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Se ti perdi, riprenditi.

L'attenzione nell'era della


distrazione.
Come fare a prestare attenzione ai molti e fugaci stimoli che, nella cultura
della complessità, ci subissano da ogni parte?

Esiste un tipo di energia poco utilizzata che regola le nostre azioni e relazioni,
e determina se ciò che stiamo facendo ha valore o meno. No, non sto
esagerando, questa forza “sotto-rappresentata” è la nostra cara attenzione.
Viviamo in una società che ha costruito le proprie infrastrutture commerciali
intorno al concetto di attenzione: come ci raccontano Paolo Legrenzi e Carlo
Umiltà nel loro testo Una cosa alla volta, viviamo immersi in un mondo
composto da quelli che gli autori definiscono «super-stimoli», cioè
stimoli che vengono appositamente arricchiti per attrarre la nostra attenzione.
Mentre un uomo dell’antichità aveva a che fare con poche informazioni e
pochi stimoli artificiali, oggi ne siamo letteralmente subissati. Tutto ciò ha
portato alcune persone a definire la nostra epoca come l’«era della
distrazione», nella quale non solo siamo circondati da stimoli che hanno lo
scopo specifico di influenzare le nostre opinioni e i nostri comportamenti, ma
nella quale, piuttosto che restare “senza stimoli” e quindi cadere nella
noia, siamo addirittura portati ad autosomministrarci delle scosse elettriche.

COSA VUOL DIRE “STARE ATTENTI”?

In un noto esperimento condotto da Timothy Wilson e colleghi dell’Università


della Virginia (Wilson et al., 2014), alcuni soggetti venivano invitati a entrare
in una stanza per circa 15 minuti, dov’era loro spiegato che avrebbero dovuto

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trascorrere un po’ di tempo in solitudine. Cosa curiosa era che, insieme al
soggetto, vi era una sorta di marchingegno un po’ particolare: una scatola
in grado di somministrare piccole ma dolorose scosse. Lo sperimentatore
spiegava così il funzionamento di quella scatola e usciva dalla stanza:
ebbene, un’altissima percentuale dei partecipanti si autosomministrava
la dolorosa scossa. Questo esperimento aveva proprio lo scopo di cercare
di capire se, in mancanza di stimolazioni esterne, una persona preferiva
stimoli dolorosi piuttosto che restare senza stimoli per un certo arco di tempo.
La bizzarra ipotesi dei ricercatori fu più che confermata: i soggetti si
autostimolavano e alcuni lo facevano in continuazione, senza che
nessuno avesse loro detto di farlo.

Ora, questo dato potrebbe significare anche che in realtà siamo degli animali
curiosi e che se qualcuno ci mostra qualcosa con cui possiamo intrattenerci,
tenderemo a utilizzarlo. Ma in realtà lo studio non fa che confermare il dato di
fatto che viviamo in un’epoca nella quale, se non siamo intrattenuti da
qualcosa, tendiamo a sentirci annoiati, vuoti e senza scopo. E tutto ciò
non dipende solo da una nichilista svalutazione dei valori, ma dipende anche
da come stiamo trattando la nostra attenzione, una delle risorse psicologiche
più importanti e allo stesso tempo sottovalutate di sempre. Sì, perché per la
maggior parte delle persone attenzione è qualcosa che riguarda la
percezione delle cose, è una sorta di risorsa che abbiamo più o meno a
disposizione durante la giornata e che segue regole legate al funzionamento
fisiologico dei nostri sensi. Ma, in realtà, noi psicologi sappiamo da molti
anni che il processo attentivo è molto più complicato di così: non si
tratta di un canale statico che riceve in modo passivo la realtà, ma di un
processo dinamico e attivo di scambio tra mondo e mente.

Ci sentiamo ripetere da tutta una vita che è necessario “stare attenti”,


soprattutto durante gli anni di scuola, ma nessuno ci spiega davvero che cosa
significhi. Cosa vuol dire “stare attenti”? Fermiamoci per qualche istante a
rispondere mentalmente a questa domanda. Se pensiamo a una persona
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attenta, cosa ci viene in mente? Con tutta probabilità ci verrà in mente una
persona che ha uno sguardo focalizzato su qualche cosa, magari intenta a
compiere una certa azione che richiede tipicamente attenzione. Ci viene in
mente qualcosa di impegnativo, un’azione che richieda il nostro focus,
come una scalata, la lettura di un libro impegnativo o una situazione di allerta
in cui siamo vigili e accorti riguardo agli stimoli esterni, come quando
camminiamo in una zona sconosciuta e apparentemente pericolosa.

In altre parole, se pensiamo al termine “attenzione” e non siamo degli


addetti ai lavori, con larga probabilità lo assoceremo ad aspetti poco
piacevoli della nostra vita. La qual cosa non dovrebbe stupire chi conosce
uno dei meccanismi principali del nostro cervello: il “risparmio energetico”.
Infatti, se si pensa a dover stare attenti, vengono in mente in contemporanea
l’impegno, lo sforzo, il tentativo di “restare sul pezzo” senza distrarsi ecc.

Da questa visione negativa dell’attenzione, come di uno sforzo difficile,


emerge una modalità di percepire la realtà che potremmo riassumere nella
frase: «Se non accende il mio interesse, significa che non è troppo
importante». E qui scatta uno dei paradossi più scivolosi della società
contemporanea: conoscendo la tendenza del cervello a ricercare stimoli
attrattivi, che rendano più semplice lo spostamento della nostra attenzione,
stiamo progettando un mondo a “frizione cognitiva zero”. In altre parole,
cerchiamo di disegnare la realtà affinché sia essa a guidare le nostre risorse
cognitive, cosa sacrosanta se ci pensiamo bene: quante volte ci è capitato di
pensare che se in un certo luogo avessero messo dei bidoni della spazzatura
sarebbe stato meglio – «È per questo che i giovani buttano le cartacce per
terra perché mancano le strutture»?

Con questa filosofia dell’ergonomia cognitiva (i famosi nudges, le “spinte


gentili”) stiamo costruendo un mondo che ci invita a comportarci in un certo
modo, con il minimo utilizzo delle nostre risorse interiori. Da un lato si
tratta di un meccanismo meraviglioso di gestione della nostra società
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complessa, dall’altro rischia però di rendere il nostro cervello sempre più
pigro. Sì, perché se è la progettazione di qualcun altro a decidere per
noi, rischiamo di deteriorare il nostro “muscolo decisionale”, di sentirci
sempre meno protagonisti della realtà che ci circonda.

Personalmente, sono felice di non dover più essere una sorta di ingegnere
informatico per collegare un qualsiasi device al mio PC: chi ha più di 40 anni
si ricorderà che, un tempo, collegare una semplice stampante al computer
era un lavoro complesso. Per non parlare di come funzionavano i sistemi
operativi; chi non si ricorda del famoso DOS? Ecco, oggi abbiamo
interfacce meravigliosamente progettate al punto tale che chiunque si
trovi di fronte a un computer sa più o meno cosa deve fare per aprire un
file. Con l’effetto che i nostri figli, invece di sfogliare le pagine dei giornali,
cercano di “skippare le immagini” come se stessero utilizzando un tablet, e
quando non ci riescono ci restano male.

L’APPORTO DELLA MINDFULNESS

Questi paradossi accompagnano da sempre la nostra evoluzione: abbiamo


trascorso secoli a far sì che il mondo fosse meno pericoloso e più
semplice. Abbiamo portato l’acqua e la luce ovunque, abbiamo asfaltato le
strade, creato leggi per difendere la popolazione, approntato un sistema
educativo ecc. Al punto tale che oggi, per restare in forma, invece di andare
ad arare i campi andiamo tutti in palestra, perché sappiamo che fare
movimento fisico – quello che un tempo eravamo costretti a fare per
necessità – è fondamentale per la nostra salute psico-fisica. La stessa cosa
sta accadendo in psicologia: ci stiamo rendendo conto che gli
avanzamenti tecnologici, da un lato, ci aiutano in modo incredibile, ma,
dall’altro, hanno deteriorato alcune facoltà mentali e per evitare tale
deterioramento stiamo creando delle “palestre cognitive” che ci aiutino,
proprio come nel caso del fitness, a mantenerci in forma.

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Ora, ci tengo a dire che queste parole non servono per ammonire
sull’avanzamento tecnologico: esso esiste da sempre e francamente non
tornerei indietro ad arare i campi o a tenere a mente le cose invece di
scriverle su un supporto digitale; ma le riflessioni precedenti mi servono per
mostrare il paradosso che ci conduce a edificare palestre, a informarci su
cosa e come mangiare in modo più sano (di solito si tratta di una dieta simile
a quella dei nostri antenati) e su come mantenere il cervello in forma. E
una delle modalità più efficaci per farlo è quella di allenare le nostre facoltà
attentive. Ma in che modo è possibile farlo? Ci sono ovviamente molti
“training per l’attenzione”, ma, a quanto pare, la pratica della meditazione di
consapevolezza – quella che oggi viene chiamata “mindfulness” – sembra
essere uno strumento elettivo per riuscirci. Malinowski nel 2013 pubblica un
interessante studio in cui dimostra, attraverso varie sperimentazioni, cosa
succede al nostro cervello quando prestiamo attenzione, in modo
consapevole e non giudicante, durante la meditazione. Facciamo un
esempio “flagrante”: la lettura di queste parole. Mentre leggi queste parole,
devi dirigere consapevolmente la tua attenzione a questo foglio; tra qualche
minuto, o forse pochi secondi, è possibile che la tua attenzione vada altrove.
A volte ciò dipende da una distrazione esterna, altre volte sono i tuoi pensieri
a intromettersi in ciò che stavi osservando. Non ci rendiamo subito conto
di aver “perso il filo”, pertanto tendiamo a vagare, attivando la nostra
rete di default (la nota DMN); quando ci accorgiamo di vagare iniziamo a
riorientarci verso queste parole.

Ecco, all’interno di questa semplice sequenza – osservare intenzionalmente,


perdersi, notare di essersi persi, tornare indietro – sono coinvolti ben 5
circuiti cerebrali tra i più importanti per la nostra sopravvivenza. Quello
della vigilanza, che porta attenzione intenzionalmente alle parole; quello
della rete di default, quando ci perdiamo tra i pensieri; quello della salienza,
che ci consente di accorgerci che non stiamo più leggendo; quello esecutivo,

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che serve per tornare a leggere; e infine quello del riorientamento, che ci
serve per tornare sui nostri passi.

METACOGNIZIONE E ATTEGGIAMENTO MENTALE NEI CONFRONTI


DELL’ERRORE

Sembra incredibile che un esercizio così semplice, come la lettura, implichi


tutte queste reti cerebrali, collegamenti che peraltro, se ci pensiamo bene,
sono indispensabili in ogni ambito della nostra vita. La domanda che sorge
spontanea è: ma se, leggendo, stimolo tali circuiti, che ho addestrato per
tutta una vita, quale bisogno avrei di renderli ancora più forti? Forse mi
basterebbe continuare a leggere? Sicuramente noi esercitiamo le nostre
facoltà attentive per tutta la nostra vita, ma quando ci sediamo in meditazione
facciamo alcune cose in modo assai diverso: cose che possono aiutarci a
capire come funzioniamo e come massimizzare le nostre risorse cognitive.

In particolare, gli aspetti più importanti a cui solitamente non prestiamo


attenzione sono 2: la metacognizione e l’atteggiamento mentale nei
confronti dell’errore. Per metacognizione intendo la capacità di accorgerci di
cosa ci accade dentro e in particolare di quando “non siamo più attenti”, di
quando “abbiamo perso il filo del discorso”. Certo, solitamente ci accorgiamo
di questo, ma quando avviene tendiamo a trattarci in modo poco lusinghiero e
qui entra in campo il secondo aspetto: l’atteggiamento mentale nei
confronti dell’errore. Immagina di leggere e di perderti, e ogni volta che
accade, invece di vedere la cosa come una semplice distrazione, immagina
di iniziare a pensare che “tu non sei capace di leggere” o, peggio ancora, di
iniziare a parlare e a giudicare te stesso in modo rude e negativo. Secondo
te, se ti tratti in maniera feroce ogni volta che perdi il filo del discorso durante
una lettura, aumenti o diminuisci la probabilità di tornare a leggere? Lo so,
sembra scontato, ma in realtà, se ci trattiamo in maniera “negativa”,
diminuiamo la motivazione che ci porta a tornare sul pezzo.

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Al contrario, nella pratica della meditazione s’insegna a trattarsi in modo
gentile quando ci si accorge di essersi persi, e ciò per diverse ragioni. La
prima è legata alla motivazione, di cui stiamo discutendo: se ti tratti in modo
gentile, non perdi motivazione, anzi cominci a vedere quelle défaillances
come un normale processo di auto-consapevolezza. Come seconda
conseguenza, ti “vaccina” gradualmente nei confronti di una delle
nostre paure più antiche: quella di sbagliare. Sì, essere gentili con noi
stessi non significa essere lassisti, far finta di niente e gettare la spugna,
bensì riconoscere il nostro intoppo per tornare a ciò che stavamo facendo
senza formulare troppi giudizi. In realtà, ci perdiamo per mille motivi diversi, e
cercare la causa tra mille condizioni esterne e interne, o addirittura attribuire
a sé stessi giudizi negativi come «Sei un buono a nulla», «Stai perdendo
colpi» ecc., ci demotiva e fa sì che quel delicato processo di riconoscimento
(la metacognizione) perda efficacia, poiché ci spaventa riconoscere che non
stiamo facendo le cose per bene.

Le nostre risorse attentive si comportano come un cagnolino: se lo portiamo


a spasso in un sentiero, dobbiamo aspettarci che prima o poi vada fuori
percorso, che corra incontro ad altri animali, che sia attratto da altri stimoli
periferici. Se ogni volta che accade, lo strattoniamo con prepotenza, egli non
impara a restare sul percorso, non è un robot, anzi: non appena ne avrà
l’occasione, scapperà via. Se, al contrario, ogni volta che cambia strada
riconosciamo cosa sta accadendo e lo riportiamo gentilmente sul
percorso, tra noi si stabilirà una sorta di collaborazione. Lui si sentirà
libero di esplorare e, quando avvertirà quel richiamo, tornerà a passeggiare
con noi, e via via che glielo consentiremo potremo ogni volta allungare il
guinzaglio in modo che il nostro quadrupede possa perdersi quanto vuole,
tanto sapremo come riportarlo indietro.

La nostra attenzione si comporta esattamente nello stesso modo: non è


progettata per restare ferma su un unico stimolo, è invece progettata per

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saltellare da uno stimolo all’altro ed è curiosa proprio come un cucciolo, per
cui iniziamo a trattarla meglio!

Abbiamo visto, quindi, di vivere nell’era della distrazione, dove ogni stimolo
è in realtà “arricchito” affinché possa catturare parti della nostra
attenzione, per motivi o propagandistico-politici o commerciali. Abbiamo visto
anche che così come il nostro corpo è diventato sempre più comodo nei
secoli, allo stesso modo il nostro cervello sta vivendo in un’era che tende alla
minor “frizione cognitiva possibile”. La scienza ha ampiamente dimostrato
che l’attività fisica è benefica a livello psico-fisico, per questo oggi chi
desidera vivere in salute fa anche esercizio fisico con costanza e (almeno
nelle società avanzate) mangia in maniera migliore. La stessa cosa sta
accadendo alla nostra cara psicologia: visto che il mondo semplificato tende
a farci perdere le nostre risorse cognitive più importanti, abbiamo iniziato a
utilizzare “brain trainer”, giochi mentali e tecniche di meditazione. Il
sottoscritto è di parte nel consigliarti la meditazione, dato che la pratica e la
insegna da anni; ma sappi che se riuscirai anche solo a diventare più
consapevole di quando “ti perdi” e a trattarti meglio, con maggiore gentilezza,
starai già facendo un lavoro egregio. Nel mio recente libro Facci caso ho
inserito tutta una serie di esercizi che conducono ad aumentare la
consapevolezza e a riaddestrare il muscolo dell’attenzione. Insomma, a volte
basta leggere per diventare più consapevoli, ma bisogna farlo in un certo
modo!

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