivo, la seconda è
invece soggettiva, psicologia: l’opinio iuris sine necessitates (il fatto che la condotta sia appunto doverosa, e
non scelta per interessi o convenienze – ma per ossequio a una norma giuridica internazionale). Questa è la
binaria costituzione della consuetudine.

Questa teoria dottrinaria non vede però d’accordo tutti: c’è chi considera il secondo elemento, essendo
soggettivo, irrilevante. Infatti, nelle sue prime fasi, si sarebbe formato un paradosso dove si adattava a sé
stessa! Ma è naturale che al principio si sia sviluppata con più discontinuità e divergenza, mentre dopo si è
consolidata.

La consuetudine si adatta anche sulla piattaforma internazionale: una zona di fondi e sottofondi marini il cui
sfruttamento appartiene solo allo stato costiero. Tema spinoso è stata la spartizione del Mare del Nord tra
le Olanda, la Danimarca e la Svezia – essa fu risolta in base alla consuetudine, la prassi consolidata.

Più volte nella storia del diritto internazionale si è provato a far disconoscere la prassi consuetudinaria
come vincolo e fonte del diritto – era una posizione di tipo socialista, sostenuta dall’Unione Sovietica. Tale
prospettiva fu adottata anche negli anni ’60 dei paesi dove era stata abolito il colonialismo, che si
rifiutavano di accettare le norme occidentali. Successivamente è invece stata sostenuta la tesi secondo la
quale semplicemente un paese che non ha contribuito alla nascita di una norma consuetudinaria non può
essere vincolato da essa, può quindi sottrarsi dal vincolo  può essere obiettore. La consuetudine non
richiederebbe, quindi, l’unanimità universale di tutti gli stati – il riconoscimento deve essere solo generale.

Se uno stato influente, obiettando una norma preesistente, riuscisse a farsi imitare da una coalizione molto
larga di altri stati o staterelli, potrebbe anche compiere una desuetudine – generalizzata, o addirittura
applicata da tutti. Se fosse adottata da solo alcuni stati o entità (come ad esempio il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu), una nuova consuetudine o desuetudine potrebbe essere applicata in via eccezionale, senza
vincolare (o svincolare) i paesi esterni al gruppo. Ciò non scalfisce l’autorità della norma come fonte di
diritto, genera solo dell’esclusività – e sono eccezioni.

La norma consuetudinaria richiede un’opera di accertamento, è diritto non scritto! Non si tratta di
interpretare un testo, ma di constatare nei fatti se una norma consuetudinaria esiste, a prescindere dal
contenuto. È per questo che un giudice, o un ministero degli esteri, deve verificare che la prassi venga
rispettata. Il fatto che una prassi sia da rispettare, non significa che ciò debba accadere sempre, anche la CIG
ha detto che ciò che ci si aspetta da una norma consuetudinaria è che nella generalità dei casi, venga
osservata dalla comunità. Se ciò non dovesse accadere, la norma ne sarebbe addirittura rafforzata! Chi non
la osserva, infatti, riconosce il fatto che essa esiste e cerca piuttosto una giustificazione per evitarla (anche
qui, la prassi!). Ad esempio, la norma richiederebbe la sospensione dell’uso della forza armata, ma questo è
rispettato in generale, non sempre! Ad esempio, gli stati che ne fanno uso cercheranno di dire che era per
difesa, per necessità  sanno di dover trovare una giustificazione all’eccezione. Il parere della CIG denota
un po’ di noncuranza: è vero che se una norma diviene desueta è giusto che perisca, ma se viene ad
esempio attuata della violenza da parte di uno stato, per quanto frequentemente possa accadere, è giusto
denunciare la cosa – anche se questo rischia di derivare in abuso di “interventi umanitari”, in realtà
costituenti aggressione.

Un elemento importante è infatti anche il tempo, diuturnitas, la condotta prolungata: quanto tempo
occorre ad una norma per diventare consuetudine? Ciò non è chiaramente definito, sicuramente non può
esistere la consuetudine istantanea, il che sarebbe contraddittorio con il concetto. Ma quanto tempo ci
voglia dipende da molti fattori. Se c’è, la norma nasce e spesso rimane come un’opacità, la cui definizione
dipende dall’eventualità che il bisogno di utilizzarla si presenti, e quante volte.

Nel diritto del mare e della sua proprietà, ad esempio, la consuetudine nacque da un contrasto tra
Elisabetta I di Inghilterra a l’Olanda che diede vita a una serie di trattati sulla materia ( mare liberum, mare
clausum), in relazione all’appartenenza a uno o l’altro stato. Ci sono voluti moltissimi anni, soprattutto per
definire il limite esterno del mare territoriale, non solo il confine con un altro. Nel corso della terza
Conferenza sul Diritto del mare dell’ONU (’82) si definì il testo definitivo sulla questione. I fondi del mare
vedono il diritto allo sfruttamento appartenere allo Stato adiacente con la costa. L’adozione di questa
norma consuetudinaria partì nel ’45, sotto Truman. La norma sul mare territoriale ha richiesto secoli per
essere largamente riconosciuta, la piattaforma continentale ne ha impiegati molti meno.

In cosa consiste questa prassi? Quando l’operatore giuridico deve effettuare l’accertamento, guarda alla
condotta degli stati, che può essere fatta di elementi e situazioni ben differenziate. Ma il comportamento di
fatto deli Stati può anche essere omissivo: ad esempio, gli stati da secoli si astengono dal giudicare, dal
sottoporre a legge, i diplomatici – l’inviolabilità della giurisdizione e dei diplomatici è il massimo esempio di
norma consuetudinaria. Anche le note diplomatiche ne sono un esempio: usate per comunicare, notificare
protesta, tra stati (come quella dell’Iran all’Italia per lo show). Si deve quindi capire l’opinio degli stati
attraverso il tempo. Anche la diplomazia multilaterale, un confronto tra tutti i coinvolti, è un altro modo per
assicurare e verificare la condivisione da parte di tutti gli stati. Nella prassi degli stati ci sono anche molti atti
interni alla loro legislazione, quella dei singoli stati, che finiscono per diventare consuetudine: ad esempio,
una precisazione all’immunità dalla giurisdizione straniera fu iniziata dalla diplomazia italiana e belga, che
insieme resero consuetudinaria la differenziazione tra iure imperii e iure privatorum (e.g. un investimento).
Distinzione in virtù della quale solo per i primi c’è immunità di giurisdizione, per la seconda no (come un
privato, appunto)! Il merito di aver inaugurato la norma è loro, ma venne poi seguita da tutti gli stati. Cose
come queste potrebbero essere anche regolate per iscritto, ma ciò non è necessario. Anche la
giurisprudenza interna quindi può essere analizzata per capire la norma consuetudinaria.

La CGI fa anche riferimento alla decisioni giudiziarie, solitamente di giudici internazionali, analizzate in
quanto elementi sussidiari, per avere l’accertamento delle norme.

Abbiamo parlato di prassi diplomatica condotta degli stati, anche omissiva, originata da legislazione o
meno, queste sono le fonti che vanno usate per verificare… Dobbiamo considerare, però, che ci sono stati
di cui non sappiamo nulla in merito! Perché non hanno scritto, o perché non ne conosciamo la lingua. Come
capire la norma di Nauru, del Lesotho? Le informazioni vanno quindi desunte da un groviglio di fattori vari,
comportamenti e così via. Ciò determina un altissimo grado di incertezza giuridica sul grado e sul contenuto
della norma. Non si sa quali norme applicare, se esse esistono o meno. Da più di un secolo si sono quindi
tentati molti modi per ovviare al problema e creare certezza: un’opera che permetta di constatare la norma
e di tradurla in un testo scritto. Un’operazione chiamata codificazione del diritto internazionale
consuetudinario, con lo scopo di dare certezza alle norma. Le codificazioni hanno avuto origine con
Napoleone, e nel diritto statale è un’operazione frequente – non facilissima, ma fattibile. Tutti i codici
vengono fatti dallo stato, ma nel diritto internazionale, chi è il legislatore? Il compito di creare un codice, ad
esempio, sulla condotta dei diplomatici, a chi dovrebbe essere affidato? Non è detto, comunque, che anche
se venisse fatto godrebbe di particolare forza giuridica.
La codificazione del diritto internazionale in qualche modo si rifà quasi al Digesto Costantineo, a quell’opera
omnia folle di Costantino. La codificazione ufficiale, fatta da stati e organizzazioni internazionali, la norma
che vorrebbe essere qui richiamata è una norma importante contenuta nello statuto dell’ONU. La
codificazione è stato uno degli obiettivi dell’ONU (prima anche della Società delle Nazioni). Nell’articolo 13
della Carta dell’ONU si dice che l’Assemblea Generale (quella plenaria) intraprende studi e fa
raccomandazioni al fine di incoraggiare la codificazione del diritto internazionale e il suo progressivo
sviluppo. Come? Di per sé l’Assemblea non è un legislatore. Studia e al massimo raccomanda. Che fa nella
pratica? Studia la prassi, e la giurisprudenza internazionale, e traduce. Lo fa essenzialmente giovandosi di
un organo sussidiario nell’ONU.

Nell’ONU gli organi sussidiari sono quelli non creati dalla Carta stessa, ma da altri organi
dell’Organizzazione. In tali organi non ci sono rappresentanti degli Stati, ma giudici in quanto tali, che
svolgono il loro lavoro indipendentemente da ogni governo. Nella sua composizione una Commissione deve
esprimere la consuetudine generale, universale, e ha i compiti dell’Assemblea Generale. Solitamente viene
nominato un Relatore speciale, il più autorevole di tutti. Insieme, tutti i membri elaborano un testo scritto,
per essere approvato all’Assemblea o da un conferenza ad hoc, sempre con rappresentanti dei governi
(dibattito politico, dopo quello scientifico). Si arriva così ad un Progetto di Convenzione, che obbliga solo chi
decide di firmarla, ovviamente. Esso richiede che un numero sempre maggiore aderisca ad esso, non solo
due stati. Alla fine si avrà una Convenzione di Codificazione (diplomatica, ad esempio). La Convenzione è
quindi un’alternativa al codice (tipo napoleonico). La Convenzione entra in vigore, infine, se ratificata da un
certo numero di stati.

La situazione si complica ulteriormente, per quanto riguarda il valore della Convenzione. Secondo la Carta
dell’ONU, l’Assemblea Generale promuove non solo la codificazione (trascrizione della consuetudine, non
innovativa quindi), ma anche il progressivo sviluppo del diritto internazionale! Il suo aggiornamento, la sua
modifica. E con il medesimo testo usato, in teoria, per la codificazione. Si rivela l’esistente, da un lato,
nell’altro si insinua un obiettivo di mutamento. Ciò che potrebbe richiedere anni o decenni, il creare norme
e la codifica di tali norme, potrebbe quindi essere istituito in modo istantaneo! Il testo di convenzione sarà,
allo stesso tempo, di codificazione vera e propria ma anche di creazione di nuove norme. Questa
complessità determina che anche l’interprete/operatore giuridico, con davanti a sé un’operazione di
codificazione, deve capire se una norma è stata effettivamente ratificata, se può essere applicata a tutti.
Deve compiere una ricognizione di una norma che esiste già o meno. A seconda dei casi, il progressivo
sviluppo della codificazione potrebbe essere innovativo o meno. L’operatore deve fare un’ulteriore verifica
per capire se le norme in questione sono già applicate a tutti gli stati o se sono innovative per alcuni, deve
capire se proviene da una convenzione firmata solo da alcuni stati, o se abbraccia tutti gli stati. Se la
Convenzione è di progressivo sviluppo, seguirà tutte le norme delle convenzioni internazionali, quindi si
dovrà accertare che abbia raggiunto il numero di firme e chi sono i firmatari, ai quali si applicherà.

Per quanto riguarda la Piattaforma continentale, la CIG ha affermato che la norma venga definita dalla
consuetudine degli stati costieri in questione: nel caso di Germania, Danimarca e Olanda si considerò
l’equidistanza, la piattaforma andava quindi divisa in modo tale che i limiti fossero definiti dai confini sulla
terraferma, dai quali venivano “tracciate” idealmente delle rette. Se si fa un disegno concavo (come nel
caso tedesco), però, le linee vanno ad incrociarsi e lo spazio (della Germania) a ridursi, mentre quelli ai lati
guadagnano spazio. Lo spazio della costa concava viene “mutilato”. La CIG, nel caso del Mare del Nord,
affermò che sì la Piattaforma era norma consuetudinaria, applicabile a tutti, ma poteva essere fatto un
accordo, in questo caso. La regola dell’equidistanza, infatti, era pattiva, progressiva, si applicava a Olanda e
Danimarca, ma si poteva non applicare alla Germania! Quindi una norma a prima vista codificata, era stata
rivista in un caso eccezionale, poiché uno degli stati deleganti era estraneo alla convenzione.

Ciò che va riconosciuto è che queste convenzioni hanno un grado di autorevolezza enorme,
un’autorevolezza che deriva dalla composizione scientifica della Commissione, i cui membri nel loro
complesso esprimono le tradizioni giuridiche dell’intera umanità – che tiene conto di opinioni e tradizioni
diverse, con aspirazioni religiose o no ecc. L’autorevolezza è quindi apprezzabile, la codificazione è inoltre
passata al vaglio dell’Assemblea Generale. Il testo esprime un consenso ampio (c’è opinio iuris sul testo).
Tuttavia, a livello di diplomazia, corti internazionali, dottrine, dove c’è una convenzione di codificazione, pur
sapendo che esiste un moto innovativo, si parte nello studio della materia sempre dal testo scritto, come se
si presumesse che corrisponda al diritto consuetudinario.

Quando nel 2007 la CIG ha dovuto risolvere una controversia tra Serbia e Montenegro con Bosnia
Erzegovina, fu necessario stabilire se andassero imputati giuridicamente alla Serbia le uccisioni di massa
attuate in Bosnia Erzegovina, però da dei gruppi armati a sostegno della Serbia, filoserbi, non parte dello
stato serbo (anche se questo li aveva finanziati, non li aveva guidati o progettato le operazioni genocide).
Gli atti non erano imputabili alla Serbia e quest’ultima venne assolta. La CIG attuò un progetto di articoli che
non poteva e non può diventare una Convezione.

24/11/2020

Dopo la consuetudine, analizziamo altre due fonti del DI: L’art. 38 dello statuto della CIG afferma che essa
risolve le controversie di diritto internazionale applicando le convenzioni di cui gli stati sono membri, le
norme consuetudinarie e gli ordinamenti statali. Si parla quindi di ordinamenti giuridici appartenenti ai
singoli stati, alle nazioni civili (nozione razzista? Quali sono le nazioni civili?). Successivamente la parola
“civile” è stata rimossa dallo statuto, così da epurare l’articolo da questa connotazione discriminatoria. A tal
proposito, Conforti disse che tale impronta era ormai anacronistica, poiché il concetto di “civiltà” è
cambiato rispetto ad un secolo fa – ciò che ora noi non considereremmo civili sono gli stati in cui si pratica
l’apartheid, o la tortura. I principi nazionali devono insomma essere universali, di logica giuridica e trovabili
in - più o meno - tutti gli ordinamenti statali di diritto: ad esempio il favor rei, il principio per cui nessuno
può essere giudice di sé stesso, poiché dev’essere obiettivo e indipendente, o la presunzione di innocenza
(l’accusato è innocente fino a prova contraria), o l’assenza di retroattività. Si tratta quindi di principi di
logica giuridica (come, ancora ad esempio, l’impossibilità di trasferire ad altri un diritto che non si ha). In
altri termini, questi principi, grazie all’art.38 diventano da norma interna anche norma internazionale, che
la Corte è tenuta ad applicare (come anche la CPI). Esse vanno applicate però in funzione
sussidiaria/integrativa. Le Convenzioni e la consuetudine normativa infatti vengono prima, esse sono fonti
di primo e secondo grado, almeno secondo l’art. 38: per quanto riguarda la Corte Internazionale di
Giustizia, essa deve innanzi tutto vedere se c’è un accordo tra le parti (Convenzioni), se esso non c’è o se e
insufficiente guarderà allora la norma, e se essa ancora non basta allora il giudice si rifarà ai codici interni.
Essi hanno quindi un valore residuale e lo scopo di compensare laddove la base giuridica sia insufficiente.
Sono quindi fonti di terzo grado. Di per sé avrebbero valore solo nazionale, ma acquistano valore
internazionale grazie a documenti come lo Statuto della CIG o la CPI. Nella prassi, di fatto, questi principi
nazionali non vengono applicati spesso, poiché è difficile che la fonte di primo e di secondo grado non
bastino, ma hanno un impatto maggiormente concreto nei processi delle Corti Penali Internazionali
(Jugoslavia, Rwanda).

L’ultima categoria a cui dobbiamo far riferimento tra le fonti del DI sono le Dichiarazioni di Principio
dell’AG dell’ONU: esse sono atti a cui l’AG ha fatto ricorso sin dai suoi primi anni, ma che non sono
contemplati nella Carta dell’ONU  l’esempio più classico è la Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo,
ma anche altre Dichiarazioni come ad esempio quella del Nuovo ordine economico, o quella che vieta le
armi nucleari. Sono atti solenni, politicamente molto significativi, ma che valore giuridico hanno? C’è una
credenza giuridica secondo cui queste dichiarazioni di principi producono norme generali, e tale credenza
era sostenuta soprattutto dai paesi in via di sviluppo (cosa possibile per loro soprattutto quando
rappresentavano la maggioranza all’interno dell’AG). L’AG però non ha il potere di emanare leggi vincolanti,
non è come un parlamento internazionale, quindi di fatto le Dichiarazioni di Principio non creano norme
generali, ma nemmeno nessun tipo di norma giuridica. Non hanno quindi valore in quanto tali, ma vanno
inseriti in quella categoria variegata e disomogenea chiamata soft law (opposta alla hard law). Questo
genere di leggi forniscono delle guidelines più che delle norme vincolanti, ma possono anche contribuire
alla formazione di future norme vere e proprie. La Convenzione sul crimine di genocidio (1948), per
esempio, fu preceduta da una Dichiarazione di Principio sullo stesso argomento e risalente all’anno prima.

Un accordo può essere tacito, ma a noi interessano quelli scritti: come si stipulano quest’ultimi? Come si
arriva all’accordo? Si ha libertà di forma, in principio, ma nella prassi si distinguono due procedimenti di
stipulazione: uno in forma solenne (più articolato), che si svolge in 4 fasi – negoziazione, che di solito si
svolge ad opera dei plenipotenziari, poi si ha la sottoscrizione/firma da parte dei plenipotenziari, la quale
non ha il solito effetto delle firme di poter concludere un accordo, è solo la seconda fase. L’effetto della
firma è quella di “congelare” l’accordo, che non può più essere modificato; inoltre gli stati devono
astenersi, a partire da quel momento, da qualsiasi comportamento che impedisca l’effettiva conclusione del
contratto. Ciò non vuol dire che uno stato non possa ritirarsi, ma non deve rendere impossibile attraverso
altri mezzi la conclusione dell’accordo. La terza fase è l’impegno sul piano internazionale, mentre la quarta
e ultima fase è la ratifica. Quest’ultima equivale all’assunzione dell’obbligo. La ratifica è tuttavia ancora un
atto unilaterale, perché l’accordo divenga bilaterale le volontà dei partecipanti devono incontrarsi,
entrambi (o più) devono depositare la ratifica. Quando l’accordo è multilaterale è sempre previsto un
numero minimo di ratifiche (stabilito di volta in volta) necessario a finché l’accordo entri in vigore. Finché
ciò non accade, l’accordo non entra in vigore neppure tra quegli stati che l’hanno già ratificato.

A fianco a questa modalità formale di stringere accordi esiste anche una forma semplificata, come abbiamo
accennato: il dato costante che contrappone questa metodologia alla precedente è l’assenza della ratifica:
la firma è sufficiente per avere l’impegno degli stati. La Convenzione di Vienna individua anche una serie di
organi (dello Stato) abilitati a rappresentarlo nella stipulazione di un trattato: i primi sono i famosi
plenipotenziari, altri sono il Capo dello Stato, il Capo del Governo e il Ministro degli Esteri, ma anche gli
agenti diplomatici. Tutti questi, al di fuori dei plenipotenziari, non hanno bisogno di dichiarazioni scritte per
essere delegati alla rappresentazione del proprio stato.

La nostra Costituzione (art.80) richiede però che gli accordi internazionali, almeno in alcuni ambiti, vengano
prima approvati in parlamento e poi firmati dal Presidente della Repubblica. La legge in merito a un
trattato/convenzione va considerata come autorizzazione: dopo l’emanazione di una legge in merito, lo
Stato è autorizzato e tenuto a ratificare l’atto, mentre ciò non vale per la possibilità di ritirarsi da esso.
Giuridicamente, un governo non dovrebbe consultare il parlamento per ritirarsi da un accordo
internazionale… Ma certamente è difficile pensare che politicamente ciò sarebbe accettabile, lo è solo
giuridicamente (ovvero non è previsto dalla Costituzione). Una prassi più problematica relativo all’uso della
forma semplificata della stipulazione degli accordi è relativo al dubbio se essi esulino dall’art. 80 della
nostra Costituzione o se siano pertinenti ad esso. La ratifica, con firma del capo dello Stato, è necessaria per
i documenti più importanti – quindi per gli accordi internazionali “meno rilevanti” ciò non è indispensabile?
No, nessuno lo vieta, se si sceglie la forma semplificata senza ratifica e senza firma del Presidente
l’importante è che non vi sia qualcun altro che si interponga alla firma al posto del Capo dello Stato. Tutti gli
accordi rientranti nell’art.80 non devono però eludere le prerogative del Parlamento – in quelle materie la
forma semplificata non può essere adottata. Nella prassi, gli accordi internazionali che rientrerebbero
nell’art. 80 a volte sono stati stipulati con la forma semplificata – è successo poche volte, ma è successo. Un
esempio ne è il Memorandum su Trieste (1954), il primo tentativo per risolvere la questione della città, che
era ancora in mani jugoslave, cosa obiettata da alcuni giovani triestini le cui manifestazioni erano state
represse nel sangue. Il Memorandum, che mirava a stabilire delle zone italiane e altre jugoslave, venne
siglato con il solo intervento del governo. Un altro memorandum, il Memorandum di Intesa con il Sudan
(2016), venne addirittura firmato dal Capo della Polizia italiana, e riguardava la collaborazione in materia di
delinquenza, emigrazione e rimpatri. Un altro esempio è l’Accordo di Collaborazione con la Libia in
relazione ai migranti nel Mediterraneo.

Considerando che la nostra Costituzione è molto rigida, a cosa si deve questa prassi (sebbene saltuaria)
fortemente in violazione di essa? Tale prassi è da considerarsi illegittima, tali atti sono illegittimi, a meno
che il Parlamento, dopo questo genere di episodi, non esprima il proprio consenso alla stipula di quegli
accordi: questo permetterebbe di sanare l’illegittimità. Il problema è anche far valere la legittimità
costituzionale, pure sostanziale, che giustifichi l’invalidità di un accordo: lo stato però che dovrebbe
chiedere l’invalidità di un accordo è proprio quello che lo ha stipulato – è molto improbabile, insomma, che
un governo che abbia fatto un Memorandum, faccia marcia indietro e si ritiri da un accordo. Ci vorrebbe un
nuovo governo, ma in generale anche tra governi diversi la politica estera viene condotta tendenzialmente
in continuità attraverso i diversi esecutivi. Nel 2018 un manipolo di deputati italiani (di diversi partiti e
compreso Pippo Civati) ha però presentato davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione con
il governo in merito alla mancata presentazione in parlamento della domanda di ratifica dell’Accordo con la
Libia, quindi una violazione dell’art.80. La Corte ritenne però inammissibile il ricorso, poiché il conflitto di
attribuzione non poteva essere sollevato da singoli deputati, ma da uno dei due rami del parlamento
(Camera o Senato) – quindi i giudici non si pronunciarono in merito. Una sentenza interessante fu tuttavia
la Sentenza n.112 del Tribunale di Trapani secondo la quale l’Accordo di Collaborazione con la Libia viola il
divieto di respingimento, ovvero la respingimento di rifugiati verso il territorio da cui fuggono. I giudici
stabilirono che la ratifica parlamentare sarebbe stata oltremodo necessaria – ovviamente i giudici siciliani
non potevano annullare l’accordo, ma lo ritennero invalido ai fini del caso concreto sotto il loro giudizio.

Un elemento preoccupante sono gli accordi segreti: la Carta dell’ONU prevede che gli accordi stipulati
vadano depositati presso le Nazioni Unite, se ciò non accade essi sono ancora validi, ma non possono
essere presi in considerazione dagli organi dell’ONU. Nel caso dell’Italia, se un accordo segreto rientrasse
nell’ambito dell’art.80, allora sarebbe sicuramente illegittimo – inoltre esiste una legge italiana ordinaria
che impone la pubblicazione, sulla Gazzetta, anche degli accordi stretti in modalità semplificata. Un’altra
legge relativa al segreto di Stato, tuttavia, fa sì che per motivi di tutela della sicurezza nazionale il governo
possa porre il segreto di stato, anche sugli accordi che rientrano nell’art.80. Per coniugare queste due leggi
contrastanti, il governo potrebbe chiedere al parlamento il permesso di non dover pubblicare i contenuti di
un accordo spiegando che tale scelta è dovuta alla tutela della sicurezza nazionale. Un accordo di difesa con
il Niger risalente al 26 settembre 2017, prevedeva l’invio di soldati italiani sulle coste del Niger in via
preventiva contro i flussi migratori: tale accordo fu tenuto segreto, ma è emerso tramite il lavoro di ONG e
giornalisti, come accade spesso. Una ONG fece ricorso al Tar del Lazio per ottenere la pubblicazione di
questo accordo, e alla fine il Tar del Lazio richiese infatti di pubblicarlo – cosa a cui il governo dovette
consentire. Un altro caso analogo è quello di Abu Omar, imam di Milano che venne rapito da agenti della
CIA nel 2003 con l’aiuto delle autorità italiane (vedere su Wiki).

26/11/2020

I principali aspetti del diritto dei trattati (Convenzione di Vienna del ’69 come punto di riferimento,
riproducendo essa gran parte del diritto consuetudinario – anche se vi sono anche norme non
corrispondenti ad esso): abbiamo visto come vengono stipulati, c’è un incontro di voleri condivisi e poi
entra in vigore, producendo obblighi comuni ad entrambi le parti. L’art.26 della Convenzione parla di pacta
sunt servanda. La validità giuridica di un trattato concluso si riferisce solo agli stati che lo hanno concluso,
come abbiamo già detto. In linea generale è quindi inefficace verso i terzi stati, come un contratto nel
diritto privato. Questa inefficacia in tal senso non esclude tuttavia la possibilità che un trattato (o una parte
di esso), nel tempo, venga a trasformarsi in norma consuetudinaria: un esempio ne è l’art.2, par.4 della
Carta dell’ONU – che vieta il ricorso all’uso della minaccia nei rapporti tra stati – è ormai non più una norma
solo pattizia tra gli stati membri ma una norma del dir. int. consuetudinario. C’è rilevanza pratica a
confermare ciò, all’interno della NATO, UE, UA e così via. Non si esclude quindi che vi siano anche accordi
multilaterali aperti, ovvero che contengono una clausola chiamata di adesione: ovvero di proposta, a stati
altri, di aderire all’accordo se lo vogliono. Ciò è molto comune negli accordi multilaterali. Quindi altri stati
possono entrare a far parte dell’accordo anche se non erano tra i firmatari originari. Non c’è nessuna
eccezione, però, alla regola dell’inefficacia in questo caso: gli stati terzi, infatti, a quel punto entrano a far
parte dell’accordo. Ci sono però proprio contenuti di trattati che si applicano anche a terzi a prescindere,
come quelli di denuclearizzazione: basti pensare anche al trattato di Washington del ‘59 sull’Antartide, che
è stato stipulato solo da alcuni stati ma che fa sì che l’Antartide goda di una condizione giuridica per cui
nessuno può comprare/conquistare parti del territorio antartico. In questo caso, non è il trattato che crea
obblighi per i terzi, ma è la situazione giuridica che si è venuta a creare, che crea il divieto.

La Convenzione di Vienna prevede la possibilità poi, e si parla di norme codificatorie, che due o più stati
concludano un accordo a favore (a vantaggio) di terzi: il diritto o obbligo, però, nasce se questo terzo
accetta l’accordo. Se non obietta ad un vantaggio concessogli, si presume che abbia accettato l’accordo,
poiché dopotutto è un vantaggio. Se invece si tratta di un obbligo, è necessario che lo accetti per iscritto.
Quindi, di nuovo, l’accordo crea norme ma solo tra chi le vuole/accetta/non le obietta.

Un tema di una certa complessità, anche per come è regolato nella Convenzione di Vienna, è quello
concernente la così detta incompatibilità fra trattati. Cos’è? È la situazione che si viene a creare quando
alcuni stati hanno concluso un trattato internazionale ma poi alcuni, o tutti, ne concludono un altro
incompatibile con il primo ed è materialmente impossibile rispettare entrambi. In questa disciplina si ha
un’ipotesi che vede le parti concludere un ulteriore accordo per modificare il precedente e risolvere
l’incompatibilità (emendamenti se sono modifiche relative a specifiche punti, altrimenti è una revisione, se
di carattere più generale – ma dal punto di vista giuridico non vi è differenza tra i concetti). Basti pensare
alle modifiche ai trattati di Roma e di Lisbona che hanno trasformato la Comunità Europea in Unione
Europea. Concettualmente, nell’incompatibilità abbiamo due trattati che confliggono (come detto, il
rispetto di entrambi è impossibile), mentre con la revisione si vuole intenzionalmente risolvere quel
contrasto. C’è una prima regola da applicare quando le parti dell’accordo incompatibile vogliono applicare
la revisione: è necessario che tutte le parti siano consenzienti al fatto che l’incompatibilità venga estinta. Si
ha così l’abrogazione tacita, con la nuova norma che estingue la prima automaticamente. Quando non c’è
piena coincidenza tra i due trattati (10 stati fanno un accordo e 5 di essi ne fanno un altro con la volontà di
modificare il prima) , si ha l’inefficacia degli accordi verso i terzi! Nella Convenzione di Vienna abbiamo una
casistica complicatissima in merito: tutte le varie ipotesi si fondano però su una regola unica, ovvero che nel
caso di parziale coincidenza, fra le parti si applica l’accordo più recente comune alla totalità di essi. Il
secondo accordo non può produrre effetti sugli stati che sono parti solo al primo. Riassumendo, se 10 stati
fanno un accordo incompatibile con un altro, 5 di essi decidono di applicare un emendamento/revisione
senza gli altri 5, quando si tratta di tutti e 10 varrà il primo accordo anche se incompatibile, mentre tra quei
5 che hanno fatto la revisione varrà il secondo.

Parliamo sempre di efficacia, non di validità, e questa è una grande differenza tra diritto interno e
internazionale: se internamente viene stretto un accordo dove si vende un bene (tipo una macchina) a due
persone con due contratti, il secondo non varrà, non avrà quindi validità (norma che nasce nel codice civile
napoleonico, il possesso come titolo). Ciò è dovuto al fatto che siamo in un diritto interno altamente
codificato, mentre nel diritto internazionale tutti i trattati si basano solo sul principio pacta sunt servanda e,
se vengono fatti degli accordi confliggenti, valgono tutti – tutti hanno validità – ma semplicemente i secondi
non avranno efficacia. Cosa può succedere quindi? Che uno stato può venirsi a trovare nella situazione in
cui è obbligato ad eseguire degli accordi in reciproco conflitto. Malta si trovò in una situazione simile
durante dei negoziati per cedere una base militare sia all’USA che all’URSS – non se ne fece niente, ma
mettiamo che ciò si fosse realizzato: in tal caso pacta sunt servanda, i trattati sarebbero però stati in
conflitto, e lo stato (Malta, in questo esempio) avrebbe per forza commesso un illecito internazionale verso
uno dei due “partner”. Avrebbe dovuto dare la base per forza ad uno di essi ma non all’altro, quindi
assolvendo un dovere ma compiendo un illecito allo stesso tempo.

Nel caso delle norme dell’ONU, però, è specificato da uno dei suoi articoli che le norme pattuite con la
Carta prevalgano, in caso di contrasto, su ogni altro trattato concluso prima o dopo di essa. Per quanto
riguarda gli emendamenti alla Carta dell’ONU, per attuarlo è necessario l’accordo di almeno 2/3 degli stati
membri: in quel caso, un emendamento ha efficacia anche sui terzi, ma allo stesso tempo tutti gli stati
hanno accettato questa regola quando hanno sottoscritto la Carta, quindi hanno acconsentito a questa
eventualità. Nell’UE, invece, una modifica da apportare ai suoi trattati necessita della ratifica di tutti i suoi
stati membri ( esempio della così detta Costituzione europea del 2004, non ratificata da nove degli stati
membri).

L’opponibilità ai trattati multilaterali: la possibilità di riserva da parte di uno stato parte ad un accordo al
momento o prima della firma, riguardante un articolo/clausola o più di uno/a. La riserva interpretativa o
eccettuativa è una dichiarazione unilaterale, dove un accordo o una rettifica sarà accettato/a da parte di
uno stato ma solo secondo una certa interpretazione. La Convenzione contro la discriminazione razziale
dell’ONU, ad esempio, venne accettata da alcuni stati, inclusi stati nordici europei, se il divieto di
discriminazione razziale non arrivava a contraddire il principio della libertà di parola ed espressione. Lo
stato che avanza la riserva, quindi, può ad esempio escludere un articolo che non vuole rispettare, ma ciò
non diverrà un suo privilegio, che riguarda solo lui, tutte le parti saranno sollevate da quella precisa clausola
( importanza della reciprocità, do ut des). L’accordo quindi si scompone. Se uno stato non può fare una
riserva, ma aderisce comunque con questa riserva (non apponibile) allora esso rimane fuori dall’accordo, la
sua aderenza non è accettabile.
Sorge però un problema nelle zone grigie di questa materia: i trattati che non dicono nulla sull’apponibilità
di riserve. Nell’incertezza, la regola originaria era che in tal caso uno stato non può apporre le riserve, a
meno che il trattato non lo ammetta espressamente. In un parere del 1951 della CIG (che non è vincolante
ma gode di grande autorevolezza) i giudici si pronunciarono in merito, in particolare in relazione alla
Convenzione contro il genocidio del ‘48, dicendo che, se la riserva è espressamente vietata allora non si può
fare, ma se il trattato non dice nulla allora le riserve sono apponibili (fintanto che tali riserve non mutilino in
modo decisivo il contenuto del trattato) – ad esempio, nel caso del genocidio non poteva essere apposta
una riserva che legalizzasse, praticamente, il genocidio. La riserva dev’essere quindi compatibile con
l’oggetto e lo scopo del trattato in questione. L’opinione è stata ripresa dalla Convenzione di Vienna, dove si
è estesa ancor di più la tolleranza verso le riserve: la riserva, si disse, non poteva riguardare solo lo stato
che l’esprimeva ma doveva valere per tutte le parti, una volta accettata. L’accordo viene, quindi, concluso
ma senza la clausola oggetto della riserva. Se una o altre parti non sono d’accordo con la riserva e con
l’esclusione della clausola, deve/devono esprimere la sua/loro obiezione e dichiarare che essa sarebbe in
conflitto con lo scopo e oggetto del trattato, allora non varrà per lui/loro. Secondo la Convenzione,
insomma, il trattato si concluderà ma sarà possibile tirarsene indietro. La prassi ha portato, nel tempo,
anche alla possibilità di riserve avanzate dopo la ratifica (!), cosa non prevista in origine dalla Convenzione
di Vienna – questo insomma permette ad una parte di liberarsi, in modo unilaterale, di una parte degli
obblighi del trattato. La norma comunque, oggi, è che se una riserva viene avanzata ma un’altra parte non
accetta la riserva, allora l’accordo non si applica tra questi due stati. Tutte queste regole sono venute a
consolidarsi specialmente per convenzioni multilaterali che tendono a tutelare la persona umana: relative a
genocidio, discriminazione razziale, diritto umanitario… Quindi ciò che la comunità preferisce è, nonostante
ci siano riserve, accettare quest’ultime piuttosto che non ottenere proprio questi accordi. Meglio tutelare
un minimo le persone, che non farlo affatto.
Nelle convenzioni sui diritti umani non esistono però organi di controllo: la Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo si occupa di questo, ma ci sono Convenzioni dell’ONU che non prevedono organi di controllo
preposti che possano emanare sentenze, ma solo opinioni o valutazioni, dove si condanna uno stato che
infranga i diritti umani ma senza che ciò alcun vincolo giuridico. La CEDU ha affermato che, se uno stato
avanza una riserva contraria alla convenzione stessa, allora la riserva dovrebbe semplicemente essere
ignorata, mentre lo stato in questione sarebbe da considerarsi comunque parte dell’accordo. Tale dottrina
è stata definita severability doctrine, mentre in latino si parla di vitiatur sed non vitia - altro brocardo che
serve a dire che l’inutile non vizia l’utile. Tendenzialmente quindi le riserve tendono a cedere dinanzi i
giudici, come teste.

Dobbiamo passare all’ermeneutica dei trattati, quindi alla loro interpretazione. Tale interpretazione si
applica sia agli operatori giuridici interni che non. Ad oggi le norme codificate a Vienna ne offrono una
ottima base, perché sancite come generali e quindi rappresentanti ermeneutica universale. Sono simili al
metodo di analisi della legge fatta nel diritto interno italiano.
Gli accordi vanno interpretati con il senso comune delle parole in cui sono scritte, quindi letteralmente ciò
che nasce dalla norma, ma tenendo conto di oggetto e scopo del trattato, perché questi sono elementi
oggettivi. Tali elementi ci fan andare al di là di una spiegazione squisitamente letterale, ma essi rimangono
oggettivi. In tal senso quindi scopo e oggetto sono teleologici anche verso l’interpretazione. Ad oggi i lavori
preparatori son di per sé sussidiari, ovvero solo se ci son dubbi sulla teleologia del trattato nella sua forma
finale.
Ci son altre questioni che si aprono sui trattati internazionali relativi alla questione linguistica. Salvo che in
accordi tra paesi che parlano la medesima lingua, le parti degli accordi usano sempre le loro lingue. Se è
multilaterale, si mettono più lingue. Dall’ONU, ci si aspettano in tutte le lingue ufficiali (russo, cinese, arabo,
francese, spagnolo, inglese). Giuridicamente fa sempre fede la lingua della sua scrittura originale. Se un
testo è pluri-linguistico e vi son contrasti, di norme che son diverse tra edizioni linguistiche, si deve trovare
un senso comune sulla base teleologica. Si devono armonizzare i testi. 

Ci son anche quei trattati che puntano ad esempio a porre nei sistemi giuridici delle norme di diritto
uniforme, ad esempio. In tal caso, convenzioni di questo genere, che son molto utili perché facilitano i
traffici giuridici dai vari diritti interni, usano dei termini tecnici che in lingue diverse potrebbero essere
diversi. I termini tecnici non hanno mai lo stesso significato in tutti gli ordinamenti. La responsabilità
precontrattuale, ovvero la responsabilità di chi, in una fase di precontratto, rompe le trattative in malafede,
ha una sua responsabilità che deriva da fatto illecito o contratto? Potrebbero cambiare, tra due nazioni, le
regole.
La stessa residenza varia. In Italia la residenza è la dimora abituale. Ma per la Francia? O la Germania? La
residenza potrebbe differire. Il termine tecnico è molto importante e quindi è rilevante il ruolo di trattati
uniformanti, in tal senso. Il giudice, che è spesso statale in tali casi, avrà la tendenza legeforista, un
neologismo, che sancisce la legge del foro, ovvero spieghiamo qui la tentazione naturale dinanzi il termine
tecnico del giudice di dargli l’interpretazione nella sua “legge”. Ovviamente dinanzi il termine residenza, il
giudice italiano andrà a vedere la cosa come la dimora abituale. Ciò però finirebbe per portare a risultati
vari e diversi, che sia esso italiano o francese. Il ricorso ai propri concetti e termini tecnici finirebbe per
vanificare l’obiettivo stesso di tali convenzioni, che è di uniformare le regole dinanzi i giudici nazionali. Tale
tendenza deve essere quindi rallentata.

Un tempo lontano si diceva che i trattati andassero “restrittivamente” interpretati, ovvero cercando il più
ristretto ambito di obblighi di uno stato, dinanzi la sua libertà sovrana quindi bisogna rallentare. L’obbligo di
un accordo è sempre l’eccezione rispetto alla regola. Ad oggi tale idea è tramontata, ma siamo a volte
dinanzi il vincolo opposto, ovvero un’interpretazione eccessivamente estensiva.

01/12/2020
Estinzione dei trattati: le cause più frequenti sono quelle esplicate negli stessi trattati internazionali, ovvero
quando viene specificata una data di scadenza. Pensando a quelli europei vi è ad esempio il Trattato di
Parigi del 1951, che istituì la CECA e che prevedeva una validità di 50 anni. Come pure esistono trattati che
attribuiscono agli stati parte la possibilità di uscire dal trattato, anche in via unilaterale, o di estinguerlo. Si
parla di diritto di denuncia quando il trattato è bilaterale (e che se usato causa necessariamente
l’estinzione), mentre se il trattato è multilaterale si parla di recesso, che se adottato non implica l’estinzione
anche per gli altri stati parte. Un esempio di quest’ultimo fenomeno è la Brexit. Un’altra ipotesi, tratta dal
diritto amministrativo, è quella attributiva (poco comune). Si è poi parlato dell’incompatibilità dei trattati:
un trattato può essere estinto appositamente e specificatamente, ma ciò può accadere anche se viene
stipulato un accordo incoerente con quello causandone quindi l’estinzione. Si ha estinzione del trattato
anche in caso di violazione sostanziale dello stesso: pensiamo ad uno bilaterale, se uno stato lo viola in
modo sostanziale l’altro stato ha il potere di denunciarlo e quindi di estinguerlo o, se lo preferisce, di
sospenderne l’applicazione (un po’ come la sospensione del contratto per inadempimento nel diritto
privato). Alcuni trattati sfuggono però a questa regola: l’inadempimento di una parte non risulta nel recesso
o la denuncia delle altre, questo accade nel caso dei trattati che tutelano la persona umana, come la
Convenzione europea per i diritti dell’uomo o i trattati internazionali sul diritto umanitario. La logica di ciò è
che tali accordi hanno come reale beneficiario della tutela non gli stati nei loro rapporti reciproci, ma i loro
cittadini, la persona umana, indi per cui la possibilità di recesso/denuncia non gioverebbe ai destinatari del
contenuto del trattato, come invece dovrebbe essere quando è concessa la possibilità di recedere.
Generalmente, nelle convenzioni sui diritti umani, nel caso di violazioni sono istituiti procedimenti
giudiziari, o quasi giudiziari, ai quali possono ricorrere gli altri stati o gli individui stessi. Mentre le cause
finora citate per l’estinzione di un trattato sono praticamente tratte dal diritto privato, vi è anche una
modalità propria del diritto internazionale: il mutamento fondamentale delle circostanze. Si parla quindi di
una clausola detta regula sic stantibus (“stando così le cose”). Qual è il senso di questa clausola/regola?
Essa è consuetudinaria, e secondo essa uno stato può recedere da o sospendere un accordo se i fatti e le
circostanze decisive nella conclusione del trattato sono mutate in maniera radicale. Non si parla di
circostanze marginali, ma della ragion d’essere dell’accordo. Un esempio di questa dinamica fu l’accordo di
cooperazione commerciale tra la CEE e la Jugoslavia: esso fu considerato estinto (1998) dopo che la
Jugoslavia si era disgregata e tale disgregazione giustificava l’estinzione dell’accordo, essendo venuta meno
una condizione basilare, ovvero l’esistenza di una delle due parti. Leggendo anche la norma a riguardo nella
Convenzione di Vienna (come abbiamo detto, è consuetudinaria), si vede che l’accordo rimane tale finché
“stando così le cose” – in caso contrario, l’accordo viene meno. Un’ulteriore causa di estinzione degli
accordi, automatica, è la sopravvenienza di una norma ius cogens (norma di diritto consuetudinario
inderogabile), quindi all’apice del sistema delle fonti del diritto internazionale. Quindi, se nasce una nuova
norma cogente, gli accordi incompatibili con essa diventano nulli. Una complessa problematica, invece, non
è regolata dalla Convenzione di Vienna: gli effetti della guerra sui trattati. Che succede se fra le parti di un
trattato scoppia una guerra? Gli autori della Convenzione non se ne occuparono, ma parecchi anni dopo la
Commissione del Diritto Internazionale ha cominciato anche a lavorare a questa questione, arrivando ad un
progetto di articoli nel 2011, ancora non tradotto in una convenzione internazionale.

Si parla più che altro, comunque, di effetti dei conflitti armati sui trattati, più che della guerra, così da
ampliare il concetto (mentre la guerra si applica, come termine, a conflitti esclusivamente tra entità statali).
Quale potrebbe essere la sorte dei trattati nel caso di conflitti armati? La prassi internazionale non è
univoca, è spesso demanda alla volontà di chi ha vinto il conflitto cosa fare dei trattati. Un esempio
clamoroso è il Trattato di Pace del 1947 tra Italia e gli Alleati: quest’ultimi si riservavano il diritto di decidere
se esso rimaneva in vigore o veniva estinto. Ciò genera una difficoltà nel determinare delle coordinate
nell’ambito di questa materia. Sicuramente, comunque, ci sono degli accordi destinati ad applicarsi proprio
alle condizioni di guerra (come le Convenzioni di Ginevra del ’49) – prima si parlava di diritto bellico, ma
oggi si dice diritto internazionale umanitario. Una categoria di accordi che invece si estinguono in caso di
guerra/conflitto sono sicuramente quelli di collaborazione militare, essendo incompatibili con un conflitto
tra le parti che lo hanno precedentemente firmato. Ciò avviene in maniera automatica? Sarebbe bene che
uno stato lo esprimesse esplicitamente, soprattutto se lo considera estinto o sospeso. In linea di massima,
comunque, salvo quelli di diritto umanitario in genere gli accordi vengono sospesi.. ma esistono comunque
delle eccezioni: gli accordi per la tutela dei diritti umani (cosa diversa dal diritto umanitario!). La Corte
Europea di Giustizia si è espressa esplicitamente al riguardo, dicendo che essi rimangono in vigore anche
durante un conflitto armato, così che la persona possa essere tutelata da due fasce di norme – il diritto
umanitario delle Convenzioni di Ginevra e le convenzioni sui diritti umani. Un esempio in questo senso è
fornito dai territori occupati da Israele (West Bank e Striscia di Gaza), dove si applicano le Convenzioni di
Ginevra. La CIG, dovendosi pronunciare sulla costruzione del muro da parte di Israele sul confine dei
territori occupati, la definì illecita poiché essa ostacolava il diritto allo studio dei bambini palestinesi. Altre
categorie di convenzioni che continuano ad applicarsi in stato di guerra sono quelle sul regolamento delle
controversie, poiché non viene meno la possibilità di ricorrere ad arbitrato per redimerle (laddove le parti
abbiano sottoscritto un accordo al riguardo). Un altro esempio sono le convenzioni sull’ambiente e quelle
sulle relazioni consolari (anche se solitamente, se c’è un conflitto, quest’ultime vengono sospese
volontariamente).

Tornando alla Convenzione di Vienna del 1969, ci resta da considerare le cause di invalidità dei trattati
(finora abbiamo elencato quelle di estinzione), le cause quindi che viziano un accordo: le due cause
principali sono rappresentate dalla 1) violenza usata per concludere un accordo e 2) il contrasto con le
norme imperative del diritto internazionale (ius cogens). Art.53 della Convenzione di Vienna  un accordo
in conflitto con una norma imperativa è nullo. Esistono altre cause di invalidità, che sono però sanabili,
mentre in questi due casi non lo sono. Un’invalidità può poi essere limitata ad una clausola e non a tutto il
trattato, ma nel caso di violenza e incompatibilità con lo ius cogens, non si parla di singole clausole ma
l’intero trattato diviene invalido. Le cause di invalidità per violenza, poi, possono essere invocate solo da
uno degli stati parte: solo uno può denunciarlo. Nel caso di contrarietà dello ius cogens, invece, l’invalidità
non è da invocare ma semplicemente automatica. Ma guardiamo ora le altre cause di invalidità, che
possono e devono essere invocate per invalidare l’accordo:

- Errore, che si determina quando uno stato ha ricevuto una falsa rappresentazione di uno degli
elementi fondamentali dell’accordo, e il dolo, quando uno stato parte ha avuto un comportamento
fraudolento che, di nuovo, inganna l’altra parte (entrambi molto rari)
- Violazione delle norme interne dello stato concernenti la competenza a stipulare, ovvero la
stipulazione dell’accordo da parte degli organi sbagliati di uno stato. Se c’è una violazione grave di
queste norme sulla competenza, lo stato in questione può denunciare l’accordo e invocare la causa
di invalidità, a condizione che la violazione sia grave e che sia riconoscibile dall’altra parte
dell’accordo. La regola generale è che uno stato non possa invocare il proprio diritto interno per
liberarsi di un trattato, quindi la violazione dev’essere proprio palese e, diciamo, “oggettiva”.

Tornando alla violenza per la conclusione di un trattato, essa si scinde in due ipotesi diverse: la prima, più
tradizionale, si riferisce alla coercizione attuata sugli organi o i rappresentanti di uno stato – questa causa è
considerata da sempre una causa di invalidità per un trattato (un caso è quello del Trattato di spartizione
della Polonia del 1772, che venne ratificato dalla Polonia perché la dieta polacca fu circondata dalle truppe
russe, prussiane e austriache; un esempio più recente è il Trattato di Berlino del 1939, con il quale la
Germania nazista acquistava un protettorato su Moravia e Boemia, dove l’anziano presidente cecoslovacco
fu convocato a Berlino e minacciato in diversi modi al fine di fargli firmare l’accordo); una seconda teoria
prevede che l’oggetto della violenza non sia un organo/un rappresentante dello stato ma lo stato stesso,
attraverso, ad esempio, dei bombardamenti. Anche la Convenzione di Vienna tratta queste due ipotesi
separatamente, in due articoli diversi, e la seconda ipotesi non prevede l’invalidità del trattato! Questo
perché la guerra era prima considerata un mezzo lecito nelle relazioni internazionali. Come causa di
invalidità, questa seconda ipotesi si è fatta però strada, progressivamente, diventando consuetudinaria, a
partire dalla Carta dell’ONU. Anteriore alla Carta dell’ONU, vi era stata comunque la consolidazione di
norme contro la violenza (caso della Manciuria invasa dal Giappone) e gli accordi di Monaco (tra Italia,
Francia, Germania e Gran Bretagna).

Brevemente, nessuno ha mai dubitato che comunque la violenza sugli organi sia motivi di invalidità. Ancora,
però, la minaccia può rivolgersi direttamente allo stato, minaccia che può esplicitarsi via bombardamenti,
blocchi, embarghi, minaccia di invasione. Sono due ipotesi che la Convenzione di Vienna tratta in due
articoli diversi non a caso. Prima di Vienna, nel diritto internazionale ciò non era motivo di invalidità di
solito. L’uso di guerra e forza armata era strumento lecito e fisiologico. La guerra è la prosecuzione della
diplomazia, avrebbe detto qualche tedesco. Questa nuova clausola quindi nasce quando il conflitto armato
offensivo diventa in qualche modo illecito. La stessa norma diventa lentamente consuetudinaria quindi e
Vienna ne fa lo stato dell’arte. Ci sono esempi anche prima però. Un esempio classico di nuovo lo abbiamo
con l’accordo di Monaco del 29-30 settembre 1938 con cui Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna si
decise che la Cecoslovacchia avrebbe ceduto i Sudeti alla Germania nazista. Quest’ultima ovviamente aderì
perché sotto minaccia. Interessante che su cause private non ci fu riconoscimento dei cittadini dei Sudeti
come tedeschi.

Ancora, c’è un altro tema che è quello della successione degli accordi tra stati. In generale, vi è una
tradizione di renderli validi per i successori. Cosa succede per i trattati conclusi dagli stati, se gli stati
subiscono poi dei fenomeni che incidono sulla loro comunità territoriale o addirittura sulla loro
soggettività? Ci son regole tendenzialmente sicure e altre problematiche. Una prima regola sicura è quella
che viene chiamata come mobilità delle frontiere dei trattati (è figurativo ovviamente). L’ambito territoriale
dei trattati, si intende, si allarga, restringe a seconda che lo stato parte del trattato abbia ammendato i suoi
confini in espansione o riduzione. In caso di estinzione del primo stato, o ci son due nuovi stati, insomma in
cui il mutamento è accompagnato anche da mutamento del soggetto sovrano, ebbene in questi casi i
trattati del vecchio stato restano in vigore e si applicheranno al nuovo stato solo se sono trattati
“localizzabili”, ovvero che hanno come riferimento e oggetto un luogo preciso (lago, diga, fiume). Esempio è
il trattato tra Ungheria e Cecoslovacchia sull’uso della diga sul Danubio, sulla sua gestione e la navigazione
su quella parte del fiume. Nel 1997 ci fu una sentenza della CIG sul tema, a seguito della controversia tra
Ungheria e Slovacchia, stato che ha ereditato quel pezzo. Per la CIG l’accordo originario tra Cecoslovacchia
e Ungheria si applica anche alla Slovacchia perché localizzabile, successione quindi presente. Ci sono
eccezioni, riguardanti i trattati localizzabili ma i cui oggetti hanno grande importanza sul piano politico-
strategico. Un accordo militare che prevede basi militari, quindi, è sensibile e localizzabile, ma non si
eredita di stato in stato.
In generale quindi, oltre i trattati generali localizzabili, per gli accordi internazionali il mutamento di
sovranità determina estinzione d’accordo. Si ha un effetto di tabula rasa. Solo per gli stati nati dalla
decolonizzazione c’è un totale tabula rasa. La norma consuetudinaria invece si diffonde a tutti.
Rispetto a questa regola, nella prassi, gli stati vogliono spesso una serie di meccanismi e strumenti vari che
in qualche modo attenuano la rigidità della regola. Una prima prassi diffusa è il rinnovo tacito degli accordi,
anche esplicito a volte, tra il terzo contraente e il nuovo stato sovrano quindi si decida di mantenere
l’accordo in vita tramite. Il rinnovo o è esplicito o semplicemente seguendo una spontanea esecuzione
dell’accordo. In questo caso abbiamo tre contraenti che sono lo stato originale estinto, quello originale
rimasto e il nuovo stato.
Ancora, un’altra prassi è sugli accordi di devoluzione. L’esempio è quello tra India e Regno Unito, con un
accordo di devoluzione per far andare l’India al posto del Regno Unito in un accordo toccante territori
l’India. Poiché gli accordi son inefficaci sui terzi, l’accordo di devoluzione è tra India e Regno Unito, ma non
con l’Italia paese terzo. Solo se anche il terzo, l’originario contraente in qualche modo è d’accordo, tale
accordo di devoluzione è valido.
Analogo caso lo abbiamo per le dichiarazioni unilaterali con cui l’ex colonia dichiara di voler subentrare alla
vecchia madrepatria e notifica tale intenzione a tutti gli stati contraenti l’originale accordo o
all’organizzazione originale, ma anche in questo caso tale prassi prevede che gli stati accettino. La dottrina
di Mierere, grande paladino dell’indipendenza africana, prima presidente del Tanganica e poi della Tanzania
stessa dopo l’unione, aveva enunciato tale dottrina politica per cui gli stati de-colonizzati ci diamo una
pausa di riflessione e poi unilateralmente ci proponiamo in caso di partecipare al trattato. Ma è una prassi
che, anche questa, può determinare successione se gli altri accettano tale dichiarazione. Volendo
approfondire, si potrebbe guardare alla sentenza di Cassazione Penale Italiana 23 marzo 2017, 14317,
sull’estradizione tra Italia e Regno Unito “Trattato per la reciproca estradizione dei malfattori”, in cui si
mette in rilievo che le Mauritius avevano fatto richiesta di succedere alla Gran Bretagna, l’Italia non aveva
aderito alla richiesta delle Mauritius e quindi, in tal caso, c’era tabula rasa in tal senso.
Altra sentenza, se si vuole, è quella del 2 settembre 2020, 24944, sempre Cassazione, in cui abbiamo lo
stesso trattato ma con la Nuova Zelanda, che aveva fatto la medesima dichiarazione a subentrare a cui
sempre l’Italia non aveva aderito. 
Su convenzioni di diritto umanitario la prassi vuole che il nuovo stato, quello nato appena che non faceva
parte della convenzione originaria, come quelli nati dopo la fine della Jugoslavia quali Serbia o Croazia,
notifichi di aderire alle convenzioni (che essendo multilaterali aperte, consentono con scelte unilaterali
individuali di entrare a far parte). In tal senso la convenzione opera, fatta la dichiarazione, ex hunt, fin dalla
nascita dello stato quindi. Sono retroattivi.

3/12/2020

Abbiamo parlato dell’invalidità dei trattati ottenuti con l’uso della forza o la minaccia ad usarla. Per le
minacce di altre tipo, quali ad esempio di leva economica, sussiste sempre l’invalidità? È un tema che nei
lavori che hanno portato alla convenzione del 1969 fu oggetto d’esame, più nella conferenza che all’interno
della commissione del diritto internazionale. Perché la commissione era composta più da giuristi mentre la
conferenza aveva una natura essenzialmente politica. I paesi del terzo mondo, in via di sviluppo o nati dalla
decolonizzazione, cercarono a lungo di ottenere che quella norma che comportava l’invalidità da minaccia,
comprendesse anche le minacce di forza economica e ideologica. Tale richiesta, tuttavia, non trovò il
consenso dell’intera conferenza. Come il tema della procedura di risoluzione delle controversie, anche
questo fu un tema che rischiò di spaccare la conferenza stessa. Fu raggiunto un compromesso: la norma
della convenzione di Vienna si limitò alla minaccia armata, ma fu adottata una dichiarazione (non nel testo)
nella quale si condanna la minaccia economica. Fu una concessione, mettiamola così, alla tesi o pretesa dei
sopracitati paesi.

I rapporti fra il diritto internazionale e quello interno:

Essi vanno ricostruiti dall’osservazione che, di per sé, sia il diritto internazionale che quello statale sono
ordinamenti giuridici, distinti l’uno dall’altro. Distinti e ugualmente originari. Ovvero, entrambi trovano in
se stessi la propria ragion d’essere. Quindi il loro rapporto è di natura dualistica. Si parla infatti di teoria
dualista, nell’analizzare il rapporto tra questi due diritti. Esistono però anche teorie moniste, che ritengono
quello internazionale un grande ordinamento onnicomprensivo anche dei singoli ordinamenti statali. Uno
dei più grandi sostenitori della teoria monista fu Hans Kelsen (teoria pura del diritto). Tendenzialmente
prevale però la teoria dualista. La gran parte degli stati, infatti, si atteggia nelle proprie norme partendo dal
punto di vista che i due ordinamenti siano separati e distinti. Quindi la teoria dualista è corroborata
dall’atteggiamento della gran parte degli stati. Il presupposto della separatezza è ben radicato, insomma.
Anche l’ordinamento italiano si pone in questo orientamento.

Ciò premesso, è anche vero che affinché le norme di diritto internazionale possano essere efficaci e
concretamente applicate, è necessario che a livello statale si ponga una norma, non identica a quella
internazionale, ma che permetta a quella internazionale di vivere anche nell’ordinamento interno. Perché
questo? Ciò è dovuto al fatto che il DI pone dei diritti e degli obblighi per gli stati, ma perché essi vengano
attuati è necessario che la norma interna rivolga all’individuo, agli organi dello stato e ai giudici dello stato i
contenuti della norma internazionale: ad esempio, dev’essere chiaro al giudice nazionale che gli stati
stranieri godono di immunità dalla giurisdizione così che, ad esempio, sia chiaro che un cittadino non può
far causa ad uno stato straniero. Si deve esplicitare questa mancanza del potere giudiziario. Altro esempio,
alcune convenzioni relative a crimini internazionali chiedono agli stati di operare per la prevenzione di tali
condotte (vedi la Convenzione del 1965 contro i crimini razziali – essa chiede agli stati parte di intervenire
su e combattere il fenomeno dell’incitamento pubblico all’odio razziale, affinché il fenomeno venga
arginato ed eliminato. È necessario che ci siano norme nel diritto penale interno che rendano l’incitamento
all’odio razziale reato). Se non c’è una legge a livello interno coerente con il diritto internazionale, è difficile
che certe condotte vengano represse. Ci dev’essere dunque una corrispondenza tra norme internazionali e
nazionali. Questa necessità dà luogo a quel procedimento chiamato adattamento (del diritto interno a
quello internazionale), quindi la nascita di nuove norme interne per far sì che il diritto internazionale sia
effettivamente applicato. Questa esigenza si pone poiché questi due ordinamenti sono distinti e separati. Se
vi fosse una visione unitaria, monista, questo procedimento non sarebbe necessario (tali casi esistono,
nazioni che seguono questa dottrina, ma sono molto pochi). Volendo definire più precisamente
l’adattamento, potremmo dire che è un procedimento normativo – esso crea delle nuove norme, in modo
tale da adeguare il diritto interno alle norme internazionali. Questi adattamenti possono essere di due tipi:
1) ordinario, quindi viene usato lo stesso strumento giuridico attraverso il quale, ordinariamente, si
emanano nuove norme (la legge ordinaria) – la nuova norma non si distingue in alcun modo da altre leggi
dello stato. Un esempio del genere è la legge cambiaria, o il diritto universale uniforme (applicazioni,
quindi, delle convenzioni internazionali). Il legislatore ha davanti a sé una norma internazionale è la
rielabora sufficientemente ad adeguarla al diritto interno, niente più. 2) speciale, un procedimento che ha
come specifica ed esclusiva finalità quella di dare esecuzione all’interno ad una norma internazionale. Come
si snoda questo procedimento? Esso opera mediante un rinvio, non si ha una riformulazione della norma
internazionale come nel caso del procedimento ordinario, l’atto interno non ha un suo articolato ma
semplicemente ci si rinvia alla norma internazionale, dicendo all’operatore giuridico che deve dare piena
applicazione a quella tale norma internazionale, senza rivederla. Si lascia all’interprete, in primis il giudice, il
compito di individuare tutte le norme interne necessarie per avere l’applicazione di quella internazionale
(questo principio è contenuto nell’art.10 della nostra Costituzione).

Le norme interne che nascono a seguito del procedimento ordinario, possiamo dire, se le deve
“immaginare” il legislatore: analizzare il diritto internazionale e in base a quello ricavare le norme interne
da applicare. Nel secondo caso, invece, quello speciale, è l’interprete giuridico il protagonista
dell’operazione. In via generale, possiamo dire che il secondo procedimento sia preferibile, poiché quello
ordinario presenta degli inconvenienti: innanzi tutto la possibilità che il legislatore sbagli, producendo delle
norme inadeguate/scorrette/insufficienti, in tal modo condannando il giudice a violare il diritto
internazionale. Inoltre, nel procedimento ordinario, anche ammettendo che il legislatore sia stato preciso
ed accurato, può succedere che la norma internazionale cambi nel tempo (una norma consuetudinaria può
evolvere, un trattato si può estinguere, ad esempio), ma la legge interna rimarrebbe tale e sarebbe
insensibile alle mutevoli vicende del diritto internazionale. Questo potrebbe portare all’applicazione di una
norma ormai inesistente o modificata. Nel procedimento speciale del rinvio, invece, non si ha alcuna
“cristallizzazione” delle norme internazionali.

Tutto ciò non deve portarci a pensare che vada sempre usato il procedimento speciale, può anche essere
necessario applicare delle norme specificatamente interne, in alcune condizioni: ad esempio nell’ipotesi in
cui la norma internazionale sia vaga, incompleta, e non disponga di tutti gli elementi per essere applicata
da un giudice a livello interno. È necessario che la norma sia self-executing. Ad esempio, il rinvio non è
possibile se la norma internazionale non pone un obbligo (tipo quello di riconoscere l’immunità), ma
attribuisce semplicemente una facoltà, dopodiché sarà una scelta politica se esercitarla o meno. La zona
economica esclusiva, mettiamo, è una zona di mare costiera dove, fino a 100 miglia, uno stato può operare
in senso esplorativo, di sfruttamento o protezione dell’ambiente – ma la zona in questione non appartiene
automaticamente agli stati, va istituita, creata, altrimenti l’esclusività non sussiste. Per quanto riguarda la
piattaforma continentale, che riguarda i fondali, l’appartenenza agli stati è automatica – nel caso della zona
economica esclusiva no. L’Italia, fino a poco fa, aveva una posizione di ZEE-fobia: aveva zone archeologiche
e di pesca, ma non aveva ancora istituito la sua zona economica esclusiva.

Con che procedimento l’ordinamento italiano si adatta a quello internazionale? Intanto, quando si parla di
procedimento speciale per rinvio, l’adattamento (la conformazione regolata anche nella nostra
costituzione, art.10) vede l’inserimento della norma internazionale nell’ordinamento interno… ma qual è il
rango che la norma internazionale assume nel nostro ordinamento? Quale valore ha? Nel caso del diritto
internazionale consuetudinario, si hanno sia consuetudini ordinarie che norme imperative (ius cogens), e
l’art.10, comma 1, dice che l’ordinamento italiano si conforma ad esso e tale adeguamento dovrebbe
essere automatico ed immediato. Appena nasce una norma consuetudinaria, simultaneamente la nostra
legge si conforma ed esse assumano un valore di norma costituzionale (poiché il loro inserimento è
regolato dal citato art.10). Quali sono le conseguenze di ciò, soprattutto rispetto alla legge ordinaria? Se
essa contraddice la norma internazionale consuetudinaria, tale legge è incostituzionale! Deve quindi essere
sottoposta alla Corte costituzionale.
Un altro motivo può essere che di per sé l’articolo 10 dice che “tutto l’ordinamento”, ivi anche la
costituzione, si conforma a quel diritto internazionale meritevole di rinvio. In qualche modo, essendo quindi
la costituzione di per sé il diritto vivente, anche il diritto internazionale vi entra a mani basse. Da molti anni
la stessa Corte costituzionale ha sancito che vi sono dei principi che in qualche modo sono sopra-
costituzionali, supremi, quelli in cui si esplicita l’identità stessa della costituzione, quali i principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inviolabili della persona ed è stato sancito anche in
una sentenza della Corte stessa. Per essa la costituzione italiana, ad esempio, sancisce dei diritti inviolabili
che non si possono toccare, nemmeno con norme esterne o revisione costituzionale, come l’articolo 139 o
il dovere di non usare l’offesa come strumento di guerra. Sono dei contro-limiti, diciamo così. 
238 del 2014, sentenza della Cote costituzionale, ci spiega un po’ meglio la questione. Con questa la Corte,
dopo che l’Italia aveva perso la causa con la Germania dinanzi la CIG il 3 febbraio 2012, aveva affermato che
la giurisdizione italiana sussisteva e non c’era immunità se l’azione civile per risarcimento contro lo stato
trova fondamento nella violazione dei diritti fondamentali per crimini internazionali, quindi violazione di ius
cogens. La Corte di Cassazione aveva affermato che essendo stato Ferrini internato in un campo di
concentramento, aveva subito una violazione da parte dello stato tedesco. La nascita della norma di ius
cogens, contro il divieto di tali crimini, faceva sì che la norma sull’immunità della giurisdizione arretrasse e
che, sebbene la condotta tedesca fosse iure imperi, ovvero atta non privatamente ma pubblicamente dallo
stato, inteso come ente sovrano, la Cassazione aveva tolto l’immunità da giurisdizione. La Germania fece
causa alla CIG e l’Italia perse. La CIG affermò che era tutto vero ma rimaneva in ogni caso l’immunità. Tutta
la via Corte costituzionale ha dichiarato che bisogna salvaguardare i principi della Costituzione e dell’Italia,
così fregando la regola ordinaria internazionale.

10/12/2020

L’adattamento, quindi, avviene o attraverso procedimento ordinario o procedimento speciale di rinvio


(ordine di esecuzione). Il procedimento tramite rinvio determina una piena corrispondenza tra norme
interne e internazionali (provenienti da trattati), perché l’operatore giuridico si ritrova dinanzi tale processo
di dover riprendere sempre l’accordo iniziale. L’ordine di esecuzione è possibile solo se il trattato è
ovviamente sufficientemente compiuto, self-executing come si è detto. Se ciò non è il caso di un trattato,
occorre il procedimento classico. Spesso si ha invece un procedimento misto, ovvero l’ordine di esecuzione
e poi delle ulteriori disposizioni per attuare tutti i profili del trattato, anche quelli per i quali il mero rinvio
non è sufficiente.
L’ordine di esecuzione, giuridicamente, ha come forma, in termini di adattamento, che cosa? Se l’ordine
incide su materie costituzionali, per cambiarle e incidervi ci vorrà una legge costituzionale, sia come
esecuzione che procedimento ordinario. Se, come accade il più delle volte, l’adattamento incide sulle leggi
ordinarie, bisognerà modificare le stesse, e a tale scopo è quindi sufficiente una legge ordinaria, mentre in
caso di materie non regolate potrebbe bastare un regolamento amministrativo. Servono atti amministrativi,
insomma, non per forza di matrice legislativa.
Sul tema legge costituzionale, abbiamo un’ipotesi rara ma non è impossibile. Per esempio, l’Italia diede
pronta esecuzione alla Convenzione ONU sulla prevenzione del genocidio nel 1948. Tale convenzione
ovviamente stabilisce delle punizioni. Prevede che gli stati parte siano, qualora nel loro stato vi sia un
imputato di genocidio, pronti a svolgere un processo o all’estradizione verso chi ne fa richiesta. Il problema
dell’estradizione si pone nel momento in cui la costituzione italiana, nell’articolo 10 e 26, vieta
l’estradizione dello straniero o del cittadino per i delitti politici. Ora, i genocidi sono ovviamente delle cose
mostruose, ma sono delitti politici per sé. Per esempio, i crimini nazisti erano pienamente politici. Alcuni
tribunali italiani, soprattutto militari e penali, dinanzi richieste simili, dovettero con sentenza non concedere
l’estradizione perché vi era un ostacolo costituzionale, in virtù dei due articoli 10 e 27. Per superare questo
intoppo, gravissimo, che faceva crollare tutto il sistema di repressione della costituzione, fu emanata la
legge numero 1 del 1967, costituzionale, che sanciva che i divieti dell’articolo 10 e 27 dell’estradizione per
reati politici non si applicavano nel caso di genocidi. Il Fiscal Compact, per esempio, sanciva proprio il
rigoroso rispetto del principio di parità di bilancio e il suo inserimento in sede legislativa interna,
preferibilmente costituzionale. Il legislatore italiano lo fece proprio a livello costituzionale, modificando
articoli 81 e seguenti con la legge numero 1 del 2012. Tendenzialmente, poiché i trattati toccano leggi
ordinarie, è con leggi ordinarie che integriamo e modifichiamo la legge in ossequio agli obblighi
internazionali.
Nel sistema italiano complessivo, tali norme di adattamento ordinario, la norma pattizia con ordine di
esecuzione, dipendono da con che atto interno son state attuate. Ovviamente l’adattamento del Fiscal
Compact ha rango costituzionale, ma di norma è ordinaria e dà logica d’esecuzione o una legge ordinaria
d’integrazione. Ovviamente le norme di adattamento si adeguano alla costituzione di per sé, e infatti
problemi li troviamo con trattati che violano la costituzione. Guardiamo qualche esempio: la legge 225 del
1984 prevede un trattato di estradizione tra Italia e Stati Uniti. L’estradizione è sempre prevista da trattati.
Ma nel caso del sig. Venezia, per il quale gli USA chiesero l’estradizione, vi era il rischio che l’imputato
venisse eventualmente condannato a morte, una pena che è esplicitamente vietata dalla costituzione
italiana. Quindi un trattato, che avrebbe potuto implicare la pena di morte e che godeva del rango di legge
ordinaria, si scontrò con una norma costituzionale. La Corte costituzionale non poteva rendere
anticostituzionale il trattato, ma decise di rendere incostituzionale la legge ordinaria di esecuzione nel
momento in cui, all’esecuzione, era possibile la condanna a morte. Questo ha portato alla necessita di
stringere un nuovo accordo da garantire poi con una nuova legge ordinaria d’esecuzione.
Quindi il contrasto non è mai sempre tra trattato e costituzione, ad esempio, ma tra legge d’esecuzione e la
costituzione. Se c’è un conflitto, essa e non il trattato si può rendere incostituzionale. In concreto, la
dichiarazione non riguarda mai il trattato ma la legge di esecuzione.
Altro esempio: sentenza della Corte costituzionale numero 238 del 2014 che riguarda l’immunità dalla
giurisdizione della Germania – in quel caso vi era stata la sconfitta di una causa Germania vs Italia presso la
Corte Internazionale di Giustizia. Dopo aver detto che la regola consuetudinaria sulla giurisdizione applicata
ai crimini di guerra non può entrare in Italia perché va contro i controlimiti della Costituzione, vi era anche il
fatto che con la legge 848 del 1957 l’Italia era entrata nell’ONU e aveva applicato la sua Carta, la quale
spinge ad applicare le sentenze CIG. In quel caso la Corte disse che la legge 848 era incostituzionale nel
momento in cui dice che la sentenza non può essere seguita in Italia perché viola i principi costituzionali,
però non è incostituzionale la sentenza né la carta dell’ONU, ma solo la legge italiana, ma solo nella misura
in cui la legge di esecuzione farebbe imporre una sentenza violante la Costituzione stessa.
Quando abbiamo problemi di conformità e dubbi legislativi, di solito ciò porta alla ricerca
dell’interpretazione più conforme, anche a costo di forzature, per conformarsi al trattato firmato. È come
una presunzione di coerenza del legislatore. Il legislatore ha dato esecuzione al trattato con legge e si
presume che il legislatore voglia sempre mantenere la propria coerenza con sé stesso. Se non c’è modo di
conciliare i testi di legislazione d’esecuzione e interna, c’è bisogno di prendere atto dell’incompatibilità tra
trattato e norma d’esecuzione con la legge italiana di per sé. Cosa si fa in questi casi di conflitto?
Da parecchi anni, oramai, la risposta è abbastanza semplice. Il dato normativo che ci scioglie questo dubbio
è l’articolo 117 primo comma della Costituzione. Esso è stato modificato con legge costituzionale numero 3
del 2001 (Riforma del Titolo V) e ci dice che la podestà legislativa di stato e regioni è subordinata al rispetto
degli obblighi internazionali dello stato.
Quando il legislatore italiano fa una legge, che sia regionale o statale non conta, egli deve rispettare gli
obblighi internazionali e ciò è sancito a livello costituzionale. Cosa se n’è ricavato? Che una legge ordinaria
italiana in conflitto con un trattato internazionale di cui si è parte, viola tali obblighi e ivi viola la
costituzione, ivi si annulla.
La Corte costituzionale, in due celebri sentenze del 2007 (348 e 349), che riguardavano tutte e due dei
profili di contrasto tra leggi italiane di espropriazione per pubblica utilità e la CEDU (che garantisce il diritto
di proprietà), rilevando tale conflitto tra le leggi italiane e la CEDU, sancì che le norme italiane in questione
erano incostituzionali. Ovviamente ciò non vuol dire che i trattati, come le norme, siano di tipo
costituzionale, ma che è sempre legge ordinaria.
Ricordiamo che i trattati, solenni o meno (forma semplificata) son sempre collocati in questo livello.
Decisioni come quelle del Consiglio di Sicurezza, non essendo self-executing, spesso hanno bisogno di vere
e proprie leggi ordinarie nella prassi per essere eseguite. Capita ciò con tutte le norme che non sono mai
self-executing. Stessa cosa per le sentenze internazionali che spesso, emanate sulla base di un atto tipo
“Convenzione Europea” o “Arbitrato”, subordinate sempre alla convezione ma più forte della legge
ordinaria. Se una sentenza è in contrasto con la legge, se tale legge è ordinaria, la legge si fa da parte,
mentre se è costituzionale la sentenza si annulla.

Ora, piuttosto che adattamento, parliamo di responsabilità internazionale dello stato per illecito
internazionale. In poche parole, dobbiamo vedere che cos’è un illecito dello stato. Intuitivamente, è una
condotta contraria ad un obbligo internazionale (che sia consuetudinario, pattizio, o derivato, non conta) e
poi la responsabilità conseguente, il complesso di obblighi che gravano sullo stato che ha commesso
l’illecito e che può essere richiesto da chi è vittima dell’illecito stesso.
Si usa dire che il complesso di tali conseguenze giuridiche in cui si concretizza il regime di responsabilità, il
complesso di norme, è di per sé secondaria. Vi è una norma primaria che è quella che stabilisce l’obbligo,
che se viene violata fa scattare una norma secondaria che stabilisce le conseguenze dell’illecito. La materia,
come già accennato, è stata oggetto per decenni di studi della Commissione Diritto Internazionale che è
arrivata a un progetto di articoli che è stato consegnato all’Assemblea Generale che con risoluzione 56/83
del 12 dicembre 2017 (56° anno di vita, sentenza 83), ha raccomandato agli stati questo testo, mai tradotto
in un progetto di convenzione o altro. È però un tipo di testo dentro cui professori, studiosi e giudici,
studenti e docenti, dovendo parlare di illeciti di stato han in qualche modo un riferimento, salvo a precisare
che tale norma è codificatoria e quest’altra no.

Un primo elemento è la condotta degli stati. Innanzitutto, siamo dinanzi a comportamenti omissivi o
commissivi? Faccio qualcosa di sbagliato o non faccio qualcosa? Perché ci sia un illecito, la condotta deve
essere propria dello stato, nell’omissione o commissione che sia. Accade ciò, evidentemente, quando
questa condotta è tenuta da organi dello stato, persone, uffici, strutture o apparati che in una materia o
nell’altra esercitano i pubblici poteri dello stato. Può essere il legislatore che non cambia le leggi o l’esercito
che invade a caso un paese o la Guardia di Finanza che fa cose che non dovrebbe in Svizzera, può essere un
giudice. Più complesso quando c’è un organo de facto, anche privato, che non ha quindi funzioni di stato
ma che è incaricato per svolgere certi atti e certe funzioni e allora, giuridicamente privato, non dello stato,
di fatto è organo di stato nell’azione. Ipotesi concreta, che si è già citata varie volte, la crisi degli ostaggi a
Teheran del 1979. Da un certo momento in poi gli studenti islamisti rivoluzionari che stazionavano vicino
l’ambasciata americana, che l’avevano presa, erano soggetti privati, ma agivano con investitura ufficiale di
Khomeini da un certo momento in poi. Da quel momento, da privati essi operarono di fatto come organo di
stato iraniano.
L’ipotesi ancora più problematica è laddove vi siano delle persone fisiche, gruppi armati o non, i quali non
sono organi ufficiali di stato, ma come dice testualmente il progetto di articolo prima citato, agiscono in
base alle istruzioni di uno stato o sotto la direzione dello stato o sotto il controllo dello stato nell’esecuzione
di un certo illecito. Pensiamo a una banda armata, a un gruppo terroristico o a dei rivoluzionari i quali non
fanno parte di per sé della struttura di uno stato, ma questo li guida, li istruisce, li finanzia con armi e
denaro, in tal caso l’aziobe di tali bande armate si imputa allo stato finanziatore e guida, pur non essendo
organi.
Ovviamente ciò è problematico. Secondo la CIG ovviamente sia giusta quell’ultima precisazione, che tali
bande ovvero agiscano dietro istruzione, sotto il finanziamento e guida di uno stato, nell’esecuzione di un
atto illecito. Questo perché affinché la condotta sia imputata allo stato non solo c’è bisogno di controllo
complessivo, ma c’è bisogno del coinvolgimento dello stato nell’atto illecito. Sentenza della CIG del 2007,
Bosnia Erzegovina contro Serbia, sul genocidio di Srebrenica. La Corte accerta che tale genocidio è stato
commesso da bande armato di serbi-bosniaci, sicuramente bande e gruppi vicini alla Serbia che in passato
hanno anche ricevuto finanziamenti e son stati armati. La CIG dichiarò però che il genocidio non era
imputabile alla Serbia, perché non era possibile pensare che tale complesso di controllo fosse sufficiente.
C’era bisogno che la Serbia fosse coinvolta nell’atto, ma ciò non è mai stato dimostrato. Il genocidio c’è, la
Serbia viene condannata per non averlo impedito ma non per averlo commesso. C’è bisogno di controllo
specifico sull’illecito, una cosa molto importante da specificare. In questo caso del genocidio in Bosnia
Erzegovina, la Serbia non fu considerata fautrice del genocidio. 

L’obbligo può venire da varie fonti, ma s’è obbligo c’è anche un illecito. L’illecito ivi consiste sempre in una
condotta imputabile a uno stato in violazione di quell’obbligo. Anche in presenza di condotta contraria agli
obblighi dello stato, ci sono cause di giustificazione, che facciano sparire l’illecito in presenza di condotta
erronea. Tali cause di giustificazione non valgono contro le norme di ius cogens (genocidio, guerre d’offesa
e così via … in quei casi non valgono mai).
Le cause di giustificazione sono ad esempio il consenso dell’avente diritto. Se uno stato dà il consenso
perché la polizia di un altro stato entri per fare delle indagini, l’illecito non c’è anche se è violazione di
quella norma consuetudinaria di non poter fare attività coercitive in un altro stato. Avremo anche la
legittima difesa e l’approfondiremo, ma la legittima difesa, prevista nella Carta dell’ONU e parte del diritto
internazionale consuetudinario, è uso di forza armata per respingere un altro attacco armato, quindi uso di
forza difensiva.
Abbiamo ancora la contromisura, ovvero una condotta illecita che va per contromisura. La contromisura è
la condotta di uno stato illecita perché contraria ai suoi obblighi internazionali, ma che viene tenuta in
reazione ad un altro illecito (non riguarda l’uso della forza, però!). La legittima difesa un po’ si inquadra
nella contromisura, ma parliamo di un uso della forza. La contromisura potrebbe essere alzare delle
barriere doganali, bloccare una cooperazione giudiziaria, non c’è mai uso della forza. Si giustifica come
risposta ad un illecito.

Un’altra circostanza è ovviamente la forza maggiore, ovvero dinanzi eventi come calamità naturali che
pongono lo stato in una posizione di incompatibilità con una norma internazionale, lo stato non ne è
responsabile. Ancora, è importante lo stato di necessità. Non c’è illecito se la condotta tenuta
rappresentava l’unico modo di uno stato per salvare un proprio interesse essenziale dinanzi un pericolo
grave e imminente:n necessitas non habet legem. Ovviamente si applica solo a problemi gravi ed imminenti
perché risponde anche al diritto consuetudinario, e tale via deve essere l’unica possibilità. O con quella
condotta o quell’interesse essenziale perirebbe. Inoltre, tale pericolo di grave pregiudizio all’interesse
essenziale non deve essere provocato sempre dallo stato che viola il diritto. 
Vediamo per esempio un caso: lo stato di necessità economica. Uno stato ha rimesso sul mercato delle
obbligazioni ma viene meno al pagamento a causa di problemi di necessità economica per assicurare la
sussistenza. Che fare se il problema viene proprio dallo stato, come con i bond argentini? La soluzione qual
è? Che il diritto consuetudinario giustifica la condotta illecita per salvare l’interesse essenziale dello stato,
quindi. Il testo però licenziato dalla Commissione del Diritto Internazionale non precisa dello stato, ma un
interesse essenziale. Ora, questa è una soluzione ambigua di sua volontà, perché c’era e c’è chi ritiene che
lo stato di necessità giustifichi anche un’azione a tutela da un grave e imminente pericolo di una
popolazione civile, anche straniera. Lo stato interviene militarmente in un altro stato per ragioni umanitarie
per salvare la popolazione da un genocidio.
Prescindendo dal testo, nella prassi ad oggi lo stato di necessità potrebbe essere usato per giustificare
anche azioni illecite apparentemente a difesa di popolazioni civili, di beni ambientali comuni a tutti, forse si
può giustificare ma con la precisazione che tale condotta non può violare lo ius cogens, come nel caso di
forme di intervento illecito militari che violerebbero lo stato cogente di cose.

Due ultimi punti molto rapidamente. È opinione comune, come dimostrato da vari testi, che l’illecito e la
sua costituzione quando non giustificata dalle sopracitate cause, non richieda commissione di un danno
patrimoniale, economico, o morale. È un punto discutibile ma l’opinione diffusa è che il danno sia giuridico,
espressione strana. Cioè, è sufficiente la violazione della norma e l’illecito rimane tale.
Illecito richiede sempre o dolo o colpa, anche in senso lato. La colpa si è avuta con negligenza, imperizia se
necessario. Questo vuol dire che lo stato è colpevole che l’abbia fatto apposta o no, non conta. La regola
generale è che la responsabilità sia oggettiva per un atto illecito. Lo stato risponde dell’illecito per il fatto
oggettivo della commissione. Se ciò è accaduto perché voleva o meno, non conta.
Lo stato può giustificarsi solo rifacendosi a eventi di causa maggiore e fortuiti. La mancata previsione di una
regola su tal punto è derivante dal fatto che in realtà ci sono molti campi in cui non vale tale regola
generale della responsabilità oggettiva perché è la stessa norma internazionale, primaria, che pone
l’obbligo, che nel suo contenuto stabilisce un compito di diligenza statale. Qui non è questione di c’è o non
c’è la colpa, ma la norma chiede allo stato di essere diligente. Nella terminologia inglese, si parla di due
diligence. Se lo stato è stato diligente, di per sé non ha violato la norma. Se non è stato diligente, ha già
violato la norma.
Ci son casi pattizi in accordi internazionali in cui gli stati rispondono della propria condotta anche in casi di
normali garanzie di protezione dall’illecito. C’è una responsabilità assoluta, lo stato risponde sempre di tale
violazione. Un caso simile, in cui si è sempre responsabili, è il lancio di oggetti spaziali, attività che viene
considerata altamente rischiosa. Se uno stato lancia un oggetto spaziale e questo finisce in un territorio
altro, qualunque sia il motivo, il lanciatore è responsabile. Ciò è previsto da una convenzione e si implica
che dinanzi attività altamente rischiose gli stati che lo fanno si prendono il rischio.
Ultima precisazione, le norme sul trattamento degli stranieri permettono di spiegare l’ ipotesi di
responsabilità dello stato per azione individuale privata. Quasi un ossimoro: dopotutto, lo stato dovrebbe
rispondere della propria responsabilità, deve essere coinvolto. La responsabilità dello stato in alcuni casi
nasce dal fatto che, per esempio, se uno straniero ha subito una lesione da un individuo, non è che lo stato
ne risponde perché il crimine è suo, ma risponde solo se la sua azione ha violato le norme internazionali –
nella misura in cui non è stato diligente. Nonostante l’espressione usata, che sembra attribuire la
responsabilità individuale allo stato, lo stato nella realtà è responsabile della sua condotta omissiva, non
altro.

15/12/2020

Agli illeciti nel diritto internazionale, possiamo aggiungere che essi possono gravare su stati terzi, oltre
quello che l’ha commesso. È possibile infatti che un altro l’abbia sollecitato o istigato a farlo. Esiste anche la
possibilità che i due fossero complici. Ma guardiamo adesso le conseguenze dell’illecito – quali sono le
pretese che lo stato vittima, titolare del diritto violato, può avanzare? Qual è il regime giuridico della
responsabilità in cui incorre lo Stato che ha commesso l’illecito?

Innanzi tutto c’è la pretesa dello Stato vittima, e la prima conseguenza è chiaramente, l’obbligo di cessare
l’illecito. Ciò è configurabile solo nel caso di un illecito continuato, che non si consuma in un singolo atto,
che continua nel tempo (e.g. l’occupazione del territorio altrui). In secondo luogo, una seconda possibile
conseguenza è il dover promettere di non ripetere l’illecito. Ciò può essere necessario se l’illecito è frutto
delle leggi dello Stato che l’ha compiuto se insomma vi erano delle leggi al suo interno che già di per sé
violavano il DI – in tal caso quelle leggi dovrebbero essere abrogate. Inoltre si ha l’obbligo di riparazione
dell’illecito, come nel diritto interno: le possibili forme di riparazione, nel DI, sono più di una. In relazione al
tipo di illecito e alle richieste dello stato vittima. La migliore forma di riparazione è la restituzione,
“restitutio in integrum”, che ripristina la situazione preesistente all’illecito. Altrimenti, se un illecito è stato
commesso attraverso la sentenza di un giudice, giudicata sbagliata, si può avere una riparazione nella forma
di annullamento di una sentenza. Se il danno è invece irreparabile, ed è impossibile ripristinare le condizioni
precedenti, dev’essere fornita un risarcimento (da non confondere con compensazione!). Se non vi è danno
materiale da riparare o risarcire, infine, si ha la soddisfazione: un gesto simbolico, come una solenne
dichiarazione di scuse, o una cerimonia di saluto alla bandiera del paese offesa (un po’ desueto). Oggigiorno
è più comune fornire una sentenza con la quale il paese vittima vince una causa, con la quale viene
riconosciuto l’illecito.

Un’altra conseguenza dell’illecito, oltre alla cessazione e alla riparazione, può essere la rappresaglia. Un
tempo era comune, adesso improbabile, ma in quel caso lo Stato che ha subito l’illecito poteva, con la sua
condotta, legittimamente violare un diritto dello stato che ha compiuto per primo l’illecito (ricambiando,
praticamente il “favore”). La rappresaglia si distingue da un’altra forma di conseguenza, che invece esiste
ancora oggi, che è la ritorsione. Consiste in un atto dannoso, che colpisce un interesse, verso lo Stato che
ha compiuto l’illecito, ma non rappresenta una violazione del suo diritto (come poteva essere co la
rappresaglia): ad esempio, la semplice rottura dei rapporti diplomatici. Un comportamento quindi
inamichevole ma che non lede alcun diritto. Inoltre, i testi di diritto sostengono a questo proposito che lo
Stato injured può assumere delle contromisure nei confronti dell’offensore. La contromisura rappresenta la
versione rivista e corretta della rappresaglia: è una lesione dei diritti dell’offensore, come la rappresaglia,
ma al contrario di questa non può cumularsi con la richiesta di riparazione. Un tempo, appunto, si poteva
accompagnare alla rappresaglia (il cui scopo è punitivo) anche una forma di riparazione – le due pratiche
avevano quindi scopi diversi. Nel caso della contromisura non è così: tale lesione dell’altrui diritto, motivata
dal precedente illecito, non ha innanzi tutto una funzione punitiva, ma vuole sollecitare l’altro stato a
cessare l’illecito, a non ripeterlo e, eventualmente, a ripararlo. Tende quindi ad incoraggiare l’offensore ad
adempiere ai suoi obblighi.

Le sanzioni in conseguenza ad un illecito si possono invece considerare ritorsioni, se non esistevano


precedenti accordi sui rapporti commerciali, non rappresentando quindi una violazione di un diritto. Se
invece vi è un precedente accordo, un obbligo pattizio preesistente, allora la sanzione economica o è
semplicemente illecita o si può considerare una contromisura.

Dal momento in cui lo stato offensore ha adempiuto ai suoi obblighi, lo stato leso deve interrompere
qualsiasi contromisura – a conferma del fatto che essa non rappresentava una pena/rappresaglia ma un
semplice strumento di pressione teso ad uno scopo di riparazione.

Esplicitamente definito come consuetudinario è il fatto che vi deve essere un rapporto di proporzione tra la
lesione e la contromisura. Vi sono poi altri limiti: il rispetto dello ius cogens (le contromisure non possono
scalfire i diritti dell’offensore salvaguardati da norme cogenti); il divieto dell’utilizzo della forza armata; e il
fatto che la condotta delle contromisure non devono mai violare i diritti umani e il diritto internazionale
umanitario. Inoltre, la contromisura non può mai colpire le missioni diplomatiche e consolari: ad esempio,
non si può adottare come contromisura l’arresto di un diplomatico o l’incursione della polizia in
ambasciata.

Per ora abbiamo visto come le conseguenze dell’illecito, il regime delle responsabilità per illecito, sia un
rapporto bilaterale: abbiamo lo stato offensore e il leso. Tutto si decide fra di loro: gli obblighi di
restituzione, le contromisure… ma esiste una differente ipotesi di illecito, dove l’offensore viole una norma
cogente. Qui vige una disciplina parzialmente diversa – se uno stato viola un principio di ius cogens, non
viola solo l’interesse del leso, ma di tutta la comunità internazionale. Se ad esempio viene commesso un
genocidio, o viene inquinato in modo massiccio l’ambiente, un valore supremo e comune a tutti gli Stati
viene colpito da tale condotta: di conseguenza, sin da un progetto elaborato dal Relatore Speciale (Roberto
Ago) della Convenzione di Vienna, si distingue tra due tipi di illeciti: 1) gli illeciti comuni e 2) i crimini
internazionali. I secondi consistono appunto nella violazione di una norma imperativa, di cui un esempio è
anche l’aggressione, il mantenimento di una condotta coloniale, oltre che un genocidio, l’inquinamento
massiccio di acque e atmosfera. Tuttavia il progetto non piacque, poiché introduceva una sorta di
responsabilità penale per lo Stato. Si parla di penale, infatti, quando viene colpito l’interesse della società
tutta e non solo di un soggetto. Della distinzione non se ne fece niente, soprattutto per l’opposizione di
paesi occidentali come gli Stati Uniti. Nel diritto consuetudinario però il tema persistette: si è consolidato
un regime di responsabilità aggravata concernente quegli illeciti che consistono nella violazione di una
norma cogente. In cosa consiste il regime aggravato? Alle conseguenze di tipo bilaterale si aggiunge il
dovere, di tutti gli stati, di disconoscere il valore giuridico di quella situazione venutasi a creare con la
violazione dello ius cogens. Come abbiamo già detto, quando uno stato viene fondato con atti illeciti non
viene riconosciuto: la situazione di fatto rimarrà, ma non potrà trasformarsi in una realtà giuridica. Inoltre,
gli altri stati hanno il dovere di operare, con mezzi leciti, per far cessare la situazione illecita.

C’è un altro profilo dove le soluzioni del progetto CID 2001 son ingarbugliate. C’è una categoria di norme,
ovvero quelle internazionali che pongono agli stati degli obblighi, obblighi che ogni stato ha nei confronti di
tutto il resto della comunità internazionale. Spesso, sono norme corrispondenti a quelle di ius cogens. Il
divieto di aggressione è un obbligo di uno stato verso l’intera comunità degli stati. Ci son obblighi che
vedono non uno stato leso, proprio, ma tutti in generale, come nel caso della violazione dei diritti
fondamentali. Lo stato che viola le norme dei diritti umani lo fa spesso contro i propri cittadini, come uno
stato che impone l’apartheid o supporta la tortura. Non c’è un altro stato offeso. Questi sono gli obblighi
erga omnes, obblighi verso tutti. È un concetto per lo più sfuggente. Gli illustri studiosi parlano a volte di
obblighi erga omnes come obblighi consuetudinari, ma non è vero perché tali obblighi potrebbero essere
bilaterali.
Parliamo di obblighi verso tutti, come nel caso della politica discriminatoria. Perché? Perché tutti hanno una
pretesa giuridica che ogni stato si astenga da discriminazione razziale. Conferenza di Barcellona del 1995 ad
esempio, che prevede ai firmatari una serie di prevenzione della fauna e flora ittica e marina di tutte le parti
dell’accordo. Se uno stato inquina nelle zone di mare aperto non lede uno stato, ma viola tutti gli stati che
han la pretesa giuridica di far rispettare l’ambiente del Mediterraneo. Il diritto consuetudinario nemmeno
c’entra. In questo caso parliamo di un obbligo erga omnes partes, ivi di tutta la “parte” in tal senso. Alla
base ci deve però essere sempre un interesse collettivo.
La possibilità di intervento si può esprimere con contromisure lecite volte al fine che lo stato offensore
ripari il danno fatto, contromisure che quindi devono riparare il danno. Tale riparazione può avvenire a
favore di uno stato leso materialmente o dei diversi soggetti, quali la popolazione civile che ha subito gli atti
di pulizia etnica. 

Che succede se a commettere l’illecito è una organizzazione internazionale? Il documento CID in qualche
modo riprende il tema, affermando che anche tali OI possono commettere illeciti. Devono riparare il danno
come gli stati, possono subire delle contromisure. Ma innanzitutto bisogna riconoscere che la OI sia
soggetto di diritto internazionale, quindi un minimo di indipendenza rispetto agli stati membri stessi. Se l’OI
è un velo dietro cui si celano gli stati membri, in tal senso parliamo di uno strumento nelle mani dello stato,
un organo. Se ad oggi le OI vengono tendenzialmente rese soggette del diritto internazionale, allora in
qualche modo abbiamo la possibilità di imputargli una condotta. Ma quando? Quando possiamo dire che
l’illecito è dell’ONU, dell’UE, della Lega Araba? Quando ovviamente la condotta è tenuta dai suoi organi,
questo è chiaro. Il segretario generale che commette un illecito permette di collegare direttamente illecito
e OI. Un problema diverso è quando gli organi dello stato messi a disposizione dell’organizzazione violano
una norma. Ci son dei casi proprio tipici, come quelli commessi da forze militari nazionali messe a
disposizione, come nel caso dei Caschi Blu, di una OI come l’ONU. 
Sotto il profilo giuridico son organi di quella organizzazione, ma gerarchicamente rispondono ai rispettivi
comandi di appartenenza. Quando quindi nasce la responsabilità della OI? Con una giurisprudenza per nulla
univoca, si può dire e si deve dire che l’OI è responsabile quando in questi illeciti commessi avevano un
controllo effettivo di tale organo, erano in grado di guidarlo, dare le istruzioni. Altrimenti il responsabile
rimane lo stato. Casi drammatici negli ultimi stati si son realizzate in particolar modo nelle guerre nella Ex-
Jugoslavia, specie nel caso del ’95 di Srebrenica (caschi blu olandesi) e nel ’94 in Ruanda, con i caschi blu
belgi. Tali avvenimenti in parte furono responsabilità della non-opposizione dei caschi blu nei due eventi.
La Corte Europea e i giudici interni, sia belgi che olandesi, han emesso sentenze, ma da queste
giurisprudenze è emerso che la responsabilità era a chi aveva il controllo effettivo, spesso condivisa tra
stato e OI. Riuscire a capire bene chi, in quel momento, al momento della violazione, teneva il comando,
diventa difficile. Ultima avvertenza sul punto. A prima vista la responsabilità delle OI può apparire un
progresso giuridico, perché anch’essa è tenuta a rispettare le norme e se non lo fa commette un illecito, ma
è più apparente che reale. 
Le OI godono dell’immunità dalla giurisdizione comunque. Se una vittima superstite di Srebrenica provasse
a far causa ad ONU e Olanda, gli verrebbe risposto che l’ONU gode di immunità dalla giurisdizione. Se
provasse dinanzi un giudice internazionale, otterrebbe contemporaneamente una stessa risposta perché
queste non son parte della Corte Internazionale di Giustizia e nemmeno parte della Convenzione Europea
dei Diritti Umani. Né la Nato né l’ONU son sottoponibili al giudizio di queste due organizzazioni. Vi è una
cascata di responsabilità che porta a una non-soluzione del caso. 

Eppure, tutto ciò, ci riporta alla mancanza del gendarme. Di per sé, un gendarme si è creato nella struttura
ONU. Lo stesso Consiglio di Sicurezza fa da guardia, in qualche modo, che fa da meccanismo di sicurezza
collettivo a tutela della pace e sicurezza internazionale. Fa da contro-altare, corrispettivo, di quel divieto
dell’uso della forza che abbiamo più volte ricordato. Dinanzi l’uso e la minaccia dell’uso della forza armata,
vi è sicuro una eccezione. Nel sistema dell’ONU ma anche corrispondente al diritto consuetudinario, vi è la
legittima difesa. Evocato nel progetto sempre della Commissione prima citata, la legittima difesa è l’uso
lecito di forza armata per respingere un attacco armato. Vecchio broccardo latino, “Vim viter repellere
vicer”. Nessun ha il dovere di non usare la forza per salvarsi, ne ha tutto il diritto.
Sia nella carta dell’ONU che nel diritto consuetudinario tale legittima difesa è ammessa come forma
individuale. Chi è attaccato con le armi, si può difendere con le armi. C’è poi la legittima difesa collettiva. Se
uno stato è aggredito, altri stati consentiti dall’aggredito possono usare la forza per respingere l’attacco
armato. Quando la carta dell’ONU fu redatta, la legittima difesa collettiva fu in qualche modo la prima a
essere sancita. Non è un caso che organizzazioni come NATO e Lega Arabo prevedono accordi militari di
difesa, altrimenti sarebbero contrari alla carta dell’ONU. Oltre l’articolo 5 della NATO, in tempi più recenti,
nel caso dell’Unione Europea, anche l’articolo 42, paragrafo 7, nel Trattato di Lisbona. 
La ratio, la ragion d’essere della norma, richiede che l’attacco armato sia “in atto” perché sia possibile la
legittima difesa. L’uso della forza, bandito generalmente, è consentito solo per respingere questi attacchi. Si
aggiunge, nel sistema dell’ONU, che la legittima difesa si usa per respingere un attacco in atto e finché non
interviene il Consiglio di sicurezza. Consiglio che spesso ritarda fino alle calende greche, con tutto il rischio
che la legittima difesa diventi perenne difesa. 
Facciamo caso che ci sia stato un attacco lampo, in tal senso la legittima difesa non è consentita. Perché
l’uso della forza è rivolto a respingere un attacco, ma se non ci fosse più l’attacco sarebbe una contromisura
armata.
Si può fare legittima difesa preventiva? Si può attaccare quando si ha il ragionevole dubbio di star venendo
attaccati? Solo dinanzi una vera imminenza, tale che mette a repentaglio la stessa esistenza dello stato
forse in offesa e che abbia evidenze oggettive, prove. Siamo dinanzi certamente non il caso del 2003. 

Che succede quando uno stato minaccia lo stato di pace, minaccia di aggredire, cosa può fare l’ONU? Il
capitolo settimo, articolo 39 e seguenti, presenta un sistema di sicurezza collettivo, incentrato sul Consiglio
di Sicurezza, materia esclusiva del Consiglio quando esso vuole adottare misure coercitive rivolte ad
accertare l’uso della forza o a prevenirlo. Il Consiglio di Sicurezza ha spesso difficoltà a intervenire, perché
deve prevedere il voto di tutti i paesi membri permanenti non col veto, e poi la maggioranza anche tra i
non-permanenti. Ebbene, quali sono le ipotesi in cui può intervenire? 
Sinteticamente, le ipotesi sono in caso di minaccia della pace, violazione della pace (internazionale) e
aggressione. Parliamo ovviamente sempre di pace internazionale, quindi uso delle armi. L’aggressione di
per sé sicuramente è un uso della forza armata, quantificata in atti contro indipendenza e integrità degli
altri stati. L’ONU ha dato la definizione nel 1964, non vincolante, che si fa da orientamento di aggressione.
L’aggressione è spesso capire chi aggredisce e chi è stato aggredito, perché spesso vi è una risposta in
legittima difesa e non sempre è facile attribuire una responsabilità e, nella prassi, il Consiglio evita di
accertare aggressioni e parla di violazioni della pace.
L’ipotesi meno grave è la minaccia alla pace internazionale, ipotesi in cui cadono tanti casi e si vede la
discrezionalità del Consiglio. Qui c’è una prognosi, un timore, e molto è demandato alla discrezionalità del
consiglio. Nella prassi, tantissime situazioni son state calcolate come minaccia alla pace per far esercitare
tali funzioni al Consiglio. Apartheid e colonialismo son stati casi, ma anche la guerra civile. È una violazione
della pace internazionale, ma spesso il Consiglio ha quantificato situazioni di guerra civile come suscettibili
di minacciare la pace internazionale. Terrorismo internazionale e la produzione di armi di distruzione di
massa, creare emergenze internazionali via deportazioni, genocidi, son tutte classificabili in tal caso. Anche
la pirateria vi ricade. Perfino la nascita di epidemie può ricadere. Nella risoluzione 2532 sul tema del COVID
potrebbe classificare questo come minaccia alla pace.
Di solito, specie nei casi di difficile attribuzione, si applica un generale “cessate il fuoco” per sperare, nella
generalità dei casi, di fermare il conflitto. Ci son però misure coercitive, come ad esempio il caso delle
decisioni obbligatorie, fonti di terzo grado, previste nell’articolo 42 che abilita il Consiglio di sicurezza a
emanarle, che possono essere rottura di relazioni economiche o commerciali ma anche del più vario
contenuto. In anni passati, una misura passata spesso è stata l’embargo, ovvero il divieto per tutti gli stati di
importare o esportare bene per e da quella nazione, tranne in caso di emergenze sanitarie.
Successivamente, tale Consiglio ha mutato atteggiamento perché troppo gravi tali misure, che colpiscono
più gravemente la popolazione civile e le fasce deboli. Avvengono quindi spesso misure smart, in qualche
modo, che possono andare dal congelamento dei beni a sanzioni mirate.
Il problema principale è che non c’è un sistema giudiziario, non c’è un giudice a cui appellarsi dopo essere
tacciati come terroristi o vedere i propri beni congelati. Se queste misure non implicanti l’uso della forza
non bastano, si può approvare un uso militare, come il poliziotto armato, che ha il monopolio dell’uso della
forza, sottratta dallo stato e che va a concentrarsi nelle mani del Consiglio. Con quali mezzi però? La carta
dell’ONU, nell’articolo 43, stabilisce che, per dotare il consiglio di sicurezza di tutti i mezzi militari necessari,
gli stati membri dell’ONU avrebbero dovuto stringere accordi con il Consiglio stesso per mettere a
disposizione una sottospecie di esercito dell’ONU. Tali accordi previsti nell’articolo 43, della carta del 1945,
andavano negoziati al più presto e non sono mai stati conclusi. Quindi, ha dovuto ricorrere ad altri surrogati
previsti dalla carta dell’ONU. Lo ha fatto spesso, specie dopo la fine della guerra fredda in senso proprio. Gli
strumenti sono da un lato quella che il Segretario generale chiamò un’invenzione dell’ONU, ovvero le
peacekeeping operation, operazioni di mantenimento della pace, militari in senso stretto e condotte con
truppe dei singoli stati messe a disposizione dell’ONU per quella specifica operazione, i cosiddetti caschi
blu. Le operazioni di peacekeeping, militari e responsabilità dell’ONU, ma con forze messe
consensualmente a disposizione dell’ONU, non hanno nella prassi una funzione coercitiva. Hanno
caratteristiche più tenui, perché sono innanzitutto consensuali, ovvero lo stato dove intervengono o fra gli
stati, vi deve essere un consenso. 
Il compito quindi non è contro qualcuno, ma è fare da cuscinetto, interposizione tra litiganti, tra stati, attori
locali. L’uso della forza è consentito ma in linea di principio solo per legittima difesa, solo se attaccati. Nella
prassi, ci son state due evoluzioni successive. Una che parla di peace enforcment operation, quindi
imposizione della pace e quindi che si applica in vari casi, in cui tali forze, caschi blu, hanno il potere di
usare le armi contro qualcuno che disturba la pace, per adempiere al proprio mandato, spesso umanitario
(come difendere una popolazione da bombardamenti o genocidio). Più che uno stato, da forze armate
specifiche. 
L’altra linea di sviluppo riguarda le peace building operation, ovvero operazioni sempre condotte dall’ONU
con personale messo a disposizione da stato, che hanno anche una componente militare ma che hanno
soprattutto una componente civile, di carattere civile e giudiziario o amministrativo, perché non solo
devono mantenere una pace tra diverse fazioni di una guerra civile o di un conflitto (post-war peace
building operation) ma devono anche ricostruire il tessuto sociale, polito-amministrativo e giudiziario in uno
stato che ha a carte quarantotto la situazione nazionale.
Sono tutte delle varianti delle originali operazioni di peacekeeping dei caschi blu, ma rimane la volontarietà
delle forze messe a disposizione dell’ONU.
Normalmente, in tali operazioni, vi è un giusto funzionamento se vi è il generale consenso di tale
operazione. In certi casi occorre agire contro uno stato, come nel caso dell’invasione degli anni ’90 dell’Iraq
verso il Kuwait, l’intervento puramente coercitivo contro lo stato per liberare un aggredito, di solito, si
demanda a uno stato terzo. A partire dalla risoluzione 268 del ’90, si ha una possibile autorizzazione verso
uno stato o coalizione di stati per usare i mezzi necessari, anche armati, per ristabilire la pace. È una forza
coercitiva, quindi, degli stati volenterosi, per ristabilire lo status quo della pace e che può, a volte, essere
usata in maniera sproporzionata dagli stati perché, a volte, vi è un problema di gestione statuario.
Questo meccanismo di autorizzazione, espressa dalla carta dell’ONU, è visto dall’articolo 53 della carta
dell’ONU che autorizza organizzazioni regionali a operazioni coercitive per ristabilire la pace, come nel caso
della NATO non verso il Kosovo, ma per esempio il caso della Bosnia-Erzegovina. Insomma, l’ONU può
rispondere con forze di peacekeeping, autorizzato stati e coalizioni o organizzazioni regionali, unico caso
l’ultimo con una prassi ricca e un articolo che demanda tale possibilità. C’è per esempio un accordo tra
Unione Europea e ONU per la prestazione di reciproco sostegno nell’ambito delle rispettive missioni e
operazioni sul campo, accordo quadro di New York tra le due organizzazioni.

Si sarebbe voluto trattare anche la risoluzione giudiziaria delle controversie dagli stati (articolo in PDF che
sarà inviato).
Anche il programma sarà inviato tramite mail. 

Potrebbero piacerti anche