Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Business Adventures
Otto storie classiche dal mondo dell’economia
Einaudi
Prefazione
di Federico Rampini
1
F. de La Rochefoucauld, Le massime e altri scritti, a cura di A. Devizzi, Mondadori, Milano
1950, p. 65 [N. d. T.].
2
J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 2004 [N. d.
T.].
3
E. Spenser, Amoretti e Epitalamio, a cura di L. Manini, Carocci, Roma 2005, p. 151 [N. d. T.].
2. Il fiasco della Edsel
Favoletta con morale
Genesi e fioritura.
Immerso nel suo sogno di una E-Car ideale e amata da tutti, Wallace
accoglieva beato quel flusso composito di informazioni. Ma con
l’avvicinarsi del momento decisivo si rese conto che era necessario
accantonare gli aspetti piú periferici, come la preparazione dei cocktail, e
concentrarsi invece sul problema originario: l’immagine della nuova auto. E
l’insidia piú grande, a suo parere, era cedere alla moda del momento
puntando tutto sui valori estremi della mascolinità, della giovinezza e della
velocità. Sarebbe stato un errore, una mossa espressamente sconsigliata
anche dai professori della Columbia:
A prima vista potremmo ipotizzare che le donne che guidano abbiano anche un
impiego, e come tali siano piú mobili delle donne che non possiedono un’auto, nonché
piú sensibili alle gratificazioni che derivano dallo svolgere un ruolo tipicamente
maschile. Tuttavia […] quali che siano le gratificazioni e l’immagine sociale che le
donne associano al possesso di un’auto, non vi è dubbio che il loro interesse primario
consista, da questo punto di vista, nel conservare un’immagine femminile. Da donne di
mondo, forse, ma pur sempre donne.
Nei primi mesi del 1956 Wallace si accinse a ricapitolare tutto il lavoro
del suo gruppo in un documento indirizzato ai responsabili della divisione
prodotti speciali, che intitolò Obiettivi di mercato e di immagine della E-
Car. Il rapporto, denso di dati e statistiche (benché generosamente cosparso
di brevi riepiloghi in corsivo o in maiuscolo, la cui lettura avrebbe permesso
anche al piú indaffarato dei dirigenti di farsi un’idea della questione)
esordiva con una serie di ariose e trascurabili divagazioni filosofiche, per
poi venire al sodo:
Cosa succede quando un acquirente, pur essendo uomo, ritiene che la sua marca
preferita di auto possa piacere alle donne? È possibile che l’apparente incompatibilità tra
l’immagine dell’auto e le caratteristiche dell’acquirente influenzi le intenzioni
d’acquisto di quest’ultimo? La risposta è certamente sí. In caso di conflitto tra le
caratteristiche del proprietario e l’immagine del marchio, le intenzioni d’acquisto
finiscono prima o poi per orientarsi su un altro marchio. In pratica, se l’acquirente sente
di non somigliare alla persona che secondo lui comprerebbe quell’auto, tenderà a
scegliere un’auto di marca diversa, che lo faccia sentire piú a suo agio sul piano
mentale.
Bisogna tener presente che il «conflitto» può riferirsi, in quella particolare accezione,
a due diverse situazioni. Se una marca ha un’immagine forte e ben definita, è ovvio che
un acquirente con caratteristiche diametralmente opposte possa sentirsi in conflitto. Ma
c’è un altro tipo di conflitto, ed è quello che si verifica quando l’immagine del prodotto
è troppo generica, o scarsamente definita: in questo caso, l’insoddisfazione del
consumatore nasce dall’impossibilità di trarre dal suo marchio preferito
un’identificazione soddisfacente.
PROFESSIONISTI IN ASCESA .
Auto intelligente: tale da essere riconosciuta come una scelta di stile e di buon gusto.
Giovani: rivolta a un pubblico vivace e avventuroso, ma responsabile.
Dirigenti o professionisti: uno status sociale a cui ambiscono, con successo o meno,
milioni di persone.
Famiglie: un’auto non esclusivamente maschile; un ruolo positivo, sano.
In ascesa: «La E-Car ha fiducia in te, giovanotto; vedrai, ti aiuterà ad arrivare in
vetta!»
A quel punto, però, la prima cosa da fare per convincere quel pubblico
avventuroso ma responsabile a fidarsi a sua volta della E-Car consisteva nel
darle un nome. Era dagli albori del progetto che Krafve suggeriva il nome
di Edsel Ford, unico figlio del vecchio Henry, presidente della Ford Motor
Company dal 1918 al 1943 (anno della sua morte) e capostipite della nuova
generazione dei Ford di cui facevano parte Henry II, Benson e William
Clay. I tre fratelli avevano detto a Krafve che forse il loro defunto padre non
sarebbe stato entusiasta di vedere il proprio nome vorticare per le strade del
Paese stampato su un milione di copriruote, e di conseguenza avevano
esortato la divisione prodotti speciali a trovare un’alternativa. L’ordine era
stato eseguito con uno zelo non inferiore a quello dimostrato nella ricerca
del sacro Graal della personalità. Tra la fine dell’estate e l’inizio
dell’autunno 1955, Wallace assoldò svariate società di ricerca che
sguinzagliarono i loro intervistatori, provvisti di un elenco di duemila nomi
possibili, tra le folle che gremivano i marciapiedi di New York, Chicago,
Willow Run e Ann Arbor. Gli intervistatori non si limitarono a chiedere
un’opinione su nomi come Mars, Jupiter, Rover, Ariel, Arrow, Dart o
Ovation, ma sollecitarono gli intervistati a esprimere, mediante libere
associazioni, i concetti che ogni nome richiamava alla mente; una volta
ottenute le risposte, chiedevano agli intervistati quale parola (o
combinazione di parole) rappresentasse a loro giudizio l’opposto dei nomi
compresi nell’elenco: la teoria era che, sul piano subliminale, un nome e il
suo opposto sono inseparabili come le due facce di una moneta. Alla fine, i
responsabili della divisione prodotti speciali avevano dichiarato che i
risultati dei sondaggi erano troppo incerti. Nel frattempo Krafve e i suoi
uomini si erano riuniti piú volte in una stanza oscurata per fissare, con
l’aiuto di un faretto orientabile, dei cartelloni che riportavano una serie di
opzioni. Fu cosí che un membro del gruppo si espresse a favore di un nome
prestigioso e potente come Phoenix, mentre un altro dichiarò di preferire
Altair, sostenendo che avrebbe preso il primo posto nell’ordine alfabetico
dei modelli di auto, accaparrandosi con ciò la posizione di prestigio che nel
regno animale spetta all’airone e all’albatro. Durante una sessione
particolarmente sonnolenta, qualcuno chiese di fermare la sequenza dei
cartelloni e domandò incredulo: «Non è parso anche a voi di vedere scritto
“Buick”?» Tutti guardarono Wallace, vero impresario dello spettacolo. Lui
tirò una boccata dalla pipa, increspò le labbra in un sorrisetto accademico e
annuí.
Verso la fine del 1959, quando la Edsel era da poco uscita di produzione,
il settimanale «Business Week» rivelò che durante la colossale
presentazione alla stampa un dirigente della Ford aveva confidato a un
giornalista: «Se non ci fossimo dentro fino al collo, non l’avremmo mai
fatta uscire proprio adesso». Dichiarazione alquanto sospetta, considerati il
ritardo con cui era stata divulgata e la forte dissonanza con le opinioni degli
altri dirigenti, i quali (compreso Krafve, al netto dei raffronti con le
fabbriche di cibo per cani) fino all’E-Day e anche nei mesi immediatamente
successivi si erano sempre detti fiduciosi nel successo della Edsel. Anche
nel periodo che intercorse tra la presentazione alla stampa e l’Edsel Day lo
stato d’animo dei partecipanti al progetto continuò a essere sfrenatamente
ottimista. «Oldsmobile, addio!» recitava l’inserzione pubblicitaria con cui
un’importante ex concessionaria di quella marca annunciava il passaggio
alla Edsel. Un rivenditore di Portland, nell’Oregon, fece sapere di aver già
venduto a scatola chiusa ben due Edsel. Nel frattempo Warnock era riuscito
a scovare in Giappone una fabbrica di fuochi d’artificio disposta a fornirgli
al modico prezzo di nove dollari l’uno cinquemila razzi che, esplodendo a
mezz’aria, avrebbero liberato dei modellini di carta di riso a forma di Edsel,
che sarebbero scesi a terra gonfiandosi come piccoli paracadute: inebriato
da quella visione di cieli e strade d’America pullulanti di Edsel, Warnock
avrebbe firmato l’ordine senza esitare se Krafve, guardandolo con aria a dir
poco sconcertata, non avesse posto il veto.
Il 3 settembre, a un solo giorno dall’Edsel Day, furono annunciati i
prezzi dei vari modelli: i costi oscillavano tra poco meno di 2800 dollari e
poco piú di 4100 per le vetture in consegna a New York. Venne dunque il
fatidico E-Day. A Cambridge, Massachusetts, un convoglio di Edsel nuove
fiammanti sfilò lungo la principale arteria cittadina preceduto da una banda;
l’elicottero noleggiato da uno dei piú entusiasti rivenditori presi al lazo da
Doyle decollò da Richmond, in California, e sorvolò la baia di San
Francisco trainando un’enorme insegna della Edsel; e anche se Warnock
non aveva potuto far decollare i suoi razzi, bastava accendere una radio o
un televisore per accorgersi che in ogni angolo degli Stati Uniti, dai bayou
della Louisiana fino alla vetta del monte Rainier o fino ai boschi del Maine,
l’aria vibrava della presenza delle Edsel. Una vera e propria tempesta
pubblicitaria, suggellata dall’immagine che uscí quel giorno su tutti i
quotidiani del Paese: la Edsel in tutto il suo splendore, e accanto a lei il
presidente Henry Ford II e l’amministratore delegato Breech. Il presidente
Ford somigliava a un giovane padre dall’aria distinta, e Breech a un distinto
giocatore di poker pronto a calare un full; la Edsel, invece, sembrava sé
stessa e basta. Il testo di accompagnamento spiegava che la decisione di
produrre la nuova auto era fondata su «ciò che sapevamo, intuivamo,
sentivamo, credevamo, immaginavamo di voi, perché VOI siete il motivo
per cui esiste la Edsel». Il tono era calmo e fiducioso: il giocatore aveva in
mano un full, su questo non c’era dubbio.
Secondo alcune stime, prima che il sole tramontasse su quel 4 settembre
ben 2 milioni e 850 000 persone erano andate da un concessionario a vedere
la nuova auto. Tre giorni piú tardi, a Philadelphia, qualcuno rubò una Edsel.
Il furto segnò probabilmente il massimo livello del consenso: di lí a pochi
mesi, soltanto un ladro d’auto di modestissime pretese avrebbe mosso un
dito per rubare una Edsel.
Declino e caduta.
Il tratto fisico piú evidente della Edsel era, come è noto, la mascherina
del radiatore. Laddove all’epoca le altre diciannove marche di auto in
commercio negli Stati Uniti avevano griglie orizzontali molto ampie, quella
della Edsel era verticale e oblunga: un fregio di forma ovoidale in acciaio
cromato, proprio al centro del muso, con la scritta EDSEL in lettere
d’alluminio. Nell’intenzione dei disegnatori doveva richiamare alla
memoria il tipico frontale delle auto di venti o trent’anni prima e di molte
vetture europee contemporanee, conferendo alla Edsel un aspetto
tradizionale e sofisticato al tempo stesso. Il guaio era che, mentre i frontali
delle vecchie auto e dei nuovi modelli europei erano di per sé alti e stretti –
tanto da contenere la griglia del radiatore e poco altro – la parte anteriore
della Edsel era larga e bassa come quelle di tutte le auto americane. La
conseguenza era che a destra e a sinistra della mascherina c’erano ampi
spazi da riempire, e si pensò di riempirli con la piú tradizionale delle griglie
cromate a sviluppo orizzontale. L’effetto complessivo era quello di una
Oldsmobile con la prua di una Pierce-Arrow incastrata nel mezzo, o piú
metaforicamente di una sguattera che si pavoneggia con i gioielli della
duchessa. L’ambizione di raffinatezza era talmente scoperta da far
tenerezza.
Ma se la mascherina della Edsel poteva piacere proprio in virtú della sua
ingenuità, il retro era tutt’altra faccenda. Anche in questo caso, la
caratteristica saliente era un netto distacco dalle convenzioni dell’epoca.
Invece delle famose pinne caudali, la Edsel aveva quelle che gli estimatori
chiamavano ali, e che ai detrattori meno fantasiosi sembravano
sopracciglia. Vero è che le linee del baule e dei parafanghi posteriori,
sporgenti verso l’alto e all’esterno, potevano vagamente rammentare le ali
di un gabbiano in volo; ma l’effetto era rovinato dai fanalini lunghi e stretti,
incastonati in parte nel baule e in parte nei parafanghi in modo da seguire il
profilo delle ali: soprattutto di notte, il posteriore delle Edsel somigliava in
modo inquietante a un viso umano con gli occhi all’insú. Vista da davanti,
la Edsel sembrava ansiosa di piacere, anche a costo di sembrare ridicola; da
dietro, invece, mostrava una certa astuzia levantina, una furtiva ansia di
dominio, magari condita da un tocco di sprezzante cinismo. Come se nello
spazio compreso tra il muso e la coda si fosse verificato un sinistro
cambiamento di personalità.
Sotto altri punti di vista, l’aspetto della Edsel non era poi cosí insolito. I
fianchi erano decorati da una quantità di cromature appena inferiore alla
media, e da un ampio solco a forma di proiettile che scavava la metà
posteriore delle fiancate fino al parafango posteriore. Piú o meno a metà del
solco, nonché sulla piccola griglia decorativa sotto il lunotto posteriore,
compariva la scritta EDSEL a lettere cromate. (D’altronde, lo stilista Roy A.
Brown non aveva forse detto di voler creare un’auto «facilmente
riconoscibile»?) Gli allestimenti interni rivelavano il palese sforzo di
realizzare la profezia del direttore generale Krafve, per il quale la nuova
auto doveva essere «la quintessenza dell’èra dei pulsanti». Previsione
certamente avventata, se si considera quale fosse all’epoca la diffusione dei
comandi a pulsante nelle auto di fascia media: tuttavia la Edsel fece del suo
meglio, dotandosi di un’accozzaglia di gadget tecnologici quale mai si era
vista prima di allora in una vettura. Sopra o accanto al cruscotto erano
schierati i seguenti comandi: un pulsante per l’apertura del vano bagagli;
una leva per il rilascio del freno a mano; un tachimetro che si illuminava di
rosso quando la velocità superava il limite massimo indicato dal
conducente; un’unica manopola per controllare gli impianti di
riscaldamento e condizionamento; un contagiri degno di un’auto da corsa;
svariati bottoni per accendere e regolare i fanali, l’altezza dell’antenna
radio, la ventola per il riscaldamento/raffreddamento dell’abitacolo, i
tergicristalli, l’accendisigari; una fila di otto spie rosse la cui accensione
indicava che il motore era troppo caldo, o non abbastanza caldo, oppure che
il generatore di corrente non stava ricaricando la batteria, che il freno a
mano era tirato, che una delle portiere era aperta, che la pressione dell’olio
non era sufficiente, che il serbatoio del carburante era quasi vuoto: il
conducente scettico, peraltro, avrebbe potuto ricavare quest’ultima
informazione da una rapida occhiata all’indicatore di livello del serbatoio,
collocato a pochi centimetri di distanza. Infine, quintessenza della
quintessenza, i comandi del cambio automatico – singolarmente situati
all’estremità del piantone dello sterzo, proprio al centro del volante – erano
formati da una galassia di cinque bottoni cosí sensibili al tocco che, come
gli uomini della squadra di progettazione si trattenevano a stento dal
dimostrare, si potevano azionare con la pressione di uno stuzzicadenti.
I modelli delle due linee piú costose della Edsel – Corsair e Citation –
erano anche i piú lunghi, e con i loro cinque metri e cinquantasei centimetri
superavano di cinque centimetri la piú lunga delle Oldsmobile; anche la
larghezza (due metri circa) era ai massimi della categoria, mentre l’altezza
relativamente contenuta (un metro e quarantadue centimetri) era in linea
con lo stile delle vetture di prezzo medio. Le Edsel Ranger e Pacer erano
quindici centimetri piú corte, due centimetri e mezzo piú strette e due
centimetri e mezzo piú basse rispetto alle Corsair e alle Citation. I motori da
345 cavalli facevano di queste ultime le vetture piú potenti sul mercato
americano; le Ranger e le Pacer, equipaggiate con motori da 303 cavalli,
erano comunque ai vertici delle rispettive classi. Al lievissimo tocco di uno
stuzzicadenti sul tasto «Drive», una berlina della serie Corsair o Citation
(due tonnellate abbondanti di macchina) era in grado di passare, se
adeguatamente pilotata, da zero a 96 chilometri l’ora in soli dieci secondi e
tre decimi, coprendo la distanza di quattrocento metri in diciassette secondi
e mezzo. E se qualcosa o qualcuno aveva la sfortuna di trovarsi nella
traiettoria di una Edsel dopo che lo stuzzicadenti aveva premuto il pulsante,
tanto peggio.
Tre mesi piú tardi, in una rassegna di tutti i modelli di auto messi in
commercio nel 1958, «Consumer Reports» sferrava un nuovo attacco alla
Edsel, definendola «l’auto piú sovraccarica di potenza, aggeggi inutili e
accessori costosi» della sua fascia di prezzo, e relegando le Edsel Corsair e
Citation agli ultimi posti della classifica in base al rapporto qualità-prezzo.
Come per Krafve, anche per «Consumer Reports» la Edsel era la
quintessenza di qualcosa: ma in quest’ultimo caso si trattava dei «molti
eccessi» dell’industria automobilistica, che finivano per «respingere un
numero sempre maggiore di potenziali acquirenti».
Eppure, in un certo senso, la Edsel non era poi cosí male. Dopo tutto
incarnava lo spirito della sua epoca, o almeno dell’epoca in cui era stata
progettata, cioè i primi mesi del 1955. Era goffa, energica, démodé,
sgraziata ma piena di buone intenzioni come una donna di De Kooning.
Eccetto i pubblicitari della Foote, Cone & Belding (che erano pagati per
farlo), pochi hanno tributato le giuste lodi alla sua capacità di trasmettere
una confortante sensazione di benessere. Senza contare che molti progettisti
delle marche rivali, comprese Chevrolet, Buick e la stessa Ford, hanno
finito per rendere giustizia all’operato di Brown imitando almeno uno dei
tanto vituperati tratti distintivi della Edsel, ovvero le «ali» posteriori
sporgenti. Sarebbe troppo semplice attribuire le colpe dell’insuccesso al
solo aspetto esteriore o a un eccesso di ricerca motivazionale, giacché nella
breve e infelice vita della Edsel molte furono le circostanze che
contribuirono al fiasco commerciale. Una di queste era il fatto incredibile,
ma vero, che molte delle primissime Edsel – cioè proprio quelle destinate a
riscuotere piú attenzione – fossero tragicamente imperfette. La poderosa
campagna promozionale della Ford aveva generato una fortissima ondata di
curiosità: il pubblico aveva grandi aspettative, e la nuova auto era oggetto di
un’attenzione senza precedenti. Ma la macchina, in sostanza, non
funzionava. A un paio di settimane dal debutto sui mercati, le magagne
della Edsel erano sulla bocca di tutti. Auto che uscivano dalla fabbrica con i
serbatoi bucati, i comandi di apertura del vano motore o del portabagagli
non funzionanti, pulsanti che invece di azionarsi al tocco di uno
stuzzicadenti non si smuovevano neanche se presi a martellate. Un giorno
un automobilista inequivocabilmente sconvolto entrò in un bar sulla riva
dell’Hudson e chiese con urgenza un doppio whisky, annunciando poi che il
cruscotto della sua Edsel nuova di zecca aveva appena preso fuoco.
«Automotive News» fece un elenco dei difetti piú gravi (verniciatura,
scarsa qualità delle lamiere, accessori scadenti) e riferí il lamento di un
rivenditore a proposito di una delle prime Edsel convertibili che gli erano
state consegnate: «Il tettuccio apribile era montato male, le porte erano
sbilenche, la barra anteriore della capote era rifilata a un angolo sbagliato,
le balestre anteriori erano piatte». Per colmo di sfortuna, una delle Edsel
collaudate dall’Unione consumatori (che per evitare il rischio di
manipolazioni da parte dei fabbricanti si serviva esclusivamente di
esemplari acquistati sul mercato libero) aveva il rapporto al ponte sbagliato,
una valvola del sistema di raffreddamento fuori uso, la pompa del
servosterzo che perdeva olio, gli ingranaggi dell’asse posteriore troppo
rumorosi e il sistema di riscaldamento che sparava raffiche d’aria calda
anche quand’era spento. Secondo le stime di un ex dirigente di divisione,
solo metà delle prime Edsel funzionavano a dovere.
E cosí fu: negli ultimi ventidue mesi della sua esistenza, la Edsel rimase
praticamente orfana. Trascurata da tutti, pochissimo reclamizzata, tenuta
viva solo per non attirare l’attenzione sulla catastrofe, nella vana speranza
che alla fine ne uscisse qualcosa di buono. Le rare volte che se ne parlava,
si cercava inutilmente di far credere che tutto andasse nel migliore dei
modi. In un comunicato diffuso a metà febbraio su «Automotive News»,
Nance dichiarava che:
Fin dalla nascita della nuova divisione M-E-L all’interno della Ford Motor Company,
abbiamo seguito con grande attenzione i dati sulla vendita delle Edsel. Ci sembra
alquanto significativo che la Edsel abbia venduto, nei primi cinque mesi dall’ingresso
sul mercato, piú di qualsiasi altra auto che abbia mai circolato sulle strade americane
[…] Il costante progresso della Edsel è fonte di grande soddisfazione, e ci incoraggia a
fare sempre di meglio.
1
Il termine styling è un’erbaccia ben radicata nel giardino dell’industria automobilistica. Nel suo
senso prevalente, il verbo inglese to style significa «dare un nome»: in tal caso, la faticosa ricerca di
una denominazione adatta alla E-Car da parte degli uomini della divisione prodotti speciali
costituirebbe l’essenza dello styling, mentre Brown e compari risulterebbero in tutt’altre faccende
affaccendati. Nel suo secondo senso, dice il Webster Dictionary, to style significa «modellare secondo
[…] lo stile comunemente accettato», il che è esattamente il contrario di quanto faceva Brown, il cui
traguardo ideale era l’originalità. Ne consegue che l’operato di Brown andrebbe piú correttamente
denominato antistyling.
2
Per maggiori dettagli su questo prodotto della creatività nazionale, si veda il cap. 4.
3. Fluttuazioni
Il piccolo crollo del 1962
Il crollo del 1962 non era giunto inaspettato, anche se pochi osservatori
ne avevano interpretato correttamente i presagi. La traiettoria discendente
imboccata nei primi mesi dell’anno si era fatta sempre piú ripida, al punto
che la precedente settimana di borsa (21-25 maggio) era risultata la
peggiore dal giugno del 1950. Naturale che la mattina di lunedí 28 maggio
mediatori e operatori avessero le loro buone ragioni per essere pensierosi.
Si era già toccato il fondo? Nessuno poteva esserne sicuro. Tra le nove e le
dieci, in attesa dell’apertura delle transazioni a Wall Street, i bollettini
finanziari della Dow Jones & Company lasciarono trasparire una certa
apprensione. In quei sessanta minuti, il broad tape (cosí era chiamato il
bollettino Dow Jones stampato su rotoli di carta larghi una quindicina di
centimetri, per distinguerlo dal nastro da due centimetri che riportava
orizzontalmente i prezzi delle azioni) fece sapere che durante il weekend
molti agenti di borsa avevano contattato i clienti per chiedere loro di
consolidare le garanzie collaterali, a fronte di un deprezzamento dei
rispettivi portafogli. Sempre secondo il broad tape, il precipitoso
incremento dei realizzi osservato la settimana precedente era «un fenomeno
sconosciuto da anni a Wall Street», tanto piú che sul fronte dell’economia
reale non mancavano le buone notizie: la Westinghouse, per esempio, aveva
appena ricevuto un’importante commessa dalla marina militare. Tuttavia,
come già diceva De la Vega, sui mercati azionari «spesso le notizie hanno
[di per sé] scarso valore»: ciò che conta davvero, soprattutto nel breve
termine, è lo stato d’animo degli investitori.
Ed ecco come si palesò, a pochi minuti dall’apertura delle transazioni,
l’umore degli investitori. Alle 10.11, il broad tape annunciava che «l’attività
iniziale era scarsa e di segno incerto». Notizia confortante, a dispetto delle
apparenze: «segno incerto» significava che certe quotazioni erano in rialzo
e altre in ribasso, e di solito la scarsa attività è indice di un calo dei mercati
non troppo grave. Ma il sollievo fu di breve durata: alle 10.30 il nastro delle
quotazioni rilevava una costante flessione dei prezzi; come se non bastasse,
il bollettino era indietro di sei minuti pur viaggiando alla velocità massima
di cinquecento caratteri al minuto, e questo era un chiaro segnale che le
operazioni si svolgevano a ritmo frenetico. I dettagli di ogni transazione
conclusa sul parterre della borsa valori vengono infatti registrati da un
impiegato su un apposito modulo cartaceo che viene inviato per posta
pneumatica al quinto piano dello stesso edificio, dove una squadra di
impiegate è pronta a inserire e trasmettere i dati attraverso la telescrivente.
Uno scarto di due o tre minuti tra la chiusura di una contrattazione e la sua
comparsa sul nastro delle quotazioni è perfettamente normale: nel gergo
della borsa, si comincia a parlare di «ritardo» soltanto quando la distanza tra
l’arrivo del modulo al quinto piano e il suo smaltimento da parte di una
dattilografa un po’ trafelata è superiore ai due o tre minuti («I termini che
s’adoperano presso la borsa non sono scelti con accuratezza», lamentava già
De la Vega). Scarti nell’ordine di alcuni minuti sono abbastanza comuni nei
giorni di particolare animazione, ma ormai, grazie alle telescriventi di
nuovo tipo introdotte nel 1930, i rallentamenti gravi sono rarissimi. Vero è
che il 24 ottobre del 1929 il nastro della telescrivente aveva accumulato un
ritardo di 246 minuti, ma i modelli di telescrivente dell’epoca stampavano
solo 285 caratteri al minuto; prima del maggio 1962, lo scarto piú ampio
registrato dalle macchine di nuova generazione era stato di soli 34 minuti.
In ogni caso, non c’era dubbio che i prezzi scendessero e che il numero
delle transazioni fosse in aumento; tuttavia la situazione non sembrava
ancora disperata. Verso le undici restava una sola certezza, e cioè che la
tendenza al ribasso emersa nella settimana precedente non si era interrotta;
al contrario, sembrava accentuarsi. Alla crescente vivacità degli scambi
corrispondeva poi un sempre maggiore ritardo del nastro. Alle 10.55 lo
scarto era di 13 minuti; alle 11.14, di 20; alle 11.35, di 28; alle 11.58 i
minuti di ritardo erano già diventati 38, e alle 11.14 erano saliti a 43. (Ogni
volta che il ritardo del nastro supera i cinque minuti, la Borsa di New York
cerca di dare una parvenza di attualità al servizio interrompendo il flusso
dei dati con dei piccoli «flash» sui prezzi correnti dei titoli principali, ma
questo, naturalmente, non fa che accrescere il ritardo complessivo). A
mezzogiorno, l’indice Dow Jones mostrava già un calo di 9,86 punti.
I primi sintomi dell’isteria collettiva si manifestarono durante la pausa
pranzo. Di solito la fascia oraria tra le dodici e le quattordici è
contraddistinta da una relativa inattività: quel giorno, invece, i prezzi
continuarono a scendere a fronte di un ulteriore incremento degli scambi,
che a sua volta causò un ulteriore ritardo delle telescriventi: poco prima
delle quattordici, lo scarto era di 52 minuti. E se la gente vende azioni
quando dovrebbe essere a tavola, significa che la faccenda è seria. Un altro
segno di frenesia imminente era l’insolito assembramento presso la sede di
Times Square della società di brokeraggio Merrill Lynch, Pierce, Fenner &
Smith, vero e proprio colosso nel settore dell’intermediazione mobiliare. I
locali della società (situati al 1451 della Broadway, per essere precisi)
avevano un problema tutto particolare: trovandosi in pieno centro, all’ora di
pranzo venivano regolarmente invasi da un’insolita quantità di quelli che
nel gergo degli operatori di borsa si chiamano «viandanti»: piccolissimi
investitori, a volte semplici curiosi, che trovano interessante, soprattutto nei
periodi di crisi, l’atmosfera di un’agenzia di brokeraggio e il continuo
mutare delle quotazioni sui tabelloni. (Dice De la Vega: «È facile discernere
colui che gioca non per cupidigia ma per semplice diletto»). Il responsabile
dell’ufficio, un tranquillo signore della Georgia di nome Samuel Mothner,
sapeva per esperienza che c’era una stretta correlazione tra il livello di ansia
generalizzata e il numero di viandanti che si soffermavano davanti alla sede
della sua società: a mezzogiorno del 28 maggio, la folla era talmente
numerosa da sembrare, al suo sguardo allenato, l’equivalente umano di uno
stormo di uccelli del malaugurio.
Ma non erano soltanto presagi e segni premonitori a tormentare Mothner
e i mediatori di tutto il Paese. La corsa alla liquidazione delle posizioni era
già cominciata: gli ordini dei clienti si accumulavano sulla scrivania di
Mothner in quantità cinque o sei volte superiore alla media, ed erano quasi
tutti ordini di vendita. E anche se i broker consigliavano di non agitarsi e
tenersi ben stretti i portafogli almeno per il momento, i loro appelli
rimanevano spesso inascoltati. Intanto, in un’altra sede della Merrill Lynch
(sempre a Manhattan, ma al 61 ovest della Quarantottesima strada),
giungeva il cablogramma di un importante cliente di Rio de Janeiro, il cui
testo diceva, senza tanti giri di parole: «Prego vendere totalità mio
portafoglio». Non avendo tempo di tessere le lodi della ponderatezza in
collegamento telefonico internazionale, la società non ebbe altra scelta
fuorché eseguire l’ordine. Ormai anche le radio e le tivú, fiutata la notizia,
interrompevano le consuete trasmissioni del primo pomeriggio per fornire
brevi aggiornamenti: in seguito, una pubblicazione ufficiale della Borsa di
New York commentò con una certa durezza che «i notiziari, dando ampio
risalto all’andamento delle borse, potrebbero aver fomentato le ansie di certi
investitori». Come se non bastasse, la situazione era complicata da una serie
di fattori tecnici che impedivano ai broker di smaltire al meglio la marea
degli ordini di vendita. Alle 14.26 il ritardo del nastro delle quotazioni
aveva raggiunto i 55 minuti: questo significava che nella maggior parte dei
casi i prezzi riportati dalle telescriventi erano quelli di un’ora prima,
superiori di un ammontare indeterminato (da uno a dieci dollari) alla
quotazione corrente. I broker accettavano gli ordini di vendita senza avere
la minima idea del prezzo a cui si sarebbe conclusa l’operazione. Nel
tentativo di ovviare al ritardo delle telescriventi, alcune società di
intermediazione ricorsero a metodi estemporanei: i broker della Merrill
Lynch, per esempio, strillavano i dati di ogni transazione appena completata
– sempre che li ricordassero, e avessero il tempo di farlo – in una sorta di
interfono direttamente collegato alla sede centrale della società, al numero
70 di Pine Street. È naturale che a metodi cosí approssimativi
corrispondesse un’alta probabilità di errore.
Nel frattempo, in sala contrattazioni, non c’era la minima traccia di
un’inversione di tendenza: c’era invece un rapido e costante declino di tutti
i corsi azionari, con un volume di contrattazioni impressionante. La scena si
sarebbe prestata egregiamente alla prosa ornata di José de la Vega, che cosí
aveva descritto, ai suoi tempi, una situazione analoga: «Tremebondi e
irrequieti, gli orsi [gli investitori che vendono] sono ormai sopraffatti dallo
sgomento. Ogni coniglio diventa un elefante, ogni baruffa di taverna una
rivoluzione, la piú flebile ombra un presagio del caos». E non era affatto
rassicurante notare che al centro di quella scena cosí tumultuosa c’erano
proprio le blue chips, cioè le azioni delle società industriali piú solide: anzi,
era proprio la American Telephone & Telegraph (la piú grande di tutte, e
quella con il maggior numero di azionisti) a guidare il mercato al ribasso.
Con un volume di scambi che non aveva uguali fra le oltre
millecinquecento azioni quotate alla Borsa di New York (quasi tutte a prezzi
molto inferiori), fin dall’inizio della giornata il titolo AT&T aveva dovuto
affrontare numerose ondate di vendite: alle due del pomeriggio il suo
prezzo era di 104 3/4, in calo di 6 7/8 rispetto alla precedente chiusura, e la
discesa sembrava tutt’altro che conclusa. Avendo fama di titolo guida,
AT&T era strettamente sorvegliato, e ogni suo minimo deprezzamento
innescava un ulteriore calo generalizzato. Non erano ancora le tre del
pomeriggio, e Ibm era già in calo di 17 1/2; persino Standard Oil of New
Jersey, che in diverse occasioni aveva dimostrato un’eccezionale resistenza
alle fasi negative, era sceso di 3 1/4; nel frattempo AT&T aveva continuato
a deprezzarsi, toccando quota 101 1/8. E a detta di molti non si era ancora
toccato il fondo.
Ciò nonostante, come avrebbero in seguito riferito alcuni testimoni, in
corbeille non regnava ancora l’isteria; o meglio, i comportamenti isterici
erano sotto controllo. Benché molti broker fossero arrivati a un pelo dal
violare la regola che proibisce di correre all’interno della sala
contrattazioni, e benché le facce di alcuni tradissero, secondo il prudente
racconto di un funzionario di borsa, «un’intensa concentrazione», si
continuava come al solito a scherzare e a scambiarsi insulti benevoli («Le
facezie […] sono una grande attrattiva di codesta professione», diceva De la
Vega). Eppure c’era qualcosa di diverso. «Ricordo soprattutto una grande
stanchezza fisica, – racconta un broker. – Nei giorni di crisi si cammina
moltissimo: qualcuno ha misurato la distanza con il contapassi, ed è venuto
fuori che a volte si fanno piú di quindici chilometri a piedi, senza mai uscire
dalla sala contrattazioni. Ma non è questo l’unico problema: anche il
contatto fisico è logorante. Spingi, vieni spinto. La gente ti si arrampica
addosso. E poi ci sono i rumori: quel borbottio nervoso tipico delle giornate
negative. Piú le quotazioni scendono, piú le voci diventano acute. Invece,
quando il mercato sale, la colonna sonora è completamente diversa. Una
volta che ci fai l’abitudine, potresti indovinare dove va il mercato anche a
occhi chiusi. Quel giorno si scherzava ancora molto, certo, ma forse
l’allegria era piú forzata del solito. Molti hanno raccontato che alle tre e
mezzo, quando la campanella ha annunciato la chiusura delle contrattazioni,
c’è stato un applauso. Ma non è che battessimo le mani perché il mercato
era crollato: battevamo le mani perché era finita».
Ma era davvero finita? Per tutto il pomeriggio e fino a sera, Wall Street e
l’intera comunità degli investitori si tormentarono nel dubbio. Le
telescriventi continuarono a ticchettare per ore anche a mercato chiuso,
annunciando solennemente quotazioni ormai obsolete. Alle 15.30 il nastro
delle quotazioni era in ritardo di un’ora e nove minuti, e i dati sull’ultima
operazione della giornata furono stampati soltanto alle 17.58. Molti broker
si trattennero nei locali della borsa fin oltre le diciassette per definire i
dettagli delle transazioni, dopodiché andarono in ufficio ad aggiornare i
rendiconti. Quando il nastro della telescrivente finí di raccontare la sua
storia, nessuno si stupí che fosse una storia triste. American Telephone
aveva chiuso a 100 5/8, in calo di 11 punti rispetto al giorno precedente.
Philip Morris aveva chiuso a 71 1/2, in calo di 8 1/4; Campbell Soup era
sceso di 10 3/4, attestandosi a 81, mentre Ibm, sceso di ben 37 1/2, aveva
chiuso a 361. Era andata male per tutti. Nelle sedi delle società di
intermediazione, tutti i dipendenti rimasero alle scrivanie – fino a notte, in
certi casi – per attuare le opportune contromosse, la piú urgente delle quali
era senza dubbio chiedere ai loro clienti di integrare i margini di garanzia.
Quando un investitore acquista titoli con denaro prestatogli dal suo broker e
queste azioni perdono valore al punto da non coprire piú l’entità del
prestito, l’intermediario chiede al suo cliente di fornire nuove garanzie
collaterali. Se il cliente non può o non vuole integrare, il broker cercherà di
vendere nel piú breve tempo possibile il titolo acquistato a margine: ma
quella vendita potrebbe influire negativamente sul corso di altre azioni,
determinando nuove richieste di integrazione, che a loro volta potrebbero
cagionare nuove vendite, generando una spirale al ribasso. Nel 1929,
quando i crediti finalizzati all’acquisto di azioni non erano soggetti ad
alcuna restrizione, la spirale si era trasformata in un pozzo senza fondo. In
seguito il governo federale aveva imposto un limite alle operazioni a
margine, tuttavia in base alle norme vigenti nel maggio 1962 le società di
intermediazione potevano comunque richiedere ulteriori garanzie quando il
valore delle azioni acquistate a margine scendeva al 50-60 per cento del
prezzo di acquisto. E alla chiusura delle transazioni di quel 28 maggio,
quasi un’azione su quattro aveva subito, rispetto ai valori massimi dell’anno
precedente, un calo di quella portata. Secondo stime della Borsa di New
York, tra il 25 e il 31 maggio furono inviate, perlopiú tramite telegramma,
ben 91 700 richieste di integrazione. È assai probabile che la maggior parte
delle richieste siano state inviate nel pomeriggio, alla sera o durante la
notte: e per notte si intende tutta la notte, fino alle ore piccole. Sembra che
piú di un investitore abbia avuto notizia della crisi in atto – o quanto meno
si sia fatto un’idea precisa della sua spaventosa gravità – soltanto dopo
essere stato svegliato, nelle ore antelucane di martedí 29, da una richiesta di
integrazione.
Durante la crisi del 1962 gli effetti destabilizzanti delle vendite a
margine furono assai piú contenuti rispetto al 1929; un pericolo
immensamente maggiore venne invece dalle vendite dei fondi
d’investimento a capitale variabile. Molti professionisti di Wall Street non
hanno difficoltà ad ammettere, a posteriori, che nel momento del massimo
allarme il solo pensiero di come avrebbero reagito i fondi comuni era
sufficiente a mettergli i brividi. Come ben sanno i milioni di americani che
da una ventina d’anni a questa parte hanno sottoscritto quote di uno o piú
fondi aperti, le società di investimento a capitale variabile consentono ai
piccoli risparmiatori di investire i loro soldi avvalendosi dell’esperienza di
un gestore esperto: basta acquistare le quote parte, e il fondo investirà il
contante nell’acquisto di azioni, le quali verranno poi riscattate, su richiesta
del sottoscrittore, al loro valore contabile netto. Il timore di molti era che in
presenza di un forte arretramento dei corsi azionari i piccoli investitori
decidessero di mettere al sicuro i risparmi, riscattando le quote dei loro
fondi aperti: a quel punto, per procurarsi il denaro liquido necessario a far
fronte a tutte le domande, i fondi sarebbero stati costretti a vendere una
parte dei portafogli azionari, il che a sua volta avrebbe aggravato la
flessione della borsa e indotto altri risparmiatori a chiedere il riscatto delle
quote: e cosí via, in quella che prometteva di essere una versione moderna
del proverbiale pozzo senza fondo. Il brivido collettivo della comunità
finanziaria era reso piú intenso dalla consapevolezza che prima di allora
l’effetto-valanga dei fondi a capitale variabile non era mai stato davvero
sperimentato: il valore delle attività di questi fondi, praticamente uguale a
zero nel 1929, era aumentato costantemente fino a raggiungere nella
primavera del 1962 l’imponente cifra di 23 miliardi di dollari; e nel
frattempo il mercato azionario non aveva mai subito arretramenti di gravità
paragonabile a quello in corso. Facile immaginare che l’immissione sul
mercato di titoli per 23 miliardi di dollari – o anche solo una frazione
abbastanza consistente di quella cifra – potesse determinare un crollo tale
che, al confronto, la crisi del ’29 sarebbe sembrata un piccolo contrattempo.
Il broker Charles J. Rolo, approdato nell’arcadia di Wall Street nel 1960,
dopo un’esperienza come recensore di libri per la rivista mensile «The
Atlantic», racconta che il pensiero di una spirale al ribasso indotta dalle
vendite dei fondi aperti, sommato all’impossibilità di capire se quella
spirale fosse di fatto già iniziata, era «talmente spaventoso che neppure si
osava parlarne». Grazie a una sensibilità letteraria tanto spiccata da
sopravvivere, almeno fino a quel momento, alla conclamata prosaicità delle
vicende economiche, Rolo riuscí a cogliere anche gli aspetti meno evidenti
del clima che si respirava a Wall Street in quel tardo pomeriggio del 28
maggio. «C’era un’atmosfera irreale, – avrebbe narrato in seguito. – Credo
che nessuno avesse la piú pallida idea di quando si sarebbe toccato il fondo.
Alla chiusura, l’indice Dow Jones si attestò intorno a 577: un calo di quasi
35 punti. Oggi non è considerato elegante dirlo, ma all’epoca molte voci
autorevoli sostenevano che la discesa si sarebbe fermata solo a quota 400: il
che, naturalmente, sarebbe stato un autentico disastro. La parola
“quattrocento” passava di bocca in bocca, anche se in seguito quelle stesse
persone sarebbero state pronte a smentirvi, sostenendo di aver detto
“cinquecento”. Ma non era solo l’apprensione per le sorti del mercato a
tormentare gli animi degli agenti di borsa: a questa si aggiungeva infatti un
profondo scoramento di natura personale. Tutti sapevamo che i nostri clienti
– alcuni ricchi, altri meno – avevano subito gravi perdite a seguito delle
nostre decisioni: e dite pure quel che volete, ma è molto, molto spiacevole
perdere i soldi degli altri. Senza contare che nei dodici anni precedenti i
prezzi delle azioni non avevano mai smesso di crescere. Quando ti rendi
conto di aver guadagnato bene e di aver fatto guadagnare i tuoi clienti per
dieci anni o piú, alla fine ti convinci di essere abbastanza in gamba. Di
essere arrivato in cima. Sei bravo a far soldi, non c’è santo che tenga. Ma
questo crollo improvviso metteva in luce una debolezza di fondo, causava
una crisi di autostima dalla quale non era facile risollevarsi». Nel
complesso, la situazione era tale che ogni broker, potendo, avrebbe
volentieri applicato la regola d’oro di José de la Vega: «Non suggerire mai
ad alcuno di acquistare o vendere azioni, giacché quando l’intelletto è
offuscato, anche il piú benevolo dei consigli può dare pessimi frutti».
Martedí mattina, le dimensioni della débâcle si manifestarono in tutta la
loro evidenza. Secondo alcune stime, le azioni quotate alla Borsa di New
York avevano subito una perdita nominale complessiva di 20 miliardi e 800
milioni di dollari: una cifra da record, ben superiore a quella di soli 9
miliardi e 600 milioni registrata il 28 ottobre del 1929, quando il valore
complessivo delle azioni in listino era molto inferiore. Il nuovo record
corrispondeva a poco meno del 4 per cento del reddito nazionale: in pratica,
gli Stati Uniti avevano perduto in un sol giorno l’equivalente di due
settimane di prodotti e salari. E naturalmente le ripercussioni sui mercati di
altri Paesi non si fecero attendere. In Europa la crisi arrivò martedí 29, a
causa della differenza di fuso orario. Alle nove del mattino, ora di New
York, quasi tutte le principali piazze europee (ormai prossime all’ora di
chiusura) registravano una forte impennata delle vendite che non aveva
altre ragioni all’infuori del crollo di Wall Street. La Borsa di Milano riportò
la perdita piú ampia degli ultimi diciotto mesi. Bruxelles dovette rassegnarsi
al peggior risultato dal 1946, anno della riapertura dei mercati azionari dopo
la Seconda guerra mondiale. Il calo di Londra risultò essere il peggiore
degli ultimi ventisette anni. A Zurigo, dove la giornata si era aperta con
vendite massicce e deprezzamenti paurosamente vicini al 30 per cento, gli
acquisti degli speculatori arginarono le perdite poco prima della chiusura. I
contraccolpi della crisi si fecero sentire – in maniera meno diretta, ma certo
piú grave in termini di effetti concreti sulla vita delle popolazioni – anche
nei Paesi piú poveri. Alla borsa merci di New York, il prezzo dei futures sul
rame con scadenza a luglio diminuí di 44 centesimi di centesimo alla libbra:
una variazione in apparenza infinitesima, ma fondamentale per un piccolo
Paese fortemente vincolato alle esportazioni di quel metallo. Secondo una
stima riportata da Robert L. Heilbroner nel saggio intitolato The Great
Ascent, ogni volta che le quotazioni del rame diminuiscono di un centesimo
sul mercato di New York, il ministero del Tesoro cileno perde 4 milioni di
dollari: in base a questa equivalenza, la crisi del maggio 1962 costò al Cile
circa 1,76 milioni di dollari, soltanto in termini di perdite potenziali sulle
esportazioni di rame.
A questo stadio della crisi, la paura di quanto sarebbe potuto succedere
era forse piú angosciante della consapevolezza di quanto era già successo. Il
«New York Times» aprí il suo editoriale col fiato sospeso («Ieri i mercati
azionari sono stati investiti da qualcosa di molto simile a un terremoto») e
nella mezza colonna successiva preparò il campo a una proclamazione
altisonante: «Indipendentemente dagli alti e bassi del mercato azionario,
siamo e rimarremo padroni del nostro destino economico». Il nastro delle
quotazioni aprí la giornata alle nove in punto con il solito, cordiale
«Buongiorno!», ma subito dopo cominciò a riferire notizie inquietanti dai
mercati esteri; alle 9.45, quindici minuti prima dell’apertura delle
contrattazioni a New York, si domandò ansiosamente: «Quando finiranno le
vendite sottocosto?» rispondendosi subito dopo che non era ancora tempo:
tutti i segnali indicavano che l’ondata di vendite era «ben lontana
dall’esaurirsi». A rendere ancora piú fosca l’atmosfera si aggiungevano
voci minacciose sull’imminente fallimento di svariate società di
brokeraggio (De la Vega: «Il presagio di un evento crea ben piú profonda
impressione […] dell’evento stesso»). Il fatto che molte di queste voci si
siano in seguito rivelate false non era, al momento, di nessun aiuto. In
quattro e quattr’otto la notizia della crisi aveva raggiunto ogni angolo del
Paese, e il mercato azionario era diventato il primo problema nazionale. I
centralini delle società di intermediazione erano ingorgati dalle chiamate in
arrivo, e negli spazi aperti si affollavano «viandanti» e troupe televisive. Al
numero 11 di Wall Street la giornata era iniziata presto: tutti i broker della
sala contrattazioni si erano presentati al lavoro di buon’ora per chiudere i
boccaporti in attesa della tempesta imminente, mentre i funzionari che
lavoravano ai piani superiori si erano cercati degli assistenti che li
aiutassero a smistare le montagne di ordini. All’ora di apertura,
l’affollamento nella galleria dei visitatori era tale che per quel giorno si
dovettero sospendere le consuete visite guidate. Tra i gruppi che erano
riusciti a farsi largo fino alla galleria c’era anche una classe di tredicenni di
una scuola cattolica dell’Upper West Side, la Corpus Christi: l’insegnante,
suor Aquin, spiegò a un reporter che la settimana precedente i ragazzi si
erano preparati alla visita simulando di investire in azioni un capitale
immaginario di diecimila dollari a testa. «Hanno perso tutto», disse suor
Aquin.
L’apertura delle contrattazioni segnò l’inizio dei novanta minuti piú neri
della borsa a memoria di molti agenti di cambio newyorchesi, comprese
alcune vecchie volpi che avevano vissuto in prima persona la crisi del 1929.
La partenza fu fiacca non perché regnasse la calma, ma perché, al contrario,
la pressione delle vendite era tale da paralizzare le operazioni. Al fine di
evitare sbalzi improvvisi delle quotazioni, alla Borsa di New York vige una
regola in base alla quale le transazioni effettuate a un prezzo molto lontano
(almeno un punto per le azioni di prezzo inferiore ai 20 dollari, due o piú
punti per quelle al di sopra) da quello dell’operazione di vendita precedente
devono essere personalmente autorizzate da uno dei funzionari presenti in
corbeille. Nel caso specifico, dato il gran numero di venditori e la penuria di
acquirenti, era inevitabile che le variazioni di prezzo fossero in
quell’ordine, se non addirittura superiori: e quindi nessuna azione poteva
passare di mano finché non si riusciva a trovare, in mezzo alla folla urlante,
un funzionario della borsa. Per alcuni titoli chiave come Ibm, la grande
preponderanza dei venditori rispetto agli acquirenti rendeva di fatto
impossibili le vendite anche con la debita autorizzazione di un funzionario,
e non c’era altra soluzione fuorché attendere che il miraggio di un buon
affare convincesse gli acquirenti a farsi vivi. Il bollettino Dow Jones, in
apparente stato di shock, continuava a farfugliare prezzi a casaccio e
informazioni frammentarie: alle 11.30 annunciò che «almeno sette» titoli in
tabellone non avevano ancora aperto, ma alla fine si sarebbe capito che
erano molti di piú. A un’ora dall’apertura delle contrattazioni l’indice Dow
Jones aveva perso altri 11,09 punti, le già ingenti perdite del giorno
precedente erano aumentate di svariati miliardi di dollari e il panico regnava
sovrano.
Insieme al panico arrivò anche il caos, o qualcosa di molto simile. Molte
cose si possono dire a proposito di quel martedí 29 maggio 1962; ma di
certo lo si ricorderà a lungo come il giorno in cui il capillare, complicato e
automatizzato sistema di strutture tecniche che rendeva possibile la
compravendita di titoli da un capo all’altro di una nazione enorme, in cui
quasi un adulto su sei era azionista di qualcosa, arrivò molto vicino al
collasso totale. Molti ordini furono eseguiti a un prezzo assai diverso da
quello concordato; altri si persero a metà strada o non furono mai eseguiti,
perché rimasti sepolti sotto lo strato di foglietti di carta che ricopriva il
pavimento della sala contrattazioni. In certi casi le società di
intermediazione non poterono eseguire gli ordini per pura e semplice
impossibilità di comunicare con i loro funzionari in sala contrattazioni. I
record di scambi del lunedí furono non superati, ma polverizzati: basti
pensare che al momento della chiusura il ritardo del nastro delle quotazioni
era di 2 ore e 23 minuti, contro l’ora e 9 minuti di lunedí. Per una sorta di
miracolosa illuminazione la Merrill Lynch (alla quale faceva capo piú del
13 per cento delle compravendite effettuate alla Borsa di New York) aveva
appena acquistato un nuovo computer modello 7074 – quella macchina
prodigiosa capace di riprodurre tutta la guida telefonica in soli tre minuti – e
con il suo aiuto riuscí a tenere i conti abbastanza a posto nonostante la
giornata frenetica. Anche il nuovo sistema di commutazione automatica per
telescriventi – un macchinario grande quasi quanto un intero isolato – si
dimostrò all’altezza del compito, facilitando le comunicazioni tra i vari
uffici della società nonostante si fosse surriscaldato al punto che era
impossibile toccarlo. Altre società ebbero peggior fortuna, e in alcuni casi la
confusione prese il sopravvento: si dice che alcuni broker, spossati dalla
vana ricerca delle ultime quotazioni o di un contatto con i colleghi in sala
contrattazioni, abbiano semplicemente gettato la spugna e siano usciti a
bere qualcosa. Comportamento assai poco professionale, che tuttavia
potrebbe aver risparmiato gravi perdite ai loro clienti.
Il colmo del paradosso fu raggiunto intorno all’ora di pranzo. Poco prima
di mezzogiorno le quotazioni avevano toccato il minimo, con una perdita di
23 punti dell’indice Dow Jones. (Va detto, tra l’altro, che il record negativo
dell’indice si assestò a 553,75 punti: nettamente al di sopra dei 500 che
alcuni esperti sostennero in seguito di aver indicato come possibile
minimo). Da quel momento in poi tutto cambiò: ebbe inizio la rimonta,
tanto energica quanto inaspettata. Alle 12.45 c’erano già i primi segnali di
una folle corsa agli acquisti; ma poiché il nastro delle quotazioni era in
ritardo di 56 minuti, la telescrivente continuò (a parte gli effimeri
aggiornamenti delle quotazioni «flash») a trasmettere dati sulle vendite da
panico, quando già era in atto un’epidemia di acquisti da panico.
1.
Non c’è dubbio che negli ultimi tempi molti americani ricchi e
apparentemente intelligenti abbiano preso decisioni che a un osservatore
ingenuo potrebbero sembrare strampalate, se non addirittura folli. Plutocrati
d’antico lignaggio, non di rado strenui oppositori della burocrazia in ogni
sua forma e manifestazione, si sono convertiti con slancio al finanziamento
dei governi statali e municipali, tributando loro generose donazioni. La
frequenza dei matrimoni tra persone con redditi molto elevati e persone con
redditi piú modesti raggiunge punte massime verso la fine di dicembre e
crolla al minimo in gennaio. Personaggi di grande successo soprattutto in
campo artistico, improvvisamente e insistentemente esortati dai loro
commercialisti a sospendere ogni attività retribuita fino al termine dell’anno
civile in corso, hanno accolto di buon grado il suggerimento anche se, in
certi casi, mancavano sei o persino sette mesi all’anno nuovo. Attori e
professionisti di reddito elevato manifestano una ricorrente propensione
all’acquisto di cave di sabbia o ghiaia, locali per il gioco del bowling,
servizi di segreteria telefonica o altre attività di nessun pregio, alla cui
gestione ritengono con tutta probabilità di dover imprimere nuovo slancio.
Gli abitanti del dorato mondo del cinema seguono un programma ciclico di
abbandoni e riconciliazioni, abiurando sovente il suolo natio in favore di
questa o quella nazione estera, per poi ritornare in patria di lí a diciotto
mesi. I petrolieri hanno cosparso il suolo del Texas di carotaggi esplorativi,
assumendosi rischi ben maggiori di quelli normalmente richiesti dal senso
degli affari. Imprenditori e professionisti che viaggiavano in aereo o in taxi,
o sedevano al tavolo di qualche ristorante, sono stati piú volte sorpresi
nell’atto di vergare note su certi piccoli taccuini che, ove sollecitati a farlo,
essi stessi hanno qualificato come «diari»: ma invece che a dimostrarne la
parentela spirituale con illustri prosatori del calibro di Samuel Pepys o
Philip Hone, le loro annotazioni servivano in buona sostanza a rammentare
le spese sostenute. E non parliamo, infine, dei molti proprietari o
comproprietari di aziende che hanno deciso di spartire ciò che possiedono
con i loro figli in giovane, spesso giovanissima età: al punto che, in un caso
almeno, la ratifica di un accordo del genere è stata rinviata in attesa della
nascita del nuovo socio.
Come tutti o quasi avranno intuito, queste bizzarrie sono direttamente
imputabili ad alcune prescrizioni della legge federale sul reddito. Il fatto
che si traducano in nascite, matrimoni, scelte professionali, stili e/o luoghi
di vita ci fa intuire l’ampiezza degli effetti sociali di quella legge; ma
poiché sono circoscritte ai ceti abbienti, l’ampiezza dei loro effetti
economici resta sconosciuta ai piú. Prendiamo un qualsiasi anno della storia
recente: il 1964, per esempio. Considerato che il numero delle dichiarazioni
dei redditi presentate in quell’anno dai cittadini americani si aggirava
intorno ai 63 milioni, non è difficile capire perché la normativa sul reddito
sia considerata da molti la piú importante delle leggi. E poiché la sola
imposta sul reddito fornisce allo Stato circa tre quarti dei suoi introiti lordi,
la sua rilevanza nel piú vasto contesto della politica fiscale nazionale è
quanto mai evidente. (A fronte di un gettito lordo complessivo di 112
miliardi di dollari nella gestione finanziaria conclusasi il 30 giugno del
1964, circa 54,5 miliardi provenivano da imposte sul reddito delle persone
fisiche, contro i 23,3 miliardi forniti dalle imposte sul reddito delle
imprese). «Per il comune cittadino, è LA TASSA per antonomasia»,
sostengono William J. Shultz e C. Lowell Harriss nel loro saggio intitolato
American Public Finance, mentre David T. Bazelon ha suggerito che i suoi
effetti economici siano stati talmente ampi da aver creato due diverse
monete americane: il dollaro al lordo delle imposte e il dollaro al netto.
Nessuna azienda nasce o viene gestita, neppure per un giorno, senza che si
prenda in seria considerazione il problema delle tasse, e nessun cittadino –
quale che sia la sua categoria di reddito – può permettersi il lusso di non
pensarci almeno di tanto in tanto, sapendo che il mancato rispetto delle
disposizioni in materia ha già avuto conseguenze nefaste sul patrimonio o
sulla reputazione (a volte su entrambi) di alcuni contribuenti. Qualche anno
fa un turista americano in vacanza a Venezia si imbatté in una cassetta
destinata alla raccolta di offerte per la manutenzione della basilica di San
Marco, e con sua grande sorpresa vide su una targhetta di ottone la scritta
«Deducibile dalle imposte sul reddito dei cittadini statunitensi».
Quando si parla dell’imposta sul reddito lo si fa spesso partendo dal
presupposto che non sia né logica, né equa. L’accusa piú generica e seria
che le viene rivolta è di fondarsi su qualcosa che somiglia molto a una
bugia: pur prevedendo una serie di aliquote progressive a seconda
dell’entità dei redditi, l’imposta offre ai contribuenti una tale quantità di
comode scappatoie che alla fine quasi nessuno, ricco o no, incappa nelle
aliquote piú alte. Nel 1960 i contribuenti con un imponibile compreso tra
duecentomila e cinquecentomila dollari pagavano in media il 44 per cento
di tasse, e persino i pochi fortunati con un imponibile superiore al milione
di dollari erano soggetti a una tassazione ben inferiore al 50 per cento – che,
guarda caso, era la percentuale di reddito che l’erario avrebbe dovuto
riscuotere (e spesso riscuoteva) dai cittadini con un imponibile di 42 000
dollari. Un’altra accusa che spesso si rivolge all’imposta sul reddito è quella
di essere una specie di serpente nel nostro giardino dell’Eden: sarebbero
cosí tante le opportunità di microevasione offerte dall’attuale normativa,
che a ogni aprile l’intera società americana incorre in una vera e propria
perdita della grazia. Un’altra scuola di pensiero, infine, sostiene che a causa
della sua grande complessità (il codice di diritto tributario del 1954,
fondamento della normativa, è un volume di oltre mille pagine, mentre le
sentenze e le norme applicative dell’agenzia tributaria statunitense constano
di altre diciassettemila) l’imposta sul reddito non solo produce situazioni
paradossali quali attori che estraggono ghiaia o aziende con soci non ancora
nati, ma, in quanto legge a cui il cittadino non è in grado di conformarsi da
solo, costituisce di per sé stessa un’anomalia. La conseguenza, a detta di
questi critici, è una violazione del principio democratico, giacché soltanto i
ricchi possono permettersi la costosa assistenza professionale necessaria a
minimizzare il carico fiscale senza violare la legge.
In pratica la normativa fiscale nella sua totalità non ha un solo difensore,
anche se i piú equanimi tra gli studiosi della materia sostengono che nel
mezzo secolo ormai trascorso dalla sua entrata in vigore essa abbia favorito
una colossale e salutare redistribuzione della ricchezza. Quando si parla di
tasse, del resto, c’è una sola certezza: tutti vorrebbero riformarle. Il
problema è che, in quanto riformatori, noi cittadini abbiamo le mani legate,
e per due ragioni: la prima è la spaventosa complessità di una materia il cui
solo nome ha il potere di annebbiare molte menti; la seconda è la
puntigliosa, sagace ed energica difesa di certi privilegi da parte dei piccoli
gruppi che ne traggono beneficio. Come qualsiasi normativa fiscale, anche
la nostra sembra avere una sorta di refrattarietà alle riforme, poiché le stesse
ricchezze che alcuni cittadini hanno accumulato grazie ai meccanismi di
elusione fiscale possono essere e sono costantemente utilizzate per
contrastare l’eliminazione di quei meccanismi. Questi vincoli, associati al
crescente fabbisogno finanziario generato dalla spesa militare e dai costi di
gestione della macchina statale (anche senza considerare le guerre «calde»
come quella combattuta in Vietnam), hanno dato luogo a due tendenze cosí
marcate da aver assunto la forma di una legge politica naturale: negli Stati
Uniti è relativamente facile innalzare le aliquote fiscali e introdurre
meccanismi di elusione fiscale, mentre è relativamente difficile abbassare le
aliquote ed eliminare i suddetti meccanismi. Cosí almeno si credeva fino al
1964, quando una parte di quella legge naturale è stata spettacolarmente
smentita da una nuova norma proposta dal presidente Kennedy e poi messa
in atto da Lyndon B. Johnson, grazie alla quale le aliquote minima e
massima dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sono state ridotte
rispettivamente dal 20 al 14 per cento e dal 91 al 70 per cento, mentre
l’aliquota massima dell’imposta sui redditi delle aziende è stata portata dal
52 al 48 per cento: in sostanza, la piú ampia manovra di sgravio fiscale mai
attuata nella storia degli Stati Uniti. L’altra metà della legge naturale, nel
frattempo, resta immutata. Va detto a onor del vero che la proposta di
riforma avanzata dal presidente Kennedy comprendeva una serie di misure
di contrasto all’elusione fiscale, le quali però suscitarono un tale scalpore
che lo stesso Kennedy finí per rinunciarvi; alla fine, si scoprí che la nuova
legge conteneva disposizioni che addirittura estendevano o potenziavano un
paio di scappatoie.
«Facciamocene una ragione, Clitus: viviamo in un’èra fiscale. Tutto
finisce in tasse», dice uno degli avvocati protagonisti di Powers of Attorney,
la raccolta di racconti di Louis Auchincloss: il suo collega, fervente
tradizionalista, non può che obiettare debolmente. È strano che la normativa
fiscale, per quanto onnipresente nella vita americana, compaia cosí di rado
nelle opere di narrativa. Forse la si considera priva di eleganza letteraria;
oppure l’omissione è frutto del generale imbarazzo di una nazione che ha
volontariamente e irreversibilmente dato vita a un’entità non del tutto buona
né del tutto cattiva, ma cosí immensa, stravagante e ambigua sul piano
morale, che l’immaginazione non è in grado di comprenderla. In sostanza, è
come se noi stessi non riuscissimo a capacitarci della sua esistenza.
La proposta che aveva suscitato quegli strali, poi tramutata in legge nel
1894, prevedeva un’aliquota uniforme pari al 2 per cento su tutti i redditi
superiori ai quattromila dollari. Il Partito democratico sopravvisse, ma la
nuova normativa fu stroncata sul nascere. Prima ancora che entrasse in
vigore, la Corte suprema la respinse, giudicandola contraria alla norma
costituzionale che vietava di imporre tasse «dirette» non ripartite tra gli
Stati in base al numero dei rispettivi abitanti (obiezione che, curiosamente,
non era stata sollevata ai tempi della Guerra di secessione). La questione
tornò nel dimenticatoio e vi restò, questa volta, per una quindicina d’anni.
Nel 1909, a seguito di quello che un autorevole esperto come Jerome
Hellerstein ha definito «uno dei contorcimenti politici piú paradossali della
storia americana», il Partito repubblicano, da sempre implacabile oppositore
di ogni imposta sui redditi, presentò un emendamento costituzionale (il
sedicesimo) che attribuiva al Congresso il potere di applicare tasse non
ripartite tra gli Stati. Era una mossa puramente politica, intrapresa nella
pacifica convinzione che gli Stati non avrebbero mai ratificato
l’emendamento. E invece, con gran disappunto dei repubblicani, la norma
fu convalidata nel 1913. Qualche mese dopo, il Congresso emanò una legge
che introduceva una tassa graduale sui redditi delle persone fisiche, con
aliquote comprese tra l’1 e il 7 per cento, e un’imposta fissa dell’1 per cento
sugli utili netti delle aziende. Da allora in avanti, la tassa sui redditi è la
fedele compagna delle nostre vite.
Nel complesso, la sua storia dal 1913 ai giorni nostri è una storia di
aliquote crescenti, opportunamente neutralizzate dalla periodica comparsa
di clausole speciali che risparmiavano ai piú ricchi l’incomodo di dover
pagare piú tasse. Le aliquote salirono di molto negli anni del primo conflitto
mondiale, tanto che nel 1918 quella inferiore era pari al 6 per cento, mentre
la massima, applicata agli imponibili che superavano il milione di dollari,
era del 77 per cento: ben piú di quanto i passati governi avessero mai osato
chiedere ai loro contribuenti. Ma la fine della guerra e il «ritorno alla
normalità» invertirono la tendenza e aprirono le porte a una fase di fiscalità
piú leggera, per i ricchi come per i poveri. Il peso dell’imposta scese
gradualmente fino al 1925, anno in cui la gamma delle aliquote ordinarie
risultava compresa tra l’1 e mezzo per cento e il 25 per cento; per di piú, la
maggior parte dei lavoratori dipendenti era esentata dal pagamento delle
tasse grazie a una serie di detrazioni pari a 1500 dollari per ogni singolo
contribuente e a 3500 dollari per i contribuenti con coniuge a carico, ai
quali si aggiungevano altri 400 dollari per ognuno degli altri familiari a
carico. Ma non era tutto qui: proprio negli anni Venti, infatti, erano apparse
sulla scena le prime clausole speciali, concepite e realizzate dallo stesso
insieme di forze politiche che, salvo rari intervalli, ne favorisce tuttora la
proliferazione. La prima disposizione speciale di una certa importanza,
adottata nel 1922, stabiliva il principio del trattamento di favore per gli utili
in conto capitale ancora applicato ai giorni nostri: gli introiti derivanti da un
incremento nel valore degli investimenti sono tassati a un’aliquota piú bassa
rispetto ai guadagni ottenuti sotto forma di retribuzioni o in cambio della
prestazione di servizi. Quattro anni piú tardi, nel 1926, fu introdotta la
scappatoia che piú di ogni altra ha provocato lo sdegno di quanti non sono
in condizione di approfittarne: la detrazione per esaurimento a favore dei
proprietari di impianti petroliferi, che permette ai proprietari dei pozzi
produttivi di dedurre dal proprio imponibile fino al 27,5 per cento dell’utile
lordo annuo, e di continuare a farlo ogni anno, anche quando il costo
originario dell’impianto sarà stato largamente ammortizzato. Si dice che gli
anni Venti siano stati l’età dell’oro degli Stati Uniti; probabilmente è vero,
ma di certo sono stati l’età dell’oro dei contribuenti americani.
La Depressione e gli anni del New Deal favorirono un incremento delle
aliquote e una riduzione delle esenzioni, e aprirono la strada a quella fase
autenticamente rivoluzionaria nella storia della tassazione federale sui
redditi che ebbe inizio con la Seconda guerra mondiale. A causa del forte
incremento della spesa pubblica, intorno al 1936 la tassazione delle fasce di
reddito piú alte era all’incirca raddoppiata rispetto alla fine degli anni Venti:
la misura massima dell’imposta era pari al 79 per cento, mentre negli
scaglioni piú bassi le esenzioni erano state ridotte a tal punto che un
contribuente senza familiari a carico era tenuto a pagare una piccola
imposta anche se il suo reddito si aggirava intorno ai 1200 dollari annui.
(Va detto che all’epoca i redditi dei lavoratori del settore industriale erano
generalmente inferiori a quella cifra). Nel 1944 e nel 1945, gli scaglioni di
tassazione per le persone fisiche raggiunsero il massimo storico, con
l’aliquota minima al 23 e la massima al 94 per cento. La tassazione sui
redditi delle aziende, che dal modestissimo 1 per cento del 1913 era sempre
stata in graduale ma costante ascesa, toccava in certi casi l’80 per cento. Ma
la vera rivoluzione nel trattamento fiscale dei redditi durante il secondo
conflitto mondiale non fu l’incremento delle aliquote per gli scaglioni di
reddito piú alti, giacché nel 1942, proprio quando l’onda degli aggravi
fiscali stava per abbattersi sui contribuenti, i cittadini delle categorie di
reddito piú elevate si erano visti offrire una nuova via di fuga (o forse una
vecchia via, opportunamente allargata): la durata minima del periodo di
possesso che dava diritto allo sconto sui redditi da capitale era stata ridotta
da diciotto a sei mesi. In realtà la vera rivoluzione di quel periodo fu il
notevole incremento dell’imposizione sui lavoratori dipendenti, che per
effetto dell’aumento delle retribuzioni nel settore industriale si trovavano
per la prima volta a contribuire in misura rilevante al gettito fiscale. Tutt’a
un tratto l’imposta sui redditi era diventata un tributo generalizzato.
Tale era, e tale è ai giorni nostri. Tra il 1945 e il 1964 la tassazione a
carico delle aziende di medie e grandi dimensioni si è assestata su
un’aliquota fissa pari al 52 per cento, e le imposte sul reddito delle persone
fisiche non hanno subito cambiamenti di rilievo. (Per essere piú precisi, le
aliquote di base non sono state modificate in misura significativa, ma ci
sono stati, tra il 1946 e il 1950, alcuni condoni temporanei in misura
variabile tra il 5 e il 17 per cento delle somme dovute). Fino al 1950 gli
scaglioni di tassazione sono rimasti entro la fascia 20-91 per cento: il
modesto aumento poi introdotto negli anni della Guerra di Corea è stato
revocato nel 1954. Sempre nel 1950, l’introduzione della cosiddetta
restricted stock option ha aperto un’altra scappatoia fiscale a beneficio dei
dirigenti delle aziende, i cui guadagni in conto capitale risultano almeno in
parte soggetti a tassi ancora piú convenienti. Questa innovazione, assai
significativa benché del tutto invisibile a chi osservi soltanto il prospetto
delle aliquote, discende dalla stessa filosofia che aveva ispirato la
rivoluzione degli anni della guerra, e cioè il progressivo incremento del
carico fiscale per le fasce di reddito medie e basse. Può sembrare
paradossale, ma l’imposta sui redditi, originariamente concepita come uno
strumento di tassazione a percentuali moderate che traeva buona parte del
gettito dai contribuenti piú agiati, è andata trasformandosi nel corso degli
anni in una tassa ad aliquote alte che grava soprattutto sulle fasce di reddito
medie e medio-basse. Il regime fiscale introdotto ai tempi della Guerra di
secessione riguardava soltanto l’1 per cento della popolazione, e in quanto
tale era senza dubbio una tassa sulla ricchezza, come lo era la tassa del
1913. Persino nel 1918, al culmine delle ristrettezze finanziarie imposte
dalla guerra, i cittadini tenuti a presentare la dichiarazione dei redditi erano
meno di 4 milioni e mezzo su una popolazione totale di oltre 100 milioni.
Nel 1933, in piena Depressione, le dichiarazioni dei redditi presentate
all’erario americano furono soltanto 750 000, mentre nel 1939 una élite di
700 000 contribuenti, su una popolazione complessiva di 130 milioni di
persone, forniva i nove decimi del gettito fiscale. Nel 1960, invece, la stessa
proporzione di entrate fiscali era erogata da una platea di contribuenti
formata da circa 32 milioni di persone, ovvero poco piú di un sesto della
popolazione totale; e in valore assoluto, quei nove decimi ammontavano a
ben 35,5 miliardi di dollari, contro meno di un miliardo nel 1939.
Nel 1911 Seligman scriveva che la storia mondiale della tassazione sui
redditi è un percorso evolutivo essenzialmente finalizzato a «basare
l’imposizione fiscale sulla capacità di contribuzione». Viene spontaneo
domandarsi come descriverebbe, se fosse ancora vivo, l’attuale regime
fiscale americano. Certo, una delle ragioni per cui le fasce sociali di reddito
medio pagano molte piú tasse rispetto al passato è che oggi i cittadini di
reddito medio sono molti di piú. Lo spostamento della pressione fiscale
deriva certamente dalla nuova struttura del regime impositivo, ma anche, in
egual misura, dal mutamento della struttura socioeconomica del Paese. Ciò
nondimeno, è probabile che con la vecchia imposta sui redditi del 1913 la
contribuzione fosse piú proporzionata alla capacità dei soggetti di quanto
non lo sia al giorno d’oggi.
Quali che siano le colpe della nostra imposta sui redditi, non c’è dubbio
che sia la piú rispettata del mondo (e al giorno d’oggi il reddito si tassa
ovunque, da oriente a occidente, e in ogni landa compresa tra i due poli). In
pratica non c’è una nazione, neppure tra quelle spuntate di recente, che non
ne sia dotata. Secondo Walter H. Diamond, esperto di tassazione
internazionale e autore di una guida intitolata Foreign Tax & Trade Briefs,
nel 1955 l’elenco degli Stati grandi e piccoli che ancora non tassavano i
redditi delle persone fisiche comprendeva piú di venti Paesi. Dieci anni
dopo, nel 1965, non ne restavano che nove: un paio di ex colonie inglesi
(Bermuda e le Bahamas), due piccole repubbliche europee (San Marino e
Andorra), tre monarchie petrolifere mediorientali (il sultanato di Muscat e
Oman, il Kuwait e il Qatar) e due Paesi decisamente inospitali (Arabia
Saudita e principato di Monaco) che tassavano i redditi degli stranieri ma
non quelli dei propri cittadini. Persino i Paesi del blocco comunista hanno
un’imposta sul reddito, che tuttavia contribuisce per una quota minima alle
entrate dello Stato; in Russia ogni categoria di lavoratori è soggetta a
un’aliquota specifica, che è massima per negozianti ed ecclesiastici, media
per gli scrittori, bassa per gli operai e gli artigiani. La grande efficienza del
sistema di raccolta fiscale statunitense è sotto gli occhi di tutti: i costi di
gestione e di esazione, per esempio, incidono per soli 44 centesimi ogni 100
dollari raccolti; il rapporto è piú che doppio in Canada e piú che triplo in
Gran Bretagna, Francia e Belgio, per non parlare dei molti Stati in cui la
rilevanza di quelle voci di spesa è parecchie volte maggiore. L’efficienza
americana getta letteralmente nello sconforto le amministrazioni fiscali
degli altri Paesi. Nel 1964, a pochi mesi dalla scadenza del suo incarico, il
sovrintendente dell’agenzia delle entrate statunitense Mortimer M. Caplin
tenne una serie di consultazioni con i colleghi di sei nazioni europee, e la
domanda che si sentí ripetere piú spesso era: «Ma come fate? Davvero a voi
americani piace pagare le tasse?» Non è cosí, certo, ma come disse Caplin
all’epoca, «da noi entrano in gioco un sacco di fattori che per gli europei
non contano». Uno di questi, per esempio, è la tradizione. Le nostre imposte
sul reddito non sono mai servite a fare il gioco di qualche sovrano avido che
voleva riempire i propri forzieri a spese dei suoi sudditi, ma sono nate e si
sono evolute grazie agli sforzi di un governo eletto dal popolo che aveva a
cuore l’interesse generale. «In molti Paesi, – ha osservato recentemente un
esperto di diritto tributario che viaggia spesso all’estero, – è impossibile
discutere seriamente delle imposte sul reddito, perché non c’è nessuno che
le prenda sul serio». Cosa che invece accade qui da noi, grazie alla potenza
e all’abilità dell’Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate americana
che svolge veri e propri compiti di polizia fiscale.
L’incubo dello «sciame di funzionari» evocato nel 1894 da
quell’anonimo deputato della Pennsylvania si è dunque trasformato in
realtà, e di certo alcuni contribuenti sarebbero pronti a denunciarne gli
eccessivi «poteri di inquisizione». All’inizio del 1965 l’Internal Revenue
Service aveva all’incirca sessantamila dipendenti, tra cui piú di seimila
ispettori (revenue officers) e oltre dodicimila revisori (revenue agents):
questi diciottomila uomini, forti del diritto di scrutare nei redditi di
chiunque e di ficcare il naso in faccende delicate come gli argomenti
discussi durante un pranzo a spese della ditta, nonché armati del minaccioso
strumento delle sanzioni, hanno poteri che sarebbe senz’altro lecito definire
inquisitivi. Ma oltre alla raccolta dei tributi l’Irs svolge altre attività, alcune
delle quali dimostrano che è capace di esercitare i propri dispotici poteri
anche con una certa equità, se non proprio con benevolenza. La piú
notevole tra le sue funzioni accessorie consiste nell’offrire un programma di
educazione del contribuente talmente articolato che non di rado questo o
quel dirigente si compiace di affermare che l’Irs governa la piú grande
università del mondo. L’agenzia pubblica decine di opuscoli che
chiariscono vari aspetti della normativa fiscale, e sottolinea con orgoglio
che il piú sintetico tra questi – un volumetto con la copertina blu intitolato
Your Federal Income Tax, pubblicato annualmente e acquistabile nel 1965
per la modica somma di 40 centesimi in qualunque ufficio distrettuale delle
imposte – è talmente popolare da essere spesso ristampato da editori privati,
che lo vendono agli incauti contribuenti al prezzo di un dollaro o piú,
sottolineando con trionfante pignoleria che si tratta di una pubblicazione
ufficiale del governo. (La cosa, d’altronde, è perfettamente lecita, dal
momento che le pubblicazioni governative non sono soggette a copyright).
L’Irs conduce tutti gli anni, nel mese di dicembre, degli appositi «corsi
istituzionali» su specifiche questioni tecniche a beneficio delle vaste schiere
di «professionisti delle tasse» – commercialisti e avvocati – che di lí a poco
dovranno redigere le dichiarazioni dei loro clienti. Pubblica semplici
manualetti sul sistema fiscale, distribuiti gratuitamente alle scuole superiori
che ne fanno richiesta: secondo un funzionario, qualche anno fa ben l’85
per cento dei licei americani ne avrebbe sollecitato l’invio. (Quanto
all’opportunità che i liceali americani impieghino parte del loro tempo a
sgobbare sulla normativa fiscale, l’Irs ritiene che il problema non rientri
nelle sue competenze). Poco prima del termine per la presentazione delle
dichiarazioni, infine, l’Irs diffonde sui canali televisivi una serie di brevi
filmati che rammentano la scadenza e forniscono utili consigli. A tale
proposito, i suoi funzionari sottolineano con orgoglio che la maggior parte
degli spot televisivi mirano a proteggere i contribuenti dal rischio di pagare
piú tasse del dovuto.
Nel’autunno del 1963 l’Irs fece una mossa decisiva verso un ulteriore
miglioramento del suo già efficace sistema di riscossione, e con astuzia
degna del lupo di Cappuccetto Rosso riuscí a presentarla come il gesto
soccorrevole di una nonna che vuol cavare d’impaccio i suoi nipotini. Si
trattava del cosiddetto schedario nazionale delle identità, basato
sull’assegnazione di un codice a ciascun contribuente (in genere
corrispondente al numero di previdenza sociale): lo scopo era eliminare il
problema della mancata dichiarazione dei redditi provenienti da dividendi
azionari, da interessi su conti bancari o da obbligazioni, la cui evasione,
secondo alcune stime, costava all’erario centinaia di milioni ogni anno. Ma
non è tutto. Riportando il vostro codice nell’apposita casella, annunciava
brioso il sovrintendente Caplin sul frontespizio dei moduli per la
dichiarazione del 1964, «riceverete subito i crediti d’imposta di cui siete
titolari, nonché i rimborsi eventualmente richiesti». Qualche tempo dopo
l’Irs fece un altro enorme passo avanti, automatizzando buona parte del
processo di controllo delle dichiarazioni attraverso una rete composta da
sette punti di elaborazione regionali che ricevevano e confrontavano i dati
per poi inviarli in un secondo tempo a un centro nazionale situato a
Martinsburg, in West Virginia. Un grande centro di calcolo capace di
effettuare 250 000 riscontri al secondo, che qualcuno aveva già
soprannominato «il mostro di Martinsburg» prima ancora che cominciasse a
funzionare a pieno ritmo. Nel 1965 il mostro verificò da cima a fondo tra i 4
e i 5 milioni di dichiarazioni, e accertò gli errori di calcolo in tutte. Una
parte dei calcoli era ancora affidata a controllori umani, ma a partire dal
1967, quando il mostro cominciò a funzionare a pieno regime, molti addetti
ai controlli furono sollevati da quell’incombenza e poterono dedicarsi alle
verifiche dettagliate delle dichiarazioni. Ciò nonostante, come annunciava
nel 1963 un documento semiufficiale dell’Irs, «la capacità e la memoria del
sistema [informatico] saranno d’aiuto ai contribuenti che dimenticano di
contabilizzare i crediti dell’anno precedente o non si avvantaggiano
pienamente dei diritti garantiti dalla legge». Un mostro, certo; ma un mostro
buono.
2.
Pur non avendo fatto niente di concreto per turare le falle del regime
fiscale, il Revenue Act del 1964 le ha in effetti rese un po’ meno redditizie,
giacché la drastica riduzione delle aliquote di base sui redditi piú elevati ha
indotto alcuni contribuenti a tralasciare i ripieghi meno convenienti o
efficaci. Nella misura in cui riduce la disparità tra ciò che il codice promette
e i suoi effetti concreti, la legge del 1964 equivale a una sorta di riforma
provvisoria. (Ma sappiate che l’unico modo di impedire ogni forma di
evasione dell’imposta sul reddito consiste nell’abolire l’imposta stessa). In
ogni caso, tralasciando per il momento i sofismi del codice
(provvidenzialmente corretti dalla legge del 1964), va comunque
sottolineato che la nuova norma ne ha lasciate inalterate alcune vistose e
inquietanti caratteristiche, che in futuro potrebbero rivelarsi particolarmente
resistenti al cambiamento. Alcune hanno a che fare con il criterio in base al
quale vengono accettate o respinte le detrazioni per spese di viaggio e di
rappresentanza a carico dei professionisti o dei dipendenti che non hanno
diritto al rimborso spese (detrazioni che essendo comprese, secondo stime
recenti, tra i 5 e i 10 miliardi di dollari l’anno, sottrarrebbero all’erario
federale un gettito compreso tra 1 e 2 miliardi). Il problema delle spese di
viaggio e di rappresentanza è dibattuto da lungo tempo, e ha resistito
ostinatamente a svariati tentativi di risoluzione. Uno degli snodi cruciali
della vicenda risale al 1930, quando la sentenza di un tribunale stabilí che
l’attore e cantautore George M. Cohan – e come lui chiunque altro – aveva
il diritto di detrarre spese di viaggio e di rappresentanza per un valore
basato su stime ragionevoli, anche se non poteva dimostrare di aver pagato
quelle somme né tanto meno fornirne un resoconto dettagliato. La regola
Cohan – questo il nome che le venne dato – rimase in vigore per piú di
trent’anni, puntualmente chiamata in causa da migliaia di uomini d’affari
che la invocavano con la stessa devozione con cui i musulmani si rivolgono
alla Mecca. Nell’arco di quei trent’anni i contribuenti si fecero sempre piú
ardimentosi e le detrazioni per spese di rappresentanza crebbero rigogliose
come malerbe, finché la regola Cohan, insieme ad altre prassi discrezionali
in materia di spese di rappresentanza, venne presa di mira dagli aspiranti
riformatori. Nel 1951 e nel 1959 furono presentate alcune proposte che
miravano a sopprimere del tutto o in parte la regola Cohan, ma il Congresso
le bocciò: in un caso la decisione fu accelerata dal diffondersi di voci
incontrollate secondo cui la riforma delle clausole sulle spese di
rappresentanza avrebbe condannato all’estinzione una tradizione antica
come il Kentucky Derby. Nel 1961, poi, il presidente Kennedy propose una
nuova legge che prometteva di cancellare del tutto non solo la regola
Cohan, ma il concetto stesso di detraibilità delle spese, riducendo a un
ammontare compreso tra 4 e 7 dollari al giorno la somma detraibile per
l’acquisto di cibo e bevande. Alla fine, però, quella che già si prospettava
come una rivoluzione sociale non ebbe luogo. Il grido di dolore che da tante
parti si levava (uomini d’affari, proprietari di alberghi, ristoranti e locali
notturni) convinse Kennedy a rinunciare a buona parte delle sue proposte.
Un anno dopo, tuttavia, l’approvazione di una serie di emendamenti al
codice delle imposte (entrati in vigore nel 1963, dopo l’emanazione delle
norme applicative da parte dell’Irs) comportò di fatto l’abrogazione della
regola Cohan: da quel momento in avanti ogni detrazione per spese di
viaggio e rappresentanza, piccola o grande che fosse, doveva essere
comprovata se non da una ricevuta, almeno da un rendiconto.
Eppure basta un’occhiata fuggevole alla legge per capire che la
normativa sulle spese di rappresentanza, anche nella sua versione riformata,
non risponde pienamente alle aspettative, ma che, al contrario, è costellata
di assurdità e pervasa da una sorta di filisteismo. I viaggi, per esempio, sono
detraibili solo se hanno come motivazione primaria il lavoro e non lo svago,
e come destinazione un luogo «lontano da casa»: se, insomma, non sono
semplici spostamenti casa-lavoro e viceversa. Sennonché la clausola
«lontano da casa» porta a domandarsi quale sia il luogo definibile come
«casa», e cosí facendo introduce il concetto di «domicilio fiscale», ovvero il
luogo da cui ci si deve allontanare per aver diritto alla detrazione delle
spese di viaggio; per esempio, il domicilio fiscale di un uomo d’affari
(indipendentemente dalle case di campagna, padiglioni di caccia o sedi di
lavoro decentrate che egli eventualmente possieda) sarà l’area in senso lato
(cioè non soltanto lo specifico edificio) nella quale egli svolge la maggior
parte del suo lavoro. Di conseguenza, due coniugi che si spostino
quotidianamente verso i rispettivi uffici ubicati in due diverse città avranno
domicili fiscali separati; ciò nonostante (e per fortuna), il codice tributario
riconoscerà ancora la validità della loro unione, concedendo ai due
pendolari le stesse agevolazioni fiscali valide per le altre coppie di coniugi.
Insomma: dei matrimoni a fini fiscali si è già sentito parlare, ma per fortuna
il divorzio fiscale sembra ancora lontano nel tempo.
Gli estensori delle norme applicative, non potendo piú appellarsi
all’onnicomprensiva regola Cohan per ciò che riguarda le spese di
rappresentanza, si sono visti costretti a fare distinzioni di una minuzia quasi
teologica, il cui risultato finale è consistito nel premiare l’abitudine (che
alcuni considerano fin troppo diffusa) di parlare d’affari a tutte le ore del
giorno e della notte, e in tutte le possibili situazioni. Per esempio, la
normativa consente di detrarre le spese per l’intrattenimento dei propri soci
in affari in varie sedi come locali notturni, teatri o sale da concerto, soltanto
a condizione che prima, durante o dopo i suddetti intrattenimenti «si discuta
in maniera sostanziale e autentica di questioni inerenti al lavoro». (Anche se
in effetti non osiamo pensare a quel che succederebbe se davvero gli uomini
d’affari prendessero l’abitudine di parlare di lavoro durante i concerti o le
rappresentazioni teatrali). Di contro, un uomo d’affari che intrattenga un
suo collega in un «contesto lavorativo tranquillo» quale potrebbe essere un
ristorante che non offre spettacoli di varietà, potrà detrarre la spesa anche
nel caso in cui non discuta affatto di affari, o ne discuta poco, posto che la
finalità dell’incontro sia comunque lavorativa. In generale, si direbbe che
per gli estensori delle norme le situazioni rumorose o confuse comportino
colloqui d’affari piú prolungati: un cocktail party, in quanto espressamente
annoverato nella categoria degli intrattenimenti rumorosi e potenzialmente
deconcentranti, esigerà una notevole quantità di colloqui d’affari prima,
durante o dopo il rinfresco, mentre un invito a cena presso il domicilio del
contribuente sarà deducibile anche se nessuna discussione vi avrà avuto
luogo. In quest’ultimo caso, tuttavia, come opportunamente segnalato dal J.
K. Lasser Tax Institute nella guida intitolata Your Income Tax, i contribuenti
dovranno «essere in grado di dimostrare che il motivo dell’invito […] era
commerciale e non sociale». In sostanza, meglio non correre rischi e parlare
comunque d’affari. Come sostiene Hellerstein, «d’ora in poi i consulenti
fiscali esorteranno i loro clienti a parlare d’affari in ogni situazione e a far
presente alle consorti che, se ci tengono al loro stile di vita, devono
sopportare senza lamentarsi».
Le normative emesse dopo il 1963 tendono a scoraggiare gli
intrattenimenti troppo sofisticati, tuttavia l’opuscoletto del Lasser Institute
sottolinea (forse con moderata esultanza) che «il Congresso ha ritenuto
opportuno non inserire nel testo della legge clausole che vietassero gli
intrattenimenti fastosi o stravaganti». È stato invece deliberato che un uomo
d’affari ha facoltà di detrarre i costi di ammortamento e di gestione relativi
a una «struttura di intrattenimento» di sua proprietà (per esempio uno yacht,
un padiglione di caccia, una piscina, una pista da bowling, un aereo), a
condizione che la utilizzi a scopo professionale per piú della metà del
tempo. In Expense Accounts 1963, uno dei tanti opuscoletti per consulenti
fiscali periodicamente pubblicati dalla società privata Commerce Clearing
House Incorporated, la regola era spiegata mediante l’esempio che segue:
Supponiamo che uno yacht sia destinato […] all’intrattenimento della clientela. Per il
25 per cento del tempo, viene usato a scopo di relax […] Poiché nel restante 75 per
cento del tempo l’imbarcazione viene impiegata per scopi professionali, ne consegue
che la sua destinazione principale consiste nel promuovere l’attività professionale del
contribuente, e quindi il 75 per cento dei costi di manutenzione […] è detraibile in
quanto adibito al mantenimento di una struttura di rappresentanza. Se lo yacht fosse
invece usato a scopo professionale solo per il 40 per cento del tempo, non sarebbe
possibile effettuare alcuna detrazione.
Gli eventi che indussero la Sec a intentare la causa ebbero inizio nel
marzo del 1959, quando la Texas Gulf di New York, leader mondiale nella
produzione di zolfo, diede inizio a una serie di prospezioni aeree del
cosiddetto «scudo canadese», una vasta, sterile e impervia regione del
Canada orientale, che in un passato lontano ma non dimenticato era stata
una ricca zona aurifera. I piloti della Texas Gulf, però, non cercavano né
zolfo, né oro. Andavano a caccia di solfuri: depositi di zolfo chimicamente
legato ad altri minerali interessanti, come lo zinco e il rame. L’eventuale
scoperta di giacimenti sfruttabili avrebbe permesso alla Texas Gulf di
diversificare le attività e ridurre la sua dipendenza dallo zolfo, il cui prezzo
di mercato era in calo. Di tanto in tanto, durante i voli di prospezione
effettuati a intervalli irregolari nel corso di due anni, si notava una strana
irrequietezza degli strumenti geofisici a bordo degli aerei: gli aghi degli
strumenti di rilevazione si agitavano, segnalando la presenza nel terreno di
sostanze conduttrici di elettricità. Le aree in cui si verificavano tali
fenomeni, che i geofisici chiamavano «anomalie», venivano
scrupolosamente registrate e mappate. Alla fine si scoprí che ce n’erano
parecchie migliaia. Certo, un’anomalia è cosa ben diversa da un giacimento
sfruttabile, e del resto l’elenco delle sostanze capaci di condurre elettricità è
lunghissimo: oltre ai solfuri, anche la grafite, la comunissima pirite (anche
detta «oro degli stolti»), e persino l’acqua. Ciò nonostante, diverse centinaia
di quelle anomalie furono giudicate degne di indagini sul terreno: tra
queste, una delle piú promettenti era quella situata nella località che le
mappe denominavano «settore Kidd-55»: un’area di 2,5 chilometri quadrati
coperta di paludi erbose e foreste non troppo dense, quasi del tutto priva di
affioramenti rocciosi, una ventina di chilometri a nord di Timmins,
nell’Ontario, una vecchia cittadina mineraria che a sua volta dista piú o
meno ottanta chilometri da Toronto. Poiché il settore Kidd-55 era di
proprietà privata, il primo problema che la Texas Gulf dovette affrontare fu
l’acquisizione dei terreni: se non proprio di tutto il settore, almeno di una
porzione sufficiente per condurre le prime esplorazioni a terra. Ma per una
grande compagnia mineraria acquisire un terreno è sempre una faccenda
delicata, soprattutto quando è noto a tutti che una certa zona è oggetto di
indagine: e dunque fu soltanto nel giugno del 1963 che la società riuscí a
ottenere un’opzione che la autorizzava a effettuare dei carotaggi nel
quadrante nordorientale del settore Kidd-55. Tra il 29 e il 30 ottobre di
quello stesso anno, un ingegnere della Texas Gulf di nome Richard H.
Clayton effettuò una prospezione elettromagnetica a terra che diede risultati
soddisfacenti. Si fece arrivare in zona una trivella, e l’8 novembre ebbe
inizio il primo carotaggio.
Seguirono giorni esaltanti, ancorché inquieti. La persona incaricata di
eseguire i carotaggi era un giovane geologo di nome Kenneth Darke, un
accanito fumatore di sigari con una strana luce negli occhi, che nell’aspetto
somigliava molto piú allo stereotipo del minatore solitario che non all’uomo
d’organizzazione che in effetti era. Le trivellazioni andarono avanti per tre
giorni: il risultato finale fu una «carota» del diametro di tre centimetri, il
primo campione dei materiali rocciosi presenti nel sottosuolo di Kidd-55.
Darke esaminò il campione centimetro per centimetro e metro per metro,
senza altri strumenti fuorché i suoi occhi e la sua capacità di riconoscere i
minerali allo stato naturale. La sera di domenica 10 novembre, quando la
trivella aveva raggiunto i 45 metri di profondità, Darke telefonò a casa del
suo superiore diretto, Walter Holyk, geologo capo della Texas Gulf, per
aggiornarlo sugli ultimi risultati. (La chiamata partí da Timmins, perché al
cantiere di trivellazione Kidd-55 non c’era telefono). Darke, racconta
Holyk, era «emozionato». E doveva esserlo anche Holyk dopo la telefonata,
visto lo scompiglio che riuscí a seminare a dispetto della serata festiva tra i
vertici della sua azienda. Quella sera stessa, Holyk (un quarantenne di
origine canadese che viveva a Stamford, nel Connecticut, e aveva
conseguito un dottorato in Geologia presso il Massachusetts Institute of
Technology) chiamò Richard D. Mollison, suo superiore nonché
vicepresidente della Texas Gulf, e a sua volta – sempre quella sera –
Mollison chiamò il suo capo, Charles F. Fogarty, vicepresidente esecutivo e
numero due dell’azienda, per trasmettergli le notizie giunte da Kidd-55. Il
giorno successivo ci furono ulteriori aggiornamenti, sempre inoltrati per via
gerarchica: da Darke a Holyk, da Holyk a Mollison, e da Mollison a
Fogarty. Il risultato fu che tutti e tre – Holyk, Mollison e Fogarty – decisero
di andare a Kidd-55 per valutare di persona la situazione.
Il primo ad arrivare fu Holyk: mise piede a Timmins il 12 novembre, si
insediò al Bon Air Motel e raggiunse Kidd-55 a bordo di una jeep e di un
trattore cingolato, giusto in tempo per assistere alle ultime fasi della
trivellazione e aiutare Darke ad analizzare la carota. Nel frattempo la
situazione meteorologica, fino ad allora abbastanza passabile per la metà di
novembre, era visibilmente peggiorata. In quel momento il clima era
«abbastanza inclemente», come racconta Holyk: «Faceva un gran freddo,
c’era vento, il cielo minacciava pioggia o neve, e […] le condizioni
ambientali ci impensierivano molto piú del nostro campione. Ken Darke
annotava i dati sul registro, io esaminavo la carota e cercavo di valutare il
tenore dei minerali». Per rendere ancora piú complesso il lavoro all’aperto
in quelle difficili condizioni, il campione era uscito dalla terra parzialmente
coperto da uno strato di polvere e sostanze grasse, ed era stato necessario
lavarlo con della benzina prima di procedere a una benché sommaria
analisi. Malgrado tutte le difficoltà, Holyk riuscí a effettuare la stima del
campione, con risultati a dir poco stupefacenti. Su una lunghezza
complessiva di circa 180 metri, sembrava esserci un tenore medio di rame
pari all’1,15 per cento, e un tenore medio di zinco intorno all’8,64 per
cento. Come avrebbe detto in seguito un broker canadese specializzato in
aziende del settore minerario, una carota di quella lunghezza e con un
contenuto minerale di quel genere è «semplicemente al di là delle piú folli
speranze».
Nonostante tutto, la Texas Gulf non poteva ancora dire di aver messo le
mani su una nuova miniera: c’era sempre la possibilità che la vena fosse
lunga e sottile, troppo scarsa per essere commercialmente sfruttabile, o che
per una specie di prodigiosa coincidenza il carotaggio avesse centrato
esattamente l’inclinazione della vena, come quando si infila una spada nel
fodero. A quel punto era necessario effettuare altre trivellazioni, in diversi
punti della superficie e con diversi angoli di inclinazione, in modo da
accertare la forma e l’ampiezza dei depositi. Ma per farlo la Texas Gulf
doveva prima di tutto acquisire un titolo di proprietà sugli altri tre quadranti
di Kidd-55. Ci sarebbe voluto del tempo, sempre ammesso che fosse
possibile, ma intanto c’erano altre cose da fare. La trivella fu spostata; gli
alberelli tagliati furono nuovamente infilati nel terreno per ridare alla zona
un aspetto naturale. Si procedette quindi a un secondo carotaggio, questa
volta cercando di dare nell’occhio il piú possibile, perforando il terreno a
una certa distanza dalla prima trivellazione e in un punto in cui non ci si
aspettava – come in effetti avvenne – di trovare nulla. L’effetto di questi
camuffamenti, prassi ordinaria di tutti i minatori che pensano di aver trovato
qualcosa, fu rafforzato da un ordine diretto emesso dal presidente della
Texas Gulf, Claude O. Stephens, che proibiva di comunicare a chiunque,
anche all’interno della società, i risultati della prospezione. Negli ultimi
giorni di novembre la carota fu divisa in sezioni e spedita a un ufficio di
saggiatura di Salt Lake City per essere sottoposta ad analisi scientifiche. E
intanto, ovviamente, la Texas Gulf aveva cominciato a testare con la
massima discrezione possibile le intenzioni dei proprietari degli altri tre
quadranti di Kidd-55.
In parallelo si agiva anche su altri fronti, piú o meno direttamente
collegati a quanto stava accadendo a nord di Timmins. Il 12 novembre
Charles Fogarty acquistò 300 azioni della Texas Gulf; il 15 ne acquistò altre
700, il 19 altre 500, e il 26 altre 200. Sempre il 15 novembre, Richard
Clayton e Richard Mollison acquistarono rispettivamente 200 e 100 azioni
Texas Gulf; la moglie di Walter Holyk acquistò 50 azioni il 29 novembre e
altre 100 il 10 dicembre. Queste operazioni, si scoprí poi, non erano che le
prime avvisaglie di un improvviso moto di affetto per la Texas Gulf da parte
di alcuni suoi dipendenti, e persino degli amici dei suddetti dipendenti. A
metà dicembre arrivò da Salt Lake City la relazione sul carotaggio, dalla
quale si evinceva che le stime approssimative di Holyk erano
sorprendentemente vicine al vero: i tenori di rame e di zinco
corrispondevano quasi al centesimo con quelli indicati, e c’erano anche, a
mo’ di incentivo, 111,70 milligrammi d’argento per tonnellata. Verso la fine
di dicembre Darke fece un viaggio a Washington, e in quell’occasione
consigliò a una sua amica e alla di lei madre l’acquisto di azioni della Texas
Gulf: le due signore, poi identificate nel corso del dibattimento processuale
come «le imbeccate», passarono parola ad altre due persone che, come è
logico, divennero le «imbeccate di secondo grado». Fra il 30 dicembre del
1959 e il 17 febbraio dell’anno successivo, le imbeccate di primo e secondo
grado acquistarono in tutto 2500 quote azionarie della Texas Gulf, piú altre
1500 di quelle che nel gergo borsistico si chiamano opzioni di acquisto o
opzioni call. Si tratta in pratica di uno strumento finanziario che consente a
chi lo detiene di acquistare un determinato quantitativo di un certo titolo, a
un prezzo prefissato – generalmente vicino al prezzo di mercato corrente –
entro un determinato periodo di tempo. La somma di denaro da pagare per
assicurarsi l’opzione è di solito piuttosto modesta; se poi nel periodo di
validità dell’opzione il prezzo del titolo sottostante aumenta, per
l’acquirente è tanto di guadagnato; se viceversa il prezzo rimane stabile o
volge al ribasso, basterà fare a pezzetti l’opzione esattamente come uno
scommettitore fa a pezzetti il cedolino di un cavallo perdente: poiché
l’opzione non obbliga all’acquisto del sottostante, il suo titolare non subirà
altri esborsi all’infuori del prezzo già pagato per procurarsela. Le opzioni
call sono dunque lo strumento piú economico per scommettere sui mercati
azionari, e anche il modo piú vantaggioso di convertire in denaro le
informazioni riservate.
In quel di Timmins, intanto, Darke era momentaneamente
impossibilitato a svolgere la sua attività di geologo a causa delle gelate
invernali e dei problemi con l’acquisizione della proprietà di Kidd-55;
eppure non restò con le mani in mano. A gennaio costituí una società con
un privato cittadino di Timmins che non lavorava per la Texas Gulf: lo
scopo era recintare alcuni appezzamenti di terreno demaniale nei dintorni di
Timmins e reclamarne la concessione. A febbraio Darke riferí a Holyk ciò
che aveva sentito dire da un suo conoscente durante una conversazione in
un bar di Timmins, in una gelida sera d’inverno: cioè che correvano voci su
un ritrovamento di minerali da parte della Texas Gulf. Lo stesso conoscente
di Darke aveva intenzione di chiedere un po’ di concessioni minerarie.
Sentendosi ghiacciare il sangue, Holyk disse a Darke (cosí almeno fu
riferito in seguito) che i suoi ordini precedenti erano annullati, e che invece
di evitare come la peste il settore Kidd-55 doveva «assolutamente andare
laggiú […] e recintare tutte le concessioni che ci servivano». Quanto al suo
famoso conoscente, doveva «tenerlo lontano dalla zona. Offrirgli un giro in
elicottero, qualsiasi cosa, pur di toglierselo dai piedi». Darke, molto
probabilmente, obbedí. Nei primi mesi del 1964, inoltre, acquistò in un sol
colpo 300 azioni della Texas Gulf e un’opzione su altre 3000 azioni, e
aggiunse svariate persone, tra cui suo fratello, alla lista degli imbeccati. In
quel periodo Holyk e Clayton furono meno attivi sul versante finanziario,
tuttavia incrementarono massicciamente i loro portafogli di azioni della
Texas Gulf; nel caso di Holyk e di sua moglie, ciò avvenne soprattutto
mediante il ricorso alle opzioni call, diavoleria pressoché sconosciuta fino a
poco prima, ma che tutt’a un tratto sembrava essere in gran voga negli
ambienti della Texas Gulf.
Ai primi segni del risveglio primaverile, il programma di acquisizione
dei terreni da parte della Texas Gulf si concluse con un trionfo. Mancavano
quattro giorni alla fine di marzo, ma ormai la società aveva tutto ciò che le
serviva, ovvero i diritti incontestabili o i diritti di sfruttamento minerario
sugli altri tre quadranti di Kidd-55, con la sola eccezione di alcune
concessioni al 10 per cento dei profitti su parte dei due quadranti. Una di
queste, in particolare, apparteneva alla Curtis Publishing Company. Dopo
un’ultima ondata di acquisti da parte di Darke e degli imbeccati di ogni
ordine e grado (600 azioni in tutto, piú varie opzioni per altre 5100,
acquisite dai vari membri del gruppo fra il 30 e il 31 marzo) ebbero
nuovamente inizio, questa volta alla presenza di Holyk e di Darke, le
perforazioni del suolo paludoso e ancora gelato di Kidd-55. Il nuovo
carotaggio – il terzo in assoluto, ma solo il secondo concretamente
operativo, poiché dei due effettuati a novembre uno era un semplice
diversivo – iniziò a qualche metro dal primo, e con un’angolazione obliqua
che avrebbe dovuto accelerare il processo di mappatura del sottosuolo.
Mentre nel freddo ancora pungente guardava la carota uscire dal terreno e
cercava di registrare le sue osservazioni, Holyk si sarà certamente sentito
riscaldare il cuore alla vista delle prime, promettenti mineralizzazioni a una
trentina di metri dalla superficie. Il primo di aprile Holyk telefonò a Fogarty
per aggiornarlo sulla situazione. Erano giornate faticose, a Kidd-55. Il
personale addetto alla trivellazione non abbandonava mai il sito, ma i
geologi, dovendo informare costantemente i loro superiori a New York,
erano costretti a fare la spola tra il cantiere minerario e l’abitato di
Timmins, e per via degli alti cumuli di neve portata dal vento, che in alcuni
tratti superavano i due metri, ci volevano mediamente dalle tre ore e mezzo
alle quattro ore per coprire quei 24 chilometri. Una dopo l’altra, nuove
trivellazioni ebbero inizio nelle zone adiacenti all’anomalia, tutte con
diversi angoli di inclinazione. All’inizio la carenza di acqua costringeva i
trivellatori a usare un solo macchinario alla volta: poiché il terreno era
gelato e coperto da uno spesso strato di neve, l’acqua necessaria al
funzionamento delle trivelle doveva essere prelevata con le pompe dal
fondo di un laghetto ghiacciato a circa 800 metri di distanza. Il 7 aprile fu
completato il terzo carotaggio, e subito dopo se ne avviò un quarto con la
stessa trivella; il giorno successivo la disponibilità di acqua aumentò un
poco, e si decise di utilizzare un secondo macchinario per una nuova
trivellazione; due giorni dopo – il 10 aprile – si mise all’opera una terza
trivella. In sostanza, i primi giorni di aprile furono piuttosto intensi per i
principali protagonisti della vicenda: di conseguenza, gli acquisti di opzioni
call sulle azioni Texas Gulf subirono una battuta d’arresto.
Pezzo per pezzo, i carotaggi tracciavano le coordinate di un immenso
deposito di minerali: il terzo buco nel terreno rivelò che la prima
trivellazione non aveva seguito, come si temeva, l’inclinazione della vena;
il quarto accertò che la vena era sufficientemente profonda, e cosí via. A un
certo punto – e su quale sia stato esattamente quel punto si è discusso a
lungo – la Texas Gulf si rese conto di avere messo le mani su un giacimento
di dimensioni ragguardevoli; da quel momento il centro dell’azione si
spostò dai geologi e dai trivellatori ai funzionari e ai finanzieri che di lí a
poco si sarebbero attirati il biasimo della Sec. Per tutto l’8 aprile e gran
parte del giorno successivo Timmins rimase sepolta sotto una nevicata cosí
abbondante che neppure i geologi riuscirono a raggiungere il cantiere di
prospezione; ma verso la sera del 9 aprile, quando arrivarono finalmente a
Kidd-55 dopo un viaggio allucinante di sette ore e mezzo, con loro c’era
niente di meno che il vicepresidente Mollison in persona, giunto a Timmins
il giorno precedente. Il vicepresidente della Texas Gulf passò la notte in
cantiere e ripartí verso mezzogiorno del 10 per sottrarsi – cosí avrebbe
spiegato in seguito – al pranzo servito alle vigorose maestranze di Kidd-55,
troppo abbondante, diceva, per un sedentario come lui. Prima di partire,
Mollison diede istruzioni affinché si prelevasse un campione di terreno con
l’aiuto di una fresatrice: la carota cosí ottenuta sarebbe stata relativamente
piú grande, e perciò utile a determinare la lavorabilità dei minerali in base
ai processi standard. Di solito le fresatrici entrano in gioco soltanto quando
si è certi di aver trovato un giacimento coltivabile: cosí è stato,
probabilmente, anche in quel caso. La tesi sostenuta dai due consulenti della
Sec, contro l’opinione opposta dei periti della difesa, era che quando
Mollison impartí quell’ordine la Texas Gulf fosse già in possesso di
informazioni sufficienti a stabilire che le riserve di minerali nel sottosuolo
di Kidd-55 avevano un valore lordo di almeno 200 milioni di dollari.
Il famoso tam tam dei minatori canadesi, nel frattempo, stava già
spargendo la notizia ai quattro venti, e se si considera la vicenda in
retrospettiva la cosa davvero strana è che avesse atteso fino a quel momento
prima di farlo. («Ho visto dei trivellatori, – raccontava un broker nei giorni
del processo, – mollare tutto l’armamentario e correre piú in fretta che
potevano negli uffici di una qualsiasi società di intermediazione [oppure]
attaccarsi al telefono e chiamare Toronto». Da quel momento in poi –
seguitava il broker – il prestigio di ogni spacciatore di azioni di Toronto
dipende per un certo periodo dalla sua dimestichezza con il trivellatore che
ha centrato il giacimento, proprio come alle corse dei cavalli il rango di
ogni allibratore si misura in base alla sua intimità con un certo fantino o
cavallo). «Voci di corridoio sostengono che la Texas Gulf abbia
intensificato le proprie attività nel distretto amministrativo di Kidd.
Un’intera batteria di trivelle sarebbe già al lavoro», annunciava
l’autorevolissimo «The Northern Miner» di Toronto il 9 di aprile; quello
stesso giorno, il «Daily Star» dichiarava che tutta Timmins aveva «gli occhi
fuori dalle orbite per l’emozione», e che «a ogni angolo di strada, in ogni
bottega di barbiere, la parola del giorno è “Texas Gulf”». Nella sede
centrale della società i telefoni squillavano senza sosta, ma gli spietati
responsabili si rifiutavano di fornire dettagli. Il 10 aprile il presidente
Stephens, preoccupato per il diffondersi delle voci, chiese consiglio a uno
dei suoi soci piú fidati: Thomas S. Lamont, membro anziano del consiglio
di amministrazione, ex socio di seconda generazione della banca J. P.
Morgan, detentore di svariati e ragguardevoli incarichi all’interno della
Morgan Guaranty Trust Company e portatore di un cognome quanto mai
prestigioso in quel di Wall Street. Stephens raccontò a Lamont quel che era
successo a nord di Timmins (Lamont era ancora all’oscuro), disse
chiaramente che a suo giudizio non c’era nulla per cui valesse la pena di
strabuzzare gli occhi, e chiese come si dovesse rispondere a quella
montatura giornalistica. Finché le voci fossero circolate soltanto sulla
stampa canadese sarebbe stato possibile «farsene una ragione», disse
Lamont. Ma se la notizia fosse arrivata ai giornali statunitensi sarebbe stato
meglio diffondere un comunicato che ristabilisse la verità e scongiurasse
eventuali turbolenze dei mercati azionari.
Il giorno successivo, sabato 11 aprile, la notizia fece un ingresso
trionfale nelle redazioni dei quotidiani statunitensi. Il «New York Times» e
l’«Herald Tribune» ripercorsero le fasi della scoperta, che venne descritta
sulla prima pagina dell’«Herald» come «il piú clamoroso ritrovamento nel
sottosuolo canadese dai tempi della corsa all’oro del Klondike, piú di
sessant’anni fa». Dopo aver letto quegli articoli, Stephens (che
verosimilmente avrà avuto gli occhi un po’ fuori dalle orbite) fece presente
a Fogarty che l’annuncio per la stampa doveva essere pronto in tempo per
uscire sui giornali di lunedí: Fogarty, aiutato da un nutrito gruppo di
colleghi, dedicò il weekend alla stesura del comunicato. Intanto a Kidd-55
non si batteva certo la fiacca, anzi: come risultò in seguito da alcune
testimonianze, tra sabato e domenica emersero dal sottosuolo altri carotaggi
con un elevato tenore di rame e zinco. Il valore calcolabile della miniera
cresceva quasi di ora in ora. Tuttavia, poiché Fogarty non aveva piú
ricevuto notizie da Timmins, il comunicato stampa che lui e i suoi colleghi
diffusero nel pomeriggio di domenica non teneva conto degli ultimissimi
dati. Per questa o per qualche altra ragione, il testo non dava la sensazione
che la Texas Gulf avesse trovato un nuovo Eldorado; al contrario, dopo aver
bollato come eccessive e inaffidabili le voci in circolazione, si limitava ad
ammettere che alcune recenti prospezioni in «un appezzamento nei pressi di
Timmins» avevano indotto l’azienda a «stabilire in via preliminare che una
valutazione accurata delle opportunità avrebbe richiesto ulteriori
accertamenti». Nelle righe successive si affermava inoltre che «i carotaggi
sinora effettuati non hanno dato risultati decisivi»; ovvero, tanto per
ribadire lo stesso concetto in altri termini, «le operazioni condotte sino a
questo momento non sono state sufficienti per trarre conclusioni definitive».
È probabile che questa versione attenuata – o per meglio dire azzerata –
della notizia abbia fatto colpo sui lettori dei quotidiani di lunedí mattina,
poiché nei primi giorni della settimana l’andamento delle azioni Texas Gulf
fu assai meno brillante di quanto ci si sarebbe aspettato se gli entusiastici
annunci del «Times» e dell’«Herald Tribune» non fossero stati cosí
recisamente smentiti. Quotato 17-18 dollari per azione a fine novembre, il
titolo Texas Gulf era costantemente salito fino a raggiungere i 30 dollari;
ma quel lunedí, dopo aver aperto a quota 32 – in aumento di quasi due punti
rispetto alla chiusura della settimana precedente – aveva cambiato
bruscamente direzione, scendendo a 30 7/8 prima ancora della chiusura. Nei
due giorni successivi continuò a scivolare in basso, fino a toccare, nella
giornata di mercoledí, un minimo di 28 7/8. Ormai non c’era dubbio che
investitori e intermediari fossero stati suggestionati dal tono dimesso del
comunicato stampa. Eppure in quegli stessi tre giorni, sia nella sede centrale
di New York, sia in Canada, gli uomini della Texas Gulf erano di umore ben
diverso. Lunedí 13, giorno della pubblicazione del comunicato stampa, si
terminò il carotaggio con la fresatrice; intanto, mentre le altre trivelle
continuavano a sondare tre diversi punti del terreno, Mollison, Holyk e
Darke mostravano il sito a un giornalista di «The Northern Miner». Lette a
posteriori, le dichiarazioni che i tre uomini della Texas Gulf rilasciarono al
giornalista dimostrano in tutta evidenza che, comunque la pensassero gli
estensori del comunicato stampa, al sito Kidd-55 tutti erano convinti di aver
trovato una miniera, e anche bella grossa. Ma il mondo non avrebbe
appreso la notizia fino al giovedí successivo, quando il nuovo numero di
«The Northern Miner» sarebbe arrivato nelle edicole e nelle cassette postali
degli abbonati.
Martedí mattina Mollison e Holyk partirono alla volta di Montréal per
partecipare al congresso dell’Istituto canadese per le miniere e la
metallurgia, un appuntamento annuale al quale prendono parte svariate
centinaia di esperti e investitori. Appena misero piede nell’hotel Queen
Elizabeth, dove intanto il congresso era iniziato, ricevettero un’accoglienza
degna di due star di Hollywood. Evidentemente le notizie sulla scoperta
della Texas Gulf erano già trapelate, e ora tutti volevano sapere con
precisione cosa bolliva in pentola; c’era persino una batteria di telecamere
pronta a raccogliere eventuali dichiarazioni dei due eroi di Timmins. Non
essendo autorizzati a rendere alcuna dichiarazione, Mollison e Holyk fecero
un rapido dietrofront e scapparono a gambe levate dal Queen Elizabeth,
rintanandosi per la notte in un motel nei pressi dell’aeroporto. Il giorno
successivo, mercoledí 15, lasciarono Montréal e si trasferirono a Toronto
con lo stesso aereo su cui, come da accordi stabiliti in precedenza,
viaggiavano anche il ministro e il viceministro delle Miniere della provincia
dell’Ontario. Informato di quanto stava accadendo a Kidd-55, il ministro
decise di rilasciare il piú presto possibile una dichiarazione che facesse
chiarezza, e, con l’aiuto di Mollison, stese una prima bozza dell’annuncio.
Secondo la minuta conservata da Mollison, il testo della dichiarazione
affermava, tra l’altro, che «stando alle informazioni al momento disponibili
[…] la Texas Gulf Sulphur si ritiene abbastanza fiduciosa da consentirmi di
annunciare la scoperta di una massa sfruttabile con un alto contenuto in
minerali di zinco, rame e argento, che sarà messa in produzione il piú presto
possibile». Mollison e Holyk erano convinti che il ministro avrebbe letto la
dichiarazione alle undici di quella sera stessa, ai microfoni delle principali
stazioni radio e tivú: quindi la buona notizia sarebbe diventata di pubblico
dominio poche ore prima che il nuovo numero di «The Northern Miner»
fosse messo in circolazione. Per ragioni mai rese note, tuttavia, il ministro
non fece l’annuncio.
Intanto al quartier generale della Texas Gulf, al 200 di Park Avenue,
c’era aria di crisi imminente. Nella giornata di lunedí Stephens aveva
ricevuto una chiamata da un collega di Houston, Francis G. Coates: questi,
non sapendo di Kidd-55, voleva chiedere se fosse il caso di affrontare il
lungo viaggio dal Texas a New York per la consueta riunione mensile del
consiglio di amministrazione. Stephens gli disse di venire, ma senza
aggiungere altro. Poiché le notizie dal cantiere di prospezione erano sempre
piú incoraggianti, mercoledí i dirigenti decisero di preparare un secondo
comunicato da leggere durante la conferenza stampa che si sarebbe tenuta
l’indomani, subito dopo la riunione del consiglio di amministrazione. Quel
pomeriggio stesso Stephens, Fogarty e David M. Crawford, segretario della
società, stesero un bollettino basato sulle ultimissime informazioni e redatto
in un linguaggio opportunamente privo di reticenze e ripetizioni. «La Texas
Gulf Sulphur Company, – recitava l’annuncio, – ha individuato un ricco
giacimento di zinco, rame e argento nella zona di Timmins […] Alcune
trivellazioni già completate indicano un corpo minerale di una lunghezza
approssimativa non inferiore ai 240 metri per 91 di ampiezza, con una
profondità di circa 250 metri. Si tratta di una scoperta importante. In base ai
dati preliminari, le riserve di minerale ammonterebbero a piú di 25 milioni
di tonnellate». Quanto all’enorme differenza di tono rispetto al testo diffuso
solo tre giorni prima, il nuovo comunicato faceva presente che nel
frattempo «la quantità di dati a disposizione si era molto incrementata».
Affermazione peraltro innegabile; e se la riserva di minerali era superiore ai
25 milioni di tonnellate, il valore complessivo del giacimento non era di
200 milioni di dollari come ipotizzato la settimana precedente, ma di gran
lunga superiore.
In quelle febbrili giornate newyorchesi, l’ingegner Clayton e il segretario
Crawford trovarono comunque il tempo di chiamare i loro broker e pregarli
di acquistare un po’ di azioni della Texas Gulf: 200 per Clayton, 300 per
Crawford. Di lí a poco Crawford decise che bisognava osare di piú, e dopo
una notte probabilmente insonne al Park Lane Hotel, nelle prime ore del
mattino successivo svegliò il suo broker e chiese di raddoppiare il
quantitativo.
A quel punto del processo la Sec aveva riportato due sole vittorie e una
nutrita serie di smacchi, e ogni minatore americano conservava pressoché
intatto il diritto di gettare a terra gli attrezzi e correre nella prima agenzia di
intermediazione mobiliare, a condizione che il carotaggio cosí bruscamente
piantato in asso fosse il primo di una serie. Restava però da definire una
questione che, tra le tante sollevate dal processo, avrebbe potuto
ripercuotersi in misura rilevante non tanto sulle attività di prospezione delle
società minerarie quanto sulla condotta degli azionisti e degli agenti di
cambio, nonché sull’economia nazionale nella sua globalità. Si trattava in
sostanza di giudicare l’operato di Coates e Lamont nella giornata del 16
aprile, ovvero di stabilire con precisione quando, agli occhi della legge, una
certa informazione cessi di essere riservata per diventare di pubblico
dominio. Prima di allora la questione non era mai stata sottoposta a una
verifica cosí attenta, e dunque era chiaro che le conclusioni della giuria
avrebbero immediatamente assunto forza di legge, almeno finché non
fossero state soppiantate da un’altra, ancora piú specifica sentenza.
La Sec sosteneva che gli acquisti di azioni effettuati da Coates e i
circospetti consigli telefonici che Lamont aveva dato a Hinton costituissero
uso illegittimo di informazioni riservate, in quanto erano avvenuti prima
che il bollettino Dow Jones annunciasse il ritrovamento di ingenti risorse
minerarie: annuncio che i legali della Sec continuavano a definire
«ufficiale» anche se in realtà il prestigio dei servizi informativi forniti dalla
Dow Jones si fondava non sul beneplacito di un’autorità superiore ma
esclusivamente sulla consuetudine. E come se non bastasse, la Sec
sosteneva che le telefonate dei due dirigenti, se anche fossero state
effettuate dopo l’annuncio «ufficiale», avrebbero comunque conservato i
caratteri di improprietà e illegalità, a meno che il tempo intercorso tra
l’annuncio e i colloqui telefonici fosse stato sufficiente a permettere la
completa diffusione della notizia anche agli investitori che per loro sfortuna
non avessero assistito alla conferenza stampa o posato gli occhi sulle
telescriventi al momento giusto. Il collegio di difesa, ovviamente, era di ben
altro avviso. Quale che fosse stato l’ordine dei fatti, i loro clienti non
avevano alcuna colpa. In primo luogo Coates e Lamont avevano valide
ragioni per credere che la notizia fosse già stata diffusa, giacché durante la
riunione il presidente Stephens aveva dichiarato che il ministro delle
Miniere dell’Ontario aveva dato l’annuncio la sera precedente: quindi,
sosteneva la difesa, Coates e Lamont avevano agito in buona fede. In
secondo luogo, tenuto conto delle voci che circolavano negli uffici delle
società di intermediazione e dell’euforia che fin dalle prime ore del mattino
aveva animato la Borsa di New York, la notizia poteva dirsi a tutti gli effetti
già divulgata (in parte per osmosi, in parte grazie a «The Northern Miner»)
molto prima che le telescriventi la battessero e che gli imputati facessero le
famose telefonate. In ogni caso, gli avvocati di Lamont sostenevano che il
loro cliente avesse suggerito a Hinton non di comprare azioni Texas Gulf,
bensí di dare un’occhiata alle telescriventi e nulla piú: un consiglio
innocente, senza alcun legame con la successiva condotta di Hinton. In
sostanza, gli avvocati delle due parti in causa non concordavano né
sull’esistenza di un atto contrario alle regole, né sul contenuto delle regole
stesse. In effetti la difesa sosteneva che la Sec stesse cercando di indurre la
corte a scrivere nuove regole e ad applicarle retroattivamente, mentre il
querelante affermava di non pretendere altro fuorché l’applicazione in senso
ampio, nel pieno rispetto del fair play, di una regola già esistente (la norma
10B -5, per l’appunto). Nelle fasi finali del processo i difensori di Lamont,
decisi a tentare il tutto per tutto, organizzarono un colpo di scena e fecero
portare in aula una grande mappa degli Stati Uniti punteggiata di bandierine
colorate: azzurre, rosse, verdi, dorate, argentate. Ogni bandierina,
spiegarono gli avvocati, indicava una località in cui le notizie sulla Texas
Gulf si erano già propagate prima che Lamont facesse la famosa telefonata
e prima che i bollettini della Dow Jones annunciassero l’esistenza della
nuova miniera. Dalle risposte fornite alla corte venne fuori che tutte le
bandierine, tranne otto, corrispondevano a sedi della società di
intermediazione Merrill Lynch, Pierce, Fenner & Smith, il cui servizio di
telegrafo interno aveva comunicato la notizia alle 10.29. Appurata la
scarsissima ampiezza dell’ipotetica propagazione, la mappa perse un po’
del suo valore legale ma conservò inalterato il suo pregio estetico: «Non è
magnifica?» commentò il giudice Bonsal tra gli sguardi irritati degli uomini
della Sec. E quando un avvocato del collegio di difesa fece orgogliosamente
notare che avrebbero dovuto esserci piú bandierine, dato che un paio di
località non erano state evidenziate, il giudice scosse la testa con aria
perplessa e disse che no, non avrebbe funzionato: sulla mappa c’erano già
tutti i colori possibili.
La pignoleria di Lamont, che attese fino alle 12.33 – quasi due ore dopo
la telefonata a Hinton – prima di comprare azioni per sé e la sua famiglia,
non fece grande impressione sulla Sec: fu qui, anzi, che la Commissione
diede prova di particolare audacia, chiedendo al giudice di prendere una
decisione che tracciasse un sentiero duraturo nelle giungle legali del futuro.
Come è scritto nella memoria consegnata al giudice, «secondo il parere
della Commissione, le persone che hanno accesso alle informazioni
riservate dovrebbero, anche dopo la diffusione di una notizia da parte degli
organi di informazione, astenersi dall’effettuare transazioni fintantoché non
sia trascorso un intervallo di tempo ragionevole, al fine di permettere alle
società del settore mobiliare, agli azionisti e al pubblico degli investitori di
valutare gli sviluppi e prendere decisioni consapevoli riguardo ai loro
investimenti […] I detentori di informazioni riservate hanno dunque
l’obbligo di attendere fino al momento in cui sia ragionevole supporre che
l’informazione abbia raggiunto l’investitore medio disposto ad assecondare
le tendenze del mercato, e che quest’ultimo abbia avuto modo di valutarla».
Nel caso della Texas Gulf, la Sec riteneva che un intervallo di un’ora e 39
minuti non fosse sufficiente per una valutazione accurata: e la prova era che
a quell’ora lo stratosferico rialzo del titolo Texas Gulf era a malapena
iniziato. Di conseguenza, l’acquisto effettuato da Lamont alle 12.33
costituiva una violazione del Securities Exchange Act. Ma qual era,
secondo la Sec, un «intervallo di tempo ragionevole»? La risposta data
dall’avvocato Kennamer nella sua arringa finale fu «dipende». L’elemento
decisivo era la natura dell’informazione riservata: se per esempio si fosse
trattato di una riduzione dei dividendi, persino il piú tardo degli investitori
ci avrebbe messo poco a capire l’antifona; ma per una notizia insolita e
astrusa come quella relativa alla Texas Gulf potevano occorrere giorni, o
anche di piú. Era quasi impossibile, argomentò Kennamer, «definire un
insieme di regole rigide e applicabili in ogni situazione». In base ai canoni
della Sec, dunque, l’unico modo in cui un detentore di informazioni
riservate poteva accertarsi di aver atteso a sufficienza prima di acquistare le
azioni consisteva nel farsi trascinare in tribunale e vedere cosa ne pensava il
giudice.
Il collegio di difesa di Lamont, guidato da S. Hazard Gillespie, partí
all’attacco di questa tesi con un ardore quasi festoso, non dissimile da
quello che aveva contraddistinto la sortita cartografica. La Sec, disse
Gillespie, aveva esordito dicendo che la telefonata di Coates a Haemisegger
e quella di Lamont a Hinton erano illecite, perché avvenute prima
dell’annuncio sul bollettino Dow Jones; poi aveva sostenuto che anche il
successivo acquisto da parte di Lamont era illecito, perché era stato fatto
dopo l’annuncio ma non abbastanza dopo. Ma se entrambe le condotte, pur
apparentemente opposte, erano da considerarsi fraudolente, qual era la
condotta giusta? Forse la Sec voleva che le regole fossero definite
situazione per situazione: o meglio, voleva che fossero i tribunali a farlo.
Per dirla con lo stile piú formale dell’avvocato Gillespie, la Sec chiedeva
alla corte «di stabilire […] una norma in sede di giudizio e di applicarla
retroattivamente per sentenziare che Mr Lamont, avendo commesso
un’azione che egli, ragionevolmente, riteneva del tutto lecita, è in realtà
colpevole di frode».
In effetti non reggeva, concordò il giudice Bonsal: quanto a questo,
anche l’idea che (come sosteneva la Sec) la notizia fosse diventata pubblica
solo dopo essere stata trasmessa dal bollettino Dow Jones era inaccettabile.
Tenendo conto dei precedenti, il giudice optò per un criterio rigoroso e
stabilí che il momento decisivo era quello in cui il comunicato stampa era
stato letto e distribuito ai giornalisti, e ciò a dispetto del fatto che per un
certo periodo di tempo nessuno, eccetto le persone – ben poche, in realtà –
presenti nella sala conferenze, fosse stato al corrente della notizia.
Evidentemente preoccupato per le conseguenze di questa decisione, il
giudice Bonsal aggiunse che «sarebbe opportuno, come richiesto dalla
Commissione, stabilire una regola piú efficace che impedisca ai detentori di
informazioni riservate di agire a proprio vantaggio nel periodo compreso tra
l’annuncio di una notizia e la sua diffusione presso il vasto pubblico». Ma il
giudice non riteneva che fosse di sua competenza né scrivere quella regola,
né determinare se Lamont avesse o non avesse atteso a sufficienza prima di
inoltrare l’ordine di acquisto delle 12.33. Lasciare ai giudici scelte di quel
genere, disse, «non farebbe che creare incertezza. La decisione presa in un
caso non sarebbe valida in altri casi o in circostanze diverse. Nessun
detentore di informazioni riservate potrebbe essere certo di aver atteso a
sufficienza […] Se fosse proprio necessario stabilire un lasso di tempo, la
scelta piú opportuna consisterebbe nell’affidare il compito alla
Commissione stessa». Insomma, nessuno voleva prendersi quella briga, e
alla fine le accuse a carico di Coates e Lamont furono archiviate.
SENATORE KEFAUVER Mr Vinson, se lei fosse davvero ingenuo non credo che sarebbe
diventato un vicepresidente con uno stipendio da 200 000 dollari l’anno.
MR VINSON Io invece credo che avrei potuto arrivarci anche essendo ingenuo. Anzi,
forse mi sarebbe stato utile.
Il gioco del corner – perché questo era nel suo momento di massimo
splendore: un gioco, una scommessa pura e semplice, con poste altissime e
una stretta parentela con il poker – non era che una fase dell’interminabile
contesa tra i tori di Wall Street (che vogliono far salire i prezzi delle azioni)
e gli orsi (che vogliono invece farli scendere). La tattica era identica a ogni
«partita»: i tori compravano azioni; gli orsi ne vendevano. Ma poiché in
genere non avevano in portafoglio l’azione di cui volevano abbassare il
prezzo, i ribassisti ricorrevano al comunissimo strumento delle vendite allo
scoperto. In pratica, la transazione viene effettuata su titoli che il venditore
ha preso in prestito da un broker, al tasso di interesse che questi ritiene
opportuno. Poiché sono semplici agenti e non possiedono i titoli che
scambiano, i broker devono a loro volta farsi prestare i titoli che il ribassista
vorrebbe vendere. Per farlo, ricorrono al cosiddetto «flottante di borsa»,
cioè alla massa di titoli in perenne circolazione tra le società di
investimento: azioni che gli investitori privati affidano in conto vendita a
questa o quella società, quote di patrimoni o amministrazioni fiduciarie rese
libere al verificarsi di certe condizioni, e cosí via. In sostanza, il flottante
comprende tutte le azioni commerciabili di una data società, che non siano
cioè sepolte in una cassetta di sicurezza o cucite dentro un materasso. La
quantità di azioni circolanti è variabile, ma sempre tenuta sotto controllo; il
venditore allo scoperto che, per ipotesi, prende in prestito mille azioni da un
broker sa bene di aver contratto un debito inalterabile. La sua speranza –
l’aspettativa che lo tiene in vita – è che il prezzo di mercato di quell’azione
scenda, permettendogli di acquistare le mille azioni per le quali si è
indebitato a un prezzo inferiore rispetto a quello a cui le ha vendute,
cosicché, una volta pagato il costo del prestito, gli resti in tasca qualcosa. Il
rischio connesso a quest’operazione è che il prestatore decida, per qualsiasi
motivo, di farsi riconsegnare le sue mille azioni proprio quando il loro
prezzo di mercato è piú alto. In quel caso, il venditore allo scoperto sarebbe
costretto a riconoscere la dura verità del vecchio adagio di Wall Street: «Chi
vende ciò che non ha | deve comprarlo, o in prigione finirà» 1. Ai tempi in
cui era possibile fare i corner, poi, i sonni dei venditori allo scoperto erano
ulteriormente turbati dalla consapevolezza di operare alla cieca: poiché
trattava soltanto con agenti, il ribassista non conosceva mai né l’identità
dell’acquirente del suo lotto di azioni (magari un potenziale accaparratore?)
né quella del proprietario delle azioni prese in prestito (magari lo stesso
potenziale accaparratore che tentava un colpo a tradimento?)
Benché ampiamente criticata in quanto strumento speculativo, la pratica
delle vendite allo scoperto è tuttora consentita, con forti restrizioni, in tutte
le borse degli Stati Uniti. Nella sua forma piú libera, era la mossa iniziale di
ogni partita a corner. La situazione ideale si verificava quando un certo
numero di ribassisti si accordava per generare un’ondata di vendite allo
scoperto, spesso corroborate dalla diffusione di voci sulla presunta
debolezza dell’azienda a cui quel titolo faceva riferimento. Nel gergo di
Wall Street quest’operazione si chiama bear raid: la carica degli orsi, cioè
dei ribassisti. La piú temibile – e ovviamente piú rischiosa – contromossa
dei rialzisti consisteva nel tentare di mettere alle corde i ribassisti; di
intrappolarli in un angolo, appunto. L’operazione poteva riuscire soltanto in
presenza di massicce vendite allo scoperto: il bersaglio ideale, dunque,
erano proprio i titoli presi d’assalto dai ribassisti. L’aspirante incettatore
cercava di accaparrarsi tutto il flottante di quel titolo, piú una quantità di
portafogli privati sufficiente a bloccare l’offensiva degli orsi. Se il tentativo
andava a buon fine, quando l’accaparratore chiedeva di perfezionare
l’acquisto delle quote che i ribassisti gli avevano venduto allo scoperto,
questi ultimi non potevano che comprarle da lui. E dunque dovevano per
forza accettare il suo prezzo, dato che le uniche alternative – almeno sul
piano teorico – erano fallire o finire in galera per inadempienza.
Ai vecchi tempi dei duelli finanziari all’ultimo sangue, quando il
fantasma di Adam Smith ancora aleggiava su Wall Street, i corner erano
frequenti e ferocissimi: e spesso a rimetterci la testa (finanziariamente
parlando) non erano soltanto i ribassisti costretti all’angolo, ma anche
centinaia di spettatori innocenti. Il piú famoso accaparratore della storia fu
quel vecchio pirata di Cornelius Vanderbilt, detto il Commodoro, che negli
anni Sessanta dell’Ottocento portò a termine con successo almeno tre
operazioni di questo genere. L’esempio forse piú classico del suo modus
operandi fu il corner del titolo Harlem Railway. Vanderbilt acquistò in
segreto tutte le quote disponibili, e al tempo stesso mise in circolazione una
serie di voci infondate su un prossimo fallimento della società. I venditori
allo scoperto accorsero a frotte, ma a quel punto la trappola di Vanderbilt
era pronta a scattare: con l’aria di fargli un grosso favore e di salvarli dalla
galera, gli offrí in vendita le sue Harlem Railway alla modica cifra di 179
dollari per azione, avendole acquistate a un prezzo di gran lunga inferiore.
Un altro corner che fece danni enormi e generalizzati fu quello portato a
termine nel 1901 con il titolo Northern Pacific: per mettere insieme le
enormi quantità di denaro liquido necessarie a coprire le posizioni corte, i
venditori allo scoperto furono costretti a cedere una tale quantità di altre
azioni da provocare un’ondata di panico su scala nazionale, con
ripercussioni sulle borse di tutto il mondo. Il secondo corner in ordine di
grandezza fu realizzato nel 1920: per mettere in difficoltà i suoi rivali a
Wall Street, Allan A. Ryan, figlio del leggendario magnate Thomas Fortune
Ryan, cercò di mettere all’angolo il titolo della Stutz Motor Company, casa
madre della famosa auto sportiva Stutz Bearcat. L’impresa riuscí, e i
venditori allo scoperto furono spremuti a dovere. Ma Ryan si era
evidentemente cacciato in un ginepraio, perché le autorità di borsa
sospesero le contrattazioni del titolo Stutz; seguirono lunghe vertenze
legali, e l’incettatore ne uscí rovinato.
Negli anni successivi il gioco del corner finí per condividere la sorte di
molti altri giochi, definitivamente stroncati dalle discussioni post mortem
sulle regole. Le riforme introdotte negli anni Trenta del Novecento misero
poi fuori legge tutte le vendite allo scoperto effettuate al fine di deprimere
le quotazioni di un titolo, nonché le altre pratiche utili a mettere all’angolo i
ribassisti: di fatto, il gioco del corner fu abolito per decreto. Al giorno
d’oggi, l’unico angolo di cui si parli alla Borsa di New York è quello tra
Broad Street e Wall Street: eventuali situazioni analoghe a quelle che
abbiamo descritto potrebbero verificarsi soltanto per caso (o in maniera
incompleta, come per la Bruce Company), e Clarence Saunders verrà per
sempre ricordato come l’ultimo speculatore ad avere giocato di proposito
una partita di corner.
Nelle descrizioni dei suoi contemporanei, Saunders era «un uomo dotato
di scorte inesauribili di inventiva ed energia», oppure «un arrogante
presuntuoso come pochi altri», oppure ancora «un bambino di quattro anni
che giocava con tutto», o «uno degli uomini piú straordinari della sua
generazione». È certo tuttavia che molti, persino tra quanti subirono perdite
finanziarie a causa delle sue iniziative promozionali, vedessero in lui la
quintessenza dell’onestà. Clarence Saunders era nato nel 1881 da una
povera famiglia della contea di Amherst, in Virginia: come molti futuri
miliardari, aveva cominciato a lavorare da adolescente nell’emporio vicino
a casa, in cambio di una paga miserevole: quattro dollari alla settimana, nel
suo caso. Fu il primo passo di una rapida carriera che lo portò dapprima in
una ditta di commercio all’ingrosso di Clarksville, nel Tennessee, quindi in
un’altra a Memphis; appena ventenne, Saunders era già titolare di una
piccola catena di rivendite alimentari chiamata United Stores. Di lí a
qualche anno la vendette e, dopo una breve parentesi come grossista in
proprio, dal 1919 in avanti mise in piedi una catena di negozi self-service al
dettaglio con il buffo nome di Piggly Wiggly Stores. (Quando un suo socio
gli chiese perché avesse scelto quel nome, Saunders rispose: «Perché la
gente mi facesse la stessa domanda che mi hai appena fatto»). Il successo
dei Piggly Wiggly Stores fu talmente strepitoso che nell’autunno del 1922 i
punti vendita erano già oltre milleduecento. Di questi, circa 650 erano
proprietà diretta di Saunders tramite la Piggly Wiggly Stores Incorporated;
gli altri appartenevano a commercianti indipendenti che pagavano le royalty
alla casa madre per poter utilizzare il metodo di vendita ideato da Saunders.
Nel 1923, quando l’espressione «negozio di alimentari» evocava ancora
commessi in grembiulone bianco e bilance truccate, il «New York Times»
descriveva cosí il metodo Saunders: «Il cliente di un Piggly Wiggly Store
vaga libero per i corridoi delimitati da file di scaffali. Prelevate le merci di
cui necessita, paga il dovuto ed esce». Saunders non lo sapeva ancora, ma
aveva inventato il supermercato.
L’effetto naturale della rapida ascesa dei Piggly Wiggly Stores fu la
quotazione della società alla borsa valori di New York: a sei mesi dal lieto
evento il titolo Piggly Wiggly si era già fatto una reputazione di sicuro,
benché non munifico, pagatore di dividendi, il tipico investimento noioso
ma sicuro («buono per le vedove e gli orfani», dicono le vecchie volpi di
Wall Street) al quale gli speculatori guardano con la rispettosa indifferenza
che i giocatori di dadi nutrono verso il bridge. Ma a un certo punto le cose
cambiarono, e piuttosto in fretta. Nel novembre 1922 alcune piccole ditte di
New York, del New Jersey e del Connecticut proprietarie di negozi con
insegna Piggly Wiggly fallirono e andarono in amministrazione controllata.
Di fatto, i loro legami con la casa madre erano quasi inesistenti: Saunders si
era limitato a vendergli i diritti di utilizzo del nome e concedergli in
noleggio alcune attrezzature brevettate, dopodiché se n’era lavato le mani.
Ma per un gruppo di operatori di borsa le cui identità non vennero mai
rivelate (i broker che avevano agito su loro incarico si erano cuciti le labbra
a filo doppio) il fallimento di quei Piggly Wiggly indipendenti fu come una
specie di dono del cielo: era arrivato il momento propizio per un’offensiva
al ribasso. Bastava mettere in giro un po’ di pettegolezzi, e il pubblico meno
informato si sarebbe presto convinto che anche la casa madre fosse sull’orlo
del fallimento. Per dare attendibilità alle voci e far scendere le quotazioni
del titolo Piggly Wiggly, gli operatori misero in atto una raffica di vendite
allo scoperto. Il titolo cedette ben presto alle pressioni: nell’arco di poche
settimane il prezzo scese da circa 50 dollari ad azione a meno di 40.
A quel punto Saunders annunciò agli organi di stampa che era pronto a
varare una campagna di acquisti, per «battere i professionisti di Wall Street
al loro stesso gioco». Che lui stesso fosse tutt’altro che un professionista è
indubbio: prima dell’entrata in borsa della Piggly Wiggly, non aveva mai
posseduto nemmeno una singola azione sul listino di Wall Street. Difficile
credere, dunque, che all’inizio della sua campagna acquisti avesse già
intenzione di tentare un corner; sembra piú probabile che il suo unico,
ineccepibile scopo fosse proprio quello dichiarato: sostenere le quotazioni
del titolo per proteggere il proprio capitale e i soldi degli azionisti. In ogni
caso Saunders partí per la caccia all’orso con il suo solito slancio, e per
prima cosa rimpinguò le proprie casse chiedendo a un gruppo di banche di
Memphis, Nashville, New Orleans, Chattanooga e Saint Louis un prestito di
circa 10 milioni di dollari. La leggenda vuole che abbia stipato quei 10 e
rotti milioni in una grossa valigia e sia salito sul primo treno per New York,
marciando poi alla volta di Wall Street deciso a dare battaglia, con le tasche
piene di altre banconote che non erano entrate nel bagaglio. In seguito
Saunders avrebbe smentito con decisione, sostenendo di essere rimasto a
Memphis e di aver diretto l’operazione a colpi di telegrammi e telefonate
interurbane ai suoi agenti di cambio. Ovunque si trovasse all’epoca dei fatti,
Saunders aveva messo insieme una squadra di una ventina di broker, della
quale faceva parte, con mansioni di coordinatore, anche Jesse L. Livermore,
uno dei piú famosi speculatori del XX secolo. Aveva già quarantacinque
anni, ma c’era ancora qualcuno che si burlava di lui chiamandolo con il
soprannome che si era guadagnato una ventina d’anni addietro: Boy
Plunger, il ragazzino che gioca d’azzardo. E siccome Saunders considerava
gli operatori di Wall Street (e soprattutto gli speculatori) un’accozzaglia di
mascalzoni e parassiti che si divertivano a tartassare le sue azioni, è assai
probabile che la decisione di prendere Livermore come alleato gli sia
costata cara: d’altronde, portare dalla sua parte il capitano della squadra
nemica era una mossa di sicura efficacia.
Nel primo giorno di battaglia Saunders acquistò prevalentemente allo
scoperto, mimetizzandosi dietro i suoi broker, 33 000 azioni Piggly Wiggly;
di lí a una settimana ne aveva in portafoglio 105 000, ovvero piú di metà
delle 200 000 in circolazione. Nel frattempo si era anche preso il lusso di
dare libero sfogo alle proprie opinioni, esponendo con parole forti e
taglienti (e a rischio di scoprire le carte) la sua opinione su Wall Street
mediante una serie di annunci a pagamento sui quotidiani del Sud e
dell’Ovest. «Chi gioca d’azzardo detta legge? – domandava Saunders in una
di quelle esternazioni. – Egli incede su un bianco destriero. La sua armatura
intessuta di inganni nasconde un cuore spregevole. Il suo elmo è fatto di
raggiri, i suoi speroni tintinnano perfidia, e gli zoccoli del suo cavallo
battono il ritmo della distruzione. Il buon imprenditore dovrà fuggire al suo
cospetto? Dovrà farsi preda dello speculatore?» A Wall Street, intanto,
Livermore continuava ad acquistare azioni Piggly Wiggly.
L’efficacia della campagna acquisti di Saunders fu subito evidente: a fine
gennaio 1923 il prezzo dell’azione aveva superato la soglia dei 60 dollari,
segnando un record assoluto. A quel punto i timori dei ribassisti furono
esasperati dalle notizie provenienti dalla Borsa di Chicago, dove, a quanto
si diceva, la manovra di corner sulle azioni Piggly Wiggly era già
completata e i venditori allo scoperto non avevano piú modo di coprire le
loro posizioni senza rivolgersi a Saunders. Diceria immediatamente
smentita dalla Borsa di New York, che diede per certa la disponibilità di un
ampio flottante. Ma forse furono proprio quelle voci infondate a mettere la
pulce nell’orecchio di Saunders, convincendolo a tentare, verso la metà di
febbraio, una mossa bizzarra e a prima vista sconcertante: pubblicare una
nuova inserzione sui giornali per offrire in vendita 50 000 azioni Piggly
Wiggly al prezzo di 55 dollari l’una. L’annuncio sottolineava in maniera
abbastanza persuasiva che il titolo fruttava un dollaro di dividendi a
trimestre, pari a un rendimento annuo del 7 per cento. «L’offerta è di breve
durata, e potrebbe essere revocata senza preavviso, – si precisava poi con
pacata urgenza. – Partecipare alle fasi iniziali di un grande progetto è
un’opportunità che viene offerta a pochi, e non piú di una volta nella vita».
Chiunque abbia una conoscenza anche superficiale della vita economica
moderna non potrà fare a meno di domandarsi come la Securities and
Exchange Commission (a cui spetta tra l’altro il controllo della fondatezza,
impersonalità e neutralità emotiva delle pubblicità dei prodotti finanziari)
avrebbe giudicato, se fosse già esistita all’epoca, il tono aggressivo delle
ultime due frasi. E se in quella prima inserzione c’era già abbastanza per far
impallidire i controllori della Sec, la seconda, pubblicata quattro giorni piú
tardi, era roba da colpo apoplettico. Un annuncio a tutta pagina, a caratteri
cubitali, che cosí strombazzava:
OCCASIONE! OCCASIONE!
Dopo aver chiarito ai lettori che la vendita aveva per oggetto delle quote
azionarie e non una misteriosa panacea, Saunders ribadiva che il prezzo
richiesto era di 55 dollari ad azione, e che la sua generosità era motivata dal
lungimirante desiderio di affidare la proprietà dell’azienda agli stessi clienti
e ad altri piccoli investitori, strappandola in tal modo agli squali di Wall
Street. Una generosità che, a detta di molti, rasentava la follia. Il prezzo
delle azioni Piggly Wiggly alla Borsa di New York era ormai vicino ai 70
dollari: accettando l’offerta di Saunders, chiunque si fosse trovato 55 dollari
in tasca avrebbe avuto l’opportunità di guadagnarne 15 senza rischiare
nulla. Sulla venuta di un nuovo Daniele, Giuseppe o Mosè era forse lecito
nutrire dei dubbi; ma dell’occasione preziosa che stava bussando alla porta
dei risparmiatori ci si poteva fidare.
In realtà gli scettici avevano visto giusto: il trucco c’era, eccome.
Nell’annunciare quella che dal suo punto di vista sembrava essere
un’offerta svantaggiosa e antieconomica, il neofita Saunders aveva trovato
una delle scappatoie piú abili mai messe in atto nel gioco del corner. Tra le
maggiori insidie di quel tipo di manovra, infatti, c’è il pericolo di vederla
trasformarsi in una vittoria di Pirro. Dopo aver spremuto a dovere i
venditori allo scoperto, l’accaparratore scopre spesso che la caterva di
azioni accumulate durante il corner gli fa lo stesso effetto di un macigno
legato al collo. Se tentasse di sbarazzarsene rimettendole sul mercato in un
sol colpo, ne farebbe scendere il prezzo quasi a zero; e se, come Saunders,
si fosse pesantemente indebitato prima ancora di entrare in gioco, i creditori
potrebbero bussare alla sua porta proprio in quel momento, sottraendogli i
suoi guadagni o addirittura costringendolo alla bancarotta. Con tutta
probabilità Saunders aveva previsto quel rischio fin dall’inizio e si era
messo alla ricerca di un metodo che gli permettesse di scaricare una parte
delle quote non dopo aver vinto la partita, ma prima. L’essenziale era
evitare che le azioni cosí rilasciate entrassero nel flottante, vanificando
l’intera manovra: e la soluzione trovata da Saunders fu vendere le sue
azioni a 55 dollari con un piano di pagamento rateale. Nelle inserzioni
pubblicate a febbraio si precisava infatti che le condizioni di vendita
imponevano il pagamento di un anticipo in contanti pari a 25 dollari per
azione; il saldo doveva essere corrisposto in tre rate da 10 dollari ciascuna,
da versarsi il 1º giugno, il 1º settembre e il 1º dicembre. I certificati azionari
– dettaglio importante – sarebbero passati nelle mani degli acquirenti
soltanto dopo il pagamento dell’ultima rata. E poiché era ovviamente
impossibile vendere i certificati prima di averli in mano, in questo modo
Saunders si assicurava che le quote cosí cedute non andassero a
rimpinguare il flottante. A sua volta, questo significava che avrebbe avuto
tempo fino al 1º dicembre per spremere tutto il possibile dai venditori allo
scoperto.
Per quanto possa sembrare facile, col senno di poi, scoprire il gioco di
Saunders, la sua manovra era talmente poco ortodossa che per un certo
periodo né i membri del Consiglio della borsa, né lo stesso Livermore,
riuscirono a capire cosa avesse in mente l’uomo di Memphis. La borsa
valori avviò un’indagine formale; Livermore cominciò a innervosirsi, ma
seguitò a comprare azioni, tanto da spingerne la quotazione ben al di sopra
dei 70 dollari. A quel punto Saunders iniziò a rilassarsi: smise di usare i
suoi spazi pubblicitari per cantare le lodi delle azioni Piggly Wiggly e tornò
a magnificare le virtú di mele, pompelmi, cipolle, prosciutti e torte Lady
Baltimore in vendita nei suoi negozi. Ai primi di marzo, tuttavia, fece
pubblicare un’altra inserzione che rammentava la sua offerta finanziaria e
invitava chiunque volesse parlarne di persona con lui a presentarsi nel suo
ufficio di Memphis. Aggiunse poi che bisognava decidere in fretta: il tempo
stava per scadere.
Ormai era chiaro che Saunders stava tentando un corner: a Wall Street
erano tutti in allarme, non soltanto i ribassisti che avevano venduto allo
scoperto le Piggly Wiggly. Un bel giorno Livermore – forse ricordando il
milione di dollari che aveva perso nel 1908 con un corner sul cotone –
decise che la misura era colma e chiese a Saunders di venire a New York
per fare il punto della situazione. Saunders arrivò la mattina del 12 marzo.
Come disse in seguito ai giornalisti, dal colloquio era emersa una disparità
di vedute. «Livermore, – spiegò Saunders nel tono divertito di chi capisce
di aver trasformato un giocatore d’azzardo in un prudentissimo ragioniere
delle puntate minime, – mi ha dato l’impressione di essere un po’
preoccupato per la mia situazione finanziaria, e teme di essere coinvolto in
un crollo dei mercati». Il risultato finale del confronto fu che Livermore
uscí di scena e lasciò a Saunders il comando dell’operazione Piggly Wiggly.
A quel punto l’uomo di Memphis partí in treno per Chicago, dove aveva
alcuni affari da sbrigare. Arrivato ad Albany, si vide consegnare un
telegramma spedito da un suo conoscente che lavorava a Wall Street (di
amici veri e propri Saunders non ne aveva, in quel mondo di bianchi
destrieri e armature intessute di inganni). Nel telegramma c’era scritto che
le sue stravaganze avevano fatto corrugare molte fronti ai piani alti della
borsa valori, e che non era proprio il caso di creare un secondo mercato
offrendo le azioni Piggly Wiggly a prezzi decisamente inferiori alla
quotazione ufficiale. Alla stazione seguente Saunders telegrafò una risposta
piuttosto evasiva: se i consiglieri temevano un corner potevano mettere da
parte ogni apprensione, dal momento che egli stesso alimentava ogni giorno
il flottante, prestando quote azionarie a chiunque gliele chiedesse. Saunders
non disse però fino a quando avrebbe seguito quella linea di condotta.
Una settimana piú tardi, lunedí 19 marzo, Saunders annunciò con una
nuova inserzione che la sua offerta stava per essere ritirata e che quello
sarebbe stato l’ultimo appello. Stando a dichiarazioni rese in un secondo
tempo, al momento Saunders possedeva o «controllava» attraverso il piano
di vendita rateale, non ancora giunto alla fase conclusiva, 198 872 azioni
Piggly Wiggly su un totale di 200 000: dunque le quote che mancavano
all’appello erano solo 1128. In realtà la cifra era alquanto controversa (c’era
ad esempio un investitore privato di Providence che sosteneva di avere ben
1100 quote), ma non c’è dubbio che Saunders avesse in mano la totalità
delle azioni Piggly Wiggly in circolazione sul mercato: l’accaparramento
era perfettamente riuscito. Quello stesso lunedí – cosí pare, almeno –
Saunders telefonò a Livermore e gli chiese se era disposto a tornare sui suoi
passi per il tempo sufficiente a concludere l’operazione, sollecitando la
consegna di tutte le quote dovute a Saunders: se, insomma, voleva essere
cosí gentile da far scattare la trappola. Niente da fare, rispose Livermore,
che evidentemente si riteneva ormai estraneo alla vicenda. E cosí la mattina
successiva, martedí 20 marzo, fu lo stesso Saunders ad azionare la molla.
Fu una delle giornate piú folli dell’intera storia di Wall Street. Il titolo
Piggly Wiggly aprí a 75 dollari e 50, in rialzo di cinque dollari e mezzo
rispetto alla chiusura del giorno precedente. La notizia che Saunders aveva
chiesto la consegna di tutte le sue azioni arrivò un’ora dopo l’apertura.
Secondo le regole di Wall Street, in casi del genere le quote vanno
recapitate al richiedente entro le 14.15 del giorno successivo. Ma le azioni
Piggly Wiggly, come Saunders ben sapeva, non si potevano comprare da
nessuno fuorché, ovviamente, da Saunders stesso. C’erano, a dire il vero,
alcune quote ancora in mano a investitori privati: i venditori allo scoperto,
ormai in preda al panico, cercarono di liberarle offrendo cifre sempre piú
alte. Tutto sommato, però, le contrattazioni furono scarsissime, per la
semplice ragione che di azioni Piggly Wiggly non ce n’erano. La zona in
cui venivano solitamente scambiate divenne il centro di un’azione di massa
alla quale presero parte circa due terzi dei broker presenti in sala: ai pochi
accorsi per fare un’offerta si aggiunsero i molti venuti lí semplicemente per
far ressa, incitare i colleghi o godersi il parapiglia. Ribassisti disperati
acquistarono Piggly Wiggly a 90, poi a 100, poi a 110. Si cominciò a
vociferare di guadagni stratosferici. L’investitore di Providence che in piena
offensiva ribassista aveva comprato le sue 1100 azioni a 39 dollari l’una
venne ad assistere al massacro, cedette le sue quote a un prezzo medio di
105 dollari e se ne tornò a Providence con il treno del pomeriggio, portando
a casa un guadagno di oltre 70 000 dollari. Ma avrebbe potuto cavarsela
ancora meglio, se avesse saputo attendere: poco dopo mezzogiorno le
Piggly Wiggly erano salite a 124. Sembrava che nulla potesse impedirgli di
arrivare alle stelle, magari sfondando il tetto della sala. In realtà non
superarono mai quota 124, perché appena raggiunta quella soglia
cominciarono a circolare le prime voci su un’imminente riunione del
Consiglio della borsa. I punti all’ordine del giorno erano la sospensione
delle contrattazioni per il titolo Piggly Wiggly e la proroga della scadenza
di consegna per le vendite allo scoperto. Se entrambe le ipotesi si fossero
concretizzate, i ribassisti avrebbero avuto piú tempo a disposizione per
setacciare il mercato in cerca di azioni, smontando o vanificando del tutto
l’operazione di accaparramento. In ogni caso, le indiscrezioni furono
sufficienti a invertire la tendenza: quando la campanella pose fine a quella
caotica giornata, le Piggly Wiggly valevano 82 dollari.
Le voci si dimostrarono fondate. Dopo la chiusura delle contrattazioni,
l’organo di governo della borsa valori annunciò sia la sospensione del titolo,
sia la proroga della scadenza di consegna per i venditori allo scoperto «fino
a nuove deliberazioni da parte di questo Consiglio». Le ragioni ufficiali
della decisione non furono rese note, ma alcuni membri del Consiglio
fecero sapere per via ufficiosa che si temeva, qualora il corner non si fosse
potuto evitare, una nuova ondata di panico simile a quella che aveva seguito
il caso della Northern Pacific. Di contro, alcuni osservatori esterni
insinuarono con una certa irriverenza che forse il Consiglio si era
impietosito per la triste sorte dei venditori allo scoperto, molti dei quali –
come nel caso della Stutz Motor Company, due anni prima – erano
probabilmente membri della borsa valori.
Nonostante tutto, la sera di martedí Saunders era al settimo cielo: in fin
dei conti aveva guadagnato, almeno sulla carta, svariati milioni di dollari.
Ma c’era un intoppo: quei profitti, ovviamente, non potevano essere
realizzati. A quanto pare Saunders non fu prontissimo ad afferrare la
situazione, né sembrò rendersi conto che la sua apparente vittoria era in
realtà alquanto compromessa. Le cronache riferiscono che andò a letto
convinto di aver sollevato un gran polverone nell’odiata Wall Street,
riuscendo per giunta a guadagnare un bel gruzzolo e a impartire una sonora
lezione, lui povero ragazzo del Sud, a quegli elegantoni di città.
Indubbiamente c’era di che montarsi la testa. Ma quella specie di ebbrezza,
come tutte le sensazioni, durò poco. La prima dichiarazione pubblica di
Saunders, rilasciata nella sera di mercoledí, attestò che l’umore euforico
aveva ceduto il passo a una strana mistura di perplessità e spirito polemico,
a cui si aggiungeva una lontana eco dell’esultanza di martedí sera. «Avevo
un coltello alla gola: è questa, metaforicamente parlando, la ragione che mi
ha spinto, di punto in bianco e senza alcun preavviso, a tagliare le gambe a
Wall Street e alla sua ghenga di scommettitori e maneggioni, – disse a un
intervistatore. – Era una questione di sopravvivenza: mia, della mia azienda,
delle fortune dei miei amici. L’alternativa era soccombere, coprirmi di
ridicolo come un qualsiasi babbeo del Tennessee. Alla fine, grazie a un
piano ben congegnato e attuato con prontezza, le armi di Wall Street si sono
rivoltate contro gli stessi tracotanti poteri che le brandivano, credendosi
invulnerabili». Per finire, Saunders dettò le condizioni: a dispetto della
proroga decretata dai consiglieri, la scadenza per la liquidazione di tutte le
quote vendute allo scoperto era fissata alle quindici del giorno successivo –
giovedí – al prezzo di 150 dollari ad azione; superato quel termine, il prezzo
sarebbe salito a 250.
Giovedí, con grande stupore di Saunders, pochissimi venditori allo
scoperto (probabilmente i pochi che non sopportavano l’incertezza) si
fecero avanti per consegnare i certificati. A quel punto fu il Consiglio della
borsa a tagliare le gambe a Saunders, annunciando che le azioni Piggly
Wiggly erano stabilmente escluse dalle contrattazioni, e che la scadenza per
i venditori allo scoperto era posticipata di ben cinque giorni – fino alle
quattordici e quindici del lunedí successivo. Per quanto Memphis fosse
lontana dal campo di battaglia, questa volta Saunders intuí la rilevanza delle
decisioni e si rese conto di non avere piú il coltello dalla parte del manico.
Il punto cruciale era, ovviamente, la proroga del termine di consegna dei
certificati. «A mio parere, – dichiarò nel nuovo comunicato che fu
distribuito quella sera ai giornalisti, – il mancato rispetto delle scadenze di
compensazione da parte di un broker o di una banca è un fatto grave; nel
secondo caso, però, tutti sapremmo che destino attende quella banca […] Il
comitato di controllo affiggerebbe alla sua porta un bel cartello con scritto
CHIUSO . Non riesco a credere che l’augusta e onnipotente Borsa di New
York non voglia tener fede alla parola data. Di conseguenza, mi ostino a
credere che […] le quote azionarie che ancora mi sono dovute per contratto
[…] saranno liquidate con la giusta procedura». Il quotidiano di Memphis
«Commercial Appeal» pubblicò un editoriale che sosteneva le tesi di
Saunders, dichiarando: «Quest’ultima trovata rassomiglia molto alla
condotta truffaldina di un allibratore che non paghi le scommesse. Ci
auguriamo che il nostro concittadino dia ai controllori della Borsa di New
York la lezione che si meritano».
Per pura coincidenza, quello stesso giovedí fu pubblicato il rapporto
annuale sulla situazione finanziaria della società Piggly Wiggly Stores
Incorporated. I dati erano molto incoraggianti: le vendite, gli utili, le attività
correnti e tutti gli altri indicatori fondamentali erano in netta crescita
rispetto all’anno precedente. Ciò nonostante il documento non ricevette la
minima attenzione: per il momento, il valore effettivo della società era
irrilevante. Contava solo il gioco.
Se Saunders intendeva dire che l’anima della Piggly Wiggly era lui
stesso, è certo che nessuno osò mai privarlo della libertà: soprattutto della
libertà di cambiare rotta nel suo solito modo imprevedibile. Anche se non
ritentò mai piú un altro corner, il suo spirito non uscí certo piegato dalla
disavventura. Nonostante il fallimento riuscí ancora a trovare amici di
generosa e incrollabile fedeltà, disposti a consentirgli un tenore di vita
appena meno sfarzoso che in passato: costretto a giocare a golf al Memphis
Club e non piú nel suo campo privato, continuò a elargire ai caddie le stesse
mance sontuose di un tempo. Certo, il Pink Palace non gli apparteneva piú,
ma per i suoi concittadini quel trascurabile dettaglio era l’unico memento
delle sventure di Saunders. Alla fine l’incompiuto palazzo dei piaceri finí
nelle mani delle autorità comunali, che stanziarono 150 000 dollari per
completare i lavori di costruzione e trasformarlo in un museo di storia
naturale e artigianato industriale. Come tale, il Pink Palace continua tuttora
ad alimentare la leggenda di Clarence Saunders.
Dopo la caduta, Saunders occupò buona parte dei tre anni successivi nel
tentativo di ottenere giustizia per i torti che riteneva di aver subito nella
battaglia per la Piggly Wiggly, senza mai smettere di contrastare le manovre
ostili di nemici e creditori. Per qualche tempo seguitò a dire che avrebbe
querelato la borsa valori per complotto e inadempienza contrattuale, ma finí
per rinunciare all’idea dopo il fallimento di una causa intentata a mo’ di
esperimento da alcuni piccoli azionisti. Nel gennaio del 1926, infine, venne
a sapere che il governo aveva intenzione di incriminarlo per uso fraudolento
del servizio postale in relazione alla sua campagna di azionariato per
corrispondenza. Saunders era convinto, a torto, che le autorità federali
avessero deciso di procedere a suo danno dietro suggerimento di un suo
concittadino ed ex socio, tale John C. Burch, che dopo il rimescolamento
societario era diventato segretario tesoriere della Piggly Wiggly. Esaurite
per l’ennesima volta le scorte di pazienza, Saunders andò al quartier
generale della società e affrontò Burch. In confronto alla baruffa di qualche
mese prima, quando era stato annunciato il fallimento della campagna
pubblica di acquisti, l’incontro si rivelò molto piú soddisfacente per
Saunders. Stando alla sua versione dei fatti, Burch «balbettò qualcosa nel
tentativo di negare» l’accusa, ma Saunders reagí con un destro alla mascella
che mandò in frantumi gli occhiali di Burch, senza tuttavia arrecare altri
danni. In seguito Burch minimizzò, sostenendo di essere stato colpito «di
striscio» e presentando un alibi degno di un pugile sconfitto ai punti:
«L’attacco è stato talmente repentino che non ho avuto né il tempo né
l’opportunità di colpire a mia volta Mr Saunders». In ogni caso, Burch non
volle sporgere querela.
Circa un mese piú tardi Saunders fu incriminato per frode postale, ma
avendo ormai accertato che Burch era incolpevole di qualsiasi maldicenza,
accolse la notizia con la consueta amabilità. «In questa nuova vicenda c’è
una sola cosa che rimpiango, – annunciò suadente, – ed è l’incontro di
pugilato tra me e John C. Burch». La nuova vicenda non durò a lungo: ad
aprile la Corte distrettuale di Memphis revocò l’atto di accusa. Da quel
momento le strade di Saunders e della Piggly Wiggly Incorporated si
divisero una volta per tutte. L’azienda, con un assetto sociale ampiamente
modificato, si era ormai ristabilita e si stava avviando verso una lunga fase
di prosperità: da quel momento in avanti le centinaia di supermercati Piggly
Wiggly frequentati dalle casalinghe americane sarebbero stati gestiti
attraverso accordi di franchising con la Piggly Wiggly Corporation di
Jacksonville, California.
Quanto a Saunders, anche lui tornò lestamente in salute. Nel 1928
inaugurò una nuova catena di negozi che battezzò – da quel raro
personaggio che era – Clarence Saunders, Sole Owner of My Name, Stores,
Incorporated 2. Il pubblico imparò ben presto a chiamarli magazzini Sole
Owner, cosa che peraltro non erano, giacché senza i fedeli fiancheggiatori
di Saunders quei magazzini sarebbero potuti esistere soltanto nei suoi sogni.
La scelta della ragione sociale non aveva intenti fuorvianti: era un modo
ironico per ricordare al mondo che, dopo la batosta infertagli da Wall Street,
il nome era praticamente l’unica cosa di cui Saunders potesse ancora
dichiararsi proprietario. Non è dato sapere quanti clienti dei magazzini Sole
Owner – o quanti consiglieri della borsa valori, se è per questo – abbiano
effettivamente colto il sottinteso: certo è che la nuova catena di negozi si
diffuse e fiorí con tale rapidità che Saunders, tornato ricco, poté permettersi
di acquistare una proprietà milionaria appena oltre il confine di Memphis.
Inoltre mise in piedi e finanziò una squadra di football professionistico
chiamata Sole Owner Tigers, investimento che diede ottime soddisfazioni
soprattutto nei molti pomeriggi d’autunno in cui, dalla tribuna dello stadio
di Memphis, Saunders poté sentire i tifosi scandire in coro: «Sole Owner,
alé! Sole Owner!»
1
Cfr. N. von Hoffman, Il dizionario diabolico del business. Alta e bassa finanza: trucchi e
misteri, trad. di G. Lupi, Nuovi Mondi, Ozzano 2006 [N. d. T.].
2
Società registrata magazzini Clarence Saunders, unico proprietario del mio nome [N. d. T.].
8. Apologia della sterlina
Banche centrali, dollari e pound
1.
Nei primi mesi del 1964 la Gran Bretagna, che per anni aveva mantenuto
in sostanziale equilibrio la propria bilancia dei pagamenti – per dirla in
parole povere, il valore delle somme di denaro trasferite all’estero era
sempre rimasto piú o meno pari a quello del denaro che entrava nel Paese –
cominciò a dare segnali di grave deficit. Il problema non era generato da
una crisi interna bensí, al contrario, da un’espansione fin troppo esuberante:
gli affari andavano a gonfie vele, e i molti cittadini britannici che avevano
da poco conquistato il benessere economico ordinavano quintali e quintali
di costose merci dall’estero; ma nessuno si dava da fare affinché le
esportazioni di prodotti inglesi crescessero di pari passo. In sostanza, la
Gran Bretagna stava vivendo al di sopra dei propri mezzi. Una bilancia dei
pagamenti in deficit è già un problema serio per una nazione relativamente
autosufficiente come gli Stati Uniti (la cui bilancia dei pagamenti era infatti
andata in rosso proprio in quegli anni, e lo sarebbe rimasta per molto); per
un Paese come la Gran Bretagna, la cui economia dipende per circa un
quarto dal commercio estero, diventa un pericolo grave.
Il caso destava crescente preoccupazione anche nella Federal Reserve
Bank, e l’epicentro della preoccupazione si trovava al decimo piano,
nell’ufficio di Charles A. Coombs, vicepresidente responsabile delle
operazioni all’estero. Per tutta l’estate gli esami fluoroscopici avevano
messo in evidenza il cattivo stato di salute della sterlina. Stando ai bollettini
che la sezione ricerche del dipartimento Esteri recapitava ogni giorno
nell’ufficio di Coombs, dalla Gran Bretagna uscivano fiumi di denaro. Dal
sottosuolo, intanto, giungeva voce che la pila di lingotti della Gran Bretagna
si stava assottigliando visibilmente: non perché qualcuno, là sotto, stesse
facendo il furbo, ma perché l’oro migrava in altri forzieri a saldo dei debiti
britannici. Dal sesto piano, l’ufficio valute comunicava quasi ogni
pomeriggio che sul mercato aperto il tasso di cambio della sterlina nei
confronti del dollaro era in discesa. In luglio e agosto, il valore della sterlina
scese da 2,79 dollari a 2,7890 e di lí a 2,7875. L’opinione prevalente in
Liberty Street era che la situazione fosse seria: a tal punto che Coombs, il
quale di solito si occupava di persona delle questioni valutarie limitandosi
ad aggiornare periodicamente i vertici della banca, era in costante contatto
con il suo superiore, l’alto e affabile Alfred Hayes, presidente della Federal
Reserve.
Al di là dell’apparente oscurità, le operazioni finanziarie internazionali
funzionano piú o meno come le transazioni private di un nucleo familiare.
Per le nazioni come per le famiglie, cioè, i problemi nascono dal fatto che a
volte la quantità di denaro in uscita è eccessiva, e non controbilanciata da
una sufficiente quantità di denaro in entrata. I fornitori stranieri che
vendono merci alla Gran Bretagna sono pagati in sterline che, ovviamente,
non possono spendere nei loro Paesi: dunque le convertono nelle rispettive
valute nazionali, cioè vendono le sterline sul mercato dei cambi esattamente
come se vendessero titoli alla borsa valori. Il prezzo di mercato della
sterlina fluttua a seconda della domanda e dell’offerta, e lo stesso vale per
tutte le altre monete a eccezione del dollaro, vero e proprio sole nel sistema
planetario delle valute da quando, nel 1934, gli Stati Uniti si sono impegnati
a convertire in dollari qualsiasi quantità di oro venga loro offerta dalle altre
nazioni, al prezzo fisso di 35 dollari per oncia.
Sotto la pressione delle vendite, il prezzo della sterlina tenderà
ovviamente a scendere. Le sue fluttuazioni, però, sono rigidamente limitate:
gli effetti delle forze di mercato non possono modificarne il prezzo se non
di un paio di centesimi sopra o sotto la parità. Se le oscillazioni dovessero
essere ampie e incontrollate, i banchieri e gli uomini d’affari che trattano
con la Gran Bretagna si troverebbero invischiati loro malgrado in una
specie di gioco della roulette, e molto probabilmente deciderebbero di non
fare piú affari con la Gran Bretagna. Ecco perché, in base agli accordi
monetari internazionali raggiunti nel 1944 a Bretton Woods e
successivamente modificati altrove, la sterlina britannica aveva nel 1964 un
valore nominale di 2,80 dollari ed era libera di fluttuare soltanto entro una
fascia compresa tra 2,78 e 2,82. Il garante di questa restrizione alla legge
della domanda e dell’offerta era la Bank of England. Nei giorni in cui tutto
andava liscio, la quotazione della sterlina sui mercati dei cambi avrebbe
potuto collocarsi per esempio a 2,7990 dollari, in aumento di 0,0015 dollari
rispetto alla chiusura del giorno precedente. (Quindici millesimi di dollaro
non sembrano granché a prima vista, ma se si tiene conto che l’unità di
misura standard delle transazioni monetarie internazionali è il milione di
dollari, se ne deduce che stiamo parlando di millecinquecento dollari per
ogni milione). In casi del genere, la Bank of England non avrebbe dovuto
muovere un dito. Ma se la sterlina fosse andata forte sui mercati, salendo
per esempio a 2,82 (cosa non facile, nel 1964) la Bank of England sarebbe
stata obbligata a vendere sterline, a quella quotazione, in cambio di oro o
dollari (cosa che avrebbe fatto ben volentieri, peraltro): in tal modo avrebbe
scongiurato ulteriori incrementi di prezzo e rafforzato le riserve di oro e
dollari, indispensabili sostegni alla propria moneta. Se viceversa la sterlina
si fosse mostrata debole (cosa assai piú probabile a quell’epoca) e fosse
scesa a 2,78 dollari, la Bank of England sarebbe stata obbligata a
intervenire sui mercati e acquistare in cambio di oro o dollari tutte le
sterline offerte in vendita a quel prezzo, anche se per farlo avesse dovuto
intaccare pesantemente le sue riserve. In sostanza, la banca centrale di una
nazione spendacciona si comporta proprio come il padre di una famiglia
spendacciona: intacca il capitale per pareggiare i conti. Ma i mercati
valutari sono creature psicologicamente instabili, e nei momenti di grave
debolezza valutaria una banca centrale si troverà a perdere piú riserve di
quanto sembrerebbe necessario. Per prima cosa, importatori ed esportatori
prudenti cercheranno di tutelare capitali e profitti riducendo al minimo le
loro riserve di sterline e smaltendole il piú in fretta possibile. Gli speculatori
in valute, poi, essendo abilissimi nel fiutare le monete in difficoltà,
piomberanno come falchi sulla povera sterlina vendendone allo scoperto
enormi quantitativi, nella speranza di trarre profitto da un ulteriore
deprezzamento. In ogni caso, la Bank of England sarà costretta a
compensare non solo le vendite effettuate a buon diritto, ma anche quelle
speculative.
La conseguenza ultima della debolezza di una moneta è la svalutazione,
provvedimento i cui effetti sono infinitamente piú disastrosi di una
bancarotta familiare. La svalutazione di una moneta chiave come la sterlina
è l’incubo ricorrente delle banche centrali di tutto il mondo, da Londra a
New York, da Francoforte a Zurigo e a Tokyo. Se a un certo punto, con
l’aggravarsi delle pressioni sulle proprie riserve, la banca centrale della
Gran Bretagna non potesse o non volesse piú rispettare l’obbligo di
mantenere il tasso di cambio della sterlina ad almeno 2,78 dollari, la
conseguenza inevitabile sarebbe, appunto, la svalutazione. La fascia di
oscillazione compresa tra 2,78 e 2,82 verrebbe abrogata, e con un semplice
decreto governativo si fisserebbe la parità della sterlina a un livello piú
basso, intorno al quale si definirebbe una nuova fascia di oscillazione. Il
pericolo maggiore sta nella possibilità che tutto ciò generi un caos non
confinato alla sola Gran Bretagna. La svalutazione è il rimedio piú
coraggioso e rischioso alle patologie di una moneta, e in quanto tale è
giustamente temuta. Infatti, se da un lato riduce il costo sui mercati esteri
delle merci prodotte nel Paese, favorendo di conseguenza le esportazioni e
riducendo o eliminando l’eventuale deficit dei conti internazionali,
dall’altro, aumentando i prezzi sul mercato interno delle merci importate e
di quelle di produzione nazionale, influisce negativamente sullo standard di
vita della popolazione. È un intervento di chirurgia radicale, che cura la
malattia a discapito del benessere e della forza vitale del malato, nonché, in
molti casi, del suo prestigio e dell’orgoglio nazionale. Peggio ancora, se la
moneta svalutata è, come la sterlina, ampiamente utilizzata nelle transazioni
internazionali, la malattia – o per meglio dire la cura – rischia di rivelarsi
contagiosa. Per i Paesi che custodiscono nei loro caveau ingenti riserve di
quella moneta, l’effetto di una svalutazione è pari a quello di un furto con
scasso. Quelle nazioni e altre, trovandosi per effetto della svalutazione in
una situazione di insostenibile svantaggio commerciale, potrebbero optare
loro malgrado per una svalutazione competitiva delle rispettive monete.
Sarebbe l’inizio di una spirale al ribasso: un susseguirsi di voci incontrollate
su ulteriori svalutazioni, una perdita di fiducia nelle valute degli altri Paesi
che disincentiverebbe gli scambi con l’estero, e infine una stagnazione del
commercio internazionale, dal quale dipendono le vite di centinaia di
milioni di persone in tutto il mondo. Cosí è stato ad esempio ai tempi della
piú classica svalutazione che la storia ricordi, quella del 1931, quando la
sterlina uscí dal sistema monetario del gold standard: evento che ancor oggi
è considerato una delle cause principali della Grande depressione mondiale
degli anni Trenta.
Le cose funzionano piú o meno allo stesso modo per le monete di tutti i
cento e piú Paesi membri del Fondo monetario internazionale,
l’organizzazione nata dagli accordi di Bretton Woods. Il saldo attivo della
bilancia dei pagamenti fa affluire nelle casse della banca centrale dollari
liberamente convertibili in oro; se la domanda di quella moneta è
abbastanza sostenuta, il Paese può addirittura decidere di rivalutarla, come
hanno fatto Germania e Olanda nel 1961. Da una bilancia dei pagamenti in
passivo potrebbe invece innescarsi la sequela di eventi che conducono alla
svalutazione forzata, e le conseguenze di una svalutazione sul commercio
mondiale dipenderanno dall’importanza internazionale di quella moneta.
(L’ampia svalutazione della rupia indiana decisa nel giugno 1966, per
esempio, ha lasciato pressoché indifferenti i mercati internazionali). Per
completare questa breve descrizione del macchinoso gioco in cui ciascuno
di noi, ovunque si trovi, è un’inconsapevole pedina, diremo infine che
neppure il Re Dollaro è al sicuro dagli effetti di un passivo nella bilancia dei
pagamenti o immune agli attacchi degli speculatori. Essendo ancorato
all’oro, il dollaro è la moneta standard di tutte le altre, dunque il suo prezzo
non subisce fluttuazioni; ciò nonostante può andare soggetto a malesseri,
meno visibili ma altrettanto perniciosi. Quando gli Stati Uniti spediscono
oltreconfine quantità di denaro (somme in pagamento di acquisti all’estero,
aiuti internazionali, investimenti, prestiti, spese di viaggio o per la difesa)
ampiamente maggiori di quelle che ricevono, i destinatari di quei dollari li
convertiranno nelle rispettive monete nazionali, che di conseguenza
vedranno aumentare il loro valore in dollari; a sua volta, l’apprezzamento
della moneta permetterà alle banche centrali di quei Paesi di incamerare
altri dollari e di venderli poi agli Stati Uniti in cambio di oro. Quando il
dollaro è debole, dunque, gli Stati Uniti perdono un po’ del loro oro. Il caso
tipico è quello della Francia – Paese con una moneta forte e nessun affetto
particolare nei confronti del dollaro – che per molti anni, fino all’autunno
1966, ha acquistato ogni mese dagli Stati Uniti 30 o piú milioni di dollari in
oro. Per giunta, tra il 1958 e la metà di marzo del 1968 il grave deficit dei
conti internazionali degli Stati Uniti ha esattamente dimezzato la nostra
riserva aurea, scesa da 22 miliardi e 800 milioni a 11 miliardi e 400 milioni.
Se la consistenza della riserva dovesse scendere a livelli inaccettabili gli
Stati Uniti sarebbero costretti a infrangere la parola data, modificando la
parità aurea del dollaro o addirittura sospendendo del tutto la vendita
dell’oro. Entrambe le mosse corrisponderebbero di fatto a una svalutazione:
l’unica svalutazione che, in virtú della posizione prioritaria del dollaro
nell’ordine monetario internazionale, potrebbe essere piú pericolosa di una
svalutazione della sterlina.
Alle 5.10 erano già in contatto telefonico con la Bank of England per
ricevere gli ultimi aggiornamenti. Come previsto, il rialzo dei tassi era stato
annunciato all’apertura delle contrattazioni ed era stato accolto con grande
scalpore. Coombs avrebbe appreso in seguito che l’entrata del Government
Broker alla borsa valori, solitamente accolta in relativo silenzio, era stata
salutata con un boato tale da rendergli difficile comunicare la notizia.
Quanto alle prime reazioni del mercato valutario, somigliavano (cosí
avrebbe osservato un commentatore) a quelle di un cavallo dopato: nei dieci
minuti successivi all’annuncio del Government Broker la sterlina era
balzata a quota 2,7869, ben al di sopra della chiusura di venerdí. Qualche
minuto piú tardi i due mattinieri newyorchesi si misero in contatto
telefonico con la Deutsche Bundesbank (la banca centrale della Germania
occidentale) di Francoforte e con la Banca nazionale svizzera di Zurigo, per
sondare le reazioni dei colleghi europei. Erano positive, a quanto pareva.
Subito dopo richiamarono la Bank of England, dove il clima si stava
mettendo decisamente al bello. Gli speculatori erano in fuga e si
affrettavano a coprire le posizioni corte. Infine, mentre le prime luci
dell’alba filtravano dalle finestre di Liberty Street, Coombs ebbe notizia che
a Londra la sterlina era quotata a 2,79: il miglior prezzo da luglio, quando la
crisi era iniziata.
Andò avanti cosí per tutta la giornata. «Il 7 per cento aspirerà soldi dalla
luna», commentò un banchiere svizzero parafrasando il grande Bagehot
che, con la sua tipica concretezza vittoriana, aveva detto: «Il 7 per cento
risucchierà l’oro dalla terra». A Londra c’era un tale senso di sicurezza che
le baruffe politiche tornarono al centro della scena: Reginald Maudling,
massima autorità economica dell’opposizione conservatrice, colse al volo
l’occasione per dichiarare in parlamento che la responsabilità della crisi
ricadeva sull’operato dei laburisti. Il cancelliere dello Scacchiere Callaghan
replicò glaciale: «È mio dovere rammentare allo stimato gentiluomo che
egli stesso ha [recentemente] dichiarato di averci lasciato in eredità i suoi
problemi». Insomma, si respirava meglio. La Bank of England, dal canto
suo, vide in quell’improvvisa corsa alla sterlina un’ottima occasione per
rimpinguare le sue limitatissime scorte di dollari, e per una parte del
pomeriggio osò addirittura cambiare ruolo, vendendo sterline in cambio di
dollari a un tasso poco inferiore a quota 2,79. A New York, gli umori del
mercato si mantennero stabili anche dopo la chiusura di Londra. E quando,
quello stesso pomeriggio, i direttori della Fed di New York annunciarono il
previsto rialzo del tasso d’interesse ufficiale dal 3,5 al 4 per cento, lo fecero
con perfetta tranquillità riguardo alle sorti della sterlina. Racconta Coombs:
«Quel lunedí pomeriggio il sentimento dominante era: “Ce l’hanno fatta. Ne
sono usciti un’altra volta”. Insomma, sollievo generale. La crisi della
sterlina sembrava finita».
2.
La sera del 24 novembre 1964, dunque, Hayes era arrivato nella sua casa
di New Canaan, nel Connecticut, intorno alle 18.30, avendo viaggiato come
da inesorabile abitudine sul treno in partenza dalla Grand Central Station
alle 17.09. All’epoca Hayes aveva cinquantaquattro anni: era alto, snello,
gentile, con un’aria professorale e una fama di persona imperturbabile; il
suo sguardo acuto era contornato da un paio da occhiali con la montatura
tonda, come occhi di civetta. Ripensandoci in seguito, egli stesso ha
riconosciuto non senza ironia che la flemma metodica dei suoi gesti, in un
momento del genere, era probabilmente servita a confermare in maniera
definitiva e spettacolare la sua fama di uomo impassibile. Varcata la soglia
di casa, un villino del 1840 un tempo adibito a dépendance dei custodi di
una proprietà, che gli Hayes avevano acquistato e ristrutturato una dozzina
di anni prima, il presidente della Fed era stato come al solito accolto da sua
moglie, una graziosa e vivace signora di origini angloitaliane di nome
Vilma (anche se tutti la chiamano Bebba). Mrs Hayes è figlia di Thomas
Chalmers, il compianto baritono della Metropolitan Opera House; si
interessa pochissimo di finanza, ma ama molto viaggiare. Poiché in quella
stagione era già buio, Hayes decise di rinunciare a una delle sue attività
distensive preferite: salire in cima a una collinetta erbosa poco lontano da
casa e godersi per un po’ la vista del canale e dell’isola di Long Island.
D’altronde non aveva nessuna voglia di rilassarsi: sentendosi al contrario
piuttosto teso, decise che tanto valeva restare teso per tutta la notte, visto
che l’auto della banca avrebbe bussato alla sua porta nelle primissime ore
del giorno successivo.
Durante la cena, Hayes e sua moglie parlarono dell’imminente visita del
loro figlio Tom, laureando alla Harvard University, che sarebbe presto
rientrato a casa per la festività del Ringraziamento. Alla fine del pasto
Hayes si alzò da tavola e si accomodò in poltrona per leggere. Negli
ambienti bancari il presidente ha fama di erudito e intellettuale, cosa che in
effetti è, se lo si paragona alla maggior parte dei suoi colleghi. Ciò
nonostante, le sue letture non professionali sono meno regolari e varie di
quelle della moglie. Hayes legge in maniera sporadica, capricciosa e
intensiva: tutto su Napoleone, per esempio, poi un periodo di astinenza
seguito, chissà, da un’indigestione di saggi sulla Guerra civile americana. In
quel preciso momento le sue letture si concentravano sull’isola di Corfú,
dove lui e la moglie intendevano trascorrere un periodo di vacanza. Ma
prima di potersi immergere nelle descrizioni dell’isola greca, Hayes fu
chiamato al telefono. Era la banca. C’erano stati dei nuovi sviluppi, e
Coombs riteneva che il presidente dovesse esserne messo al corrente.
In breve: le banche statali – o centrali, come vengono piú comunemente
dette – delle principali nazioni non comuniste avrebbero intrapreso il piú
presto possibile un’energica manovra di salvataggio della sterlina, della
quale la Fed sarebbe stata non solo sostenitrice, bensí iniziatrice, di comune
accordo con le altre istituzioni finanziarie. La manovra sarebbe cominciata
subito dopo l’apertura delle principali borse del Vecchio continente, ovvero
tra le quattro e le cinque del mattino, ora di New York. La Gran Bretagna
era sull’orlo della bancarotta per una serie di ragioni concomitanti: un
enorme deficit dei conti esteri che durava da parecchi mesi e aveva
impoverito le riserve di oro e dollari della Bank of England; un’ondata di
speculazioni e vendite a copertura del rischio sui mercati monetari
internazionali, scatenate dal timore che il neoeletto governo laburista
decidesse (per amore o per forza) di rimediare alla situazione abbassando la
parità della sterlina al di sotto dei 2,80 dollari; il sempre piú grave
prosciugamento delle riserve della banca centrale britannica, che perdeva
milioni di dollari al giorno nel tentativo di mantenere la sterlina al di sopra
dei 2,78 dollari come le imponevano i trattati internazionali. In quel
momento, le riserve della Bank of England ammontavano a circa 2 milioni
di dollari: il punto piú basso in un lungo periodo.
Le ultime speranze di salvezza erano riposte nella disponibilità delle
nazioni piú ricche del pianeta a concedere alla Gran Bretagna, nel giro di
poche ore – prima che fosse troppo tardi – una quantità inaudita di crediti a
breve termine denominati in dollari. Grazie a quei crediti, la Bank of
England sarebbe probabilmente riuscita a far incetta di sterline con rapidità
sufficiente a neutralizzare, contenere e infine respingere l’attacco
speculativo, dando respiro alla propria economia e consentendole di
riequilibrare i conti. Sull’ammontare complessivo dei crediti necessari per
portare a termine l’operazione non vi erano notizie certe; tuttavia nelle ore
precedenti le autorità monetarie degli Stati Uniti e della Gran Bretagna
avevano calcolato che, nella migliore delle ipotesi, ci sarebbero voluti
almeno 2 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, tramite la Fed di New York e la
Export-Import Bank di proprietà del Tesoro americano, avevano messo a
disposizione un miliardo: ora bisognava persuadere le banche centrali «del
Continente» a dare manforte, offrendo un altro miliardo e piú di dollari.
La situazione non aveva precedenti nella storia finanziaria europea.
Pochi mesi prima, nel settembre del 1964, le grandi banche centrali avevano
contribuito a un credito di emergenza per mezzo miliardo di dollari – un
vero e proprio record, all’epoca – sempre a beneficio della Bank of
England, già allora costretta a operare in difesa della sterlina. Quel mezzo
miliardo era tuttora in circolazione, ma nel frattempo la sterlina si era
trovata a navigare in acque assai piú tempestose, e dunque il Continente era
chiamato a partecipare al salvataggio con una somma piú che doppia – se
non addirittura quintupla. Ovviamente tutto questo avrebbe messo a dura
prova lo spirito di cooperazione internazionale, e forse la qualità stessa dei
soccorsi prestati.
Con la mente occupata da simili pensieri, è comprensibile che Hayes
avesse difficoltà a concentrarsi nella lettura del suo libro su Corfú. Per
giunta, la consapevolezza che l’auto della banca sarebbe venuta a prenderlo
alle quattro del mattino gli consigliava di andare a dormire presto. Mentre si
accingeva a farlo, Mrs Hayes gli disse di sentirsi piú invidiosa che
dispiaciuta per l’imminente alzataccia: era ovvio che il presidente non
vedeva l’ora di cimentarsi nell’impresa, qualunque fosse, che lo attendeva a
quell’ora antelucana.
Alfred Hayes, l’uomo che tutti aspettavano, era presidente della Fed di
New York da poco piú di otto anni; con gran sorpresa sua e di molti altri,
era stato scelto per ricoprire quell’incarico non da una posizione di pari
dignità, né dalle file della stessa Federal Reserve, bensí dalle folte legioni
dei vicepresidenti delle banche commerciali di New York. E per quanto
all’epoca la sua nomina sembrasse poco ortodossa, a posteriori non si può
che considerarla provvidenziale. Ripercorrendo le esperienze giovanili e le
fasi iniziali della carriera di Hayes, si ha l’impressione che non siano servite
ad altro se non a metterlo in grado di affrontare una crisi monetaria di quel
livello, esattamente come accade per quei pittori o scrittori la cui vita
sembra preludere alla creazione di un unico capolavoro. Se nell’imminenza
della crisi la divina Provvidenza – o il suo reparto finanziario – avessero
ritenuto opportuno valutare i requisiti di Hayes, il profilo dell’ipotetico
cacciatore di teste – o del suo omologo celestiale – avrebbe potuto suonare
piú o meno cosí:
Nato a Ithaca, Stato di New York, il 4 luglio 1910; cresciuto perlopiú a New York.
Padre docente di Diritto costituzionale alla Cornell University, poi consulente
finanziario a Manhattan; la madre, ex insegnante, di orientamento politico progressista,
entusiasta sostenitrice del suffragio femminile, prestava servizio in un centro di
assistenza sociale. Entrambi i genitori appassionati di birdwatching. Atmosfera familiare
colta, antidogmatica, orientata al sociale. Hayes frequenta scuole private a New York e
nel Massachusetts, con risultati di prim’ordine. Si iscrive alla Harvard University (per
un solo anno), poi passa a Yale (per tre anni: si specializza in matematica, al terzo anno
diventa membro della Phi Beta Kappa, si dedica con scarsi risultati al canottaggio, si
laurea nel 1930 con il massimo dei voti). Tra il 1931 e il 1933 prosegue gli studi al New
College di Oxford, con prestigiosa borsa di studio istituita da Cecil John Rhodes;
diventa fervente anglofilo e lavora a una tesi intitolata Politica della riserva federale e
gold standard negli anni 1923-30, pur non avendo, all’epoca, alcuna intenzione di
cercare impiego alla Federal Reserve. Attualmente gradirebbe molto ritrovare quella tesi
nella speranza di rinvenirvi qualche folgorante illuminazione giovanile, ma il
documento è irreperibile. Nel 1933 entra nell’ambiente delle banche commerciali
newyorchesi e pone le basi di una carriera lenta ma costante (salario annuale nel 1938:
27 000 dollari). Nel 1942 ottiene incarico (scarsamente prestigioso) di vicesegretario
della New York Trust Company; dopo un breve periodo nell’esercito (marina), nel 1947
diventa vicepresidente aggiunto, quindi (due anni dopo) direttore dell’ufficio estero
della New York Trust, benché totalmente privo di esperienza internazionale. Impara
molto in fretta; lascia di stucco colleghi e superiori, e nel 1949 si guadagna fama di
indovino pronosticando con settimane d’anticipo l’esatto ammontare della svalutazione
della sterlina (da 4,03 a 2,80).
Nominato presidente della Federal Reserve Bank di New York nel 1956; la decisione
è accolta con pari stupore dal diretto interessato e dalla comunità bancaria newyorchese,
che non lo ha mai sentito nominare. Reagisce con calma, parte con la famiglia per due
mesi di vacanza in Europa. Al momento è opinione diffusa che i direttori della Fed siano
stati molto preveggenti, leggasi fortunati, nello scegliere come presidente un esperto di
valute estere proprio quando il dollaro dava segni di debolezza e la cooperazione
monetaria diventava cruciale. Molto amato dai responsabili delle banche centrali
europee, che lo chiamano Al (come Alfred, ma a volte anche All, come Tutto). Stipendio
attuale 75 000 dollari l’anno; al secondo posto dopo il presidente degli Stati Uniti nella
graduatoria dei dirigenti federali meglio pagati, sebbene la scala retributiva della Federal
Reserve sia in relazione competitiva non con i salari dei funzionari pubblici ma con
quelli del settore bancario. Alto, molto magro. Cerca di essere regolare negli
spostamenti da e verso il lavoro, protegge scrupolosamente la sua vita privata, che
considera sacrosanta; giudica «scandalosa» la consuetudine di fermarsi in ufficio fino a
tardi tutte le sere. Si lamenta che il figlio abbia una scarsa opinione del mondo degli
affari; attribuisce la cosa a una forma di «snobismo al contrario», ma resta comunque
imperturbabile.
Conclusione: Hayes è l’uomo giusto per rappresentare la banca centrale degli Stati
Uniti durante una crisi della sterlina.
3.
«R
A C C O N TA R E L’ECONOMIA COME LO FA C E VA BROOKS
nell’America degli anni Sessanta è un’arte. Brooks era un umile
artigiano del reportage, senza aspirazioni letterarie: fatti, solo fatti. Ma
che goduria».
Federico Rampini
«Uno scettico si chiederà cos’abbia da dirci una serie di articoli degli anni Sessanta,
sul mondo del business di oggi. Dopo tutto, nel 1966, quando Brooks scrisse il suo
ritratto di Xerox, la fotocopiatrice di quella marca pesava trecento chili, costava 27
500 dollari, richiedeva un operatore a tempo pieno e veniva venduta con l’estintore
in dotazione, per la facilità con cui si surriscaldava. Da allora sono cambiate
parecchie cose: ma non quelle fondamentali».
Bill Gates
John Brooks (1920-1993) è stato il giornalista finanziario del «New Yorker». Oltre
a questa raccolta di saggi, è autore di una decina di volumi su temi economici e
finanziari.
Titolo originale Business Adventures. Twelve Classic Tales from the World of Wall Street
© 1959, 1960, 1962, 1963, 1965, 1967, 1968 John Brooks. All rights reserved.
All of the material in this book has appeared in the «New Yorker»
in a slightly different form.
Italian language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale, Milano.
Per la scelta di saggi pubblicata nella presente edizione
© 2016 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: foto © Phil Banko / Stone / Getty Images.
Progetto grafico: Riccardo Falcinelli.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato,
licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato
dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul
regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo
quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti
diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da
quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.
www.einaudi.it
Ebook ISBN 9788858421598