Sei sulla pagina 1di 6

Sitopia: come il cibo può

salvare il mondo
di Carolyn Steel – Come vivremo nel futuro? Più precisamente:
come possiamo sperare di prosperare sul nostro pianeta
affollato e surriscaldato? Quali siano le risposte, una cosa e
̀
certa: il nostro modo di mangiare saràfondamentale.

Abitando in città, e
̀ difficile capire il ruolo centrale del
cibo nel plasmare il nostro mondo. L’industrializzazione ha
nascosto i collegamenti vitali senza cui la città stessa
subirebbe una rapida battuta d’arresto: la complessa filiera
che porta il cibo dalle campagne, dove e ̀ coltivato, ai
supermercati, ai caffè e alle nostre cucine.

Il cibo che troviamo nel piatto non e ̀ solo nutrimento: e ̀


l’emissario di un mondo diverso, un luogo che ancora definiamo
campagna, ma che raramente assomiglia al bucolico paradiso
della nostra fantasia.

La maggior parte del cibo è oggi prodotta in enormi impianti


razionalizzati che possono stupire e turbare allo stesso
tempo. Dai vasti capannoni degli allevamenti, affollati di
tragedie animali, alle monoculture di cereali raccolte da
falangi di mietitrebbiatrici, alle catene di montaggio
robotizzate che sfornano lattine di fagioli stufati, gli spazi
e i processi sottesi alla nostra esistenza, 24 ore su 24 e
sette giorni la settimana, sono tanto affascinanti quanto
spietati.

Per molti aspetti, il settore agroalimentare riassume la


fatale combinazione di eccellenza tecnica e sconsideratezza
che minaccia noi e il pianeta. Il nostro stile di vita si
fonda sull’illusione del cibo a buon mercato. Tuttavia, se si
considera che si tratta di una materia viva, allevata e uccisa
da noi per permettere a noi stessi di vivere, è chiaro che la
situazione non regge. Anzi, se i tanti fattori esterni –
cambiamento climatico, deforestazione, estinzione di massa,
inquinamento, depauperamento idrico, degrado del suolo,
obesitàe malattie causate dalla dieta – entrassero nel conto,
questo diventerebbe subito insostenibile. Questo ci porta a
una domanda: che cosa succederebbe se lo facessimo davvero?

Si può rispondere che si verificherebbe una rivoluzione non


solo nel modo di nutrirsi, ma anche nel modo di vivere. Il
cibo a buon mercato e ̀ la base non solo del nostro sistema
alimentare, ma anche della nostra esistenza. Politica,
economia, abitudini e valori – l’idea stessa di una vita di
qualità – riposa sull’illusione di avere risolto il problema
del modo di nutrirsi.

Qualunque tentativo di riprendere in esame l’alimentazione


incontrerà perciò forti resistenze, non per ultimi tra i
politici. Tuttavia, questa azione è presumibilmente il gesto
singolo, più forte possibile in direzione di una transizione
dalla nostra società malsana, non sostenibile, disuguale,
verso una societàdi gran lunga migliore. Che si riesca o meno
a realizzarla, il nostro corpo, la nostra casa, la nostra
città e il nostro paesaggio sono tutti configurati dal cibo.
Viviamo perciò in quella che definisco una sitopia (dalla
crasi delle parole greche sitos, ‘cibo’, e topos, ‘luogo’).
Non e
̀ una bella cosa, dato che non diamo valore alla materia
di cui è fatta. Una sitopia non e ̀ un’utopia – questo e ̀ il
punto – ma, imparando a dar valore al cibo e controllandone il
potere, è possibile avvicinarsi al sogno utopico della
creazione di una società equa, sana e capace di adattamento.

L’alimentazione e
̀ un tema di primo piano nel pensiero utopico
per l’ovvia vitale importanza che aveva per i nostri antenati.
Nell’epoca preindustriale nutrire le città era difficile,
anche per la difficoltà di trasportare gli alimenti. Per
questo motivo le città rimanevano per la maggior parte di
piccole dimensioni ed erano ampiamente produttive: circondate
da orti, frutteti e vigneti, mentre in molte case si
allevavano maiali, polli e capre, si cuoceva il pane e si
preparavano birra e conserve in proprio. Secondo Platone e
Aristotele questa autosufficienza era un obiettivo
fondamentale della polis, ovvero dello Stato.

La loro concezione ideale si fondava sull’oikonomia o gestione


domestica: l’idea che ogni cittadino dovesse avere una casa in
città e una fattoria in campagna con cui procurare alimenti
alla prima. Su vasta scala questa sistemazione avrebbe reso lo
Stato autosufficiente e quindi politicamente indipendente. Per
riuscirci la polis doveva rimanere relativamente piccola e
l’idea viene ripresa da Tommaso Moro nel suo Utopia del 1516 e
da Ebenezer Howard nel suo Garden Cities of To-Morrow del
1902.

Oggi, sul nostro pianeta che si sta facendo stretto, questi


modelli ritornano a essere rilevanti, nel loro individuare
concetti necessari alla creazione di economie adattabili,
locali e di tipo stazionario che ci serviranno in futuro.
Questi modelli suggeriscono inoltre come il mondo possa
cambiare, se si riesce a reintrodurre
l’oikonomia nell’economia. A lungo confinato nella periferia
della nostra vita e della nostra mente, il cibo ritornerebbe
al centro del discorso.

Architetti e urbanisti non progetterebbero più appartamenti


senza cucina, abitazioni senza orto urbano e città non
produttive. Al contrario, si farebbe a gara per attrezzare
abitazioni e spazi esistenti. Alloggi e case sarebbero
incentrati su cucina, giardino, cottura, condivisione del cibo
e raccolta di concime organico. I mercati e le vie del centro
fiorirebbero; giardini e balconi scoppierebbero di
coltivazioni domestiche; e reti di piccoli produttori
ricollegherebbero la città al suo hinterland.

Gli agricoltori non lavorerebbero più contro la natura, ma


insieme con essa: con fattorie agroecologiche di piccole
dimensioni e terreni restituiti alla natura al posto di
coltivazioni intensive e grandi industrie agricole. Invece di
essere disumanizzate e ispirate allo sfruttamento, le
industrie alimentari diventerebbero fonti di rigenerazione
fondate su competenze artigianali.

Vero e
̀ che tutto ciò suona alquanto utopistico: quando si dà
valore al cibo, la sitopia tende a diventare utopia. Tuttavia,
questa trasformazione è giàin atto. Il food movement – unione
internazionale di agricoltori, produttori, gruppi e
organizzazioni come Slow Food e Via Campesina (il movimento
internazionale dei contadini) – si costruisce intorno alla
conoscenza, alla tutela e alla produzione di cibo che sia,
nelle parole di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, “buono,
pulito e giusto”. Nel mondo industrializzato progetti come
giardini condivisi, spazi di CSA (Community Supported
Agriculture), sistemi di fornitura senza intermediari e
mercati dei produttori hanno già dimostrato come valorizzare
il cibo trasformi vita, economia e spazi.

Nel frattempo, nel Sud del mondo, va crescendo la


consapevolezza della necessità di tutelare le culture
alimentari indigene e le pratiche agricole tradizionali. Se
il food movement dimostra le potenzialità della trasformazione
dal basso, realizzare invece una vera utopia richiederà anche
un intervento statale. Solo gli Stati hanno il potere di
rivoluzionare l’equilibrio tra città e campagna tanto
essenziale alla civiltà
.

Quando nel 1338 Ambrogio Lorenzetti dipinse la sua Allegoria


del buon governo nel Palazzo pubblico di Siena – probabilmente
la miglior rappresentazione di questo rapporto fondamentale –
il titolo dell’opera era pieno di significato. I governanti di
Siena sapevano, come Platone e Aristotele prima di loro, che
conservare l’equilibrio tra cittàe campagna era la loro prima
responsabilità
.

La polis greca e il Comune medievale italiano sono rari esempi


di un’epoca in cui questo principio era ben compreso. La città
giardino di Letchworth di Howard e la Green Belt londinese di
Patrick Abercrombie (1944) usano l’urbanistica per limitare
l’ampliamento della città e fanno, come disse Patrick Geddes,
“vincere il campo sulla via, non semplicemente facendo
prevalere la via sul campo”. Geddes propose un’alternativa
all’idea di “cintura verde” suggerendo la conservazione di
fasce di campagna che s’irradiassero dal centro cittadino a
creare metropoli a stella, dove il mondo urbano e quello
rurale rimanessero vicini. La legge sui terreni agricoli di
Tokyo del 1952 ottenne risultati simili, tutelando nel nucleo
centrale metropolitano la presenza di un mosaico di fattorie
biologiche, che ancora nutrono le comunitàlocali.

I moderni tentativi di riconciliare città e campagna


comprendono il piano regolatore di Almere Oosterwold, di
MVRDV, con fattorie, fabbriche e abitazioni in un progetto
fluido, e l’idea dei CPUL (Continuous Productive Urban
Landscapes) degli architetti Viljoen e Bohn, che collegano
spazi urbani non sfruttati, come parcheggi e cigli erbosi, a
creare corridoi verdi fino alla campagna, in un’eco della
visione stellare di Geddes.

In qualunque modo ci si arrivi, la chiave del nostro futuro si


fonda sulla rivalutazione del cibo, sull’agricoltura in
armonia con la natura e sulla riconnessione tra città e
campagna. Riportando l’oikonomia nell’economia potremo
ricostruire le comunità vivibili e reattive di cui abbiamo
bisogno per crescere nel XXI secolo. Facendo
dell’alimentazione la nostra guida e rispettando chi ci nutre
con amore, potremo cambiare la nostra idea di qualità della
vita e guardare a un florido futuro sitopico.

Carolyn Steel, architetto e docente, è una delle principali


teoriche sul tema del cibo in relazione alle città. Il suo
libro Hungry City: How Food Shapes Our Lives (Vintage
Publishing, 2008) ha ottenuto un ampio riconoscimento. Il suo
nuovo libro, Sitopia: How Food Can Save the World, è uscito
per Chatto & Windus quest’anno.

(Articolo pubblicato su Domus 1040)

Potrebbero piacerti anche