Esiste un tipo di energia poco utilizzata che regola le nostre azioni e relazioni,
e determina se ciò che stiamo facendo ha valore o meno. No, non sto
esagerando, questa forza “sotto-rappresentata” è la nostra cara attenzione.
Viviamo in una società che ha costruito le proprie infrastrutture commerciali
intorno al concetto di attenzione: come ci raccontano Paolo Legrenzi e Carlo
Umiltà nel loro testo Una cosa alla volta, viviamo immersi in un mondo
composto da quelli che gli autori definiscono «super-stimoli», cioè
stimoli che vengono appositamente arricchiti per attrarre la nostra attenzione.
Mentre un uomo dell’antichità aveva a che fare con poche informazioni e
pochi stimoli artificiali, oggi ne siamo letteralmente subissati. Tutto ciò ha
portato alcune persone a definire la nostra epoca come l’«era della
distrazione», nella quale non solo siamo circondati da stimoli che hanno lo
scopo specifico di influenzare le nostre opinioni e i nostri comportamenti, ma
nella quale, piuttosto che restare “senza stimoli” e quindi cadere nella
noia, siamo addirittura portati ad autosomministrarci delle scosse elettriche.
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trascorrere un po’ di tempo in solitudine. Cosa curiosa era che, insieme al
soggetto, vi era una sorta di marchingegno un po’ particolare: una scatola
in grado di somministrare piccole ma dolorose scosse. Lo sperimentatore
spiegava così il funzionamento di quella scatola e usciva dalla stanza:
ebbene, un’altissima percentuale dei partecipanti si autosomministrava
la dolorosa scossa. Questo esperimento aveva proprio lo scopo di cercare
di capire se, in mancanza di stimolazioni esterne, una persona preferiva
stimoli dolorosi piuttosto che restare senza stimoli per un certo arco di tempo.
La bizzarra ipotesi dei ricercatori fu più che confermata: i soggetti si
autostimolavano e alcuni lo facevano in continuazione, senza che
nessuno avesse loro detto di farlo.
Ora, questo dato potrebbe significare anche che in realtà siamo degli animali
curiosi e che se qualcuno ci mostra qualcosa con cui possiamo intrattenerci,
tenderemo a utilizzarlo. Ma in realtà lo studio non fa che confermare il dato di
fatto che viviamo in un’epoca nella quale, se non siamo intrattenuti da
qualcosa, tendiamo a sentirci annoiati, vuoti e senza scopo. E tutto ciò
non dipende solo da una nichilista svalutazione dei valori, ma dipende anche
da come stiamo trattando la nostra attenzione, una delle risorse psicologiche
più importanti e allo stesso tempo sottovalutate di sempre. Sì, perché per la
maggior parte delle persone attenzione è qualcosa che riguarda la
percezione delle cose, è una sorta di risorsa che abbiamo più o meno a
disposizione durante la giornata e che segue regole legate al funzionamento
fisiologico dei nostri sensi. Ma, in realtà, noi psicologi sappiamo da molti
anni che il processo attentivo è molto più complicato di così: non si
tratta di un canale statico che riceve in modo passivo la realtà, ma di un
processo dinamico e attivo di scambio tra mondo e mente.
Personalmente, sono felice di non dover più essere una sorta di ingegnere
informatico per collegare un qualsiasi device al mio PC: chi ha più di 40 anni
si ricorderà che, un tempo, collegare una semplice stampante al computer
era un lavoro complesso. Per non parlare di come funzionavano i sistemi
operativi; chi non si ricorda del famoso DOS? Ecco, oggi abbiamo
interfacce meravigliosamente progettate al punto tale che chiunque si
trovi di fronte a un computer sa più o meno cosa deve fare per aprire un
file. Con l’effetto che i nostri figli, invece di sfogliare le pagine dei giornali,
cercano di “skippare le immagini” come se stessero utilizzando un tablet, e
quando non ci riescono ci restano male.
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Ora, ci tengo a dire che queste parole non servono per ammonire
sull’avanzamento tecnologico: esso esiste da sempre e francamente non
tornerei indietro ad arare i campi o a tenere a mente le cose invece di
scriverle su un supporto digitale; ma le riflessioni precedenti mi servono per
mostrare il paradosso che ci conduce a edificare palestre, a informarci su
cosa e come mangiare in modo più sano (di solito si tratta di una dieta simile
a quella dei nostri antenati) e su come mantenere il cervello in forma. E
una delle modalità più efficaci per farlo è quella di allenare le nostre facoltà
attentive. Ma in che modo è possibile farlo? Ci sono ovviamente molti
“training per l’attenzione”, ma, a quanto pare, la pratica della meditazione di
consapevolezza – quella che oggi viene chiamata “mindfulness” – sembra
essere uno strumento elettivo per riuscirci. Malinowski nel 2013 pubblica un
interessante studio in cui dimostra, attraverso varie sperimentazioni, cosa
succede al nostro cervello quando prestiamo attenzione, in modo
consapevole e non giudicante, durante la meditazione. Facciamo un
esempio “flagrante”: la lettura di queste parole. Mentre leggi queste parole,
devi dirigere consapevolmente la tua attenzione a questo foglio; tra qualche
minuto, o forse pochi secondi, è possibile che la tua attenzione vada altrove.
A volte ciò dipende da una distrazione esterna, altre volte sono i tuoi pensieri
a intromettersi in ciò che stavi osservando. Non ci rendiamo subito conto
di aver “perso il filo”, pertanto tendiamo a vagare, attivando la nostra
rete di default (la nota DMN); quando ci accorgiamo di vagare iniziamo a
riorientarci verso queste parole.
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che serve per tornare a leggere; e infine quello del riorientamento, che ci
serve per tornare sui nostri passi.
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Al contrario, nella pratica della meditazione s’insegna a trattarsi in modo
gentile quando ci si accorge di essersi persi, e ciò per diverse ragioni. La
prima è legata alla motivazione, di cui stiamo discutendo: se ti tratti in modo
gentile, non perdi motivazione, anzi cominci a vedere quelle défaillances
come un normale processo di auto-consapevolezza. Come seconda
conseguenza, ti “vaccina” gradualmente nei confronti di una delle
nostre paure più antiche: quella di sbagliare. Sì, essere gentili con noi
stessi non significa essere lassisti, far finta di niente e gettare la spugna,
bensì riconoscere il nostro intoppo per tornare a ciò che stavamo facendo
senza formulare troppi giudizi. In realtà, ci perdiamo per mille motivi diversi, e
cercare la causa tra mille condizioni esterne e interne, o addirittura attribuire
a sé stessi giudizi negativi come «Sei un buono a nulla», «Stai perdendo
colpi» ecc., ci demotiva e fa sì che quel delicato processo di riconoscimento
(la metacognizione) perda efficacia, poiché ci spaventa riconoscere che non
stiamo facendo le cose per bene.
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saltellare da uno stimolo all’altro ed è curiosa proprio come un cucciolo, per
cui iniziamo a trattarla meglio!
Abbiamo visto, quindi, di vivere nell’era della distrazione, dove ogni stimolo
è in realtà “arricchito” affinché possa catturare parti della nostra
attenzione, per motivi o propagandistico-politici o commerciali. Abbiamo visto
anche che così come il nostro corpo è diventato sempre più comodo nei
secoli, allo stesso modo il nostro cervello sta vivendo in un’era che tende alla
minor “frizione cognitiva possibile”. La scienza ha ampiamente dimostrato
che l’attività fisica è benefica a livello psico-fisico, per questo oggi chi
desidera vivere in salute fa anche esercizio fisico con costanza e (almeno
nelle società avanzate) mangia in maniera migliore. La stessa cosa sta
accadendo alla nostra cara psicologia: visto che il mondo semplificato tende
a farci perdere le nostre risorse cognitive più importanti, abbiamo iniziato a
utilizzare “brain trainer”, giochi mentali e tecniche di meditazione. Il
sottoscritto è di parte nel consigliarti la meditazione, dato che la pratica e la
insegna da anni; ma sappi che se riuscirai anche solo a diventare più
consapevole di quando “ti perdi” e a trattarti meglio, con maggiore gentilezza,
starai già facendo un lavoro egregio. Nel mio recente libro Facci caso ho
inserito tutta una serie di esercizi che conducono ad aumentare la
consapevolezza e a riaddestrare il muscolo dell’attenzione. Insomma, a volte
basta leggere per diventare più consapevoli, ma bisogna farlo in un certo
modo!