ci resta che ridere, di Andrea Tagliapietra, Il Mulino, Bologna 2013.
di Claudio Tugnoli
Ridere si dice in molti modi. La gamma dei modi di ridere è così
ampia, che da un capo all’altro del ventaglio c’è un’opposizione a stento occultata dall’apparente continuità delle gradazioni intermedie. Il riso va dalla derisione feroce al sorriso affettuoso, dallo scherno beffardo alla partecipe manifestazione di gioia, a seconda che colui che ride voglia prendersi gioco, offendere o persino demolire il malcapitato o la vittima di turno, oppure che, al contrario, intenda rallegrarsi con qualcuno per la sua buona sorte. Il riso di scherno o derisione è un segnale di attacco e insieme un attacco vero e proprio alla persona designata per qualche sua idiosincrasia, difetto o peculiarità che la predispone alla vittimizzazione. Un riso che suona sinistramente come segnale di attacco e come attacco, si potrebbe chiamare perlocutorio o performativo, categoria che John Austin ha introdotto per designare usi e funzioni linguistiche non descrittive e non imperative (locutorie o illocutorie). Espressioni come “prometto che…”, “mi impegno a rispettare tutte le clausole dell’accordo”, “giuro che…”, ecc. hanno valore performativo in quanto compiono di fatto l’azione che, apparentemente, si limitano a descrivere. In modo simile il riso condensa un agire e un dire, un fatto e un logos, un evento e il suo annuncio. (L’Incarnazione è un evento e insieme il suo annuncio: Dio si fa uomo e insieme si annuncia come Figlio di Dio inviato da Dio Padre). Il riso in generale può essere interpretato come un esempio di “performativo comportamentale”, espressione con cui intendo riferirmi al fatto che il riso funziona come segnale di un’azione e insieme si esplica come esecuzione della stessa azione di cui è annuncio. Il sorriso affettuoso potrà funzionare quindi come segnale del bene che si auspica per il destinatario e come esso stesso un bene che gli si porge. Se la derisione è un atto che annuncia e provoca distruzione nella vittima designata, il sorriso affettuoso è un atto che segnala l’auspicio del dono che si fa al destinatario, per il semplice fatto di indicarlo come meritevole di quel bene. La derisione presuppone un gruppo, reale o ideale, con la complicità del quale si deride il malcapitato prescelto; il sorriso affettuoso invece non ha bisogno di una comunità che unanimemente si congratula e si rivolge con affetto al beneficato, anche se non l’esclude. Il riso è un fenomeno sociale; si ride prevalentemente del prossimo, non di se stessi o almeno ridere di stessi non è tanto un ridere quanto un prendere coscienza dei propri limiti e difetti. L’inverso accade con il pianto. Il pianto primario è un lamento per la propria sofferenza, esprime disperazione per lo stato in cui ci si trova. Il pianto insomma coinvolge il prossimo solo indirettamente. Chi piange per il decesso di una persona cara, è lacerato dalla sua mancanza e insieme si dispera per la sorte tristissima toccata a chi non è più. Si ride dei vivi con i vivi, si piange dei morti da soli. Per questo il pianto è muto, solitario, senza speranza: sembra non avere nulla del performativo comportamentale che ho evocato a proposito del riso. Il pianto non è un segnale per nessuno e di niente, a meno che non sia simulato. È solo una manifestazione di angoscia che raggiunge il suo acme, un’autoindulgente rassicurazione che assolve da ogni colpa. L’uomo si consegna piangendo al destino che lo attende. Nel pianto, l’impotenza dinanzi al dolore e alla morte propri e delle persone care, si converte in rassegnazione. L’uomo alterna la resa dei conti con se stesso alla dinamica relazione con il prossimo, il pianto di mestizia al riso di letizia. Il pianto è sinonimo di solitudine e percorso a ritroso con la memoria verso il passato; il riso si accende in compagnia, si alimenta di attese, promesse e progetti. Il pianto guarda il passato, il riso al futuro. Come ci ricorda Andrea Tagliapietra in esordio al suo saggio denso e rutilante, la tradizione filosofica e teologica ha per lo più considerato il riso come una manifestazione di leggerezza, se non proprio di stupidità, contrapponendolo alla serietà meditabonda dell’uomo occupato in gravi faccende. Il riso è stato condannato perché interpretato come segno di superficialità e incomprensione della verità che riguarda la condizione tragica di tutti gli esseri umani. Non è sempre stato ripetuto, ai giovani educandi, che risus abundat in ore stultorum? Il riso dunque sarebbe un proprio dell’uomo (il solo animale che ride) e insieme un elemento che contraddice la sua natura di essere razionale? Il fatto è che il riso è sconcertante, per lo più improvviso e breve, mentre il pianto è prolungato e sconfina nella malinconia della serietà che prende atto del nulla in cui l’esistenza è destinata a dissolversi. Sembra quasi che il pianto, passivo e rassegnato, rispecchi la coscienza del tragico, l’evidenza del divenire, mentre il riso, attivo e combattivo, insorga a combattere in un corpo a corpo con il nulla che vorrebbe inghiottirlo e di cui il riso si fa beffe. Il riso deplora ciò che il pianto predilige e viceversa. Non possono andare d’accordo, come dimostra e contrario il riso isterico in cui il pianto può trasformarsi. Difficile considerarli due stati opposti e simmetrici: se rido, preferisco ridere piuttosto che piangere, ma se piango, non riesco a ridere, anche se volessi. Nel riso sono libero, come un uccello che plana nell’aere immenso; nel pianto sono prigioniero, come lo stesso volatile che sia caduto prigioniero in una rete senza via d’uscita. La malinconia incline al pianto che la tradizione attribuisce a Eraclito contrasta con il riso di Democrito, che scoppia a ridere osservando la condizione degli esseri umani prigionieri delle loro preoccupazioni, angosce, illusioni. Non si ride di chi è prigioniero di qualcuno o vittima di qualche disavventura; si ride di chi è prigioniero di se stesso, dei propri pregiudizi, della propria inerme stupidità. Si piange perché in qualche modo si è prigionieri di se stessi e della propria condizione, si ride di qualcuno che è vittima di se stesso. La ragione per cui si piange o si ride è dunque la stessa, cambia solo il soggetto: da una parte il coinvolgimento diretto, dall’altra il distacco che prende le distanze. Tagliapietra non fa mistero della sua preferenza per il riso di Democrito. Inutile pretendere di venire a capo del mistero insondabile del nostro essere nel mondo. Impossibile penetrare a fondo e dar conto in termini razionali del limite e dell’accidentalità che siamo. Il riso insorge a ricordarci che la realtà è essenzialmente un enigma, impossibile da risolvere mediante la conoscenza. L’enigma, scrive Tagliapietra, si deve solo sopportare e il riso è il provvedimento con cui il soggetto che cerca invano il fondamento di sé e del mondo è costretto a fare i conti, a ridimensionarsi, cogliendo il limite della propria natura. Il riso dunque è un atto cognitivo, che reagisce al caso, all’irrazionale, all’enigma con l’astuzia di chi, sapendo di essere cercato da uno che vuole ucciderlo, riesce a non farsi mai trovare. Il riso rende liberi e apre il campo delle possibilità proprio a partire da una coscienza critica del contingente, del qui e ora. Filosofo è chi se la ride e chi si sbarazza della stupidità umana con un peto glorioso. Filosofo vero è colui che riesce a ridere persino della propria morte, che non solo vive, ma muore anche ridendo. Mi piace ricordare la seconda versione della morte di Crisippo: Diogene Laerzio (VII, 7) riferisce come l’esponente principale della logica stoica sia morto in seguito a una grossa risata. Ad un asino che aveva mangiato i suoi fichi, Crisippo ordinò che fosse dato da bere del vino schietto. Fu così che il filosofo stoico scoppiò in una risata incontenibile e morì. Morire ridendo, morire dal ridere, ridere morendo: Crisippo se la ride della morte, che non riesce a trovarlo, perché quando sopraggiunge lui è già altrove. La libertà del riso è totale: nulla riesce a intrappolare chi fa del riso l’arma letale contro ogni dittatura: del potere, della realtà che si pretende incontrovertibile, del principio di non contraddizione, del preteso limite invalicabile, della differenza tra senso e non senso, dell’assoluto. Tagliapietra se la ride della dimostrazione confutatoria del principio di non contraddizione. Infatti la confutazione di colui che nega il principio di non contraddizione, non può avere successo se il negatore del principio non parla o non fa alcun segno. Comicissima dunque la situazione del confutatore «in impaziente attesa della parola fatale che fa scattare la trappola della sua confutazione, e dall’altro, invece, un bambino che ride standosene zitto» (p. 17). La risata destruttura le situazioni, mina la stabilità del senso, manda a gambe all’aria ogni forma di normalità, mette in crisi ogni sistema di potere, smaschera ogni forma di ideologia. Arma del contestatore e del pensiero critico, il riso è una risorsa estrema per legittima difesa. Il riso che scompagina e butta all’aria tutte le certezze, trivella tutte le superfici che nascondono il vuoto, denuda tutte le sontuose snobistiche consuetudini dei potenti. È questo il riso che Tagliapietra considera a un tempo pericoloso e irrinunciabile, fatale e provvidenziale, faceto e serio, anzi serissimo, insieme. Il riso rivela l’uguaglianza al di sotto di fasulle e posticce diseguaglianze; come un peto reboante, una risata scrosciante al momento opportuno fa la radiografia impietosa dei miseri mortali che s’imbellettano e si profumano per esercitare il potere della seduzione. Un saggio sul riso e sul comico non poteva passare sotto silenzio la Storia del riso e della derisione (2000) di Georges Minois, cui Tagliapietra riconosce un’importanza fondamentale. Minois illustra non solo le diverse teorie del riso e i diversi approcci della filosofia e della scienza al tema del comico, ma cerca anche di spiegare storicamente l’evoluzione del fenomeno prendendo in considerazione le situazioni, i contesti e le ragioni per cui nelle varie epoche gli uomini ridono. Il riso ha una base fisiologica ed è una caratteristica antropologica universale, ma al tempo stesso il suo significato muta nel tempo. Minois distingue tre grandi periodi o epoche. L’antichità è l’epoca del riso divino, degli dei che ridono tra loro e di loro stessi, oltre che degli uomini: è il riso di chi assiste alla scena del mondo, dio o uomo che sia, senza esserne coinvolto. Con l’avvento del cristianesimo il riso assume una connotazione negativa: non è più il riso degli dei che, come quelli di Epicuro, se ne infischiano di tutto e di tutti, ma è diventato il riso diabolico, segno della caduta e deformità congenita che l’uomo deve occultare al pari delle più disgustose manifestazioni fisiologiche del proprio corpo. Tuttavia, se il riso nel Medioevo era peccato, non per questo era rispettata la norma di evitarlo. Anzi, il fatto che fosse messo al bando, lo rendeva esplosivo e sovvertitore nelle occasioni in cui la trasgressione era istituzionalizzata, come nel periodo di Carnevale. Se in epoca antica e medioevale il riso si colloca nell’orizzonte simbolico del riferimento all’alterità trascendente, sia essa dio o il diavolo, l’età moderna si configura come l’epoca del riso immanente ed esteso a ogni settore della vita e della conoscenza. Di qui l’invenzione della serietà, che diventa il metro di giudizio del faceto. La serietà è un’invenzione della modernità, scrive Tagliapietra citando Vladimir Jankélévitch, è la creazione di una zona franca tra i due estremi e i due eccessi opposti del tragico e del comico, «un piano intermedio tra la tragedia della nostra mortalità e la buffoneria della nostra esistenza superficiale» (p. 22). La serietà diventa presto normalità e sinonimo di efficienza produttiva, costanza, determinazione, affidabilità e fedeltà conformistica al principio di realtà, in ogni sua declinazione. Con l’avvento della serietà il riso diventa sempre meno “serio”, se ci è concesso questo bisticcio, nel senso che assume la connotazione di frivolezza e banalità e diventa un gesto di desistenza un’ammissione di impotenza, tutt’al più un trastullo triste, rispetto a una realtà che, sull’asse principale della serietà, si è già qualificata come immodificabile. L’epoca moderna segna anche il trionfo del riso di massa, quel riso d’occasione anonimo ed ebete al quale la gente si abbandona per dovere sociale: un riso impersonale, determinato dal contagio virale provocato dal primo che ride. Come gli applausi di massa, anche il riso di massa si scatena per imitazione del primo che comincia, operando una brusca transizione dalla serietà normale alla risata dilagante, secondo un meccanismo che la teoria mimetica ha studiato a fondo (la folla che sta per linciare l’adultera, alle parole di Gesù “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, si disperde per contagio a partire dal primo che ha lasciato cadere la pietra, così come tutta intera la folla avrebbe lapidato l’adultera, a partire dal primo che avesse lanciato la sua pietra gridando allo scandalo). Del resto, come ricorda Tagliapietra, della banalizzazione del riso, ridotto a dovere sociale, anonimo e conformistico, non c’è miglior esempio del “riso registrato”, delle “risate confezionate”, inventate dal tecnico del suono statunitense Charles Rolland Douglass e introdotte negli spettacoli della televisione americana negli anni Cinquanta del secolo scorso (p. 25). I manuali che insegnano come conseguire il successo in società e nelle professioni raccomandano il sorriso come garanzia di riuscita: il sorriso professionale deve illudere il prossimo che siamo felici, che siamo portatori di successo e benessere, che chiunque ci segue avrà una vita meravigliosa. Nessun cedimento al corruccio, al nervosismo, alla malinconia o al sentimentalismo: i clienti del business, come pure i nostri amici, non vogliono sapere nulla del nostro passato, delle sciagure private. La parola d’ordine è dare sempre a intendere di avercela fatta, comunque sia, con un sorriso rassicurante che funziona sempre. L’ipocrisia del sorriso stereotipato e di facciata, per essere colta, richiede una lettura di secondo grado, sempre molto difficile, giacché solo in rari casi lo spettatore o l’interlocutore può essere indotto al sospetto d’insincerità e a mettere in discussione il primo modo di percepire il sorriso, al quale è sospinto dal contagio mimetico e conformista. L’imperativo del riso domina la scena anche in politica. In Italia molti comici, da Grillo a Dario Fo, da Benigni a Crozza, hanno instaurato il sistema per cui si deve ridere comunque di qualsiasi cosa, anche di quelle serissime e gravissime, col pretesto della satira che deve scardinare il sistema, sgretolare le incrostazioni del potere, ma col risultato, tuttavia, che l’invettiva, il turpiloquio, la risata oscena, l’ironia pungente e dissacrante, sono diventate il modo migliore per dar prova di libertà senza libertà, di cambiamento senza cambiare nulla, di riparare alle ingiustizie senza alcuna reale volontà di giustizia, di dare una svolta meritocratica alla società italiana conservando i privilegi delle oligarchie consolidate. Il riso apparentemente distruttivo, di fatto, non demolisce un bel nulla, ma rincuora tutti quanti: gli ingenui che subiscono le storture denunciate e i responsabili, insieme beneficiari, di queste storture. È un riso ideologico, che non costa nulla, non fa aumentare il debito pubblico, non mette in discussione nessuno, illude senza deludere, perché c’è sempre la gag successiva che ripaga, quella che consola anche i palati più esigenti. La satira muore nell’ignavia di una società tristemente rassegnata e passivamente indotta al consumo permanente di lazzi e frizzi, trascinata a ridere e a far ridere tutti di tutto. Una delle ragioni per cui il grande circo del passato attraversa un grave crisi, perché non ha più seguito di pubblico, è probabilmente il fenomeno della diffusione del riso e della ricerca del comico come stato permanente, come categoria irrinunciabile nella lettura della realtà. È cambiata la sintassi del rapporto tra serio e faceto. Denunciare non è sufficiente: l’indignazione deve essere seguita o accompagnata dal paradosso buffonesco che innesca la risata; l’apparenza giullaresca trasforma in comicità irresistibile tutta la fenomenologia dell’esistenza pubblica e privata. E chi osasse svelare la truffa mediatico-sociale della buffonata imperativa, sarebbe apostrofato come “moralista”. Intanto, in un mondo in cui la serietà è costretta a nascondersi, la satira dissacrante non svolge più il suo ruolo critico essenziale, anche se continua a “funzionare” ideologicamente conservando tutti felicemente al loro posto. Come nella caverna di Platone i prigionieri scambiano le ombre proiettate sul fondo per cose vere, così l’uomo della società dei consumi di massa scambia l’irrisione permanente per critica corrosiva, l’attacco dei comici per l’anticamera della rivoluzione, se non per la rivoluzione stessa, quando al contrario la brodaglia smancerosa della satira obbligatoria a piene mani ormai non castigat ridendo mores, ma li corrobora e li estende.
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Che la tradizione filosofica abbia identificato il riso come il “proprio
dell’uomo” certamente non giustifica l’adozione del riso quale vessillo da esibire come distintivo all’occhiello. Da Aristotele in poi, ricorda Tagliapietra, la filosofia ha prestato molta attenzione al fenomeno del riso, cogliendone la natura anfibia, ambigua e ambivalente di atto in cui mente e corpo, pensiero e fisiologia sembrano convergere e darsi la mano. La mediazione dei due estremi si esprime nel riso in diversi modi e il riso può rivelarsi nel suo grado inferiore come mera convulsione irrefrenabile indotta dal solletico oppure, nel suo grado superiore, il lampo di un’intuizione che coglie il bagliore fulmineo di una battuta di spirito, dove la manifestazione esteriore di una risata scrosciante è del tutto accidentale e secondaria. Da Aristotele a Porfirio, da Boezio a Rabelais la formula del riso come “proprio dell’uomo” attraversa i secoli, sia come esempio di categoria logica, quella del proprio, sia come tratto che contraddistingue l’uomo rispetto agli animali. Nell’Isagoge di Porfirio il proprio compare al quarto posto della serie categoriale: genere, specie, differenza, proprio, accidente. Porfirio attribuisce al proprio ben quattro significati: ciò che appartiene ad una determinata specie, anche se non a tutti gli individui, come essere “medico” o “geometra”; ciò che appartiene a una determinata specie anche se non in modo esclusivo, come l’essere “bipede”, condiviso dall’uomo e da altre specie; ciò che appartiene in modo esclusivo alla totalità degli individui di una determinata specie, ma solo in un determinato periodo, come il diventare “bianco” in vecchiaia per ogni uomo; infine ciò che appartiene sempre ed esclusivamente a tutti gli individui di una specie, come appunto la “capacità di ridere”, che è un’attitudine come la capacità di nitrire per il cavallo (Isagoge, 12, 12-22). L’attitudine o capacità di ridere è utilizzato da Porfirio come esempio di proprio, per differenziare tale categoria dalla differenza (tolta la quale, ad esempio la razionalità dell’uomo, sarebbe tolta anche l’essenza dell’uomo stesso) e dall’accidente, “ciò che può essere presente o assente, senza comportare la distruzione del soggetto” (Isagoge, 12, 23-26, trad. it. di G. Girgenti). Che poi l’accidente si distingua in separabile (ad esempio “dormire”) e inseparabile (ad esempio l’essere “nero” per il corvo e per l’Etiope) non mette in conto un’accidentalità di secondo grado, come la separabilità degli accidenti stessi. Se si guarda bene, la tassonomia di ciascuna categoria rinvia a una distinzione che potremmo chiamare trascendentale, tra essenziale e accidentale, necessario e contingente, talché la capacità di ridere sarebbe esempio di proprio necessario, ossia di qualcosa che è compreso essenzialmente nella definizione di uomo, senza tuttavia rappresentarne la differenza specifica. Che il riso abbia a che fare con la differenza rappresentata dalla razionalità, rappresenta l’implicito della scala categoriale di Porfirio: non è forse il riso un guizzo dell’intelligenza, un soprassalto del pensiero, oltre che, ma non necessariamente, un accesso di parossismo spasmodico? Del resto, anche la razionalità è un dispositivo, un’attitudine, una capacità che, quando si muove con destrezza e distacco è già a pieno titolo la risatina dell’homo sapiens compos sui et omnium rerum, che domina ogni cosa dall’alto e da lontano, in piena e autentica libertà. Di una parentela profonda tra capacità di ridere e intelligenza non è quindi illegittimo parlare. Giusta quindi l’osservazione di Tagliapietra che «la formula scolastica, invece di chiarire i dubbi sull’essenza dell’uomo, su ciò che gli è proprio e che lo distingue dagli altri esseri viventi, finisce per far ombra anche in direzione di quella razionalità come capacità di pensiero che, riconsiderata da un’altra prospettiva, ci appare altrettanto discontinua e intermittente del riso» (p. 41). Si sa che, come il riso, anche i pensieri vengono e vanno; la forza persuasiva di un’argomentazione stringente imprime un’impressione di incontrovertibilità che, tuttavia, col passare del tempo, si affievolisce fino a scomparire per effetto della minaccia rappresentata da un argomento antitetico inatteso. Ridere e pensare sono attività in cui la prospettiva vincente da cui si ride e si pensa non è mai definitiva, ma muta col mutare delle circostanze e delle relazioni, talché al proverbio “ride bene chi ride ultimo” si potrebbe aggiungere “pensa bene chi pensa ultimo”, senza dimenticare, in ogni caso, che nessuno è mai l’ultimo. Ridere è proprio dell’uomo, ma si ride solo dell’uomo o di ciò che è umano o è equiparato all’umano. Il riso e la riflessione razionale sono essenzialmente la capacità di prendere le distanze, di salire di livello dall’oggetto alla cornice, sono un atto di libertà con cui si rimprovera agli esseri umani la loro resistenza a prendere l’iniziativa e la loro accettazione della schiavitù che pure sarebbe estranea alla loro natura di esseri umani, alla loro essenziale dignità. Il riso come intersezione fra ragione e corporeità tende a diventare riflesso involontario quando alcune parti del corpo sono sottoposte a solletico, che tuttavia nessuno si può procurare da solo (un autore aristotelico lo pone come problema). Il riso più corporeo è quello più automatico e imperativo, dove l’irresistibilità ha cause fisiologiche e non nasce dalla rappresentazione razionale di rapporti tra cose. Nel solletico, scrive Tagliapietra riprendendo le osservazioni di Plessner, il riso fuori controllo sarebbe provocato dalla sorpresa del sistema sensoriale, che quindi sarebbe ingannato da un tipo di stimolazione improvvisa e inconsueta per quella parte del corpo, oltre che da stimoli contraddittori. Nel solletico il ridacchiare convulso e frenetico sfugge alla volontà del soggetto, che scopre di essere prigioniero di un automatismo corporeo (p. 50). La lontananza del solletico dal riso della ragione è abissale: nel primo il soggetto inerme e costretto a ridacchiare senza freni, attende con sottile angoscia che quella stimolazione abbia termine; nel secondo accade esattamente l’opposto. Irresistibili entrambi, essi differiscono come l’impotenza dell’uomo sotto tortura che anela a liberarsi e l’impulso dello scalatore che, giunto in cima a una montagna, non può non sentirsi libero dalle miserie del “formicaio” che intravvede sul fondo della vallata. Il solletico può evolversi e, attraverso la riflessione, indurre l’uomo, dapprima trascinato da una valanga di spasmi convulsi, a prendere coscienza della propria condizione di uomo ridicolo, vittima della comicità. Da oggetto a soggetto del comico, il movimento dialettico del riso si svela un potente alleato del pensiero critico, che è la capacità di prendere le distanze e di liberarsi dal contesto a livelli sempre crescenti. Che cosa è l’uomo se non colui che è capace di ridere dell’altro uomo? I riso e il pensiero autentico possono persino configurarsi come due facce della stessa medaglia, due lati della stessa attività, una interiore e l’altra sensibile, una silenziosa e l’altra eclatante. Il riso rinvia a una strutturale doppiezza, scrive Tagliapietra, quella per cui gli essi umani “sono un corpo” e “hanno un corpo” al tempo stesso. L’essere umano è trattenuto nel suo centro ma insieme si emancipa, evade, va oltre se stesso, misurandosi con ogni alterità possibile. Il doppio senso della metafora è la sua cifra; la metafora, costitutiva del linguaggio e quindi intrascendibile, è il paradigma esistenziale dell’uomo, sempre in bilico tra la necessità di essere se stesso e la possibilità di estraniarsi nell’alterità. Infatti «la metafora è il meccanismo fondamentale dello stesso funzionamento cognitivo, radicato in quella struttura drammaturgica della coscienza per cui facciamo e insieme ci vediamo fare e al contempo comprendiamo ciò che gli altri fanno immaginando di farlo anche noi», come insegna la scoperta dei neuroni specchio (p. 60). L’immagine dello specchio è forse quella che restituisce nel modo migliore l’intreccio di interdipendenza dei soggetti, capaci di riflettere nel doppio senso di rispecchiare e assumere qualcosa come oggetto dell’attività di pensiero. La coscienza è come uno specchio, che riflette se stessa nella forma di un altro, oggettivandosi, e insieme riflette un altro, un estraneo, nella forma del sé, soggettivandosi. Il doppio movimento dell’interdipendenza trova la sua migliore espressione simbolica nelle varie forme di drammaturgia che giungono alla rappresentazione teatrale. Il teatro è la modalità pubblica di autoriflessione e riflessione dell’alterità, che accompagna la formazione di ogni coscienza − per sua natura una corda tesa tra identità e alterità, una tensione mai risolta, che forse è all’origine della sindrome psichiatrica di bipolarità, dell’oscillazione tra euforia e depressione. Alla domanda: chi siamo? nessuna pratica filosofica può dare una risposta soddisfacente, perché siamo ciò che facciamo e ogni fare è alienarsi, diventare altro, formarsi e deformarsi, riconfigurarsi. Se l’uomo è ciò che si fa, la verità su di sé non può trovarla nella filosofia, ma può cercarla solo come soggetto in prima persona e mettendosi in gioco e in scena. Ecco perché «la verità drammaturgica è la verità del farci ciò che siamo, della scoperta dell’alterità, dell’odio, della perdita, del dolore, della morte, dello sdoppiamento, della catastrofe, della frantumazione, ovvero del “non so più chi sono”, ma poi anche del cammino opposto, costruttivo, dell’identità, dell’immedesimazione, della compassione, dell’amore, della conquista e della ricostituzione del “chi sono”» (p. 61). Nel teatro tragico l’immedesimazione, nella commedia la sospensione dell’immedesimazione rispettivamente soggettivazione e oggettivazione conducono lo spettatore alla catarsi e al riso, ma l’effetto più importante è rappresentato dallo sviluppo della coscienza di sé e dell’altro da sé. L’azione teatrale è la finzione giusta e necessaria per una coscienza che deve fingere se vuole fare sul serio e fare sul serio significa soprattutto fare se stessa. Il teatro è possibile solo perché manda a gambe all’aria il principio di identità e non contraddizione. Nessuna polemica contro il teatro, da Platone a Rousseau, potrà mai abolire l’elemento sostanziale di finzione inseparabile dalla vita degli esseri umani. Nessuna coscienza si forma senza riflettere su se stessa e l’autorappresentazione è la modalità pubblica di un autoriconoscimento (vedere sé come un altro) che deve passare attraverso il riconoscimento degli altri (vedere l’altro come sé). Gli abiti che indossiamo per uscire di casa, le nostre dichiarazioni che riguardano la nostra persona, e ogni manifestazione di noi stessi, sono alcune delle modalità con cui costruiamo noi stessi e diventiamo ciò che facciamo, nel gran teatro della vita. Una conseguenza del distacco, della sospensione dell’immedesimazione può essere il godimento di chi ride delle disgrazie e delle sofferenze altrui. È il caso del riso maligno, invidioso, del sarcasmo violento, segno di stomachevole stupidità prima che di cattiveria, quando le menomazioni e le miserie di cui si ride sono le stesse che con ogni probabilità colpiranno gli stessi derisori. Il confine tra riso e derisione è molto labile, così come sfuggente è la differenza tra la risata spontanea e in buona fede, e il sogghigno intenzionale che colpisce e ferisce la vittima della derisione beffarda. L’aggressività del sarcasmo malevolo può produrre effetti devastanti nella vittima presa di mira, provocando una grave perdita di autostima, smarrimento e persino, in certi casi di bullismo, anche il suicidio del malcapitato che soccombe sotto il flagello della ridicolizzazione sistematica e denigratoria messa in pratica ai suoi danni. Il riso può diventare una delle forme più gravi e pericolose di persecuzione e vittimizzazione. In fondo si ride in società e sempre di qualcuno, a suo danno, in sua presenza o assenza. Il riso come linciaggio simbolico non meno feroce di quello reale? Oppure il riso che fa le veci del pensiero critico e lo accompagna, misurandosi con i persecutori per demolirne l’immagine e spodestarli dall’immaginazione collettiva? Il riso è un farmaco, ma è anche un veleno, dipende dalla dose e da chi ne fa uso. Tagliapietra, citando Northorp Frye, distingue tra linciaggio reale e simbolico. Nella commedia ironica ad esempio le Nuvole di Aristofane dove Socrate è prima ridicolizzato, poi oggetto di un vero e proprio tentativo di linciaggio lo schema vittimario del tutti contro uno assumerebbe una valenza ironica, assecondando l’esigenza della comicità, che è quella di promuovere la liberazione da ciò che viene condannato come spiacevole o inaccettabile. Insomma la ridicolizzazione sarebbe un atto di soppressione simbolica che avrebbe il vantaggio di risolvere la tensione senza fare vittime, una specie di caricatura del linciaggio vero e proprio, che invece va condannato. Secondo questa tesi, il linciaggio simbolico sostituirebbe e impedirebbe il linciaggio reale. «Nel comico la violenza, rappresentata e condensata nella messa alla berlina del suo oggetto, allontana la violenza reale sia perché la sfoga in modo simbolico, ossia qualitativamente superiore, sia perché ne relativizza il sentimento» (p. 71). In risposta a un’ovvia obiezione riguardo le Nuvole, Tagliapietra ricorda che gli ateniesi i quali nel 423 a. C. ridono di Socrate, non sono gli stessi che nel 399 a. C. lo condanneranno a morte. Come l’uso delle armi in tenera età, anche la commedia ironica è una rappresentazione ossia una finzione di atti violenti e distruttivi, che alcuni potrebbero considerare precursori della violenza reale – una sorta di esercitazione come l’allarme antincendio attivato a scopo preventivo – oppure un comportamento ludico che contribuisce a formare la coscienza di sé e delle conseguenze della vittimizzazione reale. Nel primo caso la finzione simbolica prelude al linciaggio reale, lo prepara e vi predispone; nel secondo caso lo sostituisce, lo previene e, in ultima analisi, dovrebbe impedirlo. Due linee di pensiero, due letture opposte.
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La situazione o la battuta che fa ridere giunge sempre inattesa,
funziona come un imprevisto, una deviazione del corso normale delle cose; il riso è la reazione a questo “incidente” o “errore”, sia esso dovuto al caso o a maldestra prestazione, come nei cortometraggi di Stanlio e Ollio (Stan Laurel e Oliver Hardy). Bergson direbbe che il comico delle situazioni nasce dal disappunto nei confronti dell’interruzione del fluire della vita stessa, che improvvisamente assume la rigidità del meccanismo; il riso sarebbe allora la punizione di questa caduta, dell’errore dovuto a disattenzione e disimpegno. Il comico rinvia all’errore e quasi ogni errore è comico. Lo sappiamo: il comico nasce dal distacco, il tragico dall’immedesimazione. «Se la dimensione del tragico è quella del destino e della necessità, il comico appare invece il trionfo della casualità e dell’accidente, i quali sono spesso interni alla costellazione semantica dell’errore» (p. 73). A un certo punto il corso normale delle cose è interrotto dall’irruzione di un errore, di un incidente, di qualcosa di inatteso: lo spettatore che si immedesima nei personaggi di una commedia prova disappunto per l’inconveniente al quale sta assistendo, perché è come se lo rivivesse tal quale; al contrario, lo spettatore che rimane distaccato e totalmente fuori scena, riderà divertito. Viceversa, chi assiste con distacco a una scena tragica, può trovarla comica e ridere persino, col rischio di essere giudicato sconveniente. Tutto questo per mettere in chiaro la rilevanza dell’atteggiamento interiore dello spettatore nella genesi del comico. Ridere è in fondo una forma di svalutazione, un atto di condanna e insieme la punizione inflitta per l’inadeguatezza di chi, degradandosi, appare comico. Tagliapietra, rifacendosi ad Aristotele che definisce il personaggio della tragedia qualcuno che cade nella disavventura non per la sua malvagità, ma a causa di un errore, quindi senza volerlo, sottolinea il diverso ruolo dell’errore nel tragico e nel comico. Se nella tragedia l’errore dell’eroe tragico (ad esempio l’uccisione del padre Laio da parte di Edipo) è rappresentato come qualcosa di assoluto e insuperabile, così che lo spettatore non possa fare altro che immedesimarsi e sentirsi senza via di scampo, nel comico al contrario l’errore ha un ruolo diverso per via della sua accidentalità e marginalità rispetto al corso principale, e il riso interviene allora come atto di libertà dall’imbroglio, dal contrattempo, dalla penosa prova di stupidità esibita dai personaggi. Anche le battute di spirito, i doppi sensi, i paradossi hanno a che fare con «la dimensione eminentemente dialettica, vitale e creativa dell’errore» (p. 80). Il fraintendimento paradossale, l’errore sorprendente procurano una scarica di risate irresistibili quando assistiamo o ci viene riferita una scena esilarante (realmente accaduta o inventata che sia, poco importa) come questa: un appuntato si presenta al capitano e gli comunica che è stato morso a un braccio da un cane e al capitano che gli chiede se lo abbia disinfettato, l’appuntato risponde: “No, scappò”; oppure questa: il matto A chiede al matto B a chi stia scrivendo; il matto B risponde che sta scrivendo a se stesso, non avendo lui parenti né conoscenti; il matto A gli chiede allora che cosa scrive a se stesso; e il matto B risponde con una domanda: come faccio a saperlo, se non ho ancora ricevuto la lettera?; oppure ancora questa: A: Pronto, parlo con il manicomio? B: No, ha sbagliato, noi non abbiamo telefono! Il riso è la scarica, benefica per il corpo e lo spirito, della tensione di un’aspettativa che si risolve in nulla. Tagliapietra riprende questa annotazione kantiana per mostrare come la risata nasca dall’intuizione improvvisa che le cose non stanno come pensavamo, che la nostra aspettativa era sbagliata. Se siamo solo spettatori di qualcosa che non ci tocca minimamente, allora non ci resta che ridere, come sempre dinanzi a ciò che si rivela differente senza sminuirci. Dinanzi alla vertigine del nulla che è qualcosa e del qualcosa che si svela un nulla, dinanzi all’autocontraddizione in cui s’imbottiglia, a tratti, la speculazione metafisica, come dinanzi all’insensato e a ciò che non sappiamo definire perché non vi ci raccapezziamo, che cosa possiamo fare se non ridere? Il riso non è forse moto di sorpresa per tutto quanto si presenta nella modalità acausale di ciò che non ha, non vuole o non ha bisogno di un fondamento? Il riso redime l’insensato accordando al non fondamento il senso di una fondazione. Interrogandosi sull’interpretazione dell’espressione “il prato ride”, Tagliapietra scrive che «qui la scoperta dell’errore che Aristotele interpretava come finale gratificazione cognitiva dei motti di spirito e delle espressioni argute può essere intesa a un altro livello, che trascende la pura dimensione cognitiva e semantica. Là dove cioè l’errore sarebbe stato l’aver disperato nel potere metamorfico del senso di accogliere tutto, finanche l’insensatezza di quel dolore e di quella morte che la contraddizione esprime a livello logico e ontologico, mentre il bagliore del riso mostrerebbe la gioia, inesprimibile a parole, pena il tornare subito a contraddirsi, della vittoria finale del senso» (pp. 89-90). La comparazione tra riso e gioco permette a Tagliapietra, recuperando le ricerche di Bergson e Freud, di cogliere nella duplicità il tratto che li accomuna. Bergson interpreta il raddoppiamento della realtà ad opera del comico in funzione del controllo della realtà che viene conquistato con il riso. In sostanza, secondo Bergson, chi ride della riduzione del vivente a meccanismo la nega dichiarandola impossibile. Il riso è un moto di sorpresa per un’apparenza inautentica che subito viene negata per riconoscere lo statuto della vita autentica. Ha quindi la funzione di rassicurare. In Freud, invece, la funzione del riso e del gioco è compensativa. L’autore de Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905) «sviluppa il concetto per cui il ridere, come il giocare, fungono da gratificazioni sostitutive che appagano il desiderio, aggirando l’ostacolo che si frappone al soddisfacimento della pulsione […] La comicità è un modo attraverso cui ricuperiamo quella condizione ludica dell’esistenza che è propria dell’infanzia, in cui i desideri sembrano realizzarsi come per magia e tutto diventa fonte di gioco: il nostro corpo, gli oggetti, il linguaggio stesso» (p. 93). Riso e gioco s’incontrano sul piano della finzione, sia essa rassicurativa, sostitutiva o compensativa. Inoltre, con la vertigine che con la competizione, il caso e il simulacro è una delle quattro categorie ludiche oggetto dell’indagine di Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958) – si assiste a una perdita di controllo, si sospende l’adesione alla realtà, ci si lascia andare al caso e all’incoscienza (p. 97). Il caso è una categoria centrale del gioco, dove l’abilità del giocatore si accoppia sempre con la fortuna o sfortuna. Del resto anche nella vita la buona e la cattiva sorte hanno un ruolo importante: senza le svolte improvvise e spesso dolorose imposte dal caso ci sentiremmo prigionieri condannati ai lavori forzati, con le catene ai piedi. Il caso irrompe mandando in frantumi l’idea opprimente di un ordine inviolabile della natura. Il controllo della nostra vita non è mai completo e definitivo, solo un folle malato di onnipotenza potrebbe credere di avere tutto e tutti sotto il suo controllo. E allora il caso s’incarica fortunatamente di smentire l’arroganza tronfia di coloro che colpisce, educandoli ad abbandonare la presunzione ipertrofica che li condannerebbe alla rovina, se non intervenisse un correttivo d’imperio. Non a caso i soggetti maniaci del controllo non dedicano spazio al gioco, un campo dove il loro dominio pieno delle cose viene messo in discussione dalla casualità disseminata ad ogni passo. Non sanno neppure ridere, perché non possono concepire l’imprevedibile, il doppio senso e neppure l’insensato; essi si fidano solo di se stessi perché vedono negli altri un’incognita minacciosa. L’esclusione del caso dalla comprensione dei processi del mondo fisico e degli eventi storici è una caratteristica delle ricostruzioni scientifiche post factum, che, dovendo rispondere all’esigenza di spiegazione della realtà, alla volontà di scire per causas, non possono attribuire alcun ruolo teorico al caso, che tuttavia un ruolo ce l’ha nell’esistenza delle persone, come pure nel gioco e nel comico.
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Il gioco e l’umorismo mostrano che esiste una razionalità che
trascende la necessità dell’automatismo, essi illustrano un’ambivalenza tra due mondi, un doppio legame tra figura e sfondo (secondo l’ipotesi pionieristica di Gregory Bateson). «Un doppio legame tra figura e sfondo, scrive Tagliapietra, che non è dato, in maniera fissa e una volta per tutte, a partire da una realtà costituita – ricorrente ingenuità del realismo – ma anzi consente di rivelare la struttura del funzionamento della mente e della comunicazione umana come intimamente caratterizzato dal paradosso» (p. 101). Esilarante e insieme istruttiva è la barzelletta dell’operaio che esce dal cantiere con una carriola piena di segatura; il custode all’uscita si lascia convincere dall’operaio che, in fondo, sta portando via solo un po’ di segatura. La storia va avanti per diversi giorni, finché il custode chiede all’operaio che cosa se ne faccia di tutta quella segatura. “Con la segatura niente, ma la carriole si vendono bene”, risponde l’operaio. La storiella illustra bene il rovesciamento di figura e sfondo, rispettivamente la segatura e la carriola, all’origine del paradosso comico e del riso (p. 101). Insomma il comico riposa sulle sabbie mobili del paradosso, che dimostra come la realtà non sia monolitica né univocamente determinata, come vorrebbe il realismo ingenuo riduzionista, corrispondente alla concezione determinista del folle che pretende di avere tutto sotto controllo; e il valore del paradosso, di cui il riso è la rivelazione luminosa e divertente, è invero quello di contestare la visione assolutistica di una realtà unica e immodificabile, governata infallibilmente dalla tecnica, la cui potenza è concepita come ineludibile. E invece si lascia eludere, eccome! Così Tagliapietra coglie il ruolo che il comico e il risibile hanno «nel relativizzare la realtà, mettendola in rapporto di continuità con la possibilità» (p. 108), una possibilità intesa però non come ombra della realtà, come una specie di nebbia che il sole dei fatti dirada progressivamente, bensì «come capacità, come potenzialità di autoaffermazione e coaffermazione, come dinamicità vitale che attraversa tutte le cose e le lega nella cornice del senso» (p. 109). La comicità da Rabelais a Cervantes è l’esito della ricerca di una via d’uscita dalla realtà intesa come gabbia monolitica. La psicosi inchioda la mente a un livello unidimensionale della realtà, infatti è noto che il folle perde la capacità di servirsi del gioco e del riso per aprirsi un varco verso la possibilità, una via di fuga verso la libertà. Ma poi in fondo che cos’è il filosofare autentico, da Socrate a Cartesio, da Montaigne a Nietzsche, per citare alcuni tra i maggiori pensatori, se non un mettere in discussione non solo le credenze conformisticamente credute come vere, ma anche la stessa nozione di realtà come qualcosa di immodificabile? Il contrario del filosofo è l’agelasta, termine con cui Rabelais, polemico nei confronti dei membri di accademie e parlamenti, designa beffardamente “colui che non ride”. Non ride perché, come osserva Kundera citato da Tagliapietra, è convinto «che la verità sia evidente, che tutti gli uomini debbano pensare la stessa cosa e che loro stessi siano esattamente ciò che pensano di essere. Ma l’uomo diventa individuo proprio quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri» (p. 112). Il riso è un esperimento di libertà mediante la possibilità, per questo rende liberi nel momento in cui promette di farlo. Nel paradosso collidono due prospettive o due piani che sono incompatibili nella realtà, ma non nella possibilità. Il principio di non contraddizione, avverte Tagliapietra, è un decreto che vale per la realtà, che segue la regola della disgiunzione forte: vero aut falso, reale aut irreale, sano aut folle. E tuttavia nella stessa realtà avviene il rovesciamento della disgiunzione forte in congiunzione. Italo Valent ha compreso che la simulazione, scrive Tagliapietra, «non va intesa come un gesto determinato o come un artificio, ma come quella modalità in cui si compie un doppio movimento: da un lato si possibilizza la realtà, rinunciando alla sua indiscutibilità, mentre dall’altro si realizza la possibilità, rendendola compatibile con la realtà» (p. 115). L’avventura culturale e l’impresa conoscitiva dell’umanità sarebbero inconcepibili senza il doppio movimento che converte la razionalità strumentale nella ragione metaforica. Nel gioco dei bambini la possibilità la fa da padrona. Come Lev Semënovič Vygotskij aveva osservato, il gioco sviluppa una capacità semiotica che prelude al pensiero e ne rappresenta il presupposto. Per un bambino che gioca, infatti, nessun oggetto è solo ciò che sembra destinato ad essere in base alla sua forma o alla sua funzione ufficiale. La sua immaginazione realizza nel gioco la possibilità che quell’oggetto possa essere molte altre cose, a seconda delle esigenze progettuali dell’attività ludica. Il bambino che gioca assomiglia all’adulto che ride, perché entrambi operano in direzioni contrarie al senso comune e lavorano a sgretolare i codici consolidati. Nel gioco e nel riso l’uomo difende la propria dignità di essere libero, tenendo a distanza la pesantezza brutale e opaca della serietà codificata, che vorrebbe schiacciarlo e soggiogarlo, senza mai riuscirvi. Con una bella immagine, Tagliapietra rappresenta quel “mare di risate”, il quale «fa sì che i bastimenti della realtà continuino a restare a galla, leggeri, malgrado la tremenda pesantezza del carico di cui continuiamo a gravarli» (p. 119). Come sa bene ogni attore, scoppiare a ridere a comando non è affatto facile, perché il riso si produce come una specie di esplosione che comporta la perdita di autocontrollo. Il sorriso, invece, è un gesto espressivo, probabilmente il primo gesto consapevole che fanno i neonati. Pianto e riso sono inintenzionali ed esplosivi, eruttivi e repentini, invece il sorriso è un’espressione controllata e intenzionale, che secondo Plessner «supera in ambiguità ogni altro comportamento umano» (p. 123). L’ambiguità del sorriso è per lo più sfuggente: può essere una maschera dove ci si nasconde senza darlo a vedere, può esprimere beatitudine, divertimento e gioia, ma anche ironia, commiserazione, distacco e, infine, può essere un distintivo permanente scelto da chi vuole dare di sé l’immagine dell’uomo vincente, forte, sicuro di sé e disponibile. In contrasto con l’immediatezza irrefrenabile del riso, che reagisce ai paradossi, ai doppi sensi e al nonsenso della vita, il sorriso è una manifestazione mediata e riflessa; il riso è il contraccolpo della vertigine in cui precipita il soggetto che fa esperienza dell’enigma, «il sorriso, invece, ne è la serena e luminosa manifestazione, in cui la coscienza, levitando e non precipitando sull’enigma delle cose, né si mostra, né si nasconde, ma accenna, facendosi essa stessa enigma» (p. 124). Nel sorriso la coscienza dunque fa come «il signore al quale appartiene l’oracolo di Delfi» il quale «non dice né nasconde, ma dà segno» (Eraclito, fr. 93). Il sorriso misteriosamente allusivo è la metafora della coscienza che, come il signore dell’oracolo di Delfi, è per sua natura trascendente, intermedia tra presenza e assenza, tra rivelazione piena e nascondimento. La coscienza, come la verità, come il signore dell’oracolo di Delfi, non si lascia intrappolare dal qui e ora. E come i responsi dell’oracolo, anche il sorriso è anfibolico, talché non riusciresti mai a fissarne il senso in modo univoco, perché ci sarebbe sempre qualcosa che non hai preso in considerazione. Creso consulta l’oracolo di Delfi prima di scendere in guerra contro Ciro re di Persia. La risposta dell’oracolo sembra limpida: “Se Creso scenderà in guerra contro Ciro, distruggerà un grande regno”. Si tratta però di vedere quale dei due regni sarà distrutto! L’enigmaticità del sorriso rispecchia l’enigma al quale risponde lo stesso gesto del sorriso. L’enigma al quale Omero, secondo una tradizione attestata da Eraclito e Aristotele, non seppe rispondere e ne morì per il conseguente estremo avvilimento; o l’enigma della Sfinge, apparentemente facile da risolvere, ma il cui senso profondo, che lo riguarda direttamente, Edipo nella sua spavalderia non riesce a penetrare: sono esempi dell’enigma che è al fondo dell’esistenza, commenta Tagliapietra, che «non va risolto, ma deve essere sopportato» (p. 129). Si deve sopportare la contraddizione in cui consiste l’enigma, quel carattere paradossale dell’esistenza umana che ci sorprende nell’ambivalenza che caratterizza il pianto, il riso e il sorriso. L’enigma non fa che rappresentare sul piano del logos e al limite del logos l’ambiguità costitutiva dell’esistenza. La definizione aristotelica di enigma che Tagliapietra riprende (“L’enigma consiste in questo: dire quello che s’ha da dire mettendo insieme cose impossibili”), autorizza a trattarlo come la rivelazione fondamentale: «L’enigma mostra, allora, che anche l’impossibile è possibile e si colloca al bordo del mondo» (p. 129). Avvicinarsi al confine del mondo significa incontrare l’enigma nella veste della morte o del dio. La coscienza del carattere enigmatico dell’esistenza non ha niente a che vedere con la visione pessimistica o con il divertito trastullarsi degli uomini “piccoli”, che Nietzsche disprezzava. La sapienza tragica dell’enigma esorta a dire di sì alla vita, rivelando una potenza affermativa che va oltre il terrore e la compassione, secondo la funzione catartica che Aristotele attribuisce alla tragedia. L’esortazione di Zarathustra di rimanere fedeli alla terra, in armonia con il riconoscimento del limite che ci circoscrive, «significa l’invito a rimanere fedeli all’umana e oltreumana trascendenza del ghélos, ossia del riso». L’enigma è una sfida degna dell’oltreuomo, che esige una risposta adeguata, il riso autentico, che «impedisce allo scacco dell’esistenza, che il sentimento tragico esprime, di fissarsi nella disperazione risentita del pessimismo degli apocalittici o nella banalità quotidiana, nella tragica alternanza fra serietà e divertimento, della globale massa ridente degli integrati» (p. 131). Il riso autentico rimane nascosto. Il sorriso rivela il fondo nascosto del riso, non ne è l’espressione depotenziata, avverte Tagliapietra: nel sorriso si nasconde una negazione, quella con cui, imparando a dire di no, si formano la coscienza e l’individualità di ciascuno, che può emergere come essere irripetibile e unico solo mettendo una distanza e istituendo una differenza che lo metta al riparo dalla pressione alluvionale delle richieste che minacciano di sommergerlo: l’enigmaticità del sorriso è, in fondo, un “no” presente in tutti i “sì” possibili, che «va a costituire il punto di insistenza e resistenza, la protesta ontologica che fonda l’individuo di contro alle generalità del mondo, della natura, della società e della storia» (p. 132). L’enigma più difficile da decifrare, la contraddizione più dura da sopportare, è la morte o, per meglio dire, come avverte saggiamente Epitteto, l’idea della morte. La morte è una possibilità, che tuttavia rende impossibili tutte le altre possibilità: la formula di Heidegger mostra che nella morte coincidono il possibile e l’impossibile. Come il signore dell’oracolo di Delfi, che “non dice né nasconde, ma dà segno”, la morte è ambigua e ambivalente. Invocata da chi è in preda a sofferenze prolungate e indicibili o è perseguitato dal rimorso, è motivo di angoscia per ogni mortale laborioso, che teme di essere colto di sorpresa e costretto a interrompere la sua opera. La morte non è comica, non si lascia sminuire né sdrammatizzare, essa circoscrive tutto ciò che siamo e abbiamo. Con la morte perdiamo tutto, irreparabilmente. Rispetto alla morte, qualsiasi altra cosa che non porti ad essa, apparirà risibile, irrilevante. Si può ridere di tutto solo se il termine di comparazione è la morte. La morte alleggerisce, rarefà e rende dominabile ogni cosa dell’esistenza. In assenza della morte, saremmo inchiodati al presente, saremmo privi di sguardo prospettico e di intelligenza comparativa. La vita sarebbe insopportabile. La morte invece, ridimensionando ogni ostacolo e ridicolizzando ogni limite o pena che s’incontra in questa vita, permette di vivere come se si fosse attori di una commedia, nella quale ci tocca di recitare una parte; e di non temere nulla, tranne l’interruzione della recita, di cui non abbiamo il controllo. Grazie alla morte, impariamo a ridere di ogni cosa della vita, nella misura in cui il riso è una forma e una declinazione del logos, in virtù del quale siamo dentro e fuori della vita, osservatori e osservati, coinvolti e distaccati. E allora ridiamo, infine, in compagnia delle note di Gioacchino Rossini: “Ridiamo cantiamo che tutto sen va / se noi la perdiamo non torna l’età / la vita è un momento si deve godere / un soffio d’un vento può farci cadere”.