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John Brooks

Business Adventures
Otto storie classiche dal mondo dell’economia

Traduzione di Carla Palmieri


Prefazione di Federico Rampini

Einaudi
Prefazione
di Federico Rampini

Si potrebbe chiamarlo il best seller dei miliardari. Questo libro ha una


storia curiosa. Nasce come una raccolta di articoli apparsi sul prestigioso
magazine «The New Yorker» negli anni Sessanta. Firmate da un pioniere
del reportage giornalistico su capitani d’industria, avventure finanziarie,
grandi eventi dell’economia. Poi viene dimenticato, è esaurito per decenni
nelle librerie, quasi introvabile perfino nel mercato dell’usato. Ma una delle
poche copie rimaste è in buone mani. Appartiene a Warren Buffett, detto «il
saggio di Omaha», il primo o secondo uomo piú ricco d’America nonché
celebre investitore dal fiuto quasi infallibile. Nel 1991, il suo amico Bill
Gates gli chiede: «Qual è il miglior libro che hai mai letto sul business?»
Buffett non ha esitazioni, gli presta una copia di quel volume ormai raro,
Business Adventures di John Brooks. Il fondatore di Microsoft se lo tiene
per tredici anni (quante volte lo avrà riletto?) e poi all’improvviso nel 2014
ne scrive un’appassionata recensione sul «Wall Street Journal». E a quel
punto scatena un finimondo. Anche se tra i ragazzini della Silicon Valley il
fondatore di Microsoft è una figura che appartiene al passato, fuori moda,
nel resto degli Stati Uniti e nel mondo intero il carisma di Gates rimane
intatto. Per alcune generazioni, tra cui certamente la mia (sono suo
coetaneo), Gates rimane un prototipo dell’imprenditore moderno. Quando
ho vissuto in Estremo Oriente, dalla Cina al Vietnam molti giovani
affascinati dal capitalismo e desiderosi di successo economico vedevano
Gates e Steve Jobs come i modelli da studiare, emulare. Ricordo ancora una
visita di Bill Gates a Hanoi, in un Paese che allora si era appena avviato alla
transizione verso l’economia di mercato, e già lo idolatrava: tra i giovani
vietnamiti lui era molto piú famoso del presidente americano dell’epoca,
Bill Clinton.
La benedizione congiunta di Buffett e di Gates ha provocato
naturalmente una riscoperta di questo libro. In America è stato ristampato
subito dopo l’illustre recensione sul «Wall Street Journal», quindi è balzato
nelle classifiche dei piú venduti; nel mondo intero è stato tradotto o
ripubblicato. L’autore non può godersi questo revival, è scomparso da anni,
le royalty andranno ai suoi eredi.
Il rilancio di attenzione a mezzo secolo di distanza è meritato. Non
aspettatevi il solito manuale di consigli su come diventare i futuri Bill Gates
o Steve Jobs. Quest’opera è agli antipodi rispetto al filone (pur di successo)
dei libri che insegnano ricette miracolose per creare un’impresa vincente, la
prossima Microsoft, Apple o Google. La manualistica del self-improvement
(«miglioramento di sé stessi») è stata inventata dagli americani, popolo
permeato da un credo ottimista e quindi convinto che ci dev’essere da
qualche parte il decalogo che consente di raggiungere la perfezione (o piú
banalmente la ricchezza). Uno dei mercati piú avidi di libri sul self-
improvement è quello dei manager o aspiranti imprenditori. Brooks
apparteneva a tutt’altra categoria. Era un giornalista, un osservatore
distaccato, e dotato di robuste difese immunitarie contro le mitologie del
management. Era uno scettico, che studiava le grandi imprese Usa degli
anni Sessanta, raccontava le loro gesta, analizzava gli exploit dei loro titoli
a Wall Street, ma era pronto a scoprirne le contraddizioni, i punti deboli, le
fragilità che avrebbero condannato alla rovina alcuni potentati del
capitalismo di allora. Insieme con le success stories lo attiravano i loro
rovesci: le failure stories, i brutali passaggi dalle stelle alle stalle, le
traiettorie repentine che bruciarono i miti e le leggende di quel tempo. Si
capisce la ragione per cui Buffett considera quel libro come un classico. Lui
talvolta sembra ispirarsi allo stile di Brooks, come ha notato Seth Stevenson
su «Slate». Buffett ha preso da Brooks lo stesso atteggiamento disincantato
verso i «fabbricanti di miti». Proprio perché è un capitalista di sicuro
talento, diffida di coloro che vogliono coniare teorie, manuali d’istruzioni
per l’uso, ricette replicabili. Da vero saggio, lui sa che l’economia non è
una scienza esatta, che anche i migliori sbagliano, che al successo
contribuiscono elementi imponderabili e imprevedibili, compresi il caso e la
fortuna. Forse non è un caso che Buffett e Gates, oltre a essere amici, oltre
ad alternarsi di anno in anno al primo o secondo posto dei Paperoni
d’America, hanno in comune qualcos’altro: hanno criticato il sistema
fiscale americano per essere troppo favorevole ai ricchi; hanno devoluto la
maggior parte del proprio patrimonio in filantropia, diseredando di fatto i
propri figli. Non stupisce che tutti e due si riconoscano nello sguardo
ironico, e a volte severo, con cui Brooks racconta fasti e glorie dei
capitalisti degli anni Sessanta. È forse per aver studiato lo stile di Brooks
che Buffett ha coniato a sua volta delle frasi ormai entrate nella leggenda.
Per esempio, a proposito delle bolle speculative in borsa: «Solo quando la
marea si abbassa, scopri quelli che stavano nuotando senza costume».
Questa vale piú di cento dotte analisi, per descrivere l’accecamento
provocato dall’euforia dei rialzi, quando cani e porci sembrano dei geni del
management. Un’altra, sempre di Buffett, sembra presa direttamente dalla
prosa di Brooks. «Io cerco di investire nelle azioni di aziende cosí
meravigliose che possono essere dirette anche da un idiota. Perché prima o
poi arriverà un idiota a dirigerle». Un sarcasmo ancora piú calzante per il
capitalismo italiano: dove la successione ereditaria è la regola, la
meritocrazia è un valore difeso solo a parole nei convegni confindustriali, e
tra i rampolli dei fondatori abbondano dei campioni mondiali di idiozia.
Tra le lezioni di cui Brooks fu generoso, c’è una sana smitizzazione dei
chief executive. Oggi l’America li ha trasformati nei nuovi eroi del nostro
tempo, figure cosí ammirate che non è lecito contestare il loro smisurato
arricchimento. L’Italia, sempre pronta nel suo provincialismo a
scimmiottare l’America, ma soltanto nei suoi peggiori difetti, ha creato in
Sergio Marchionne un clone di quell’élitismo arrogante. Il consiglio di
Buffett e Gates che ci invitano a rileggere questo reporter degli anni
Sessanta suona anche come una presa di distanza dai loro simili, un
ammonimento contro l’idolatria, e una sana iniezione di buon senso.
«Uno scettico, – ha scritto Gates sul “Wall Street Journal”, – si chiederà
cos’abbia da dirci una serie di articoli degli anni Sessanta, sul mondo del
business di oggi. Dopo tutto, nel 1966, quando Brooks scrisse il suo ritratto
di Xerox, la fotocopiatrice di quella marca pesava trecento chili, costava 27
500 dollari, richiedeva un operatore a tempo pieno e veniva venduta con
l’estintore in dotazione, per la facilità con cui si surriscaldava. Da allora
sono cambiate parecchie cose: ma non quelle fondamentali».
Si capisce che il capitolo sulla Xerox sia tra quelli che hanno catturato
l’attenzione di Gates. Le analogie con la vicenda della sua Microsoft sono
evidenti. Fino alla fine degli anni Cinquanta, mentre nelle aziende italiane si
usava ancora la «carta carbone» per fare due o tre esemplari di un
dattiloscritto, nelle grandi aziende americane erano apparse delle proto-
fotocopiatrici, ma cosí complesse e inefficienti che si facevano solo 20
milioni di fotocopie all’anno. Nel 1964, dopo l’introduzione della
«xerografia» – la tecnologia da cui Xerox prese il proprio nome, e che
consentiva di usare carta normale per le fotocopie – se ne fecero quasi 10
miliardi in un anno. Da quel momento il volume delle fotocopie non fece
che aumentare, nel mondo intero. Per un certo periodo la Xerox ebbe un
semimonopolio su questa nuova tecnologia che stava trasformando gli
uffici. Proprio come la Microsoft negli anni Novanta e fino all’alba del
nuovo millennio, nell’epoca in cui i personal computer dilagarono nelle
nostre vite, e quando accendevamo i loro schermi era quasi inevitabile
vedere apparire il logo Windows. Oggi la Microsoft è ancora una grande
azienda, una delle quattro o cinque maggiori capitalizzazioni di borsa nel
settore tecnologico, e una bella macchina da profitti. Tuttavia è relegata in
un ruolo minore rispetto ai grandi della nuova fase, i Padroni della Rete:
Apple, Google, Facebook, Amazon. L’accesso a Internet per le nuove
generazioni avviene dallo smartphone, dal tablet o dal phablet; il computer
per i giovani è un vecchio elettrodomestico, un soprammobile d’altri tempi,
quasi anacronistico come l’apparecchio tivú. I motori di ricerca sono stati la
prima invenzione chiave del terzo millennio; seguiti a ruota dai social
network. Microsoft non era piú protagonista, in nessuna di queste ultime
fasi. Si può dire che abbia ripetuto «l’errore di Xerox», che non seppe
approfittare del dominio sulle fotocopiatrici per azzeccare l’invenzione
successiva (magari per Xerox sarebbe potuto essere il computer)? Ma il
racconto che Brooks ci fa della Xerox non ha un finale del tutto negativo. In
realtà la Xerox distribuí benefici enormi alla comunità, anche quando non si
tradussero in profitti privati. Finanziò un laboratorio di ricerca tra i piú
fecondi della storia d’America, quasi alla pari dei Bell Labs, una fucina
d’invenzioni che altri avrebbero sfruttato. È lo stesso Gates a ricordare che
dai laboratori di ricerca della Xerox uscirono delle tecnologie avanzatissime
come le reti Ethernet che sarebbero state decisive nella nascita di Internet; o
l’interfaccia grafica per gli schermi dei computer, quella che si sarebbe
evoluta fino a Windows. Insomma, Xerox aveva continuato a sfornare
innovazioni visionarie, all’avanguardia. Ma non ne aveva fatto un uso
industriale. Gates e Jobs andarono a saccheggiare quelle idee, per
trasformarle in brevetti privati. Si può dire che Xerox abbia sbagliato,
condannandosi al declino, certo. La versione che ci racconta Brooks non è
cosí negativa. La Xerox aveva un’idea nobile della propria funzione sociale.
Si considerava un’impresa al servizio della comunità. Una visione «alla
Adriano Olivetti», diremmo noi. Per i dirigenti della Xerox una parte della
loro missione industriale consisteva nel finanziare ricerca pura, cosí come
finanziavano le università nella loro cittadina (Rochester, sulla punta nord
dello Stato di New York) o le campagne in favore delle Nazioni Unite
(un’eresia per la destra isolazionista, e infatti l’azienda si attirò gli strali di
molti repubblicani). Certe invenzioni se le lasciarono sfuggire perché gli
sembravano estranee al mestiere di base della Xerox; non seppero
immaginare che nel settore hi-tech una vocazione industriale va reinventata
continuamente se non si vuole cadere nell’obsolescenza. E tuttavia non
erano certo dispiaciuti che una parte dei loro investimenti servisse a
disseminare modernità, imprenditorialità e benessere a tutti.
Le storie raccolte in questo volume sono utili per noi, anche perché ci
trasportano nel cuore di quel formidabile periodo che furono gli anni
Sessanta. Per tuffarmi in quella che considero un’epoca prodigiosamente
interessante, io ho usato in un mio libro perfino le canzoni dei Beatles,
come accompagnamento per parlare di economia. Gli anni Sessanta furono
la nostra ultima età dell’oro: l’ultimo periodo in cui l’Occidente conobbe
alta crescita, pieno impiego, costanti aumenti nelle retribuzioni e nel potere
d’acquisto delle famiglie. Furono anche un’epoca meno diseguale della
nostra, con un fisco piú redistributivo, e una classe manageriale che si
«accontentava» di guadagnare mediamente 40 volte il salario dei suoi
dipendenti, invece che 400 volte com’è la regola oggi.
Un altro pezzo classico in questa raccolta di reportage di Brooks è il
racconto del grande fiasco della Ford Edsel. Battezzata col nome del figlio
del fondatore, la Edsel è molto piú di un’automobile malriuscita, bocciata
dai consumatori, finita in un flop di vendite. Fin qui sarebbe una storia
banale, di modelli che non si vendono è piena la storia dell’industria
automobilistica. Ma la Edsel è molto di piú di un «fiasco ordinario». Quello
che ne fa una storia avvincente, piena di fascino, è la sua dimensione
titanica. Siamo di fronte a un caso di hybris manageriale all’ennesima
potenza. La Edsel non nasce come nascono tutti gli altri modelli di
automobili. È l’equivalente dello sbarco sulla Luna col progetto Apollo
della Nasa. Ha la pretesa di cambiare il corso della storia, di essere l’auto
che farà dimenticare tutte le auto. Chi la studia ha la missione di non farne
un «semplice» successo di mercato: deve segnare il trionfo, l’apoteosi della
Ford, la madre di tutte le operazioni di marketing. E per riuscire in questa
missione, la grande azienda di Detroit si muove con l’approccio
«scientifico» al management che proprio in quegli anni stava diventando
una nuova religione americana. Bisogna ricordare che negli stessi anni un
altro top manager formatosi ai vertici di un colosso automobilistico, Robert
McNamara della Ford, era stato chiamato da John Kennedy (e poi
confermato da Lyndon Johnson) a fare il segretario alla Difesa per applicare
la sua cultura manageriale alla Guerra del Vietnam. La «scienza» del
management applicata al governo era una novità di quegli anni, un
riconoscimento della superiorità degli uomini d’impresa. I manager della
Ford, dunque, affrontano la missione Edsel armati di orgogliose certezze. Il
loro approccio scientifico non lascia nulla al caso. Tutto viene studiato
perché la Edsel sia in perfetta sintonia con lo spirito dei tempi, colga in
anticipo l’evoluzione dei gusti dell’automobilista, sia l’oggetto del desiderio
in grado di scatenare le pulsioni d’acquisto. Il risultato sarà un disastro
smisurato, una bocciatura davvero eccezionale, un rigetto pressoché
unanime. Brooks lo descrive con la sua consueta leggerezza, senza
abbondare, raccontando di una Edsel rubata a soli tre giorni dal lancio
nazionale: ancora poco tempo, osserva, e nessun ladro di automobili si
sarebbe piú scomodato per una Edsel.
Brooks non si occupa soltanto delle grandi imprese di quegli anni.
Racconta i meccanismi psicologici a volte misteriosi che stanno dietro un
crac di borsa. Narra il primo caso di insider trading a essere condannato da
un tribunale americano. È capace di rendere appassionante anche un tema
come il fisco: la sua descrizione storica della nascita, evoluzione, ipertrofia
e gigantismo della moderna income tax (l’equivalente americano della
nostra Irpef, imposta sui redditi delle persone) rimane un capolavoro. Senza
salire in cattedra, senza ideologismi, lui mette a nudo tutti gli ingranaggi
della gigantesca macchina fiscale. Cosí facendo rivela il progressivo
snaturamento della sua funzione: da strumento trasparente per il
finanziamento dei servizi pubblici, e per la redistribuzione in favore dei
meno abbienti, l’imposta diventa un terreno di battaglia fra lobby, interessi
potenti, che riescono a distorcere tutto il sistema del prelievo a proprio
vantaggio, fino a farne una giungla.
Un altro exploit giornalistico è il racconto sulla grande crisi della sterlina
inglese: prima avvisaglia di una serie di tempeste monetarie che di lí a poco
sconvolgeranno tutte le valute, dollaro compreso (e in parte sono la
spiegazione dei progetti di moneta unica europea che nacquero in quegli
anni). Qui Brooks si avventura dentro l’universo segreto dei banchieri
centrali, la casta sacerdotale a cui è stato affidato il governo della moneta.
Le tecnologie sono cambiate da allora, le dimensioni dei mercati si sono
moltiplicate, la velocità dei capitali è cresciuta spaventosamente, ma in quei
raduni segreti dei governatori delle banche centrali degli anni Sessanta si
seguivano riti e liturgie che avrebbero lasciato un segno anche nelle regole
della finanza globale di oggi.
Uno dei pregi di questo libro, evidenziato anche da Bill Gates, è la sua
sottigliezza. Brooks sa scrivere semplice ma evita il semplicismo. Non
conclude mai i suoi reportage con delle «lezioncine». Da nessuna parte in
questo libro troverete quei decaloghi insulsi, quegli elenchi di formulette
magiche con cui altri hanno tentato di riassumere le qualità vincenti di
un’azienda, o di un’economia. È spietato con le mode intellettuali del suo
tempo, come la mania delle grandi imprese di ridurre ogni problema a
«comunicazione». Oggi sarebbe facile applicare un’ironia analoga al
termine «cultura»: ogni azienda ha deciso che deve essere portatrice di una
«cultura», il piú delle volte una collezione di banalità, ipocrisie, luoghi
comuni.
La sua lettura è un bell’antidoto contro quell’analfabetismo economico
che affligge in particolar modo gli italiani. (Non lo dico io: è il verdetto di
una ricerca dell’Ocse di Parigi su tutti i Paesi industrializzati. Il nostro è tra
i piú sprovveduti, e purtroppo l’ignoranza in economia si paga molto cara).
Il giornalismo economico italiano ha avuto le sue colpe: spesso noioso,
scritto per pochi addetti ai lavori. Pigro, restio a ribellarsi contro l’andazzo,
l’aria che tira, gli stereotipi fabbricati dagli uffici stampa delle aziende.
Oppure pittoresco e inaffidabile. O infine, peggio ancora, prigioniero di
conflitti d’interessi. In Cina il 2015 si è aperto con un’ondata di arresti e
licenziamenti ai vertici della Cctv, la televisione di Stato: dove i cronisti di
economia e finanza ricevevano mazzette a ogni conferenza stampa che
seguivano. In Italia non c’è bisogno di usare metodi cosí volgari, visto che
la maggior parte dei giornali è di proprietà dei grandi gruppi industriali o
bancari; cosí come la tivú di Stato è sempre stata di «proprietà» di governi e
partiti. L’Italia è il Paese dove il piú gigantesco di tutti i conflitti d’interessi,
quello di Silvio Berlusconi, non ha mai impedito che nella sua ombra si
costruissero carriere giornalistiche «onorabili e onorate», con personaggi di
grido passati a servire altre chiese e altri potentati economici, senza mai
pagare un prezzo nella loro immagine professionale.
Raccontare l’economia come lo faceva Brooks nell’America degli anni
Sessanta è in realtà un’arte. Non a caso, l’arte si è cimentata a volte con la
sfida di raccontare l’economia, e ne sono usciti dei capolavori immortali. Le
pagine migliori per capire la borsa delle origini, e tanto capitalismo
dell’Ottocento, le ha scritte Émile Zola ne Il denaro. La nascita della
borghesia capitalistica moderna è ne I Buddenbrook di Thomas Mann. Il
grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald illustra con poche pennellate la
follia speculativa degli anni Venti, le diseguaglianze patologiche, il
capitalismo avido e distruttivo che scatenerà il crac del 1929 e la Grande
depressione. Brooks non apparteneva a quel pantheon. Era un umile
artigiano del reportage, senza aspirazioni letterarie: fatti, solo fatti. Ma che
goduria.

New York, 25 marzo 2015.


FEDERICO RAMPINI
Business Adventures
1. Xerox Xerox Xerox Xerox

La prima macchina da ufficio per la duplicazione meccanica della pagina


scritta si chiamava mimeografo, e fu messa in commercio nel 1887 dalla A.
B. Dick Company di Chicago, con risultati non proprio entusiasmanti. Mr
Dick era un ex commerciante di legnami che, stufo di copiare a mano i
propri listini prezzi, aveva dapprima cercato di inventare una sua macchina
duplicatrice ma poi, non essendoci riuscito, aveva acquistato da Thomas
Alva Edison, inventore del mimeografo, i diritti di sfruttamento industriale
della scoperta. Ma le vendite non andavano affatto bene, e Mr Dick era alle
prese con un formidabile problema di marketing. «Una macchina capace di
copiare un documento decine e decine di volte non interessava a nessuno»,
spiega suo nipote C. Matthews Dick Jr, attuale vicepresidente della A. B.
Dick Company, produttrice di una vasta gamma di copiatrici e duplicatrici
per ufficio. «I primi acquirenti del mimeografo non furono uffici ma chiese,
scuole, associazioni di boy-scout. Per attirare l’attenzione delle aziende e
degli studi professionali, il nonno e i suoi soci dovettero fare un’enorme
opera di convinzione. A quei tempi la duplicazione meccanica dei
documenti era un’idea nuova e sconvolgente, che mandava all’aria routine
aziendali consolidate da tempo. In fin dei conti la macchina per scrivere era
arrivata da poco piú di dieci anni, ed erano ancora in pochi a usarla; idem
per la carta carbone. Quando un uomo d’affari o un avvocato avevano
bisogno di cinque copie di un documento, andavano da un impiegato e gli
chiedevano di copiarlo cinque volte: a mano, beninteso. La gente diceva a
mio nonno: “Perché dovrei riempirmi l’ufficio di copie di questo e di
quello? Sarebbero solo un accumulo inutile, oltre che una tentazione per i
curiosi e uno spreco di carta”».
Volendo considerare la situazione da un altro punto di vista, può anche
darsi che le difficoltà incontrate da Mr Dick Senior dipendessero dalla
cattiva fama di cui godeva da secoli lo stesso concetto di duplicazione dei
materiali grafici: una cattiva fama che si rispecchia nelle varie connotazioni
di «copia» e del verbo «copiare» nella lingua inglese. Basta consultare
l’Oxford English Dictionary per farsi un’idea dell’aura di disonestà che ha
ammantato la parola nel corso dei secoli: nel tardo Cinquecento, e fino
all’epoca vittoriana, copy e counterfeit (rispettivamente «copia» e «falso»)
erano quasi sinonimi. Verso la metà del XVII secolo, inoltre, l’accezione
medievale di copy nel senso di «prosperità» o «grande quantità» scomparve
definitivamente dalla lingua inglese, sopravvivendo soltanto nella forma
aggettivale copious. «Le sole copie buone sono quelle che mettono in
chiaro il ridicolo dei cattivi originali» 1, scriveva nel 1665 La
Rochefoucauld nelle sue Massime. «Non comprate mai la copia di un
quadro», ammoniva John Ruskin nel 1857, invitando i suoi lettori a
guardarsi non dagli imbrogli ma dall’involgarimento. E anche la copiatura
dei documenti scritti era spesso osservata con sospetto: «Per quanto la copia
autenticata di un documento sia una buona prova, tuttavia la copia di una
copia, ugualmente autenticata e sempre da testimoni credibili non sarà
ammessa come prova in giudizio» 2, scriveva John Locke nel 1690. Piú o
meno nella stessa epoca, l’industria della stampa contribuí ad arricchire il
lessico della lingua inglese con la suggestiva espressione foul copy, ovvero
«brutta copia», mentre in epoca vittoriana si usava dire che un certo oggetto
o persona non era che «la pallida copia» di qualcosa o qualcun altro.
Nel XX secolo, però, le necessità pratiche connesse
all’industrializzazione hanno prodotto un drastico cambiamento di vedute, e
le esigenze di riproduzione dei documenti sono aumentate in breve tempo.
(Può sembrare paradossale che il fenomeno abbia coinciso con la diffusione
del telefono, ma forse non è poi cosí strano. È ampiamente provato che la
comunicazione tra persone, quale che ne sia il mezzo, genera
inevitabilmente il bisogno di altra comunicazione). Nell’ultimo decennio
dell’Ottocento la macchina per scrivere e la carta carbone erano ormai
diffusissime, e nei primi anni del nuovo secolo anche la mimeografia
diventò una normale pratica di molti uffici. «Nessun ufficio è completo
senza un Mimeografo Edison», grandeggiava la Dick Company nel 1903. In
quell’anno le sue macchine in circolazione erano all’incirca centocinquanta;
la cifra salí a duecentocinquanta nel 1910 e a quasi mezzo milione nel 1940.
Piú o meno in quegli anni furono messe sul mercato le prime versioni da
ufficio delle stampatrici offset – animose concorrenti in grado di produrre
copie esteticamente molto piú gradevoli di quelle ottenute con un
mimeografo – tuttora utilizzate in molti grandi uffici. Ma poiché (come nel
caso del mimeografo) il processo di copiatura necessita di una matrice
speciale, la cui preparazione è impresa piuttosto lunga e costosa, la stampa
offset presenta dei vantaggi economici solo nel caso in cui sia necessario
fare un numero sostanzioso di copie. Nel gergo delle macchine per ufficio si
è soliti distinguere tra «duplicatrici» e «copiatrici», e poiché la linea di
confine tra le une e le altre si colloca in genere tra le dieci e le venti copie,
sia la stampatrice offset sia il mimeografo rientrano nella categoria delle
macchine duplicatrici. Nel settore delle copiatrici il progresso tecnologico è
andato a rilento, e ci è voluto molto prima di avere a disposizione macchine
efficienti ed economiche. I primi dispositivi fotografici (il piú famoso dei
quali era ed è il Photostat) che non richiedevano la preparazione di una
matrice apparvero intorno al 1910, ma a causa del costo elevato, della
lentezza e della difficoltà di funzionamento, il loro uso rimase perlopiú
limitato alla copiatura di progetti, disegni tecnici e documenti legali. Fino
agli anni Cinquanta, lo strumento piú pratico per la copiatura di lettere
d’affari o pagine scritte era pur sempre la macchina per scrivere con un
foglio di carta carbone nel rullo.
Gli anni Cinquanta del Novecento sono stati il periodo embrionale e
pionieristico della copiatura meccanizzata. In breve tempo si è affacciata sul
mercato un’intera nidiata di macchine capaci di riprodurre la maggior parte
dei documenti d’ufficio senza bisogno di una matrice, al costo di pochi
centesimi per copia e nello spazio di un minuto, se non addirittura meno. Le
tecniche impiegate erano le piú diverse: la copiatrice Thermo-Fax della
Minnesota Mining & Manufacturing, messa in commercio nel 1950,
utilizzava carta termosensibile; la Dial-A-Matic Autostat della American
Photocopy (1952) si basava su un perfezionamento del comune processo
fotografico; la Verifax della Eastman Kodak (1953) funzionava in base a un
metodo detto fotoriproduzione. Quale che fosse il principio, quasi tutte le
macchine – a differenza del mimeografo di Mr Dick – incontrarono i favori
del mercato, in parte perché rispondevano a un bisogno autentico, e in parte
(ora è chiaro) perché esercitavano un potente fascino sui loro utilizzatori. In
una società che gli esperti insistono a definire «di massa», l’idea di
trasformare l’unico in molteplice stava diventando una vera e propria
fissazione. Ma le prime copiatrici dell’èra pionieristica avevano, quale piú e
quale meno, gravi e scoraggianti difetti: Autostat e Verifax, per esempio,
erano scarsamente maneggevoli e producevano copie umide che andavano
messe ad asciugare; la Thermo-Fax sfornava copie che tendevano a scurire
se esposte a calore eccessivo; tutte e tre le macchine, poi, funzionavano
soltanto con le carte speciali fornite dal fabbricante. Perché la fissazione si
trasformasse in vera e propria mania occorreva dunque una rivoluzione
tecnologica; e la rivoluzione arrivò al volgere del decennio grazie a una
nuova macchina basata su un principio chiamato xerografia, che permetteva
di ottenere senza troppa fatica copie asciutte, inalterabili, di buona qualità e
su carta normale. L’eco della nuova scoperta fu immediata. Soprattutto per
merito della xerografia, il numero di copie (non duplicati, ma copie) fatte
ogni anno negli Stati Uniti sarebbe passato, secondo alcune stime, dai circa
20 milioni di metà anni Cinquanta a ben 9,5 miliardi nel 1964,
raggiungendo poi, in soli due anni, i 14 miliardi – ai quali vanno aggiunti
gli altri miliardi di copie prodotte in Europa, Asia e America Latina. Ma
l’avvento della xerografia produsse altre e piú importanti trasformazioni:
l’atteggiamento degli educatori nei confronti dei libri di testo cambiò
visibilmente, come pure quello degli uomini d’affari nei confronti della
comunicazione scritta; le avanguardie filosofiche inneggiarono alla
xerografia come a una novità rivoluzionaria, simile per importanza
all’invenzione della ruota; e le copiatrici a moneta si diffusero un po’
dappertutto, persino nei negozi di caramelle e nei saloni di bellezza. La
mania – non improvvisa e dirompente come la febbre dei tulipani
nell’Olanda del XVII secolo, ma forse destinata ad avere conseguenze molto
piú ampie – imperversava ovunque.
Artefice di quella gran rivoluzione (da molti considerata il piú
spettacolare successo aziendale degli anni Sessanta), nonché produttrice
delle macchine che scodellavano la maggior parte di quei miliardi di copie
era, ovviamente, la Xerox Corporation di Rochester, nello Stato di New
York. Nel 1959, quando lanciò sul mercato la prima copiatrice xerografica
automatica da ufficio, la società – che all’epoca si chiamava ancora Haloid
Xerox Incorporated – fatturava 33 milioni di dollari. Nel 1961 i milioni
erano già 66, e nel 1963 sarebbero diventati 167; nel 1966 si sarebbe
superato il traguardo del mezzo miliardo. Come disse Joseph C. Wilson,
amministratore delegato della società, il ritmo della crescita era tale che, se
mantenuto per un paio di decenni (cosa fortunatamente impossibile, per il
bene di tutti) il giro d’affari della Xerox avrebbe superato il prodotto interno
lordo degli Stati Uniti. E se nel 1961 la Xerox non compariva nemmeno
nella classifica di «Fortune» delle cinquecento maggiori società industriali
statunitensi, tre anni dopo avrebbe occupato la duecentoventisettesima
posizione, e nel 1967 la centoventiseiesima. La graduatoria di «Fortune» si
basa sul fatturato annuo, ma se i criteri di classificazione fossero stati
diversi la Xerox si sarebbe piazzata ancora meglio: all’inizio del 1966, per
esempio, era la sessantatreesima azienda del Paese in base all’utile netto,
probabilmente la nona in termini di rapporto tra utili e vendite, e la
quindicesima o giú di lí in base al valore di mercato delle sue azioni. Da
quest’ultimo punto di vista, la giovane azienda di Rochester sopravanzava
alcune colonne portanti dell’industria americana come U.S. Steel, Chrysler,
Procter & Gamble e Rca. Sospinte dall’entusiasmo degli investitori, le sue
azioni erano diventate una sorta di Golconda dei mercati azionari anni
Sessanta. Un titolo Xerox acquistato verso la fine del 1959 e tenuto in
portafoglio fino ai primi mesi del 1967 avrebbe moltiplicato il suo valore di
66 volte rispetto al prezzo originale, e gli investitori tanto preveggenti da
comprare azioni Haloid nel 1955 avrebbero visto il loro investimento
rivalutarsi (quasi miracolosamente, verrebbe da dire) di ben 180 volte. E
infatti ci fu, come era prevedibile, una nidiata di «milionari della Xerox»:
svariate centinaia di fortunati, perlopiú residenti o originari della zona di
Rochester.
La Haloid Company, fondata a Rochester nel 1906, era la nonna della
Xerox, proprio come uno dei suoi fondatori – Joseph C. Wilson, ex gestore
di un’agenzia di pegni ed ex sindaco di Rochester – era il nonno
dell’omonimo capo della Xerox tra il 1946 e il 1968. La Haloid produceva
carta fotografica e, come tutte le aziende del settore – soprattutto quelle
situate a Rochester –, viveva all’ombra della sua gigantesca vicina, la
Eastman Kodak. Ma anche da quell’oscurità aveva dato prova di sufficiente
dinamismo, tanto da uscire relativamente indenne dalla Grande depressione.
All’inizio del secondo dopoguerra, tuttavia, la concorrenza e l’aumento del
costo del lavoro l’avevano spinta alla ricerca di nuovi prodotti. Tra le
possibilità di sviluppo in cui si erano imbattuti i suoi ricercatori c’era un
processo di copiatura al quale stava lavorando il Battelle Memorial
Institute, un grande istituto di ricerca senza scopo di lucro che aveva sede a
Columbus, nell’Ohio. Ma torniamo indietro nel tempo per qualche istante:
1938, quartiere di Astoria, nel Queens; un appartamento al primo piano,
proprio sopra un bar. La cucina di quell’appartamento ospitava
l’improvvisato laboratorio di un oscuro inventore trentaduenne, Chester F.
Carlson: figlio di un barbiere di origine svedese, dopo la laurea in Fisica al
California Institute of Technology aveva trovato lavoro a New York presso
l’ufficio brevetti della P. R. Mallory & Co., un’azienda di Indianapolis che
produceva componenti elettriche ed elettroniche; ma poiché era ansioso di
conquistarsi fama, fortuna e indipendenza, dedicava il suo tempo libero
all’invenzione di una nuova macchina copiatrice da ufficio. A dargli man
forte nell’impresa c’era un tale Otto Kornei, fisico tedesco rifugiato negli
Stati Uniti. Il risultato finale degli esperimenti fu un processo che permise
ai due inventori, il 22 ottobre del 1938, di estrarre dal loro vasto e
inadeguato armamentario non solo una considerevole quantità di fumi e
cattivi odori, ma anche una copia su carta di un banalissimo messaggio che
recitava: «10-22-38 Astoria». Il processo, che Carlson chiamò
elettrofotografia, consisteva – e consiste tuttora – in cinque fasi
fondamentali: la sensibilizzazione alla luce di una superficie fotoconduttiva
caricata elettrostaticamente (ad esempio mediante strofinamento con una
pelliccia); l’esposizione della superficie su una pagina scritta, in modo da
ottenere un’immagine elettrostatica; l’aspersione della superficie
elettrostatica con una polvere in grado di aderire soltanto alle parti caricate,
consentendo di sviluppare un’immagine latente; il trasferimento
dell’immagine su carta; il fissaggio a caldo dell’immagine. Ognuna di
queste operazioni era abbastanza consueta in relazione ad altre tecnologie,
ma la vera novità stava nel loro accostamento: talmente innovativo, in
effetti, che i famosi re e condottieri del business furono lenti a riconoscere
le potenzialità del processo. Tuttavia, forte dell’esperienza acquisita nel suo
«vero» lavoro, Carlson non esitò a tessere intorno alla sua invenzione una
complessa rete di brevetti, dopodiché cominciò a bussare a ogni porta
(intanto Kornei si era trasferito altrove per motivi professionali,
scomparendo per sempre dalla ribalta elettrofotografica). Per cinque anni,
senza mai abbandonare l’impiego alla Mallory, Carlson si dedicò a un
nuovo secondo lavoro: offrire i diritti per lo sfruttamento del processo a
tutte le principali società americane nel settore delle macchine per ufficio.
Dopo una lunga serie di dinieghi, nel 1944 riuscí finalmente a convincere il
Battelle Memorial Institute a sviluppare ulteriormente il processo, cedendo
in cambio i tre quarti delle royalty che avrebbe ricavato dalla sua vendita o
dalla cessione dei diritti di utilizzo.
Fine del flashback; entri in scena la xerografia. Nel 1946 il lavoro del
Battelle Institute sul progetto di Carlson attirò l’attenzione della Haloid, e in
particolare del giovane Joseph C. Wilson, che stava per assumere la
presidenza della società. Wilson ne parlò con un suo nuovo amico, Sol M.
Linowitz, giovane e brillante avvocato con una forte coscienza sociale:
appena smessa la divisa della marina militare, Linowitz progettava di aprire
a Rochester una stazione radio di orientamento progressista che bilanciasse
le posizioni conservatrici dei quotidiani del gruppo Gannett. Benché la
Haloid avesse un proprio ufficio legale, Wilson chiese a Linowitz una
consulenza una tantum sul progetto del Battelle Institute. «Siamo andati a
Columbus a vederli sfregare della pelliccia di gatto su un pezzo di metallo»,
avrebbe poi raccontato Linowitz. A quel viaggio ne seguirono altri, e il
risultato fu un accordo in base al quale la Haloid acquisiva i diritti sul
procedimento inventato da Carlson in cambio del pagamento di royalty a
Carlson e al Battelle Institute, e si impegnava a condividere con
quest’ultimo i costi per la sperimentazione e lo sviluppo. Tutto ciò che
venne dopo nasceva, in un certo senso, da quell’accordo. La ricerca di un
nuovo nome per il procedimento di Carlson ebbe termine nel 1948, quando
un funzionario del Battelle Institute andò a trovare un professore di Lingue
classiche della Ohio State University: dall’unione di due parole in greco
antico nacque il termine «xerografia», ovvero «scrittura a secco». Nel
frattempo, le équipe di scienziati che al Battelle Institute e alla Haloid si
erano messe all’opera per sviluppare il processo affrontavano una serie di
inaspettati e sconcertanti problemi tecnici: dopo qualche tempo i dirigenti
della Haloid si scoraggiarono, tanto da considerare l’ipotesi di vendere la
maggior parte dei loro diritti sulla xerografia alla International Business
Machines. Alla fine, però, l’accordo fu disdetto: la ricerca andò avanti e i
costi lievitarono sempre piú, sicché poco alla volta la scommessa della
Haloid divenne una questione di vita o di morte. Nel 1955 fu stilato un
nuovo accordo in base al quale la Haloid acquisiva a pieno titolo i brevetti
di Carlson e si sobbarcava i costi del piano di sviluppo, offrendo in
pagamento al Battelle Institute un enorme pacchetto delle proprie azioni,
alcune delle quali furono poi passate a Carlson. Intanto, i costi erano
arrivati alle stelle. Tra il 1947 e il 1960 la Haloid spese nelle ricerche
attinenti alla xerografia circa 75 milioni di dollari, ovvero il doppio dei suoi
utili ordinari per lo stesso periodo; i fondi necessari furono raccolti in parte
tramite prestiti, in parte con l’emissione di grandi quantità di azioni
ordinarie, vendute a chiunque fosse abbastanza gentile, incosciente o
preveggente da acquistarle. L’università di Rochester, desiderosa di
sostenere l’industria locale, ne comperò un quantitativo enorme per il
proprio fondo di dotazione: a causa di successivi frazionamenti del capitale
sociale, il prezzo di acquisto risultò pari a 50 centesimi per azione. «Ma, per
favore, non vi arrabbiate con noi se tra un paio d’anni ci troveremo costretti
a venderle per arginare le perdite», disse a Wilson un timoroso funzionario
dell’università. Wilson promise di non arrabbiarsi. Nel frattempo, lui e gli
altri dirigenti della società ricevevano la maggior parte dello stipendio sotto
forma di azioni, e alcuni arrivarono al punto di sostenere personalmente il
progetto devolvendo risparmi o accendendo ipoteche sulle loro case. (Ai
primi posti in questa gara di solidarietà c’era Linowitz, la cui
collaborazione con la Haloid aveva finito per essere tutt’altro che una
tantum: era diventato il braccio destro di Wilson, con competenze speciali
in materia di accordi di brevetto e affiliazioni internazionali, e per un certo
periodo aveva anche diretto il consiglio di amministrazione). Nel 1958,
dopo opportuni scongiuri, la società cambiò nome e diventò Haloid Xerox,
anche se all’epoca nessun prodotto xerografico di una qualche importanza
era ancora stato immesso sul mercato. Il marchio commerciale «XeroX» era
già stato acquisito dalla Haloid qualche anno prima, in sfacciata imitazione
(come Wilson stesso aveva riconosciuto) del nome Kodak. La grande X
finale fu ben presto degradata a minuscola quando si scoprí che comunque
nessuno si prendeva la briga di scriverla in maiuscolo; ma il nome, quasi
palindromo e non meno accattivante di quello inventato da George
Eastman, fu mantenuto. «XeroX» o «Xerox» che fosse, il marchio fu
adottato e difeso, come avrebbe poi raccontato Wilson, malgrado la
veemente contrarietà di molti consulenti, preoccupati che il pubblico lo
trovasse impronunciabile o lo associasse, chissà, a un antigelo per motori o
al bisillabo piú sgradito nel mondo della finanza: zero.
Ma poi, nel 1960, arrivò il boom e tutto cambiò. Invece di paventare lo
scarso gradimento del proprio marchio commerciale, ci si cominciò a
preoccupare per l’eccessivo favore del pubblico: il nuovo verbo to xerox
affiorava cosí frequentemente nella lingua scritta e parlata che l’azienda,
temendo la violazione dei propri diritti patrimoniali, si imbarcò in una
faticosa campagna per impedirne l’uso. (Nel 1961, poi, il nome Haloid
venne definitivamente abbandonato e la società divenne semplicemente
Xerox Corporation). E invece di angustiarsi per il proprio futuro e per
quello dei loro familiari, i dirigenti della Xerox cominciarono a temere di
aver perso la stima dei parenti e amici ai quali avevano prudentemente
consigliato di non acquistare le azioni quando valevano 20 centesimi l’una.
Di fatto, chiunque avesse in portafoglio un buon quantitativo di azioni
Xerox era diventato ricco, o piú ricco: i dirigenti che avevano fatto
economie e sacrifici, l’università di Rochester, il Battelle Memorial
Institute, e perfino – chi l’avrebbe mai detto! – Chester F. Carlson, che dai
vari accordi con la Xerox aveva ricavato un portafoglio di azioni del valore
(a prezzi del 1968) di svariati milioni di dollari, tale da collocarlo secondo
la rivista «Fortune» al sessantaseiesimo posto nella classifica degli uomini
piú ricchi d’America.

Riassunta cosí, nelle sue linee essenziali, la storia della Xerox ha un


sapore démodé, quasi ottocentesco: l’inventore solitario nel suo rozzo
laboratorio, la piccola azienda a conduzione familiare, le prime avversità, la
fiducia nel sistema dei brevetti, la scelta di un nome preso dal greco antico,
il trionfo finale che glorifica il sistema della libera impresa. Ma c’è
dell’altro nella vicenda della Xerox: in quanto esempio di senso di
responsabilità verso la società civile nel suo complesso e non soltanto nei
confronti dei propri azionisti, dipendenti e clienti, la Xerox si pone
esattamente agli antipodi di molte aziende ottocentesche collocandosi, di
fatto, all’avanguardia dell’imprenditoria del XX secolo. «Porsi traguardi
ambiziosi, nutrire aspirazioni quasi irrealizzabili e convincere il pubblico
che siano a portata di mano: per un’azienda sono cose importanti quanto il
bilancio, o forse piú», diceva Wilson; mentre altri dirigenti della Xerox si
sono piú volte prodigati a spiegare che il cosiddetto «spirito Xerox» non è
semplicemente un mezzo per raggiungere uno scopo, bensí un modo di
pensare che dà importanza ai valori umani in quanto tali. Questo genere di
retorica da podio è tutt’altro che raro negli ambienti della grande industria,
e il fatto che siano i dirigenti della Xerox a propinarla non ne modifica
granché gli effetti, se non fosse che, data l’enorme fortuna dell’azienda, il
consueto scetticismo è accompagnato da una certa irritazione. Ma la vera
differenza sta nel fatto che la Xerox mantiene ciò che promette. Eccone le
prove: nel 1965 la società ha donato a varie istituzioni educative e
caritatevoli una somma pari a 1 632 548 dollari, saliti a 2 246 000 nel 1966;
in entrambi gli anni i principali beneficiari sono stati l’università di
Rochester e un apposito fondo della comunità locale, e in entrambi i casi le
somme rappresentavano circa l’1,5 per cento dell’utile netto al lordo delle
tasse. La percentuale è nettamente superiore a quella che molte grandi
società destinano alla beneficenza: facendo un raffronto con due aziende
spesso citate a esempio per la loro liberalità, risulta che nel 1965 la Rca
abbia destinato a opere di bene lo 0,7 per cento dell’utile al lordo delle
tasse, mentre le elargizioni della American Telephone & Telegraph sono
rimaste ampiamente al di sotto dell’1 per cento. Per dimostrare la serietà del
suo impegno, nel 1966 la Xerox ha varato il cosiddetto «programma dell’1
per cento», altrimenti noto come «Piano Cleveland», dal nome della città in
cui è stato inaugurato: il Piano presuppone che le aziende aderenti
devolvano ogni anno, indipendentemente da altre eventuali donazioni, l’1
per cento degli utili alle istituzioni scolastiche del loro circondario. Se le
fortune della Xerox continueranno a prosperare, l’università di Rochester e
le istituzioni a essa legate possono dunque guardare al futuro con una certa
fiducia.
La Xerox è nota per aver corso dei rischi anche in ambiti che avevano
poco a che vedere con il profitto. «La nostra azienda, – ha dichiarato Joseph
C. Wilson nel 1964, – non può esimersi dal prendere posizione su questioni
pubbliche di primaria importanza». Una vera e propria eresia in termini di
politica aziendale, giacché prendere posizione su questioni pubbliche è il
metodo piú sicuro per alienarsi le simpatie dei clienti e potenziali clienti che
la pensano in maniera opposta. Il tema piú importante su cui la Xerox si sia
espressa apertamente ha a che fare con l’Organizzazione delle nazioni unite.
Nei primi mesi del 1964 la società decise di spendere 4 milioni di dollari –
l’intero budget pubblicitario di un anno – in una serie di documentari
televisivi dedicati all’Onu. Con la sola eccezione di uno scarno annuncio
all’inizio e alla fine di ogni puntata, i programmi erano privi di inserti
pubblicitari e di ogni altro indizio che rimandasse alla Xerox in quanto
società finanziatrice. All’improvviso, tra il luglio e l’agosto dello stesso
anno – a qualche mese, cioè, dall’annuncio ufficiale della serie – la Xerox
ricevette una valanga di lettere di dissenso che la sollecitavano a desistere
dal suo proposito. Le lettere (quindicimila in tutto) dispiegavano un vasto
repertorio di toni, dal pacatamente ragionevole all’aspramente accusatorio. I
mittenti sostenevano che il vero scopo dell’Onu fosse privare i cittadini
americani dei loro diritti costituzionali, che il suo documento costitutivo
fosse stato scritto in collaborazione con alcuni gruppi comunisti americani e
che, in sostanza, l’Organizzazione delle nazioni unite fosse uno strumento
funzionale agli obiettivi del comunismo. Gli amministratori di alcune
società minacciavano senza tanti complimenti di far rimuovere le macchine
Xerox dai loro uffici se la serie televisiva non fosse stata sospesa. Benché il
nome della John Birch Society comparisse soltanto in una manciata di
lettere e nessuno dei mittenti si fosse qualificato come aderente alla nota
associazione ultraconservatrice, le prove circostanziali confermarono il
sospetto che dietro la valanga di lettere ci fosse l’accurata regia della Birch.
Tanto per cominciare, l’invito a scrivere alla Xerox per protestare contro i
documentari era contenuto in una sua recente pubblicazione che
rammentava il successo di un’analoga iniziativa nei confronti di
un’importante compagnia aerea, colpevole di aver adornato i propri velivoli
con le insegne dell’Onu. A ulteriore prova del carattere sistematico
dell’operazione, un’indagine condotta su richiesta della Xerox dimostrò che
le quindicimila lettere erano state scritte da non piú di quattromila persone.
In ogni caso, gli uffici e i dirigenti della Xerox non si lasciarono né
persuadere né intimidire; la serie sulle Nazioni Unite venne trasmessa dalla
rete Abc nel 1965 e accolta con giudizi assai positivi. In seguito Wilson
dichiarò che la decisione di ignorare le proteste aveva procurato alla Xerox
piú amici che nemici. In tutte le sue comunicazioni pubbliche
sull’argomento, tuttavia, Wilson insisté per qualificare come semplice fiuto
per gli affari quello che a molti osservatori era sembrato un raro esempio di
idealismo aziendale.
Nell’autunno del 1966 la Xerox attraversò una fase di relativa difficoltà:
la prima dopo l’avvento della xerografia. All’epoca le aziende che
operavano nel settore erano piú di quaranta, e molte di esse producevano su
licenza Xerox. (L’unica componente tecnologica importante per cui
l’azienda di Rochester non avesse mai accordato licenze era il tamburo al
selenio che permetteva alle sue macchine di fare copie su carta normale.
Tutte le macchine della concorrenza, pertanto, funzionavano ancora con
carta speciale opportunamente trattata). Come accade ai pionieri di ogni
settore, la Xerox aveva il vantaggio di poter imporre prezzi alti per le sue
macchine. Tuttavia, come aveva sottolineato nell’agosto di quell’anno la
rivista finanziaria «Barron’s», «quest’invenzione già ritenuta favolosa
potrebbe presto – seguendo il destino inevitabile di tutte le scoperte
tecnologiche – trasformarsi in un oggetto di uso comune». Il business della
copiatura era invaso da neofiti che si facevano largo sul mercato
abbassando i prezzi: in primavera una di quelle società aveva spedito una
lettera ai suoi azionisti, preconizzando un futuro in cui le copiatrici si
sarebbero vendute a 10 o 20 dollari l’una, «come giocattoli» (e in effetti nel
1968 fu immessa sul mercato una macchina che costava appena 30 dollari);
altri immaginavano che un giorno le copiatrici sarebbero state offerte
gratuitamente per promuovere le vendite di carta, proprio come accadeva
già da tempo con i rasoi distribuiti in omaggio dalle aziende produttrici di
lamette. Rendendosi conto che i bei tempi del monopolio sarebbero prima o
poi giunti alla fine, la Xerox si era dedicata per alcuni anni a un’opera di
ampliamento dei propri interessi tramite fusioni con aziende di altri settori,
soprattutto editoria e istruzione: nel 1962, per esempio, aveva acquisito la
University Microfilms, una biblioteca microfilmata di manoscritti non
pubblicati, libri fuori commercio, tesi di laurea, periodici e quotidiani. Nel
1965 aveva inglobato altre due società: American Education Publications,
la piú grande editrice americana di periodici educativi per la scuola primaria
e secondaria, e Basic Systems, produttrice di macchinari di supporto alla
didattica. Tuttavia nessuna mossa era stata sufficiente a rassicurare
quell’entità altamente dogmatica che è il mercato azionario, e di lí a poco il
titolo Xerox si trovò a navigare in acque agitate. Tra la fine di giugno e
l’inizio di ottobre del 1966 il suo valore in dollari scese di oltre la metà, da
267 3/4 a 131 5/8. Nell’arco di una sola settimana di contrattazioni, dal 3 al
7 di ottobre, Xerox perse 42 punti e mezzo, e in un giorno particolarmente
nero (giovedí 6) la Borsa di New York sospese le contrattazioni per cinque
ore, perché il mercato era intasato da azioni Xerox per un valore di 25
milioni di dollari, e nessuno sembrava disposto a comprarle.
Personalmente, trovo che le aziende siano piú interessanti nelle fasi di
lieve difficoltà: per questo decisi, nell’autunno del 1966, che era arrivato il
momento giusto per dare un’occhiata da vicino alla Xerox e alle persone
che ci lavoravano, cosa che d’altronde avevo già in mente di fare da circa
un anno. Per prima cosa cercai di fare conoscenza con i suoi prodotti. A
quell’epoca la Xerox aveva in catalogo una linea completa di copiatrici e
accessori: c’era, per esempio, il modello 914, una macchina grande quanto
una scrivania, in grado di fare copie in bianco e nero di qualsiasi pagina
(stampata, disegnata, scritta a mano o a macchina) di dimensioni non
superiori a 22,86 per 35,56 centimetri, alla velocità approssimativa di una
copia ogni sei secondi; il modello 813, molto piú piccolo, si poteva
appoggiare su una scrivania ed era in pratica una versione miniaturizzata
della 914 (oppure, come usavano dire i tecnici della Xerox, «una 914 a cui è
stata tolta l’aria»); il modello 2400, invece, è una macchina ad alta velocità
che somiglia vagamente a una moderna cucina a gas ed è in grado di
scodellare ben 40 copie al minuto, ovvero 2400 all’ora. Il catalogo Xerox
comprende inoltre la Copyflo, capace di ingrandire le immagini
microfilmate fino alle dimensioni di una normale pagina di libro e poi
stamparle; la Ldx, che trasmette i documenti attraverso le linee telefoniche,
le radio a microonde o i cavi coassiali; la Telecopier, un’apparecchiatura
non xerografica (progettata e prodotta dalla Magnavox, ma
commercializzata dalla Xerox) che in pratica è una versione ridotta della
Ldx, particolarmente affascinante agli occhi dei profani poiché permette, se
collegata a un normale telefono, di trasmettere in breve tempo (non senza
una buona dose di ticchettii e cigolii) piccole immagini a qualsiasi altro
utente provvisto di un telefono e di un’analoga macchina. Ma il piú
importante prodotto a marchio Xerox, secondo il giudizio unanime dei
clienti e dell’azienda stessa, era senz’altro il modello 914, la prima,
rivoluzionaria macchina xerografica automatica.
Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che la Xerox 914 sia in assoluto
l’articolo commerciale di maggior successo della storia, ma l’affermazione
non può essere né confermata né smentita per la semplice ragione che la
casa madre non fornisce dati sugli utili suddivisi per prodotto: la stessa
società dichiara tuttavia che nel 1965 il modello 914 forniva all’incirca il 62
per cento dell’intero utile di gestione, pari a poco piú di 243 milioni di
dollari. Nel 1966 la 914 aveva un prezzo di mercato di 27 500 dollari; in
alternativa la si poteva affittare per 25 dollari al mese, piú una spesa fissa
per le copie non inferiore ai 49 dollari, al costo unitario di 4 centesimi
l’una. I prezzi erano stati fissati con il preciso scopo di rendere l’affitto piú
conveniente dell’acquisto, perché la formula risultava essere piú redditizia
anche per la Xerox. Il modello 914 è una grossa macchina di colore beige
che pesa poco meno di trecento chili e assomiglia molto, nella forma, a una
moderna scrivania a L. Per ottenere una copia è necessario collocare
l’originale (un foglio singolo, due pagine di un libro, persino un piccolo
oggetto tridimensionale come un orologio da polso o una medaglia) a faccia
in giú sopra una finestra di vetro che si trova nella parte alta del
macchinario; si schiaccia un bottone, e dopo nove secondi di attesa la copia
viene depositata in un vassoio che si trova piú o meno dove sarebbe il
vassoio della posta in uscita, se la 914 fosse una scrivania a L. Sul piano
tecnico, la macchina è talmente complicata (piú di un’automobile,
sostengono molti venditori) da manifestare un’irritante tendenza all’avaria,
ed è per questo che la Xerox mette a disposizione dei suoi clienti una
squadra di riparatori che conta circa un migliaio di persone, verosimilmente
pronte a rispondere in tempi brevissimi a qualsiasi richiesta di intervento. Il
guasto piú comune è l’inceppamento del vassoio di alimentazione della
carta, pittorescamente definito «malsoffio» perché ogni foglio di carta viene
trasportato verso l’area di tracciatura delle immagini mediante un piccolo
getto d’aria che proviene dall’interno della macchina, e quando il soffio
d’aria non funziona a dovere la macchina si inceppa. Talvolta il «malsoffio»
può portare il foglio a contatto con le parti calde della macchina: di
conseguenza la carta prende fuoco e la macchina sprigiona un’inquietante
nuvola di fumo bianco. In simili circostanze si consiglia agli addetti di non
fare assolutamente nulla, o al massimo di azionare il piccolo estintore che
correda la macchina: l’incendio si spegne comunque da solo, causando
relativamente pochi danni; viceversa, un secchio d’acqua gettato su una 914
rischia di caricare le superfici metalliche di elettricità a voltaggi
potenzialmente letali.
A parte i guasti, la macchina richiede numerose e regolari attenzioni da
parte della persona addetta al suo funzionamento, che nella maggior parte
dei casi è una donna. (Le ragazze che pigiavano sui tasti delle prime
macchine per scrivere si chiamavano, per l’appunto, «tastieriste», ma per
fortuna nessuno chiama «xeroxiste» le addette alle copiatrici Xerox). Le
scorte di carta e di toner, la polvere elettrostatica nera, vanno continuamente
ricostituite, mentre il tamburo al selenio, la componente piú vitale della
macchina, deve essere pulito con uno speciale panno di cotone che non ne
graffia la superficie, e incerato di tanto in tanto. Ho trascorso un paio di
pomeriggi in compagnia di una 914 e della ragazza addetta al suo
funzionamento, e posso dire che in vita mia non avevo mai visto una
persona stabilire una relazione cosí stretta con una macchina per ufficio.
Un’addetta alla macchina per scrivere o al centralino non ha alcun interesse
per l’apparecchiatura di cui si serve, perché è priva di misteri; viceversa, chi
lavora al computer non può che annoiarsi mortalmente, avendo a che fare
con una macchina del tutto incomprensibile. Una 914, invece, ha evidenti
caratteristiche animali: dev’essere nutrita e curata a dovere; fa paura, ma la
si può addomesticare; va soggetta a imprevedibili attacchi di indocilità e, in
generale, ripaga chi la usa con la stessa moneta. «All’inizio mi metteva
ansia, – mi ha confidato l’impiegata che ho visto all’opera. – I tizi della
Xerox dicono: “Se ne hai paura non funziona”, e secondo me hanno
ragione. È una brava macchina, in fondo: adesso mi piace».
Da svariati colloqui con alcuni di loro, ho scoperto che i venditori della
Xerox sono continuamente alla ricerca di nuovi impieghi per le copiatrici,
anche se spesso gli tocca ammettere che c’è gente molto piú avanti di loro.
La xerografia, per strano che possa sembrare, aiuta le giovani spose a
ottenere i regali di nozze che desiderano. Funziona cosí: la fanciulla si reca
in un grande magazzino e prepara un elenco dei doni che preferisce; il
magazzino lo inoltra all’apposito bancone delle liste di matrimonio,
convenientemente fornito di copiatrice Xerox; amici e parenti della sposa,
informati con sollecitudine, si presentano al bancone e ritirano una copia
della lista, fanno gli acquisti che credono piú opportuni e restituiscono il
foglio, non prima di aver cancellato dalla lista ciò che hanno deciso di
donare, affinché un nuovo elenco, debitamente aggiornato, possa essere
fornito al donatore successivo («Imene, Imene, ancora Imene!» 3). Negli
uffici di polizia di New Orleans e altre città, non si usa piú battere a
macchina i farraginosi elenchi degli effetti personali sequestrati a chi
trascorre la notte in camera di sicurezza: ora gli stessi oggetti (portafoglio,
orologio, chiavi e cosí via) vengono adagiati sul vetro di una Xerox 914, e
in pochi secondi si ottiene una sorta di elenco pittografico, facilmente
utilizzabile come ricevuta. Gli ospedali, poi, ricorrono alla xerografia per
copiare elettrocardiogrammi e referti di laboratorio, mentre le società di
intermediazione mobiliare la usano per far circolare piú rapidamente i loro
consigli alla clientela. In effetti, chiunque abbia una qualsiasi idea che può
trarre beneficio dalla duplicazione non deve far altro che entrare in una
delle molte tabaccherie o cartolerie che possiedono una copiatrice a moneta
e sbizzarrirsi come meglio crede. (È interessante notare che le Xerox 914 a
moneta vengono prodotte in due differenti versioni, che funzionano
rispettivamente con 10 o 25 centesimi: spetta all’acquirente o al
noleggiatore della macchina decidere quanto far pagare ogni copia).
Copiando si possono commettere illeciti, talvolta anche gravi, e il caso
piú ovvio è l’eccesso di duplicazione. Da malattia tipica dei burocrati, la
propensione a fare piú copie del necessario – due o piú quando ne basta
una, oppure una quando sarebbe meglio non farne nessuna – sembra oggi
aver contagiato altri ambiti. La frase rituale «in triplice copia», un tempo
sintomo di questa impiegatizia propensione allo spreco, è ormai un
understatement. Il tasto che aspetta solo di essere pigiato, l’alacre ronzio
degli ingranaggi, la nitida copia che si deposita nel vassoio sono i momenti
chiave di un’esperienza esaltante che spinge ogni impiegato, specie se
novizio, a duplicare tutti i foglietti di carta che si trova in tasca. E la
copiatrice è come una droga: basta provarla una volta. Forse il maggiore
pericolo di quest’assuefazione non sta nell’accumularsi di inutili scartoffie
o nella possibile perdita dei pochi materiali importanti, che finiscono
sommersi da un mare di cartacce, quanto piuttosto nell’insidioso dilagare di
un atteggiamento negativo verso gli originali: la sensazione che nulla sia
davvero importante a meno che venga copiato, o sia una copia di qualcosa.
Ma la xerografia comporta anche un problema piú immediato, e cioè
l’incontenibile tentazione di violare le leggi sul diritto d’autore. Quasi tutte
le grandi biblioteche pubbliche e universitarie – e da qualche tempo anche
molte biblioteche di scuole superiori – sono dotate di macchine copiatrici:
quando serve loro qualche pagina di un libro di poesie, di un’antologia di
racconti o di un certo articolo uscito su una rivista accademica, insegnanti e
studenti vanno semplicemente a prenderselo dagli scaffali, lo portano
nell’apposito ufficio e si fanno fare il numero di copie necessarie. Ne
consegue, ovviamente, che l’autore e l’editore di quegli scritti vengono
privati di un legittimo introito. Gli archivi non conservano traccia di queste
violazioni, poiché autori ed editori raramente intentano causa; e gli stessi
colpevoli, a volte, non sanno di aver violato una legge. Alcuni anni fa un
comitato di educatori inviò agli insegnanti di tutta la nazione una circolare
che elencava chiaramente i casi in cui era consentito o vietato riprodurre
materiali protetti da copyright: la conseguenza pressoché istantanea fu un
notevole incremento delle richieste di autorizzazione, il che dimostra che le
norme sul diritto d’autore erano con tutta probabilità state violate molte
volte, per quanto inconsapevolmente. E di certo non mancano gli indizi
sulla gravità della situazione complessiva: nel 1965, per esempio, un
dipendente della facoltà di Biblioteconomia dell’università del New Mexico
ha dichiarato che le biblioteche spendono il 90 per cento del loro bilancio
per gli stipendi, le bollette del telefono, le spese di copiatura e di
trasmissione in facsimile, mentre solo il 10 per cento – una sorta di
contentino – viene investito nell’acquisto di libri e periodici.
In una certa misura, sono le stesse biblioteche a vigilare sul fenomeno.
L’ufficio reprografico presso la sede centrale della New York Public
Library, che ogni settimana evade circa millecinquecento richieste di
duplicazione dei materiali in suo possesso, informa la clientela che «la
riproduzione dei materiali protetti da diritto d’autore è limitata a un “equo
utilizzo”», ovvero alla quantità e al tipo di copie che, in base ai precedenti
legali, non costituiscono violazione della normativa. «Il richiedente, –
specificano inoltre i responsabili della biblioteca, – si assume ogni
eventuale responsabilità connessa alla duplicazione dei materiali e all’uso
delle copie ottenute». Di fatto, nella prima parte dell’avviso la biblioteca
sembra assumersi una quota di responsabilità, mentre nella seconda parte la
respinge: l’ambivalenza è forse indizio di un malessere ampiamente diffuso
tra gli utilizzatori delle macchine copiatrici collocate nelle nostre
biblioteche. In altre sedi, però, ogni traccia di scrupolo si dilegua. Certi
uomini d’affari, di norma assai coscienziosi nell’osservanza delle leggi,
sembrano considerare le violazioni del diritto d’autore un gesto di gravità
paragonabile all’attraversare la strada senza badare al traffico. Uno scrittore
di mia conoscenza, invitato a un seminario di grandi e nobili capitani
d’industria, scoprí con meraviglia che un intero capitolo del suo ultimo
libro era stato copiato e distribuito ai partecipanti a mo’ di spunto per la
discussione. Alle sue vivaci proteste, gli industriali risposero con altrettanta
sorpresa e una certa dose di risentimento: credevano che l’autore sarebbe
stato lusingato da tanta attenzione verso il suo lavoro. A ben vedere, però,
la loro ammirazione somigliava molto a quella del ladro che, in segno di
apprezzamento per un bel gioiello, lo strappa di dosso alla signora che lo
sfoggia.
Secondo alcuni commentatori, quella a cui abbiamo assistito finora è
soltanto la prima fase di una specie di rivoluzione nel campo della grafica.
«La xerografia sta seminando il terrore nel mondo dell’editoria, perché
grazie a essa ogni lettore ha la possibilità di diventare autore e editore, –
scriveva nella primavera del 1966 il saggio canadese Marshall McLuhan in
un articolo pubblicato sulla rivista “The American Scholar”. – Scrittura e
lettura possono, grazie alla xerografia, trasformarsi in attività orientate alla
produzione […] La xerografia è l’elettricità che invade il mondo della
tipografia, rivoluzionando del tutto quest’antiquata attività». Anche tenendo
conto dell’imprevedibile vitalità di McLuhan («Io cambio idea tutti i
giorni», diceva), non c’è dubbio che questa volta abbia centrato il bersaglio.
Vari articoli di riviste hanno annunciato niente di meno che l’imminente
scomparsa del libro quale ora lo conosciamo, e immaginato la biblioteca del
futuro come una sorta di mostruoso computer in grado di conservare e
rendere disponibile il contenuto dei libri grazie all’elettronica e alla
xerografia. I «libri» di quest’immaginaria biblioteca non sarebbero altro che
minuscoli frammenti di nastro magnetico per calcolatori: vere e proprie
«edizioni a tiratura unica». Tutti gli autori concordano nel sostenere che un
futuro del genere sia ancora molto lontano. (Non tanto, però, da escludere
una cauta reazione da parte di alcuni editori previdenti. Già dagli ultimi
mesi del 1966 l’arcinota formula «Tutti i diritti riservati» riportata sul
colophon dei volumi editi da Harcourt, Brace & World è stata rimpiazzata
dalla piú sinistra dicitura «Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa
pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e con
qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni
o qualsiasi altro sistema di archiviazione e recupero delle informazioni».
Altri editori si sono poi affrettati a seguire l’esempio). Verso la fine degli
anni Sessanta, uno dei tentativi piú riusciti di realizzare quella specie di
biblioteca futuribile fu fatto proprio da un’azienda sussidiaria della Xerox,
la University Microfilms, che possedeva la tecnologia necessaria per
ingrandire le copie microfilmate dei libri fuori catalogo e stamparle sotto
forma di gradevoli e leggibilissimi volumi rilegati in brossura, al costo, per
l’acquirente, di 4 centesimi a pagina; qualora il libro fosse ancora stato
protetto dal diritto d’autore, la ditta versava a chi di dovere le royalty su
ogni esemplare cosí stampato. Ciò nonostante, l’epoca in cui chiunque può
farsi da sé una copia personale di qualsiasi libro, pagandola meno del suo
prezzo di mercato, non è affatto lontana; anzi, è già arrivata. L’editore
dilettante non deve far altro che procurarsi una macchina Xerox e una
piccola stampatrice offset. Tra i pregi piú misconosciuti ma non per questo
secondari della xerografia vi è la possibilità di utilizzarla per produrre copie
master per le stampatrici offset, molto piú in fretta e a un costo molto
minore rispetto al passato. Secondo Irwin Karp, legale della Authors
League of America, nel 1967 questa combinazione di tecnologie permetteva
di «pubblicare» in una manciata di minuti, senza alcuna difficoltà,
un’edizione in 50 copie di qualsiasi volume, al costo di circa 0,8 centesimi a
pagina, piú la rilegatura; se il numero di copie era maggiore, il prezzo
diminuiva in proporzione. Qualora fosse stato disposto a ignorare le norme
sul diritto d’autore, un insegnante deciso a far circolare tra i suoi 50 studenti
il contenuto di un libro di poesie di 64 pagine, con un prezzo di copertina
«ufficiale» di 3,75 dollari, avrebbe dunque potuto raggiungere il suo scopo
a un costo di poco superiore ai 50 centesimi a copia.
Il pericolo insito nella nuova tecnologia, replicano autori e editori, sta
nel fatto che sbarazzandosi del libro potrebbe sbarazzarsi anche di loro, e
quindi di tutto il complesso delle attività legate alla scrittura. Herbert S.
Bailey Jr, direttore della Princeton University Press, ha raccontato sulla
«Saturday Review» il caso di un suo amico studioso che ha disdetto tutti gli
abbonamenti alle riviste scientifiche: ora va a consultarle presso la
biblioteca pubblica, scorre gli indici e fotocopia gli articoli che gli
interessano. Il commento di Bailey era: «Se tutti gli studiosi adottassero
[questo] metodo, le riviste scientifiche cesserebbero di esistere». Intorno
alla metà degli anni Sessanta il Congresso degli Stati Uniti ha cominciato a
riflettere su una possibile riforma delle norme sul diritto d’autore, rimaste
inalterate dal lontano 1909. Durante le udienze il portavoce di un comitato
della National Education Association e i rappresentanti di altre associazioni
di educatori hanno sostenuto con fermezza che per garantire un’istruzione
al passo con la crescita del Paese era indispensabile liberalizzare l’attuale
legge sul copyright e la dottrina dell’equo utilizzo, limitatamente agli usi
didattici e scientifici. Com’era prevedibile, autori e editori si sono dichiarati
contrari, sostenendo che qualsiasi estensione degli attuali diritti li
priverebbe di una parte dei loro mezzi di sostentamento, e che in un futuro
xerografico ancora inesplorato, le dimensioni di quella parte potrebbero
crescere a dismisura. Dal loro punto di vista, la legge approvata nel 1967
dalla Commissione di giudizio della Camera dei rappresentanti è un fatto
positivo, poiché convalida esplicitamente la dottrina dell’equo utilizzo
senza alcuna esenzione per le copie a scopo didattico. Negli ultimi mesi del
1968, l’esito finale della lotta sembrava ancora incerto. McLuhan, per parte
sua, era convinto (o quanto meno ne era convinto il giorno in cui scrisse
l’articolo per «The American Scholar») che ogni tentativo di salvaguardare
le vecchie forme di protezione dell’autore fosse un progetto di retroguardia
destinato al fallimento. «Solo la tecnologia può proteggerci dalla
tecnologia, – afferma nel suo saggio. – Quando si crea un nuovo ambiente
grazie a un certo stadio di tecnologia, bisognerà creare un controambiente
con lo stadio successivo». Ma di solito gli autori non sono molto portati alla
tecnologia, e non crescono rigogliosi nei controambienti.
Nel maneggiare il vaso di Pandora scoperchiato dalle macchine di sua
produzione, la Xerox sembra tutto sommato aver tenuto fede agli ambiziosi
ideali proclamati da Joseph C. Wilson. Pur avendo un ovvio interesse a
incentivare – o quanto meno a non disincentivare – la copiatura di qualsiasi
materiale leggibile, l’azienda fa sforzi concreti per informare gli utenti delle
loro responsabilità legali; le nuove macchine, per esempio, escono dagli
stabilimenti corredate di un cartoncino sul quale è riportata una lunga lista
di cose che non possono essere fotocopiate: tra queste vi sono banconote,
titoli di Stato, francobolli, passaporti e «tutti i materiali soggetti a copyright,
qualora il titolare dei diritti non abbia esplicitamente autorizzato la copia».
(Non è dato sapere quanti di quei cartoncini finiscano dritti nella
spazzatura, ma questa, si sa, è un’altra faccenda). Per di piú, trovandosi
proprio nel mezzo dell’accesa disputa tra favorevoli e contrari alla riforma
della legge sul diritto d’autore, la Xerox ha resistito alla tentazione di
starsene modestamente dietro le quinte a raccogliere i profitti, dimostrando
invece un encomiabile senso di responsabilità sociale almeno nei confronti
di autori e editori. Le altre aziende del settore duplicazione, viceversa,
hanno preferito restare neutrali o si sono schierate dalla parte dei docenti.
Nel 1963, durante un simposio sulla riforma della legge sul copyright, un
portavoce del settore ha avuto l’ardire di dichiarare che la copiatura
meccanica di documenti per finalità di studio non sarebbe altro che una
variante piú comoda della copiatura a mano, perfettamente lecita da che
mondo è mondo. La Xerox no, non ha mai detto niente di simile. Al
contrario, in un’istanza presentata nel settembre del 1965 alla Commissione
di giudizio della Camera dei rappresentanti, Wilson si è dichiarato
fermamente ostile a una riforma della legge che escluda le copie
xerografiche dal pagamento dei diritti d’autore. Prima di restare sconcertati
di fronte a una presa di posizione tanto donchisciottesca occorrerebbe
ricordare che la Xerox, in quanto proprietaria della American Education
Publications e della University Microfilms, è anche una casa editrice: di
fatto, è una delle principali aziende del settore. Gli editori tradizionali, a
quanto mi risulta, sono un po’ disorientati da questa colossale presenza
aliena che, pur minacciando dall’esterno il loro mondo, ne è al tempo stesso
un energico e competitivo abitante.

Dopo aver osservato da vicino alcune macchine Xerox e meditato per


qualche tempo sulle conseguenze sociali del loro uso, sono andato a
Rochester per conoscere di persona l’azienda e farmi un’idea di come i suoi
membri affrontassero i dilemmi materiali e morali che la tormentavano. In
quel momento sembrava che ad avere il sopravvento fossero soprattutto i
problemi concreti, non essendo passato molto tempo dalla tragica settimana
in cui il titolo Xerox aveva perso 42 punti e mezz0. Durante il viaggio in
aereo avevo sfogliato una copia dell’ultimo documento informativo e mi
ero divertito a calcolare le perdite subite da alcuni dirigenti in quella brutta
settimana di ottobre, sempre ammesso che i loro portafogli azionari fossero
rimasti inalterati. Il presidente Wilson, per esempio, risultando titolare di
154 026 azioni ordinarie, aveva ipoteticamente sostenuto perdite per 6 546
105 dollari. Linowitz, detentore di 35 166 quote, aveva visto andare in fumo
1 494 555 dollari. Il dottor John H. Dessauer, vicepresidente esecutivo
responsabile della ricerca e sviluppo, nonché intestatario di 73 845 quote,
aveva perduto 3 138 412 dollari e 50 centesimi. Somme tutt’altro che
trascurabili, persino per dei dirigenti della Xerox. Chissà che aria tirava da
quelle parti. Sarei forse stato accolto da facce funebri, o quanto meno
segnate dai postumi dello shock?
All’epoca della mia visita gli uffici direzionali della Xerox erano
insediati ai piani alti della Midtown Tower di Rochester, la stessa che
ospitava al pianterreno il centro commerciale Midtown Plaza. (Qualche
mese piú tardi l’azienda avrebbe trasferito il proprio quartier generale sul
lato opposto della strada, nel nuovo complesso della Xerox Square: un
grattacielo di trenta piani per gli uffici, piú un auditorium in parte pubblico
e in parte destinato a scopi aziendali, piú una pista sotterranea di pattinaggio
sul ghiaccio). Prima di salire agli uffici della Xerox decisi di fare un giro
nel centro commerciale: ci trovai negozi di ogni tipo, una caffetteria,
chioschi di vario genere, fontane, alberi e panchine che – a dispetto
dell’apparente opulenza e dell’atmosfera insopportabilmente stucchevole
creata dalla musica sdolcinata della filodiffusione – ospitavano un discreto
numero di barboni, proprio come le loro omologhe dei centri commerciali
all’aperto. Gli alberi avevano un’aria malaticcia per via della poca luce e
dell’aria condizionata; i barboni, in compenso, stavano benone. Dopo un
po’ presi l’ascensore e andai a conoscere il funzionario della Xerox addetto
alle pubbliche relazioni, al quale chiesi immediatamente come la società
avesse reagito al crollo delle quotazioni in borsa. «Oh, qui nessuno lo
prende troppo sul serio, – mi rispose. – Nei circoli del golf se ne parla a
cuor leggero: magari c’è qualcuno che dice a un amico: “Stavolta paghi tu
da bere: ieri ho perso altri 80 dollari con le Xerox”. Joe Wilson, a dire il
vero, ci è rimasto un po’ di stucco quando hanno sospeso il titolo, ma per il
resto l’ha presa abbastanza bene. L’altro giorno, quando le quotazioni erano
bassissime, l’ho visto a una festa, attorniato da gente che gli chiedeva cosa
stesse succedendo, e l’ho sentito rispondere: “Be’, sapete, certe occasioni
non capitano due volte”. Qui negli uffici, poi, non se ne parla quasi mai».
Finché rimasi nella sede della Xerox, in effetti, nemmeno io ne sentii
parlare quasi mai, e alla fine si è scoperto che tanta freddezza era
giustificata: recuperate tutte le perdite in poco piú di trenta giorni, qualche
mese piú tardi il titolo stava di nuovo viaggiando a livelli da record.
Trascorsi il resto di quella mattinata a colloquio con tre responsabili del
settore tecnico-scientifico della Xerox, ad ascoltare i loro resoconti
nostalgici sui primordi della xerografia. Il primo era il dottor Dessauer,
quello che la settimana precedente aveva perso 3 milioni di dollari.
Nonostante tutto mi parve assai tranquillo – cosa prevedibile, del resto,
considerato che il suo portafoglio di azioni Xerox valeva pur sempre 9,5
milioni di dollari. (E di lí a qualche settimana sarebbe arrivato a sfiorare i
20 milioni). Il dottor Dessauer è nato in Germania ed è un veterano
dell’azienda: dal 1938 è responsabile del reparto ricerche, e per un breve
periodo ha anche ricoperto la carica di vicepresidente del consiglio di
amministrazione. È stato lui il primo a sottoporre all’attenzione di Joseph
Wilson, dopo averne letto su una rivista tecnica, il procedimento inventato
da Carlson. Quando entrai nella sua stanza vidi appeso a una parete un
biglietto d’auguri in cui il personale dell’ufficio si rivolgeva a lui
chiamandolo «Grande stregone»: in effetti, nella parlata di quell’uomo
sorridente e giovanile c’era un vago accento straniero che, all’occorrenza,
sarebbe tornato utile per superare l’esame di stregoneria.
«Vuole che le racconti dei vecchi tempi, eh? – mi chiese il dottor
Dessauer. – Be’, è stato davvero emozionante. Un periodo meraviglioso, ma
anche terribile: a volte mi sembrava letteralmente di impazzire. Il problema
principale erano i soldi. Non che avessimo i conti in rosso, per fortuna, ma
non avevamo margini sufficienti, e cosí i membri della nostra squadra
hanno scommesso tutto quel che avevano sul progetto. Io ho persino
ipotecato la casa: non mi restava piú nulla, a parte un’assicurazione sulla
vita. Stavo rischiando l’osso del collo. Se fosse andata male io e Wilson ci
saremmo giocati il futuro da imprenditori; quanto a me, sarei stato
doppiamente spacciato: come imprenditore e anche come tecnico. Nessuno
mi avrebbe piú dato uno straccio di lavoro. Avrei dovuto rinunciare alla
scienza e mettermi a vendere assicurazioni o roba del genere». Il dottor
Dessauer alzò gli occhi al soffitto in un moto di ansia retrospettiva, poi
seguitò: «In quei primi anni non eravamo granché ottimisti. Diverse persone
del mio gruppo venivano da me a lamentarsi che quegli accidenti di
macchine non funzionavano mai. Il rischio maggiore era che il caricamento
elettrostatico non fosse possibile negli ambienti troppo umidi. Quasi tutti gli
esperti lo davano per certo. “Sarà impossibile fare copie a New Orleans”,
dicevano. E se anche avesse funzionato, quelli del marketing parlavano di
un mercato potenziale di qualche migliaio di macchine, niente di piú.
Alcuni consulenti ci avevano persino detto che andare avanti era una follia.
Come ben sa, alla fine tutto si è risolto: la 914 funziona anche a New
Orleans, e il mercato è molto piú vasto. A quel punto abbiamo deciso di
produrre il modello da tavolo, la 813. Ho di nuovo rischiato l’osso del collo:
mi sono impuntato su un design che secondo alcuni esperti non era
abbastanza solido».
Allora ho chiesto al dottor Dessauer se in quel momento stesse
rischiando il collo su qualche nuovo progetto di ricerca e, in caso
affermativo, se il traguardo a cui puntavano sarebbe stato innovativo quanto
la xerografia. «Sí a entrambe le domande, – ha risposto. – Ma non posso
dirle nient’altro: è strettamente confidenziale».
La persona con cui ho parlato dopo, il dottor Harold E. Clark, era stata
responsabile del programma xerografia sotto la supervisione del dottor
Dessauer. Con i suoi modi un po’ professorali (in effetti è stato insegnante
di fisica, prima di entrare alla Haloid nel 1949), Clark mi ha raccontato
come l’idea di Carlson sia stata addomesticata e coltivata fino a
trasformarla in un prodotto commerciale. «Chet Carlson era un tipo
morfologico», mi ha detto. Vedendo il mio sguardo inespressivo, ha
aggiunto subito dopo, ridacchiando: «Non che io sappia davvero cosa
significa morfologico. Immagino voglia dire che era capace di mettere
insieme due cose diverse e crearne una nuova. Comunque Chet era proprio
cosí. In pratica, all’origine della xerografia non c’era nessuna ricerca di
base: è stato Chet a mettere insieme un’accozzaglia di fenomeni di per sé
abbastanza oscuri e che nessuno, prima di lui, aveva mai pensato di
collegare. Cosí è nata la piú grande scoperta nel campo dell’immagine dopo
l’invenzione della fotografia. Completamente al di fuori del clima
scientifico del momento, per giunta. Lei sa bene che la storia della scienza è
piena di scoperte simultanee, ma nel caso di Chet non è andata cosí: dietro
di lui non c’era proprio nessuno. La sua scoperta mi meraviglia ancora,
come la prima volta che ne ho sentito parlare. Un’invenzione magnifica.
Solo che non c’era verso di convertirla in prodotto».
Dopo un’altra risatina, il dottor Clark mi spiegò che la vera svolta si era
compiuta nei laboratori del Battelle Memorial Institute e che, come capita
molto spesso in ambito scientifico, ci si era arrivati piú o meno per caso. Il
problema principale era che dopo un esiguo numero di copie la lastra
fotoconduttiva utilizzata da Carlson perdeva le sue qualità e diventava
inservibile. Obbedendo a un impulso non supportato da alcuna teoria
scientifica, i ricercatori del Battelle Institute provarono ad aggiungere allo
strato di zolfo che ricopriva la lastra fotoconduttiva una piccola quantità di
selenio, un elemento non metallico utilizzato in precedenza nelle resistenze
elettriche e come colorante per il vetro. La lastra allo zolfo e selenio
funzionava meglio di quella ricoperta soltanto di zolfo; allora i ricercatori
del Battelle provarono ad aggiungere un altro po’ di selenio, e videro che le
cose andavano ancora meglio. A furia di aggiunte successive, si arrivò a
sperimentare una lastra interamente ricoperta di selenio, senza piú traccia di
zolfo. E quando si vide che funzionava meglio di tutte le altre si capí che
per rendere fattibile la xerografia ci voleva proprio il selenio.
«Pensi un po’, – mi disse il dottor Clark, assumendo a sua volta
un’espressione pensosa. – Del semplice, comunissimo selenio: uno dei
cento e piú elementi della tavola periodica. Eppure era la chiave che
cercavamo. Una volta dimostrata la sua efficacia il progetto ha superato il
punto critico, anche se in quel momento non ce ne rendevamo conto. I
brevetti per l’uso del selenio nella xerografia ce li abbiamo ancora: in un
certo senso, è come se avessimo brevettato un pezzo della tavola di
Mendeleev. Mica male, eh? E pensi che nemmeno adesso sappiamo bene
come funziona. Per esempio, non riusciamo a spiegarci né l’assenza di
effetto memoria – cioè il fatto che le copie precedenti non lascino alcuna
traccia sul rullo al selenio – né il fatto che, in teoria, possa durare
all’infinito. In laboratorio abbiamo scoperto che un rullo al selenio tollera
un milione di processi di copiatura, dopodiché si consuma, e va’ a capire
perché. Nella storia della xerografia c’è molto di empirico, vede? Siamo
scienziati, non dilettanti, ma in questo caso abbiamo trovato il giusto
compromesso tra scienza e dilettantismo».
L’ultima persona con cui parlai quel giorno fu Horace W. Becker, il
talentuoso ingegnere di Brooklyn a cui va il merito di aver condotto la 914
dalla fase del prototipo funzionante a quella della produzione in serie.
Dando prova di una certa eloquenza nel rievocare i momenti di tensione,
Becker ripercorse con me le tappe di quel cammino emozionante e irto di
ostacoli. Era entrato alla Haloid Xerox nel 1958, e all’epoca il suo
laboratorio occupava il solaio di un capannone; al piano inferiore si
confezionavano semi da giardino, ma il problema era di sopra, nella
copertura del tetto: nelle giornate calde il catrame si scioglieva e colava a
gocce dentro il laboratorio, imbrattando ingegneri e macchinari. E cosí
all’inizio del 1960 la 914 era diventata grande in un altro laboratorio, in
Orchard Street. «Anche quello era un vecchio magazzino un po’ cadente,
con un ascensore scassato e la vista su un raccordo ferroviario dal quale
transitavano treni merci carichi di maiali, – racconta Becker, – ma almeno
avevamo lo spazio che ci serviva, e il tetto non sgocciolava catrame. Fu lí
che, finalmente, ci buttammo a capofitto nel progetto. Non mi chieda i
particolari: so solo che a un certo punto decidemmo che era ora di costruire
una linea di montaggio e ci mettemmo all’opera. Eravamo tutti su di giri. I
sindacalisti accantonarono le vertenze, i capi lasciarono perdere gli indici di
produttività. In ogni caso, là dentro sarebbe stato difficile distinguere un
ingegnere da un operaio. Nessuno riusciva a starne lontano: persino la
domenica, quando la linea era ferma, facevi un salto in laboratorio e ci
trovavi sempre qualcuno che armeggiava qui, dava una ritoccatina là, o
semplicemente contemplava i risultati del nostro lavoro. Insomma, la 914
era vicina al traguardo, finalmente».
Ma fu allora, quando la macchina uscí dalla fabbrica per raggiungere
rivenditori e clienti, che per Becker cominciarono i guai veri. Perché adesso
qualunque difetto di funzionamento e di progettazione era considerato colpa
sua, e quando si trattava di collezionare brutte figure sotto gli occhi di tutti
la 914 era degna rivale della Edsel. I relè piú complicati si rifiutavano di
funzionare, le molle si rompevano, gli alimentatori alzavano bandiera
bianca, gli utenti inesperti facevano cadere dentro la macchina graffette e
clip che bloccavano gli ingranaggi (tanto da rendere necessaria
l’installazione di un filtro acchiappagraffette), e oltre alle previste difficoltà
di funzionamento nei climi umidi se ne manifestavano altre, inaspettate, alle
alte temperature. «In poche parole, – dice Becker, – a quei tempi le
macchine avevano una brutta abitudine: tu premevi il tasto, e loro non
facevano niente». E se per caso facevano qualcosa, non era la cosa giusta.
Alla prima presentazione in grande stile che si tenne a Londra, per esempio,
Wilson in persona avrebbe dovuto fare il gesto cerimoniale di posare
l’indice sul pulsante di avvio; e quando lo fece, non soltanto la macchina
non copiò nulla, ma il gigantesco generatore che forniva la corrente si
fulminò. Questo fu dunque il debutto della xerografia in Gran Bretagna: e
considerata la natura di quell’esordio, il fatto che la Gran Bretagna sia in
seguito diventata la piú grande acquirente straniera delle Xerox 914 la dice
lunga tanto sulle capacità di rimonta della Xerox, quanto sulla pazienza dei
britannici.
Quel pomeriggio, dopo le interviste, un incaricato della Xerox mi
accompagnò in auto fino a Webster, cittadina rurale sulle rive dell’Ontario a
pochi chilometri da Rochester, per mostrarmi l’incongruo erede dei
sottotetti sgocciolanti descritti da Becker: un enorme e modernissimo
complesso di edifici industriali, uno dei quali (centomila metri quadrati di
superficie) era destinato all’assemblaggio di tutte le copiatrici della Xerox a
eccezione di quelle prodotte dalle affiliate inglesi e giapponesi, mentre un
secondo (leggermente piú piccolo, ma piú elegante) ospitava le attività di
ricerca e sviluppo. Mentre costeggiavamo una ronzante linea di produzione,
la mia guida mi spiegò che gli impianti sono attivi per sedici ore al giorno,
suddivise in due turni, che tutte le catene produttive compresa quella erano
da anni in costante ritardo sulla domanda, e che in quell’edificio lavoravano
quasi duemila persone, la cui tutela sindacale era affidata a un ramo locale
della Amalgamated Clothing Workers of America: anomalia dovuta al fatto
che in precedenza Rochester era stata un centro produttivo del settore
abbigliamento, e quell’associazione era tuttora la piú forte della zona.
Ricondotto a Rochester dalla guida, mi misi in cammino da solo con
l’intenzione di sondare le opinioni della comunità locale riguardo alla
Xerox e al suo successo. Constatai che erano ambivalenti. «La Xerox ha
fatto del bene a Rochester, – mi disse un uomo d’affari della zona. – Certo,
la Eastman Kodak è stata per anni il nostro Grande Padre Bianco, ed è
tuttora la piú grande azienda della zona, ma la Xerox è buona seconda e sta
crescendo in fretta. Dover affrontare una sfida di questo genere non fa
affatto male alla Kodak: anzi, è molto positivo. E poi la presenza di
un’azienda giovane e di grande successo vuol dire denaro fresco e nuovi
posti di lavoro. D’altronde, c’è anche gente che non gradisce la presenza
della Xerox. In questa zona ci sono molte industrie nate nell’Ottocento, i
cui proprietari non sono sempre disposti ad accogliere a braccia aperte i
nuovi venuti. Quando le sorti della Xerox erano in piena ascesa, alcuni
pensavano che prima o poi la bolla sarebbe scoppiata – no, anzi, speravano
che scoppiasse. Per giunta, qualcuno è un po’ seccato per il modo in cui Joe
Wilson e Sol Linowitz parlano sempre di valori umani e intanto fanno soldi
a palate. Ma si sa… è il prezzo del successo».
Andai poi alla sede dell’università di Rochester, alta sulle rive del fiume
Genesee, a fare una chiacchierata con il presidente del consiglio di
amministrazione dell’ateneo, W. Allen Wallis: un uomo alto e rosso di
capelli che dopo la laurea in Statistica ha accumulato una lunga esperienza
nei consigli direttivi di svariate aziende della zona, compresa la Eastman
Kodak. L’università di Rochester ha un lungo debito di gratitudine verso la
Eastman (che è sempre stata il Babbo Natale dell’ateneo e ne è tuttora la
principale benefattrice), ma ha molte solide ragioni per trattare con cortesia
anche la Xerox. Per prima cosa l’ateneo è un ottimo esempio di investitore
diventato multimilionario grazie alla Xerox: le sue plusvalenze di borsa
ammontano a circa 100 milioni di dollari, a fronte di profitti ampiamente
superiori ai 10 milioni. In secondo luogo, la Xerox si presenta ogni anno
con donazioni in moneta sonante inferiori solo a quelle della Kodak, e di
recente ha contribuito con quasi 6 milioni di dollari alla campagna di
finanziamento dell’ateneo. Il terzo motivo è che Joe Wilson, anch’egli
laureato all’università di Rochester, faceva parte del consiglio di
amministrazione della sua alma mater già nel 1949 e ne è stato presidente
dal 1959 in avanti. «Prima di arrivare qui nel 1962, – mi disse il presidente
Wallis, – non immaginavo che le aziende private potessero donare alle
università somme generose come quelle che oggi riceviamo dalla Kodak e
dalla Xerox. E non ci chiedono nulla in cambio, fuorché di offrire servizi
educativi di ottima qualità: non pretendono che facciamo ricerche per conto
loro o cose del genere. Certo, ci sono molti scambi di consulenze informali
tra i nostri scienziati e i ricercatori della Xerox (e anche di altre aziende
come la Kodak, la Bausch & Lomb e cosí via) ma non è per questo che ci
sostengono. Vogliono che Rochester diventi un luogo capace di attirare
persone interessanti. L’università non ha mai inventato niente per la Xerox,
e penso che non lo farà mai».
Il mattino successivo mi ripresentai negli uffici direzionali dell’azienda
per incontrare tre personaggi di altissimo rango, compreso il presidente
Wilson in persona. Il mio primo appuntamento era con Sol Linowitz, il
legale che Wilson aveva «provvisoriamente» reclutato nel 1946, facendone
poi il suo fedele e inseparabile braccio destro. (Talmente inseparabile che,
quando la Xerox diventò famosa, il pubblico si fece l’idea che Linowitz
fosse l’amministratore delegato della società. Gli alti dirigenti della Xerox
erano al corrente di questo diffusissimo equivoco, ma non sapevano come
spiegarselo, dal momento che Wilson, presidente della Xerox fino al
maggio del 1966 e da allora in poi presidente del consiglio di
amministrazione, aveva sempre tenuto le redini dell’azienda). Posso dire di
averlo letteralmente preso al volo, giacché era stato appena nominato
ambasciatore degli Stati Uniti presso la Organization of American States ed
era sul punto di abbandonare Rochester e gli uffici della Xerox per
insediarsi nel nuovo incarico a Washington. Sol Linowitz è un cinquantenne
vigoroso che trasuda grinta, passione e sincerità: dopo essersi scusato per il
poco tempo che poteva dedicarmi, mi ha spiegato brevemente che il
successo della Xerox dimostra la solidità dei vecchi ideali della libertà
d’impresa, e che le qualità fondamentali dell’azienda sono l’idealismo, la
tenacia, il coraggio di rischiare e l’entusiasmo. Poi mi ha fatto un cenno di
saluto e se n’è andato di corsa. Io mi sono sentito un po’ come un elettore di
campagna dopo il passaggio di un convoglio elettorale, ma devo ammettere
che (cosa non rara in tali circostanze) l’emozione era stata forte. Linowitz
mi aveva dato l’impressione non soltanto di credere nelle poche,
banalissime parole che mi aveva rivolto, ma di essersele addirittura
inventate sul momento: in quel momento pensai che Wilson e la Xerox
avrebbero sentito la sua mancanza.
Trovai C. Peter McColough (subentrato a Wilson nella carica di
presidente quando quest’ultimo era andato a dirigere il consiglio di
amministrazione, e – come poi avvenne nel 1968 – principale candidato alla
sua successione) intento a misurare a grandi passi il suo ufficio: andava su e
giú come un animale in gabbia, salvo brevi soste per scarabocchiare
qualcosa o ringhiare due parole in un dittafono. Anche lui, come Linowitz,
è un avvocato di idee democratiche e progressiste, ma è nato in Canada: un
tipo allegro ed estroverso, che data la giovane età (poco piú di quarant’anni)
è spesso considerato l’antesignano di una nuova generazione di dirigenti
della Xerox, il timoniere che dovrà tracciare la rotta dell’azienda negli anni
a venire. «Mi trovo ad affrontare i problemi della crescita», mi disse dopo
aver interrotto la sua marcia per appollaiarsi con aria irrequieta sull’orlo di
una sedia. «La xerografia non offre possibilità di espansione su vasta scala,
– continuò. – È semplicemente impossibile, perché non c’è spazio
sufficiente: ecco perché la Xerox sta per imboccare la strada delle
tecnologie didattiche». Mi parlò di computer e di altri strumenti per la
formazione, e quando mi disse di sognare un sistema grazie al quale «si
scriveva una frase nel Connecticut e nell’arco di poche ore la si stampava e
distribuiva a tutte le classi del Paese» ebbi il presentimento che alcuni dei
sogni didattici della Xerox potessero trasformarsi in incubi. Ma poi
McColough aggiunse: «Le macchine geniali come questa hanno un
problema: distolgono l’attenzione dalle finalità educative. A che ti serve un
congegno meraviglioso, se non sai cosa metterci dentro?»
McColough mi confidò che da quando era entrato alla Haloid, nel 1954,
gli sembrava di aver lavorato in tre aziende diverse: fino al 1959 in una
piccola società alle prese con una sfida emozionante e rischiosa; dal 1959 al
1964 in un’azienda in espansione che mieteva i frutti del successo; ora,
infine, in un colosso sul punto di diramarsi in altre direzioni. Gli chiesi
quale delle tre preferisse, e lui ci pensò a lungo. «Non saprei, – mi disse alla
fine. – Una volta mi sentivo piú libero e mi sembrava che tutti, all’interno
dell’azienda, la pensassero allo stesso modo su questioni specifiche come i
rapporti con i sindacati. Ora non ho piú quella sensazione. Ci sono pressioni
maggiori, e l’azienda è diventata piú impersonale. Non credo che questo mi
semplifichi la vita, né che possa farlo in futuro».
Di tutte le cose sorprendenti che si potrebbero raccontare su Joseph C.
Wilson, pensai mentre ero condotto al suo cospetto, la tappezzeria a fiori
molto démodé che decora le pareti del suo ufficio è senz’altro una delle
prime. Chi avrebbe mai pensato che nell’uomo alla guida della Xerox
albergasse una vena sentimentale? Ma poi scoprii che quella carta da parati
cosí improbabile era in perfetta armonia con i modi accoglienti e niente
affatto minacciosi dell’uomo seduto alla scrivania: poco meno di
sessant’anni, minuto di corporatura, Wilson rimase serio per la maggior
parte della nostra conversazione, e mi parlò in tono lento, quasi esitante. Gli
domandai come fosse giunto alla decisione di tenere in piedi l’impresa di
famiglia, e lui mi rispose che in effetti non era stata una vera e propria
decisione. Il suo secondo ramo di specializzazione all’università era la
letteratura inglese, e tra le carriere che aveva preso in considerazione
c’erano sia l’insegnamento, sia un impiego all’università, magari nei
comparti finanziari o amministrativi. Ma dopo la laurea era andato alla
Harvard Business School e si era distinto tra i migliori, e cosí, in un modo o
nell’altro… Insomma, era entrato alla Haloid un anno dopo Harvard e, mi
disse aprendosi in un sorriso, era ancora lí.
I temi che Wilson sembrava piú interessato a toccare erano le attività non
lucrative della Xerox e le sue teorie sulla responsabilità imprenditoriale.
«C’è un certo risentimento nei nostri confronti riguardo a questo, – mi
disse. – Non soltanto da parte degli azionisti, che si lamentano del troppo
denaro dato in beneficenza: al contrario, forse quell’obiezione sta perdendo
vigore. Intendo soprattutto da parte della comunità. Nessuno lo dice
apertamente, ma a volte si ha la sensazione che la gente pensi: “Sono gli
ultimi arrivati, ma chi si credono di essere?”»
Gli domandai allora se la campagna epistolare contro la serie televisiva
dedicata alle Nazioni Unite avesse alimentato dubbi o timori tra le file
dell’azienda, e lui mi rispose: «In quanto organizzazione, non abbiamo mai
avuto un tentennamento. Salvo pochissimi casi, eravamo tutti convinti che
gli attacchi richiamassero l’attenzione proprio su ciò che volevamo
sottolineare: l’idea che la cooperazione mondiale è affar nostro, perché
senza di essa il mondo sarebbe già finito, e dunque sarebbe impossibile fare
affari con chiunque. In termini di politica aziendale, aver continuato a
finanziare la serie è stata una buona scelta. Ma non è stata soltanto una
scelta di politica aziendale. Se fossimo stati tutti iscritti alla John Birch
Society, per esempio, dubito fortemente che l’avremmo fatto».
Wilson aggiunse flemmatico: «Tutto sommato, il nostro impegno a
prendere posizione sulle grandi questioni di interesse pubblico ci costringe
a un costante lavoro di autoanalisi. Bisogna trovare un equilibrio. Non puoi
permetterti di essere apatico, altrimenti sprechi la tua autorevolezza. Ma
non puoi nemmeno esprimerti su ogni questione. Per esempio, non
crediamo che un’azienda debba pronunciarsi riguardo alle consultazioni
elettorali – e questa è una fortuna, credo, perché Sol Linowitz è
democratico e io sono repubblicano. Altre questioni, invece, come
l’istruzione universitaria, i diritti civili e il lavoro dei cittadini di colore
sono chiaramente affar nostro. Sarei contento se avessimo anche il coraggio
di essere impopolari, qualora ci sembrasse giusto esserlo. Per ora non è mai
capitato: non ci siamo mai trovati in una situazione di conflitto tra le nostre
responsabilità di cittadini e le esigenze di buon governo dell’azienda. Un
domani, però, potrebbe capitare. Potremmo trovarci sotto tiro. Per esempio
abbiamo già tentato, senza eccessivi strombazzi, di offrire ai giovani di
colore una formazione che permettesse loro di fare qualcos’altro oltre che
pulire i pavimenti e via dicendo. Una delle condizioni per avviare il
programma era il totale sostegno da parte del sindacato, e l’abbiamo
ottenuto. Ma la luna di miele è già finita: vedo già i primi, impercettibili
segnali. C’è una corrente sotterranea di dissenso. Siamo alle prese con una
situazione che, se dovesse amplificarsi, ci porrebbe un serio problema di
politica aziendale. Se gli obiettori, invece che poche decine, diventassero
poche centinaia, si potrebbe persino arrivare a uno sciopero: in tal caso, mi
auguro che i leader sindacali vorranno schierarsi a fianco dell’azienda, ma
non ne sono certo. Onestamente, non si può sapere in anticipo come ci si
comporterà in una situazione del genere. Anche se io credo di sapere che
cosa farei».
A quel punto Wilson si è alzato, e avvicinandosi a una finestra mi ha
detto che a suo parere l’azienda dovrebbe porre tra i suoi obiettivi primari,
oggi e anche (se non di piú) in futuro, la tutela delle qualità umane e
personali per cui è diventata famosa. «Vediamo già i primi segnali di un
impoverimento, – mi ha detto. – Cerchiamo di educare i nuovi venuti, ma
ventimila dipendenti in tutto l’emisfero occidentale sono ben altra cosa da
mille dipendenti a Rochester».
Ho raggiunto Wilson alla finestra e mi sono preparato a congedarmi da
lui. Era una mattina umida e buia, una delle tante per cui Rochester è
famosa: ho chiesto al mio interlocutore se, soprattutto in giornate cosí tetre,
non dubiti mai della possibilità di salvaguardare i vecchi valori. Lui ha
annuito brevemente e mi ha risposto: «È una battaglia senza fine: potremmo
vincerla, oppure no».

1
F. de La Rochefoucauld, Le massime e altri scritti, a cura di A. Devizzi, Mondadori, Milano
1950, p. 65 [N. d. T.].
2
J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 2004 [N. d.
T.].
3
E. Spenser, Amoretti e Epitalamio, a cura di L. Manini, Carocci, Roma 2005, p. 151 [N. d. T.].
2. Il fiasco della Edsel
Favoletta con morale

Genesi e fioritura.

Nel calendario della vita economica americana, il 1955 è ricordato come


l’Anno dell’automobile. In quei dodici mesi le fabbriche di auto statunitensi
vendettero oltre sette milioni di vetture, superando di un milione
abbondante i risultati migliori degli anni precedenti. In quegli stessi dodici
mesi la General Motors collocò presso il pubblico, senza il minimo sforzo,
nuove azioni ordinarie per 325 milioni di dollari, e tutto il mercato
azionario, guidato dal settore automobilistico, mise a segno un rialzo
talmente stratosferico che il Congresso pensò addirittura di svolgere
qualche indagine. Sempre nel 1955, la Ford Motor Company decise di
produrre una nuova auto appartenente a quella che all’epoca si chiamava in
modo bizzarro «fascia di prezzo medio», cioè tra i 2400 e i 4000 dollari: il
progetto avrebbe dovuto adeguarsi ai gusti dell’epoca, che privilegiavano le
vetture lunghe, larghe, basse, profusamente abbellite da cromature,
generosamente dotate degli accessori piú strani e di un motore che con
appena un briciolo di potenza in piú sarebbe bastato per mandarle in orbita.
Il nuovo modello, battezzato Edsel in onore del figlio del fondatore, fu
lanciato sul mercato due anni piú tardi, nel settembre del 1957, con un
clamore che non aveva pari da trent’anni a quella parte, dai tempi cioè del
glorioso Modello A. Il primo esemplare non era ancora stato messo in
vendita, e già la Ford annunciava di aver speso 250 milioni di dollari per il
progetto: secondo il parere del settimanale specializzato «Business Week»
(che nessuno si sognò di smentire) era stato il lancio piú costoso nell’intera
storia dei beni di consumo. In attesa di recuperare tutti i capitali investiti, la
Ford contava di vendere almeno duecentomila esemplari soltanto nel primo
anno.
Ci sarà forse, in qualche remota foresta pluviale, un aborigeno che
ancora non sappia come andò a finire? Due anni, due mesi e quindici giorni
dopo, la Ford aveva venduto 109 466 esemplari della Edsel, dei quali molte
centinaia (o forse migliaia) erano andati a dirigenti dell’azienda,
concessionari, venditori, pubblicitari, operai delle catene di montaggio, o
comunque a soggetti direttamente interessati all’affermazione del nuovo
modello. Sul totale delle auto passeggeri vendute negli Stati Uniti nello
stesso periodo, quelle 109 466 unità rappresentavano molto meno dell’uno
per cento: e cosí il 19 novembre del 1959, dopo aver totalizzato perdite
stimate (da fonti esterne) in circa 350 milioni di dollari, la Ford rinunciò
definitivamente a produrre la Edsel.
Come si era arrivati a un disastro del genere? Com’era possibile che
un’azienda ben fornita di denari, esperienza e (presumibilmente) cervelli
incappasse in un errore tanto colossale? Prima ancora della definitiva
rinuncia al progetto, alcuni dei piú loquaci commentatori del settore
avevano già avanzato un’ipotesi talmente semplice e ragionevole che, pur
non essendo l’unica, finí per essere considerata la piú attendibile. In
sostanza, dicevano, la Edsel era stata progettata, battezzata, pubblicizzata e
lanciata in pedestre ossequio ai sondaggi di opinione e alla loro piú giovane
cugina, la ricerca motivazionale; e quando il pubblico è corteggiato con
troppa premeditazione tende a rivolgersi altrove, accordando i suoi favori a
pretendenti magari un po’ scorbutici, ma animati da piú schietto interesse.
Parecchi anni or sono, nonostante la comprensibile reticenza della Ford
Motor Company (che, come tutti, non ama far mostra dei propri insuccessi),
decisi di indagare il piú a fondo possibile sulla disfatta della Edsel, e alla
luce delle informazioni raccolte posso ora dichiarare che la spiegazione che
ci è stata fornita non corrisponde interamente al vero.
Perché se anche si era deciso di pubblicizzare il nuovo modello di
automobile attenendosi strettamente alle preferenze espresse nei sondaggi,
alla fine la strategia complessiva aveva fatto qualche concessione ai vecchi
metodi da imbonitori, fondati piú sull’intuito che sulla scienza. E se anche
si era deciso di lasciarsi guidare dai sondaggi nella scelta del nome, alla
fine la scienza era stata messa da parte senza tanti complimenti e si era
accordata la preferenza al nome del padre del presidente, come se la Edsel
non fosse stata un’auto ma una marca ottocentesca di pasticche per la tosse
o crema per finimenti. Quanto al design della nuova vettura, non si era
nemmeno fatto finta di consultare i sondaggi, ma si era applicato il metodo
che da anni veniva utilizzato nella progettazione dei nuovi modelli: si era
cioè semplicemente fatto un collage delle proposte avanzate dai comitati
aziendali. A ben guardare, dunque, la spiegazione piú comune del fiasco
della Edsel risulta essere in gran parte un mito, nel senso colloquiale del
termine. I fatti che scandirono la vicenda, invece, potrebbero a buon diritto
acquisire la valenza leggendaria o simbolica di una moderna storia di
insuccesso americano.

Le origini della Edsel risalgono addirittura a sette anni prima della


decisione ufficiale: nell’autunno del 1948 Henry Ford II, il nipote
dell’omonimo capostipite che da un anno aveva sostituito il nonno nel ruolo
di presidente e capo indiscusso dell’azienda, propose al comitato esecutivo
(di cui Ernest R. Breech era vicepresidente) di commissionare degli studi
per l’eventuale introduzione sul mercato di una nuova auto di fascia media.
Gli studi vennero commissionati. Risultò che l’idea era buona. All’epoca
capitava spesso che i proprietari di vetture di bassa gamma, non appena
riuscivano a innalzare i loro redditi oltre l’asticella dei cinquemila dollari
l’anno, si sbarazzassero delle vecchie Ford, Plymouth o Chevrolet
improvvisamente diventate simboli di un’antica inferiorità di casta, e le
sostituissero con dei modelli di fascia media. Dal punto di vista della Ford
era un’ottima abitudine, non fosse stato che, per qualche misteriosa ragione,
i proprietari delle vetture piú economiche non passavano alla Mercury, cioè
all’unico marchio di media gamma della Ford, bensí alle altre famiglie di
vetture presenti sul mercato: soprattutto alle Oldsmobile, alle Buick o alle
Pontiac del gruppo General Motors, ma anche alle Dodge e alle DeSoto del
gruppo Chrysler. Secondo il commento amaro ma realistico dell’allora
vicepresidente Lewis D. Crusoe, in pratica la Ford «allevava clienti per la
General Motors».
Nel 1950, poi, lo scoppio della Guerra di Corea aveva impedito alla Ford
di portare a termine il progetto: introdurre un nuovo marchio in quel
momento era fuori questione, dunque non c’era altra scelta che continuare
ad allevare clienti per la concorrenza. Il comitato esecutivo della società
mise da parte gli studi di fattibilità, e per due anni non si fece piú nulla.
Verso la fine del 1952, però, la fine della guerra sembrava abbastanza
vicina, e la Ford riprese il filo del discorso: il cosiddetto comitato di
pianificazione produttiva avanzata si dedicò agli studi con rinnovata
energia, e trasmise gran parte del suo accurato lavoro alla divisione
Lincoln-Mercury coordinata da Richard Krafve (da pronunciare come
Kraffy) in veste di vicedirettore generale. Krafve era un quarantacinquenne
vigoroso e un po’ lunatico, originario del Minnesota, dove suo padre era
stato proprietario di un piccolo quotidiano locale; prima di essere assunto
alla Ford nel 1947 aveva lavorato come esperto di vendite e consulente di
gestione aziendale. E anche se all’epoca nessuno (lui compreso) lo
immaginava, la caratteristica espressione perplessa per la quale era noto tra
i colleghi aveva piú che una ragion d’essere. In quanto diretto responsabile
del progetto Edsel, Krafve avrebbe raggiunto di lí a poco una gloria
effimera, solo per ritrovarsi qualche tempo dopo al capezzale della sua
creatura: l’uomo aveva, in sostanza, un appuntamento con il destino.

Nel dicembre del 1954, dopo due anni di lavoro, il comitato di


pianificazione produttiva avanzata presentò al comitato esecutivo una
corposa monografia in sei volumi che esponeva i risultati della ricerca.
Supportato da una valanga di statistiche, il rapporto anticipava il prossimo
inizio di una sorta di Millennio americano. A partire dal 1965, sosteneva il
comitato, il prodotto interno lordo degli Stati Uniti avrebbe raggiunto la
stratosferica cifra di 535 miliardi di dollari annui, grazie a un incremento di
oltre 135 miliardi nell’arco di un decennio. (Va detto a onor di cronaca che
sotto questo aspetto il Millennio arrivò molto prima di quanto si
aspettavano i Pianificatori avanzati: il traguardo dei 535 miliardi fu
superato già nel 1962, e il Pil del 1965 risultò pari a 681 miliardi di dollari).
Nello stesso decennio, il parco delle auto in circolazione sarebbe aumentato
di 20 milioni di unità, raggiungendo i 70 milioni. Piú della metà delle
famiglie americane avrebbe avuto un reddito superiore ai cinquemila dollari
l’anno, e il mercato delle auto di fascia media o superiore avrebbe assorbito
oltre il 40 per cento delle vendite complessive. Il ritratto di quell’America
futura, presentato con gran dovizia di dettagli, andò dritto al cuore dei
dirigenti di Detroit: banche con i forzieri stracolmi di denaro, strade e
autostrade zeppe di enormi, luccicanti auto di media gamma, e schiere di
consumatori avviati sulla strada del benessere e desiderosi di dimostrarlo
con l’acquisto di una vettura adatta. La morale della storia era
inequivocabile: per non perdere la sua fetta di bottino, la Ford doveva
assolutamente lanciare una nuova auto di prezzo medio – non solo un
nuovo modello, ma un vero e proprio marchio – e farne in breve tempo la
preferita di quella fascia di mercato.
Ciò nondimeno, gli alti papaveri della Ford erano ben consapevoli degli
enormi rischi connessi al lancio di una nuova vettura. Sapevano ad esempio
che su duemila e novecento marchi introdotti dall’inizio dell’èra
dell’automobile – la Black Crow (1905), la Averageman’s Car (1906), la
Bug-mobile (1907), la Dan Patch (1911) e la Lone Star (1920), per citarne
alcune – soltanto una ventina erano ancora in vita. Di certo non ignoravano
l’infelice sorte di molte aziende automobilistiche negli anni del secondo
dopoguerra, come la Crosley, che aveva già chiuso i battenti, o la Kaiser
Motors, ancora in vita ma ormai allo stremo delle forze. (E chissà quale
imbarazzo avranno provato i membri del comitato di pianificazione nel
leggere, circa un anno dopo, il messaggio di commiato in cui Henry J.
Kaiser confessava il suo scoramento per «aver gettato 50 milioni di dollari
nello stagno dell’industria automobilistica e averli visti sparire senza
nemmeno un’increspatura»). Un altro fatto ben noto agli uomini della Ford
era che né la General Motors, né la Chrysler (gli altri due membri della
potente e danarosa triade del settore automobilistico) avevano piú osato
lanciare un nuovo marchio dai tempi della LaSalle (1927, gruppo General
Motors) e della Plymouth (1928, gruppo Chrysler); la stessa Ford,
d’altronde, non tentava un colpo del genere dal 1938, anno di nascita del
marchio Mercury.
A dispetto di tutto ciò, gli uomini della Ford erano fiduciosi: talmente
fiduciosi da gettare nello stagno dell’industria automobilistica una somma
cinque volte superiore a quella citata da Kaiser. Nell’aprile del 1955 Henry
Ford II, Ernest Breech e gli altri membri del comitato esecutivo
approvarono ufficialmente il rapporto del comitato di pianificazione e ne
tradussero in pratica le conclusioni dando vita a un nuovo organismo,
chiamato «divisione prodotti speciali», la cui direzione fu affidata a quel
malcapitato di Richard Krafve. In pratica l’azienda garantiva un avallo
ufficiale al lavoro dei suoi progettisti, che avendo capito dove soffiava il
vento lavoravano già da diversi mesi ai bozzetti di un nuovo modello. Ma
siccome né loro né la neonata divisione di Krafve avevano la piú pallida
idea di come si sarebbe chiamata la nuova vettura che stava prendendo
forma sui tavoli da disegno, decisero di battezzarla – persino nei comunicati
stampa ufficiali – con il nome di E-Car, dove E stava per «Experimental».
Il responsabile diretto della progettazione – o, come orrendamente si
dice in gergo, dello styling – della E-Car era un canadese non ancora
quarantenne di nome Roy A. Brown, che aveva studiato design industriale
all’Accademia d’arte di Detroit e all’epoca aveva già firmato svariati
prodotti: apparecchi radio, barche a motore, soprammobili di vetro colorato
e automobili dei marchi Cadillac, Oldsmobile e Lincoln 1. A proposito delle
sue aspettative riguardo al progetto E-Car, Brown (che nel frattempo si è
trasferito in Inghilterra per dirigere il reparto progettazione della Ford
Motor Company Ltd, produttrice di autocarri, trattori e piccole auto) ha
recentemente dichiarato quanto segue: «Il nostro obiettivo era di creare
un’auto originale, con uno stile facilmente riconoscibile, che la
differenziasse a prima vista dalle altre auto presenti sul mercato. Eravamo
arrivati al punto di fare studi fotografici a distanza di tutti gli altri
diciannove modelli, e avevamo constatato che a un centinaio di metri di
distanza le somiglianze erano cosí tante che era praticamente impossibile
distinguerli tra loro […] Erano come piselli dello stesso baccello.
Decidemmo allora di scegliere uno stile che fosse “innovativo” proprio
perché originale e classico al tempo stesso».
Sui tavoli da disegno del reparto progettazione, nel quartier generale
della Ford a Dearborn, poco lontano da Detroit, si cominciò dunque a
lavorare alla E-Car nel solito clima di segretezza che sempre aleggia, tanto
melodrammatico quanto inutile, intorno alle fasi creative del settore
automobilistico: una squadra di fabbri sempre pronta a cambiare qualsiasi
serratura entro quindici minuti, semmai la chiave di uno studio fosse caduta
in mani nemiche; una milizia di sicurezza addetta al controllo dell’edificio
ventiquattr’ore su ventiquattro; un telescopio che a intervalli regolari veniva
puntato sulle alture circostanti per stanare eventuali spioni. (Precauzioni
spesso ingegnose, ma comunque inefficaci contro la versione made in
Detroit del famoso cavallo di Troia, ovvero il disegnatore che cambia
continuamente datore di lavoro e con la sua spensierata infedeltà svela il
segreto sui progetti della concorrenza. La quale, beninteso, è la prima ad
aspettarsi il tradimento: in realtà, negli ambienti dell’auto si pensa che un
clima da romanzo di cappa e spada garantisca ottimi ritorni in termini
pubblicitari). Piú o meno due volte alla settimana, Krafve (testa bassa, occhi
incollati al pavimento) partiva alla volta del reparto progettazione per
conferire con Brown, controllare il procedere dei lavori, fornire consigli e
incoraggiamento. Krafve non è il tipo d’uomo che visualizza il suo scopo in
un’unica immagine rivelatrice, al contrario, tendeva a dissezionare il
progetto E-Car in un insieme di microscopiche decisioni: la forma dei
parafanghi, il motivo delle cromature, il tipo di maniglie, e via scegliendo.
E chissà, forse anche il sommo Michelangelo avrà seguito un metodo del
genere nello scolpire il suo David, ma di certo se l’è tenuto per sé, mentre
Krafve, personaggio di indole metodica in un mondo di macchine da
calcolo altrettanto metodiche, determinò in seguito di aver dovuto prendere,
insieme ai suoi collaboratori, non meno di quattromila decisioni connesse
alla progettazione della E-Car. Se in ognuna di quelle occasioni fosse stata
scelta la giusta alternativa tra il sí e il no, il risultato finale sarebbe stato
un’auto stilisticamente perfetta – o quanto meno un’auto originale e classica
al tempo stesso. Ma oggi Krafve ammette di aver avuto non poche difficoltà
nell’adattare il processo creativo ai vincoli del sistema, in primo luogo
perché molte delle sue quattromila decisioni si rivelarono tutt’altro che
incrollabili. «Una volta individuato il tema generale, cominci a restringere il
campo, – spiega. – Cambi certe cose, poi le cambi di nuovo. Alla fine, però,
devi per forza arrivare a una versione definitiva perché non c’è piú tempo.
Se non ci fosse una scadenza probabilmente si andrebbe avanti all’infinito,
senza mai smettere di cambiare».
Fatta eccezione per le ultime, trascurabili modifiche alle modifiche già
modificate in precedenza, lo styling della E-Car era già completamente
ultimato nella piena estate del 1955. Come il mondo avrebbe appreso di lí a
due anni, la sua caratteristica saliente era la nuova griglia del radiatore a
forma di collare da cavallo, posta al centro di un frontale tradizionalmente
basso e ampio: la mescolanza tra originale e classico saltava agli occhi, ma
non si può dire che piacesse a tutti. E Brown, o forse Krafve, o forse
entrambi, sembravano aver completamente perso di vista la classicità in
altri due punti altrettanto evidenti: nel posteriore dell’auto, decorato da due
ampie ali orizzontali in audace e originale contrasto con le «pinne» caudali
che all’epoca andavano per la maggiore, e nell’altrettanto originale
concentrazione di pulsanti sul piantone dello sterzo. In un discorso
pronunciato qualche tempo prima che la Edsel debuttasse in società, Krafve
aveva fatto un paio di accenni allo stile della vettura, definendolo talmente
«caratteristico» da renderla «immediatamente riconoscibile, sia di fronte
che di lato o sul retro», mentre l’allestimento interno era «la quintessenza
dell’èra dei pulsanti, ma senza nulla che facesse pensare a Buck Rogers e
agli esploratori dello spazio». Di lí a poco, la nuova auto venne finalmente
mostrata ai vertici della gerarchia Ford. L’effetto fu quasi sconvolgente. Il
15 agosto del 1955, nella rituale segretezza del reparto styling, tra sorrisetti
nervosi e continui sfregamenti di mani da parte di Krafve, di Brown e dei
loro sottoposti, i membri del comitato di pianificazione produttiva avanzata,
piú Henry Ford II e Breech, videro alzarsi il sipario sul primo modello a
grandezza naturale della E-Car: un modello in argilla, con degli inserti di
stagnola a simulare l’alluminio e le cromature. I testimoni oculari
raccontano che il pubblico rimase in totale silenzio per qualcosa come un
minuto intero; poi ci fu l’applauso, unanime. Era dal 1896 che non
accadeva niente del genere durante una presentazione interna: da quando il
vecchio Henry Ford aveva messo insieme la sua prima carrozza senza
cavalli.

Secondo una delle ipotesi piú convincenti e riconosciute, il fiasco della


Edsel fu conseguenza del ritardo intercorso tra la decisione di produrre la
vettura e la sua effettiva immissione sul mercato. Di lí a qualche anno,
quando la diffusione delle vetture piú piccole e meno potenti –
eufemisticamente chiamate «compatte» – avrebbe capovolto da cima a
fondo la scala sociale applicata all’automobile, sarebbe stato facile capire
che la Edsel era un enorme passo nella direzione sbagliata; ma non lo era
certo nel 1955, con le strade piene di gigantesche auto pinnate. Il genio
americano – creatore della luce elettrica, delle macchine volanti, delle
utilitarie, della bomba atomica, e persino di un sistema fiscale che permette,
in certe circostanze, di trarre profitto dalle opere di beneficenza 2 – non ha
ancora trovato il modo di ridurre entro limiti ragionevoli l’intervallo di
tempo tra l’uscita di una nuova auto dal reparto progettazione e il suo
ingresso sul mercato. In genere ci vogliono circa due anni: bisogna
preparare gli stampi in acciaio, presentare l’auto ai concessionari, ideare le
campagne pubblicitarie e promozionali, attendere che i dirigenti diano il
loro beneplacito a ogni fase, e naturalmente perfezionare tutti gli altri
minuetti organizzativi che a Detroit e dintorni sono considerati essenziali
come l’aria. Capire in che direzione andranno i gusti degli acquirenti è già
abbastanza difficile per chi deve aggiornare ogni anno i modelli già presenti
sul mercato; il compito è ancora piú arduo nel caso dei nuovi prodotti come
la E-Car, poiché la danza si arricchisce di passi nuovi e complicati:
l’attribuzione di una personalità ben precisa, la scelta di un nome adatto,
senza parlare dei vari oracoli che vanno scrupolosamente consultati per
sapere se, al momento fatidico, lo stato dell’economia nazionale sarà tale da
rendere ammissibile l’acquisto di una qualsiasi auto nuova.
Attenendosi fedelmente alla routine, la divisione prodotti speciali
incaricò David Wallace, direttore dell’ufficio ricerche di mercato, di
assegnare alla E-Car una personalità e un nome adatti. Wallace era un
fumatore di pipa alto e magro, con la mascella forte e la parlata lenta,
meditabonda: benché privo di un solido retroterra accademico, sembrava
l’archetipo del professore universitario, lo stampo su cui era plasmata
l’intera categoria. Terminati gli studi al Westminster College della
Pennsylvania, negli anni della Grande depressione Wallace aveva sbarcato
il lunario facendo il muratore a New York, e prima di approdare alla Ford
nel 1955 si era occupato di ricerche di mercato per conto dell’editore di
«Time». Consapevole dell’importanza dell’immagine, Wallace era il primo
ad ammettere di aver fatto leva sul suo aspetto professorale per
avvantaggiarsi nei rapporti di lavoro con i burberi e concreti colleghi di
Dearborn. «Il nostro reparto, – racconta con una sfumatura di orgoglio, – si
conquistò fama di essere una semi-intellighenzia». Sintomatico è il fatto che
Wallace preferisse abitare a Ann Arbor, a stretto contatto con l’atmosfera
culturale dell’università del Michigan, piuttosto che a Detroit o a Dearborn,
dove a suo dire la vita fuori dall’orario di lavoro era del tutto intollerabile.
Quale che sia stato il suo apporto nel definire l’immagine della E-Car, è
molto probabile che le sue piccole eccentricità abbiano contribuito in
maniera decisiva a definire l’immagine di Wallace stesso. «Non credo che
abbia scelto la Ford per motivi economici, – ha detto di lui Krafve, suo
diretto superiore. – Dave è il classico tipo dello studioso: forse gli
interessava soprattutto la sfida intellettuale». Una dichiarazione del genere è
la prova piú inequivocabile della sua bravura nel comunicare la propria
immagine.
Wallace ricorda chiaramente il ragionamento – abbastanza ingenuo, per
la verità – che guidò lui e il suo gruppo nella ricerca della giusta personalità
per il nuovo modello di auto. «Ci dicemmo: “Non facciamoci illusioni: sul
piano della meccanica di base, non c’è gran differenza tra una Chevrolet da
duemila dollari e una Cadillac da seimila. Tolto il battage pubblicitario, quel
che resta sono due oggetti piú o meno simili. Eppure c’è qualcosa – deve
per forza esserci qualcosa – nella mentalità di alcune persone, che gli fa
venire una gran voglia di Cadillac, nonostante il prezzo piú alto, o forse
proprio per questo”. Arrivammo alla conclusione che le automobili sono, in
un certo senso, strumenti per realizzare un sogno. Ciò che induce la gente a
preferire una certa auto anziché un’altra è un elemento irrazionale: la
meccanica non c’entra. Quel che conta davvero è la personalità dell’auto, il
modo in cui la gente se la immagina. E noi, naturalmente, volevamo dare
all’E-Car la personalità giusta, quella che avrebbe indotto il maggior
numero di persone a desiderare di acquistarla. Non ci era stato chiesto di
trasformare una personalità preesistente, magari sgradita al pubblico; e
questo, secondo noi, era un grande vantaggio rispetto alle altre case
produttrici di auto di media gamma. Quel che dovevamo fare era creare la
personalità che faceva al caso nostro, partendo da zero».
Come primo passo verso l’attribuzione della giusta personalità, Wallace
decise di valutare l’immagine sia delle altre vetture di medio prezzo già
presenti sul mercato, sia di quelle piú economiche, giacché quell’anno il
prezzo di alcuni modelli appartenenti alla cosiddetta fascia bassa era salito
ben oltre i limiti della categoria. A tale scopo, assegnò all’Ufficio ricerca
sociale applicata della Columbia University l’incarico di intervistare un
campione di milleseicento persone (ottocento residenti a Peoria, Illinois, e
altre ottocento a San Bernardino, California) che avevano acquistato
un’auto in tempi recenti: argomento del sondaggio era l’immagine mentale
delle varie marche di automobili. (Pur essendo una ricerca commissionata
da un’impresa commerciale, la Columbia conservò un certo margine di
indipendenza accademica e si riservò il diritto di pubblicare i risultati dello
studio). «Volevamo sondare le reazioni di svariati gruppi di persone
residenti nei due centri urbani, – spiega Wallace. – Non ci interessava che il
campione fosse rappresentativo. Volevamo far venire a galla i fattori
interpersonali. Scegliemmo Peoria perché è la classica città del Midwest,
non contaminata da elementi estranei – non c’era, per esempio, nessuna
fabbrica di vetri per auto che lavorasse per la General Motors. Scegliemmo
San Bernardino perché la West Coast è un mercato molto importante per il
settore automobilistico, e ha una sua peculiarità: gli acquirenti tendono a
preferire auto piú vistose».
Il questionario che i ricercatori della Columbia sottoposero agli abitanti
di Peoria e di San Bernardino riguardava in pratica tutto ciò che aveva a che
fare con le auto eccetto il prezzo, la sicurezza e la velocità. Wallace voleva
scoprire che idea avessero gli intervistati dei modelli in commercio. Chi era,
secondo loro, il tipico proprietario di una Chevrolet o di una Buick? Quanti
anni aveva? Era maschio o femmina? A quale ceto sociale apparteneva?
Wallace poté cosí desumere la personalità tipica di ogni marchio, compresa
la Ford: una vettura veloce, quest’ultima, molto maschile e non pretenziosa;
la tipica auto di un allevatore di bestiame o di un meccanico. Invece la
Chevrolet era piú matura, saggia, lenta, con una mascolinità un po’ meno
aggressiva, leggermente piú chic: la tipica auto da ecclesiastico. La
personalità della Buick corrispondeva a una signora di mezza età – o se non
altro a una creatura un po’ piú femminile della Ford, giacché si sa, il sesso
delle auto è una faccenda relativa – ma non del tutto priva di grinta: la
compagna ideale di un avvocato, di un medico o del direttore di
un’orchestra da ballo. Quanto alla Mercury, venne fuori come una specie di
hot rod (le auto d’epoca alleggerite e modificate per renderle piú potenti),
adatta a un pubblico giovane e amante della velocità: ma a dispetto del
costo piú elevato gli intervistati non percepivano sostanziali differenze di
reddito tra il proprietario di una Mercury e l’acquirente medio di una Ford.
Dunque non c’era da stupirsi che i proprietari delle Ford non scegliessero le
Mercury quando passavano a una vettura di gamma superiore! Questa
bizzarra discrepanza tra immagine e realtà, unita alla consapevolezza che,
in buona sostanza, le auto di tutte e quattro le marche fossero molto simili e
avessero dentro il cofano un numero quasi identico di cavalli, finí per
avvalorare la premessa di Wallace: esattamente come un giovane
innamorato, l’uomo che desidera un’auto è incapace di valutare l’oggetto
dei suoi sentimenti con una seppur vaga parvenza di razionalità.
Prima di chiudere i fascicoli di Peoria e San Bernardino, i ricercatori
sollecitarono risposte non soltanto in relazione alle auto, ma anche su una
serie di altri argomenti che neppure il piú audace dei sociologi avrebbe mai
pensato di collegare al mercato automobilistico di fascia media. «Non è che
facessimo proprio sul serio, – ammette Wallace. – Era una specie di pesca a
strascico». Da quell’accozzaglia di informazioni raccattate piú o meno a
caso, i ricercatori misero insieme ipotesi come questa:

Prendendo in considerazione gli intervistati con un reddito annuo compreso tra i


quattromila e gli undicimila dollari, si rileva una percentuale elevata di soggetti che, in
risposta al quesito sulla propria abilità nel preparare i cocktail, si collocano nella
categoria «abbastanza capace» […] Evidentemente non hanno molta fiducia nella loro
capacità di miscelare gli ingredienti, quindi si tratta con tutta probabilità di persone
consapevoli del loro status di principianti. Sapranno forse preparare un Martini o un
Manhattan, ma al di là di questi miscugli basilari potrebbero avere un repertorio
piuttosto limitato.

Immerso nel suo sogno di una E-Car ideale e amata da tutti, Wallace
accoglieva beato quel flusso composito di informazioni. Ma con
l’avvicinarsi del momento decisivo si rese conto che era necessario
accantonare gli aspetti piú periferici, come la preparazione dei cocktail, e
concentrarsi invece sul problema originario: l’immagine della nuova auto. E
l’insidia piú grande, a suo parere, era cedere alla moda del momento
puntando tutto sui valori estremi della mascolinità, della giovinezza e della
velocità. Sarebbe stato un errore, una mossa espressamente sconsigliata
anche dai professori della Columbia:

A prima vista potremmo ipotizzare che le donne che guidano abbiano anche un
impiego, e come tali siano piú mobili delle donne che non possiedono un’auto, nonché
piú sensibili alle gratificazioni che derivano dallo svolgere un ruolo tipicamente
maschile. Tuttavia […] quali che siano le gratificazioni e l’immagine sociale che le
donne associano al possesso di un’auto, non vi è dubbio che il loro interesse primario
consista, da questo punto di vista, nel conservare un’immagine femminile. Da donne di
mondo, forse, ma pur sempre donne.

Nei primi mesi del 1956 Wallace si accinse a ricapitolare tutto il lavoro
del suo gruppo in un documento indirizzato ai responsabili della divisione
prodotti speciali, che intitolò Obiettivi di mercato e di immagine della E-
Car. Il rapporto, denso di dati e statistiche (benché generosamente cosparso
di brevi riepiloghi in corsivo o in maiuscolo, la cui lettura avrebbe permesso
anche al piú indaffarato dei dirigenti di farsi un’idea della questione)
esordiva con una serie di ariose e trascurabili divagazioni filosofiche, per
poi venire al sodo:

Cosa succede quando un acquirente, pur essendo uomo, ritiene che la sua marca
preferita di auto possa piacere alle donne? È possibile che l’apparente incompatibilità tra
l’immagine dell’auto e le caratteristiche dell’acquirente influenzi le intenzioni
d’acquisto di quest’ultimo? La risposta è certamente sí. In caso di conflitto tra le
caratteristiche del proprietario e l’immagine del marchio, le intenzioni d’acquisto
finiscono prima o poi per orientarsi su un altro marchio. In pratica, se l’acquirente sente
di non somigliare alla persona che secondo lui comprerebbe quell’auto, tenderà a
scegliere un’auto di marca diversa, che lo faccia sentire piú a suo agio sul piano
mentale.
Bisogna tener presente che il «conflitto» può riferirsi, in quella particolare accezione,
a due diverse situazioni. Se una marca ha un’immagine forte e ben definita, è ovvio che
un acquirente con caratteristiche diametralmente opposte possa sentirsi in conflitto. Ma
c’è un altro tipo di conflitto, ed è quello che si verifica quando l’immagine del prodotto
è troppo generica, o scarsamente definita: in questo caso, l’insoddisfazione del
consumatore nasce dall’impossibilità di trarre dal suo marchio preferito
un’identificazione soddisfacente.

Il dilemma consisteva dunque nel barcamenarsi tra Scilla e Cariddi,


conferendo all’auto una personalità che non fosse né troppo spiccata, né
troppo blanda. A tale proposito, il rapporto consigliava di «avvantaggiarsi
della debolezza dei marchi concorrenti», attribuendo alla E-Car
un’immagine né troppo giovane né troppo vecchia, sostanzialmente analoga
a quella di un marchio di media gamma come la Oldsmobile; in termini di
gerarchia sociale, cioè, la E-Car avrebbe dovuto «posizionarsi appena al di
sotto della Buick e della Oldsmobile». Quanto alla delicata questione di
genere, la nuova auto avrebbe dovuto cercare di tenere il piede in entrambe
le staffe, seguendo anche in questo caso l’esempio della proteiforme
Oldsmobile. In sostanza (e con le convenzioni tipografiche di Wallace):

La personalità piú vantaggiosa per la E-Car potrebbe verosimilmente essere quella di


un’AUTO INTELLIGENTE PER LE FAMIGLIE DEI GIOVANI DIRIGENTI O DEI

PROFESSIONISTI IN ASCESA .
Auto intelligente: tale da essere riconosciuta come una scelta di stile e di buon gusto.
Giovani: rivolta a un pubblico vivace e avventuroso, ma responsabile.
Dirigenti o professionisti: uno status sociale a cui ambiscono, con successo o meno,
milioni di persone.
Famiglie: un’auto non esclusivamente maschile; un ruolo positivo, sano.
In ascesa: «La E-Car ha fiducia in te, giovanotto; vedrai, ti aiuterà ad arrivare in
vetta!»

A quel punto, però, la prima cosa da fare per convincere quel pubblico
avventuroso ma responsabile a fidarsi a sua volta della E-Car consisteva nel
darle un nome. Era dagli albori del progetto che Krafve suggeriva il nome
di Edsel Ford, unico figlio del vecchio Henry, presidente della Ford Motor
Company dal 1918 al 1943 (anno della sua morte) e capostipite della nuova
generazione dei Ford di cui facevano parte Henry II, Benson e William
Clay. I tre fratelli avevano detto a Krafve che forse il loro defunto padre non
sarebbe stato entusiasta di vedere il proprio nome vorticare per le strade del
Paese stampato su un milione di copriruote, e di conseguenza avevano
esortato la divisione prodotti speciali a trovare un’alternativa. L’ordine era
stato eseguito con uno zelo non inferiore a quello dimostrato nella ricerca
del sacro Graal della personalità. Tra la fine dell’estate e l’inizio
dell’autunno 1955, Wallace assoldò svariate società di ricerca che
sguinzagliarono i loro intervistatori, provvisti di un elenco di duemila nomi
possibili, tra le folle che gremivano i marciapiedi di New York, Chicago,
Willow Run e Ann Arbor. Gli intervistatori non si limitarono a chiedere
un’opinione su nomi come Mars, Jupiter, Rover, Ariel, Arrow, Dart o
Ovation, ma sollecitarono gli intervistati a esprimere, mediante libere
associazioni, i concetti che ogni nome richiamava alla mente; una volta
ottenute le risposte, chiedevano agli intervistati quale parola (o
combinazione di parole) rappresentasse a loro giudizio l’opposto dei nomi
compresi nell’elenco: la teoria era che, sul piano subliminale, un nome e il
suo opposto sono inseparabili come le due facce di una moneta. Alla fine, i
responsabili della divisione prodotti speciali avevano dichiarato che i
risultati dei sondaggi erano troppo incerti. Nel frattempo Krafve e i suoi
uomini si erano riuniti piú volte in una stanza oscurata per fissare, con
l’aiuto di un faretto orientabile, dei cartelloni che riportavano una serie di
opzioni. Fu cosí che un membro del gruppo si espresse a favore di un nome
prestigioso e potente come Phoenix, mentre un altro dichiarò di preferire
Altair, sostenendo che avrebbe preso il primo posto nell’ordine alfabetico
dei modelli di auto, accaparrandosi con ciò la posizione di prestigio che nel
regno animale spetta all’airone e all’albatro. Durante una sessione
particolarmente sonnolenta, qualcuno chiese di fermare la sequenza dei
cartelloni e domandò incredulo: «Non è parso anche a voi di vedere scritto
“Buick”?» Tutti guardarono Wallace, vero impresario dello spettacolo. Lui
tirò una boccata dalla pipa, increspò le labbra in un sorrisetto accademico e
annuí.

Le sedute di contemplazione dei cartelli si rivelarono tanto infruttuose


quanto le interviste ai passanti, e fu in questa fase della vicenda che
Wallace, nel tentativo di estorcere al genio ciò che la mente ordinaria non
aveva prodotto, avviò la famosa corrispondenza con la poetessa Marianne
Moore, poi resa pubblica dal «New Yorker» e successivamente, in forma di
volume, dalla Morgan Library. «Vorremmo che il nome […] alludesse, per
associazione o altra alchimia, a un senso viscerale di eleganza, velocità,
stile e progresso tecnologico», scriveva Wallace, a sua volta non senza
eleganza. Se qualcuno si fosse domandato quale tra le divinità di Dearborn
avesse avuto la coraggiosa e incoraggiante idea di arruolare Miss Moore
alla causa della nuova auto, Wallace avrebbe risposto che il merito non
andava a una divinità, bensí alla moglie di uno dei suoi assistenti – una
giovane signora che aveva assistito alle lezioni della poetessa quando
ancora studiava presso il college di Mount Holyoke. Non ci è dato sapere a
quali glorie sarebbe assurta la E-Car se gli alti papaveri della Ford avessero
recepito uno dei numerosi consigli di Miss Moore – Intelligent Bullet, per
esempio, o Utopian Turtletop, o Bullet Cloisonné, Pastelogram, Mongoose
Civique, Andante con Moto («Descrizione di un buon motore?» annotò
Miss Moore a fianco di quest’ultimo suggerimento): sta di fatto che non lo
fecero. Scontenti delle proposte della poetessa come di quelle che loro
stessi avevano formulato, i responsabili della divisione prodotti speciali si
rivolsero alla Foote, Cone & Belding, l’agenzia pubblicitaria da poco
incaricata di gestire il lancio della E-Car. Con il piglio dinamico che è tipico
delle aziende del settore, la Foote, Cone & Belding indisse un concorso tra i
suoi dipendenti delle sedi di New York, Londra e Chicago, offrendo in
premio nientemeno che un esemplare della nuova auto a chiunque fosse
riuscito a trovarle un nome accettabile. In un batter d’occhi i responsabili
dell’azienda pubblicitaria ricevettero la bellezza di diciottomila proposte,
tra le quali Zoom, Zip, Benson, Henry e Drof (se siete perplessi, leggetelo
al contrario). Nel timore che i committenti la giudicassero un tantino
prolissa, i funzionari dell’agenzia pubblicitaria si misero al lavoro e
sfrondarono la lista, riducendola a seimila voci, che furono presentate alla
successiva riunione del comitato direttivo. «Ecco qua», disse trionfante
l’inviato della Foote, Cone & Belding, gettando sul tavolo un voluminoso
pacco di fogli. «Seimila nomi, tutti in ordine alfabetico e corredati di note».
Krafve restò senza fiato. «Ma a noi non servono seimila nomi! –
esclamò. – Ce ne serve uno solo».
Ormai la situazione era critica: la preparazione degli stampi per la nuova
vettura sarebbe cominciata di lí a poco, e su alcuni di essi avrebbe dovuto
figurare il nome. Un certo giovedí i dirigenti della Foote, Cone & Belding
revocarono tutti i permessi ai loro dipendenti e diedero inizio a quello che
in gergo si chiama programma intensivo: lavorando in completa autonomia,
gli uffici di New York e di Chicago avrebbero dovuto ridurre la lista a soli
dieci nomi entro la fine del weekend. Come da istruzioni, ognuna delle due
filiali presentò a tempo debito il proprio elenco ai responsabili della
divisione prodotti speciali: per una coincidenza che aveva quasi
dell’incredibile (ma che tutte le parti in causa si ostinarono a definire tale),
le due liste avevano in comune quattro nomi. Corsair, Citation, Pacer e
Ranger erano miracolosamente sopravvissuti al doppio scrutinio. «Corsair
sembrava di gran lunga il migliore, – racconta Wallace, – anche perché era
andato a meraviglia nelle interviste ai passanti. Le libere associazioni
suscitate da Corsair avevano un vago sapore romantico: “pirata”,
“temerario”, cose del genere. All’estremo opposto, secondo gli intervistati,
c’erano nomi interessanti come “principessa”. Insomma, era esattamente
quel che cercavamo».
Con buona pace del corsaro, nella primavera del 1956 la E-Car fu infine
battezzata Edsel, ma il pubblico fu informato della decisione soltanto
nell’autunno successivo. La scelta avvenne durante una riunione del
comitato esecutivo alla quale non presenziò, guarda caso, nessuno dei tre
fratelli Ford. In loro assenza, la riunione fu presieduta da Breech, che
dall’anno precedente rivestiva la carica di direttore del comitato: quel
giorno Breech era di umore scontroso, per nulla incline a baloccarsi con
pirati o principesse. Dopo aver ascoltato i quattro nomi finalisti, disse:
«Non me ne piace nessuno. Diamo una scorsa agli altri». E cosí diedero
un’altra occhiata ai primi esclusi, tra i quali figurava anche il nome di
Edsel, che nonostante il parere contrario dei tre fratelli era sempre rimasto
in primo piano, come una sorta di punto fisso. Breech persuase gli altri
membri del comitato a considerare pazientemente tutte le voci dell’elenco,
finché non si arrivò a Edsel. «Chiamiamola cosí», disse Breech con una
calma che non ammetteva repliche. La E-Car sarebbe stata prodotta in
quattro modelli principali, e a mo’ di contentino Breech ventilò l’ipotesi di
utilizzare i magici quattro finalisti (Corsair, Citation, Pacer e Ranger) come
secondi nomi, se se ne fosse sentito il bisogno. Seguí una telefonata a Henry
II, che si trovava in vacanza a Nassau. Se la scelta del comitato esecutivo
era caduta su Edsel, disse il presidente, lui avrebbe rispettato la decisione, a
patto che fosse approvata anche dagli altri membri della famiglia. Nell’arco
di pochi giorni, il consenso fu raggiunto.
Qualche tempo dopo, Wallace scrisse a Marianne Moore: «Abbiamo
scelto il nome […] È meno evocativo, vivace e interessante di quanto
avremmo voluto, ma ha una sua dignità, e un significato personale per molti
di noi. Il nome scelto, Miss Moore, è Edsel. Spero che capirà».

Probabile che la notizia abbia generato un certo disappunto tra i


dipendenti della Foote, Cone & Belding, che avendo dato la preferenza a
nomi piú allegorici si erano visti privati della possibilità di vincere
un’automobile – tanto piú che, a maggiore sconforto, il nome Edsel era
stato esplicitamente escluso dalla competizione. Ma la loro afflizione era
nulla in confronto alla profonda malinconia che colpí molti dipendenti della
divisione prodotti speciali. A detta di alcuni, la scelta di un nome
appartenuto all’ex presidente dell’azienda, padre dell’attuale presidente in
carica, aveva connotazioni dinastiche estranee alla mentalità americana;
altri invece, che come Wallace avevano riposto fiducia nelle geniali
ispirazioni dell’inconscio collettivo, erano convinti che Edsel fosse
un’infelice accozzaglia di sillabe dagli effetti potenzialmente disastrosi.
Cosa faceva venire in mente un nome del genere? Suonava come pretzel,
diesel, strudel. E il suo contrario, qual era? Nessuno lo sapeva. Ma ormai la
decisione era presa, e non c’era altro da fare. Del resto all’interno della
divisione prodotti speciali il giudizio negativo non era affatto unanime, e lo
stesso Krafve si schierava dalla parte dei favorevoli. Non cambiò opinione
neppure in seguito, e non diede mai ragione a quanti sostenevano che il
fiasco della Edsel fosse iniziato proprio al momento del battesimo.
In effetti Krafve era pienamente soddisfatto dell’esito della vicenda:
tant’è che il 19 novembre 1956, quando la società annunciò al mondo che la
E-Car aveva finalmente un nome e che quel nome era Edsel, decise di
celebrare l’evento con alcune infiorettature di sua invenzione. A partire
dalle undici precise del fatidico giorno, tutti i centralinisti alle sue
dipendenze cominciarono a rispondere alle chiamate con la formula
«Divisione Edsel» anziché «Divisione prodotti speciali»; la cancelleria con
la vecchia dicitura sparí dagli uffici e fu sostituita da nuove scorte di carta,
anch’essa intestata «Divisione Edsel»; sul tetto dell’edificio, infine, venne
cerimoniosamente installata un’enorme insegna in acciaio con il nuovo
nome. Ma nonostante tutto Krafve riuscí a tenere i piedi per terra anche
dopo che i suoi superiori, a titolo di riconoscimento per i meriti acquisiti
nella direzione del progetto, lo insignirono dell’augusto titolo di
vicepresidente della Ford Motor Company e direttore generale della
divisione Edsel.
Dal punto di vista amministrativo, la rapida archiviazione del vecchio in
favore del nuovo fu una semplice, inoffensiva operazione di vetrina.
Intanto, nell’assoluta segretezza della pista di prova di Dearborn erano già
iniziati i test sulle prime Edsel, prototipi ardenti di vita e già quasi pronti a
spiccare il volo, con il nome finalmente inciso sulle strutture esterne; e
mentre Brown e i suoi colleghi del reparto styling erano già al lavoro sulle
innovazioni per i modelli dell’anno successivo, altrove si arruolavano
nuove forze in vista di una completa riorganizzazione della rete di vendita
al pubblico, e la Foote, Cone & Belding, liberata dal fardello dei programmi
intensivi per la raccolta dei nomi e dei programmi intensivi per lo
smaltimento dei nomi in eccesso, era già al lavoro sulle prossime iniziative
pubblicitarie per la nuova auto sotto la diretta responsabilità di un luminare
del settore come Fairfax M. Cone, il capo dell’agenzia. Nella preparazione
della sua campagna, Cone si attenne fedelmente a quella che ormai si
chiamava «la ricetta Wallace», ovvero la formula-base della personalità
Edsel delineata da Wallace in persona: «L’auto intelligente per le famiglie
dei giovani dirigenti o dei professionisti in ascesa». Tale era l’entusiasmo di
Cone, che la ricetta fu accettata integralmente con una sola modifica:
l’espressione «giovani dirigenti» fu rimpiazzata da «famiglie di medio
reddito», giacché si sospettava che le famiglie di reddito medio fossero piú
numerose dei giovani dirigenti, anche a voler includere nel calcolo quanti
credevano di essere giovani dirigenti. Con un’esuberanza forse alimentata
dalla soddisfazione di essersi accaparrato un contratto che valeva piú di
dieci milioni di dollari l’anno, Cone rilasciò alla stampa numerose
anticipazioni sul tipo di campagna pubblicitaria che intendeva progettare:
una serie di messaggi pacati e fiduciosi, con un impiego il piú possibile
ridotto del termine «nuovo», che pur essendo a buon diritto applicabile al
prodotto, era a suo dire scarsamente prestigioso. Ma soprattutto doveva
essere una campagna dai toni classici e rilassati. «Sarebbe un grave errore
se i messaggi pubblicitari facessero concorrenza al prodotto, – dichiarò
Cone. – Nessuno dovrebbe mai chiedere: “Ehi, ma l’hai vista la pubblicità
della Edsel?” Noi speriamo invece che centinaia di migliaia di persone
dicano: “Ehi, ma l’hai letto l’articolo sulla Edsel?” oppure “Ma l’hai vista,
quella macchina?” È questa la differenza tra pubblicizzare e vendere». È
chiaro che Cone aveva piena fiducia nel successo della sua campagna
pubblicitaria e della vettura. Come un campione di scacchi che non dubita
di vincere, si permetteva il lusso di sottolineare la genialità delle sue mosse
nel momento stesso in cui le faceva.
Negli ambienti dell’industria automobilistica si parla ancora con
ammirazione e con terrore, visti gli esiti finali, dell’audace offensiva con
cui la divisione Edsel si lanciò alla ricerca di nuovi concessionari. È
consuetudine che le aziende presenti da tempo sul mercato dell’auto lancino
i modelli piú recenti attraverso i venditori che già distribuiscono i loro
prodotti, e che questi ultimi, almeno agli inizi, trascurino un po’ gli ultimi
nati. Non cosí per la Edsel: con il beneplacito delle alte sfere, Krafve si
mise al lavoro per creare una nuova rete al dettaglio facendo man bassa dei
venditori che avevano stretto accordi con altre aziende del settore o persino
con altre divisioni della Ford Company, come i marchi Ford e Lincoln-
Mercury. E anche se i concessionari passati alla Edsel non erano obbligati a
cancellare i vecchi contratti, l’azienda cercava di convincerli ad aprire altri
punti vendita esclusivamente dedicati alla commercializzazione delle Edsel.
L’obiettivo da raggiungere entro il fatidico E-Day (che dopo un laborioso
esame di coscienza era stato fissato al 4 settembre 1957) era nell’ordine dei
milleduecento punti vendita su tutto il territorio nazionale, dalla costa
atlantica a quella del Pacifico. E non bastavano dei rivenditori qualsiasi:
Krafve disse chiaramente che la Edsel avrebbe stretto accordi soltanto con
concessionari che avessero dimostrato di saper vendere auto senza ricorrere
a quei trucchetti al limite della legalità che, negli ultimi tempi, avevano dato
cattiva fama al settore. «Vogliamo rivenditori di qualità, che offrano servizi
di qualità, – diceva Krafve. – Il cliente che acquista un marchio già
affermato e non riceve sufficiente assistenza dà la colpa al rivenditore. Nel
caso della Edsel, darà la colpa alla macchina». Milleduecento punti vendita
erano un obiettivo certamente ambizioso, perché nessun concessionario, di
qualità o meno, può permettersi di cambiare marchio a cuor leggero.
Ognuno di loro ha, in media, un capitale immobilizzato di almeno
centomila dollari, che diventano ancora di piú nelle grandi città. Un
concessionario deve assumere venditori, meccanici e impiegati; acquistare
gli attrezzi per l’officina, i manuali tecnici, le insegne (che costano da sole
qualcosa come cinquemila dollari l’una); e naturalmente le auto, che vanno
pagate in contanti alla casa madre.
L’incarico di mettere insieme la forza di vendita della Edsel attenendosi
rigorosamente a quei criteri fu affidato a J. C. Doyle, detto Larry, che come
direttore generale del marketing e delle vendite occupava nella gerarchia
della divisione il gradino immediatamente sotto quello di Krafve. Larry
Doyle era in azienda da quarant’anni: aveva cominciato come fattorino a
Kansas City, e per quasi tutto il tempo aveva lavorato nel settore vendite.
Nel suo campo, era uno spirito libero: i modi gentili e premurosi facevano
di lui la perfetta antitesi ai tanti sfacciati parolai che allignavano nelle
concessionarie di tutto il continente; al tempo stesso, da vecchia volpe qual
era, Doyle non si dava pena di nascondere il suo scetticismo verso certe
pratiche recenti, come la moda di attribuire a ogni vettura un sesso e uno
status sociale. «Quando gioco a biliardo, – diceva, – mi piace tenere almeno
un piede per terra». Ma di certo Doyle sapeva fare il suo mestiere, ed era
per questo che la divisione Edsel aveva bisogno di lui. Il suo compito, in
sostanza, consisteva nel persuadere una serie di stimati e importanti
personaggi che avevano già raggiunto il successo in uno tra i settori
economici piú difficili a stracciare i loro redditizi accordi di franchising e
sottoscriverne uno nuovo e piú rischioso: un’impresa impossibile per
chiunque, ma non per Doyle e i suoi sottoposti. «All’inizio del 1957,
quando le prime Edsel cominciavano a uscire dall’impianto, – ricorda
Doyle, – ci venne l’idea di trasportarne un paio in ognuna delle cinque
filiali di vendita regionali. Ma naturalmente le tenemmo sotto chiave e
tirammo le tende. Mossi da pura e semplice curiosità, i concessionari di
tutte le marche fecero miglia e miglia di strada per venire a vedere la nuova
auto, e noi approfittammo subito del vantaggio. Cominciammo a spargere la
voce che l’avremmo mostrata solo ai rivenditori interessati sul serio a
venire da noi; dopodiché incaricammo i nostri responsabili regionali di
andare dal concessionario piú importante della zona e convincerlo a venire
a vedere l’auto. Se il numero uno della zona non si lasciava convincere,
provavano col numero due. E in ogni caso organizzammo la faccenda in
modo che nessuno potesse vedere la Edsel senza prima sorbirsi un’ora
buona di indottrinamento da parte dei nostri addetti alla vendita. Funzionò
molto bene». Talmente bene che fin dall’estate del 1957 fu chiaro a tutti che
la Edsel avrebbe potuto contare già dal primo giorno su una cospicua rete di
rivenditori di qualità. L’obiettivo dei milleduecento concessionari fu
mancato di un soffio: appena una ventina di unità. I concessionari delle altre
marche erano parsi cosí fiduciosi nel successo della Edsel, o cosí incantati
dai pistolotti degli uomini di Doyle, che una sola occhiata alla vettura era
bastata a convincerli. E per quanto li si incoraggiasse a guardare l’auto da
vicino con tutta calma, gli aspiranti concessionari della Edsel chiedevano
agli officianti di lasciar perdere i panegirici e porgergli il contratto senza
tante storie. Tutto sommato, Doyle avrebbe potuto dare lezioni al pifferaio
magico.
Ora che la Edsel non era piú una faccenda privata della sede centrale di
Dearborn, la Ford Company era costretta ad andare avanti. «Prima che
Doyle entrasse in azione, – sostiene Krafve, – il programma si poteva
tranquillamente abbandonare in qualsiasi momento: una sola parola dalle
alte sfere sarebbe stata sufficiente. Ma una volta reclutati i concessionari,
bisognava onorare il contratto e mettere in produzione la nuova macchina».
Il tutto si fece alla svelta. All’inizio del giugno 1957 la società comunicò
che dei 250 milioni di dollari accantonati per far fronte ai costi iniziali del
progetto Edsel, 150 sarebbero stati spesi per le infrastrutture di base,
compresa la ristrutturazione di alcuni impianti della Ford e della Mercury
che dovevano essere convertiti alle esigenze produttive della Edsel; altri 50
milioni sarebbero stati destinati all’acquisto di macchinari speciali, mentre i
restanti 50 avrebbero finanziato le prime campagne pubblicitarie e
promozionali. Sempre a giugno, la vettura che doveva recitare la parte da
protagonista nel primo spot televisivo venne furtivamente trasportata a
Hollywood con un semirimorchio chiuso ed esposta agli obiettivi dei
fotografi all’interno di uno studio sorvegliato a vista da guardie giurate,
sotto gli sguardi ammirati di uno scelto gruppetto di attori che avevano
giurato di tenere la bocca chiusa fino all’E-Day. Per quella delicata
missione, la Edsel si avvalse dei servigi della Cascade Pictures, una società
di produzione che aveva lavorato anche per la Atomic Energy Commission:
a quanto risulta non si verificarono fughe accidentali di notizie. «Abbiamo
preso le stesse precauzioni che adottiamo con la Aec», dichiarò in tono tetro
un portavoce della Cascade.
Di lí a poche settimane la divisione Edsel contava già milleottocento
dipendenti salariati, e stava assumendo a getto continuo per coprire il
fabbisogno di manodopera: i nuovi impianti riconvertiti necessitavano di
una forza lavoro pari a ben quindicimila persone. Il 15 luglio si avviarono le
catene di montaggio degli stabilimenti di Somerville (Massachusetts),
Mahwah (New Jersey), Louisville (Kentucky) e San José (California).
Quello stesso giorno anche Doyle mise a segno un colpo importante
intascando la firma di Charles Kreisler, un concessionario di Manhattan
considerato l’uomo di punta del settore: prima di cedere al richiamo delle
sirene di Dearborn, Kreisler aveva collaborato per anni con la Oldsmobile,
uno dei marchi considerati rivali della Edsel. Il 22 luglio apparve sulla
rivista «Life» la prima inserzione pubblicitaria: un’immagine in bianco e
nero a doppia pagina, in stile impeccabilmente classico, che raffigurava una
strada di campagna percorsa da un’auto talmente veloce da sembrare una
macchia indistinta. «Ultimamente si vedono circolare strane auto», diceva
la didascalia. Dopo aver spiegato che la macchia indistinta era una Edsel
fotografata durante un collaudo su strada, il testo si chiudeva con una
promessa: «La Edsel sta arrivando». Due settimane dopo apparve, sempre
su «Life», una seconda inserzione: l’immagine di un’auto coperta da un
lenzuolo bianco che la rendeva simile a un fantasma, davanti alla sede del
centro di progettazione della Ford. «Qualche tempo fa un vostro
concittadino ha fatto una scelta che gli cambierà la vita», diceva la
didascalia. La scelta, spiegava poi il testo, era di diventare un rivenditore
Edsel. Chiunque avesse ideato l’annuncio non immaginava fino a che punto
ciò fosse vero.
Nell’atmosfera tesa di quell’estate del 1957, l’uomo del momento non
poteva che essere C. Gayle Warnock, direttore delle relazioni pubbliche per
la divisione Edsel: ci si affidava a lui non tanto per accendere l’interesse
dell’uomo della strada (ce n’era già in abbondanza), quanto piuttosto per
tenerlo ben caldo, in modo che allo scoccare del Giorno Uno – o, come si
diceva in azienda, l’E-Day – fosse prontamente convertibile in desiderio di
comprare una nuova auto. Warnock era un tipo elegante e affabile, con le
labbra orlate da un paio di baffetti sottili; nativo di Converse, nell’Indiana,
prima di essere assunto alla Ford di Chicago e trasferirsi poi a Dearborn su
invito di Krafve, si era fatto le ossa per anni nelle fiere di campagna: da
quell’esperienza aveva ereditato una certa spregiudicatezza da imbonitore,
con la quale a volte insaporiva la melliflua cordialità da tecnico delle
pubbliche relazioni. Rievocando i suoi primi giorni alla sede centrale della
Ford, Warnock racconta: «Nell’autunno del 1955 Dick Krafve mi manda a
chiamare e mi dice: “Dovrai programmare la campagna pubblicitaria della
E-Car, da questo momento fino all’E-Day”. E io: “Ma in sostanza, Dick,
cosa intendi per programmare?” Mi spiegò che avrei dovuto stabilirne i
tempi, partendo dalla fine e procedendo a ritroso. Era una cosa che non
avevo mai fatto – di solito non ero io a decidere le pause, spettava ai
committenti – ma ci misi poco a capire che Dick aveva proprio ragione.
Comunicare la Edsel era fin troppo facile. Nei primi mesi del 1956, quando
ancora la chiamavamo E-Car, Krafve convocò una riunione a Portland,
nell’Oregon, per spiegarci il suo punto di vista. Pensavamo che bastasse
annunciarla con qualche riga sui quotidiani della zona, ma le agenzie di
stampa diedero risalto alla notizia e tutto il Paese venne a sapere di quella
riunione. Ci arrivarono secchiate di articoli. Fu allora che mi resi conto del
rischio che correvamo. Il pubblico smaniava per vedere la nostra macchina:
se la immaginava come una specie di auto dei sogni, diversa da tutte le
altre. Dissi a Krafve: “Potrebbero restare delusi, scoprendo che ha quattro
ruote e un motore come tutte”».
Fu deciso che il modo migliore per tenersi in equilibrio tra i rischi
contrapposti di dare troppa visibilità o poca visibilità alla Edsel consisteva
nel non dire nulla di generico sulla macchina, rivelandone poco alla volta le
singole attrattive: una specie di spogliarello in versione automobilistica
(metafora che Warnock non poté, per ovvie ragioni di decenza, utilizzare,
ma che fu lieto di vedere riportata sulle pagine del «New York Times»).
Questa linea di condotta fu seguita fedelmente, eccetto alcune piú o meno
consapevoli violazioni. Sul finire dell’estate che precedeva l’E-Day, per
esempio, alcuni giornalisti convinsero Krafve a concedere loro quella che
Warnock definí «una sbirciatina» alla Edsel, oppure una presentazione
individuale in stile «guarda e dimentica». E quando sulle autostrade
americane comparvero i primi autoarticolati che consegnavano le nuove
Edsel alle sedi dei concessionari, si scoprí che i teloni di copertura degli
autocarri erano sempre slacciati in qualche punto, come per stuzzicare la
curiosità del pubblico. Sempre quell’estate, un quartetto di predicatori
composto da Krafve, Doyle, J. Emmet Judge (direttore del merchandising e
della pianificazione prodotti della Edsel) e Robert F. G. Copeland
(vicedirettore generale delle vendite, responsabile del comparto
pubblicitario e della formazione) percorse in lungo e in largo il Paese con
una tale, instancabile energia che Warnock, per non perdere traccia degli
spostamenti dei colleghi, li seguiva appuntando degli spilloni colorati sulla
carta geografica appesa nel suo ufficio. Certe mattine lo si sentiva fare il
punto della situazione («Dunque vediamo: Krafve parte da Atlanta e arriva
a New Orleans, mentre Doyle va da Council Bluffs a Salt Lake City…»),
dopodiché si alzava, e sorseggiando la seconda tazza di caffè della giornata
andava a infilzare gli spilli nella mappa.
Benché il suo pubblico fosse composto in gran parte da banchieri e
rappresentanti di società finanziarie disposte – cosí almeno si sperava – a
finanziare i nuovi concessionari della Edsel, il tono dei discorsi che Krafve
pronunciò quell’estate era tutt’altro che magniloquente: con una sobrietà ai
limiti della cupezza, si limitò a delineare con prudenza degna di uno statista
le prospettive di successo della nuova auto. Un atteggiamento piú che mai
giustificato dai recenti sviluppi del quadro economico nazionale, che
avrebbero instillato il dubbio anche nei temperamenti piú ottimisti. Nel
luglio del 1957 un crollo improvviso del mercato azionario aveva segnato
l’inizio di quella che oggi si ricorda come la recessione del 1958. Ai primi
di agosto, poi, era iniziata una fase di declino delle vendite in tutto il
segmento delle auto di medio prezzo, a prescindere dalla marca, e la
situazione era andata peggiorando con tale rapidità che la rivista di settore
«Automotive News» preannunciava una chiusura di stagione con invenduti
assai prossimi al record assoluto. E se Krafve, stanco del suo solitario
vagabondare, avesse mai pensato di volgersi a Dearborn in cerca di
consolazione, sarebbe stato profondamente disilluso: sempre in agosto, un
portavoce della Mercury aveva annunciato il varo di una campagna
pubblicitaria milionaria con la quale la compagna di scuderia della Edsel
sperava di dare filo da torcere alla nuova arrivata, rivolgendosi in
particolare agli «acquirenti sensibili al fattore prezzo»: una chiara allusione
al fatto che la Mercury del ’57, grazie agli sconti praticati dai concessionari,
costava meno di quanto presumibilmente sarebbe costata la nuova Edsel.
Nel frattempo le vendite della Rambler, l’unica vettura compatta di
produzione americana, stavano salendo in maniera preoccupante. Visti i
cattivi presagi, Krafve prese l’abitudine di terminare i suoi discorsi con una
storiella triste a proposito del presidente di una fabbrica di cibo per cani
che, di fronte ai ripetuti insuccessi dell’azienda, diceva ai colleghi del
consiglio di amministrazione: «Signori, guardiamo in faccia la realtà: ai
cani, il nostro prodotto non piace». In almeno un’occasione, risulta che
Krafve abbia illustrato la morale dell’aneddoto con ammirevole chiarezza:
«Nel nostro caso, staremo a vedere se alla gente piacerà la nostra
macchina».
Ma il pessimismo di Krafve non fece presa sulla maggior parte dei suoi
colleghi alla divisione Edsel. Il piú immune al contagio era forse J. Emmet
Judge, che nella sua veste di oratore itinerante aveva finito per
specializzarsi in associazioni territoriali e gruppi civici. Incurante dei
vincoli imposti dalla politica dello spogliarello, Judge vivacizzava i suoi
discorsi proiettando su uno schermo CinemaScope una tale dovizia di
grafici animati, cartelloni, tabelle e immagini di componenti dell’auto, che i
suoi ascoltatori facevano quasi in tempo ad arrivare a casa prima di rendersi
conto di non aver visto la Edsel. Judge vagava senza sosta tra il pubblico e
muoveva il suo caleidoscopio di diapositive con l’aiuto di un sistema
automatico di proiezione: un trucchetto tecnologico reso possibile da
un’apposita squadra di elettricisti, che prima di ogni conferenza posavano
sul pavimento della sala un labirinto di fili e collegavano il proiettore a
decine di interruttori azionabili con il piede al momento opportuno. Ogni
«serata Judge» – cosí le si chiamava in azienda – costava alla divisione
Edsel la bellezza di cinquemila dollari, compresi gli stipendi e i rimborsi
spese per il personale tecnico che arrivava almeno un giorno prima per
sistemare i marchingegni elettrici. All’ultimo momento, Judge calava
teatralmente sulla città in aereo, raggiungeva in tutta fretta il luogo deputato
e dava inizio allo show. Pestando a casaccio un interruttore qui e uno là,
esordiva dicendo pressappoco: «Uno degli aspetti piú interessanti di tutto il
programma Edsel è l’assoluta novità della filosofia produttiva e
promozionale. Noi che ci lavoriamo ne siamo davvero orgogliosi, e non
vediamo l’ora che arrivi l’autunno perché la Edsel faccia il suo debutto sui
mercati e ottenga il successo che si merita […] Non avremo mai piú
l’occasione di lavorare a un progetto paragonabile a questo per dimensioni e
significato […] E adesso diamo un’occhiatina all’auto che verrà presentata
al pubblico americano il 4 settembre 1957 [a questo punto Judge mostrava
l’immagine provocante di un coprimozzo, o il dettaglio di un parafango]
[…] È un’auto diversa sotto tutti i punti di vista, eppure ha un che di
tradizionale che la rende ancora piú interessante […] La singolarità del
frontale si integra alla perfezione con i motivi incisi sulle fiancate». E via di
seguito, declamando ed esaltando «la lamiera scolpita», «il dettaglio di
punta», e «le linee eleganti e fluide». In prossimità del gran finale, il tono
della perorazione si faceva stentoreo: «Noi siamo orgogliosi della Edsel!»
gridava Judge, schiacciando interruttori a destra e a manca. «A partire dal
prossimo autunno conquisterà le strade e le autostrade d’America, portando
nuova gloria alla Ford Motor Company. Questa, signori, è la Edsel».
Il momento culminante dello spogliarello, sottolineato dal classico rullo
di tamburi, fu l’anteprima per la stampa che ebbe luogo nelle sedi di Detroit
e di Dearborn: il 26, 27 e 28 agosto del 1957, duecentocinquanta giornalisti
accorsero da ogni angolo del Paese per ammirare la Edsel senza veli, dal
muso oblungo al vistoso posteriore. Dettaglio inconsueto per questo genere
di sabba automobilistici, i reporter furono invitati a portare con sé le gentili
consorti; molti lo fecero, sicché, a un certo punto, la Ford si rese conto che
l’evento le era già costato la bellezza di novantamila dollari prima ancora di
giungere al termine. A dispetto di tanta grandiosità, la scelta di
un’ambientazione cosí banale fu una delusione per Warnock, che si era
visto respingere tre originalissime proposte: un piroscafo sul fiume Detroit
(«Improprio sul piano simbolico»), la minuscola frazione di Edsel, nel
Kentucky («Inaccessibile alle auto»), e l’isola di Haiti («Non se ne parla
proprio»). Cosí osteggiato, Warnock non poté fare di meglio, domenica 25
agosto, che sistemare i giornalisti e le loro mogli allo Sheraton-Cadillac
Hotel (nome invero piuttosto infelice) e annunciare per il lunedí pomeriggio
una presentazione dettagliata dell’intera gamma Edsel: diciotto varianti
suddivise in quattro linee principali (Corsair, Citation, Pacer e Ranger)
diverse soprattutto per dimensioni, potenza e finiture. Il mattino successivo
alcuni esemplari di ogni modello furono mostrati nella Rotunda, il famoso
centro visitatori della Ford, alla presenza di Henry II, che pronunciò un
breve discorso di omaggio a suo padre. «Le mogli non erano invitate alla
cerimonia di svelamento, – racconta un funzionario della Foote, Cone &
Belding. – Era un evento troppo solenne e professionale. In ogni caso, andò
bene: c’era molta emozione, persino tra le vecchie volpi della carta
stampata». (Nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli emozionati reporter
scrissero semplicemente che la Edsel sembrava una buona macchina, anche
se meno innovativa di quanto la Ford avesse fatto credere).
Nel pomeriggio i giornalisti furono accompagnati alla pista di prova per
assistere a un test di resistenza delle Edsel condotto da una squadra di piloti
acrobatici. Ma lo spettacolo che nelle intenzioni dell’azienda avrebbe
dovuto galvanizzare il pubblico fu invece giudicato raggelante, se non
decisamente insopportabile. Non potendo celebrarne la velocità e la potenza
(giacché soltanto pochi mesi prima l’intero comparto automobilistico aveva
nobilmente deciso di concentrarsi sulla fabbricazione di auto che non
fossero bombe a scoppio ritardato), Warnock aveva deciso di sottolineare,
non a parole ma coi fatti, il carattere vivace della Edsel. I piloti diedero
fondo a tutto il loro repertorio di acrobazie: salirono su rampe alte mezzo
metro stando in equilibrio su due ruote, si gettarono da rampe ancora piú
alte atterrando sulle quattro ruote, si incrociarono a cento all’ora senza mai
urtarsi, frenarono in derapata agli ottanta. Negli intermezzi tra
un’evoluzione e l’altra, un clown rifaceva il verso alle prodezze dei
temerari colleghi. Intanto gli altoparlanti spandevano tutt’intorno la voce
suadente di Neil L. Blume, ingegnere capo della divisione Edsel, che lodava
la versatilità, la sicurezza, la robustezza, la manovrabilità e l’efficienza
delle nuove auto, sorvolando sui pericolosi concetti di «velocità» e
«potenza» con la stessa delicatezza di un gabbiano che si libra sulle onde. A
un certo punto, quando una Edsel saltò giú da una rampa altissima
rischiando seriamente di ribaltarsi, Krafve fu visto impallidire: in seguito
dichiarò di non essere stato al corrente dell’audacia delle evoluzioni, e di
essersi molto preoccupato sia per il buon nome della Edsel, sia per
l’incolumità dei piloti. Warnock, accorgendosi che il capo era a disagio, si
avvicinò per chiedergli se gradiva lo spettacolo. Krafve ribatté seccamente
che avrebbe risposto solo alla fine, quando fosse stato sicuro che nessuno si
era fatto male. Il resto del pubblico, a quanto pare, si divertí un mondo. Un
funzionario della Foote, Cone & Belding descrisse la scena in questi
termini: «Una verde collina del Michigan, e quelle splendide Edsel che si
esibivano in splendida armonia: magnifico, davvero. Come uno spettacolo
delle Rockettes. Emozionante. Il morale era altissimo».
L’entusiasmo aveva spinto Warnock a vertici di stravaganza ancor piú
sublimi. Come lo svelamento, anche l’esibizione dei piloti acrobatici fu
ritenuta uno spettacolo troppo forte per le gentili consorti dei giornalisti, ma
quell’uomo pieno di risorse aveva in serbo per le signore un défilé di moda
che si augurava altrettanto divertente. Auspicio certamente ben riposto:
poco prima del sipario finale la bella e talentuosa protagonista della sfilata,
che Roy Brown in persona aveva presentato come una famosa couturière di
Parigi, si rivelò essere un attore che recitava en travesti. Cosa che Warnock,
per rendere il tutto piú verosimile, aveva intenzionalmente taciuto a Brown.
Da quel giorno i rapporti tra Brown e Warnock non furono piú gli stessi,
tuttavia le mogli dei giornalisti ebbero modo di suggerire ai loro mariti del
materiale sfizioso da aggiungere agli articoli.
La sera ci fu uno sfarzoso ricevimento nella sede del reparto
progettazione, addobbato in stile night club con tanto di fontana zampillante
a tempo di musica. Il piccolo dettaglio che rischiò di rovinare la serata fu il
monogramma che spiccava a lettere brillanti sulle postazioni dei musicisti:
«GM» come Glenn Miller, il defunto fondatore dell’orchestra diretta da Ray
McKinley, ma anche, ovviamente, come General Motors. Il mattino
successivo, durante la conferenza stampa finale dei massimi dirigenti della
Ford, Breech dichiarò che la Edsel era «un bel giovanottone robusto» e che
tutti loro, «da bravi neogenitori, erano gonfi d’orgoglio come mongolfiere».
Dopodiché settantuno giornalisti si misero al volante di altrettante Edsel e
partirono alla volta di casa: non per mettere le auto in garage, ma per
consegnarle ai concessionari Edsel delle rispettive zone. A proposito del
gran finale, Warnock racconta: «Ci furono vari inconvenienti. Un tale
sbagliò manovra e andò a sbattere da qualche parte a tutta velocità, ma di
questo la Edsel non aveva colpa. Un’altra vettura perdette la coppa
dell’olio, e il motore si grippò. Cose che succedono anche alle auto
migliori. Il lato positivo della notizia era che in quel momento il giornalista
alla guida stava attraversando una cittadina del Kansas dal rasserenante
nome di Paradise. Il concessionario piú vicino accorse con una nuova Edsel,
e il giornalista poté ripartire alla volta di casa affrontando le ripide salite del
Pikes Peak. Un’altra auto, invece, si schiantò contro la garitta di un casello
a causa di un guasto ai freni. Quello sí che fu un guaio. È buffo, ma il
problema che ci dava piú ansie – e cioè che gli altri automobilisti,
impazienti di vedere la nuova auto, le si accalcassero intorno rischiando di
mandarla fuori strada – si verificò una sola volta, lungo l’autostrada a
pedaggio della Pennsylvania. Mentre il giornalista alla guida procedeva con
tutta calma e senza il minimo problema, un tale a bordo di una Plymouth si
accostò per curiosare e si avvicinò a tal punto che la Edsel venne urtata di
striscio. Pochi danni, per fortuna».

Verso la fine del 1959, quando la Edsel era da poco uscita di produzione,
il settimanale «Business Week» rivelò che durante la colossale
presentazione alla stampa un dirigente della Ford aveva confidato a un
giornalista: «Se non ci fossimo dentro fino al collo, non l’avremmo mai
fatta uscire proprio adesso». Dichiarazione alquanto sospetta, considerati il
ritardo con cui era stata divulgata e la forte dissonanza con le opinioni degli
altri dirigenti, i quali (compreso Krafve, al netto dei raffronti con le
fabbriche di cibo per cani) fino all’E-Day e anche nei mesi immediatamente
successivi si erano sempre detti fiduciosi nel successo della Edsel. Anche
nel periodo che intercorse tra la presentazione alla stampa e l’Edsel Day lo
stato d’animo dei partecipanti al progetto continuò a essere sfrenatamente
ottimista. «Oldsmobile, addio!» recitava l’inserzione pubblicitaria con cui
un’importante ex concessionaria di quella marca annunciava il passaggio
alla Edsel. Un rivenditore di Portland, nell’Oregon, fece sapere di aver già
venduto a scatola chiusa ben due Edsel. Nel frattempo Warnock era riuscito
a scovare in Giappone una fabbrica di fuochi d’artificio disposta a fornirgli
al modico prezzo di nove dollari l’uno cinquemila razzi che, esplodendo a
mezz’aria, avrebbero liberato dei modellini di carta di riso a forma di Edsel,
che sarebbero scesi a terra gonfiandosi come piccoli paracadute: inebriato
da quella visione di cieli e strade d’America pullulanti di Edsel, Warnock
avrebbe firmato l’ordine senza esitare se Krafve, guardandolo con aria a dir
poco sconcertata, non avesse posto il veto.
Il 3 settembre, a un solo giorno dall’Edsel Day, furono annunciati i
prezzi dei vari modelli: i costi oscillavano tra poco meno di 2800 dollari e
poco piú di 4100 per le vetture in consegna a New York. Venne dunque il
fatidico E-Day. A Cambridge, Massachusetts, un convoglio di Edsel nuove
fiammanti sfilò lungo la principale arteria cittadina preceduto da una banda;
l’elicottero noleggiato da uno dei piú entusiasti rivenditori presi al lazo da
Doyle decollò da Richmond, in California, e sorvolò la baia di San
Francisco trainando un’enorme insegna della Edsel; e anche se Warnock
non aveva potuto far decollare i suoi razzi, bastava accendere una radio o
un televisore per accorgersi che in ogni angolo degli Stati Uniti, dai bayou
della Louisiana fino alla vetta del monte Rainier o fino ai boschi del Maine,
l’aria vibrava della presenza delle Edsel. Una vera e propria tempesta
pubblicitaria, suggellata dall’immagine che uscí quel giorno su tutti i
quotidiani del Paese: la Edsel in tutto il suo splendore, e accanto a lei il
presidente Henry Ford II e l’amministratore delegato Breech. Il presidente
Ford somigliava a un giovane padre dall’aria distinta, e Breech a un distinto
giocatore di poker pronto a calare un full; la Edsel, invece, sembrava sé
stessa e basta. Il testo di accompagnamento spiegava che la decisione di
produrre la nuova auto era fondata su «ciò che sapevamo, intuivamo,
sentivamo, credevamo, immaginavamo di voi, perché VOI siete il motivo
per cui esiste la Edsel». Il tono era calmo e fiducioso: il giocatore aveva in
mano un full, su questo non c’era dubbio.
Secondo alcune stime, prima che il sole tramontasse su quel 4 settembre
ben 2 milioni e 850 000 persone erano andate da un concessionario a vedere
la nuova auto. Tre giorni piú tardi, a Philadelphia, qualcuno rubò una Edsel.
Il furto segnò probabilmente il massimo livello del consenso: di lí a pochi
mesi, soltanto un ladro d’auto di modestissime pretese avrebbe mosso un
dito per rubare una Edsel.

Declino e caduta.

Il tratto fisico piú evidente della Edsel era, come è noto, la mascherina
del radiatore. Laddove all’epoca le altre diciannove marche di auto in
commercio negli Stati Uniti avevano griglie orizzontali molto ampie, quella
della Edsel era verticale e oblunga: un fregio di forma ovoidale in acciaio
cromato, proprio al centro del muso, con la scritta EDSEL in lettere
d’alluminio. Nell’intenzione dei disegnatori doveva richiamare alla
memoria il tipico frontale delle auto di venti o trent’anni prima e di molte
vetture europee contemporanee, conferendo alla Edsel un aspetto
tradizionale e sofisticato al tempo stesso. Il guaio era che, mentre i frontali
delle vecchie auto e dei nuovi modelli europei erano di per sé alti e stretti –
tanto da contenere la griglia del radiatore e poco altro – la parte anteriore
della Edsel era larga e bassa come quelle di tutte le auto americane. La
conseguenza era che a destra e a sinistra della mascherina c’erano ampi
spazi da riempire, e si pensò di riempirli con la piú tradizionale delle griglie
cromate a sviluppo orizzontale. L’effetto complessivo era quello di una
Oldsmobile con la prua di una Pierce-Arrow incastrata nel mezzo, o piú
metaforicamente di una sguattera che si pavoneggia con i gioielli della
duchessa. L’ambizione di raffinatezza era talmente scoperta da far
tenerezza.
Ma se la mascherina della Edsel poteva piacere proprio in virtú della sua
ingenuità, il retro era tutt’altra faccenda. Anche in questo caso, la
caratteristica saliente era un netto distacco dalle convenzioni dell’epoca.
Invece delle famose pinne caudali, la Edsel aveva quelle che gli estimatori
chiamavano ali, e che ai detrattori meno fantasiosi sembravano
sopracciglia. Vero è che le linee del baule e dei parafanghi posteriori,
sporgenti verso l’alto e all’esterno, potevano vagamente rammentare le ali
di un gabbiano in volo; ma l’effetto era rovinato dai fanalini lunghi e stretti,
incastonati in parte nel baule e in parte nei parafanghi in modo da seguire il
profilo delle ali: soprattutto di notte, il posteriore delle Edsel somigliava in
modo inquietante a un viso umano con gli occhi all’insú. Vista da davanti,
la Edsel sembrava ansiosa di piacere, anche a costo di sembrare ridicola; da
dietro, invece, mostrava una certa astuzia levantina, una furtiva ansia di
dominio, magari condita da un tocco di sprezzante cinismo. Come se nello
spazio compreso tra il muso e la coda si fosse verificato un sinistro
cambiamento di personalità.
Sotto altri punti di vista, l’aspetto della Edsel non era poi cosí insolito. I
fianchi erano decorati da una quantità di cromature appena inferiore alla
media, e da un ampio solco a forma di proiettile che scavava la metà
posteriore delle fiancate fino al parafango posteriore. Piú o meno a metà del
solco, nonché sulla piccola griglia decorativa sotto il lunotto posteriore,
compariva la scritta EDSEL a lettere cromate. (D’altronde, lo stilista Roy A.
Brown non aveva forse detto di voler creare un’auto «facilmente
riconoscibile»?) Gli allestimenti interni rivelavano il palese sforzo di
realizzare la profezia del direttore generale Krafve, per il quale la nuova
auto doveva essere «la quintessenza dell’èra dei pulsanti». Previsione
certamente avventata, se si considera quale fosse all’epoca la diffusione dei
comandi a pulsante nelle auto di fascia media: tuttavia la Edsel fece del suo
meglio, dotandosi di un’accozzaglia di gadget tecnologici quale mai si era
vista prima di allora in una vettura. Sopra o accanto al cruscotto erano
schierati i seguenti comandi: un pulsante per l’apertura del vano bagagli;
una leva per il rilascio del freno a mano; un tachimetro che si illuminava di
rosso quando la velocità superava il limite massimo indicato dal
conducente; un’unica manopola per controllare gli impianti di
riscaldamento e condizionamento; un contagiri degno di un’auto da corsa;
svariati bottoni per accendere e regolare i fanali, l’altezza dell’antenna
radio, la ventola per il riscaldamento/raffreddamento dell’abitacolo, i
tergicristalli, l’accendisigari; una fila di otto spie rosse la cui accensione
indicava che il motore era troppo caldo, o non abbastanza caldo, oppure che
il generatore di corrente non stava ricaricando la batteria, che il freno a
mano era tirato, che una delle portiere era aperta, che la pressione dell’olio
non era sufficiente, che il serbatoio del carburante era quasi vuoto: il
conducente scettico, peraltro, avrebbe potuto ricavare quest’ultima
informazione da una rapida occhiata all’indicatore di livello del serbatoio,
collocato a pochi centimetri di distanza. Infine, quintessenza della
quintessenza, i comandi del cambio automatico – singolarmente situati
all’estremità del piantone dello sterzo, proprio al centro del volante – erano
formati da una galassia di cinque bottoni cosí sensibili al tocco che, come
gli uomini della squadra di progettazione si trattenevano a stento dal
dimostrare, si potevano azionare con la pressione di uno stuzzicadenti.
I modelli delle due linee piú costose della Edsel – Corsair e Citation –
erano anche i piú lunghi, e con i loro cinque metri e cinquantasei centimetri
superavano di cinque centimetri la piú lunga delle Oldsmobile; anche la
larghezza (due metri circa) era ai massimi della categoria, mentre l’altezza
relativamente contenuta (un metro e quarantadue centimetri) era in linea
con lo stile delle vetture di prezzo medio. Le Edsel Ranger e Pacer erano
quindici centimetri piú corte, due centimetri e mezzo piú strette e due
centimetri e mezzo piú basse rispetto alle Corsair e alle Citation. I motori da
345 cavalli facevano di queste ultime le vetture piú potenti sul mercato
americano; le Ranger e le Pacer, equipaggiate con motori da 303 cavalli,
erano comunque ai vertici delle rispettive classi. Al lievissimo tocco di uno
stuzzicadenti sul tasto «Drive», una berlina della serie Corsair o Citation
(due tonnellate abbondanti di macchina) era in grado di passare, se
adeguatamente pilotata, da zero a 96 chilometri l’ora in soli dieci secondi e
tre decimi, coprendo la distanza di quattrocento metri in diciassette secondi
e mezzo. E se qualcosa o qualcuno aveva la sfortuna di trovarsi nella
traiettoria di una Edsel dopo che lo stuzzicadenti aveva premuto il pulsante,
tanto peggio.

Quando finalmente si affacciò alla ribalta, la Edsel ricevette quella che


nel gergo dei recensori si chiama un’accoglienza contrastata. I responsabili
delle rubriche specializzate dei quotidiani si limitarono a descriverla in toni
neutri, con rare parole di elogio e commenti a volte ambigui («Sul piano
dello stile, la differenza è spettacolare», dichiarò Joseph C. Ingraham del
«New York Times»), a volte apertamente favorevoli («Una bella, grintosa
novità», scrisse Fred Olmstead sulle pagine del «Free Press» di Detroit). Le
riviste di settore espressero giudizi piú articolati, talora piú severi. «Motor
Trend», il piú diffuso tra i mensili dedicati alle auto, riservò otto pagine del
numero di ottobre 1957 a un’analisi critica della nuova auto a firma di Joe
H. Wherry, redattore capo della sede di Detroit. Wherry elogiò l’estetica
della Edsel, la comodità degli interni e i vari gadget tecnologici, senza
tuttavia specificare le ragioni precise del suo gradimento; nel rendere i
meritati omaggi ai comandi del cambio automatico posizionati sul volante,
Wherry sottolineava come ciò permettesse di «non staccare gli occhi dalla
strada neppure per un istante». Pur ammettendo che vi fossero «opportunità
inesplorate di […] maggiore innovazione», Wherry concludeva l’articolo
con una sintesi per nulla avara di elogi: «La Edsel ha buone prestazioni,
viaggia bene ed è maneggevole». Tom McCahill di «Mechanix Illustrated»
espresse generica ammirazione per la «Portabulloni» – cosí aveva
affettuosamente soprannominato la Edsel – senza tuttavia nascondere
alcune riserve che, incidentalmente, ci dànno un’interessante prospettiva sul
concetto di scomodità come lo intendono i critici automobilistici. «Ogni
volta che davo gas a manetta sulla pavimentazione in cemento rigato, le
ruote si mettevano a girare come pale di un frullatore impazzito […] Alle
alte velocità, soprattutto nelle curve molto strette, le sospensioni sgroppano
un po’… Non ho potuto fare a meno di chiedermi come si comporterebbe
questa bagnarola, se solo stesse piú attaccata alla strada».
La piú esplicita – e forse anche piú dannosa – stroncatura che la Edsel
ricevette nei suoi primi mesi di vita fu però quella apparsa nel numero di
gennaio 1958 di «Consumer Reports», la rivista mensile dell’Unione
consumatori, che contava tra i suoi ottocentomila abbonati un serbatoio di
potenziali acquirenti della Edsel probabilmente piú nutrito rispetto a quello
di riviste specializzate come «Motor Trend» o «Mechanix Illustrated».
Dopo una prova su strada della Edsel Corsair, il recensore si esprimeva in
questi termini:

La Edsel non presenta vantaggi di particolare rilevanza in confronto ad altre marche.


La struttura dell’auto è ampiamente convenzionale […] Sulle strade accidentate, la
quantità di sobbalzi della Corsair – che non tardano a tradursi in crepitii e cigolii – va
ben oltre l’accettabile […] Dal punto di vista della guidabilità – sterzo lentissimo e poco
reattivo, molti ondeggiamenti in curva e una generale sensazione di scarsa aderenza alla
strada – le prestazioni sono, a voler essere generosi, mediocri. In sostanza, un’auto poco
maneggevole, che per giunta tende a tremare come un budino: non certo un progresso,
anzi […] Premendo sull’acceleratore quando si è in mezzo al traffico, o impegnati in un
sorpasso, o per il semplice gusto di sentire la potenza del motore, i grossi pistoni della
Edsel «bevono» una quantità smodata di carburante […] Il centro dello sterzo non è, a
nostro parere, il posto ideale per sistemare dei pulsanti […] Impossibile [con buona pace
di Mr Wherry] guardarli senza distogliere gli occhi dalla strada. Quest’auto «colma di
magnificenze» – cosí è stata descritta sulla copertina di una rivista – piacerà soltanto a
chi non sa distinguere tra gadget e autentico lusso.

Tre mesi piú tardi, in una rassegna di tutti i modelli di auto messi in
commercio nel 1958, «Consumer Reports» sferrava un nuovo attacco alla
Edsel, definendola «l’auto piú sovraccarica di potenza, aggeggi inutili e
accessori costosi» della sua fascia di prezzo, e relegando le Edsel Corsair e
Citation agli ultimi posti della classifica in base al rapporto qualità-prezzo.
Come per Krafve, anche per «Consumer Reports» la Edsel era la
quintessenza di qualcosa: ma in quest’ultimo caso si trattava dei «molti
eccessi» dell’industria automobilistica, che finivano per «respingere un
numero sempre maggiore di potenziali acquirenti».
Eppure, in un certo senso, la Edsel non era poi cosí male. Dopo tutto
incarnava lo spirito della sua epoca, o almeno dell’epoca in cui era stata
progettata, cioè i primi mesi del 1955. Era goffa, energica, démodé,
sgraziata ma piena di buone intenzioni come una donna di De Kooning.
Eccetto i pubblicitari della Foote, Cone & Belding (che erano pagati per
farlo), pochi hanno tributato le giuste lodi alla sua capacità di trasmettere
una confortante sensazione di benessere. Senza contare che molti progettisti
delle marche rivali, comprese Chevrolet, Buick e la stessa Ford, hanno
finito per rendere giustizia all’operato di Brown imitando almeno uno dei
tanto vituperati tratti distintivi della Edsel, ovvero le «ali» posteriori
sporgenti. Sarebbe troppo semplice attribuire le colpe dell’insuccesso al
solo aspetto esteriore o a un eccesso di ricerca motivazionale, giacché nella
breve e infelice vita della Edsel molte furono le circostanze che
contribuirono al fiasco commerciale. Una di queste era il fatto incredibile,
ma vero, che molte delle primissime Edsel – cioè proprio quelle destinate a
riscuotere piú attenzione – fossero tragicamente imperfette. La poderosa
campagna promozionale della Ford aveva generato una fortissima ondata di
curiosità: il pubblico aveva grandi aspettative, e la nuova auto era oggetto di
un’attenzione senza precedenti. Ma la macchina, in sostanza, non
funzionava. A un paio di settimane dal debutto sui mercati, le magagne
della Edsel erano sulla bocca di tutti. Auto che uscivano dalla fabbrica con i
serbatoi bucati, i comandi di apertura del vano motore o del portabagagli
non funzionanti, pulsanti che invece di azionarsi al tocco di uno
stuzzicadenti non si smuovevano neanche se presi a martellate. Un giorno
un automobilista inequivocabilmente sconvolto entrò in un bar sulla riva
dell’Hudson e chiese con urgenza un doppio whisky, annunciando poi che il
cruscotto della sua Edsel nuova di zecca aveva appena preso fuoco.
«Automotive News» fece un elenco dei difetti piú gravi (verniciatura,
scarsa qualità delle lamiere, accessori scadenti) e riferí il lamento di un
rivenditore a proposito di una delle prime Edsel convertibili che gli erano
state consegnate: «Il tettuccio apribile era montato male, le porte erano
sbilenche, la barra anteriore della capote era rifilata a un angolo sbagliato,
le balestre anteriori erano piatte». Per colmo di sfortuna, una delle Edsel
collaudate dall’Unione consumatori (che per evitare il rischio di
manipolazioni da parte dei fabbricanti si serviva esclusivamente di
esemplari acquistati sul mercato libero) aveva il rapporto al ponte sbagliato,
una valvola del sistema di raffreddamento fuori uso, la pompa del
servosterzo che perdeva olio, gli ingranaggi dell’asse posteriore troppo
rumorosi e il sistema di riscaldamento che sparava raffiche d’aria calda
anche quand’era spento. Secondo le stime di un ex dirigente di divisione,
solo metà delle prime Edsel funzionavano a dovere.

Il profano non può fare a meno di domandarsi come un’azienda possente


e gloriosa come la Ford sia incappata, dopo tanti meticolosi preparativi, in
uno scivolone degno di una comica alla Mack Sennett. La coraggiosa
risposta del pallido, infaticabile Krafve è che i primi esemplari di ogni
nuovo modello (foss’anche la riedizione di un’auto vecchia e già
collaudata) sono sempre difettosi. Secondo una teoria piú inquietante (solo
una teoria, sia chiaro) ci sarebbero state delle azioni di sabotaggio in alcuni
dei quattro impianti che producevano la Edsel, i quali (con una sola
eccezione) erano stati ed erano ancora utilizzati per l’assemblaggio delle
Mercury e delle Ford. E poi bisogna ricordare che la Edsel era una sorta di
esperimento commerciale: prima di allora la Ford Company non aveva mai
seguito l’esempio della General Motors, che da anni, invece, autorizzava e
addirittura incoraggiava la concorrenza spietata fra i suoi marchi
Oldsmobile, Buick, Pontiac e Chevrolet; esposti per la prima volta allo
stesso tipo di competizione interna, i dipendenti delle divisioni Ford e
Lincoln-Mercury avevano auspicato senza mezzi termini un fallimento del
progetto Edsel. (Krafve, fiutando il pericolo, aveva chiesto che alcuni
stabilimenti del gruppo fossero utilizzati esclusivamente per il montaggio
delle Edsel, ma i superiori avevano bocciato la proposta). Da veterano del
settore nonché comandante in seconda di Krafve, Doyle respinge con
autorevole sdegno l’ipotesi di un boicottaggio della Edsel. «Certo, le
divisioni Ford e Lincoln-Mercury avrebbero preferito non doversi misurare
con una nuova auto del gruppo, ma a quanto mi è dato sapere nessuno – né i
responsabili né i dipendenti dei vari impianti – ha mai agito in violazione
delle regole. È solo nei comparti distribuzione e vendita che si è combattuto
duro a suon di maldicenze e propaganda negativa. Ma l’avrei fatto anch’io,
se avessi lavorato nelle altre divisioni». Nessun generale di vecchia scuola
potrebbe commentare una sconfitta con parole piú nobili.
Anche se le catene di montaggio della Edsel sfornavano auto tremolanti,
che si bloccavano davanti agli ostacoli o si trasformavano lí per lí in
scintillanti ammassi di spazzatura, agli uomini che prepararono il gran
debutto della Edsel va comunque riconosciuto il merito del suo successo
iniziale. Secondo Doyle, nel solo Edsel Day il numero di auto ordinate o
consegnate agli acquirenti avrebbe superato le 6500 unità. Un risultato
indubbiamente buono, malgrado alcuni segnali di resistenza: il titolare di
due autosaloni del New England, uno esclusivamente dedicato alle Edsel e
l’altro alle Buick, raccontava per esempio di aver visto entrare due clienti
nel salone Edsel, i quali però, dopo una fugace occhiata alle vetture in
esposizione, si erano affrettati a ordinare una Buick.
Nei giorni immediatamente successivi all’E-Day le vendite subirono un
netto calo, peraltro non del tutto inatteso dopo tanto clamore. I dati sulle
consegne di auto ai concessionari – uno dei piú importanti indici dello stato
di salute del settore, generalmente misurato a intervalli di dieci giorni –
mostrano per i primi dieci giorni di settembre un totale di 4095 vetture
recapitate, anche se in realtà la vendita delle Edsel era iniziata soltanto nel
quarto giorno del mese. La cifra è inferiore a quella indicata da Doyle
perché molti degli acquisti iniziali riguardavano modelli o combinazioni di
colori non ancora in stock, o disponibili soltanto su ordinazione. Il totale
delle consegne per la seconda decade di settembre fu lievemente inferiore,
mentre quello relativo alla terza decade si attestò poco al di sotto delle 3600
unità. Nei primi dieci giorni di ottobre (che comprendevano un giorno
festivo) le consegne furono 2751, corrispondenti a una media di poco piú di
300 auto al giorno. Per raggiungere il traguardo di redditività di 200 000
auto all’anno, la media giornaliera delle auto vendute avrebbe dovuto
oscillare tra le sei e le settecento unità. Neppure il fantasmagorico varietà
televisivo che la Ford Company mandò in onda nella serata del 13 ottobre,
accaparrandosi la fascia oraria normalmente riservata all’Ed Sullivan Show,
serví a dare impulso alle vendite nonostante fosse costato la bellezza di
quattrocentomila dollari e annoverasse tra gli ospiti personaggi del calibro
di Bing Crosby e Frank Sinatra. Ormai era chiaro a tutti che le cose non
stavano andando affatto bene.
Gli ex dirigenti della divisione Edsel hanno opinioni discordi circa il
momento in cui i segnali di sventura si fecero inequivocabili. Secondo
Krafve, l’ora della verità giunse a ottobre inoltrato. David Wallace, con
l’autorità conferitagli dalla pipa sempre accesa e dalla posizione di
aspirante testa d’uovo, associa il disastro a una data precisa: il 4 ottobre
1957, giorno del lancio in orbita del primo Sputnik. Quel piccolo satellite
sovietico, dice, mandò in frantumi il mito della supremazia tecnologica
americana e provocò un’ondata di rigetto verso i sofisticati giocattoli
prodotti a Detroit. Con la barometrica sensibilità agli umori del pubblico
che è tipica di un buon direttore delle relazioni pubbliche, Warnock sostiene
che il momento della svolta giunse a metà settembre; Doyle, al contrario,
afferma di essere stato ottimista fino alla metà di novembre: a quel punto,
probabilmente, tutti fuorché lui avevano capito che a scanso di miracoli la
Edsel non aveva piú speranze. «A novembre, – racconta Wallace con
sociologico rigore, – si scatenò il panico, accompagnato come sempre da un
tumulto di folla». Nel caso specifico, la reazione delle masse prese la forma
di una diffusa tendenza ad attribuire la débâcle all’aspetto della macchina:
certe voci che fino al giorno prima cantavano le lodi della griglia frontale e
dell’alato posteriore, ora se ne andavano in giro brontolando che anche uno
stupido avrebbe visto quant’erano ridicoli. Il capro espiatorio divenne
naturalmente Roy Brown, le cui azioni, salite alle stelle nell’agosto del
1955 al momento del debutto ufficiale del progetto, precipitarono
bruscamente al suolo. Senza aver piú fatto nulla – nel bene o nel male – da
due anni a quella parte, il poveretto si vide affibbiare il ruolo di vittima
predestinata. «Da novembre in poi, nessuno gli rivolse piú la parola»,
racconta Wallace. Come se non bastasse, il 27 novembre un tale Charles
Kreisler, unico concessionario della Edsel a Manhattan, accese i riflettori
sul problema annunciando la sua intenzione di revocare l’accordo di
franchising a causa delle scarsissime vendite; alcuni sostennero di averlo
sentito dire che con la Edsel la Ford Company aveva «fatto cilecca». In
quattro e quattr’otto Kreisler si mise in contatto con la American Motors e
firmò un accordo per la commercializzazione della Rambler, che essendo
all’epoca l’unica auto di piccole dimensioni prodotta negli Stati Uniti, stava
registrando una vistosissima impennata delle vendite. Doyle commentò
arcignamente che la divisione Edsel «non era preoccupata» per la defezione
di Kreisler.
In dicembre il panico si era un po’ attenuato, e le menti del progetto
trovarono la forza di mettersi all’opera e cercare nuove strategie per
sostenere le vendite. Henry Ford II in persona comparve sul canale tivú a
circuito chiuso dei concessionari Edsel e li esortò a non perdere la calma,
promettendo che l’azienda li avrebbe sostenuti sino all’ultimo e
annunciando senza mezzi termini che la Edsel era «un progetto a lunga
durata». Una lettera a firma di Krafve venne spedita a un milione e mezzo
di proprietari di vetture di media gamma, invitandoli a fare un salto al
concessionario di zona per una prova su strada della Edsel: tutti coloro che
avessero risposto all’appello, prometteva Krafve, avrebbero ricevuto in
dono un modellino in plastica dell’auto lungo venti centimetri, senza alcun
obbligo di acquistarne una di dimensioni reali. Fu la divisione Edsel a
sobbarcarsi la spesa dei modellini in scala: un chiaro sintomo di
disperazione, poiché in circostanze normali nessun produttore avrebbe
mosso un dito per risparmiare alla sua rete di vendita una spesa del genere.
(Fino a quel momento i concessionari avevano pagato ogni cosa, poiché
cosí voleva la consuetudine). La casa madre, poi, cominciò a offrire ai suoi
rivenditori dei cosiddetti «bonus di vendita»: in pratica il concessionario
poteva proporre agli acquirenti uno sconto sul prezzo di listino compreso tra
i cento e i trecento dollari, senza veder diminuire di un centesimo il suo
margine di profitto. Krafve dichiarò a un giornalista che fino a quel
momento le vendite corrispondevano alle aspettative ma non alle speranze:
e cosí, nell’ansia di non sembrare spiacevolmente sorpreso, diede
l’impressione di essersi augurato un fiasco. La campagna pubblicitaria delle
Edsel abbandonò i toni sussiegosi e si fece un po’ piú stridula. «Chiunque
l’abbia vista sa – come noi sappiamo – che la Edsel è un’auto di successo»,
recitava un’inserzione destinata ai periodici; la stessa dichiarazione tornò,
come una formula magica, anche negli annunci successivi: «La Edsel è
un’auto di successo. È una nuova idea – un’idea che parla di VOI – sulle
strade americane… La Edsel è un’auto di successo». Di lí a poco la
campagna si aprí a temi meno altisonanti ma piú collaudati, come la
convenienza del prezzo e l’immagine sociale: «Quando ti vedranno al
volante di una Edsel, sapranno che sei arrivato»; «L’auto vincente è anche
la piú conveniente!» E come ben si sa nei cenacoli piú esclusivi
dell’ambiente pubblicitario, uno slogan in rima è un misfatto artistico
generalmente dettato da esigenze di natura commerciale.
Le convulse e costose iniziative messe in atto nel dicembre del 1957 non
fruttarono che briciole: nei primi dieci giorni del 1958 le vendite crebbero
del 18,6 per cento rispetto agli ultimi dieci giorni dell’anno appena
concluso. Tuttavia, come fece notare l’accorto «Wall Street Journal»,
nell’ultima decade del 1957 c’era un giorno utile in meno, e dunque, ai fini
pratici, l’incremento risultava nullo o quasi. Quell’ingannevole canto di
vittoria sarebbe stato l’atto pubblico conclusivo della divisione Edsel. Il 14
gennaio del 1958 la Ford Motor Company diede notizia dell’avvenuta
incorporazione della Edsel da parte della Lincoln-Mercury: alla guida della
neonata divisione Mercury-Edsel-Lincoln fu confermato James J. Nance,
già responsabile della Lincoln-Mercury. Era dagli anni della Grande
depressione (quando la General Motors aveva unificato le tre divisioni
Buick, Oldsmobile e Pontiac) che un’importante società automobilistica
non metteva in atto un’operazione del genere. Una decisione amministrativa
il cui senso appariva fin troppo chiaro ai dipendenti dell’ex divisione Edsel:
«Con tutta quella concorrenza interna, la Edsel non aveva piú via d’uscita, –
sostiene Doyle. – Sarebbe diventata la figlia di nessuno».

E cosí fu: negli ultimi ventidue mesi della sua esistenza, la Edsel rimase
praticamente orfana. Trascurata da tutti, pochissimo reclamizzata, tenuta
viva solo per non attirare l’attenzione sulla catastrofe, nella vana speranza
che alla fine ne uscisse qualcosa di buono. Le rare volte che se ne parlava,
si cercava inutilmente di far credere che tutto andasse nel migliore dei
modi. In un comunicato diffuso a metà febbraio su «Automotive News»,
Nance dichiarava che:

Fin dalla nascita della nuova divisione M-E-L all’interno della Ford Motor Company,
abbiamo seguito con grande attenzione i dati sulla vendita delle Edsel. Ci sembra
alquanto significativo che la Edsel abbia venduto, nei primi cinque mesi dall’ingresso
sul mercato, piú di qualsiasi altra auto che abbia mai circolato sulle strade americane
[…] Il costante progresso della Edsel è fonte di grande soddisfazione, e ci incoraggia a
fare sempre di meglio.

Tuttavia, se si considera che in precedenza nessun nuovo modello era


stato pubblicizzato con tanta magnificenza, il raffronto di Nance appare
poco significativo, e la nota di fiducia suona irrimediabilmente falsa.
È molto probabile che nessuno abbia mai sottoposto all’attenzione di
Nance un articolo pubblicato nel gennaio del 1958 su «Etc: A Review of
General Semantics» a firma di S. I. Hayakawa, e intitolato Perché la Edsel
ha fatto cilecca. Hayakawa, fondatore e direttore di «Etc», spiegava in una
nota introduttiva che l’argomento gli sembrava adatto a una rivista di
semantica perché le automobili, come le parole, sono «simboli […]
importanti nella cultura americana». Hayakawa sosteneva che la colpa del
fiasco della Edsel andasse attribuita ai dirigenti della Ford, colpevoli di aver
«dato troppo ascolto agli specialisti della ricerca motivazionale» e di aver
trascurato, nel tentativo di creare un’auto capace di soddisfare le fantasie
sessuali dei consumatori, «il principio di realtà» che li avrebbe innanzitutto
vincolati a progettare un mezzo di trasporto ragionevole e pratico. «Gli
esperti di ricerca motivazionale non hanno spiegato ai loro committenti […]
che soltanto gli psicotici e i nevrotici gravi mettono in atto gli impulsi
irrazionali e le fantasie compensatorie», faceva presente Hayakawa,
aggiungendo che «il guaio di vendere gratificazioni simboliche attraverso
oggetti costosi come […] l’Ermafrodita Edsel […] sta nel dover
fronteggiare la concorrenza di altre forme di gratificazione simbolica assai
meno costose, come “Playboy” (quindici centesimi la copia), “Astounding
Science Fiction” (trentacinque centesimi) o la televisione (gratuita)».
Ma nonostante la concorrenza di «Playboy», o forse perché nel pubblico
sensibile a quel genere di simboli c’era gente che poteva permettersi di
acquistare sia la rivista sia l’auto, la Edsel procedeva – assai lentamente –
per la sua strada. Per andare andava, dicevano i venditori, anche se per
metterla in moto ci voleva ben di piú di uno stuzzicadenti. Nella sua nuova
condizione di figlia di nessuno, in effetti, la Edsel vendeva all’incirca come
quand’era la prediletta, e ciò alimentava il dubbio che quel gran
strombazzamento pubblicitario, si trattasse di gratificazioni simboliche o di
cavalli vapore, fosse piú o meno inutile. Le Edsel registrate presso gli uffici
della motorizzazione nell’anno 1958 furono in tutto 34 481: molte meno
rispetto ai nuovi modelli delle altre marche e meno di un quinto delle
duecentomila unità che avrebbero reso conveniente il progetto, ma
comunque equivalenti a un giro d’affari di oltre 100 milioni di dollari. La
situazione migliorò un poco nel novembre del 1958, grazie ai modelli
aggiornati. Con lunghezze ridotte fino a venti centimetri, pesi alleggeriti di
duecento chili e piú, potenze ridimensionate di quasi 160 cavalli, le Edsel
del 1958 costavano tra i cinquecento e gli ottocento dollari in meno rispetto
ai modelli dell’anno precedente. La mascherina verticale e il posteriore
dallo sguardo obliquo c’erano ancora, ma la cilindrata piú modesta e le
proporzioni ridotte mossero a compassione i critici di «Consumer Reports»:
«Dopo il grave infortunio dei modelli inaugurali, quest’anno la Ford Motor
Company è riuscita a fare della Edsel un’auto rispettabile e persino
gradevole». Giudizio apparentemente condiviso da un cospicuo numero di
automobilisti: nei primi sei mesi del 1959 si acquistarono circa duemila
Edsel in piú rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e all’inizio
dell’estate i dati sulle vendite sembravano essersi assestati sulle quattromila
unità al mese. Finalmente una buona notizia: un quarto del livello minimo
di redditività era pur sempre piú di un quinto.
Il 1º luglio del 1959 le Edsel in circolazione sulle strade degli Stati Uniti
erano in tutto 83 849. Il contingente piú numeroso (8344 esemplari) era in
California, perennemente afflitta da una densità automobilistica da record a
prescindere da marche e modelli; l’Alaska, il Vermont e le Hawaii erano gli
Stati in cui le Edsel erano meno diffuse (122, 119 e 110 unità
rispettivamente). Tutto sommato, sembrava che la Edsel avesse scoperto
una sua nicchia di mercato tra i cultori delle piú stravaganti bizzarrie. E pur
non essendo in condizione di cedere ai sentimentalismi (dopo tutto la Edsel
continuava a succhiare soldi agli azionisti, e il mercato sembrava
decisamente orientato verso le auto di piccole dimensioni), la Ford
Company decise comunque di approfittare di quella minima opportunità,
mettendo in commercio a metà ottobre del 1959 una terza serie di modelli.
A poco piú di un mese dal lancio della Falcon, prima sortita – e primo
immediato successo – della Ford sul mercato delle piccole auto, la Edsel del
1960 non era quasi piú una Edsel: senza la mascherina verticale, senza le ali
di coda orizzontali, quel che restava sembrava un incrocio tra una Ford
Fairlane e una Pontiac. Le vendite iniziali furono pessime: a metà novembre
un solo impianto della Ford (quello di Louisville, nel Kentucky) sfornava
ancora le Edsel, al ritmo non certo indiavolato di venti esemplari al giorno.
Di lí a poco la Fondazione Ford decise di vendere una parte del suo
consistente patrimonio di azioni della Ford Motor Company, e in una
postilla del prospetto pubblicato il 19 novembre in ottemperanza alle
disposizioni di legge, dichiarò che la produzione della Edsel era stata
«avviata nel settembre 1957 e interrotta nel novembre 1959». La notizia
sussurrata nel prospetto fu confermata e amplificata il giorno stesso da un
portavoce della Ford, che aggiunse a mo’ di chiosa un suo personale
sussurro: «Se avessimo saputo perché non vendeva, avremmo fatto
qualcosa per risolvere il problema».
I dati del bilancio definitivo indicano che tra il 4 settembre 1957 e il 19
novembre 1959 furono prodotte 110 810 Edsel e se ne vendettero 109 466.
(I 1344 esemplari invenduti, in gran parte modelli del 1960, furono smaltiti
rapidamente grazie a un drastico taglio dei prezzi). La Edsel del 1960 fu
prodotta in soli 2846 esemplari, il che ne fa una sorta di rarità da
collezionisti. Certo, passeranno generazioni prima che diventi rara come la
Bugatti Tipo 41, fabbricata verso la fine degli anni Venti in appena undici
esemplari destinati a una ristretta élite di teste coronate; senza contare che
le ragioni commerciali e sociali che farebbero della Edsel del 1960 un
pezzo da collezionisti non sarebbero esattamente le stesse. Ma in sostanza
non è del tutto improbabile che tra qualche anno possa nascere un club di
Edsel storiche.
Sul piano finanziario, invece, il bilancio definitivo del disastro potrebbe
restare ignoto per sempre, poiché i consuntivi pubblici della Ford Motor
Company non forniscono dati disaggregati su profitti e perdite di ciascuna
divisione. Secondo stime amatoriali, le perdite imputabili alla Edsel
ammonterebbero a qualcosa come 200 milioni di dollari; aggiungendo a
questa cifra i 250 milioni ufficialmente indicati come costo iniziale del
progetto e sottraendo i circa 100 milioni investiti in impianti e macchinari
riconvertibili ad altri impieghi, ne risulta un disavanzo netto di circa 350
milioni di dollari. Se le stime fossero esatte, dunque, per ogni Edsel uscita
dai suoi stabilimenti la Ford avrebbe subito una perdita di circa 3200
dollari, piú o meno pari al costo di un’altra auto. Per dirla in modo piú
sgradevole, se nel 1955 la società avesse scelto di accantonare il progetto
Edsel e di regalare 110 810 esemplari di un altro suo modello di prezzo
equivalente (la Mercury, per esempio), avrebbe ancora risparmiato
qualcosa.

La fine della Edsel scatenò un’orgia di saggezza retrospettiva tra gli


organi di stampa americani. «Time» scrisse: «La Edsel è stato il classico
esempio di automobile sbagliata per il mercato sbagliato al momento
sbagliato. E ci ha anche fornito un’ottima prova dei limiti delle ricerche di
mercato, con le loro “interviste in profondità” e l’incomprensibile gergo
motivazionale». «Business Week», che poco prima del sipario finale aveva
descritto la Edsel in termini solenni e apparentemente elogiativi, cambiò
rapidamente fronte e la definí «un vero e proprio incubo», aggiungendo per
soprammercato qualche critica pungente nei confronti di Wallace, che ormai
stava affiancando Roy Brown nella non invidiabile posizione di capro
espiatorio. (Saltare al collo della ricerca motivazionale era ed è tuttora uno
splendido sport, ma accusarla di aver dettato o quanto meno influenzato la
progettazione della Edsel è una totale falsità, poiché le indagini sono state
intraprese soltanto dopo che Brown aveva completato la sua parte di lavoro,
e con l’unico scopo di individuare il tema piú adatto per il lancio
pubblicitario). Il necrologio del «Wall Street Journal», invece, contribuí alla
discussione in modo piú convincente e senz’altro piú originale:

Le grandi corporation sono spesso accusate di manovrare i mercati, imporre i prezzi,


insomma dettare legge ai consumatori. Ieri la Ford Motor Company ha ufficialmente
annunciato la fine della sua esperienza biennale con la Edsel nel segmento delle auto di
medio prezzo […] per mancanza di acquirenti. Tutto ciò ha ben poco a che spartire con
un’idea di industria automobilistica che condiziona i mercati o costringe i consumatori a
fare scelte forzate […] E la ragione di tutto ciò, semplicemente, è che è impossibile
indovinare i gusti del pubblico […] Quando si tratta di dettar legge, il vero despota è il
consumatore.

Il tono generale dell’articolo era bonario e indulgente: a quanto


sembrava la Ford Company si era guadagnata le simpatie del «Journal»
assumendosi, nel grande telefilm della vita economica americana, il ruolo
del papà pasticcione.
Quanto alle difese post mortem presentate dagli ex responsabili della
divisione Edsel, la loro caratteristica piú saliente era il tono pensoso, come
di un pugile messo fuori combattimento che riapre gli occhi e si trova sotto
il naso il microfono del telecronista. Krafve, come molti campioni finiti al
tappeto, invocava la scelta di tempo sbagliata: se fosse stato in grado di
opporsi alle immutabili leggi meccaniche ed economiche di Detroit, diceva,
la Edsel avrebbe esordito nel 1955 o un anno dopo al piú tardi, avrebbe
venduto bene fin dall’inizio e starebbe vendendo ancor oggi. Il che è come
dire, tornando alla nostra metafora, che se il pugile avesse visto arrivare il
pugno l’avrebbe schivato. Krafve, poi, si dissocia dai molti profani che
attribuiscono l’insuccesso della vettura alla scelta del nome, sostenendo che
sarebbe stato meglio optare per qualcosa di piú vivace e cantabile, che si
potesse abbreviare in modo diverso da «Ed» o «Eddie» e non fosse cosí
sovraccarico di connotazioni dinastiche. A parere di Krafve, in sostanza, il
nome della Edsel non ne avrebbe determinato le sorti, né nel bene né nel
male.
Roy Brown si schiera con Krafve nel sostenere che la scelta di tempo sia
stata l’errore piú grave. «In tutta onestà, credo che lo stile dell’auto abbia
avuto ben poco a che fare con la sua cattiva riuscita, – avrebbe dichiarato in
seguito con un’imparzialità di cui è bello non dubitare. – Il programma
Edsel, come ogni progetto calibrato sulle tendenze future dei mercati, si
fondava sulle informazioni piú precise disponibili al momento. E si sa, la
strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni!»
Doyle, da venditore nato, la prende molto sul personale e parla come un
uomo tradito da un pubblico che credeva amico. «C’è stato uno sciopero
della clientela, – dice. – La gente non era nella giusta disposizione d’animo.
Perché non lo fosse è un mistero, considerato che i dati degli anni
precedenti giocavano a favore di un’auto fatta esattamente a quel modo.
Noi gliel’abbiamo offerta, ma loro non hanno voluto comprarla. Be’, non
avrebbero dovuto trattarci cosí. Non è che da un giorno all’altro puoi andare
da qualcuno e dirgli: «Ora basta, stavi sbagliando strada». E comunque,
perché l’hanno fatto? Santo cielo, l’industria automobilistica si è evoluta in
quel modo per anni e anni: via il cambio manuale, interni confortevoli,
motori piú potenti per le situazioni di emergenza. E invece adesso vanno
tutti matti per questi sgorbietti! Io proprio non capisco».
La teoria dello Sputnik formulata da Wallace risponde alla domanda di
Doyle sul perché il pubblico non fosse nella disposizione d’animo ideale, e
per giunta ha una dimensione cosmica che ben si addice a un’aspirante testa
d’uovo. È anche un buon appiglio per difendere la validità delle sue
ricerche motivazionali, quanto meno al momento in cui erano state
effettuate. «Non credo che siamo ancora riusciti a cogliere in tutta la loro
profondità gli effetti psicologici di quel primo lancio, – sostiene Wallace. –
Eravamo stati battuti sul tempo in un’importante sfida tecnologica: ed ecco
che i giornali cominciano a pubblicare articoli in cui si dice che le industrie
di Detroit fanno macchine orrende e piene di orpelli inutili, soprattutto nella
fascia di medio prezzo dove l’auto è uno status symbol. Nel 1958, quando
l’unica utilitaria in commercio era la Rambler, mancò poco che la Chevy
sbaragliasse il mercato perché aveva la macchina piú semplice di tutte. Gli
americani avevano deciso di autoinfliggersi una fase di austerità. Non
comprare le Edsel era il loro cilicio».

Ai nostalgici della filosofia industriale «nuota o affoga» dell’America


ottocentesca sembrerà strano che Wallace si permetta di analizzare la
disfatta in toni cosí salottieri, tra una sbuffata di pipa e l’altra. L’aspetto piú
macroscopico della vicenda Edsel è ovviamente la sconfitta di un gigante
dell’industria automobilistica, ma non meno sorprendente è il fatto che il
gigante non sia andato in pezzi e non ne sia uscito con le ossa rotte: né lui,
né coloro che erano rimasti coinvolti nella caduta. Grazie soprattutto al
buon successo degli altri modelli – la Ford, la Thunderbird, le utilitarie
Falcon e Comet e in seguito la Mustang – la Ford Company riuscí a
sopravvivere magnificamente. Certo, il 1958 non fu un anno facile: anche
per colpa della Edsel, l’utile netto per azione scese da 5,40 dollari a 2,12,
mentre i dividendi per azione diminuirono di 40 centesimi, attestandosi a 2
dollari; il prezzo di mercato delle azioni Ford si abbassò al di sotto dei 40
dollari, dopo aver toccato quota 60 nel 1957. Ma le perdite furono
abbondantemente recuperate nel 1959, che si chiuse con un utile netto di
8,24 dollari per azione, dividendi pari a 2,80 e un nuovo record di prezzo
intorno ai 90 dollari. Nel 1960 e nel 1961 le cose andarono persino meglio:
in breve, i 280 000 azionisti Ford avevano poco di cui lamentarsi, a meno
che non avessero ceduto al panico vendendo le loro quote. Diversa era la
situazione dei 6000 colletti bianchi che avevano perso il posto a seguito del
consolidamento delle divisioni Mercury, Edsel e Lincoln: tra il 1957 e il
1958 i dipendenti del gruppo scesero in media annua da 191 759 a 142 076
persone, risalendo poi a 159 541 l’anno successivo. E di certo non erano
contenti i rivenditori che avevano rinunciato a lucrosi accordi di franchising
con altre case automobilistiche e, dopo aver tentato inutilmente di smerciare
le Edsel, erano rimasti in bolletta. L’accorpamento delle divisioni Lincoln,
Mercury e Edsel aveva interessato anche gran parte delle concessionarie,
sicché durante il processo alcuni rivenditori della Edsel si erano trovati
estromessi dal mercato. Per quelli di loro che erano stati costretti al
fallimento sarà forse stata una magra consolazione venire a sapere che una
volta sospesa la produzione la Ford Company aveva offerto ai venditori
superstiti un rimborso pari a metà del costo originario delle insegne Edsel,
piú forti sconti sulle ultime Edsel ancora in magazzino. Va detto che certi
concessionari operano con margini di credito assai esigui, paragonabili a
quelli degli albergatori di Miami, e dunque il rischio di fallimento può
presentarsi anche con le auto di maggior successo. Tra quanti si guadagnano
da vivere nel difficile mondo degli autosaloni, ove non sempre si parla con
dolcezza di Detroit, molti saranno pronti ad ammettere che la Ford
Company, una volta rassegnatasi all’idea di aver prodotto un catorcio, aveva
fatto quanto era ragionevolmente in suo potere per sostenere i concessionari
che avevano legato il proprio destino a quello della Edsel. Come dichiarò
un portavoce dell’Associazione nazionale dei rivenditori: «I concessionari
della Edsel sono stati, a quanto ci risulta, abbastanza soddisfatti del
trattamento ricevuto».
Anche la Foote, Cone & Belding subí qualche perdita, dal momento che
i suoi onorari non avevano del tutto compensato le spese sostenute per
l’assunzione di sessanta nuovi dipendenti e l’apertura di un elegante ufficio
a Detroit. Ma non si può certo dire che fossero perdite irreparabili: un
minuto dopo la scomparsa della Edsel l’agenzia fu incaricata di organizzare
una campagna pubblicitaria per le Lincoln, e se pure quel contratto non
durò molto, la Fcb è felicemente sopravvissuta fino a oggi tessendo le lodi
di clienti del calibro di General Foods, Lever Brothers e Trans World
Airways. E il fatto che anche dopo il 1959, per molti anni, il parcheggio dei
dipendenti della sede Fcb di Chicago fosse ancora disseminato di Edsel è un
chiaro e commovente segno di fedeltà verso la clientela. Ma di
automobilisti fedeli ce ne sono anche altrove, a quanto pare. Certo, i
proprietari delle Edsel non avranno avuto l’auto dei loro sogni, e alcuni tra
loro avranno dovuto tollerare molti e tormentosi problemi meccanici, ma a
distanza di oltre un decennio le Edsel sono tenute in gran conto, come le
vecchie banconote degli Stati confederati, e sul mercato delle auto usate
sono un articolo raro e pregiato.
Nel complesso, possiamo dire che gli ex dirigenti del progetto Edsel non
siano soltanto caduti in piedi, ma ci abbiano persino guadagnato. Di certo
nessuno può accusare la Ford Company di aver espresso il suo disappunto
nel modo tradizionale, facendo volgarmente cadere delle teste. Per un paio
di mesi Krafve fu assegnato, con compiti di assistenza, all’ufficio di Robert
S. McNamara, all’epoca vicepresidente di divisione (e in seguito, come è
noto, segretario della Difesa nel governo degli Stati Uniti), dopodiché
venne trasferito al quartier generale della società con un incarico
organizzativo; dopo circa un anno, Krafve si congedò dalla Ford per
indossare le vesti di vicepresidente della Raytheon di Waltham,
Massachusetts, un’importante azienda del settore elettronico. Nell’aprile del
1960 fu promosso presidente, ma si licenziò qualche anno dopo e si trasferí
sulla costa occidentale per occuparsi di consulenza aziendale ad alto livello.
Doyle fece un viaggio all’estero, dopo il quale decise di andare in pensione
e di rifiutare l’incarico organizzativo che la Ford gli aveva offerto. «L’ho
fatto per i miei rivenditori, – spiega. – Avevo detto loro che l’azienda
sosteneva il progetto Edsel, lo sosteneva completamente e a tempo
indeterminato, e adesso non me la sentivo di dirgli che non era piú cosí».
Anche da pensionato Doyle non rimase certo inattivo: continuò a tenere
d’occhio varie aziende ai cui posti di comando aveva insediato parenti e
amici, e alla fine mise su uno studio di consulenza a Detroit. Circa un mese
prima dell’accorpamento tra la Edsel e le divisioni Mercury e Lincoln,
anche Warnock, l’uomo della pubblicità, si era congedato dal gruppo per
assumere l’incarico di direttore dei servizi informativi della International
Telephone & Telegraph Corporation di New York; nel giugno 1960, poi,
Warnock divenne vicepresidente di Communication Counselors, il ramo
pubbliche relazioni della McCann-Erickson. Da lí tornò quindi alla Ford in
veste di direttore delle attività promozionali della Lincoln-Mercury per la
zona orientale degli Stati Uniti: il suo, dunque, è un tipico caso di testa non
caduta, ma addirittura gratificata. Roy Brown, il tanto vituperato stilista
della Edsel, restò per qualche tempo a Detroit per dirigere il reparto
progettazione dei veicoli commerciali Ford, quindi si trasferí in Inghilterra e
diventò capo progettazione dei modelli Consul, Anglia e di altri veicoli
commerciali per conto della Ford Motor Company Ltd. Il nuovo incarico
non rappresentava, a suo dire, l’equivalente fordiano della Siberia: «È stata
un’esperienza quanto mai soddisfacente, una delle migliori decisioni che io
abbia mai preso nel corso della mia […] carriera, – dichiarò con fermezza
in una lettera. – Stiamo allestendo un reparto progettazione che non sarà
secondo a nessuno in Europa». Wallace, l’aspirante testa d’uovo, fu invitato
a conservare le sue mansioni in seno all’azienda, e poiché era sempre
contrario a trasferirsi a Detroit o nelle vicinanze gli fu permesso di andare a
vivere a New York e di recarsi nel quartier generale della Ford Company
soltanto due giorni la settimana. («Non sembrava che importasse granché da
dove lavoravo», ha dichiarato con modestia). Alla fine del 1958, però,
Wallace lasciò la Ford per coronare il suo sogno: diventare accademico e
docente universitario a tempo pieno. Decise inoltre di conseguire un
dottorato in Sociologia presso la Columbia University, e nell’ambito della
sua tesi sui cambiamenti sociali a Westport, nel Connecticut, intervistò
alacremente gli abitanti di quella comunità; nel frattempo teneva un corso
intitolato «Dinamiche del comportamento sociale» presso la New School
for Social Research del Greenwich Village. «Con l’industria ho chiuso»,
avrebbe dichiarato in seguito, palesemente soddisfatto, prima di salire su un
treno diretto a Westport con un fascio di questionari sotto il braccio. Nei
primi mesi del 1962 è finalmente diventato il dottor Wallace.
L’euforia dei reduci del progetto Edsel non nasce soltanto dalla
constatazione della propria sopravvivenza economica: l’avventura sembra
aver elargito loro una sorta di arricchimento spirituale. Diversamente dagli
ex colleghi ancora alle dipendenze della Ford, che parlano il meno possibile
di quell’esperienza, i fuorusciti la raccontano con briosa arguzia, come
vecchi compagni d’arme che commemorano le passate battaglie. Il piú
appassionato è forse Doyle: «È stata in assoluto l’esperienza lavorativa piú
divertente della mia vita, – avrebbe dichiarato nel 1960. – Forse non mi ero
mai dato tanto da fare prima di allora. Sgobbavamo tutti quanti, ed eravamo
una buona squadra. Le persone che erano venute a lavorare per la Edsel
sapevano di rischiare, e a me piace la gente che rischia. Sí, è stata una
bellissima esperienza, anche se è finita male. E pensare che eravamo sulla
strada giusta! Quando mi sono trasferito in Europa, poco prima della
pensione, ho visto come vanno le cose laggiú: ci sono solo auto compatte,
eppure anche loro hanno problemi di ingorghi, problemi di parcheggio,
incidenti. Provate un po’ a entrare in quei taxi rasoterra senza sbattere la
testa, provate a non farvi asfaltare mentre andate a spasso intorno all’Arc de
Triomphe. Questa moda delle utilitarie non durerà in eterno. Non credo che
gli automobilisti americani saranno per sempre disposti ad accontentarsi di
cambi manuali e prestazioni limitate. Il pendolo ricomincerà a oscillare,
prima o poi».
Warnock, come molti suoi colleghi, sostiene che occuparsi di pubbliche
relazioni gli abbia procurato un’ulcera: la seconda della sua vita. «Ma mi
sono ripreso, – dice. – La grande squadra della Edsel: chissà dove sarebbe
arrivata, se avesse tirato fuori il prodotto giusto al momento giusto.
Avremmo fatto i milioni, datemi retta! Quei due anni non li dimenticherò
mai. Stavamo scrivendo la storia. E non vi sembra che tutto ciò dica molto
sull’America degli anni Cinquanta? Grandi speranze, realizzate solo in
parte».
Krafve, boss di quella squadra di campioni mancati, è prontissimo a
testimoniare che le parole dei suoi antichi collaboratori non sono solo
vanterie da vecchi commilitoni. «Era davvero un gruppo fantastico, – ha
dichiarato qualche tempo fa. – Ce la mettevano tutta. A me piacciono i
gruppi fortemente motivati, e quello lo era. Quando le cose finirono male i
ragazzi della Edsel avrebbero potuto recriminare sulle meravigliose
opportunità a cui avevano rinunciato per venire con noi, ma se qualcuno
l’ha fatto io non l’ho sentito. Non mi stupisce che alla fine se la siano
cavata alla grande. Lavorare nell’industria è cosí: ogni tanto prendi qualche
batosta, ma se non ti lasci abbattere prima o poi rimbalzi. Mi piacerebbe
rivedere gli altri, qualche volta – soprattutto Gayle Warnock – e ricordare i
momenti buffi e quelli tragici…»
Difficile capire se la nostalgia degli uomini della Edsel verso la loro
creatura sia un sentimento piú buffo o piú tragico. Probabilmente è una
forma di rimpianto per le luci della ribalta, quelle luci che prima li hanno
accarezzati con dolcezza per poi illuminare i loro contorcimenti; o forse –
come accade spesso nei drammi elisabettiani, ma raramente nella vita
economica americana – il fallimento ha una sua grandiosità che il successo
non conosce.

1
Il termine styling è un’erbaccia ben radicata nel giardino dell’industria automobilistica. Nel suo
senso prevalente, il verbo inglese to style significa «dare un nome»: in tal caso, la faticosa ricerca di
una denominazione adatta alla E-Car da parte degli uomini della divisione prodotti speciali
costituirebbe l’essenza dello styling, mentre Brown e compari risulterebbero in tutt’altre faccende
affaccendati. Nel suo secondo senso, dice il Webster Dictionary, to style significa «modellare secondo
[…] lo stile comunemente accettato», il che è esattamente il contrario di quanto faceva Brown, il cui
traguardo ideale era l’originalità. Ne consegue che l’operato di Brown andrebbe piú correttamente
denominato antistyling.
2
Per maggiori dettagli su questo prodotto della creatività nazionale, si veda il cap. 4.
3. Fluttuazioni
Il piccolo crollo del 1962

Il mercato azionario è per la gente benestante ciò che le serie televisive


sono per i comuni mortali: dunque un po’ di alti e bassi ci vogliono,
altrimenti non c’è gusto. Tra le piú note leggende di Wall Street – qualsiasi
consigliere d’amministrazione che si interessi un po’ della materia potrà
confermarvelo – c’è la risposta data da John Pierpont Morgan il Vecchio a
un suo ingenuo conoscente che aveva osato chiedergli lumi sulle tendenze
future della borsa. «Fluttuerà», fu la laconica profezia del grand’uomo.
Certo, i mercati finanziari fluttuano, ma c’è dell’altro. Lasciando da parte i
pro e i contro di natura strettamente economica – un punto a favore delle
borse, per esempio, è che alimentano il libero flusso di capitali a sostegno
dell’espansione industriale; uno svantaggio è che offrono agli sfortunati,
agli imprudenti e ai creduloni un sistema fin troppo facile per perdere soldi
– l’espansione delle borse valori ha creato un vero e proprio modello di
comportamento sociale, completo di consuetudini e usi linguistici propri, e
basato su una serie di reazioni prevedibili a determinati eventi. Ma quel che
c’è di davvero straordinario in questo modello è la rapidità con cui è giunto
a pieno sviluppo poco dopo la nascita della prima borsa valori importante –
quella di Amsterdam, venuta al mondo nel 1611 in un cortile esposto alle
intemperie – conservandosi poi fino ai giorni nostri, seppure con qualche
variazione, nella borsa valori di New York. Dietro le compravendite
azionarie che oggi si effettuano negli Stati Uniti ci sono milioni di
chilometri di linee telegrafiche private, computer capaci di leggere e
trascrivere la guida telefonica di Manhattan in soli tre minuti, e piú di 20
milioni di azionisti: a prima vista sembrerebbe tutt’altra cosa da una
congrega di olandesi che contrattano sotto la pioggia, eppure le regole
fondamentali del gioco sono ancora le stesse. La prima borsa valori del
mondo è stata una sorta di laboratorio che ha permesso di scoprire, in
maniera del tutto accidentale, nuove modalità di relazione tra gli esseri
umani. E anche la Borsa di New York è, a suo modo, un esperimento
sociologico permanente che aiuta la nostra specie a comprendere meglio sé
stessa.
Come agissero quei primi operatori di borsa olandesi lo sappiamo grazie
alla magistrale testimonianza di un loro collega, José de la Vega, autore di
Confusión de confusiones: un’opera in forma di dialogo originariamente
pubblicata nel 1688 e ristampata di recente, in traduzione inglese, dalla
Harvard Business School. Quanto ai moderni investitori e broker americani,
il loro stile di condotta – spesso enfatizzato proprio dai momenti di crisi –
potrebbe essere descritto in modo esemplare ricapitolando i fatti che si
verificarono nell’ultima settimana di maggio 1962, caratterizzata da
un’allarmante instabilità degli indici azionari. Lunedí 28 maggio l’indice
Dow Jones, calcolato dal 1897 ogni giorno in base ai prezzi delle trenta
principali azioni di Wall Street, scese di ben 34,95 punti: un calo piú
drastico (38,33 punti) si era verificato soltanto il 28 ottobre del 1929, cioè il
giorno prima del famoso «Martedí nero». Sempre in quel lunedí di maggio,
il volume totale degli scambi raggiunse i 9 milioni e 350 000 unità, settimo
risultato giornaliero nell’intera storia della Borsa di New York. Il giorno
successivo, dopo una mattinata nervosa in cui la maggior parte dei titoli era
scesa molto al di sotto dei prezzi di chiusura di lunedí, il mercato cambiò
improvvisamente direzione, e grazie a un poderoso rialzo la giornata si
chiuse con un Dow Jones in crescita di 27,03 punti: non un primato, certo,
ma un risultato notevole. Il vero record – o quasi record – di quel martedí si
registrò in termini di volume delle transazioni, con ben 14 milioni e 750
000 azioni scambiate: un dato inferiore soltanto agli oltre 16 milioni del 29
ottobre del 1929. (Negli anni successivi, volumi di scambi nell’ordine dei
10, 12 e persino 14 milioni di pezzi sarebbero diventati molto piú usuali: lo
storico primato del 29 ottobre 1929 fu infatti battuto il 1º aprile del 1968, e
nei mesi successivi si registrarono ulteriori record). Poiché mercoledí 30
maggio la borsa era chiusa per la festa del Memorial Day, il ciclo della crisi
si completò soltanto il giorno dopo, giovedí 31 maggio, con un volume di
scambi pari a 10 milioni e 710 000 unità (quinto miglior risultato della
storia) e un indice Dow Jones in crescita di 9,40 punti, cioè poco al di sopra
dei valori che avevano preceduto la tempesta.
Dunque la crisi si era esaurita nell’arco di tre soli giorni ma, com’era
prevedibile, gli esami autoptici durarono molto piú a lungo. I mercanti che
operavano sulla Borsa di Amsterdam erano, secondo José de la Vega, «assai
sagaci nel trovare spiegazioni» per i barcollamenti improvvisi dei corsi
azionari, e di certo gli esegeti di Wall Street dovettero fare appello a tutta la
loro sagacia per spiegare come mai, nel bel mezzo di un’annata eccellente,
il mercato avesse tutt’a un tratto deciso di scendere in picchiata,
avvicinandosi pericolosamente al record negativo del Dow Jones. Al di là di
tutte le elucubrazioni – che spesso chiamavano in causa il presidente
Kennedy e la sua recente decisione di porre il veto al già pianificato
incremento dei prezzi nel settore siderurgico – era quasi impossibile non
azzardare raffronti tra il maggio 1962 e l’ottobre 1929. I dati numerici
relativi all’andamento dei prezzi e al volume degli scambi sarebbero già
bastati a suggerire il parallelo, per quanto molti trovassero misteriosa, se
non addirittura inquietante, la mancata coincidenza delle date (giacché i
momenti di maggior panico si erano verificati il 28 del mese in un caso, il
29 nell’altro). Malgrado tutto, alla fine si decise che c’erano piú differenze
che analogie. E la prima differenza era che tra il 1929 e il 1962
l’introduzione di nuove normative e di restrizioni ai crediti per l’acquisto di
azioni avevano reso difficile, se non proprio impossibile, perdere tutti i
propri soldi giocando in borsa. Nei trentatre anni intercorsi tra le due crisi,
in sostanza, si era fatto molto affinché l’epiteto di «bisca infernale» che De
la Vega appioppava – pur affettuosamente – alla Borsa di Amsterdam fosse
sempre meno adatto alla sua omologa di New York.

Il crollo del 1962 non era giunto inaspettato, anche se pochi osservatori
ne avevano interpretato correttamente i presagi. La traiettoria discendente
imboccata nei primi mesi dell’anno si era fatta sempre piú ripida, al punto
che la precedente settimana di borsa (21-25 maggio) era risultata la
peggiore dal giugno del 1950. Naturale che la mattina di lunedí 28 maggio
mediatori e operatori avessero le loro buone ragioni per essere pensierosi.
Si era già toccato il fondo? Nessuno poteva esserne sicuro. Tra le nove e le
dieci, in attesa dell’apertura delle transazioni a Wall Street, i bollettini
finanziari della Dow Jones & Company lasciarono trasparire una certa
apprensione. In quei sessanta minuti, il broad tape (cosí era chiamato il
bollettino Dow Jones stampato su rotoli di carta larghi una quindicina di
centimetri, per distinguerlo dal nastro da due centimetri che riportava
orizzontalmente i prezzi delle azioni) fece sapere che durante il weekend
molti agenti di borsa avevano contattato i clienti per chiedere loro di
consolidare le garanzie collaterali, a fronte di un deprezzamento dei
rispettivi portafogli. Sempre secondo il broad tape, il precipitoso
incremento dei realizzi osservato la settimana precedente era «un fenomeno
sconosciuto da anni a Wall Street», tanto piú che sul fronte dell’economia
reale non mancavano le buone notizie: la Westinghouse, per esempio, aveva
appena ricevuto un’importante commessa dalla marina militare. Tuttavia,
come già diceva De la Vega, sui mercati azionari «spesso le notizie hanno
[di per sé] scarso valore»: ciò che conta davvero, soprattutto nel breve
termine, è lo stato d’animo degli investitori.
Ed ecco come si palesò, a pochi minuti dall’apertura delle transazioni,
l’umore degli investitori. Alle 10.11, il broad tape annunciava che «l’attività
iniziale era scarsa e di segno incerto». Notizia confortante, a dispetto delle
apparenze: «segno incerto» significava che certe quotazioni erano in rialzo
e altre in ribasso, e di solito la scarsa attività è indice di un calo dei mercati
non troppo grave. Ma il sollievo fu di breve durata: alle 10.30 il nastro delle
quotazioni rilevava una costante flessione dei prezzi; come se non bastasse,
il bollettino era indietro di sei minuti pur viaggiando alla velocità massima
di cinquecento caratteri al minuto, e questo era un chiaro segnale che le
operazioni si svolgevano a ritmo frenetico. I dettagli di ogni transazione
conclusa sul parterre della borsa valori vengono infatti registrati da un
impiegato su un apposito modulo cartaceo che viene inviato per posta
pneumatica al quinto piano dello stesso edificio, dove una squadra di
impiegate è pronta a inserire e trasmettere i dati attraverso la telescrivente.
Uno scarto di due o tre minuti tra la chiusura di una contrattazione e la sua
comparsa sul nastro delle quotazioni è perfettamente normale: nel gergo
della borsa, si comincia a parlare di «ritardo» soltanto quando la distanza tra
l’arrivo del modulo al quinto piano e il suo smaltimento da parte di una
dattilografa un po’ trafelata è superiore ai due o tre minuti («I termini che
s’adoperano presso la borsa non sono scelti con accuratezza», lamentava già
De la Vega). Scarti nell’ordine di alcuni minuti sono abbastanza comuni nei
giorni di particolare animazione, ma ormai, grazie alle telescriventi di
nuovo tipo introdotte nel 1930, i rallentamenti gravi sono rarissimi. Vero è
che il 24 ottobre del 1929 il nastro della telescrivente aveva accumulato un
ritardo di 246 minuti, ma i modelli di telescrivente dell’epoca stampavano
solo 285 caratteri al minuto; prima del maggio 1962, lo scarto piú ampio
registrato dalle macchine di nuova generazione era stato di soli 34 minuti.
In ogni caso, non c’era dubbio che i prezzi scendessero e che il numero
delle transazioni fosse in aumento; tuttavia la situazione non sembrava
ancora disperata. Verso le undici restava una sola certezza, e cioè che la
tendenza al ribasso emersa nella settimana precedente non si era interrotta;
al contrario, sembrava accentuarsi. Alla crescente vivacità degli scambi
corrispondeva poi un sempre maggiore ritardo del nastro. Alle 10.55 lo
scarto era di 13 minuti; alle 11.14, di 20; alle 11.35, di 28; alle 11.58 i
minuti di ritardo erano già diventati 38, e alle 11.14 erano saliti a 43. (Ogni
volta che il ritardo del nastro supera i cinque minuti, la Borsa di New York
cerca di dare una parvenza di attualità al servizio interrompendo il flusso
dei dati con dei piccoli «flash» sui prezzi correnti dei titoli principali, ma
questo, naturalmente, non fa che accrescere il ritardo complessivo). A
mezzogiorno, l’indice Dow Jones mostrava già un calo di 9,86 punti.
I primi sintomi dell’isteria collettiva si manifestarono durante la pausa
pranzo. Di solito la fascia oraria tra le dodici e le quattordici è
contraddistinta da una relativa inattività: quel giorno, invece, i prezzi
continuarono a scendere a fronte di un ulteriore incremento degli scambi,
che a sua volta causò un ulteriore ritardo delle telescriventi: poco prima
delle quattordici, lo scarto era di 52 minuti. E se la gente vende azioni
quando dovrebbe essere a tavola, significa che la faccenda è seria. Un altro
segno di frenesia imminente era l’insolito assembramento presso la sede di
Times Square della società di brokeraggio Merrill Lynch, Pierce, Fenner &
Smith, vero e proprio colosso nel settore dell’intermediazione mobiliare. I
locali della società (situati al 1451 della Broadway, per essere precisi)
avevano un problema tutto particolare: trovandosi in pieno centro, all’ora di
pranzo venivano regolarmente invasi da un’insolita quantità di quelli che
nel gergo degli operatori di borsa si chiamano «viandanti»: piccolissimi
investitori, a volte semplici curiosi, che trovano interessante, soprattutto nei
periodi di crisi, l’atmosfera di un’agenzia di brokeraggio e il continuo
mutare delle quotazioni sui tabelloni. (Dice De la Vega: «È facile discernere
colui che gioca non per cupidigia ma per semplice diletto»). Il responsabile
dell’ufficio, un tranquillo signore della Georgia di nome Samuel Mothner,
sapeva per esperienza che c’era una stretta correlazione tra il livello di ansia
generalizzata e il numero di viandanti che si soffermavano davanti alla sede
della sua società: a mezzogiorno del 28 maggio, la folla era talmente
numerosa da sembrare, al suo sguardo allenato, l’equivalente umano di uno
stormo di uccelli del malaugurio.
Ma non erano soltanto presagi e segni premonitori a tormentare Mothner
e i mediatori di tutto il Paese. La corsa alla liquidazione delle posizioni era
già cominciata: gli ordini dei clienti si accumulavano sulla scrivania di
Mothner in quantità cinque o sei volte superiore alla media, ed erano quasi
tutti ordini di vendita. E anche se i broker consigliavano di non agitarsi e
tenersi ben stretti i portafogli almeno per il momento, i loro appelli
rimanevano spesso inascoltati. Intanto, in un’altra sede della Merrill Lynch
(sempre a Manhattan, ma al 61 ovest della Quarantottesima strada),
giungeva il cablogramma di un importante cliente di Rio de Janeiro, il cui
testo diceva, senza tanti giri di parole: «Prego vendere totalità mio
portafoglio». Non avendo tempo di tessere le lodi della ponderatezza in
collegamento telefonico internazionale, la società non ebbe altra scelta
fuorché eseguire l’ordine. Ormai anche le radio e le tivú, fiutata la notizia,
interrompevano le consuete trasmissioni del primo pomeriggio per fornire
brevi aggiornamenti: in seguito, una pubblicazione ufficiale della Borsa di
New York commentò con una certa durezza che «i notiziari, dando ampio
risalto all’andamento delle borse, potrebbero aver fomentato le ansie di certi
investitori». Come se non bastasse, la situazione era complicata da una serie
di fattori tecnici che impedivano ai broker di smaltire al meglio la marea
degli ordini di vendita. Alle 14.26 il ritardo del nastro delle quotazioni
aveva raggiunto i 55 minuti: questo significava che nella maggior parte dei
casi i prezzi riportati dalle telescriventi erano quelli di un’ora prima,
superiori di un ammontare indeterminato (da uno a dieci dollari) alla
quotazione corrente. I broker accettavano gli ordini di vendita senza avere
la minima idea del prezzo a cui si sarebbe conclusa l’operazione. Nel
tentativo di ovviare al ritardo delle telescriventi, alcune società di
intermediazione ricorsero a metodi estemporanei: i broker della Merrill
Lynch, per esempio, strillavano i dati di ogni transazione appena completata
– sempre che li ricordassero, e avessero il tempo di farlo – in una sorta di
interfono direttamente collegato alla sede centrale della società, al numero
70 di Pine Street. È naturale che a metodi cosí approssimativi
corrispondesse un’alta probabilità di errore.
Nel frattempo, in sala contrattazioni, non c’era la minima traccia di
un’inversione di tendenza: c’era invece un rapido e costante declino di tutti
i corsi azionari, con un volume di contrattazioni impressionante. La scena si
sarebbe prestata egregiamente alla prosa ornata di José de la Vega, che cosí
aveva descritto, ai suoi tempi, una situazione analoga: «Tremebondi e
irrequieti, gli orsi [gli investitori che vendono] sono ormai sopraffatti dallo
sgomento. Ogni coniglio diventa un elefante, ogni baruffa di taverna una
rivoluzione, la piú flebile ombra un presagio del caos». E non era affatto
rassicurante notare che al centro di quella scena cosí tumultuosa c’erano
proprio le blue chips, cioè le azioni delle società industriali piú solide: anzi,
era proprio la American Telephone & Telegraph (la piú grande di tutte, e
quella con il maggior numero di azionisti) a guidare il mercato al ribasso.
Con un volume di scambi che non aveva uguali fra le oltre
millecinquecento azioni quotate alla Borsa di New York (quasi tutte a prezzi
molto inferiori), fin dall’inizio della giornata il titolo AT&T aveva dovuto
affrontare numerose ondate di vendite: alle due del pomeriggio il suo
prezzo era di 104 3/4, in calo di 6 7/8 rispetto alla precedente chiusura, e la
discesa sembrava tutt’altro che conclusa. Avendo fama di titolo guida,
AT&T era strettamente sorvegliato, e ogni suo minimo deprezzamento
innescava un ulteriore calo generalizzato. Non erano ancora le tre del
pomeriggio, e Ibm era già in calo di 17 1/2; persino Standard Oil of New
Jersey, che in diverse occasioni aveva dimostrato un’eccezionale resistenza
alle fasi negative, era sceso di 3 1/4; nel frattempo AT&T aveva continuato
a deprezzarsi, toccando quota 101 1/8. E a detta di molti non si era ancora
toccato il fondo.
Ciò nonostante, come avrebbero in seguito riferito alcuni testimoni, in
corbeille non regnava ancora l’isteria; o meglio, i comportamenti isterici
erano sotto controllo. Benché molti broker fossero arrivati a un pelo dal
violare la regola che proibisce di correre all’interno della sala
contrattazioni, e benché le facce di alcuni tradissero, secondo il prudente
racconto di un funzionario di borsa, «un’intensa concentrazione», si
continuava come al solito a scherzare e a scambiarsi insulti benevoli («Le
facezie […] sono una grande attrattiva di codesta professione», diceva De la
Vega). Eppure c’era qualcosa di diverso. «Ricordo soprattutto una grande
stanchezza fisica, – racconta un broker. – Nei giorni di crisi si cammina
moltissimo: qualcuno ha misurato la distanza con il contapassi, ed è venuto
fuori che a volte si fanno piú di quindici chilometri a piedi, senza mai uscire
dalla sala contrattazioni. Ma non è questo l’unico problema: anche il
contatto fisico è logorante. Spingi, vieni spinto. La gente ti si arrampica
addosso. E poi ci sono i rumori: quel borbottio nervoso tipico delle giornate
negative. Piú le quotazioni scendono, piú le voci diventano acute. Invece,
quando il mercato sale, la colonna sonora è completamente diversa. Una
volta che ci fai l’abitudine, potresti indovinare dove va il mercato anche a
occhi chiusi. Quel giorno si scherzava ancora molto, certo, ma forse
l’allegria era piú forzata del solito. Molti hanno raccontato che alle tre e
mezzo, quando la campanella ha annunciato la chiusura delle contrattazioni,
c’è stato un applauso. Ma non è che battessimo le mani perché il mercato
era crollato: battevamo le mani perché era finita».

Ma era davvero finita? Per tutto il pomeriggio e fino a sera, Wall Street e
l’intera comunità degli investitori si tormentarono nel dubbio. Le
telescriventi continuarono a ticchettare per ore anche a mercato chiuso,
annunciando solennemente quotazioni ormai obsolete. Alle 15.30 il nastro
delle quotazioni era in ritardo di un’ora e nove minuti, e i dati sull’ultima
operazione della giornata furono stampati soltanto alle 17.58. Molti broker
si trattennero nei locali della borsa fin oltre le diciassette per definire i
dettagli delle transazioni, dopodiché andarono in ufficio ad aggiornare i
rendiconti. Quando il nastro della telescrivente finí di raccontare la sua
storia, nessuno si stupí che fosse una storia triste. American Telephone
aveva chiuso a 100 5/8, in calo di 11 punti rispetto al giorno precedente.
Philip Morris aveva chiuso a 71 1/2, in calo di 8 1/4; Campbell Soup era
sceso di 10 3/4, attestandosi a 81, mentre Ibm, sceso di ben 37 1/2, aveva
chiuso a 361. Era andata male per tutti. Nelle sedi delle società di
intermediazione, tutti i dipendenti rimasero alle scrivanie – fino a notte, in
certi casi – per attuare le opportune contromosse, la piú urgente delle quali
era senza dubbio chiedere ai loro clienti di integrare i margini di garanzia.
Quando un investitore acquista titoli con denaro prestatogli dal suo broker e
queste azioni perdono valore al punto da non coprire piú l’entità del
prestito, l’intermediario chiede al suo cliente di fornire nuove garanzie
collaterali. Se il cliente non può o non vuole integrare, il broker cercherà di
vendere nel piú breve tempo possibile il titolo acquistato a margine: ma
quella vendita potrebbe influire negativamente sul corso di altre azioni,
determinando nuove richieste di integrazione, che a loro volta potrebbero
cagionare nuove vendite, generando una spirale al ribasso. Nel 1929,
quando i crediti finalizzati all’acquisto di azioni non erano soggetti ad
alcuna restrizione, la spirale si era trasformata in un pozzo senza fondo. In
seguito il governo federale aveva imposto un limite alle operazioni a
margine, tuttavia in base alle norme vigenti nel maggio 1962 le società di
intermediazione potevano comunque richiedere ulteriori garanzie quando il
valore delle azioni acquistate a margine scendeva al 50-60 per cento del
prezzo di acquisto. E alla chiusura delle transazioni di quel 28 maggio,
quasi un’azione su quattro aveva subito, rispetto ai valori massimi dell’anno
precedente, un calo di quella portata. Secondo stime della Borsa di New
York, tra il 25 e il 31 maggio furono inviate, perlopiú tramite telegramma,
ben 91 700 richieste di integrazione. È assai probabile che la maggior parte
delle richieste siano state inviate nel pomeriggio, alla sera o durante la
notte: e per notte si intende tutta la notte, fino alle ore piccole. Sembra che
piú di un investitore abbia avuto notizia della crisi in atto – o quanto meno
si sia fatto un’idea precisa della sua spaventosa gravità – soltanto dopo
essere stato svegliato, nelle ore antelucane di martedí 29, da una richiesta di
integrazione.
Durante la crisi del 1962 gli effetti destabilizzanti delle vendite a
margine furono assai piú contenuti rispetto al 1929; un pericolo
immensamente maggiore venne invece dalle vendite dei fondi
d’investimento a capitale variabile. Molti professionisti di Wall Street non
hanno difficoltà ad ammettere, a posteriori, che nel momento del massimo
allarme il solo pensiero di come avrebbero reagito i fondi comuni era
sufficiente a mettergli i brividi. Come ben sanno i milioni di americani che
da una ventina d’anni a questa parte hanno sottoscritto quote di uno o piú
fondi aperti, le società di investimento a capitale variabile consentono ai
piccoli risparmiatori di investire i loro soldi avvalendosi dell’esperienza di
un gestore esperto: basta acquistare le quote parte, e il fondo investirà il
contante nell’acquisto di azioni, le quali verranno poi riscattate, su richiesta
del sottoscrittore, al loro valore contabile netto. Il timore di molti era che in
presenza di un forte arretramento dei corsi azionari i piccoli investitori
decidessero di mettere al sicuro i risparmi, riscattando le quote dei loro
fondi aperti: a quel punto, per procurarsi il denaro liquido necessario a far
fronte a tutte le domande, i fondi sarebbero stati costretti a vendere una
parte dei portafogli azionari, il che a sua volta avrebbe aggravato la
flessione della borsa e indotto altri risparmiatori a chiedere il riscatto delle
quote: e cosí via, in quella che prometteva di essere una versione moderna
del proverbiale pozzo senza fondo. Il brivido collettivo della comunità
finanziaria era reso piú intenso dalla consapevolezza che prima di allora
l’effetto-valanga dei fondi a capitale variabile non era mai stato davvero
sperimentato: il valore delle attività di questi fondi, praticamente uguale a
zero nel 1929, era aumentato costantemente fino a raggiungere nella
primavera del 1962 l’imponente cifra di 23 miliardi di dollari; e nel
frattempo il mercato azionario non aveva mai subito arretramenti di gravità
paragonabile a quello in corso. Facile immaginare che l’immissione sul
mercato di titoli per 23 miliardi di dollari – o anche solo una frazione
abbastanza consistente di quella cifra – potesse determinare un crollo tale
che, al confronto, la crisi del ’29 sarebbe sembrata un piccolo contrattempo.
Il broker Charles J. Rolo, approdato nell’arcadia di Wall Street nel 1960,
dopo un’esperienza come recensore di libri per la rivista mensile «The
Atlantic», racconta che il pensiero di una spirale al ribasso indotta dalle
vendite dei fondi aperti, sommato all’impossibilità di capire se quella
spirale fosse di fatto già iniziata, era «talmente spaventoso che neppure si
osava parlarne». Grazie a una sensibilità letteraria tanto spiccata da
sopravvivere, almeno fino a quel momento, alla conclamata prosaicità delle
vicende economiche, Rolo riuscí a cogliere anche gli aspetti meno evidenti
del clima che si respirava a Wall Street in quel tardo pomeriggio del 28
maggio. «C’era un’atmosfera irreale, – avrebbe narrato in seguito. – Credo
che nessuno avesse la piú pallida idea di quando si sarebbe toccato il fondo.
Alla chiusura, l’indice Dow Jones si attestò intorno a 577: un calo di quasi
35 punti. Oggi non è considerato elegante dirlo, ma all’epoca molte voci
autorevoli sostenevano che la discesa si sarebbe fermata solo a quota 400: il
che, naturalmente, sarebbe stato un autentico disastro. La parola
“quattrocento” passava di bocca in bocca, anche se in seguito quelle stesse
persone sarebbero state pronte a smentirvi, sostenendo di aver detto
“cinquecento”. Ma non era solo l’apprensione per le sorti del mercato a
tormentare gli animi degli agenti di borsa: a questa si aggiungeva infatti un
profondo scoramento di natura personale. Tutti sapevamo che i nostri clienti
– alcuni ricchi, altri meno – avevano subito gravi perdite a seguito delle
nostre decisioni: e dite pure quel che volete, ma è molto, molto spiacevole
perdere i soldi degli altri. Senza contare che nei dodici anni precedenti i
prezzi delle azioni non avevano mai smesso di crescere. Quando ti rendi
conto di aver guadagnato bene e di aver fatto guadagnare i tuoi clienti per
dieci anni o piú, alla fine ti convinci di essere abbastanza in gamba. Di
essere arrivato in cima. Sei bravo a far soldi, non c’è santo che tenga. Ma
questo crollo improvviso metteva in luce una debolezza di fondo, causava
una crisi di autostima dalla quale non era facile risollevarsi». Nel
complesso, la situazione era tale che ogni broker, potendo, avrebbe
volentieri applicato la regola d’oro di José de la Vega: «Non suggerire mai
ad alcuno di acquistare o vendere azioni, giacché quando l’intelletto è
offuscato, anche il piú benevolo dei consigli può dare pessimi frutti».
Martedí mattina, le dimensioni della débâcle si manifestarono in tutta la
loro evidenza. Secondo alcune stime, le azioni quotate alla Borsa di New
York avevano subito una perdita nominale complessiva di 20 miliardi e 800
milioni di dollari: una cifra da record, ben superiore a quella di soli 9
miliardi e 600 milioni registrata il 28 ottobre del 1929, quando il valore
complessivo delle azioni in listino era molto inferiore. Il nuovo record
corrispondeva a poco meno del 4 per cento del reddito nazionale: in pratica,
gli Stati Uniti avevano perduto in un sol giorno l’equivalente di due
settimane di prodotti e salari. E naturalmente le ripercussioni sui mercati di
altri Paesi non si fecero attendere. In Europa la crisi arrivò martedí 29, a
causa della differenza di fuso orario. Alle nove del mattino, ora di New
York, quasi tutte le principali piazze europee (ormai prossime all’ora di
chiusura) registravano una forte impennata delle vendite che non aveva
altre ragioni all’infuori del crollo di Wall Street. La Borsa di Milano riportò
la perdita piú ampia degli ultimi diciotto mesi. Bruxelles dovette rassegnarsi
al peggior risultato dal 1946, anno della riapertura dei mercati azionari dopo
la Seconda guerra mondiale. Il calo di Londra risultò essere il peggiore
degli ultimi ventisette anni. A Zurigo, dove la giornata si era aperta con
vendite massicce e deprezzamenti paurosamente vicini al 30 per cento, gli
acquisti degli speculatori arginarono le perdite poco prima della chiusura. I
contraccolpi della crisi si fecero sentire – in maniera meno diretta, ma certo
piú grave in termini di effetti concreti sulla vita delle popolazioni – anche
nei Paesi piú poveri. Alla borsa merci di New York, il prezzo dei futures sul
rame con scadenza a luglio diminuí di 44 centesimi di centesimo alla libbra:
una variazione in apparenza infinitesima, ma fondamentale per un piccolo
Paese fortemente vincolato alle esportazioni di quel metallo. Secondo una
stima riportata da Robert L. Heilbroner nel saggio intitolato The Great
Ascent, ogni volta che le quotazioni del rame diminuiscono di un centesimo
sul mercato di New York, il ministero del Tesoro cileno perde 4 milioni di
dollari: in base a questa equivalenza, la crisi del maggio 1962 costò al Cile
circa 1,76 milioni di dollari, soltanto in termini di perdite potenziali sulle
esportazioni di rame.
A questo stadio della crisi, la paura di quanto sarebbe potuto succedere
era forse piú angosciante della consapevolezza di quanto era già successo. Il
«New York Times» aprí il suo editoriale col fiato sospeso («Ieri i mercati
azionari sono stati investiti da qualcosa di molto simile a un terremoto») e
nella mezza colonna successiva preparò il campo a una proclamazione
altisonante: «Indipendentemente dagli alti e bassi del mercato azionario,
siamo e rimarremo padroni del nostro destino economico». Il nastro delle
quotazioni aprí la giornata alle nove in punto con il solito, cordiale
«Buongiorno!», ma subito dopo cominciò a riferire notizie inquietanti dai
mercati esteri; alle 9.45, quindici minuti prima dell’apertura delle
contrattazioni a New York, si domandò ansiosamente: «Quando finiranno le
vendite sottocosto?» rispondendosi subito dopo che non era ancora tempo:
tutti i segnali indicavano che l’ondata di vendite era «ben lontana
dall’esaurirsi». A rendere ancora piú fosca l’atmosfera si aggiungevano
voci minacciose sull’imminente fallimento di svariate società di
brokeraggio (De la Vega: «Il presagio di un evento crea ben piú profonda
impressione […] dell’evento stesso»). Il fatto che molte di queste voci si
siano in seguito rivelate false non era, al momento, di nessun aiuto. In
quattro e quattr’otto la notizia della crisi aveva raggiunto ogni angolo del
Paese, e il mercato azionario era diventato il primo problema nazionale. I
centralini delle società di intermediazione erano ingorgati dalle chiamate in
arrivo, e negli spazi aperti si affollavano «viandanti» e troupe televisive. Al
numero 11 di Wall Street la giornata era iniziata presto: tutti i broker della
sala contrattazioni si erano presentati al lavoro di buon’ora per chiudere i
boccaporti in attesa della tempesta imminente, mentre i funzionari che
lavoravano ai piani superiori si erano cercati degli assistenti che li
aiutassero a smistare le montagne di ordini. All’ora di apertura,
l’affollamento nella galleria dei visitatori era tale che per quel giorno si
dovettero sospendere le consuete visite guidate. Tra i gruppi che erano
riusciti a farsi largo fino alla galleria c’era anche una classe di tredicenni di
una scuola cattolica dell’Upper West Side, la Corpus Christi: l’insegnante,
suor Aquin, spiegò a un reporter che la settimana precedente i ragazzi si
erano preparati alla visita simulando di investire in azioni un capitale
immaginario di diecimila dollari a testa. «Hanno perso tutto», disse suor
Aquin.
L’apertura delle contrattazioni segnò l’inizio dei novanta minuti piú neri
della borsa a memoria di molti agenti di cambio newyorchesi, comprese
alcune vecchie volpi che avevano vissuto in prima persona la crisi del 1929.
La partenza fu fiacca non perché regnasse la calma, ma perché, al contrario,
la pressione delle vendite era tale da paralizzare le operazioni. Al fine di
evitare sbalzi improvvisi delle quotazioni, alla Borsa di New York vige una
regola in base alla quale le transazioni effettuate a un prezzo molto lontano
(almeno un punto per le azioni di prezzo inferiore ai 20 dollari, due o piú
punti per quelle al di sopra) da quello dell’operazione di vendita precedente
devono essere personalmente autorizzate da uno dei funzionari presenti in
corbeille. Nel caso specifico, dato il gran numero di venditori e la penuria di
acquirenti, era inevitabile che le variazioni di prezzo fossero in
quell’ordine, se non addirittura superiori: e quindi nessuna azione poteva
passare di mano finché non si riusciva a trovare, in mezzo alla folla urlante,
un funzionario della borsa. Per alcuni titoli chiave come Ibm, la grande
preponderanza dei venditori rispetto agli acquirenti rendeva di fatto
impossibili le vendite anche con la debita autorizzazione di un funzionario,
e non c’era altra soluzione fuorché attendere che il miraggio di un buon
affare convincesse gli acquirenti a farsi vivi. Il bollettino Dow Jones, in
apparente stato di shock, continuava a farfugliare prezzi a casaccio e
informazioni frammentarie: alle 11.30 annunciò che «almeno sette» titoli in
tabellone non avevano ancora aperto, ma alla fine si sarebbe capito che
erano molti di piú. A un’ora dall’apertura delle contrattazioni l’indice Dow
Jones aveva perso altri 11,09 punti, le già ingenti perdite del giorno
precedente erano aumentate di svariati miliardi di dollari e il panico regnava
sovrano.
Insieme al panico arrivò anche il caos, o qualcosa di molto simile. Molte
cose si possono dire a proposito di quel martedí 29 maggio 1962; ma di
certo lo si ricorderà a lungo come il giorno in cui il capillare, complicato e
automatizzato sistema di strutture tecniche che rendeva possibile la
compravendita di titoli da un capo all’altro di una nazione enorme, in cui
quasi un adulto su sei era azionista di qualcosa, arrivò molto vicino al
collasso totale. Molti ordini furono eseguiti a un prezzo assai diverso da
quello concordato; altri si persero a metà strada o non furono mai eseguiti,
perché rimasti sepolti sotto lo strato di foglietti di carta che ricopriva il
pavimento della sala contrattazioni. In certi casi le società di
intermediazione non poterono eseguire gli ordini per pura e semplice
impossibilità di comunicare con i loro funzionari in sala contrattazioni. I
record di scambi del lunedí furono non superati, ma polverizzati: basti
pensare che al momento della chiusura il ritardo del nastro delle quotazioni
era di 2 ore e 23 minuti, contro l’ora e 9 minuti di lunedí. Per una sorta di
miracolosa illuminazione la Merrill Lynch (alla quale faceva capo piú del
13 per cento delle compravendite effettuate alla Borsa di New York) aveva
appena acquistato un nuovo computer modello 7074 – quella macchina
prodigiosa capace di riprodurre tutta la guida telefonica in soli tre minuti – e
con il suo aiuto riuscí a tenere i conti abbastanza a posto nonostante la
giornata frenetica. Anche il nuovo sistema di commutazione automatica per
telescriventi – un macchinario grande quasi quanto un intero isolato – si
dimostrò all’altezza del compito, facilitando le comunicazioni tra i vari
uffici della società nonostante si fosse surriscaldato al punto che era
impossibile toccarlo. Altre società ebbero peggior fortuna, e in alcuni casi la
confusione prese il sopravvento: si dice che alcuni broker, spossati dalla
vana ricerca delle ultime quotazioni o di un contatto con i colleghi in sala
contrattazioni, abbiano semplicemente gettato la spugna e siano usciti a
bere qualcosa. Comportamento assai poco professionale, che tuttavia
potrebbe aver risparmiato gravi perdite ai loro clienti.
Il colmo del paradosso fu raggiunto intorno all’ora di pranzo. Poco prima
di mezzogiorno le quotazioni avevano toccato il minimo, con una perdita di
23 punti dell’indice Dow Jones. (Va detto, tra l’altro, che il record negativo
dell’indice si assestò a 553,75 punti: nettamente al di sopra dei 500 che
alcuni esperti sostennero in seguito di aver indicato come possibile
minimo). Da quel momento in poi tutto cambiò: ebbe inizio la rimonta,
tanto energica quanto inaspettata. Alle 12.45 c’erano già i primi segnali di
una folle corsa agli acquisti; ma poiché il nastro delle quotazioni era in
ritardo di 56 minuti, la telescrivente continuò (a parte gli effimeri
aggiornamenti delle quotazioni «flash») a trasmettere dati sulle vendite da
panico, quando già era in atto un’epidemia di acquisti da panico.

Quella svolta cosí improvvisa e melodrammatica, che sarebbe stata in


perfetta sintonia con la natura romantica di José de la Vega, ebbe come
protagonista il titolo American Telephone & Telegraph, tenuto sotto
osservazione già dal giorno precedente per la sua capacità di suggestionare
il mercato. La parte di uomo del momento andò invece a George M. L. La
Branche Jr, contitolare della La Branche & Wood & Co., la società
specialista della AT&T. (Gli specialisti, o agenti specializzati, sono gli
intermediari che hanno il compito di mantenere l’ordine nelle
compravendite dei titoli di loro competenza. Nello svolgimento di tali
mansioni, si trovano spesso nella bizzarra condizione di dover intervenire di
persona per acquistare o vendere, rischiando il proprio denaro in operazioni
contrarie al buon senso. Per proteggere il mercato dai rischi connessi alla
fallibilità umana, è stato proposto da piú parti di delegare alle macchine i
compiti attualmente svolti dagli specialisti, ma finora i tentativi sono stati
infruttuosi. Il principale ostacolo a una soluzione di questo tipo si potrebbe
riassumere nella seguente domanda: se gli specialisti meccanici dovessero
perdere anche la camicia, a chi toccherebbe rimborsare le perdite?) La
Branche era un sessantaquattrenne di bassa statura azzimato e piuttosto
collerico, uno dei pochi agenti di cambio a fregiarsi con orgoglio di un
distintivo della Phi Beta Kappa, l’antica e influente associazione
studentesca. Aveva cominciato a fare lo specialista nel 1924, e la sua società
operava per conto della American Telephone dal 1929. Il tipico habitat di
La Branche (anzi, il luogo preciso dove soggiornava per almeno cinque ore
e mezzo in tutti o quasi tutti i giorni lavorativi dell’anno) era di fronte alla
postazione 15, in quella parte della sala contrattazioni che non è facilmente
visibile dalla galleria dei visitatori e che viene comunemente chiamata «il
garage»; con i piedi ben piantati a terra per respingere eventuali assalti di
aspiranti acquirenti o venditori, La Branche compariva spesso nella sua
abituale posa meditativa, una matita sospesa a mezz’aria sul banalissimo
libro mastro a fogli staccabili (che tutti, ovviamente, chiamavano «la
rubrica telefonica») nel quale prendeva nota di tutti gli ordini di acquisto e
vendita AT&T ai vari livelli di prezzo. La Branche era stato nell’occhio del
ciclone per tutta la giornata di lunedí, quando il titolo Telephone aveva
guidato il mercato al ribasso. In quanto specialista, aveva saputo schivare i
colpi come un pugile provetto – o per usare le sue stesse parole, galleggiare
come un tappo di sughero sulle onde dell’oceano. «Le azioni Telephone
sono un po’ come il mare, – avrebbe dichiarato in seguito. – Sempre calme
e tranquille, ma poi all’improvviso si alza il vento e si forma un flutto
enorme, che travolge ogni cosa e se la porta via con la risacca. Quando
succede, bisogna abbandonarsi all’onda: non si può combatterla, come
spiega la leggenda del re Canuto e del suo trono in riva al mare». Quel
martedí mattina, dopo la burrasca di lunedí e gli undici punti persi, la
grande onda non si era ancora esaurita: la semplice operazione pratica di
riordino e smistamento degli ordini pervenuti durante la notte – per non
parlare della difficoltà di trovare un funzionario di borsa che avesse il
tempo di autorizzarli – richiese cosí tanto tempo che la prima transazione
delle AT&T poté essere effettuata a quasi un’ora dall’apertura delle
contrattazioni. Quando entrarono finalmente nel listino, alle undici meno un
minuto, le azioni Telephone quotavano a 98 1/2: 2 1/8 al di sotto della
chiusura di lunedí. Nei 45 minuti successivi il mondo finanziario guardò al
titolo AT&T come il capitano di una nave in tempesta guarda al suo
barometro: Telephone oscillò tra un massimo di 99 (in qualche momentanea
risalita) e un minimo di 98 1/8. Il livello piú basso fu raggiunto in tre
diversi momenti, intervallati da fasi di ripresa: circostanza alla quale La
Branche attribuí, forse non a torto, una valenza magica o addirittura mistica.
In ogni caso, dopo la terza lieve flessione gli acquirenti cominciarono a
mettersi in coda davanti alla postazione 15: prima pochi ed esitanti, poi
sempre piú numerosi e aggressivi. Alle 11.45 Telephone si scambiava a 98
3/4; pochi minuti dopo, a 99; alle 11.50, a 99 3/8; alle 11.55 raggiunse quota
100.
Secondo l’opinione di molti commentatori, quella prima vendita a 100
delle azioni AT&T fu il segnale preciso dell’inversione di tendenza che
poco per volta si sarebbe estesa a tutto il mercato. Poiché le azioni
Telephone sono tra quelle su cui vengono diffuse informazioni «flash» nei
momenti di maggiore ritardo del nastro, la notizia della vendita a 100
raggiunse quasi immediatamente la comunità finanziaria, e fu l’unica novità
positiva in un mare di cattive notizie; secondo la teoria piú accreditata, il
dato oggettivo – la rimonta di quasi due punti – si sarebbe associato a una
circostanza puramente fortuita – l’impatto psicologico di quella cifra tonda
e pulita – e il risultato finale sarebbe stato uno spostamento degli equilibri
in favore della ripresa. La Branche, pur convinto che le azioni AT&T
abbiano fatto molto per facilitare la svolta, ha un’opinione diversa riguardo
alla transazione decisiva. La prima vendita a 100 riguardava un numero
esiguo di azioni (un centinaio, pare), e come tale non dava ancora garanzie
sufficienti sulla stabilità del recupero. La Branche, però, sapeva di avere sul
suo libro mastro ordini di vendita a quota 100 per almeno ventimila azioni
AT&T. Se la domanda di acquisto a quel prezzo si fosse esaurita senza
dargli il tempo di smaltire il suo stock da 2 milioni di dollari, il prezzo delle
Telephone avrebbe ricominciato a scendere, magari toccando per la quarta
volta il record negativo di 98 1/8. E non è escluso che un uomo come La
Branche, avvezzo a pensare in termini nautici, attribuisse un senso di
irrevocabilità all’idea di toccare il fondo per la quarta volta.
Ma non successe. La prima raffica di vendite a quota 100, in piccoli lotti,
fu seguita da altre operazioni piú consistenti. Quando circa la metà della
scorta a quel prezzo si era già esaurita, un certo John J. Cranley, operatore
per conto della società Dreyfus & Co., si fece discretamente largo tra la
folla che stazionava davanti alla postazione 15 e fece un’offerta di acquisto
per diecimila azioni della Telephone, al prezzo di 100 dollari l’una: proprio
quel che ci voleva per esaurire lo stock di La Branche e aprire la strada a un
ulteriore rialzo delle quotazioni. Cranley non disse se l’offerta fosse fatta
per conto della sua società, di un suo cliente o del Dreyfus Fund, il fondo
comune che la Dreyfus & Co. gestiva attraverso una delle sue consociate; in
ogni caso, l’entità dell’ordine induce a credere che il mandante fosse
proprio il Dreyfus Fund. A quel punto La Branche non dovette far altro che
pronunciare la fatidica parola: «Vendute!» Espletate le necessarie formalità,
la transazione poté dirsi completata. Da quel momento in poi, comprare
azioni AT&T a 100 diventò impossibile.
La situazione non era del tutto nuova: in passato (anche se non ai tempi
di De la Vega) si era già verificato il caso di un’unica grande transazione
capace, almeno nelle intenzioni, di mutare la tendenza del mercato. All’una
e mezzo del 24 ottobre 1929 – l’orribile giorno che la storia della finanza
conosce come «Martedí nero» – Richard Whitney, all’epoca vicepresidente
della Borsa di New York e figura notissima in sala contrattazioni, si era
avvicinato con aria spavalda (addirittura pimpante, raccontano alcuni) alla
postazione in cui venivano trattate le azioni U.S. Steel, e aveva offerto 205
(ovvero il prezzo dell’ultima vendita) per un lotto di diecimila azioni. Tra
l’operazione del 1929 e quella del 1962, però, vi erano due fondamentali
differenze. La prima è che quella di Whitney era stata una mossa teatrale,
calcolata per produrre un certo effetto, mentre Cranley agí senza clamore,
con la sola intenzione di fare un buon affare per conto del Dreyfus Fund. In
secondo luogo, la transazione dell’ottobre 1929 fu seguita da un rialzo
piuttosto evanescente – la settimana successiva le perdite furono tali da far
letteralmente impallidire il Martedí nero – mentre la vendita delle AT&T
del maggio 1962 segnò l’inizio di una ripresa genuina e duratura. La morale
della storia potrebbe essere questa: le operazioni che vorrebbero
condizionare le aspettative del mercato funzionano meglio quando sono
estemporanee e non strettamente necessarie. A ogni buon conto,
l’operazione AT&T fece ripartire tutto il mercato. Superata quota 100, le
Telephone furono protagoniste di un vigoroso balzo in avanti: alle 12.18 si
scambiavano a 101¼, alle 12.41 a 103½, e alle 13.05 a 106¼. Tra le 11.46 e
le 13.38, le General Motors passarono da 45 1/2 a 50. Le Standard Oil of
New Jersey, che alle 11.46 valevano 46 3/4, quotavano a 51 alle 13.28. Tra
le 11.40 e le 13.28, U.S. Steel passò da 49 1/2 a 52 3/8. Ma il caso piú
eclatante fu senza dubbio quello delle Ibm. Per tutta la mattinata il titolo era
stato escluso dalle contrattazioni per eccesso di vendite, e le ipotesi sul
prezzo di apertura oscillavano tra i 10 e i 20 (addirittura 30, secondo alcuni)
punti in meno rispetto all’ultima chiusura; ma all’improvviso arrivò una
vera e propria valanga di ordini di acquisto, tanto che poco prima delle
14.00, quando fu tecnicamente possibile aprire le contrattazioni, il prezzo di
apertura risultò essere maggiore di 4 punti, per di piú su un lotto enorme di
trentamila azioni. Alle 12.28, meno di mezz’ora dopo la grande operazione
sulle AT&T, il bollettino Dow Jones era talmente sicuro del fatto suo da
annunciare senza inutili giri di parole che il mercato aveva «recuperato le
forze».
In effetti era proprio cosí, ma l’inversione di tendenza era stata talmente
rapida da produrre altri effetti singolari. Quando il broad tape trasmette
notizie di una certa lunghezza (per esempio la sintesi del discorso
pronunciato da un’importante personalità) tende a dividerle in sezioni di
lunghezza minore, che vengono poi diffuse poco alla volta, inframmezzate
da brevi «ultimissime» sull’andamento delle contrattazioni. Cosí accadde
anche nel primo pomeriggio del 29 maggio con la notizia del discorso che
H. Ladd Plumley, presidente della Camera di commercio degli Stati Uniti,
aveva tenuto presso il Circolo della stampa nazionale: la sintesi delle sue
dichiarazioni fu trasmessa dal nastro del Dow Jones a partire dalle 12.25,
quasi contemporaneamente all’annuncio della ripresa del mercato. Nel
complesso, l’effetto fu davvero bizzarro. Il nastro cominciò a riassumere la
prima parte del discorso, in cui Plumley invocava «una matura valutazione
dell’attuale crisi di fiducia dei mercati», dopodiché la sintesi fu interrotta da
una serie di dati sui prezzi delle azioni, che risultarono in netta ascesa. Il
nastro tornò poi a Plumley, che con crescente fervore attribuiva la crisi dei
mercati azionari «agli effetti simultanei di due fattori destabilizzanti: un
calo delle aspettative di profitto e la recente imposizione di controlli sul
prezzo dell’acciaio da parte del presidente Kennedy». Seguí un’interruzione
di durata maggiore, piena zeppa di dati e cifre quanto mai rassicuranti. Ed
ecco Plumley tornare alla carica con nuovi argomenti, il cui costante
sottofondo somigliava da vicino a un ve l’avevo detto!: «Abbiamo sotto gli
occhi, – sosteneva l’autorevole personaggio, – la prova che il “giusto clima
degli affari” non è una vuota formula a uso delle agenzie pubblicitarie di
Madison Avenue, ma una realtà concreta e quanto mai desiderabile». E cosí
andò per tutto il primo pomeriggio: ore inebrianti per gli abbonati al
servizio Dow Jones, che innaffiarono il caviale della ripresa dei prezzi con
lo champagne delle critiche di Plumley all’amministrazione Kennedy.

Nell’ultima ora e mezzo di martedí 29, il ritmo delle contrattazioni


aumentò fino a diventare frenetico. Il conteggio ufficiale delle transazioni
effettuate dopo le quindici (cioè nell’ultima mezz’ora prima della chiusura)
superò di poco i 7 milioni di pezzi, cifra che all’epoca sarebbe stata
considerata al di sopra della norma persino per un’intera giornata. Quando
la campanella annunciò la chiusura delle contrattazioni, dalla corbeille si
alzò un nuovo grido, ben piú fragoroso di quello del giorno precedente: il
Dow Jones era cresciuto di ben 27,03 punti, e quasi tre quarti delle perdite
di lunedí erano state recuperate. Su un totale di 20,8 miliardi andati in fumo
il giorno prima, 13,5 si erano nuovamente materializzati. (Naturalmente
queste cifre confortanti furono diffuse soltanto quando la borsa era chiusa
da parecchie ore, ma è noto che le capacità divinatorie degli operatori
esperti siano spesso piú che attendibili anche in termini statistici: alla
chiusura di martedí, alcuni di loro avrebbero detto di «sentirsi nella pancia»
una crescita superiore ai 25 punti, e non c’è motivo di mettere in dubbio le
loro intuizioni). Ma nonostante l’atmosfera briosa, il tempo, si sa, cammina
lento. A fronte di una nuova crescita nel volume delle contrattazioni, le
telescriventi continuarono a ticchettare e le luci restarono accese fino a sera
inoltrata, ancora piú tardi che il giorno prima; i dati sull’ultima transazione
furono trasmessi soltanto alle 20.15: ben quattro ore e tre quarti di ritardo. E
il giorno seguente, benché fosse il Memorial Day, i mercati azionari non
andarono in vacanza. Le vecchie volpi di Wall Street si erano dette convinte
che il giorno dedicato alla commemorazione dei caduti in guerra, ricorrendo
provvidenzialmente nel bel mezzo di una crisi, sarebbe stato determinante
nell’impedire una vera e propria catastrofe. Le cose, come si sa, andarono
diversamente, ma non c’è dubbio che la Borsa di New York e le
organizzazioni che ne facevano parte – e che rimasero compatte ai propri
posti di combattimento per tutta la giornata – abbiano approfittato
dell’interruzione per cominciare a raccogliere i cocci.
Fu cosí che migliaia di ingenui risparmiatori, convinti di aver acquistato
azioni U.S. Steel a 50 quando invece le avevano pagate 54 o 55, scoprirono
gli insidiosi effetti del ritardo delle telescriventi. Ma in migliaia di altri casi
fu impossibile additare un colpevole ai clienti insoddisfatti: una società di
intermediazione, per esempio, scoprí che due ordini trasmessi precisamente
nello stesso momento – uno per acquistare azioni Telephone al prezzo
corrente, l’altro per vendere lo stesso quantitativo, sempre al prezzo
corrente – erano stati eseguiti con modalità diverse, giacché la vendita si era
conclusa a 102, mentre il prezzo di acquisto era stato fissato a 108.
Sconcertata da una situazione che sembrava in contraddizione con la legge
della domanda e dell’offerta, la società di intermediazione aveva svolto
opportune indagini, venendo infine a sapere che l’ordine di acquisto era
stato temporaneamente smarrito nella ressa, e prima che riuscisse a
raggiungere la postazione numero 15 il prezzo era salito di altri 6 punti.
Poiché non si trattava di un errore commesso dal cliente, la società di
intermediazione gli rimborsò la differenza. Il giorno successivo, mercoledí
30, il personale della borsa si trovò alle prese con svariati problemi,
compreso quello di accontentare una troupe televisiva della Canadian
Broadcasting Corporation che, avendo dimenticato la ricorrenza del 30
maggio, era appena arrivata da Montréal per filmare ciò che accadeva a
Wall Street. Nelle alte sfere, intanto, si meditava su come rimediare allo
scandaloso ritardo del nastro delle quotazioni, che a detta di tutti era stato il
fondamento – se non la causa vera e propria – del piú insidioso e quasi
catastrofico parapiglia nella storia della borsa. Nella dettagliata relazione
che avrebbe poi fornito in propria difesa, la borsa sosteneva in sintesi che la
crisi si era presentata con due anni di anticipo. «Sarebbe inesatto sostenere
che tutti gli investitori siano stati serviti alle normali condizioni di rapidità
ed efficienza con le apparecchiature in nostro possesso», dichiarò la borsa
con la consueta cautela, annunciando poi che a partire dal 1964 sarebbe
entrato in funzione un nuovo modello di telescrivente in grado di operare a
velocità doppia rispetto agli strumenti in uso al momento. (Vero è che la
nuova telescrivente e le altre macchine, debitamente e puntualmente
installate, diedero ampia prova della loro efficienza, soprattutto nell’aprile
del 1968, quando i dati su una straordinaria impennata delle contrattazioni
vennero trasmessi con ritardi pressoché trascurabili). Che la tempesta del
1962 fosse sopraggiunta quando le contromisure erano ancora in fase di
allestimento era, si disse, «un’ironia della sorte».
Giovedí mattina la situazione era ancora ben lontana dall’essere
tranquilla. Capita spesso che dopo un’ondata di vendite da panico i mercati
abbiano un brusco contraccolpo, dopo il quale, però, i prezzi ricominciano a
scendere. Molti broker avevano ben presente che il 30 ottobre del 1929 –
dopo due giorni di drammatico declino, ma prima del disastroso collasso
che si sarebbe prolungato per anni, facendo esplodere in tutta la sua gravità
quella che oggi conosciamo come Grande depressione – il Dow Jones aveva
segnato un rialzo di 28,4 punti, dato pericolosamente simile a quello appena
rilevato. In altri termini, i mercati azionari soffrono di quella che José de la
Vega chiamava «antiperistasi»: la tendenza a invertire il senso di marcia per
poi invertirlo di nuovo, e di nuovo, e cosí via. In quel momento, per
esempio, un seguace della scuola antiperistatica avrebbe potuto sostenere
che il mercato era sul punto di scendere nuovamente in picchiata. E invece
non andò cosí. La giornata di giovedí fu caratterizzata da una costante e
sistematica crescita dei prezzi. Qualche minuto dopo l’apertura, il broad
tape diffuse la notizia che i broker erano letteralmente sommersi dagli
ordini di acquisto, molti dei quali provenienti dall’America del Sud,
dall’Asia e dai Paesi dell’Europa occidentale che operano sulla Borsa di
New York. Quando mancavano pochi minuti alle undici il bollettino
annunciò festoso una «pioggia incessante di ordini da ogni parte del
mondo». I capitali che si erano volatilizzati stavano magicamente
ritornando, e altro denaro fresco era in arrivo. Poco prima delle quattordici
il nastro delle quotazioni abbandonò i toni euforici in favore di una
spensierata indifferenza, e tralasciando per qualche istante le cronache dei
mercati diede notizia di un incontro di pugilato tra Floyd Patterson e Sonny
Liston. Anche i mercati europei, sensibili come sempre agli umori di Wall
Street, erano in netta ascesa. A New York i contratti futures sul rame
avevano recuperato piú dell’80 per cento delle perdite subite nei primi due
giorni della settimana: le finanze dello Stato cileno erano quasi del tutto
fuori pericolo. Alla chiusura, l’indice Dow Jones raggiunse quota 613,36: le
perdite della settimana erano state interamente recuperate, e si era avuta
persino una piccola crescita. La crisi era terminata. Una semplice
fluttuazione, avrebbe detto J. P. Morgan il Vecchio; la dimostrazione pratica
della teoria dell’antiperistasi, avrebbe detto José de la Vega.

Per tutta l’estate, e fino all’anno successivo, analisti ed esperti si


produssero in varie interpretazioni di quanto era accaduto a fine maggio:
diagnosi inappuntabili per logica, solennità e precisione, solo parzialmente
invalidate dal fatto che nessuno degli autori aveva la minima idea di come
sarebbero potute andare le cose se non fossero andate a quel modo. La
relazione forse piú competente e dettagliata sull’ondata di vendite che
aveva innescato la crisi fu fornita dalla stessa Borsa di New York, sulla base
di un questionario distribuito a broker e società di intermediazione. Ne
risultò che nei tre giorni della crisi le zone rurali del Paese erano state piú
attive del solito sui mercati azionari; che le donne avevano disinvestito un
volume di azioni due volte e mezzo superiore a quello dei maschi; e che
anche gli investitori stranieri erano stati molto piú presenti del solito, tanto
da coprire il 5,5 per cento del volume complessivo delle transazioni, con
una netta prevalenza di vendite. Ma il dato piú sorprendente in assoluto
riguardava quelli che nel gergo della Borsa di New York si chiamano
«soggetti privati in veste pubblica»: gli investitori individuali (contrapposti
a quelli istituzionali), cioè coloro che dappertutto, fuorché a Wall Street, si
definirebbero privati cittadini. Costoro, apparentemente, avevano avuto un
ruolo di grande rilievo in tutta la faccenda, realizzando il 56,8 per cento del
volume complessivo delle transazioni: una quota da record. Dalla
suddivisione per fasce di reddito risultò che i soggetti privati in veste
pubblica con un reddito familiare annuo superiore ai venticinquemila dollari
erano stati attivi soprattutto sul fronte delle vendite; i nuclei familiari con
un reddito inferiore ai diecimila dollari, invece, avevano venduto soprattutto
lunedí e nelle prime ore di martedí, ma nella giornata di giovedí avevano
acquistato cosí tante azioni da invertire il saldo delle loro attività, risultando
infine acquirenti netti nell’arco dei tre giorni. Inoltre, sempre secondo le
rilevazioni della borsa, circa un milione di azioni – pari al 3,5 per cento del
volume complessivo delle compravendite effettuate nei tre giorni – erano
state vendute a seguito di richieste di reintegro dei margini di garanzia. Se
c’era un colpevole, in sostanza, sembrava essere l’investitore relativamente
benestante che agiva senza l’intermediazione di operatori professionali;
spesso, poi – piú spesso di quanto si sarebbe potuto immaginare – l’apporto
di quest’ultimo era stato integrato da altri soggetti: donne, abitanti delle
zone rurali o cittadini stranieri, che non di rado avevano speculato con
denaro preso a prestito.
La parte dell’eroe toccò invece, inaspettatamente, alla piú temibile delle
incognite presenti sul mercato: i fondi a capitale variabile. Secondo le
rilevazioni ufficiali, lunedí 28, in un mercato in forte ribasso, i fondi aperti
erano stati acquirenti netti con un saldo attivo di 530 000 azioni; e giovedí,
mentre il grosso degli investitori si affannava ad acquistare, i fondi aperti
avevano venduto 375 000 azioni in piú rispetto a quante ne avevano
acquistate. In sostanza, invece che amplificare le fluttuazioni del mercato,
erano stati un elemento stabilizzante. Quanto alle ragioni dell’inatteso
effetto positivo, poiché nessuno finora ha avanzato l’ipotesi che il
comportamento dei fondi sia stato dettato da pura e semplice coscienza
civica, la teoria piú plausibile è che i gestori abbiano acquistato lunedí 28
attratti dai prezzi vantaggiosi, e abbiano poi venduto giovedí per incassare i
profitti. E se da un lato era prevedibile che durante la fase di calo dei prezzi
un gran numero di sottoscrittori dei fondi aperti avrebbe chiesto il rimborso
di quote per un valore complessivo nell’ordine dei milioni di dollari, è
probabile che i fondi stessi avessero scorte di liquido piú che sufficienti a
permettergli di ripagare i sottoscrittori senza bisogno di cedere quote
sostanziali di portafoglio. Nel complesso, dunque, i fondi a capitale
variabile avevano dato prova di grande ricchezza e altrettanto grande
prudenza: doti che gli avevano consentito non soltanto di reggere l’urto dei
marosi ma anche, per una felice coincidenza, di mitigarne gli effetti. Questa
la ricostruzione dei fatti: altra questione è capire se la tempesta potrebbe
ripresentarsi in futuro.
In ultima analisi, le cause della crisi del 1962 non sono ancora state
individuate con certezza: quel che si sa è che una crisi c’è stata, e potrebbe
ripetersi in forma piú o meno simile. Come ha dichiarato di recente uno dei
tanti osservatori anonimi delle vicende di Wall Street: «Sí, ero preoccupato,
ma non mi è mai venuto in mente di essere alla vigilia di una seconda
Depressione. E non ho mai detto che il Dow Jones sarebbe sceso a
quattrocento: ho detto cinquecento. Il punto è che al giorno d’oggi il
governo (repubblicano o democratico che sia) sa di dover prestare
attenzione alle esigenze del mondo economico, mentre nel 1929 non era
affatto cosí. Non ci saranno mai piú uomini d’affari ridotti a vendere mele
agli angoli delle strade. E a chi mi chiede se potrebbe succedere di nuovo
rispondo che sí, ovviamente potrebbe. Magari adesso, per un anno o due, i
mercati saranno piú prudenti, dopodiché ci potrebbe essere un’altra bolla
speculativa seguita da un nuovo crollo, e via di seguito, finché il buon Dio
si deciderà a renderci meno avidi».
Ovvero, come disse José de la Vega: «È sciocco pensare di poter
rinunciare alla borsa, una volta assaggiato il dolce sapore del miele».
4. L’imposta federale sul reddito
Storia, vizi e virtú della tassa piú odiata

1.

Non c’è dubbio che negli ultimi tempi molti americani ricchi e
apparentemente intelligenti abbiano preso decisioni che a un osservatore
ingenuo potrebbero sembrare strampalate, se non addirittura folli. Plutocrati
d’antico lignaggio, non di rado strenui oppositori della burocrazia in ogni
sua forma e manifestazione, si sono convertiti con slancio al finanziamento
dei governi statali e municipali, tributando loro generose donazioni. La
frequenza dei matrimoni tra persone con redditi molto elevati e persone con
redditi piú modesti raggiunge punte massime verso la fine di dicembre e
crolla al minimo in gennaio. Personaggi di grande successo soprattutto in
campo artistico, improvvisamente e insistentemente esortati dai loro
commercialisti a sospendere ogni attività retribuita fino al termine dell’anno
civile in corso, hanno accolto di buon grado il suggerimento anche se, in
certi casi, mancavano sei o persino sette mesi all’anno nuovo. Attori e
professionisti di reddito elevato manifestano una ricorrente propensione
all’acquisto di cave di sabbia o ghiaia, locali per il gioco del bowling,
servizi di segreteria telefonica o altre attività di nessun pregio, alla cui
gestione ritengono con tutta probabilità di dover imprimere nuovo slancio.
Gli abitanti del dorato mondo del cinema seguono un programma ciclico di
abbandoni e riconciliazioni, abiurando sovente il suolo natio in favore di
questa o quella nazione estera, per poi ritornare in patria di lí a diciotto
mesi. I petrolieri hanno cosparso il suolo del Texas di carotaggi esplorativi,
assumendosi rischi ben maggiori di quelli normalmente richiesti dal senso
degli affari. Imprenditori e professionisti che viaggiavano in aereo o in taxi,
o sedevano al tavolo di qualche ristorante, sono stati piú volte sorpresi
nell’atto di vergare note su certi piccoli taccuini che, ove sollecitati a farlo,
essi stessi hanno qualificato come «diari»: ma invece che a dimostrarne la
parentela spirituale con illustri prosatori del calibro di Samuel Pepys o
Philip Hone, le loro annotazioni servivano in buona sostanza a rammentare
le spese sostenute. E non parliamo, infine, dei molti proprietari o
comproprietari di aziende che hanno deciso di spartire ciò che possiedono
con i loro figli in giovane, spesso giovanissima età: al punto che, in un caso
almeno, la ratifica di un accordo del genere è stata rinviata in attesa della
nascita del nuovo socio.
Come tutti o quasi avranno intuito, queste bizzarrie sono direttamente
imputabili ad alcune prescrizioni della legge federale sul reddito. Il fatto
che si traducano in nascite, matrimoni, scelte professionali, stili e/o luoghi
di vita ci fa intuire l’ampiezza degli effetti sociali di quella legge; ma
poiché sono circoscritte ai ceti abbienti, l’ampiezza dei loro effetti
economici resta sconosciuta ai piú. Prendiamo un qualsiasi anno della storia
recente: il 1964, per esempio. Considerato che il numero delle dichiarazioni
dei redditi presentate in quell’anno dai cittadini americani si aggirava
intorno ai 63 milioni, non è difficile capire perché la normativa sul reddito
sia considerata da molti la piú importante delle leggi. E poiché la sola
imposta sul reddito fornisce allo Stato circa tre quarti dei suoi introiti lordi,
la sua rilevanza nel piú vasto contesto della politica fiscale nazionale è
quanto mai evidente. (A fronte di un gettito lordo complessivo di 112
miliardi di dollari nella gestione finanziaria conclusasi il 30 giugno del
1964, circa 54,5 miliardi provenivano da imposte sul reddito delle persone
fisiche, contro i 23,3 miliardi forniti dalle imposte sul reddito delle
imprese). «Per il comune cittadino, è LA TASSA per antonomasia»,
sostengono William J. Shultz e C. Lowell Harriss nel loro saggio intitolato
American Public Finance, mentre David T. Bazelon ha suggerito che i suoi
effetti economici siano stati talmente ampi da aver creato due diverse
monete americane: il dollaro al lordo delle imposte e il dollaro al netto.
Nessuna azienda nasce o viene gestita, neppure per un giorno, senza che si
prenda in seria considerazione il problema delle tasse, e nessun cittadino –
quale che sia la sua categoria di reddito – può permettersi il lusso di non
pensarci almeno di tanto in tanto, sapendo che il mancato rispetto delle
disposizioni in materia ha già avuto conseguenze nefaste sul patrimonio o
sulla reputazione (a volte su entrambi) di alcuni contribuenti. Qualche anno
fa un turista americano in vacanza a Venezia si imbatté in una cassetta
destinata alla raccolta di offerte per la manutenzione della basilica di San
Marco, e con sua grande sorpresa vide su una targhetta di ottone la scritta
«Deducibile dalle imposte sul reddito dei cittadini statunitensi».
Quando si parla dell’imposta sul reddito lo si fa spesso partendo dal
presupposto che non sia né logica, né equa. L’accusa piú generica e seria
che le viene rivolta è di fondarsi su qualcosa che somiglia molto a una
bugia: pur prevedendo una serie di aliquote progressive a seconda
dell’entità dei redditi, l’imposta offre ai contribuenti una tale quantità di
comode scappatoie che alla fine quasi nessuno, ricco o no, incappa nelle
aliquote piú alte. Nel 1960 i contribuenti con un imponibile compreso tra
duecentomila e cinquecentomila dollari pagavano in media il 44 per cento
di tasse, e persino i pochi fortunati con un imponibile superiore al milione
di dollari erano soggetti a una tassazione ben inferiore al 50 per cento – che,
guarda caso, era la percentuale di reddito che l’erario avrebbe dovuto
riscuotere (e spesso riscuoteva) dai cittadini con un imponibile di 42 000
dollari. Un’altra accusa che spesso si rivolge all’imposta sul reddito è quella
di essere una specie di serpente nel nostro giardino dell’Eden: sarebbero
cosí tante le opportunità di microevasione offerte dall’attuale normativa,
che a ogni aprile l’intera società americana incorre in una vera e propria
perdita della grazia. Un’altra scuola di pensiero, infine, sostiene che a causa
della sua grande complessità (il codice di diritto tributario del 1954,
fondamento della normativa, è un volume di oltre mille pagine, mentre le
sentenze e le norme applicative dell’agenzia tributaria statunitense constano
di altre diciassettemila) l’imposta sul reddito non solo produce situazioni
paradossali quali attori che estraggono ghiaia o aziende con soci non ancora
nati, ma, in quanto legge a cui il cittadino non è in grado di conformarsi da
solo, costituisce di per sé stessa un’anomalia. La conseguenza, a detta di
questi critici, è una violazione del principio democratico, giacché soltanto i
ricchi possono permettersi la costosa assistenza professionale necessaria a
minimizzare il carico fiscale senza violare la legge.
In pratica la normativa fiscale nella sua totalità non ha un solo difensore,
anche se i piú equanimi tra gli studiosi della materia sostengono che nel
mezzo secolo ormai trascorso dalla sua entrata in vigore essa abbia favorito
una colossale e salutare redistribuzione della ricchezza. Quando si parla di
tasse, del resto, c’è una sola certezza: tutti vorrebbero riformarle. Il
problema è che, in quanto riformatori, noi cittadini abbiamo le mani legate,
e per due ragioni: la prima è la spaventosa complessità di una materia il cui
solo nome ha il potere di annebbiare molte menti; la seconda è la
puntigliosa, sagace ed energica difesa di certi privilegi da parte dei piccoli
gruppi che ne traggono beneficio. Come qualsiasi normativa fiscale, anche
la nostra sembra avere una sorta di refrattarietà alle riforme, poiché le stesse
ricchezze che alcuni cittadini hanno accumulato grazie ai meccanismi di
elusione fiscale possono essere e sono costantemente utilizzate per
contrastare l’eliminazione di quei meccanismi. Questi vincoli, associati al
crescente fabbisogno finanziario generato dalla spesa militare e dai costi di
gestione della macchina statale (anche senza considerare le guerre «calde»
come quella combattuta in Vietnam), hanno dato luogo a due tendenze cosí
marcate da aver assunto la forma di una legge politica naturale: negli Stati
Uniti è relativamente facile innalzare le aliquote fiscali e introdurre
meccanismi di elusione fiscale, mentre è relativamente difficile abbassare le
aliquote ed eliminare i suddetti meccanismi. Cosí almeno si credeva fino al
1964, quando una parte di quella legge naturale è stata spettacolarmente
smentita da una nuova norma proposta dal presidente Kennedy e poi messa
in atto da Lyndon B. Johnson, grazie alla quale le aliquote minima e
massima dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sono state ridotte
rispettivamente dal 20 al 14 per cento e dal 91 al 70 per cento, mentre
l’aliquota massima dell’imposta sui redditi delle aziende è stata portata dal
52 al 48 per cento: in sostanza, la piú ampia manovra di sgravio fiscale mai
attuata nella storia degli Stati Uniti. L’altra metà della legge naturale, nel
frattempo, resta immutata. Va detto a onor del vero che la proposta di
riforma avanzata dal presidente Kennedy comprendeva una serie di misure
di contrasto all’elusione fiscale, le quali però suscitarono un tale scalpore
che lo stesso Kennedy finí per rinunciarvi; alla fine, si scoprí che la nuova
legge conteneva disposizioni che addirittura estendevano o potenziavano un
paio di scappatoie.
«Facciamocene una ragione, Clitus: viviamo in un’èra fiscale. Tutto
finisce in tasse», dice uno degli avvocati protagonisti di Powers of Attorney,
la raccolta di racconti di Louis Auchincloss: il suo collega, fervente
tradizionalista, non può che obiettare debolmente. È strano che la normativa
fiscale, per quanto onnipresente nella vita americana, compaia cosí di rado
nelle opere di narrativa. Forse la si considera priva di eleganza letteraria;
oppure l’omissione è frutto del generale imbarazzo di una nazione che ha
volontariamente e irreversibilmente dato vita a un’entità non del tutto buona
né del tutto cattiva, ma cosí immensa, stravagante e ambigua sul piano
morale, che l’immaginazione non è in grado di comprenderla. In sostanza, è
come se noi stessi non riuscissimo a capacitarci della sua esistenza.

Per essere davvero efficace, un’imposta sul reddito ha bisogno di una


nazione industrializzata con un gran numero di lavoratori salariati, e la
storia della tassazione sui redditi dai primordi fino a oggi è relativamente
breve e semplice. Le tasse universali dei tempi antichi gravavano su tutte le
persone facenti parte di una comunità e prevedevano il pagamento di una
somma fissa, non proporzionata al reddito: per determinare l’entità dei
tributi da riscuotere in ogni territorio si facevano censimenti come quello
che portò Maria e Giuseppe a Betlemme a pochi giorni dalla nascita di
Gesú. Prima del 1800 si ha notizia di due soli esperimenti di tassazione sul
reddito: uno a Firenze nel XV secolo, l’altro in Francia nel XVIII . Entrambi
erano, a ben vedere, tentativi di estorsione attuati a danno dei cittadini da
una classe dirigente avida di denaro. Secondo Edwin R. A. Seligman,
eminente storico delle imposte sul reddito, il progetto della signoria
fiorentina fallí per colpa della corruzione e dell’inefficienza del sistema
amministrativo. Quanto alla tassa introdotta in Francia tre secoli dopo, lo
studioso sostiene che «diventò ben presto una sentina di pratiche illecite» e
finí per degenerare in «un’imposizione del tutto iniqua e arbitraria a carico
delle classi meno abbienti», e come tale ebbe una parte determinante nello
scatenare il fervore omicida che sfociò nella Rivoluzione. L’aliquota della
tassa introdotta da Luigi XIV nel 1710 era del 10 per cento; in seguito fu
ridotta al 5, ma questo non bastò a salvare l’ancien régime, che venne
spazzato via insieme all’odiato balzello. Sorda a quell’avvertimento, nel
1798 la monarchia britannica varò un’imposta destinata a finanziare la sua
partecipazione alle guerre rivoluzionarie francesi: per molti aspetti, fu la
prima imposizione sul reddito di tipo moderno. In primo luogo prevedeva
una serie di aliquote graduali, comprese tra zero (sui redditi annui inferiori
alle 60 sterline) e 10 per cento (per i redditi superiori alle 200 sterline); in
secondo luogo, il testo della legge era alquanto complicato: ben 124 articoli,
per una lunghezza complessiva di 152 pagine. Il provvedimento fu accolto
con generale e istantanea ostilità, e violentemente criticato in una gran
quantità di libelli: uno di questi si presentava come una storia delle barbarie
dell’antichità vergata da un immaginario autore dell’anno 2000, il quale
descriveva gli antichi esattori dell’odiosa imposta come «impietosi
mercenari», veri e propri bruti che agivano «con la compiuta villania dettata
dall’insolenza e dalla presuntuosa ignoranza». Ciò nonostante, l’imposta era
largamente evasa, e dopo aver fruttato all’erario circa 6 milioni di sterline
all’anno per tre anni fu abrogata nel 1802 dopo la firma del trattato di
Amiens. L’anno successivo, però, il Tesoro inglese lamentò nuove
ristrettezze e il parlamento promulgò una nuova tassa sul reddito
straordinariamente evoluta per i suoi tempi, giacché prevedeva addirittura
l’applicazione di una ritenuta alla fonte. Forse proprio per questo la seconda
tassa fu odiata ancor piú della precedente, benché l’aliquota massima fosse
inferiore della metà. Durante un raduno di protesta tenutosi nella City di
Londra nel luglio del 1803, svariati oratori pronunciarono quella che per dei
sudditi della corona britannica era un’irrevocabile dichiarazione di
inimicizia: se davvero la tassa era l’unico modo di salvare la nazione, allora
non c’era altra soluzione fuorché rassegnarsi, benché malvolentieri, alla
bancarotta dello Stato.
Eppure poco alla volta, malgrado numerose battute d’arresto e alcuni
periodi di oblio totale, l’imposta sui redditi del governo britannico finí per
attecchire. Non è escluso che si sia giunti a tale risultato per pura e semplice
assuefazione, perché se c’è un elemento comune alla storia delle tasse sul
reddito, è proprio questo: l’apice della protesta coincide sempre con il
periodo immediatamente successivo all’introduzione del tributo, ma di anno
in anno le voci degli oppositori perdono vigore, mentre la tassa si rafforza.
L’imposta sul reddito del governo britannico fu abrogata l’anno successivo
alla vittoria di Waterloo, reintrodotta con scarsa convinzione nel 1832,
sostenuta con entusiasmo da Sir Robert Peel dieci anni piú tardi e mai piú
revocata in seguito. Nella seconda metà del XIX secolo l’aliquota base ha
oscillato tra il 5 per cento e meno dell’1 per cento: nel 1913 era ancora
ferma a un modestissimo 2,5 per cento, al quale si aggiungeva un’esigua
sovrattassa sui redditi piú elevati. Di lí a breve la moda americana di
imporre aliquote molto alte sui redditi piú elevati prese piede anche nel
Regno Unito, e verso la metà degli anni Sessanta la percentuale di imposta
per la fascia di reddito massima superava in totale il 90 per cento.
Nel XIX secolo altre nazioni del mondo – o quanto meno del mondo
sviluppato – seguirono l’esempio della Gran Bretagna introducendo una
tassazione sul reddito. Tra questi vi era anche la Francia post-rivoluzionaria,
che successivamente ritirò il provvedimento e per molti anni, fino alla
seconda metà dell’Ottocento, riuscí a non tassare gli introiti dei suoi
cittadini; ma alla fine la penuria di risorse fiscali si dimostrò intollerabile e
la tassa ritornò, assumendo da allora in avanti il ruolo di un elemento stabile
dell’economia francese. L’imposta sul reddito fu uno dei primi, anche se
non dei piú dolci, frutti dell’unità d’Italia; quanto alla Germania, molti degli
Stati nazionali che sarebbero poi confluiti in un’unica entità politica
avevano già introdotto, prima dell’unificazione, un tributo di questo genere.
Nel 1911 si applicavano imposte sul reddito anche in Austria, Spagna,
Belgio, Svezia, Norvegia, Danimarca, Svizzera, Olanda, Grecia,
Lussemburgo, Finlandia, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e India.
Quanto agli Stati Uniti, oggi invidiati dai governi di tutto il pianeta sia
per l’enormità del gettito, sia per l’apparente docilità dei contribuenti, non
si può certo dire che siano stati dei precursori o che abbiano dato prova di
incrollabile tenacia nel conservare all’interno dei loro codici una normativa
fiscale. Vero è che in epoca coloniale esistevano già diversi sistemi tributari
vagamente analoghi a una tassazione sul reddito – nel Rhode Island, per
esempio, ogni cittadino era tenuto a valutare la condizione finanziaria di
dieci suoi vicini allo scopo di fornire una base per gli accertamenti fiscali –
ma poiché erano inefficaci e davano adito a frequenti abusi, ebbero vita
breve. Il primo uomo politico americano a proporre l’introduzione di
un’imposta federale sul reddito fu Alexander J. Dallas, segretario del Tesoro
all’epoca della presidenza Madison: Dallas presentò la sua mozione nel
1814, ma pochi mesi dopo la Guerra angloamericana ebbe fine, il
fabbisogno finanziario dello Stato diminuí e la proposta venne sonoramente
fischiata, a tal punto che nessuno osò piú riproporla fino allo scoppio della
Guerra di secessione, quando i governi di entrambe le coalizioni
approvarono una propria normativa in materia. Prima del 1900 il
coinvolgimento in un qualche conflitto era praticamente l’unico motivo
capace di indurre un governo a tassare i redditi dei propri cittadini. Le leggi
nazionali sul reddito erano – e tali sono rimaste fino a tempi relativamente
recenti – provvedimenti destinati a finanziare la difesa e lo sforzo bellico.
Ma nel giugno del 1862 il Congresso degli Stati Uniti, assecondando gli
umori di un’opinione pubblica fortemente allarmata da un disavanzo statale
che cresceva al ritmo di 2 milioni di dollari al giorno, approvò a malincuore
l’introduzione di una tassa progressiva sul reddito con un’aliquota massima
del 10 per cento: il 1º luglio, il presidente Lincoln ratificò la nuova
normativa in materia fiscale e una legge che puniva la pratica della
poligamia. Il giorno successivo la Borsa di New York chiuse con un forte
ribasso, quasi certamente non imputabile alla legge sulla poligamia.
«Devo pagare le tasse sul reddito! Che magnifica novità! Non mi sono
mai sentito tanto importante in vita mia», scriveva Mark Twain sulle pagine
del «Territorial Enterprise» di Virginia City, Nevada, dopo aver saldato la
sua prima cartella esattoriale per l’anno 1864: un totale di 36 dollari e 82
centesimi, compresi 3 dollari e 12 centesimi di mora per ritardato
pagamento. L’entusiasmo di Twain non fu condiviso da molti, ma la legge
rimase in vigore fino al 1872; uno degli emendamenti a cui fu sottoposta
diede luogo, nel 1865, all’eliminazione delle aliquote progressive con il
singolare pretesto che imporre una tassa del 10 per cento sui redditi piú alti
e abbassare le aliquote per i redditi inferiori costituisse un’indebita
discriminazione a danno dei ricchi. Il gettito annuo delle imposte sul
reddito, salito da 2 a 73 milioni di dollari tra il 1863 e il 1866, subí una
brusca diminuzione. Per due decenni, a partire dai primi anni Settanta
dell’Ottocento, l’idea di un’imposta sui redditi non si affacciò quasi mai alla
mente degli americani, a parte le rare occasioni in cui un qualche agitatore
populista o socialista proponeva di spremere a dovere i ricconi che
vivevano in città. Ma nel 1893, quando ormai era chiaro a tutti che lo Stato
non poteva piú affidarsi a un sistema erariale obsoleto che non gravava a
sufficienza sugli uomini d’affari e sui professionisti, il presidente Cleveland
propose di introdurre una tassa sui redditi. L’idea fu accolta con estremo e
sonoro disappunto. Il senatore John Sherman dell’Ohio, padre della legge
antitrust che porta il suo nome, bollò la proposta di «socialismo,
comunismo, satanismo», mentre un altro senatore fece oscure allusioni «ai
professori con i loro libri, ai socialisti con le loro macchinazioni [e] agli
anarchici con le loro bombe». Alla Camera, invece, un deputato della
Pennsylvania si espresse in questi termini:
Una tassa sui redditi! Detestabile al punto che nessuna amministrazione ha mai osato
imporla se non in tempo di guerra […] Indicibilmente disgustosa, sia negli aspetti
morali sia in quelli materiali. Indegna di un Paese libero. È una legge classista! Volete
dunque rimunerare la disonestà e favorire la menzogna? L’imposizione di questa tassa
corromperà il popolo. Si porterà appresso un corteo di spie e informatori. Avrà bisogno
di uno sciame di funzionari con ampi poteri di inquisizione […] Se questa legge verrà
approvata, il Partito democratico avrà firmato la propria condanna a morte.

La proposta che aveva suscitato quegli strali, poi tramutata in legge nel
1894, prevedeva un’aliquota uniforme pari al 2 per cento su tutti i redditi
superiori ai quattromila dollari. Il Partito democratico sopravvisse, ma la
nuova normativa fu stroncata sul nascere. Prima ancora che entrasse in
vigore, la Corte suprema la respinse, giudicandola contraria alla norma
costituzionale che vietava di imporre tasse «dirette» non ripartite tra gli
Stati in base al numero dei rispettivi abitanti (obiezione che, curiosamente,
non era stata sollevata ai tempi della Guerra di secessione). La questione
tornò nel dimenticatoio e vi restò, questa volta, per una quindicina d’anni.
Nel 1909, a seguito di quello che un autorevole esperto come Jerome
Hellerstein ha definito «uno dei contorcimenti politici piú paradossali della
storia americana», il Partito repubblicano, da sempre implacabile oppositore
di ogni imposta sui redditi, presentò un emendamento costituzionale (il
sedicesimo) che attribuiva al Congresso il potere di applicare tasse non
ripartite tra gli Stati. Era una mossa puramente politica, intrapresa nella
pacifica convinzione che gli Stati non avrebbero mai ratificato
l’emendamento. E invece, con gran disappunto dei repubblicani, la norma
fu convalidata nel 1913. Qualche mese dopo, il Congresso emanò una legge
che introduceva una tassa graduale sui redditi delle persone fisiche, con
aliquote comprese tra l’1 e il 7 per cento, e un’imposta fissa dell’1 per cento
sugli utili netti delle aziende. Da allora in avanti, la tassa sui redditi è la
fedele compagna delle nostre vite.
Nel complesso, la sua storia dal 1913 ai giorni nostri è una storia di
aliquote crescenti, opportunamente neutralizzate dalla periodica comparsa
di clausole speciali che risparmiavano ai piú ricchi l’incomodo di dover
pagare piú tasse. Le aliquote salirono di molto negli anni del primo conflitto
mondiale, tanto che nel 1918 quella inferiore era pari al 6 per cento, mentre
la massima, applicata agli imponibili che superavano il milione di dollari,
era del 77 per cento: ben piú di quanto i passati governi avessero mai osato
chiedere ai loro contribuenti. Ma la fine della guerra e il «ritorno alla
normalità» invertirono la tendenza e aprirono le porte a una fase di fiscalità
piú leggera, per i ricchi come per i poveri. Il peso dell’imposta scese
gradualmente fino al 1925, anno in cui la gamma delle aliquote ordinarie
risultava compresa tra l’1 e mezzo per cento e il 25 per cento; per di piú, la
maggior parte dei lavoratori dipendenti era esentata dal pagamento delle
tasse grazie a una serie di detrazioni pari a 1500 dollari per ogni singolo
contribuente e a 3500 dollari per i contribuenti con coniuge a carico, ai
quali si aggiungevano altri 400 dollari per ognuno degli altri familiari a
carico. Ma non era tutto qui: proprio negli anni Venti, infatti, erano apparse
sulla scena le prime clausole speciali, concepite e realizzate dallo stesso
insieme di forze politiche che, salvo rari intervalli, ne favorisce tuttora la
proliferazione. La prima disposizione speciale di una certa importanza,
adottata nel 1922, stabiliva il principio del trattamento di favore per gli utili
in conto capitale ancora applicato ai giorni nostri: gli introiti derivanti da un
incremento nel valore degli investimenti sono tassati a un’aliquota piú bassa
rispetto ai guadagni ottenuti sotto forma di retribuzioni o in cambio della
prestazione di servizi. Quattro anni piú tardi, nel 1926, fu introdotta la
scappatoia che piú di ogni altra ha provocato lo sdegno di quanti non sono
in condizione di approfittarne: la detrazione per esaurimento a favore dei
proprietari di impianti petroliferi, che permette ai proprietari dei pozzi
produttivi di dedurre dal proprio imponibile fino al 27,5 per cento dell’utile
lordo annuo, e di continuare a farlo ogni anno, anche quando il costo
originario dell’impianto sarà stato largamente ammortizzato. Si dice che gli
anni Venti siano stati l’età dell’oro degli Stati Uniti; probabilmente è vero,
ma di certo sono stati l’età dell’oro dei contribuenti americani.
La Depressione e gli anni del New Deal favorirono un incremento delle
aliquote e una riduzione delle esenzioni, e aprirono la strada a quella fase
autenticamente rivoluzionaria nella storia della tassazione federale sui
redditi che ebbe inizio con la Seconda guerra mondiale. A causa del forte
incremento della spesa pubblica, intorno al 1936 la tassazione delle fasce di
reddito piú alte era all’incirca raddoppiata rispetto alla fine degli anni Venti:
la misura massima dell’imposta era pari al 79 per cento, mentre negli
scaglioni piú bassi le esenzioni erano state ridotte a tal punto che un
contribuente senza familiari a carico era tenuto a pagare una piccola
imposta anche se il suo reddito si aggirava intorno ai 1200 dollari annui.
(Va detto che all’epoca i redditi dei lavoratori del settore industriale erano
generalmente inferiori a quella cifra). Nel 1944 e nel 1945, gli scaglioni di
tassazione per le persone fisiche raggiunsero il massimo storico, con
l’aliquota minima al 23 e la massima al 94 per cento. La tassazione sui
redditi delle aziende, che dal modestissimo 1 per cento del 1913 era sempre
stata in graduale ma costante ascesa, toccava in certi casi l’80 per cento. Ma
la vera rivoluzione nel trattamento fiscale dei redditi durante il secondo
conflitto mondiale non fu l’incremento delle aliquote per gli scaglioni di
reddito piú alti, giacché nel 1942, proprio quando l’onda degli aggravi
fiscali stava per abbattersi sui contribuenti, i cittadini delle categorie di
reddito piú elevate si erano visti offrire una nuova via di fuga (o forse una
vecchia via, opportunamente allargata): la durata minima del periodo di
possesso che dava diritto allo sconto sui redditi da capitale era stata ridotta
da diciotto a sei mesi. In realtà la vera rivoluzione di quel periodo fu il
notevole incremento dell’imposizione sui lavoratori dipendenti, che per
effetto dell’aumento delle retribuzioni nel settore industriale si trovavano
per la prima volta a contribuire in misura rilevante al gettito fiscale. Tutt’a
un tratto l’imposta sui redditi era diventata un tributo generalizzato.
Tale era, e tale è ai giorni nostri. Tra il 1945 e il 1964 la tassazione a
carico delle aziende di medie e grandi dimensioni si è assestata su
un’aliquota fissa pari al 52 per cento, e le imposte sul reddito delle persone
fisiche non hanno subito cambiamenti di rilievo. (Per essere piú precisi, le
aliquote di base non sono state modificate in misura significativa, ma ci
sono stati, tra il 1946 e il 1950, alcuni condoni temporanei in misura
variabile tra il 5 e il 17 per cento delle somme dovute). Fino al 1950 gli
scaglioni di tassazione sono rimasti entro la fascia 20-91 per cento: il
modesto aumento poi introdotto negli anni della Guerra di Corea è stato
revocato nel 1954. Sempre nel 1950, l’introduzione della cosiddetta
restricted stock option ha aperto un’altra scappatoia fiscale a beneficio dei
dirigenti delle aziende, i cui guadagni in conto capitale risultano almeno in
parte soggetti a tassi ancora piú convenienti. Questa innovazione, assai
significativa benché del tutto invisibile a chi osservi soltanto il prospetto
delle aliquote, discende dalla stessa filosofia che aveva ispirato la
rivoluzione degli anni della guerra, e cioè il progressivo incremento del
carico fiscale per le fasce di reddito medie e basse. Può sembrare
paradossale, ma l’imposta sui redditi, originariamente concepita come uno
strumento di tassazione a percentuali moderate che traeva buona parte del
gettito dai contribuenti piú agiati, è andata trasformandosi nel corso degli
anni in una tassa ad aliquote alte che grava soprattutto sulle fasce di reddito
medie e medio-basse. Il regime fiscale introdotto ai tempi della Guerra di
secessione riguardava soltanto l’1 per cento della popolazione, e in quanto
tale era senza dubbio una tassa sulla ricchezza, come lo era la tassa del
1913. Persino nel 1918, al culmine delle ristrettezze finanziarie imposte
dalla guerra, i cittadini tenuti a presentare la dichiarazione dei redditi erano
meno di 4 milioni e mezzo su una popolazione totale di oltre 100 milioni.
Nel 1933, in piena Depressione, le dichiarazioni dei redditi presentate
all’erario americano furono soltanto 750 000, mentre nel 1939 una élite di
700 000 contribuenti, su una popolazione complessiva di 130 milioni di
persone, forniva i nove decimi del gettito fiscale. Nel 1960, invece, la stessa
proporzione di entrate fiscali era erogata da una platea di contribuenti
formata da circa 32 milioni di persone, ovvero poco piú di un sesto della
popolazione totale; e in valore assoluto, quei nove decimi ammontavano a
ben 35,5 miliardi di dollari, contro meno di un miliardo nel 1939.
Nel 1911 Seligman scriveva che la storia mondiale della tassazione sui
redditi è un percorso evolutivo essenzialmente finalizzato a «basare
l’imposizione fiscale sulla capacità di contribuzione». Viene spontaneo
domandarsi come descriverebbe, se fosse ancora vivo, l’attuale regime
fiscale americano. Certo, una delle ragioni per cui le fasce sociali di reddito
medio pagano molte piú tasse rispetto al passato è che oggi i cittadini di
reddito medio sono molti di piú. Lo spostamento della pressione fiscale
deriva certamente dalla nuova struttura del regime impositivo, ma anche, in
egual misura, dal mutamento della struttura socioeconomica del Paese. Ciò
nondimeno, è probabile che con la vecchia imposta sui redditi del 1913 la
contribuzione fosse piú proporzionata alla capacità dei soggetti di quanto
non lo sia al giorno d’oggi.

Quali che siano le colpe della nostra imposta sui redditi, non c’è dubbio
che sia la piú rispettata del mondo (e al giorno d’oggi il reddito si tassa
ovunque, da oriente a occidente, e in ogni landa compresa tra i due poli). In
pratica non c’è una nazione, neppure tra quelle spuntate di recente, che non
ne sia dotata. Secondo Walter H. Diamond, esperto di tassazione
internazionale e autore di una guida intitolata Foreign Tax & Trade Briefs,
nel 1955 l’elenco degli Stati grandi e piccoli che ancora non tassavano i
redditi delle persone fisiche comprendeva piú di venti Paesi. Dieci anni
dopo, nel 1965, non ne restavano che nove: un paio di ex colonie inglesi
(Bermuda e le Bahamas), due piccole repubbliche europee (San Marino e
Andorra), tre monarchie petrolifere mediorientali (il sultanato di Muscat e
Oman, il Kuwait e il Qatar) e due Paesi decisamente inospitali (Arabia
Saudita e principato di Monaco) che tassavano i redditi degli stranieri ma
non quelli dei propri cittadini. Persino i Paesi del blocco comunista hanno
un’imposta sul reddito, che tuttavia contribuisce per una quota minima alle
entrate dello Stato; in Russia ogni categoria di lavoratori è soggetta a
un’aliquota specifica, che è massima per negozianti ed ecclesiastici, media
per gli scrittori, bassa per gli operai e gli artigiani. La grande efficienza del
sistema di raccolta fiscale statunitense è sotto gli occhi di tutti: i costi di
gestione e di esazione, per esempio, incidono per soli 44 centesimi ogni 100
dollari raccolti; il rapporto è piú che doppio in Canada e piú che triplo in
Gran Bretagna, Francia e Belgio, per non parlare dei molti Stati in cui la
rilevanza di quelle voci di spesa è parecchie volte maggiore. L’efficienza
americana getta letteralmente nello sconforto le amministrazioni fiscali
degli altri Paesi. Nel 1964, a pochi mesi dalla scadenza del suo incarico, il
sovrintendente dell’agenzia delle entrate statunitense Mortimer M. Caplin
tenne una serie di consultazioni con i colleghi di sei nazioni europee, e la
domanda che si sentí ripetere piú spesso era: «Ma come fate? Davvero a voi
americani piace pagare le tasse?» Non è cosí, certo, ma come disse Caplin
all’epoca, «da noi entrano in gioco un sacco di fattori che per gli europei
non contano». Uno di questi, per esempio, è la tradizione. Le nostre imposte
sul reddito non sono mai servite a fare il gioco di qualche sovrano avido che
voleva riempire i propri forzieri a spese dei suoi sudditi, ma sono nate e si
sono evolute grazie agli sforzi di un governo eletto dal popolo che aveva a
cuore l’interesse generale. «In molti Paesi, – ha osservato recentemente un
esperto di diritto tributario che viaggia spesso all’estero, – è impossibile
discutere seriamente delle imposte sul reddito, perché non c’è nessuno che
le prenda sul serio». Cosa che invece accade qui da noi, grazie alla potenza
e all’abilità dell’Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate americana
che svolge veri e propri compiti di polizia fiscale.
L’incubo dello «sciame di funzionari» evocato nel 1894 da
quell’anonimo deputato della Pennsylvania si è dunque trasformato in
realtà, e di certo alcuni contribuenti sarebbero pronti a denunciarne gli
eccessivi «poteri di inquisizione». All’inizio del 1965 l’Internal Revenue
Service aveva all’incirca sessantamila dipendenti, tra cui piú di seimila
ispettori (revenue officers) e oltre dodicimila revisori (revenue agents):
questi diciottomila uomini, forti del diritto di scrutare nei redditi di
chiunque e di ficcare il naso in faccende delicate come gli argomenti
discussi durante un pranzo a spese della ditta, nonché armati del minaccioso
strumento delle sanzioni, hanno poteri che sarebbe senz’altro lecito definire
inquisitivi. Ma oltre alla raccolta dei tributi l’Irs svolge altre attività, alcune
delle quali dimostrano che è capace di esercitare i propri dispotici poteri
anche con una certa equità, se non proprio con benevolenza. La piú
notevole tra le sue funzioni accessorie consiste nell’offrire un programma di
educazione del contribuente talmente articolato che non di rado questo o
quel dirigente si compiace di affermare che l’Irs governa la piú grande
università del mondo. L’agenzia pubblica decine di opuscoli che
chiariscono vari aspetti della normativa fiscale, e sottolinea con orgoglio
che il piú sintetico tra questi – un volumetto con la copertina blu intitolato
Your Federal Income Tax, pubblicato annualmente e acquistabile nel 1965
per la modica somma di 40 centesimi in qualunque ufficio distrettuale delle
imposte – è talmente popolare da essere spesso ristampato da editori privati,
che lo vendono agli incauti contribuenti al prezzo di un dollaro o piú,
sottolineando con trionfante pignoleria che si tratta di una pubblicazione
ufficiale del governo. (La cosa, d’altronde, è perfettamente lecita, dal
momento che le pubblicazioni governative non sono soggette a copyright).
L’Irs conduce tutti gli anni, nel mese di dicembre, degli appositi «corsi
istituzionali» su specifiche questioni tecniche a beneficio delle vaste schiere
di «professionisti delle tasse» – commercialisti e avvocati – che di lí a poco
dovranno redigere le dichiarazioni dei loro clienti. Pubblica semplici
manualetti sul sistema fiscale, distribuiti gratuitamente alle scuole superiori
che ne fanno richiesta: secondo un funzionario, qualche anno fa ben l’85
per cento dei licei americani ne avrebbe sollecitato l’invio. (Quanto
all’opportunità che i liceali americani impieghino parte del loro tempo a
sgobbare sulla normativa fiscale, l’Irs ritiene che il problema non rientri
nelle sue competenze). Poco prima del termine per la presentazione delle
dichiarazioni, infine, l’Irs diffonde sui canali televisivi una serie di brevi
filmati che rammentano la scadenza e forniscono utili consigli. A tale
proposito, i suoi funzionari sottolineano con orgoglio che la maggior parte
degli spot televisivi mirano a proteggere i contribuenti dal rischio di pagare
piú tasse del dovuto.
Nel’autunno del 1963 l’Irs fece una mossa decisiva verso un ulteriore
miglioramento del suo già efficace sistema di riscossione, e con astuzia
degna del lupo di Cappuccetto Rosso riuscí a presentarla come il gesto
soccorrevole di una nonna che vuol cavare d’impaccio i suoi nipotini. Si
trattava del cosiddetto schedario nazionale delle identità, basato
sull’assegnazione di un codice a ciascun contribuente (in genere
corrispondente al numero di previdenza sociale): lo scopo era eliminare il
problema della mancata dichiarazione dei redditi provenienti da dividendi
azionari, da interessi su conti bancari o da obbligazioni, la cui evasione,
secondo alcune stime, costava all’erario centinaia di milioni ogni anno. Ma
non è tutto. Riportando il vostro codice nell’apposita casella, annunciava
brioso il sovrintendente Caplin sul frontespizio dei moduli per la
dichiarazione del 1964, «riceverete subito i crediti d’imposta di cui siete
titolari, nonché i rimborsi eventualmente richiesti». Qualche tempo dopo
l’Irs fece un altro enorme passo avanti, automatizzando buona parte del
processo di controllo delle dichiarazioni attraverso una rete composta da
sette punti di elaborazione regionali che ricevevano e confrontavano i dati
per poi inviarli in un secondo tempo a un centro nazionale situato a
Martinsburg, in West Virginia. Un grande centro di calcolo capace di
effettuare 250 000 riscontri al secondo, che qualcuno aveva già
soprannominato «il mostro di Martinsburg» prima ancora che cominciasse a
funzionare a pieno ritmo. Nel 1965 il mostro verificò da cima a fondo tra i 4
e i 5 milioni di dichiarazioni, e accertò gli errori di calcolo in tutte. Una
parte dei calcoli era ancora affidata a controllori umani, ma a partire dal
1967, quando il mostro cominciò a funzionare a pieno regime, molti addetti
ai controlli furono sollevati da quell’incombenza e poterono dedicarsi alle
verifiche dettagliate delle dichiarazioni. Ciò nonostante, come annunciava
nel 1963 un documento semiufficiale dell’Irs, «la capacità e la memoria del
sistema [informatico] saranno d’aiuto ai contribuenti che dimenticano di
contabilizzare i crediti dell’anno precedente o non si avvantaggiano
pienamente dei diritti garantiti dalla legge». Un mostro, certo; ma un mostro
buono.

La maschera di esangue benevolenza che l’Irs sembra indossare da


qualche anno non nasconde in realtà nulla di sinistro ma è, almeno in parte,
un riflesso del carattere estroverso e del talento politico di Mortimer M.
Caplin, l’uomo che ne ha retto le sorti in tempi recenti. L’impronta di
Caplin si è fatta sentire anche sotto la guida del suo successore, il giovane
avvocato di Washington Sheldon S. Cohen, che ne ha rilevato l’incarico nel
dicembre 1964, dopo un semestre di reggenza in cui il governo dell’agenzia
era stato affidato a un funzionario interno, Bertrand M. Harding. (Lasciata
la sovrintendenza dell’Irs, Caplin si è ritirato dalla vita politica ed è tornato
al suo studio legale di Washington, che offre tra gli altri servizi anche
consulenze fiscali agli imprenditori). Caplin è da molti considerato uno dei
migliori sovrintendenti nella storia dell’Irs, e di sicuro la sua dirigenza ha
rappresentato un netto miglioramento rispetto a quelle di due suoi recenti
predecessori, uno dei quali, poco dopo essersi dimesso dall’incarico, era
stato addirittura incriminato e condannato a due anni di carcere per evasione
fiscale; l’altro ex direttore, invece, si era candidato a una carica pubblica
con una piattaforma di netta opposizione a ogni imposta federale sul
reddito: un po’ come se un ex arbitro di baseball girasse tutto il Paese
tenendo comizi per l’abolizione di quel gioco. Tra i molti meriti che
vengono riconosciuti alla sovrintendenza di Mortimer Caplin (un
newyorchese minuto e dinamico dalla parlantina veloce, ex docente alla
facoltà di Legge della Virginia) vi è l’abolizione della prassi, a quanto pare
piuttosto diffusa in precedenza, di assegnare obiettivi di raccolta ai revisori
dell’agenzia. Caplin diede ai massimi vertici dell’Irs un’immagine di
assoluta irreprensibilità, e – cosa ancor piú straordinaria – riuscí quasi per
magia a trasmettere alla nazione intera una sorta di astratto entusiasmo per
le tasse. La «Nuova Via» di Caplin era in sostanza una sorta di integrazione
della Nuova Frontiera kennediana, un modo per riscuotere con stile. Al
centro della sua filosofia c’era l’intenzione di coinvolgere l’agenzia in un
progetto educativo che, invece di privilegiare la ricerca e la sanzione dei
cittadini che violavano consapevolmente la normativa fiscale,
incrementasse l’adesione spontanea. Scriveva Caplin nella primavera del
1961, in un documento programmatico destinato ai suoi funzionari: «Tutti
dovremmo capire che il compito dell’Irs non è raccogliere 2 miliardi di
dollari grazie alle rivalutazioni dell’imponibile piú un altro miliardo dai
contribuenti morosi, o nel perseguire legalmente qualche centinaio di
evasori. Il nostro compito è amministrare un enorme sistema di
autotassazione che raccoglie piú di 90 miliardi di dollari soltanto grazie ai
versamenti volontari, piú altri 2 o 3 miliardi grazie alle riscossioni. Non
dobbiamo dimenticarci che il 97 per cento dei nostri introiti complessivi
viene dall’autotassazione o dall’adesione volontaria, e solo il 3 per cento
deriva da esecuzioni forzate. La nostra missione è favorire e ottenere una
maggiore adesione volontaria… La Nuova Via è un cambiamento di
prospettiva. Ma un cambiamento di prospettiva molto importante». Lo
spirito della Nuova Via si manifesta al meglio nella quarta di copertina di
un libro intitolato The American Way in Taxation, pubblicato nel 1963 a
cura di Lillian Doris con la benedizione ufficiale di Caplin. «Qui si narra
l’avvincente storia della piú vasta ed efficiente agenzia di riscossione fiscale
che il mondo abbia mai conosciuto: l’Internal Revenue Service degli Stati
Uniti», scriveva Caplin nella prefazione. «Qui si raccontano gli sviluppi
emozionanti, le aspre battaglie legislative, il lavoro coscienzioso dei
funzionari che hanno varcato a passo di marcia i confini del secolo scorso,
lasciando un’impronta indelebile sul suolo della nostra nazione. L’epica
battaglia legale per eliminare l’imposta sul reddito vi farà rabbrividire, e i
progetti futuri dell’Irs vi lasceranno a bocca aperta. Conoscerete in anticipo
i poteri degli enormi computer attualmente in fase di progettazione, che
rivoluzioneranno il sistema di riscossione e cambieranno la vita quotidiana
di molti americani!» Il tono ricordava vagamente quello di un imbonitore da
circo che annunci un’esecuzione pubblica.
La cosa opinabile è se si possa davvero sventolare la bandiera della
cosiddetta «adesione volontaria» per un sistema di riscossione in cui piú o
meno tre quarti dei versamenti effettuati dalle persone fisiche sono
trattenute alla fonte, in cui si annida un «mostro di Martinsburg»
perennemente a caccia di evasori incauti, in cui si può essere condannati
fino a cinque anni di carcere per illeciti fiscali, senza contare le
pesantissime sanzioni pecuniarie. Caplin non aveva il minimo dubbio in
proposito. Con inesauribile buonumore viaggiava da un capo all’altro della
nazione tenendo discorsi ai pranzi di tutte le associazioni di imprenditori,
contabili e avvocati, elogiandoli per aver rispettato la normativa in passato e
spronandoli a fare ancora di meglio in futuro, giacché, proclamava, il loro
impegno andava a favore di una buona causa. «Ci stiamo sforzando di dare
un tocco umano all’amministrazione tributaria», diceva il testo di copertina
dei moduli per la dichiarazione dei redditi del 1964, firmato da Caplin in
persona e composto in collaborazione con sua moglie. «In questo lavoro ci
sono un sacco di situazioni buffe, – dichiarò Caplin una sera, dopo un
discorso ai membri del Kiwanis Club, presso il Mayflower Hotel di
Washington. – L’anno scorso è stato il cinquantesimo anniversario
dell’emendamento costituzionale che ha introdotto la tassa sul reddito, ma
chissà perché nessuno ci ha portato una torta». Un classico esempio di
umorismo macabro, se vogliamo: ma di solito non spetta al boia fare battute
di spirito sugli impiccati.
Sheldon S. Cohen, il nuovo sovrintendente che ha preso il posto di
Caplin, è nato e cresciuto a Washington e si è laureato nel 1952 alla facoltà
di Legge della George Washington University, collocandosi tra i primi della
sua classe; dopo quattro anni all’Irs come funzionario di grado subalterno si
è dedicato alla professione legale, diventando infine socio del rinomato
studio legale Arnold, Fortas & Porter; nei primi mesi del 1964 è tornato
all’Irs per assumere la direzione dell’ufficio legale, diventando poi, a soli
trentasette anni, il piú giovane sovrintendente nella storia dell’Irs. I capelli
castani tagliati cortissimi, lo sguardo limpido e i modi schietti lo fanno
sembrare ancor piú giovane di quanto non sia in realtà, ma negli anni in cui
è stato responsabile dell’ufficio legale Cohen si è guadagnato ampia stima
per averne risollevato le sorti materiali e ideali, promuovendo una
riorganizzazione amministrativa che è stata lodata da tutti per la rapidità dei
processi decisionali e per l’invito a una maggiore coerenza nelle vertenze
legali contro i cittadini (al fine di evitare, per esempio, che sui punti piú
delicati della normativa l’Irs prendesse una certa posizione a Philadelphia e
quella opposta a Omaha): a detta di molti, il trionfo dei nobili principî della
politica sull’avidità dell’apparato governativo. Al momento della nomina a
sovrintendente, Cohen ha dichiarato di voler proseguire lungo la direzione
tracciata da Caplin: privilegiare l’adesione volontaria, cercare di stabilire
rapporti amichevoli o quanto meno non ostili con il pubblico dei
contribuenti, e cosí via. Tuttavia Cohen ha un’indole meno gregaria e piú
meditativa del suo predecessore, e la differenza ha avuto ampie
ripercussioni all’interno dell’agenzia. E poiché il nuovo sovrintendente
preferisce non allontanarsi troppo spesso dalla sua scrivania, ha delegato ai
subordinati i pranzi ufficiali e i relativi discorsetti d’incitamento. «Mort era
bravissimo in questo genere di cose, – ha dichiarato Cohen nel 1965. – Se
l’opinione pubblica rispetta e ammira l’Irs, lo dobbiamo in buona parte a
lui. Ora però ci piacerebbe che la nostra reputazione restasse alta senza
ulteriori interventi diretti da parte mia. Senza contare che non riuscirei mai
a farlo cosí bene: sono una persona diversa».
Un’accusa che è stata mossa da piú parti, e che alcuni sostengono tuttora,
è che il ruolo di sovrintendente concentri troppo potere nelle mani di una
sola persona. Pur non avendo facoltà di proporre modifiche alle aliquote o
alle normative vigenti – la prima funzione è affidata al ministro del Tesoro,
che può consultare il sovrintendente ma non è obbligato a farlo, mentre la
modifica delle normative è ovviamente di competenza del Congresso e del
presidente – il sovrintendente ha la responsabilità esclusiva di redigere le
norme applicative (impugnabili in tribunale) che trasformano le leggi
fiscali, necessariamente ampie e generiche, in regolamenti dettagliati. Ma a
volte anche le norme applicative sono a loro volta un po’ fumose: in tal
caso, chi potrebbe chiarirle meglio del suo stesso autore? Ne consegue che
ogni parola fuoruscita dalle labbra del sovrintendente, che si trovi nel suo
ufficio o a un pranzo di lavoro, viene captata dagli editori specializzati e
distribuita senza indugio a commercialisti e avvocati di tutta la nazione, i
quali se ne abbeverano con un’avidità raramente concessa alle dichiarazioni
di un pubblico ufficiale. È per questo che alcuni vedono nella figura del
sovrintendente una sorta di tiranno, mentre altri, compresi alcuni esperti di
diritto e normativa fiscale, la pensano in modo diverso. Secondo Jerome
Hellerstein, consulente fiscale e docente alla facoltà di Diritto della New
York University, «il sovrintendente ha ampia libertà d’azione, ed è
innegabile che alcuni dei suoi provvedimenti possano condizionare tanto lo
sviluppo economico del Paese, quanto le fortune di aziende e privati
cittadini. Ma se la sua libertà d’azione fosse piú limitata, l’interpretazione
delle normative sarebbe rigida e univoca, e i consulenti fiscali come me
avrebbero buon gioco per manipolare piú facilmente la legge a vantaggio
dei clienti. La grande libertà d’azione offre al sovrintendente una quanto
mai opportuna misura di imprevedibilità».
Di certo Caplin non ha mai abusato consapevolmente dei propri poteri, e
neppure Cohen l’ha fatto. Avendo conosciuto entrambi nello svolgimento
delle proprie funzioni, ne ho ricavato l’impressione che fossero uomini di
grande intelligenza, costretti a vivere – come ha detto Arthur M.
Schlesinger Jr a proposito di Thoreau – a un alto grado di tensione morale.
E l’origine di quella tensione non è difficile da rintracciare: quasi
certamente nasce dalla difficoltà di vigilare sull’osservanza – volontaria o
meno – di una normativa che non si apprezza pienamente. Nel 1958 Caplin
si presentò, in veste di testimone esperto piú che di sovrintendente dell’Irs,
al cospetto della Commissione procedurale della Camera dei rappresentanti
per esporre un ampio programma di riforme che avrebbe incluso fra l’altro
l’eliminazione totale – o in alternativa una drastica limitazione – del
trattamento di favore destinato ai redditi da capitale, la riduzione delle
detrazioni per esaurimento sulle risorse petrolifere o minerarie, la
defiscalizzazione dei dividendi e degli interessi ed eventualmente la stesura
di una nuova legge sui redditi che rimpiazzasse il codice del 1954, il quale,
come Caplin stesso ammetteva, aveva generato «intoppi, difficoltà e
opportunità di elusione». Poco dopo aver rassegnato le dimissioni da
sovrintendente, Caplin spiegò nel dettaglio la sua idea di nuova legge
fiscale. Sarebbe stata incredibilmente piú semplice, e proprio per questo
avrebbe eliminato molte possibili scappatoie; in piú avrebbe fatto tabula
rasa di molte deduzioni ed esenzioni, e avrebbe introdotto una scala di
aliquote compresa tra il 10 e il 50 per cento.
Nel caso di Caplin, il superamento della tensione morale – ammesso che
sia avvenuto – non fu prodotto esclusivamente da un’analisi di tipo
razionale. «Alcuni critici hanno un’idea molto cinica della tassa sui redditi.
“È un gran pasticcio, – dicono, – e non c’è modo di migliorare la
situazione”. Secondo me si sbagliano. Certo, molti compromessi sono
inevitabili, e sarà sempre cosí. Ma io non mi rassegno al disfattismo. In un
certo senso, il nostro regime fiscale ha una valenza mistica. Per quanto
possa essere tecnicamente mal concepito, ha una grande vitalità che si
fonda proprio sull’alto livello di adesione». Dopo una lunga pausa, in cui
probabilmente si rese conto che c’era una pecca nel suo ragionamento (non
è detto che la massiccia obbedienza a una legge sia di per sé indice della sua
giustezza o intelligenza), Caplin continuò: «Ripensando agli anni trascorsi,
credo di poter dire che ce la caveremo bene. Prima o poi una qualche crisi
ci costringerà a guardare al di là dei nostri interessi egoistici. Di qui a una
cinquantina d’anni, sono quasi certo che avremo una buona normativa».
All’epoca in cui fu redatto il codice vigente, Cohen lavorava nella
divisione dell’Irs che si occupava di elaborare le proposte di legge, quindi
avrà di certo contribuito alla sua formulazione. Diversamente da quanto
alcuni si aspetterebbero, tuttavia, la circostanza non lo rende granché
possessivo. «Ricordatevi che all’epoca avevamo un’amministrazione
repubblicana, e io, invece, sono democratico, – dichiarò nel 1965. – Quando
lavori a un disegno di legge, ragioni da tecnico. Se c’è qualcosa di cui
essere orgogliosi alla fine, è la propria competenza tecnica». Dunque Cohen
è perfettamente in grado di rileggere la sua prosa, ora immortalata nel
codice, senza ombra di euforia o di rimorso, e non esita a sottoscrivere
l’opinione di Caplin in merito agli «intoppi, difficoltà e opportunità di
elusione» che si nascondono nelle disposizioni vigenti. È piú pessimista,
invece, sul potere salvifico della semplificazione: «Certo, potremmo
abbassare le aliquote e sbarazzarci di qualche deduzione, – ammette, – ma
poi non è detto che per rispettare i criteri di equità non se ne debbano
introdurre di nuove. La mia sensazione è che una società complessa
richieda un regime fiscale complesso. Anche se ne creassimo uno piú
semplice, nel giro di qualche anno potrebbe aver recuperato tutta la sua
perduta complessità».

2.

«Ogni nazione ha il governo che si merita», sentenziava nel 1811 lo


scrittore e diplomatico francese Joseph de Maistre. Ma poiché la funzione
primaria di ogni governo è legiferare, ne consegue che ogni nazione ha le
leggi che si merita; quando i governi siano imposti con la forza si tratta nel
migliore dei casi di una mezza verità, ma per i governi fondati sul consenso
popolare il sillogismo sembra plausibile. E se è vero che la legge sulla
tassazione dei redditi è la norma piú importante del nostro codice, ne
consegue che noi americani abbiamo la legge sulla tassazione dei redditi
che ci meritiamo. Negli ultimi tempi si è discusso copiosamente delle sue
piú notorie violazioni: spese aziendali falsificate, redditi inavvertitamente o
ingannevolmente non dichiarati – per un valore stimato a ben 25 miliardi di
dollari l’anno –, casi di corruzione tra i ranghi dell’Irs – problema che
secondo le autorità competenti sarebbe diffuso soprattutto nelle grandi città.
Non vi è dubbio che questi aspetti dimostrino l’immutabile e onnipresente
fragilità umana; ma vi sono nella trama della legge anche elementi piú
strettamente correlati a un tempo e a un luogo ben precisi. Se la teoria di De
Maistre fosse fondata, quegli elementi dovrebbero rispecchiare l’identità
nazionale, facendo della normativa sui redditi, in un certo senso, la nostra
immagine riflessa. E dunque, com’è fatta quest’immagine?

Ricapitolando, la nostra legge fondamentale sulla tassazione dei redditi è


l’Internal Revenue Code del 1954, successivamente ampliata dalle
innumerevoli norme applicative emesse dall’Internal Revenue Service,
interpretata da innumerevoli sentenze di diversi tribunali e modificata da
svariati emendamenti del Congresso, compreso il Revenue Act del 1964, al
quale si deve il piú drastico taglio di imposte della storia americana.
L’Internal Revenue Code è piú lungo di Guerra e pace, ed è redatto in una
specie di gergo che ottunde la mente e fiacca lo spirito: la frase che
definisce il termine «lavoro», per esempio, inizia nelle ultime righe di
pagina 564 e dopo piú di mille parole, 19 punti e virgola, 42 parentesi
semplici, 3 parentesi all’interno di altre parentesi e persino un inspiegabile
periodo sospeso, giunge infine a un boccheggiante punto fermo nelle prime
righe di pagina 567. Quando ci si avventura nelle parti del codice relative
alla tassazione delle importazioni e delle esportazioni (che insieme alle
tasse sulla proprietà immobiliare e a varie imposte federali rientrano nel suo
ambito di competenza) è invece possibile imbattersi in frasi semplici e
divertenti come: «Gli esportatori di oleomargarina sono tenuti a riportare su
ogni bigoncia, barilotto o altro recipiente atto al contenimento di tale
sostanza la dicitura “Oleomargarina” in semplici caratteri latini, aventi una
superficie complessiva non inferiore a 3,22 centimetri quadrati». Per
fortuna a pagina 2 del codice c’è una clausola che, pur non essendo una
frase a sé stante, è chiara e diretta come piú non si potrebbe e definisce
senza tergiversare le aliquote per la tassazione dei redditi delle persone
fisiche: 20 per cento sugli imponibili non superiori a 2000 dollari, 22 per
cento su quelli compresi tra 2000 e 4000 dollari, e cosí via fino all’aliquota
massima del 91 per cento sugli imponibili che superano i 200 000 dollari.
(Come abbiamo già visto, nel 1964 le aliquote sono state ridotte e la
percentuale di imposizione massima è stata fissata al 70 per cento).
Vediamo dunque come il codice faccia la sua dichiarazione di principî poco
dopo l’incipit e, a giudicare dallo schema delle aliquote, sia animato da un
implacabile sentimento egualitario che lo spinge a tassare i poveri con
relativa leggerezza, i benestanti con moderazione, e i molto ricchi a livelli
che rasentano la confisca.
Eppure molti hanno già detto, tante volte che quasi non vale la pena di
ripeterlo, che il codice non è del tutto all’altezza dei propri principî. Per
averne la prova basta dare un’occhiata agli ultimi volumi della serie
Statistics of Income, pubblicata annualmente dall’Irs. Ne risulta che nel
1960 i cittadini con un reddito lordo compreso tra i 4000 e i 5000 dollari,
avendo beneficiato di tutte le possibili deduzioni ed esenzioni personali,
nonché degli sconti previsti per le coppie sposate e i capifamiglia,
versavano all’erario una somma pari a circa un decimo del loro imponibile,
mentre i contribuenti della fascia di reddito compresa tra i 10 e i 15 000
dollari annui sborsavano circa un settimo dell’imponibile, contro meno di
un quarto per la fascia di reddito compresa tra i 25 000 e i 50 000 dollari
annui; per i contribuenti con un reddito annuo compreso tra 50 000 e 100
000 dollari, infine, l’ammontare del versamento corrispondeva a circa un
terzo dell’imponibile. Fino a questo punto l’imposta è progressiva e
chiaramente proporzionata alla capacità di contribuzione, proprio come
indica la tabella. Ma le cose cambiano di colpo quando si arriva alle fasce di
reddito superiori, cioè a quelle in cui la progressività dovrebbe essere piú
evidente. Nel 1960 le fasce di reddito comprese tra 150 e 200 000 dollari,
tra 200 e 500 000 dollari, tra 500 000 e un milione di dollari, nonché quelle
al di sopra del milione di dollari, versavano in media meno del 50 per cento
del loro reddito tassabile. Inoltre, se si considera che a una maggiore
ricchezza corrisponde generalmente una maggiore quota di reddito non
conteggiato come imponibile lordo (si pensi per esempio ai proventi di certe
obbligazioni, e alla metà dei redditi classificabili come utili in conto
capitale a lungo termine) risulta evidente che l’incidenza della tassazione in
rapporto all’imponibile diminuisce man mano che ci si avvicina ai vertici
della scala dei redditi. Il fatto è confermato dai dati dell’annuario Statistics
of Income relativo al 1961, dove l’ammontare del gettito è suddiviso per
fasce di reddito: ne risulta che su un totale di 7487 contribuenti che avevano
dichiarato un reddito lordo pari o superiore ai 200 000 dollari, meno di 500
avevano un reddito netto soggetto all’aliquota del 91 per cento. Fin dalla
sua nascita, quest’aliquota ha sempre avuto una sorta di effetto sedativo
sulla collettività: sui poveri che si sentivano fortunati a non essere ricchi, e
sui ricchi che riuscivano spesso a evitarla. E poi, a completare la beffa (se di
beffa si tratta), ci sono le persone con i redditi piú alti in assoluto, che
pagano meno tasse di tutti gli altri contribuenti: cittadini con introiti annui
nell’ordine del milione di dollari o piú, che senza minimamente violare la
legge risultano del tutto esenti dall’imposta sul reddito. Secondo Statistics
of Income, su un totale nazionale di 306 «uomini da un milione di dollari»
c’erano nel 1960 11 contribuenti non soggetti a imposta, mentre nel 1961 i
milionari non paganti erano 17 su un totale di 398. Per dirla con chiarezza,
quest’imposta sul reddito non è affatto progressiva.
Il motivo di questo contrasto tra apparenza e realtà, un contrasto
talmente macroscopico da esporre l’intero codice all’accusa di ipocrisia, si
nasconde nelle molte e dettagliate deroghe alle aliquote standard: le
cosiddette clausole speciali, ovvero, per dirla schietta, le scappatoie fiscali
che si annidano nelle oscure profondità della legge stessa. (Il termine
«scappatoia», come i lettori piú imparziali saranno pronti ad ammettere, ha
spesso un valore relativo, potendo riferirsi sia a un artificio inteso ad
aggirare una legge, sia a un espediente che mette in salvo da un pericolo – e
una stessa persona, in momenti diversi, potrebbe aver bisogno di entrambi).
Nella legge originale del 1913, le scappatoie erano palesemente assenti. Per
capire come e perché siano state elevate al rango di legge bisognerebbe
essere profondi conoscitori della politica e forse anche della metafisica;
eppure la meccanica delle scappatoie è relativamente semplice, e alquanto
istruttiva, per chi abbia la ventura di vederle in azione. Il metodo di gran
lunga piú semplice per sottrarsi all’imposta sul reddito – a condizione che si
disponga di un capitale considerevole – consiste nell’investire nelle
obbligazioni emesse da Stati, municipalità, autorità portuali e società di
gestione delle autostrade: gli interessi su tali obbligazioni sono esenti
dall’imposta sul reddito. Poiché negli ultimi anni le obbligazioni ad alto
rating hanno reso interessi compresi fra il 3 e il 5 per cento, un investitore
che ne acquisti per un valore di 10 milioni di dollari può accumulare nel
corso di un solo anno redditi esentasse fino a 300 o 500 000 dollari senza
arrecare il minimo disturbo a sé stesso o al suo commercialista. Se invece
quell’investitore fosse stato cosí sciocco da impiegare il suo denaro in altre
e piú comuni forme di investimento in grado di rendere, diciamo, il 5 per
cento, avrebbe un reddito imponibile pari a 500 000 dollari, che ai tassi del
1964 (per un contribuente celibe, senza altre fonti di reddito, che non
ricorra a espedienti per eludere il fisco) gli costerebbe quasi 367 000 dollari
in tasse. L’esenzione sulle obbligazioni statali e municipali è sempre stata
parte integrante della nostra normativa fiscale: in origine aveva un
fondamento costituzionale, ma ora la sua difesa si fonda sul semplice
motivo che le amministrazioni statali e cittadine hanno bisogno di denaro.
Nel corso degli anni, non pochi ministri del Tesoro hanno guardato con
sfavore all’esenzione, ma nessuno è riuscito ad abrogarla.
La piú importante tra le clausole speciali è forse quella che riguarda gli
utili in conto capitale, o capital gain. Come affermava nel 1961 il Comitato
congiunto per l’economia che operava nell’ambito del Congresso
statunitense, «il trattamento dei guadagni in conto capitale è diventato uno
dei piú ragguardevoli meccanismi di elusione della normativa tributaria
federale». In sostanza, un contribuente che investa il proprio capitale (in
una proprietà immobiliare, per esempio, o in un’azienda, o in un pacchetto
di azioni) e lo tenga immobilizzato per almeno sei mesi prima di vendere i
suoi beni ricavandone un profitto, paga su quel profitto un’aliquota molto
inferiore rispetto a quella ordinaria: pari, per la precisione, a metà
dell’aliquota massima normalmente applicata a quel contribuente, oppure al
25 per cento, se l’aliquota ridotta è maggiore. Per i contribuenti delle fasce
di reddito piú elevate, il senso della clausola è ovvio: la parte di reddito
classificabile come capital gain deve essere la piú ampia possibile. Negli
ultimi dieci o vent’anni, la ricerca di nuovi modi per trasformare i redditi
ordinari in capital gain è diventata uno sport molto popolare, che offre
grandi soddisfazioni senza particolare sforzo. Una sera di metà anni
Sessanta, il popolare conduttore televisivo David Susskind chiese a sei
multimilionari riuniti nel suo studio se ritenevano che le aliquote
dell’imposta sui redditi fossero un ostacolo lungo la strada del benessere
economico. La domanda fu accolta da un lungo silenzio, come se nessuno
di loro ci avesse mai pensato; dopo qualche minuto uno dei nababbi prese la
parola e, con il tono di un adulto che spiega un concetto difficile a un
bambino, accennò all’esistenza della clausola sui guadagni in conto capitale
e disse che no, le tasse non erano un grosso problema. Per quella sera, non
si parlò piú di tasse.
La clausola sulle obbligazioni degli enti locali e la clausola sulle
plusvalenze in conto capitale hanno in comune il fatto di avvantaggiare
soprattutto i contribuenti piú ricchi, ma per altri aspetti presentano
caratteristiche differenti. La clausola sui capital gain, in effetti, è di gran
lunga piú elastica; anzi, è una specie di scappatoia-madre, capace a sua
volta di generarne altre. Per esempio, si potrebbe erroneamente credere che
prima di avere un guadagno in conto capitale un ipotetico contribuente
debba innanzitutto avere un capitale. E invece esiste un trucco – convertito
in legge nel 1950 – per far sí che l’utile preceda il capitale, e questo trucco
si chiama clausola sui diritti di opzione. In base a questa norma, una società
può offrire ai propri dirigenti il diritto di acquisire quote azionarie entro un
periodo di tempo prestabilito – cinque anni, per esempio – a un prezzo pari
o molto vicino al valore di mercato che quelle azioni avevano nel momento
in cui è stata attivata l’opzione. Se in seguito, come spesso accade, il valore
del titolo arriva alle stelle, i dirigenti possono esercitare le loro opzioni e
acquistare al vecchio prezzo azioni che in seguito venderanno sul libero
mercato al nuovo prezzo; e se tutti i passaggi saranno stati effettuati senza
fretta e con la necessaria eleganza, il fisco non potrà pretendere altro
fuorché l’imposta sui capital gain sulla plusvalenza. Dal punto di vista di un
dirigente, la bellezza di tutto questo meccanismo sta nel fatto che quando il
valore dell’azione schizza verso l’alto l’opzione stessa diventa un bene
pregiato a fronte del quale egli potrà chiedere in prestito il contante
necessario a esercitare l’opzione; dopodiché, avendo acquistato e rivenduto
le opzioni, potrà rimborsare il debito e ottenere degli utili in conto capitale
derivanti dall’investimento di un capitale che non possiede. Il vantaggio
principale per l’azienda, invece, sta nella possibilità di retribuire i propri
dirigenti con denaro tassabile ad aliquote relativamente basse. Ovviamente
tutta la costruzione va in fumo se il valore delle azioni scende (cosa che
capita di tanto in tanto) o semplicemente rimane stazionario, ma anche in
quel caso il dirigente avrà a sua disposizione una giocata libera sulla
roulette del mercato azionario, con la possibilità di vincere molto senza
perdere praticamente nulla: un privilegio che la normativa fiscale non
riserva a nessun’altra categoria di contribuenti.
Favorendo i guadagni in conto capitale a scapito dei redditi ordinari, il
codice sembra voler affermare due principî piuttosto opinabili: che un certo
tipo di rendita sia piú meritevole di tutte le forme di reddito da lavoro, e che
i cittadini provvisti di denaro da investire siano piú meritevoli di quelli che
non ne hanno. Nessuno ha l’ardire di sostenere che il trattamento di favore
nei confronti dei capital gain sia giustificabile su basi di equità; i
commentatori che si soffermano su questo aspetto del problema tendono
piuttosto a concordare con Hellerstein, laddove afferma che «da un punto di
vista sociologico, ci sarebbe molto da dire a favore di una piú severa
tassazione dei profitti derivanti da un incremento di valore delle proprietà,
piuttosto che dei redditi da lavoro». La difesa del provvedimento, quindi,
dovrà fondarsi su altre basi. Per prima cosa esiste una rispettabile teoria
economica a favore della completa esenzione dei guadagni in conto
capitale, sulla base della seguente argomentazione: i salari, i dividendi o gli
interessi sugli investimenti sono frutti dell’albero del capitale, e dunque
costituiscono reddito tassabile; i capital gain, al contrario, sono la nuova
sostanza dell’albero, e perciò, non costituendo reddito, non sono tassabili.
Questa distinzione è stata introdotta nei regimi tributari di molti Paesi:
l’esempio piú notevole è senz’altro quello della Gran Bretagna, che fino al
1946, in linea di principio, non tassava gli utili in conto capitale. Un’altra
argomentazione a favore è quella che, su basi strettamente pragmatiche,
vede nella non tassabilità dei capital gain la premessa necessaria per indurre
i cittadini a investire il proprio capitale in operazioni rischiose. (Con un
ragionamento analogo, i fautori delle stock option le considerano uno
strumento indispensabile a ogni azienda che voglia conquistare e tenersi
stretti dei manager di talento). A parte ogni altra considerazione, poi, quasi
tutte le autorità fiscali concordano nell’affermare che l’equiparazione dei
capital gain alle altre forme di reddito secondo quanto auspicato da molti
riformatori comporterebbe enormi difficoltà tecniche.
La vasta categoria dei contribuenti ricchi e benestanti comprende alcune
sottocategorie che hanno accesso ad altre vie di fuga: per esempio i piani
pensionistici aziendali, che, come i diritti di opzione, contribuiscono a
risolvere i problemi fiscali dei dirigenti. Nell’elenco sono incluse anche le
oltre quindicimila fondazioni con ipotetiche finalità caritatevoli o educative,
che in realtà fanno ben poco di caritatevole o educativo, a parte alleggerire
il carico fiscale dei benefattori; e infine ci sono le holding di tipo personale
che, per quanto soggette a norme piuttosto severe, dànno a certe categorie
di contribuenti con alti redditi da attività professionali (scrittori e attori, per
esempio) la possibilità di pagare meno tasse trasformando sé stessi in
aziende. Ma la piú ampiamente detestata tra le molte scappatoie fiscali
offerte dal codice è con tutta probabilità la detrazione per esaurimento sulle
risorse petrolifere. Nell’accezione usata dal codice, il termine
«esaurimento» si riferisce al progressivo depauperarsi delle risorse naturali
non rinnovabili, ma ai fini delle dichiarazioni dei redditi dei petrolieri
diventa un sinonimo prodigiosamente nobilitato di quello che di solito si
chiama ammortamento. Laddove un imprenditore può dedurre
l’ammortamento di un bene strumentale soltanto fino a completa copertura
del suo costo originario – cioè fino a quando il macchinario è tanto logorato
dall’uso da risultare privo di valore – una persona fisica o giuridica che
investa nel settore petrolifero può, per ragioni che sfuggono a qualsiasi
logica, dedurre all’infinito una percentuale di ammortamento su un certo
pozzo produttivo, anche quando il costo originario dell’investimento sia
stato recuperato piú e piú volte. La detrazione per esaurimento delle risorse
petrolifere è pari al 27,5 per cento annuo, fino a una quota massima
corrispondente a metà del reddito netto dell’investitore, mentre per le altre
risorse naturali le quote di detrazione sono inferiori: 23 per cento
sull’uranio, 10 per cento sul carbone, 5 per cento sui gusci delle ostriche e
dei molluschi. L’effetto di questa norma sul reddito imponibile di un
petroliere, specialmente quando venga associata ai benefici di altre
scappatoie fiscali, è davvero stupefacente: un certo imprenditore del settore,
per esempio, ha denunciato negli ultimi cinque anni un reddito netto
superiore ai 14 milioni di dollari, sui quali ha pagato tasse per circa 80 000
dollari, ovvero sei decimi dell’1 per cento. Non sorprende quindi che la
clausola della detrazione per esaurimento sia costantemente sotto attacco da
parte di chi vorrebbe abrogarla, ma ancora meno ci sorprende il feroce zelo
dei suoi difensori: talmente feroce che nemmeno il presidente Kennedy (al
quale va il merito di aver presentato, nel 1961 e nel 1963, il programma di
riforma fiscale piú ampio mai proposto da un’alta carica dello Stato) osò
suggerirne l’abolizione. L’argomento piú ricorrente a favore della norma è
che la detrazione per esaurimento serva a compensare i rischi delle
perforazioni esplorative, garantendo alla nazione un’adeguata provvista di
petrolio per i propri usi interni; tuttavia molti ritengono che questa linea di
difesa equivalga a dire che la detrazione per esaurimento è un necessario e
auspicabile sussidio federale all’industria petrolifera. E quindi, poiché
l’erogazione di sussidi a questo o quel settore produttivo è compito che non
spetta a un’imposta sui redditi, l’argomentazione sarebbe, a loro dire, nulla.

Pur non avendo fatto niente di concreto per turare le falle del regime
fiscale, il Revenue Act del 1964 le ha in effetti rese un po’ meno redditizie,
giacché la drastica riduzione delle aliquote di base sui redditi piú elevati ha
indotto alcuni contribuenti a tralasciare i ripieghi meno convenienti o
efficaci. Nella misura in cui riduce la disparità tra ciò che il codice promette
e i suoi effetti concreti, la legge del 1964 equivale a una sorta di riforma
provvisoria. (Ma sappiate che l’unico modo di impedire ogni forma di
evasione dell’imposta sul reddito consiste nell’abolire l’imposta stessa). In
ogni caso, tralasciando per il momento i sofismi del codice
(provvidenzialmente corretti dalla legge del 1964), va comunque
sottolineato che la nuova norma ne ha lasciate inalterate alcune vistose e
inquietanti caratteristiche, che in futuro potrebbero rivelarsi particolarmente
resistenti al cambiamento. Alcune hanno a che fare con il criterio in base al
quale vengono accettate o respinte le detrazioni per spese di viaggio e di
rappresentanza a carico dei professionisti o dei dipendenti che non hanno
diritto al rimborso spese (detrazioni che essendo comprese, secondo stime
recenti, tra i 5 e i 10 miliardi di dollari l’anno, sottrarrebbero all’erario
federale un gettito compreso tra 1 e 2 miliardi). Il problema delle spese di
viaggio e di rappresentanza è dibattuto da lungo tempo, e ha resistito
ostinatamente a svariati tentativi di risoluzione. Uno degli snodi cruciali
della vicenda risale al 1930, quando la sentenza di un tribunale stabilí che
l’attore e cantautore George M. Cohan – e come lui chiunque altro – aveva
il diritto di detrarre spese di viaggio e di rappresentanza per un valore
basato su stime ragionevoli, anche se non poteva dimostrare di aver pagato
quelle somme né tanto meno fornirne un resoconto dettagliato. La regola
Cohan – questo il nome che le venne dato – rimase in vigore per piú di
trent’anni, puntualmente chiamata in causa da migliaia di uomini d’affari
che la invocavano con la stessa devozione con cui i musulmani si rivolgono
alla Mecca. Nell’arco di quei trent’anni i contribuenti si fecero sempre piú
ardimentosi e le detrazioni per spese di rappresentanza crebbero rigogliose
come malerbe, finché la regola Cohan, insieme ad altre prassi discrezionali
in materia di spese di rappresentanza, venne presa di mira dagli aspiranti
riformatori. Nel 1951 e nel 1959 furono presentate alcune proposte che
miravano a sopprimere del tutto o in parte la regola Cohan, ma il Congresso
le bocciò: in un caso la decisione fu accelerata dal diffondersi di voci
incontrollate secondo cui la riforma delle clausole sulle spese di
rappresentanza avrebbe condannato all’estinzione una tradizione antica
come il Kentucky Derby. Nel 1961, poi, il presidente Kennedy propose una
nuova legge che prometteva di cancellare del tutto non solo la regola
Cohan, ma il concetto stesso di detraibilità delle spese, riducendo a un
ammontare compreso tra 4 e 7 dollari al giorno la somma detraibile per
l’acquisto di cibo e bevande. Alla fine, però, quella che già si prospettava
come una rivoluzione sociale non ebbe luogo. Il grido di dolore che da tante
parti si levava (uomini d’affari, proprietari di alberghi, ristoranti e locali
notturni) convinse Kennedy a rinunciare a buona parte delle sue proposte.
Un anno dopo, tuttavia, l’approvazione di una serie di emendamenti al
codice delle imposte (entrati in vigore nel 1963, dopo l’emanazione delle
norme applicative da parte dell’Irs) comportò di fatto l’abrogazione della
regola Cohan: da quel momento in avanti ogni detrazione per spese di
viaggio e rappresentanza, piccola o grande che fosse, doveva essere
comprovata se non da una ricevuta, almeno da un rendiconto.
Eppure basta un’occhiata fuggevole alla legge per capire che la
normativa sulle spese di rappresentanza, anche nella sua versione riformata,
non risponde pienamente alle aspettative, ma che, al contrario, è costellata
di assurdità e pervasa da una sorta di filisteismo. I viaggi, per esempio, sono
detraibili solo se hanno come motivazione primaria il lavoro e non lo svago,
e come destinazione un luogo «lontano da casa»: se, insomma, non sono
semplici spostamenti casa-lavoro e viceversa. Sennonché la clausola
«lontano da casa» porta a domandarsi quale sia il luogo definibile come
«casa», e cosí facendo introduce il concetto di «domicilio fiscale», ovvero il
luogo da cui ci si deve allontanare per aver diritto alla detrazione delle
spese di viaggio; per esempio, il domicilio fiscale di un uomo d’affari
(indipendentemente dalle case di campagna, padiglioni di caccia o sedi di
lavoro decentrate che egli eventualmente possieda) sarà l’area in senso lato
(cioè non soltanto lo specifico edificio) nella quale egli svolge la maggior
parte del suo lavoro. Di conseguenza, due coniugi che si spostino
quotidianamente verso i rispettivi uffici ubicati in due diverse città avranno
domicili fiscali separati; ciò nonostante (e per fortuna), il codice tributario
riconoscerà ancora la validità della loro unione, concedendo ai due
pendolari le stesse agevolazioni fiscali valide per le altre coppie di coniugi.
Insomma: dei matrimoni a fini fiscali si è già sentito parlare, ma per fortuna
il divorzio fiscale sembra ancora lontano nel tempo.
Gli estensori delle norme applicative, non potendo piú appellarsi
all’onnicomprensiva regola Cohan per ciò che riguarda le spese di
rappresentanza, si sono visti costretti a fare distinzioni di una minuzia quasi
teologica, il cui risultato finale è consistito nel premiare l’abitudine (che
alcuni considerano fin troppo diffusa) di parlare d’affari a tutte le ore del
giorno e della notte, e in tutte le possibili situazioni. Per esempio, la
normativa consente di detrarre le spese per l’intrattenimento dei propri soci
in affari in varie sedi come locali notturni, teatri o sale da concerto, soltanto
a condizione che prima, durante o dopo i suddetti intrattenimenti «si discuta
in maniera sostanziale e autentica di questioni inerenti al lavoro». (Anche se
in effetti non osiamo pensare a quel che succederebbe se davvero gli uomini
d’affari prendessero l’abitudine di parlare di lavoro durante i concerti o le
rappresentazioni teatrali). Di contro, un uomo d’affari che intrattenga un
suo collega in un «contesto lavorativo tranquillo» quale potrebbe essere un
ristorante che non offre spettacoli di varietà, potrà detrarre la spesa anche
nel caso in cui non discuta affatto di affari, o ne discuta poco, posto che la
finalità dell’incontro sia comunque lavorativa. In generale, si direbbe che
per gli estensori delle norme le situazioni rumorose o confuse comportino
colloqui d’affari piú prolungati: un cocktail party, in quanto espressamente
annoverato nella categoria degli intrattenimenti rumorosi e potenzialmente
deconcentranti, esigerà una notevole quantità di colloqui d’affari prima,
durante o dopo il rinfresco, mentre un invito a cena presso il domicilio del
contribuente sarà deducibile anche se nessuna discussione vi avrà avuto
luogo. In quest’ultimo caso, tuttavia, come opportunamente segnalato dal J.
K. Lasser Tax Institute nella guida intitolata Your Income Tax, i contribuenti
dovranno «essere in grado di dimostrare che il motivo dell’invito […] era
commerciale e non sociale». In sostanza, meglio non correre rischi e parlare
comunque d’affari. Come sostiene Hellerstein, «d’ora in poi i consulenti
fiscali esorteranno i loro clienti a parlare d’affari in ogni situazione e a far
presente alle consorti che, se ci tengono al loro stile di vita, devono
sopportare senza lamentarsi».
Le normative emesse dopo il 1963 tendono a scoraggiare gli
intrattenimenti troppo sofisticati, tuttavia l’opuscoletto del Lasser Institute
sottolinea (forse con moderata esultanza) che «il Congresso ha ritenuto
opportuno non inserire nel testo della legge clausole che vietassero gli
intrattenimenti fastosi o stravaganti». È stato invece deliberato che un uomo
d’affari ha facoltà di detrarre i costi di ammortamento e di gestione relativi
a una «struttura di intrattenimento» di sua proprietà (per esempio uno yacht,
un padiglione di caccia, una piscina, una pista da bowling, un aereo), a
condizione che la utilizzi a scopo professionale per piú della metà del
tempo. In Expense Accounts 1963, uno dei tanti opuscoletti per consulenti
fiscali periodicamente pubblicati dalla società privata Commerce Clearing
House Incorporated, la regola era spiegata mediante l’esempio che segue:

Supponiamo che uno yacht sia destinato […] all’intrattenimento della clientela. Per il
25 per cento del tempo, viene usato a scopo di relax […] Poiché nel restante 75 per
cento del tempo l’imbarcazione viene impiegata per scopi professionali, ne consegue
che la sua destinazione principale consiste nel promuovere l’attività professionale del
contribuente, e quindi il 75 per cento dei costi di manutenzione […] è detraibile in
quanto adibito al mantenimento di una struttura di rappresentanza. Se lo yacht fosse
invece usato a scopo professionale solo per il 40 per cento del tempo, non sarebbe
possibile effettuare alcuna detrazione.

Il documento non fornisce indicazioni sul criterio che il proprietario del


suddetto yacht dovrebbe applicare per distinguere il tempo dedicato agli
affari da quello dedicato al piacere. D’altronde, è verosimile che i periodi in
cui l’imbarcazione si trova nel bacino di carenaggio, oppure in acqua con
soltanto l’equipaggio a bordo, non vadano conteggiati in nessuna delle due
categorie, anche se si potrebbe lecitamente arguire che la semplice
osservazione di uno yacht all’ancora, cullato dalle onde, possa essere fonte
di piacere per il proprietario dello yacht medesimo. Il tempo da suddividere
nelle due categorie, dunque, dovrebbe essere quello in cui il proprietario e i
suoi eventuali ospiti sono a bordo; e forse il metodo migliore per
ottemperare alle disposizioni di legge potrebbe consistere nell’installare due
cronografi, l’uno a babordo e l’altro a tribordo, da far funzionare
rispettivamente durante la navigazione a scopo professionale e durante la
navigazione di piacere. In alcuni casi una delicata brezza da ponente potrà
anticipare di un’ora la fine di una dilettevole escursione, o una raffica di
vento settembrino prolungare l’ultima tappa di una crociera d’affari,
portando la quota di utilizzo professionale al di sopra del fatale 50 per
cento. E bene farebbe lo skipper a invocare il provvidenziale arrivo di quei
venti, giacché la deducibilità dei costi della sua imbarcazione potrebbe
duplicare senza alcuna fatica il suo utile netto. Insomma, per farla breve:
questa norma è una sciocchezza.
Alcuni esperti sostengono invece che la modifica delle norme sulle spese
di viaggio e di rappresentanza sia vantaggiosa sul piano sociale: i
contribuenti che ai tempi della legge Cohan sarebbero stati tentati di
ciurlare un po’ nel manico potrebbero ora non avere abbastanza fegato o
cuore per inserire nei loro rendiconti voci inequivocabilmente false.
Tuttavia ciò che si è guadagnato in termini di osservanza delle leggi è forse
andato perduto in termini di qualità della vita. Mai prima d’ora una norma
fiscale aveva cosí energicamente caldeggiato la commercializzazione dei
rapporti sociali o penalizzato lo spirito dilettantistico che, come ha scritto
Richard Hofstadter in Società e intellettuali in America, caratterizzava i
fondatori della nazione. Ma forse il pericolo piú grave è che, portando a
detrazione certe attività tecnicamente professionali ma di fatto appartenenti
alla sfera sociale, il contribuente finisca, pur nel pieno rispetto delle
disposizioni di legge, per svilire il senso della propria vita. I nostri padri
fondatori, se ancora fossero tra noi, respingerebbero con sdegno l’idea che
il sociale possa mescolarsi al commerciale e il dilettevole al professionale, e
si rifiuterebbero di portare in detrazione anche le spese piú incontestabili.
Ma alla luce dell’attuale normativa fiscale, siamo davvero certi che
potrebbero permettersi un esborso di tasse cosí principesco? E anche:
sarebbe davvero il caso di proporgli una scelta del genere?

È stato detto che il codice tributario discrimina il lavoro intellettuale: la


prova regina sarebbe che, a fronte della possibilità di dedurre
l’ammortamento sui beni materiali soggetti a logorio e di applicare la
detrazione per esaurimento sulle risorse naturali, la legge non preveda
alcuna detrazione nei casi di prosciugamento delle capacità mentali o
immaginative degli artisti e degli inventori, anche se talvolta i segni
dell’affaticamento cerebrale sono fin troppo visibili nelle opere tardive e
negli introiti di alcuni di loro. (Anche gli atleti professionisti, è stato detto,
sono vittime di discriminazione, in quanto il codice non contempla il
deprezzamento corporeo). La Authors League of America ha ulteriormente
sviluppato il concetto, accusando il codice di iniquità nei confronti degli
autori e degli artisti creativi, il cui reddito, per la natura stessa dell’attività e
per i meccanismi economici della commercializzazione, tende a variare
enormemente da un anno all’altro: questo stato di cose fa sí che negli anni
buoni il carico fiscale diventi esorbitante, tanto da non consentire alcun
accantonamento in previsione di annate cattive. In effetti, la legge del 1964
aveva in sé una clausola che consentiva ad artisti, inventori e altri
contribuenti che accumulassero all’improvviso un reddito molto superiore
alla norma di ripartire proporzionalmente la cuccagna nell’arco di quattro
anni, alleggerendo cosí il peso delle tasse.
Ma se davvero il codice è anti-intellettuale, lo è solo inavvertitamente, e
senza dubbio a fasi alterne. Garantendo l’esenzione fiscale alle fondazioni
caritatevoli, per esempio, facilita l’erogazione di borse di studio del valore
di milioni di dollari – dollari che altrimenti finirebbero in gran parte nelle
casse dello Stato – a favore degli studiosi impegnati nei progetti piú
disparati. Nel corso degli anni, inoltre, le agevolazioni previste per le
donazioni di beni il cui valore risulta molto aumentato sono servite –
volontariamente o involontariamente – non soltanto a innalzare i compensi
ricevuti da pittori o scultori per le loro opere, ma anche a trasferire migliaia
di opere d’arte dalle collezioni private ai musei pubblici. I meccanismi di
tale processo sono talmente noti che non è il caso di descriverli in dettaglio:
in sostanza, un collezionista che doni a un museo un’opera d’arte di sua
proprietà ha la possibilità di detrarre dal proprio imponibile il valore
dell’opera al momento della donazione (accertato mediante una stima
razionale e imparziale), senza pagare alcuna imposta sugli utili derivanti
dall’incremento di valore subito dall’opera tra il momento dell’acquisto e
quello della donazione. Se tale incremento è cospicuo e il donatore rientra
in una fascia di reddito alta, l’operazione può rivelarsi molto vantaggiosa.
Oltre a seppellire molti musei sotto una tale valanga di regali che i
dipendenti hanno il loro bel daffare a venirne fuori, la normativa in materia
di donazioni ha avuto l’effetto di riportare in auge un simpatico personaggio
delle ormai lontane ère pre-fiscali, ovvero il ricco dilettante. In tempi
recenti, molti contribuenti di alto reddito si sono trasformati in collezionisti
seriali: qualche anno di post-impressionisti, poi un po’ di giade cinesi, e
dopo ancora, chissà, la pittura moderna americana. Alla fine di ogni periodo
il collezionista seriale si sbarazza dell’intera collezione, e quando presenta
la dichiarazione dei redditi scopre che l’intera avventura non gli è costata
praticamente nulla.
Il basso costo delle donazioni, che si tratti di opere d’arte o piú
semplicemente di denaro o proprietà, è uno dei frutti piú bizzarri del nostro
codice tributario. Sui circa 5 miliardi di dollari che corrispondono al valore
annuo delle donazioni deducibili dal reddito delle persone fisiche, la
stragrande maggioranza è costituita da beni di vario tipo il cui valore è
aumentato notevolmente nel corso del tempo, devoluti allo Stato da
contribuenti con redditi molto elevati. Il perché si spiega con un semplice
esempio: se il costo netto di una donazione di 1000 dollari in contanti da
parte di un cittadino con un reddito soggetto a un’aliquota massima del 20
per cento sarà pari a 800 dollari, la stessa somma, donata da un cittadino
soggetto a un’aliquota massima del 60 per cento, avrà un costo netto di soli
400 dollari. Se invece quello stesso contribuente ad alto reddito donasse
allo Stato un pacchetto di azioni del valore attuale di 1000 dollari, ma che in
origine gli sono costate solo 200 dollari, il costo netto di quella donazione
sarà pari a 200 dollari. È proprio da questo che nasce il paradosso dei tanti
contribuenti con redditi milionari che non pagano un centesimo di tasse; in
base a una norma tra le piú stravaganti del codice, se l’ammontare
complessivo delle imposte sui redditi e delle donazioni di un certo
contribuente risulta pari o superiore ai nove decimi del suo reddito
imponibile per almeno otto degli ultimi dieci anni, nell’anno fiscale in corso
quello stesso contribuente potrà, a titolo di ricompensa, fare donazioni per
un valore superiore alla soglia massima deducibile, sottraendosi cosí al
pagamento dell’imposta sul reddito.
La tolleranza con cui il codice guarda alle acrobazie fiscali travestite da
beneficenza dà corpo alle accuse di quanti sostengono che la nostra legge
tributaria sia moralmente ambigua, se non peggio. E in molti casi
l’ambiguità delle norme si ripercuote su altri soggetti. Negli ultimi anni,
molti enti benefici hanno diffuso comunicati che sembravano barcamenarsi
a fatica tra gli appelli alla generosità disinteressata e l’enunciazione dei
vantaggi fiscali offerti ai donatori. Un esempio istruttivo ci è fornito da un
opuscolo di lodevole accuratezza intitolato Greater Tax Savings... A
Constructive Approach, recentemente messo in circolazione dall’università
di Princeton durante una campagna di raccolta fondi. (Materiali simili, se
non del tutto identici, sono stati utilizzati anche dalle università Harvard e
Yale, e da molte altre istituzioni). «Le posizioni di potere comportano
grandi responsabilità, soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui uomini
di Stato, scienziati ed economisti si trovano a prendere decisioni che quasi
certamente ricadranno sulle generazioni future, – esordiva con una certa
solennità la prefazione del volumetto, passando subito dopo a una chiara
dichiarazione di intenti: – Scopo di questa pubblicazione è esortare tutti i
potenziali benefattori a una piú seria riflessione sui metodi di elargizione
[…] Esistono vari modi per effettuare donazioni sostanziose a un costo
relativamente basso, ed è molto importante che i nostri mecenati siano a
conoscenza di queste opportunità». In sostanza, la legge offriva interessanti
opportunità di risparmio fiscale ai contribuenti disposti a donare titoli
azionari o obbligazionari pregiati, proprietà industriali, contratti di
locazione, diritti di brevetto, gioielli, oggetti antichi, diritti di opzione su
pacchetti azionari, residenze di lusso, assicurazioni sulla vita o giacenze di
magazzino. In alternativa, il benefattore poteva costituire un trust («Il
metodo del trust ha grande versatilità»). Gli autori dell’opuscolo arrivano al
punto di suggerire che invece di regalare azioni o obbligazioni pregiate, il
proprietario di quei titoli avrebbe potuto venderle in contanti all’università
di Princeton, al prezzo pagato in origine: a un osservatore ingenuo sarebbe
potuta sembrare una transazione commerciale, tuttavia, come giustamente
spiegava l’opuscolo, ai sensi del codice tributario la differenza tra il valore
di mercato corrente e il prezzo inferiore a cui Princeton li avrebbe acquistati
sarebbe stata classificabile come donazione, e in quanto tale interamente
deducibile. «Benché nelle pagine precedenti si sia dato grande risalto
all’importanza di un’attenta pianificazione fiscale, – recita il paragrafo
conclusivo dell’opuscolo, – ci auguriamo che i nostri lettori non siano
indotti a credere che l’idea e lo spirito del dono debbano in qualche modo
essere subordinati a considerazioni di natura fiscale». In effetti sarebbe stata
cosa inopportuna, e anche non necessaria, giacché una volta ridimensionata
(se non del tutto eliminata) la greve sostanza del dono, il suo spirito era già
libero di spiccare il volo.

In conclusione, ci sembra di poter dire che una delle caratteristiche


salienti del nostro codice tributario sia la complessità, e che tale complessità
abbia effetti sociali di vasta portata: per esempio, i contribuenti che
vogliano ridurre il carico fiscale senza violare la legge devono avvalersi
della consulenza di un professionista, e poiché i consulenti in gamba sono
pochi e costosi, ecco che i ricchi si accaparrano un altro vantaggio a danno
dei meno abbienti, e per l’ennesima volta il codice si dimostra, all’atto
pratico, meno democratico di quanto vorrebbe. (Per giunta, la deducibilità
delle spese relative alle consulenze fiscali non fa che aggiungere una nuova
voce al lungo elenco di beni e servizi che costano sempre di meno a chi ha
sempre di piú). Tutte le iniziative gratuite di informazione e assistenza che
l’Irs offre ai contribuenti – davvero molte, e fatte a fin di bene – non
possono neanche lontanamente competere con i servizi retribuiti di un buon
fiscalista, non foss’altro per il fatto che l’Irs, avendo come compito
primario l’acquisizione dei tributi, si trova in evidente conflitto di interessi
nel momento in cui si accinge a dare indicazioni su come pagare meno
tasse. Le caratteristiche del regime fiscale non sono sufficienti a spiegare
perché nel 1960 circa metà del gettito ricavato dalle persone fisiche
provenisse da contribuenti con un reddito lordo non superiore ai 9000
dollari annui: una parte del problema è che i cittadini delle fasce di reddito
inferiori non possono permettersi di pagare qualcuno che insegni loro a
pagare meno tasse.
L’enorme esercito di professionisti della consulenza fiscale – noti
nell’ambiente come fiscalisti o tributaristi – rappresenta uno strano e
inquietante effetto della complessità del codice. La consistenza precisa della
milizia non è nota, tuttavia si dispone di qualche indizio. Secondo un
recente conteggio, erano circa ottantamila i professionisti (perlopiú
avvocati, commercialisti ed ex dipendenti dell’Irs) in possesso dell’apposito
tesserino, emesso dal ministero del Tesoro, che li autorizzava ufficialmente
a svolgere consulenza fiscale e a presentarsi in tale veste al cospetto
dell’Irs; a questi si aggiunge una non quantificabile moltitudine di
personaggi privi di licenza, e spesso anche delle opportune qualifiche, che
offrono ai contribuenti un servizio (liberamente prestabile da qualsiasi
cittadino) di compilazione delle dichiarazioni dei redditi. Quanto agli
avvocati, indiscussi plutocrati o aristocratici della consulenza fiscale, non
c’è un solo legale in tutti gli Stati Uniti che non debba almeno una volta
l’anno occuparsi di tasse, e il numero di legali che non si occupano d’altro
fuorché di tasse cresce di anno in anno. L’Ordine nazionale degli avvocati
ha al suo interno una Camera degli avvocati tributaristi composta in gran
parte da consulenti (circa novemila) che trattano solo questioni fiscali; in
tutti i grandi studi legali di New York, almeno un avvocato su cinque dedica
tutto il suo tempo lavorativo a questioni fiscali; il dipartimento di Diritto
tributario all’interno della facoltà di Giurisprudenza della New York
University (una sorta di enorme chioccia che sforna senza sosta nidiate di
tributaristi) ha piú studenti di quanti ne abbia mediamente un’intera facoltà
di Legge. Tra i cervelli che si dedicano all’elusione fiscale vi sono, secondo
un’opinione ampiamente condivisa, alcuni dei migliori cervelli della
professione legale, cosa che a detta di molti rappresenta un evidente spreco
di risorse: a pensarla cosí sono anche alcuni fiscalisti di prim’ordine, i quali
non perdono occasione di confermare che, primo, le loro capacità mentali
sono effettivamente prodigiose e, secondo, dette capacità sono
effettivamente sperperate in questioni di nessuna importanza. «La
professione legale ha i suoi cicli, – spiega uno di loro. – A fine Ottocento,
qui negli Stati Uniti era in gran voga il diritto patrimoniale; poi c’è stato il
periodo del diritto societario, mentre ora imperversano varie
specializzazioni, la piú importante delle quali è il diritto tributario. Non ho
nessun problema ad ammettere che il valore sociale del mio lavoro sia
alquanto limitato. Dopo tutto, di che si tratta? Nel migliore dei casi, si tratta
di capire qual è la giusta quantità di soldi che un cittadino o un’azienda
devono versare allo Stato per finanziarne la gestione. E allora, chiederete,
perché mi occupo di diritto tributario? Innanzitutto perché è una sfida
intellettuale appassionante, seconda da questo punto di vista soltanto ai
dibattimenti processuali. In secondo luogo perché è un ambito specializzato,
ma al tempo stesso non lo è affatto: tocca tutti gli ambiti della legge. Un
giorno lavori per un produttore di Hollywood, il giorno dopo per un grosso
immobiliarista, quello dopo ancora per un dirigente d’azienda. La terza
ragione, poi, è che è un settore molto remunerativo».

Ipocritamente egualitaria in superficie e sistematicamente oligarchica in


profondità; complicata al di là del ragionevole, discriminatoria senza alcun
criterio, speciosa nei ragionamenti, cavillosa nel linguaggio, capace di
inibire gli impulsi generosi, nemica della conversazione e fautrice dei
colloqui d’affari, dissipatrice di talenti, rocciosa alleata dei proprietari
immobiliari e pietra al collo dei sottopagati, amica incostante degli artisti e
degli studiosi: certo, la legge che rappresenta l’immagine speculare della
nostra nazione è tutte queste cose, ma ha anche qualche punto a suo favore.
Non può esistere una tassazione dei redditi che accontenti tutti, e forse
nessuna tassa, per quanto equa, potrebbe davvero accontentare tutti. Come
annota Louis Eisenstein nel suo saggio The Ideologies of Taxation, «le tasse
sono l’instabile risultato dell’impegno con cui si cerca di farle pagare agli
altri». Con la sola eccezione della piú palesemente ingiusta delle sue
clausole speciali, il nostro codice tributario è una norma scritta in buona
fede – forse un po’ maldestramente, ma nulla di piú – al fine di raccogliere
con la massima equità possibile una quantità straordinaria di denaro da una
società quanto mai complessa, sostenendo nel contempo l’economia
nazionale e l’imprenditoria meritevole. Quando viene applicata con
intelligenza e coscienza, come è stato fatto negli ultimi tempi, la nostra
normativa sui redditi non è inferiore a nessuna in termini di equità.
Ciò non toglie che emanare una legge inadeguata e poi cercare di
compensarne le manchevolezze applicandola bene sia una totale assurdità.
La soluzione piú logica a questo stato di cose, ovvero l’abolizione totale
della tassa, è caldeggiata soprattutto dalla destra radicale, che vede in
qualsiasi tassazione dei redditi un trionfo dell’ideologia social-comunista e
vorrebbe che il governo smettesse semplicemente di spendere soldi. A
favore dell’abolizione (piú come ipotesi teorica che come possibilità
pratica) si esprime anche una certa scuola di economisti alla ricerca di
sistemi alternativi che consentano di raccogliere almeno una frazione
significativa del gettito oggi prodotto dall’imposta sui redditi. Tra i sistemi
alternativi c’è per esempio l’imposta sul valore aggiunto, che graverebbe su
produttori, grossisti e dettaglianti in misura percentuale sulla differenza tra
il valore delle merci comprate e quello delle merci vendute: i possibili
vantaggi sarebbero una piú uniforme spartizione del carico fiscale lungo le
varie fasi del processo produttivo, e un piú rapido afflusso di denaro nelle
casse statali. L’imposta sul valore aggiunto è già in vigore in molti Paesi,
compresi la Francia e la Germania, che tuttavia la applicano piú come
imposizione supplementare che come vera e propria alternativa alla tassa
sul reddito; qui da noi, in ogni caso, siamo ancora ben lontani. Per
alleggerire il peso dell’imposta sui redditi è stato anche proposto di
ampliare la lista dei beni soggetti a tasse di accisa, applicando un’aliquota
uniforme che in pratica si tradurrebbe in una sorta di imposta di vendita
federale; altri vorrebbero aumentare le tasse d’uso come i pedaggi su
autostrade, ponti e strutture ricreative; altri ancora promulgare una legge
che consenta di istituire lotterie federali simili a quelle organizzate in epoca
coloniale, fino al 1895, a beneficio di progetti come l’università di Harvard,
la Guerra d’indipendenza americana o la costruzione di innumerevoli
scuole, strade, ponti e canali. L’evidente anomalia di tali proposte sta nel
fatto che la raccolta di denaro sarebbe relativamente svincolata dalla
capacità di contribuzione dei cittadini, e questa è una delle tante ragioni per
cui, nel prossimo futuro, nessuna delle ipotesi sopra elencate ha la minima
probabilità di concretizzarsi.
Certi teorici nutrono una privatissima passione per una forma di
tassazione chiamata imposta sui consumi, che graverebbe sui cittadini in
proporzione non al reddito annuo, ma all’ammontare complessivo delle loro
spese. I fautori di questa tassa – irriducibili tifosi dell’economia della
scarsità – sostengono che il suo maggior pregio stia nell’essere semplice;
inoltre, dicono, favorirebbe il risparmio e sarebbe piú equa dell’imposta sui
redditi, perché tasserebbe ciò che i contribuenti prelevano dal ciclo
economico, non ciò che vi immettono; in ultimo, lo Stato potrebbe
avvalersene per correggere eventuali squilibri del sistema economico. La
parte avversa sostiene invece che l’imposta sui consumi non sarebbe affatto
semplice, e per di piú sarebbe facilissima da evadere; arricchirebbe
ulteriormente i ricchi e li renderebbe, se possibile, ancora piú spilorci; e
come se non bastasse sarebbe un’imposta depressiva, perché penalizzerebbe
i consumi. A ogni modo, fautori e detrattori concordano nel sostenere che
un’imposta sui consumi sarebbe politicamente impraticabile negli Stati
Uniti. I due tentativi seri fatti in passato, uno negli Stati Uniti (nel 1942 a
firma di Henry Morgenthau Jr, all’epoca ministro del Tesoro), e uno in Gran
Bretagna (nel 1951, su iniziativa di Nicholas Kaldor, docente di Economia a
Cambridge e successivamente consigliere del Tesoro britannico) sono stati
accolti da unanime e sonoro dissenso. «L’imposta sui consumi è bella a
vedersi, – ha detto recentemente uno dei suoi fautori. – Sarebbe esente da
quasi tutte le insidie dell’imposta sui redditi. Ma non è che un sogno». Cosí
è in effetti, almeno nel mondo occidentale; in India e a Ceylon, l’imposta
sui consumi esiste.
Se non altro per mancanza di un plausibile sostituto, l’imposta sui redditi
ha dunque buone possibilità di restare tra noi, e chi spera in una tassazione
migliore non può che fare assegnamento sulla sua riforma. Renderla piú
semplice, per esempio, sarebbe un buon punto di partenza, e si è tentato di
lavorare in questo senso a partire dal 1943, quando il ministro Morgenthau
istituí un apposito comitato per studiare la questione. Di tanto in tanto si è
messa a segno qualche piccola vittoria: durante la presidenza Kennedy, per
esempio, sono state semplificate le istruzioni di compilazione ed è stato
introdotto un modulo abbreviato a beneficio dei contribuenti che desiderano
elencare le detrazioni cui hanno diritto pur avendo una contabilità fiscale
relativamente semplice. Ma avere la meglio in qualche scaramuccia è cosa
ben diversa dal vincere la guerra. Un serio ostacolo alla piena vittoria è dato
dal fatto che molte tortuosità del codice sono state introdotte con il preciso
scopo di preservarne l’equità verso tutti i contribuenti, e a quanto pare è
impossibile rimuoverle senza che ciò vada a discapito dell’equità. Un chiaro
esempio di come la ricerca dell’equità porti sovente verso strade tortuose è
data dalla storia delle clausole speciali a sostegno delle famiglie. Fino al
1948, il fatto che non tutti gli Stati dell’Unione avessero una normativa
sulla comunione dei beni tra coniugi determinava un vantaggio fiscale per
le coppie che, negli Stati che si erano dotati di quella normativa, avevano
scelto di mettere in comune i loro beni: infatti quelle coppie, e soltanto
quelle, avevano la possibilità di essere tassate come se il loro reddito
cumulativo fosse diviso in due parti uguali, anche nei casi in cui un coniuge
avesse un reddito cospicuo e l’altro fosse nullatenente. Per correggere
l’evidente iniquità, il codice federale è stato modificato al fine di estendere
il privilegio della divisione del reddito a tutti i contribuenti sposati. Anche
senza considerare la discriminazione a danno dei contribuenti non coniugati
senza persone a carico – a tutt’oggi gelosamente custodito e riconosciuto
dagli articoli del codice – la correzione di quell’iniquità ha finito per
crearne un’altra, la cui correzione ne ha a sua volta creata una ulteriore; e
prima ancora che la sequenza di scatole cinesi si esaurisse il legislatore
aveva già preso in esame i problemi delle persone che hanno responsabilità
familiari pur non essendo sposate, poi quelli delle madri lavoratrici che
sostengono spese per la custodia dei loro figli durante l’orario di lavoro, e
infine quelli dei vedovi. E ogni modifica non faceva che accrescere la
complessità del codice.
Nel caso delle scappatoie fiscali, la faccenda è ben diversa. Qui la
complessità non è al servizio dell’equità ma del suo contrario, e l’ostinata
sopravvivenza di queste norme è uno sconcertante paradosso: dato un
sistema come il nostro, in cui si presume che sia la maggioranza a fare le
leggi, l’esistenza di norme fiscali che favoriscono sfacciatamente questa o
quella minoranza è una sorta di squilibrio dei diritti civili, un programma di
lotta alla discriminazione che mira a tutelare i milionari. È pur vero che
l’introduzione di una nuova norma fiscale è un processo lungo e tortuoso: la
proposta originaria, non necessariamente formulata dal ministero del
Tesoro, viene passata al vaglio della Commissione procedurale, poi della
Camera dei rappresentanti e della Commissione finanze del Senato, quindi
discussa e modificata da un comitato congiunto Camera-Senato, poi
nuovamente sottoposta all’approvazione della Camera e del Senato prima di
essere finalmente ratificata dal presidente. Senza contare che la proposta di
legge rischia comunque di essere affossata o accantonata in una qualsiasi di
queste fasi. In ogni caso, benché l’opinione pubblica abbia ampie
opportunità di dar voce alla protesta contro le clausole speciali, di solito le
voci a favore tendono a essere piú numerose. Nel suo saggio intitolato The
Great Treasury Raid, Philip M. Stern elenca le varie cause che, a suo
parere, impediscono la riforma fiscale: all’abilità, al potere e
all’organizzazione delle lobby antiriformiste si aggiungono da un lato
l’inconcludenza e l’impotenza politica delle milizie riformiste all’interno
del governo, e dall’altro l’indifferenza di un elettorato che, incapace di
penetrare la sconfortante astrusità della materia, viene conseguentemente
ridotto al silenzio e si guarda bene dall’esprimere una seppur minima
quantità di entusiasmo per i progetti di riforma fiscale. In questo senso, la
complessità del nostro codice lo rende impenetrabile come una pelle di
elefante. Ecco perché il ministero del Tesoro, che in quanto agenzia
incaricata della riscossione dei tributi federali sarebbe ovviamente
favorevole a un riordino del nostro regime fiscale, si trova spesso isolato
nelle sue posizioni riformiste, avendo come sola compagnia un esiguo
manipolo di legislatori: i senatori Paul H. Douglas dell’Illinois, Albert Gore
del Tennessee e Eugene J. McCarthy del Minnesota.

Gli ottimisti sono persuasi che prima o poi si giungerà a un «punto di


crisi»: le élite dei privilegiati supereranno i loro egoismi e il resto del Paese
si scuoterà dal torpore; a quel punto la tassazione sul reddito tornerà a
restituire un’immagine del Paese piú lusinghiera di quella attuale. Quando
tutto ciò dovrebbe accadere non è dato saperlo, ma le linee generali del
paesaggio sono già note. La tassa sul reddito ideale, che molti riformatori
sperano di veder realizzata in un lontano futuro, sarà regolata da una legge
breve e semplice, con aliquote relativamente basse e pochissime eccezioni.
Le sue caratteristiche strutturali avranno una marcata somiglianza con la
tassa del 1913, la prima cioè introdotta negli Stati Uniti in tempo di pace. E
dunque, se le chimeriche visioni di questi riformatori dovessero prima o poi
materializzarsi, un giorno potremo dire che l’imposta sul reddito è tornata al
punto di partenza.
5. Un intervallo di tempo ragionevole
Insider trading alla Texas Gulf Sulphur

Le informazioni riservate su eventi pubblici futuri, scelte aziendali


imminenti o persino la salute di questo o quel personaggio politico sono
sempre state una preziosa merce di scambio per gli operatori di borsa: cosí
preziosa che, secondo alcuni commentatori, nei mercati azionari si fa
compravendita non soltanto di azioni, ma anche di informazioni. Il valore
economico di un’informazione riservata si può misurare con precisione
seguendo le variazioni di prezzo dei titoli chiamati in causa, e qualsiasi
informazione si può convertire in moneta, proprio come una merce; anzi,
essendo spesso oggetto di baratto tra gli operatori di borsa, l’informazione
riservata è una specie di moneta. Tanto piú che fino a qualche tempo fa
nessuno osava mettere in dubbio la correttezza dei pochi favoriti dalla sorte
che, essendo in possesso di informazioni riservate, le sfruttavano a proprio
vantaggio. La fortuna dei Rothschild in Inghilterra si deve in buona parte al
sagace impiego delle prime anticipazioni sulla vittoria di Wellington a
Waterloo, cosa che a quei tempi non scandalizzò affatto l’opinione
pubblica, né fu giudicata meritevole di indagine da parte di una
commissione d’inchiesta; quasi contemporaneamente, dall’altra parte
dell’Atlantico, John Jacob Astor metteva insieme un bel gruzzolo grazie ad
alcune indiscrezioni sul trattato di Gand, che di lí a poco avrebbe posto fine
alla Guerra angloamericana del 1812. Dalla fine della Guerra di secessione
in poi, il pubblico degli investitori statunitensi non ha mai avuto nulla da
obiettare se una persona in possesso di informazioni riservate ne faceva
commercio; spesso, invece, è stato ben contento di raccogliere eventuali
briciole. (Daniel Drew, l’uomo d’affari americano che in un certo senso è il
padre di tutti gli utilizzatori di notizie riservate, era talmente spietato da
negare ai suoi colleghi persino quella misera consolazione: si diceva anzi
che spargesse briciole avvelenate nei luoghi pubblici, sotto forma di false
indicazioni sui suoi programmi di investimento). La maggior parte delle
fortune accumulate nell’America del XIX secolo devono molto, quando non
l’intera esistenza, alla pratica dell’insider trading, e sarebbe interessante
(ancorché vano) domandarsi quale sarebbe oggi il nostro ordine sociale ed
economico, se in passato quella pratica fosse stata efficacemente interdetta.
Soltanto nel 1910 si osò finalmente dire che c’era qualcosa di immorale nel
fare compravendita di azioni dell’azienda per cui si lavorava, e l’idea che
quella pratica fosse addirittura scandalosa (come giocare in borsa con le
carte truccate, insomma) si diffuse e si consolidò solo nel decennio
successivo. Nel 1934, poi, il Congresso decise di correggere la rotta con una
legge apposita, il cosiddetto Securities Exchange Act. Secondo quella
norma, i detentori di informazioni riservate sono obbligati a cedere alle
rispettive aziende i profitti ricavati dalla compravendita a breve termine di
pacchetti azionari; inoltre, una successiva integrazione apportata nel 1942
con la cosiddetta norma 10B -5 vieta a chiunque operi sul mercato azionario
di agire in maniera fraudolenta «affermando cose non vere in relazione a un
fatto concreto oppure […] tacendo un fatto concreto».
Poiché l’essenza dell’insider trading consiste proprio nell’occultare un
fatto concreto di cui si è a conoscenza, la legge – che pure non vieta ai
possessori di informazioni riservate di acquistare azioni e di incassarne i
profitti, qualora intercorrano piú di sei mesi tra l’acquisto e la vendita –
sembrerebbe mettere definitivamente al bando il gioco con le carte truccate.
Nella pratica, tuttavia, la norma 10B -5 del 1942 non è stata quasi mai
applicata se non in tempi molto recenti: la stessa Securities and Exchange
Commission (Sec), l’organo federale di controllo istituito dal Securities
Exchange Act, vi si è appellata soltanto di rado, e in casi cosí clamorosi che
gli illeciti sarebbero stati comunque perseguibili in base al diritto ordinario.
Le ragioni di tanto permissivismo sono evidenti: per esempio, è opinione
diffusa che la possibilità di trarre profitto dai segreti aziendali sia un ottimo
sistema per spronare i manager a fare del loro meglio; inoltre, alcuni esperti
sostengono con una certa dose di cinismo che la presenza di operatori al
corrente di informazioni riservate, per quanto lesiva del fair play, sia
essenziale per garantire il flusso ordinato e regolare delle transazioni. Si
ritiene poi che la maggior parte degli operatori di borsa, anche se non
colpevoli di insider trading nel senso stretto del termine, possiedano e
nascondano informazioni di varia natura, o quanto meno ambiscano a farlo,
e che pertanto un’applicazione imparziale della norma 10B -5 porterebbe lo
scompiglio nelle borse valori. Lasciandola riposare indisturbata tra le
pagine del codice per vent’anni, la Sec avrebbe dunque evitato di colpire
Wall Street dove era piú vulnerabile. Peccato che poi, dopo un paio di
colpetti d’attacco, abbia finito per metterla al tappeto con un diretto
violentissimo proprio lí, nel punto debole. Il tutto accadde durante una
causa civile ai danni della Texas Gulf Sulphur Company e di tredici tra
dirigenti e dipendenti della società, dibattuta senza giurati popolari nel
tribunale distrettuale di Foley Square, a Manhattan, tra il 9 maggio e il 21
giugno del 1966. «Credo che tutti siamo d’accordo, – aveva serenamente
osservato il presidente di giuria, giudice Dudley B. Bonsal, – sul fatto che
qui stiamo, per cosí dire, arando una terra vergine». Arando, certo, e forse
anche seminando. Nel suo libro intitolato Insider Trading and the Stock
Market, Henry G. Manne sostiene che il caso Texas Sulphur presenti con
chiarezza quasi esemplare tutti gli aspetti dell’insider trading, e che la sua
conclusione «possa segnare la rotta legislativa per molti anni a venire».

Gli eventi che indussero la Sec a intentare la causa ebbero inizio nel
marzo del 1959, quando la Texas Gulf di New York, leader mondiale nella
produzione di zolfo, diede inizio a una serie di prospezioni aeree del
cosiddetto «scudo canadese», una vasta, sterile e impervia regione del
Canada orientale, che in un passato lontano ma non dimenticato era stata
una ricca zona aurifera. I piloti della Texas Gulf, però, non cercavano né
zolfo, né oro. Andavano a caccia di solfuri: depositi di zolfo chimicamente
legato ad altri minerali interessanti, come lo zinco e il rame. L’eventuale
scoperta di giacimenti sfruttabili avrebbe permesso alla Texas Gulf di
diversificare le attività e ridurre la sua dipendenza dallo zolfo, il cui prezzo
di mercato era in calo. Di tanto in tanto, durante i voli di prospezione
effettuati a intervalli irregolari nel corso di due anni, si notava una strana
irrequietezza degli strumenti geofisici a bordo degli aerei: gli aghi degli
strumenti di rilevazione si agitavano, segnalando la presenza nel terreno di
sostanze conduttrici di elettricità. Le aree in cui si verificavano tali
fenomeni, che i geofisici chiamavano «anomalie», venivano
scrupolosamente registrate e mappate. Alla fine si scoprí che ce n’erano
parecchie migliaia. Certo, un’anomalia è cosa ben diversa da un giacimento
sfruttabile, e del resto l’elenco delle sostanze capaci di condurre elettricità è
lunghissimo: oltre ai solfuri, anche la grafite, la comunissima pirite (anche
detta «oro degli stolti»), e persino l’acqua. Ciò nonostante, diverse centinaia
di quelle anomalie furono giudicate degne di indagini sul terreno: tra
queste, una delle piú promettenti era quella situata nella località che le
mappe denominavano «settore Kidd-55»: un’area di 2,5 chilometri quadrati
coperta di paludi erbose e foreste non troppo dense, quasi del tutto priva di
affioramenti rocciosi, una ventina di chilometri a nord di Timmins,
nell’Ontario, una vecchia cittadina mineraria che a sua volta dista piú o
meno ottanta chilometri da Toronto. Poiché il settore Kidd-55 era di
proprietà privata, il primo problema che la Texas Gulf dovette affrontare fu
l’acquisizione dei terreni: se non proprio di tutto il settore, almeno di una
porzione sufficiente per condurre le prime esplorazioni a terra. Ma per una
grande compagnia mineraria acquisire un terreno è sempre una faccenda
delicata, soprattutto quando è noto a tutti che una certa zona è oggetto di
indagine: e dunque fu soltanto nel giugno del 1963 che la società riuscí a
ottenere un’opzione che la autorizzava a effettuare dei carotaggi nel
quadrante nordorientale del settore Kidd-55. Tra il 29 e il 30 ottobre di
quello stesso anno, un ingegnere della Texas Gulf di nome Richard H.
Clayton effettuò una prospezione elettromagnetica a terra che diede risultati
soddisfacenti. Si fece arrivare in zona una trivella, e l’8 novembre ebbe
inizio il primo carotaggio.
Seguirono giorni esaltanti, ancorché inquieti. La persona incaricata di
eseguire i carotaggi era un giovane geologo di nome Kenneth Darke, un
accanito fumatore di sigari con una strana luce negli occhi, che nell’aspetto
somigliava molto piú allo stereotipo del minatore solitario che non all’uomo
d’organizzazione che in effetti era. Le trivellazioni andarono avanti per tre
giorni: il risultato finale fu una «carota» del diametro di tre centimetri, il
primo campione dei materiali rocciosi presenti nel sottosuolo di Kidd-55.
Darke esaminò il campione centimetro per centimetro e metro per metro,
senza altri strumenti fuorché i suoi occhi e la sua capacità di riconoscere i
minerali allo stato naturale. La sera di domenica 10 novembre, quando la
trivella aveva raggiunto i 45 metri di profondità, Darke telefonò a casa del
suo superiore diretto, Walter Holyk, geologo capo della Texas Gulf, per
aggiornarlo sugli ultimi risultati. (La chiamata partí da Timmins, perché al
cantiere di trivellazione Kidd-55 non c’era telefono). Darke, racconta
Holyk, era «emozionato». E doveva esserlo anche Holyk dopo la telefonata,
visto lo scompiglio che riuscí a seminare a dispetto della serata festiva tra i
vertici della sua azienda. Quella sera stessa, Holyk (un quarantenne di
origine canadese che viveva a Stamford, nel Connecticut, e aveva
conseguito un dottorato in Geologia presso il Massachusetts Institute of
Technology) chiamò Richard D. Mollison, suo superiore nonché
vicepresidente della Texas Gulf, e a sua volta – sempre quella sera –
Mollison chiamò il suo capo, Charles F. Fogarty, vicepresidente esecutivo e
numero due dell’azienda, per trasmettergli le notizie giunte da Kidd-55. Il
giorno successivo ci furono ulteriori aggiornamenti, sempre inoltrati per via
gerarchica: da Darke a Holyk, da Holyk a Mollison, e da Mollison a
Fogarty. Il risultato fu che tutti e tre – Holyk, Mollison e Fogarty – decisero
di andare a Kidd-55 per valutare di persona la situazione.
Il primo ad arrivare fu Holyk: mise piede a Timmins il 12 novembre, si
insediò al Bon Air Motel e raggiunse Kidd-55 a bordo di una jeep e di un
trattore cingolato, giusto in tempo per assistere alle ultime fasi della
trivellazione e aiutare Darke ad analizzare la carota. Nel frattempo la
situazione meteorologica, fino ad allora abbastanza passabile per la metà di
novembre, era visibilmente peggiorata. In quel momento il clima era
«abbastanza inclemente», come racconta Holyk: «Faceva un gran freddo,
c’era vento, il cielo minacciava pioggia o neve, e […] le condizioni
ambientali ci impensierivano molto piú del nostro campione. Ken Darke
annotava i dati sul registro, io esaminavo la carota e cercavo di valutare il
tenore dei minerali». Per rendere ancora piú complesso il lavoro all’aperto
in quelle difficili condizioni, il campione era uscito dalla terra parzialmente
coperto da uno strato di polvere e sostanze grasse, ed era stato necessario
lavarlo con della benzina prima di procedere a una benché sommaria
analisi. Malgrado tutte le difficoltà, Holyk riuscí a effettuare la stima del
campione, con risultati a dir poco stupefacenti. Su una lunghezza
complessiva di circa 180 metri, sembrava esserci un tenore medio di rame
pari all’1,15 per cento, e un tenore medio di zinco intorno all’8,64 per
cento. Come avrebbe detto in seguito un broker canadese specializzato in
aziende del settore minerario, una carota di quella lunghezza e con un
contenuto minerale di quel genere è «semplicemente al di là delle piú folli
speranze».
Nonostante tutto, la Texas Gulf non poteva ancora dire di aver messo le
mani su una nuova miniera: c’era sempre la possibilità che la vena fosse
lunga e sottile, troppo scarsa per essere commercialmente sfruttabile, o che
per una specie di prodigiosa coincidenza il carotaggio avesse centrato
esattamente l’inclinazione della vena, come quando si infila una spada nel
fodero. A quel punto era necessario effettuare altre trivellazioni, in diversi
punti della superficie e con diversi angoli di inclinazione, in modo da
accertare la forma e l’ampiezza dei depositi. Ma per farlo la Texas Gulf
doveva prima di tutto acquisire un titolo di proprietà sugli altri tre quadranti
di Kidd-55. Ci sarebbe voluto del tempo, sempre ammesso che fosse
possibile, ma intanto c’erano altre cose da fare. La trivella fu spostata; gli
alberelli tagliati furono nuovamente infilati nel terreno per ridare alla zona
un aspetto naturale. Si procedette quindi a un secondo carotaggio, questa
volta cercando di dare nell’occhio il piú possibile, perforando il terreno a
una certa distanza dalla prima trivellazione e in un punto in cui non ci si
aspettava – come in effetti avvenne – di trovare nulla. L’effetto di questi
camuffamenti, prassi ordinaria di tutti i minatori che pensano di aver trovato
qualcosa, fu rafforzato da un ordine diretto emesso dal presidente della
Texas Gulf, Claude O. Stephens, che proibiva di comunicare a chiunque,
anche all’interno della società, i risultati della prospezione. Negli ultimi
giorni di novembre la carota fu divisa in sezioni e spedita a un ufficio di
saggiatura di Salt Lake City per essere sottoposta ad analisi scientifiche. E
intanto, ovviamente, la Texas Gulf aveva cominciato a testare con la
massima discrezione possibile le intenzioni dei proprietari degli altri tre
quadranti di Kidd-55.
In parallelo si agiva anche su altri fronti, piú o meno direttamente
collegati a quanto stava accadendo a nord di Timmins. Il 12 novembre
Charles Fogarty acquistò 300 azioni della Texas Gulf; il 15 ne acquistò altre
700, il 19 altre 500, e il 26 altre 200. Sempre il 15 novembre, Richard
Clayton e Richard Mollison acquistarono rispettivamente 200 e 100 azioni
Texas Gulf; la moglie di Walter Holyk acquistò 50 azioni il 29 novembre e
altre 100 il 10 dicembre. Queste operazioni, si scoprí poi, non erano che le
prime avvisaglie di un improvviso moto di affetto per la Texas Gulf da parte
di alcuni suoi dipendenti, e persino degli amici dei suddetti dipendenti. A
metà dicembre arrivò da Salt Lake City la relazione sul carotaggio, dalla
quale si evinceva che le stime approssimative di Holyk erano
sorprendentemente vicine al vero: i tenori di rame e di zinco
corrispondevano quasi al centesimo con quelli indicati, e c’erano anche, a
mo’ di incentivo, 111,70 milligrammi d’argento per tonnellata. Verso la fine
di dicembre Darke fece un viaggio a Washington, e in quell’occasione
consigliò a una sua amica e alla di lei madre l’acquisto di azioni della Texas
Gulf: le due signore, poi identificate nel corso del dibattimento processuale
come «le imbeccate», passarono parola ad altre due persone che, come è
logico, divennero le «imbeccate di secondo grado». Fra il 30 dicembre del
1959 e il 17 febbraio dell’anno successivo, le imbeccate di primo e secondo
grado acquistarono in tutto 2500 quote azionarie della Texas Gulf, piú altre
1500 di quelle che nel gergo borsistico si chiamano opzioni di acquisto o
opzioni call. Si tratta in pratica di uno strumento finanziario che consente a
chi lo detiene di acquistare un determinato quantitativo di un certo titolo, a
un prezzo prefissato – generalmente vicino al prezzo di mercato corrente –
entro un determinato periodo di tempo. La somma di denaro da pagare per
assicurarsi l’opzione è di solito piuttosto modesta; se poi nel periodo di
validità dell’opzione il prezzo del titolo sottostante aumenta, per
l’acquirente è tanto di guadagnato; se viceversa il prezzo rimane stabile o
volge al ribasso, basterà fare a pezzetti l’opzione esattamente come uno
scommettitore fa a pezzetti il cedolino di un cavallo perdente: poiché
l’opzione non obbliga all’acquisto del sottostante, il suo titolare non subirà
altri esborsi all’infuori del prezzo già pagato per procurarsela. Le opzioni
call sono dunque lo strumento piú economico per scommettere sui mercati
azionari, e anche il modo piú vantaggioso di convertire in denaro le
informazioni riservate.
In quel di Timmins, intanto, Darke era momentaneamente
impossibilitato a svolgere la sua attività di geologo a causa delle gelate
invernali e dei problemi con l’acquisizione della proprietà di Kidd-55;
eppure non restò con le mani in mano. A gennaio costituí una società con
un privato cittadino di Timmins che non lavorava per la Texas Gulf: lo
scopo era recintare alcuni appezzamenti di terreno demaniale nei dintorni di
Timmins e reclamarne la concessione. A febbraio Darke riferí a Holyk ciò
che aveva sentito dire da un suo conoscente durante una conversazione in
un bar di Timmins, in una gelida sera d’inverno: cioè che correvano voci su
un ritrovamento di minerali da parte della Texas Gulf. Lo stesso conoscente
di Darke aveva intenzione di chiedere un po’ di concessioni minerarie.
Sentendosi ghiacciare il sangue, Holyk disse a Darke (cosí almeno fu
riferito in seguito) che i suoi ordini precedenti erano annullati, e che invece
di evitare come la peste il settore Kidd-55 doveva «assolutamente andare
laggiú […] e recintare tutte le concessioni che ci servivano». Quanto al suo
famoso conoscente, doveva «tenerlo lontano dalla zona. Offrirgli un giro in
elicottero, qualsiasi cosa, pur di toglierselo dai piedi». Darke, molto
probabilmente, obbedí. Nei primi mesi del 1964, inoltre, acquistò in un sol
colpo 300 azioni della Texas Gulf e un’opzione su altre 3000 azioni, e
aggiunse svariate persone, tra cui suo fratello, alla lista degli imbeccati. In
quel periodo Holyk e Clayton furono meno attivi sul versante finanziario,
tuttavia incrementarono massicciamente i loro portafogli di azioni della
Texas Gulf; nel caso di Holyk e di sua moglie, ciò avvenne soprattutto
mediante il ricorso alle opzioni call, diavoleria pressoché sconosciuta fino a
poco prima, ma che tutt’a un tratto sembrava essere in gran voga negli
ambienti della Texas Gulf.
Ai primi segni del risveglio primaverile, il programma di acquisizione
dei terreni da parte della Texas Gulf si concluse con un trionfo. Mancavano
quattro giorni alla fine di marzo, ma ormai la società aveva tutto ciò che le
serviva, ovvero i diritti incontestabili o i diritti di sfruttamento minerario
sugli altri tre quadranti di Kidd-55, con la sola eccezione di alcune
concessioni al 10 per cento dei profitti su parte dei due quadranti. Una di
queste, in particolare, apparteneva alla Curtis Publishing Company. Dopo
un’ultima ondata di acquisti da parte di Darke e degli imbeccati di ogni
ordine e grado (600 azioni in tutto, piú varie opzioni per altre 5100,
acquisite dai vari membri del gruppo fra il 30 e il 31 marzo) ebbero
nuovamente inizio, questa volta alla presenza di Holyk e di Darke, le
perforazioni del suolo paludoso e ancora gelato di Kidd-55. Il nuovo
carotaggio – il terzo in assoluto, ma solo il secondo concretamente
operativo, poiché dei due effettuati a novembre uno era un semplice
diversivo – iniziò a qualche metro dal primo, e con un’angolazione obliqua
che avrebbe dovuto accelerare il processo di mappatura del sottosuolo.
Mentre nel freddo ancora pungente guardava la carota uscire dal terreno e
cercava di registrare le sue osservazioni, Holyk si sarà certamente sentito
riscaldare il cuore alla vista delle prime, promettenti mineralizzazioni a una
trentina di metri dalla superficie. Il primo di aprile Holyk telefonò a Fogarty
per aggiornarlo sulla situazione. Erano giornate faticose, a Kidd-55. Il
personale addetto alla trivellazione non abbandonava mai il sito, ma i
geologi, dovendo informare costantemente i loro superiori a New York,
erano costretti a fare la spola tra il cantiere minerario e l’abitato di
Timmins, e per via degli alti cumuli di neve portata dal vento, che in alcuni
tratti superavano i due metri, ci volevano mediamente dalle tre ore e mezzo
alle quattro ore per coprire quei 24 chilometri. Una dopo l’altra, nuove
trivellazioni ebbero inizio nelle zone adiacenti all’anomalia, tutte con
diversi angoli di inclinazione. All’inizio la carenza di acqua costringeva i
trivellatori a usare un solo macchinario alla volta: poiché il terreno era
gelato e coperto da uno spesso strato di neve, l’acqua necessaria al
funzionamento delle trivelle doveva essere prelevata con le pompe dal
fondo di un laghetto ghiacciato a circa 800 metri di distanza. Il 7 aprile fu
completato il terzo carotaggio, e subito dopo se ne avviò un quarto con la
stessa trivella; il giorno successivo la disponibilità di acqua aumentò un
poco, e si decise di utilizzare un secondo macchinario per una nuova
trivellazione; due giorni dopo – il 10 aprile – si mise all’opera una terza
trivella. In sostanza, i primi giorni di aprile furono piuttosto intensi per i
principali protagonisti della vicenda: di conseguenza, gli acquisti di opzioni
call sulle azioni Texas Gulf subirono una battuta d’arresto.
Pezzo per pezzo, i carotaggi tracciavano le coordinate di un immenso
deposito di minerali: il terzo buco nel terreno rivelò che la prima
trivellazione non aveva seguito, come si temeva, l’inclinazione della vena;
il quarto accertò che la vena era sufficientemente profonda, e cosí via. A un
certo punto – e su quale sia stato esattamente quel punto si è discusso a
lungo – la Texas Gulf si rese conto di avere messo le mani su un giacimento
di dimensioni ragguardevoli; da quel momento il centro dell’azione si
spostò dai geologi e dai trivellatori ai funzionari e ai finanzieri che di lí a
poco si sarebbero attirati il biasimo della Sec. Per tutto l’8 aprile e gran
parte del giorno successivo Timmins rimase sepolta sotto una nevicata cosí
abbondante che neppure i geologi riuscirono a raggiungere il cantiere di
prospezione; ma verso la sera del 9 aprile, quando arrivarono finalmente a
Kidd-55 dopo un viaggio allucinante di sette ore e mezzo, con loro c’era
niente di meno che il vicepresidente Mollison in persona, giunto a Timmins
il giorno precedente. Il vicepresidente della Texas Gulf passò la notte in
cantiere e ripartí verso mezzogiorno del 10 per sottrarsi – cosí avrebbe
spiegato in seguito – al pranzo servito alle vigorose maestranze di Kidd-55,
troppo abbondante, diceva, per un sedentario come lui. Prima di partire,
Mollison diede istruzioni affinché si prelevasse un campione di terreno con
l’aiuto di una fresatrice: la carota cosí ottenuta sarebbe stata relativamente
piú grande, e perciò utile a determinare la lavorabilità dei minerali in base
ai processi standard. Di solito le fresatrici entrano in gioco soltanto quando
si è certi di aver trovato un giacimento coltivabile: cosí è stato,
probabilmente, anche in quel caso. La tesi sostenuta dai due consulenti della
Sec, contro l’opinione opposta dei periti della difesa, era che quando
Mollison impartí quell’ordine la Texas Gulf fosse già in possesso di
informazioni sufficienti a stabilire che le riserve di minerali nel sottosuolo
di Kidd-55 avevano un valore lordo di almeno 200 milioni di dollari.
Il famoso tam tam dei minatori canadesi, nel frattempo, stava già
spargendo la notizia ai quattro venti, e se si considera la vicenda in
retrospettiva la cosa davvero strana è che avesse atteso fino a quel momento
prima di farlo. («Ho visto dei trivellatori, – raccontava un broker nei giorni
del processo, – mollare tutto l’armamentario e correre piú in fretta che
potevano negli uffici di una qualsiasi società di intermediazione [oppure]
attaccarsi al telefono e chiamare Toronto». Da quel momento in poi –
seguitava il broker – il prestigio di ogni spacciatore di azioni di Toronto
dipende per un certo periodo dalla sua dimestichezza con il trivellatore che
ha centrato il giacimento, proprio come alle corse dei cavalli il rango di
ogni allibratore si misura in base alla sua intimità con un certo fantino o
cavallo). «Voci di corridoio sostengono che la Texas Gulf abbia
intensificato le proprie attività nel distretto amministrativo di Kidd.
Un’intera batteria di trivelle sarebbe già al lavoro», annunciava
l’autorevolissimo «The Northern Miner» di Toronto il 9 di aprile; quello
stesso giorno, il «Daily Star» dichiarava che tutta Timmins aveva «gli occhi
fuori dalle orbite per l’emozione», e che «a ogni angolo di strada, in ogni
bottega di barbiere, la parola del giorno è “Texas Gulf”». Nella sede
centrale della società i telefoni squillavano senza sosta, ma gli spietati
responsabili si rifiutavano di fornire dettagli. Il 10 aprile il presidente
Stephens, preoccupato per il diffondersi delle voci, chiese consiglio a uno
dei suoi soci piú fidati: Thomas S. Lamont, membro anziano del consiglio
di amministrazione, ex socio di seconda generazione della banca J. P.
Morgan, detentore di svariati e ragguardevoli incarichi all’interno della
Morgan Guaranty Trust Company e portatore di un cognome quanto mai
prestigioso in quel di Wall Street. Stephens raccontò a Lamont quel che era
successo a nord di Timmins (Lamont era ancora all’oscuro), disse
chiaramente che a suo giudizio non c’era nulla per cui valesse la pena di
strabuzzare gli occhi, e chiese come si dovesse rispondere a quella
montatura giornalistica. Finché le voci fossero circolate soltanto sulla
stampa canadese sarebbe stato possibile «farsene una ragione», disse
Lamont. Ma se la notizia fosse arrivata ai giornali statunitensi sarebbe stato
meglio diffondere un comunicato che ristabilisse la verità e scongiurasse
eventuali turbolenze dei mercati azionari.
Il giorno successivo, sabato 11 aprile, la notizia fece un ingresso
trionfale nelle redazioni dei quotidiani statunitensi. Il «New York Times» e
l’«Herald Tribune» ripercorsero le fasi della scoperta, che venne descritta
sulla prima pagina dell’«Herald» come «il piú clamoroso ritrovamento nel
sottosuolo canadese dai tempi della corsa all’oro del Klondike, piú di
sessant’anni fa». Dopo aver letto quegli articoli, Stephens (che
verosimilmente avrà avuto gli occhi un po’ fuori dalle orbite) fece presente
a Fogarty che l’annuncio per la stampa doveva essere pronto in tempo per
uscire sui giornali di lunedí: Fogarty, aiutato da un nutrito gruppo di
colleghi, dedicò il weekend alla stesura del comunicato. Intanto a Kidd-55
non si batteva certo la fiacca, anzi: come risultò in seguito da alcune
testimonianze, tra sabato e domenica emersero dal sottosuolo altri carotaggi
con un elevato tenore di rame e zinco. Il valore calcolabile della miniera
cresceva quasi di ora in ora. Tuttavia, poiché Fogarty non aveva piú
ricevuto notizie da Timmins, il comunicato stampa che lui e i suoi colleghi
diffusero nel pomeriggio di domenica non teneva conto degli ultimissimi
dati. Per questa o per qualche altra ragione, il testo non dava la sensazione
che la Texas Gulf avesse trovato un nuovo Eldorado; al contrario, dopo aver
bollato come eccessive e inaffidabili le voci in circolazione, si limitava ad
ammettere che alcune recenti prospezioni in «un appezzamento nei pressi di
Timmins» avevano indotto l’azienda a «stabilire in via preliminare che una
valutazione accurata delle opportunità avrebbe richiesto ulteriori
accertamenti». Nelle righe successive si affermava inoltre che «i carotaggi
sinora effettuati non hanno dato risultati decisivi»; ovvero, tanto per
ribadire lo stesso concetto in altri termini, «le operazioni condotte sino a
questo momento non sono state sufficienti per trarre conclusioni definitive».
È probabile che questa versione attenuata – o per meglio dire azzerata –
della notizia abbia fatto colpo sui lettori dei quotidiani di lunedí mattina,
poiché nei primi giorni della settimana l’andamento delle azioni Texas Gulf
fu assai meno brillante di quanto ci si sarebbe aspettato se gli entusiastici
annunci del «Times» e dell’«Herald Tribune» non fossero stati cosí
recisamente smentiti. Quotato 17-18 dollari per azione a fine novembre, il
titolo Texas Gulf era costantemente salito fino a raggiungere i 30 dollari;
ma quel lunedí, dopo aver aperto a quota 32 – in aumento di quasi due punti
rispetto alla chiusura della settimana precedente – aveva cambiato
bruscamente direzione, scendendo a 30 7/8 prima ancora della chiusura. Nei
due giorni successivi continuò a scivolare in basso, fino a toccare, nella
giornata di mercoledí, un minimo di 28 7/8. Ormai non c’era dubbio che
investitori e intermediari fossero stati suggestionati dal tono dimesso del
comunicato stampa. Eppure in quegli stessi tre giorni, sia nella sede centrale
di New York, sia in Canada, gli uomini della Texas Gulf erano di umore ben
diverso. Lunedí 13, giorno della pubblicazione del comunicato stampa, si
terminò il carotaggio con la fresatrice; intanto, mentre le altre trivelle
continuavano a sondare tre diversi punti del terreno, Mollison, Holyk e
Darke mostravano il sito a un giornalista di «The Northern Miner». Lette a
posteriori, le dichiarazioni che i tre uomini della Texas Gulf rilasciarono al
giornalista dimostrano in tutta evidenza che, comunque la pensassero gli
estensori del comunicato stampa, al sito Kidd-55 tutti erano convinti di aver
trovato una miniera, e anche bella grossa. Ma il mondo non avrebbe
appreso la notizia fino al giovedí successivo, quando il nuovo numero di
«The Northern Miner» sarebbe arrivato nelle edicole e nelle cassette postali
degli abbonati.
Martedí mattina Mollison e Holyk partirono alla volta di Montréal per
partecipare al congresso dell’Istituto canadese per le miniere e la
metallurgia, un appuntamento annuale al quale prendono parte svariate
centinaia di esperti e investitori. Appena misero piede nell’hotel Queen
Elizabeth, dove intanto il congresso era iniziato, ricevettero un’accoglienza
degna di due star di Hollywood. Evidentemente le notizie sulla scoperta
della Texas Gulf erano già trapelate, e ora tutti volevano sapere con
precisione cosa bolliva in pentola; c’era persino una batteria di telecamere
pronta a raccogliere eventuali dichiarazioni dei due eroi di Timmins. Non
essendo autorizzati a rendere alcuna dichiarazione, Mollison e Holyk fecero
un rapido dietrofront e scapparono a gambe levate dal Queen Elizabeth,
rintanandosi per la notte in un motel nei pressi dell’aeroporto. Il giorno
successivo, mercoledí 15, lasciarono Montréal e si trasferirono a Toronto
con lo stesso aereo su cui, come da accordi stabiliti in precedenza,
viaggiavano anche il ministro e il viceministro delle Miniere della provincia
dell’Ontario. Informato di quanto stava accadendo a Kidd-55, il ministro
decise di rilasciare il piú presto possibile una dichiarazione che facesse
chiarezza, e, con l’aiuto di Mollison, stese una prima bozza dell’annuncio.
Secondo la minuta conservata da Mollison, il testo della dichiarazione
affermava, tra l’altro, che «stando alle informazioni al momento disponibili
[…] la Texas Gulf Sulphur si ritiene abbastanza fiduciosa da consentirmi di
annunciare la scoperta di una massa sfruttabile con un alto contenuto in
minerali di zinco, rame e argento, che sarà messa in produzione il piú presto
possibile». Mollison e Holyk erano convinti che il ministro avrebbe letto la
dichiarazione alle undici di quella sera stessa, ai microfoni delle principali
stazioni radio e tivú: quindi la buona notizia sarebbe diventata di pubblico
dominio poche ore prima che il nuovo numero di «The Northern Miner»
fosse messo in circolazione. Per ragioni mai rese note, tuttavia, il ministro
non fece l’annuncio.
Intanto al quartier generale della Texas Gulf, al 200 di Park Avenue,
c’era aria di crisi imminente. Nella giornata di lunedí Stephens aveva
ricevuto una chiamata da un collega di Houston, Francis G. Coates: questi,
non sapendo di Kidd-55, voleva chiedere se fosse il caso di affrontare il
lungo viaggio dal Texas a New York per la consueta riunione mensile del
consiglio di amministrazione. Stephens gli disse di venire, ma senza
aggiungere altro. Poiché le notizie dal cantiere di prospezione erano sempre
piú incoraggianti, mercoledí i dirigenti decisero di preparare un secondo
comunicato da leggere durante la conferenza stampa che si sarebbe tenuta
l’indomani, subito dopo la riunione del consiglio di amministrazione. Quel
pomeriggio stesso Stephens, Fogarty e David M. Crawford, segretario della
società, stesero un bollettino basato sulle ultimissime informazioni e redatto
in un linguaggio opportunamente privo di reticenze e ripetizioni. «La Texas
Gulf Sulphur Company, – recitava l’annuncio, – ha individuato un ricco
giacimento di zinco, rame e argento nella zona di Timmins […] Alcune
trivellazioni già completate indicano un corpo minerale di una lunghezza
approssimativa non inferiore ai 240 metri per 91 di ampiezza, con una
profondità di circa 250 metri. Si tratta di una scoperta importante. In base ai
dati preliminari, le riserve di minerale ammonterebbero a piú di 25 milioni
di tonnellate». Quanto all’enorme differenza di tono rispetto al testo diffuso
solo tre giorni prima, il nuovo comunicato faceva presente che nel
frattempo «la quantità di dati a disposizione si era molto incrementata».
Affermazione peraltro innegabile; e se la riserva di minerali era superiore ai
25 milioni di tonnellate, il valore complessivo del giacimento non era di
200 milioni di dollari come ipotizzato la settimana precedente, ma di gran
lunga superiore.
In quelle febbrili giornate newyorchesi, l’ingegner Clayton e il segretario
Crawford trovarono comunque il tempo di chiamare i loro broker e pregarli
di acquistare un po’ di azioni della Texas Gulf: 200 per Clayton, 300 per
Crawford. Di lí a poco Crawford decise che bisognava osare di piú, e dopo
una notte probabilmente insonne al Park Lane Hotel, nelle prime ore del
mattino successivo svegliò il suo broker e chiese di raddoppiare il
quantitativo.

Giovedí mattina, finalmente, le prime notizie ufficiali del ritrovamento di


solfuri a Timmins si diffusero in fretta, per quanto a macchia di leopardo,
negli ambienti finanziari nordamericani. Tra le sette e le otto del mattino,
fattorini e giornalai di Toronto cominciarono a distribuire il numero di «The
Northern Miner» che conteneva l’articolo su Kidd-55. Il giacimento era
descritto con una prosa che faceva ampio ricorso al gergo minerario, senza
tuttavia disdegnare espressioni piú comprensibili ai comuni mortali quali
«un eccellente risultato esplorativo» o «una nuova, grande miniera di zinco,
rame e argento». Piú o meno alla stessa ora il «Miner» varcava il confine
degli Stati Uniti ed entrava nelle case degli abbonati di Detroit e di Buffalo;
tra le nove e le dieci del mattino, un altro centinaio di copie giunse nelle
edicole di New York; in questo caso, però, la comparsa fisica del
settimanale fu preceduta da una serie di resoconti telefonici del suo
contenuto, sicché alle nove e un quarto la notizia che la Texas Gulf avesse
fatto un colpaccio era già sulla bocca di tutti i broker. In seguito un
funzionario della società di intermediazione E. F. Hutton & Company
addetto ai rapporti con la clientela si sarebbe lamentato perché i suoi
colleghi broker, ansiosi di commentare la grande notizia al telefono, gli
avevano letteralmente impedito di parlare con i suoi clienti: gli unici due
che era riuscito a chiamare, una coppia di coniugi, avevano messo a segno
un ottimo colpo in brevissimo tempo grazie alla Texas Gulf. («È evidente
che abbiamo sbagliato mestiere», commentò il giudice Bonsal quando
venne a sapere che i due clienti in questione avevano guadagnato la
bellezza di 10 500 dollari in meno di un’ora. Ovvero, come disse una volta
in tutt’altro contesto il regista di opere liriche Wieland Wagner: «Non
giriamoci intorno: il Walhalla è Wall Street»). Altrove, nei locali della borsa
valori, i broker che si erano ritrovati prima delle dieci per la solita colazione
al Luncheon Club stavano già masticando uova strapazzate e Texas Gulf.
Frattanto, al numero 200 di Park Avenue, la riunione del consiglio di
amministrazione era iniziata alle nove precise: dopo una breve lettura del
nuovo comunicato che stava per essere rilasciato agli organi di stampa,
Fogarty, Holyk e Mollison presero la parola in qualità di rappresentanti
della squadra di prospezione per illustrare i dettagli della loro scoperta.
Stephens informò i presenti che mercoledí sera il ministro delle Miniere
dell’Ontario aveva già reso pubblico il ritrovamento (notizia inesatta,
benché non consapevolmente falsa; in realtà il ministro si trovava nella sala
stampa del parlamento dell’Ontario piú o meno negli stessi minuti in cui
Stephens si rivolgeva ai suoi colleghi del consiglio di amministrazione). La
riunione terminò alle dieci, e subito dopo un drappello di giornalisti –
ventidue, in rappresentanza delle principali testate giornalistiche degli Stati
Uniti e di alcune pubblicazioni finanziarie – venne ammesso nella sala
riunioni per la conferenza stampa, alla presenza dell’intero consiglio di
amministrazione della Texas Gulf. Stephens distribuí ai reporter alcune
copie del comunicato stampa, dopodiché, in omaggio al bizzarro rituale che
governa quel genere di cerimonie, lo lesse ad alta voce. Mentre il presidente
della Texas Gulf era impegnato nella pleonastica declamazione, alcuni
giornalisti cominciarono a uscire dalla sala («se la sono svignata alla
chetichella», avrebbe raccontato in seguito Lamont) per telefonare la notizia
alle rispettive redazioni; altri ancora sgattaiolarono fuori nelle fasi
successive dell’evento – consistenti nella proiezione di alcune innocenti
diapositive a colori delle campagne intorno a Timmins e nella descrizione
di alcuni carotaggi da parte di Holyk – sicché alla conclusione ufficiale
della conferenza, intorno alle dieci e un quarto, non restava che una
manciata di giornalisti. Questo però non significava che la conferenza
stampa fosse stata un fiasco; anzi, dimostrava esattamente l’opposto,
giacché una conferenza stampa è l’unico genere di spettacolo il cui successo
è direttamente proporzionale al numero di persone che se ne vanno prima
della fine.
Fu nei trenta minuti successivi alla fine dell’evento che due membri del
consiglio di amministrazione della Texas Gulf – Francis Coates e Thomas
Lamont – portarono a termine le azioni che avrebbero sostanziato la parte
piú controversa della querela della Sec; e poiché la sentenza ha già fatto
giurisprudenza, è quasi certo che quelle azioni saranno oggetto di studio per
almeno una generazione di divulgatori di informazioni riservate, ansiosi di
capire come salvarsi o quanto meno evitare una condanna. La sostanza della
controversia riguardava il tempo, e precisamente la relazione temporale tra
le manovre di Coates e Lamont e la diffusione delle notizie sulla Texas Gulf
da parte del bollettino Dow Jones, consueta fonte di informazioni per
chiunque operi in borsa. Sono ben poche le agenzie di investimenti
statunitensi che non si avvalgono del servizio, e tale è il prestigio della Dow
Jones che in certi ambienti finanziari il momento in cui una notizia diventa
pubblica viene fatto coincidere con l’ora in cui viene riportata sul famoso
broad tape. La mattina del 16 aprile 1964 la Dow Jones era in effetti
presente alla conferenza stampa nella persona di un suo inviato, e
quell’inviato era uscito prima della fine per telefonare la notizia in
redazione. In seguito il corrispondente della Dow Jones dichiarò di aver
fatto la sua chiamata tra le 10.10 e le 10.15. Di norma una notizia di quel
calibro ci mette non piú di due o tre minuti a raggiungere le telescriventi
collocate negli uffici di tutto il continente, ma in quel caso l’informazione
relativa alla Texas Gulf apparve soltanto alle 10.54, con un inesplicabile
ritardo di circa quaranta minuti rispetto alla telefonata del corrispondente. Il
dibattimento processuale non ha chiarito né questo mistero, né i motivi
della tardiva comunicazione della notizia da parte del ministro delle
Miniere: a ben vedere, se c’è un aspetto affascinante del nostro regime
probatorio è proprio questa sua tendenza a lasciare certe cose
all’immaginazione.
Francis Coates, il dirigente texano, fu il primo a mettere in atto una serie
di comportamenti di cui non poteva immaginare, in quel momento, la
rilevanza storica. Prima ancora della fine della conferenza stampa, o forse
subito dopo, Coates entrò in un ufficio adiacente la sala riunioni, si fece
dare un telefono e chiamò suo genero, H. Fred Haemisegger, che faceva il
mediatore di borsa a Houston. Come dichiarato in seguito, Coates parlò al
suo interlocutore della nuova scoperta della Texas Gulf, precisando che
aveva avuto cura di dargli la notizia «dopo l’annuncio ufficiale», perché era
«troppo vecchio per mettersi nei guai con la Sec». Dopodiché Coates ordinò
a Haemisegger di acquistare 2000 azioni Texas Gulf per conto di quattro
fondi fiduciari familiari di cui era amministratore, ma non beneficiario
diretto. Il titolo Texas Gulf aveva aperto una ventina di minuti prima appena
sopra i 30 dollari, con scambi molto vivaci ma non particolarmente orientati
al rialzo. Ora invece stava cominciando a impennarsi, ma Haemisegger fu
pronto ad agire: trasmise l’ordine al broker della sua società molto prima
che le telescriventi diffondessero, con il misterioso ritardo di cui si è già
detto, la notizia della nuova miniera. In questo modo riuscí ad acquistare le
2000 azioni richieste a un prezzo compreso fra 31 e 31 5/8.
Piú fedele alla scuola speculativa di Wall Street che non a quella texana,
Thomas Lamont agí con determinazione temperata da una flemma elegante
e quasi languida. Alla fine della conferenza stampa, invece di uscire in tutta
fretta dalla sala riunioni vi si attardò per una ventina di minuti.
«Gironzolavo qua e là […] e intanto ascoltavo i discorsi dei miei colleghi, e
li vedevo darsi grandi pacche sulle spalle», avrebbe riferito in seguito. Alle
10.39, poi, o forse un minuto piú tardi, Lamont entrò in un ufficio adiacente
e chiamò al telefono un suo collega e amico che lavorava alla Morgan
Guaranty Trust Company: si trattava di Longstreet Hinton, vicepresidente
esecutivo della banca e capo della sezione fondi fiduciari. Qualche giorno
prima Hinton aveva chiesto a Lamont di fare chiarezza sulle voci di un
nuovo ritrovamento di minerali, ma quest’ultimo non era stato in grado di
accontentarlo. E invece ora era proprio Lamont a chiamare Hinton per dirgli
che «erano uscite, o sarebbero uscite a breve, delle notizie interessanti sulla
Texas Gulf Sulphur». «Buone notizie?» chiese Hinton; «Abbastanza
buone», o «Decisamente buone», rispose Lamont. (Nessuno dei due ricorda
esattamente quale fosse l’avverbio, ma la questione è irrilevante, perché nel
gergo dei banchieri newyorchesi «abbastanza buono» significa
«decisamente buono»). In ogni caso, Hinton non seguí il consiglio di tenere
d’occhio le telescriventi, pur avendone a disposizione una nelle immediate
vicinanze del suo ufficio; decise invece di chiamare l’ufficio
intermediazione per farsi dare ragguagli sull’attuale quotazione di mercato
del titolo Texas Gulf. Ottenute le informazioni richieste, ordinò di
acquistare 3000 azioni per conto del Nassau Hospital, di cui era tesoriere.
Tutto ciò avvenne in non piú di due minuti, a partire dal momento in cui
Lamont era uscito dalla sala conferenze. Dunque l’ordine fu trasmesso alla
borsa ed eseguito prima ancora che le telescriventi della Dow Jones
battessero la notizia del ritrovamento; ma come sappiamo, Hinton non era
andato a controllare le telescriventi: aveva ben altro da fare. Una volta
piazzato l’ordine per conto del Nassau Hospital, infatti, andò nell’ufficio del
suo collega che si occupava di fondi pensione e gli suggerí di comprare un
po’ di azioni Texas Gulf: in meno di mezz’ora la Morgan Guaranty ne
aveva ordinate ben 7000 per il proprio fondo pensione e per il piano di
compartecipazione agli utili. Di queste, 2000 erano state acquistate prima
che il nastro Dow Jones trasmettesse la notizia; le restanti 5000 nel
momento stesso, o pochi istanti piú tardi. Circa un’ora dopo – alle 12.33 –
Lamont comprò altre 3000 azioni per sé e per i suoi familiari al prezzo di
34,5 dollari. Evidentemente il titolo stava prendendo quota, e cosí avrebbe
continuato a fare per giorni, mesi, addirittura anni. Quel pomeriggio chiuse
a 36 3/8; prima della fine del mese avrebbe raggiunto i 58 3/8, per poi
tagliare il traguardo dei 100 dollari negli ultimi mesi del 1966, quando
ormai la miniera era entrata nella fase di sfruttamento commerciale e gli
esperti prevedevano di estrarre dal suo sottosuolo un decimo di tutto il rame
e un quarto di tutto lo zinco prodotti annualmente in Canada. In sostanza,
chiunque avesse acquistato azioni della Texas Gulf tra il 12 novembre del
1963 e la mattinata (oppure la pausa pranzo) del 16 aprile 1964 aveva
quanto meno triplicato il valore dell’investimento.

L’aspetto piú sconcertante del processo Texas Gulf – a parte l’esistenza


stessa di quel processo – era la spiccata difformità degli imputati che si
presentarono al cospetto del giudice Bonsal: un focoso cercatore di minerali
come Clayton (gallese purosangue, laureato in Ingegneria mineraria
all’università di Cardiff), due superdirigenti energici e tormentati come
Fogarty e Stevens, un affarista texano (Coates) e un raffinato bramino della
finanza (Lamont). (Kenneth Darke, licenziatosi dalla Texas Gulf subito
dopo i fatti dell’aprile 1964 per seguire i propri investimenti – cosa che
potrebbe denotare l’acquisizione di una rendita sufficiente a vivere senza
lavorare – si rifiutò di partecipare al processo sostenendo che, in quanto
cittadino canadese, non era obbligato a comparire al cospetto di una corte
statunitense; la Sec protestò a gran voce, ma il collegio di difesa insinuò
stizzito che in realtà la Sec fosse ben felice dell’assenza di Darke, poiché
questo permetteva ai suoi avvocati di dipingerlo come una specie di
Mefistofele nascosto dietro le quinte). La Sec, come dichiarò l’avvocato
Frank E. Kennamer Jr, era determinata a «svelare e mettere alla berlina la
cattiva condotta degli imputati»; pertanto chiese alla corte di emettere
un’ingiunzione permanente che vietasse a Fogarty, Mollison, Clayton,
Holyk, Darke, Crawford e molti altri dipendenti della Texas Gulf che tra l’8
novembre del 1963 e il 15 aprile del 1964 avevano acquistato azioni o
opzioni call, di «compiere qualsiasi azione […] che costituisca o possa
costituire atto fraudolento o ingannevole in relazione all’acquisto o alla
vendita di titoli azionari». Inoltre – e questa era la parte davvero innovativa
– la Sec chiese che la corte obbligasse gli imputati a risarcire le vittime
della frode, cioè le persone da cui gli accusati avevano acquistato azioni o
opzioni avvalendosi delle informazioni riservate in loro possesso. Il
querelante sosteneva inoltre che il comunicato stampa dai toni sfiduciati
emesso il giorno 12 aprile fosse volutamente ingannevole, e chiedeva
pertanto che la Texas Gulf fosse diffidata dal «fare dichiarazioni che
affermino il falso in relazione a circostanze materiali, ovvero occultino
dette circostanze». A parte l’ovvia mortificazione dell’immagine pubblica
della Texas Gulf, il nocciolo della questione stava nel fatto che una richiesta
del genere, se accolta, avrebbe spianato la strada a una lunga serie di azioni
legali ai danni della società, da parte di qualsiasi azionista avesse venduto a
chiunque le sue azioni Texas Gulf nell’intervallo di tempo compreso tra il
primo e il secondo comunicato stampa; e poiché le azioni passate di mano
in quel periodo erano milioni, non c’era dubbio che la questione avesse un
nocciolo piuttosto duro.
Lasciando da parte gli aridi tecnicismi legali, l’argomentazione
principale degli avvocati della difesa fu che, stando ai dati ricavabili dalla
prima trivellazione effettuata a novembre, la probabilità che il sottosuolo di
Kidd-55 nascondesse una miniera coltivabile non era affatto certa, ma solo
ragionevolmente possibile. A sostegno di quella tesi difensiva, la Texas
Gulf fece sfilare davanti alla cattedra del giudice un plotone di esperti che
resero opportune testimonianze sulla conclamata inaffidabilità delle prime
trivellazioni: alcuni di essi si spinsero al punto di dichiarare che quel primo
carotaggio avrebbe potuto avere conseguenze non positive bensí negative
sulle sorti della Texas Gulf. Le persone che nell’inverno del 1963 avevano
acquistato titoli o opzioni della società dichiararono che l’esito delle
trivellazioni aveva nulla o ben poco a che vedere con la loro decisione, la
quale era scaturita dalla mera impressione che le azioni Texas Gulf fossero
un buon investimento in quella particolare congiuntura; quanto a Clayton, la
sua improvvisa comparsa nel ruolo di grande investitore in azioni Texas
Gulf fu attribuita al recente matrimonio con una signora alquanto facoltosa.
La Sec restituí il colpo con una propria sfilata di esperti, i quali dissero che
le caratteristiche del materiale ricavato dal primo carotaggio erano tali da
rendere estremamente probabile la presenza di un ricco giacimento, e che
pertanto i dipendenti della società che conoscevano quelle caratteristiche
erano al corrente di un fatto sostanziale. In un documento pubblicato dopo
la conclusione del processo, la Sec riformulò il concetto con parole piú
pungenti: «Affermare che gli imputati avevano il diritto di acquistare azioni
Texas Gulf finché l’esistenza del giacimento non fosse stata accertata al di
là di ogni dubbio sarebbe come dire che non è affatto sleale scommettere su
un cavallo sapendo che gli sono stati somministrati degli stimolanti illeciti,
perché c’è sempre la possibilità che ci resti secco in dirittura d’arrivo». Il
collegio di difesa si rifiutò di farsi trascinare in una discussione su
quell’equina similitudine. In relazione al mogio comunicato stampa del 12
aprile, la Sec ribadí piú volte che Fogarty, principale autore di quel testo, si
era basato su informazioni che al momento della divulgazione erano
vecchie di quasi due giorni, a dispetto del fatto che in quella fase della
vicenda le comunicazioni tra il settore Kidd-55, Timmins e New York
fossero relativamente agevoli. «A voler essere molto benevoli, – argomentò
la Sec, – la bizzarra condotta del dottor Fogarty potrebbe dimostrare che
l’idea di fornire all’opinione pubblica e agli azionisti della Texas Gulf una
notizia scoraggiante, basata su informazioni obsolete, lo lasciava del tutto
indifferente». Lasciando da parte il problema dell’obsolescenza, la difesa
ribatté che il comunicato stampa «rispecchiava accuratamente lo stato delle
prospezioni secondo l’opinione di Stephens, Fogarty, Mollison, Holyk e
Clayton», e che «era chiaramente una questione di punti di vista»; in ogni
caso la situazione era quanto mai difficile e delicata, al punto che persino
l’eventuale diffusione di un comunicato troppo ottimistico, tale da
alimentare speranze che potevano rivelarsi fallaci, avrebbe esposto la Texas
Gulf all’accusa di frode.
Dopo aver riflettuto sul problema cruciale della «sostanzialità» delle
informazioni desunte dal primo carotaggio, il giudice Bonsal stabilí che in
circostanze simili la definizione di fatto sostanziale debba essere improntata
a una certa prudenza. La posta in gioco, affermò il giudice, era infatti di
natura politica: «In un sistema economico basato sulla libertà di impresa, è
importante che i membri di un’azienda – dirigenti, funzionari o semplici
dipendenti – siano propensi ad acquistare titoli azionari della loro società,
giacché i benefici connessi all’azionariato tornano a vantaggio sia della
società, sia degli azionisti». In base al suddetto criterio prudenziale, il
giudice decise quindi che fino alla sera del 9 aprile, cioè fino al momento in
cui le tre perforazioni convergenti avevano stabilito senza ombra di dubbio
la tridimensionalità dei depositi di minerale, nessuna delle parti in causa era
in possesso di dati sostanziali: prima di quella data, dunque, la decisione di
acquistare le azioni della Texas Gulf, per quanto basata sull’analisi dei
campioni di roccia, poteva considerarsi semplice effetto di «ipotesi
fondate», e come tale era perfettamente legittima. (Un giornalista in
disaccordo con le conclusioni del giudice avrebbe poi commentato che
quelle ipotesi erano talmente fondate da sembrare piantate nella roccia con
una perforatrice). Nel caso di Darke, il giudice stabilí che le numerose
operazioni di acquisto effettuate dalle due imbeccate e dagli imbeccati di
grado inferiore erano il risultato pratico delle confidenze di Darke sulle
nuove perforazioni che avrebbero avuto luogo a Kidd-55; ma anche in quel
caso, secondo la logica del giudice Bonsal, non c’erano ancora dati
sostanziali che potessero essere comunicati ad altri o tramutati in azioni
concrete.
In conseguenza di ciò, le accuse a carico di tutti i «fondati ipotizzatori»
che avevano acquistato o consigliato l’acquisto di azioni prima della sera
del 9 aprile furono archiviate. Ma nel caso di Clayton e di Crawford, che
erano stati cosí sconsiderati da acquistare o prenotare azioni della Texas
Gulf in data 15 aprile, il trattamento fu diverso. Il giudice non trovò indizi
certi di volontà fraudolenta, tuttavia era innegabile che le loro operazioni di
acquisto fossero state effettuate nella piena consapevolezza che sotto Kidd-
55 c’era un grosso giacimento e che la notizia sarebbe stata annunciata
ufficialmente il giorno successivo: in altri termini, Clayton e Crawford
erano in possesso di dati confidenziali di natura sostanziale. Perciò, in
quanto colpevoli di violazione della norma 10B -5, rischiavano di essere
diffidati dal reiterare quel comportamento e obbligati a indennizzare le
persone da cui avevano acquistato le azioni, ammesso che fosse possibile
identificarle, cosa non sempre facile data la complessità delle transazioni di
borsa. Eppure le leggi dei nostri tempi conservano ancora – e sarebbe bello
se lo facessero anche in futuro – una forte impronta di umanesimo: ai loro
occhi le aziende sono costituite da persone e le borse valori sono mercati
rionali in cui venditori e acquirenti contrattano guardandosi negli occhi; e i
computer, va da sé, quasi non esistono.
Nella parte della sentenza relativa al comunicato stampa del 12 aprile, il
giudice affermò che il documento era «tetro» e «incompleto», ma gli
riconobbe l’intento meritorio di correggere le voci sfrenatamente
ottimistiche che circolavano da qualche tempo. A differenza di quanto
aveva sostenuto la Sec, il giudice sentenziò inoltre che il comunicato
stampa non era né falso, né fuorviante: quindi la Texas Gulf non aveva agito
di proposito per confondere i propri azionisti e l’opinione pubblica.

A quel punto del processo la Sec aveva riportato due sole vittorie e una
nutrita serie di smacchi, e ogni minatore americano conservava pressoché
intatto il diritto di gettare a terra gli attrezzi e correre nella prima agenzia di
intermediazione mobiliare, a condizione che il carotaggio cosí bruscamente
piantato in asso fosse il primo di una serie. Restava però da definire una
questione che, tra le tante sollevate dal processo, avrebbe potuto
ripercuotersi in misura rilevante non tanto sulle attività di prospezione delle
società minerarie quanto sulla condotta degli azionisti e degli agenti di
cambio, nonché sull’economia nazionale nella sua globalità. Si trattava in
sostanza di giudicare l’operato di Coates e Lamont nella giornata del 16
aprile, ovvero di stabilire con precisione quando, agli occhi della legge, una
certa informazione cessi di essere riservata per diventare di pubblico
dominio. Prima di allora la questione non era mai stata sottoposta a una
verifica cosí attenta, e dunque era chiaro che le conclusioni della giuria
avrebbero immediatamente assunto forza di legge, almeno finché non
fossero state soppiantate da un’altra, ancora piú specifica sentenza.
La Sec sosteneva che gli acquisti di azioni effettuati da Coates e i
circospetti consigli telefonici che Lamont aveva dato a Hinton costituissero
uso illegittimo di informazioni riservate, in quanto erano avvenuti prima
che il bollettino Dow Jones annunciasse il ritrovamento di ingenti risorse
minerarie: annuncio che i legali della Sec continuavano a definire
«ufficiale» anche se in realtà il prestigio dei servizi informativi forniti dalla
Dow Jones si fondava non sul beneplacito di un’autorità superiore ma
esclusivamente sulla consuetudine. E come se non bastasse, la Sec
sosteneva che le telefonate dei due dirigenti, se anche fossero state
effettuate dopo l’annuncio «ufficiale», avrebbero comunque conservato i
caratteri di improprietà e illegalità, a meno che il tempo intercorso tra
l’annuncio e i colloqui telefonici fosse stato sufficiente a permettere la
completa diffusione della notizia anche agli investitori che per loro sfortuna
non avessero assistito alla conferenza stampa o posato gli occhi sulle
telescriventi al momento giusto. Il collegio di difesa, ovviamente, era di ben
altro avviso. Quale che fosse stato l’ordine dei fatti, i loro clienti non
avevano alcuna colpa. In primo luogo Coates e Lamont avevano valide
ragioni per credere che la notizia fosse già stata diffusa, giacché durante la
riunione il presidente Stephens aveva dichiarato che il ministro delle
Miniere dell’Ontario aveva dato l’annuncio la sera precedente: quindi,
sosteneva la difesa, Coates e Lamont avevano agito in buona fede. In
secondo luogo, tenuto conto delle voci che circolavano negli uffici delle
società di intermediazione e dell’euforia che fin dalle prime ore del mattino
aveva animato la Borsa di New York, la notizia poteva dirsi a tutti gli effetti
già divulgata (in parte per osmosi, in parte grazie a «The Northern Miner»)
molto prima che le telescriventi la battessero e che gli imputati facessero le
famose telefonate. In ogni caso, gli avvocati di Lamont sostenevano che il
loro cliente avesse suggerito a Hinton non di comprare azioni Texas Gulf,
bensí di dare un’occhiata alle telescriventi e nulla piú: un consiglio
innocente, senza alcun legame con la successiva condotta di Hinton. In
sostanza, gli avvocati delle due parti in causa non concordavano né
sull’esistenza di un atto contrario alle regole, né sul contenuto delle regole
stesse. In effetti la difesa sosteneva che la Sec stesse cercando di indurre la
corte a scrivere nuove regole e ad applicarle retroattivamente, mentre il
querelante affermava di non pretendere altro fuorché l’applicazione in senso
ampio, nel pieno rispetto del fair play, di una regola già esistente (la norma
10B -5, per l’appunto). Nelle fasi finali del processo i difensori di Lamont,
decisi a tentare il tutto per tutto, organizzarono un colpo di scena e fecero
portare in aula una grande mappa degli Stati Uniti punteggiata di bandierine
colorate: azzurre, rosse, verdi, dorate, argentate. Ogni bandierina,
spiegarono gli avvocati, indicava una località in cui le notizie sulla Texas
Gulf si erano già propagate prima che Lamont facesse la famosa telefonata
e prima che i bollettini della Dow Jones annunciassero l’esistenza della
nuova miniera. Dalle risposte fornite alla corte venne fuori che tutte le
bandierine, tranne otto, corrispondevano a sedi della società di
intermediazione Merrill Lynch, Pierce, Fenner & Smith, il cui servizio di
telegrafo interno aveva comunicato la notizia alle 10.29. Appurata la
scarsissima ampiezza dell’ipotetica propagazione, la mappa perse un po’
del suo valore legale ma conservò inalterato il suo pregio estetico: «Non è
magnifica?» commentò il giudice Bonsal tra gli sguardi irritati degli uomini
della Sec. E quando un avvocato del collegio di difesa fece orgogliosamente
notare che avrebbero dovuto esserci piú bandierine, dato che un paio di
località non erano state evidenziate, il giudice scosse la testa con aria
perplessa e disse che no, non avrebbe funzionato: sulla mappa c’erano già
tutti i colori possibili.
La pignoleria di Lamont, che attese fino alle 12.33 – quasi due ore dopo
la telefonata a Hinton – prima di comprare azioni per sé e la sua famiglia,
non fece grande impressione sulla Sec: fu qui, anzi, che la Commissione
diede prova di particolare audacia, chiedendo al giudice di prendere una
decisione che tracciasse un sentiero duraturo nelle giungle legali del futuro.
Come è scritto nella memoria consegnata al giudice, «secondo il parere
della Commissione, le persone che hanno accesso alle informazioni
riservate dovrebbero, anche dopo la diffusione di una notizia da parte degli
organi di informazione, astenersi dall’effettuare transazioni fintantoché non
sia trascorso un intervallo di tempo ragionevole, al fine di permettere alle
società del settore mobiliare, agli azionisti e al pubblico degli investitori di
valutare gli sviluppi e prendere decisioni consapevoli riguardo ai loro
investimenti […] I detentori di informazioni riservate hanno dunque
l’obbligo di attendere fino al momento in cui sia ragionevole supporre che
l’informazione abbia raggiunto l’investitore medio disposto ad assecondare
le tendenze del mercato, e che quest’ultimo abbia avuto modo di valutarla».
Nel caso della Texas Gulf, la Sec riteneva che un intervallo di un’ora e 39
minuti non fosse sufficiente per una valutazione accurata: e la prova era che
a quell’ora lo stratosferico rialzo del titolo Texas Gulf era a malapena
iniziato. Di conseguenza, l’acquisto effettuato da Lamont alle 12.33
costituiva una violazione del Securities Exchange Act. Ma qual era,
secondo la Sec, un «intervallo di tempo ragionevole»? La risposta data
dall’avvocato Kennamer nella sua arringa finale fu «dipende». L’elemento
decisivo era la natura dell’informazione riservata: se per esempio si fosse
trattato di una riduzione dei dividendi, persino il piú tardo degli investitori
ci avrebbe messo poco a capire l’antifona; ma per una notizia insolita e
astrusa come quella relativa alla Texas Gulf potevano occorrere giorni, o
anche di piú. Era quasi impossibile, argomentò Kennamer, «definire un
insieme di regole rigide e applicabili in ogni situazione». In base ai canoni
della Sec, dunque, l’unico modo in cui un detentore di informazioni
riservate poteva accertarsi di aver atteso a sufficienza prima di acquistare le
azioni consisteva nel farsi trascinare in tribunale e vedere cosa ne pensava il
giudice.
Il collegio di difesa di Lamont, guidato da S. Hazard Gillespie, partí
all’attacco di questa tesi con un ardore quasi festoso, non dissimile da
quello che aveva contraddistinto la sortita cartografica. La Sec, disse
Gillespie, aveva esordito dicendo che la telefonata di Coates a Haemisegger
e quella di Lamont a Hinton erano illecite, perché avvenute prima
dell’annuncio sul bollettino Dow Jones; poi aveva sostenuto che anche il
successivo acquisto da parte di Lamont era illecito, perché era stato fatto
dopo l’annuncio ma non abbastanza dopo. Ma se entrambe le condotte, pur
apparentemente opposte, erano da considerarsi fraudolente, qual era la
condotta giusta? Forse la Sec voleva che le regole fossero definite
situazione per situazione: o meglio, voleva che fossero i tribunali a farlo.
Per dirla con lo stile piú formale dell’avvocato Gillespie, la Sec chiedeva
alla corte «di stabilire […] una norma in sede di giudizio e di applicarla
retroattivamente per sentenziare che Mr Lamont, avendo commesso
un’azione che egli, ragionevolmente, riteneva del tutto lecita, è in realtà
colpevole di frode».
In effetti non reggeva, concordò il giudice Bonsal: quanto a questo,
anche l’idea che (come sosteneva la Sec) la notizia fosse diventata pubblica
solo dopo essere stata trasmessa dal bollettino Dow Jones era inaccettabile.
Tenendo conto dei precedenti, il giudice optò per un criterio rigoroso e
stabilí che il momento decisivo era quello in cui il comunicato stampa era
stato letto e distribuito ai giornalisti, e ciò a dispetto del fatto che per un
certo periodo di tempo nessuno, eccetto le persone – ben poche, in realtà –
presenti nella sala conferenze, fosse stato al corrente della notizia.
Evidentemente preoccupato per le conseguenze di questa decisione, il
giudice Bonsal aggiunse che «sarebbe opportuno, come richiesto dalla
Commissione, stabilire una regola piú efficace che impedisca ai detentori di
informazioni riservate di agire a proprio vantaggio nel periodo compreso tra
l’annuncio di una notizia e la sua diffusione presso il vasto pubblico». Ma il
giudice non riteneva che fosse di sua competenza né scrivere quella regola,
né determinare se Lamont avesse o non avesse atteso a sufficienza prima di
inoltrare l’ordine di acquisto delle 12.33. Lasciare ai giudici scelte di quel
genere, disse, «non farebbe che creare incertezza. La decisione presa in un
caso non sarebbe valida in altri casi o in circostanze diverse. Nessun
detentore di informazioni riservate potrebbe essere certo di aver atteso a
sufficienza […] Se fosse proprio necessario stabilire un lasso di tempo, la
scelta piú opportuna consisterebbe nell’affidare il compito alla
Commissione stessa». Insomma, nessuno voleva prendersi quella briga, e
alla fine le accuse a carico di Coates e Lamont furono archiviate.

La Sec si appellò contro tutte le archiviazioni, mentre Clayton e


Crawford, gli unici imputati ritenuti colpevoli di violazione del Security
Exchange Act, fecero appello contro le loro sentenze di condanna. La
Commissione presentò un esposto che riesaminava con estrema minuzia
tutte le prove e accennava alla possibilità che il giudice le avesse
interpretate in modo erroneo; la memoria difensiva di Clayton e Crawford
sottolineò gli effetti potenzialmente deleteri della dottrina in base alla quale
erano stati giudicati colpevoli. Se per esempio un analista di borsa si fosse
messo alla ricerca di informazioni poco note su una certa società, e sulla
base di tali informazioni avesse raccomandato ai suoi clienti le azioni di
quella società, avrebbe forse rischiato di finire sotto processo per illecita
diffusione di informazioni confidenziali? Inoltre, una sentenza del genere
non rischiava forse di «scoraggiare i dipendenti che desiderano investire
nella propria azienda e bloccare del tutto il flusso delle informazioni
destinate agli investitori?»
Forse era proprio cosí. In ogni caso, nell’agosto del 1968 la Corte
d’appello del secondo circuito giudiziario emise una sentenza che di fatto
capovolgeva tutte le conclusioni del giudice Bonsal eccetto i verdetti a
carico di Crawford e Clayton, che furono invece confermati. La Corte
d’appello stabilí che il primo carotaggio effettuato in novembre avesse già
fornito prove sostanziali dell’esistenza di un importante deposito minerario:
pertanto Fogarty, Mollison, Darke, Holyk e tutti coloro che quell’inverno,
essendo al corrente della situazione, avevano comprato azioni o opzioni
Texas Gulf erano colpevoli di violazione della legge; inoltre il tetro
comunicato stampa del 12 aprile fu definito ambiguo e tendenzialmente
ingannevole; per quanto riguardava Coates, la Corte d’appello stabilí che gli
ordini di acquisto emessi subito dopo la conferenza stampa del 16 aprile
erano da considerarsi impropri e illegali. Gli unici a uscire assolti dal
processo furono Lamont – che, essendo passato a miglior vita poco dopo la
prima sentenza era stato depennato dall’elenco degli imputati – e un
capufficio della Texas Gulf di nome John Murray.
La sentenza, passata alla storia come una grande vittoria della Sec, fu
accolta da Wall Street con gravi profezie di futuri sconquassi. In attesa di
ulteriori appelli alla Corte suprema, è probabile che ne nasca se non altro un
esperimento interessante: per la prima volta da che mondo è mondo, Wall
Street sarà costretta a giocare senza truccare le carte.
6. I filosofi aziendali
Incomunicabilità alla General Electric

Se dovesse mai capitarvi di parlare con uno o piú imprenditori non


troppo inclini a mettersi in cattedra, scoprireste di certo che al giorno d’oggi
una delle maggiori ansie dell’industria americana è il cosiddetto «problema
della comunicazione». Va detto che la coscienza di quanto sia faticoso
estrarre un’idea dalla propria testa e farla entrare in quella di qualcun altro
angustia non soltanto gli imprenditori, ma anche molti intellettuali e
scrittori, che sempre piú spesso tendono a considerare la comunicazione, o
la mancanza di essa, come uno dei problemi piú gravi dell’umanità. (Per
non parlare di quella corrente di scrittori e artisti d’avanguardia che ha
indirettamente posto in evidenza la questione dichiarandosi senza mezzi
termini contraria alla comunicazione). Tornando agli industriali, devo
ammettere che pur avendoli sentiti piú volte pronunciare la parola – talora
con accenti quasi mistici – non sono mai riuscito a capire che cosa
intendessero di preciso. La tesi generale è abbastanza chiara, e si può
riassumere cosí: sarebbe molto bello se i soggetti appartenenti a una stessa
organizzazione riuscissero a parlarsi tra di loro e se, in seconda istanza, quei
soggetti o la loro organizzazione riuscissero a parlare con chiunque altro.
Mi sono sempre domandato come e perché, nell’epoca in cui le fondazioni
finanziano uno studio sulla comunicazione dopo l’altro, individui e
organizzazioni siano cosí tenacemente incapaci di esprimersi in modo
comprensibile, e per giunta i loro ascoltatori non riescano a capire il senso
di quanto viene loro detto.
Qualche anno fa sono entrato in possesso di una pubblicazione in due
volumi edita dall’Istituto poligrafico degli Stati Uniti, intitolata Verbali
delle udienze presso la sottocommissione per l’antitrust e la libera
concorrenza della commissione giustizia del Senato degli Stati Uniti, 87º
congresso, sezione prima, in conformità alla risoluzione senatoriale n. 52.
Dopo averne scorso con discreta solerzia le 1459 pagine, mi è sembrato di
cominciare a capire cosa intendessero gli industriali. Le udienze di cui
sopra, tenutesi nei mesi di aprile, maggio e giugno 1961 davanti a
un’apposita sottocommissione presieduta dal senatore Estes Kefauver del
Tennessee, avevano a che fare con la famosa questione dei prezzi e degli
appalti truccati da parte delle aziende del settore elettrico: vicenda che nel
febbraio dello stesso anno aveva già avuto una prima conclusione nell’aula
di un giudice federale di Philadelphia, il quale aveva imposto svariate
ammende per un valore complessivo di 1 924 500 dollari ai danni di
ventinove aziende e quarantacinque loro dipendenti, sette dei quali erano in
aggiunta stati condannati a pene detentive della durata di trenta giorni.
Poiché tutti gli imputati si erano dichiarati colpevoli o avevano patteggiato,
le prove a loro carico non erano state rese note, e i verbali del gran giurí che
li aveva incriminati erano protetti da segreto. Di conseguenza l’opinione
pubblica non aveva avuto modo di conoscere i dettagli delle violazioni
commesse; ma il senatore Kefauver era evidentemente convinto che fosse
necessario divulgare quella storia. Le trascrizioni dei verbali provano che è
riuscito nel suo intento, e la vicenda delineata in quei verbali dimostra – se
non altro nel caso della principale società coinvolta – una mancanza di
comunicazione intra moenia talmente disastrosa che, in confronto, la Torre
di Babele era un tripudio di affiatamento organizzativo.
Sottoposte al giudizio della Corte distrettuale di Philadelphia tra il
febbraio e l’ottobre del 1960 con svariati atti d’imputazione, ventinove
aziende del settore elettrico (e i rispettivi dirigenti) dovettero difendersi
dall’accusa di aver ripetutamente violato le disposizioni contenute nella
prima sezione della legge Sherman del 1890, che cosí recita: «Qualsiasi
contratto, accordo in forma di trust o in altra forma, nonché ogni collusione,
che aspirino a limitare il commercio fra i diversi Stati dell’Unione o con
nazioni straniere, sono illegali». (La legge Sherman è nota per aver dato
fondamento giuridico alla famosa offensiva antitrust di Theodore
Roosevelt, e insieme alla legge Clayton del 1914 è l’arma principale con cui
lo Stato si oppone a cartelli e monopoli di ogni genere). Secondo il governo,
le violazioni erano state commesse in relazione alla vendita di grandi e
costosi macchinari del tipo solitamente utilizzato dalle aziende pubbliche e
private che producono e distribuiscono energia elettrica (trasformatori di
potenza, quadri di distribuzione, unità di generazione a turbina e cosí via),
ed erano il risultato concreto di svariati colloqui tenutisi tra il 1956 e il 1959
tra i responsabili delle aziende che avrebbero ipoteticamente dovuto farsi
concorrenza: nel corso di quelle riunioni si erano concordati prezzi non
competitivi per i beni in oggetto, si erano truccate aste che in teoria
avrebbero dovuto svolgersi mediante presentazione di offerte in busta
chiusa, e infine si era assegnata a ogni azienda una quota del giro d’affari
complessivo. Il governo sostenne inoltre che, per mantenere il segreto su
quelle riunioni, i responsabili erano ricorsi a vari stratagemmi come
l’inserimento nella corrispondenza di numeri in codice associati alle varie
aziende, l’utilizzo di telefoni pubblici o di utenze telefoniche private per le
comunicazioni a voce, la falsificazione delle note di rimborso spese al fine
di nascondere il fatto che in un dato giorno tutti i dirigenti delle aziende
incriminate si fossero trovati nello stesso luogo. Ma tutte quelle astuzie non
erano servite a nulla. I federali, efficacemente guidati da Robert A. Bicks,
all’epoca capo della divisione antitrust del dipartimento di Giustizia, erano
riusciti a smascherare il complotto anche grazie al contributo di alcuni dei
cospiratori, affrettatisi a testimoniare contro i loro complici dopo che,
nell’autunno del 1959, il dipendente di una piccola azienda coinvolta negli
illeciti aveva pensato bene di vuotare il sacco.
Il significato economico e sociale della vicenda emerge con sufficiente
chiarezza da alcune cifre. Negli anni della cospirazione, il valore delle
vendite dei macchinari sopra citati ammontava in media a 1750 milioni di
dollari, spesi per quasi un quarto dai governi federali, statali e locali (e
dunque, di fatto, dai contribuenti) e per il resto da società private (che
ovviamente tendono a scaricare sulla clientela, sotto forma di incrementi
tariffari, i costi aggiuntivi legati all’acquisto di beni strumentali). Per dare
un’idea delle poste in gioco, si pensi che il prezzo di listino di un generatore
a turbina da 500 000 kilowatt – un mostruoso ordigno in grado di produrre
energia elettrica dalla forza vapore – si aggira di norma intorno ai 16
milioni di dollari. Bisogna tener conto, però, che nella maggior parte dei
casi i fabbricanti concedono uno sconto che può arrivare anche al 25 per
cento, e dunque, se la transazione fosse regolare, quel macchinario potrebbe
costare 4 milioni in meno; ma se al contrario i rappresentanti delle società
produttrici di quel macchinario ordissero un complotto per truccare i prezzi,
il prezzo di vendita potrebbe aumentare esattamente di quei 4 milioni. E a
sostenere il costo dell’aumento, in ultima analisi, sarebbe quasi certamente
la collettività.

Nel presentare i suoi atti d’accusa alla Corte di Philadelphia, Robert


Bicks affermò che, nel complesso, smascheravano «una trama di atti illeciti
che a buon diritto si potrebbero definire i piú gravi, evidenti e pervasivi
nella storia dell’industria americana». Prima di rendere note le sue
decisioni, il giudice J. Cullen Ganey si spinse addirittura oltre, sostenendo
che a suo parere le violazioni rappresentavano «uno sconvolgente atto
d’accusa ai danni di un’ampia fetta della nostra economia, giacché in effetti
la posta in gioco è la sopravvivenza del […] sistema fondato sulla libera
impresa». Le pene detentive inflitte ad alcuni imputati dimostrarono poi che
il giudice non aveva affatto scherzato: nei settant’anni trascorsi dalla sua
approvazione c’erano state numerose condanne per violazione della legge
Sherman, ma di rado si erano visti dei dirigenti finire dietro le sbarre. Come
c’era da aspettarsi, la vicenda sollevò un gran polverone sulle pagine dei
giornali. E anche se i progressisti di «New Republic» accusarono gli altri
organi di stampa di voler deliberatamente insabbiare «il piú grave scandalo
economico degli ultimi decenni», l’accusa sembra tutto sommato ingiusta.
Tenendo presenti la freddezza dell’opinione pubblica nei confronti dei
quadri di distribuzione, la deprecabile assenza di dettagli cruenti nei
processi imperniati sulla normativa antitrust e la relativa carenza di dettagli
sulle modalità del complotto, si può dire che nel complesso gli organi di
stampa abbiano dato ampio spazio alla vicenda, al punto che persino il
«Wall Street Journal» e «Fortune» pubblicarono resoconti severi e
particolareggiati; qua e là, sembrava quasi di assistere a una rinascita del
vecchio spirito anticapitalista del giornalismo anni Trenta. D’altronde, c’era
forse spettacolo piú elettrizzante di un gruppetto di altezzosi, benvestiti e
ben pagati dirigenti di rispettabilissime aziende trascinati in galera come
volgarissimi tagliaborse? I nemici giurati del business aspettavano un
momento del genere fin dal lontano 1938, da quando Richard Whitney, ex
presidente della Borsa di New York, era finito in gattabuia per aver
speculato con i soldi dei suoi clienti. A detta di altri, era il momento piú
bello dallo scandalo Teapot Dome 1.
A rendere la situazione ancor piú allettante, c’erano fortissimi indizi di
doppiezza a carico delle alte sfere. Né il presidente del consiglio di
amministrazione né il capo supremo della General Electric, la piú grande
delle aziende incriminate, erano stati coinvolti nella retata dei federali; idem
per la Westinghouse Electric, seconda in ordine di grandezza. I quattro
altissimi dirigenti delle due società dichiararono di essere stati totalmente
all’oscuro di quanto stava accadendo ai gradini inferiori delle rispettive
piramidi fino al momento in cui il primo testimone aveva rilasciato la sua
deposizione al ministero della Giustizia. Ma i loro tentativi di discolpa non
furono ritenuti convincenti; al contrario, molti si dissero certi che gli
imputati al processo fossero semplici intermediari, che avendo violato la
legge dietro ordini precisi o in conformità a un clima aziendale favorevole
si trovavano ora a pagare per le colpe dei loro superiori. Tra i meno convinti
c’era il giudice Ganey in persona, che nel pronunciare la sentenza dichiarò:
«Sarebbe davvero da ingenui credere che simili violazioni, perpetrate per
lungo tempo e con il coinvolgimento di una porzione cosí ampia del settore
produttivo, nell’ambito di operazioni commerciali del valore di milioni e
milioni di dollari, siano state commesse senza che i responsabili delle
aziende ne fossero informati […] Sono convinto che nella maggior parte dei
casi gli imputati di questo processo si siano trovati a combattere tra la
propria coscienza e una politica aziendale ampiamente consolidata, avendo
davanti a sé miraggi gratificanti come promozioni, impieghi sicuri e salari
generosi».
Il pubblico, naturalmente, voleva un capobanda, un arcicospiratore, e
sembrò trovarlo nella General Electric, che – con grande costernazione di
chi cercava di guidarne le sorti dalla sede centrale al 570 di Lexington
Avenue a New York – si conquistò un ruolo di primo piano tanto sugli
organi di stampa quanto nelle udienze della sottocommissione. Con i suoi
300 000 dipendenti e un fatturato annuo che da dieci anni a quella parte si
aggirava sui 4 miliardi di dollari, la General Electric non solo era di gran
lunga la piú importante delle ventinove società sotto accusa, ma era anche,
in base al fatturato per il 1959, la quinta società del Paese. Di fatto, uscí
dalla vicenda con un carico di ammende (437 500 dollari) piú pesante di
tutte le altre aziende coinvolte, e con piú dirigenti condannati a pene
detentive (tre, piú altri otto per i quali le sentenze furono sospese). A
inasprire ulteriormente lo sconcerto dei credenti e il disprezzo degli scettici
c’era poi il ricordo dei lunghi anni in cui i massimi responsabili della
General Electric si erano issati a modello di virtú premiata dal successo e
avevano innalzato fervide lodi al sistema della libera concorrenza: proprio
quello di cui le loro riunioni segrete intendevano farsi beffe. Nel 1959, poco
dopo che l’indagine governativa sulle violazioni era stata sottoposta
all’attenzione dei vertici aziendali, la General Electric declassò i dirigenti
che avevano ammesso di essere coinvolti e ridusse loro lo stipendio: un
certo vicepresidente, per esempio, si vide decurtare il salario da 127 000 a
40 000 dollari annui. (Dopodiché, quando il poveretto sembrava aver
superato lo shock, il giudice Ganey gli appioppò un’ammenda di 4000
dollari e lo mandò in prigione per trenta giorni; scontata la pena e ritrovata
la libertà, la General Electric gli diede il colpo di grazia rimuovendolo
dall’incarico). La Westinghouse, invece, non ritenne opportuno castigare di
propria iniziativa i dipendenti coinvolti nello scandalo, ma preferí attendere
la sentenza del giudice: quando questa fu emanata, poi, decise che le
ammende e le pene detentive erano una punizione sufficiente e rinunciò a
rincarare la dose. Alcuni interpretarono la decisione come una forma di
indulgenza; altri ci videro una lodevole benché tacita ammissione di
responsabilità – morale, se non altro – da parte dei massimi dirigenti, che
non si sentivano in diritto di sanzionare i dipendenti colti in fallo. Agli
occhi di chi condivideva quest’ultima tesi, la frettolosa decurtazione dei
compensi inflitta dalla General Electric ai rei confessi legittimava il
sospetto che l’azienda, pur di salvarsi la pelle, avesse scelto di dare in pasto
ai lupi una manciata di sventurati dipendenti; ovvero, per dirla con parole
piú sferzanti – le stesse usate durante le udienze dal senatore Philip A. Hart
del Michigan – di tentare un’«operazione Ponzio Pilato».

Che giorni difficili, al 570 di Lexington Avenue! Dopo averla a lungo


ammantata delle vesti di saggia e benevola istituzione, gli addetti alle
pubbliche relazioni della General Electric si vedevano ora costretti a
decidere se affibbiare alla loro azienda, nella sgradevole vicissitudine dei
prezzi truccati, il ruolo dell’idiota o quello del furfante. Le loro preferenze
andavano senza dubbio alla prima ipotesi. Il giudice Ganey, al contrario,
lasciando intendere che le macchinazioni fossero non solo giustificate bensí
avallate dai pezzi grossi e dall’azienda tutta, aveva optato per la seconda.
Tuttavia non è detto che la sua ipotesi fosse valida; personalmente, dopo
aver letto le testimonianze della sottocommissione Kefauver sono giunto
alla mesta conclusione che la verità non verrà mai a galla. Perché alla
General Electric, come risulta dalle udienze, le limpide acque della
responsabilità morale erano irrimediabilmente offuscate da una
comunicazione quanto mai faticosa – talmente faticosa e arruffata che in
certe circostanze, se uno degli alti papaveri avesse per ipotesi imposto a un
suo subordinato di infrangere la legge, il suo ordine sarebbe stato recepito
in maniera assai confusa; e se il subordinato avesse per ipotesi informato il
superiore dei suoi colloqui fraudolenti con la concorrenza, il superiore in
questione avrebbe potuto credere che stesse blaterando di feste in giardino o
tornei di pinnacolo. In sostanza, un subordinato che avesse ricevuto un
ordine verbale dal suo capo avrebbe dovuto per prima cosa stabilire se il
messaggio voleva dire quel che sembrava, oppure l’esatto contrario; a sua
volta quel superiore, nel dialogare con un subordinato, avrebbe dovuto
stabilire se le dichiarazioni di quest’ultimo andassero intese in senso
letterale o tradotte mediante un codice segreto del quale non era certo di
possedere la chiave. Questo era dunque il problema alla General Electric,
sunteggiato nelle sue linee essenziali a beneficio degli studenti di Scienze
della comunicazione alla ricerca di un progetto finanziabile da qualche
fondazione.
All’interno della GE vigeva, pressappoco da otto anni, una regola interna
nota come «Direttiva aziendale 20.5», il cui testo diceva tra l’altro: «Nessun
dipendente ha facoltà di aderire a patti, accordi, piani o progetti, siano essi
espliciti o impliciti, formali o informali, con aziende concorrenti in
relazione a prezzi, termini e condizioni di vendita, produzione,
distribuzione, zone di attività o clienti; è inoltre vietato scambiare
informazioni o discutere con la concorrenza di prezzi, termini e condizioni
di vendita, o qualsiasi altra circostanza riguardante la competitività di
quest’azienda». Di fatto, la direttiva non era che un’intimazione al rispetto
delle leggi federali antitrust, con l’aggiunta di qualche riferimento piú
concreto e dettagliato alla questione dei prezzi. Ed era quasi impossibile che
i dirigenti della GE a cui spettava il compito di fissare i prezzi non fossero al
corrente della Direttiva 20.5 o ne avessero un’idea un po’ vaga, perché
l’azienda, per sincerarsi che i nuovi manager la conoscessero e per
rinfrescare la memoria ai vecchi, non soltanto la ristampava e distribuiva a
intervalli regolari, ma obbligava tutti i funzionari di grado elevato a
controfirmarla a garanzia della loro conformità presente e futura. Il guaio
era che – certamente nel periodo preso in esame dal dibattimento
processuale, ma forse già da tempo – alcuni dipendenti della GE , compresi
quelli che la controfirmavano a ogni passaggio, erano semplicemente
convinti che la 20.5 non andasse presa sul serio. Credevano, in sostanza,
che fosse un’operazione di facciata: che fosse scritta nero su bianco solo per
offrire una tutela legale all’azienda e ai suoi dirigenti; che i colloqui illeciti
con la concorrenza fossero una pratica aziendale riconosciuta e accettata; e
che quando un responsabile di alto rango ordinava a un suo subordinato di
rispettare la Direttiva 20.5, gli stava in realtà intimando di violarla. Benché
apparentemente illogica, quest’ultima affermazione diventa comprensibile
se si considera che per un certo periodo di tempo, a quanto risulta, i
funzionari che notificavano o reiteravano quell’ordine erano soliti
accompagnarlo a un’inequivocabile strizzatina d’occhio. Nel maggio del
1948, poi, il tema degli ammiccamenti era stato esplicitamente affrontato
durante una riunione dei responsabili delle vendite. Quando Robert Paxton,
all’epoca dirigente di alto livello e in seguito presidente della GE , si era
rivolto ai presenti rammentando loro, come di consueto, il rispetto delle
norme antitrust, un tale William S. Ginn, responsabile delle vendite per la
divisione trasformatori, aveva stupito il suo superiore dichiarando: «Non ti
ho visto fare l’occhiolino». Al che Paxton aveva replicato con fermezza:
«Niente strizzatine d’occhio. Qui facciamo sul serio: gli ordini sono
ordini». Quando il senatore Kefauver gli domandò da quanto tempo fosse al
corrente della pratica aziendale di trasmettere istruzioni corredate da una
strizzatina d’occhio, Paxton disse di aver rilevato tale consuetudine per la
prima volta nel 1935, allorché il suo capo gli aveva dato una certa
disposizione facendola seguire da un ammiccamento o qualcosa del genere;
e quando, qualche tempo dopo, il significato del gesto aveva cominciato a
farsi chiaro nella mente di Paxton, questi era stato colto da un tale accesso
di collera che per poco non si era giocato la carriera assestando un pugno
sul naso del suo superiore. Paxton dichiarò inoltre che la sua contrarietà alla
pratica dell’occhiolino era stata tanto veemente da guadagnargli fama di
persona non ammiccante e che, dal canto suo, non aveva mai strizzato
l’occhio a nessuno.
Anche se in quella famosa riunione del maggio 1948 non sembravano
esserci molti dubbi sul modo in cui Paxton voleva che il suo non
ammiccante ordine fosse interpretato, è evidente che Ginn non riuscí a
comprendere il senso di quella disposizione, giacché poco dopo averla
ricevuta uscí dall’ufficio e se ne andò bel bello a truccare i prezzi.
(Ovviamente ci vuole piú di un’azienda per manipolare il mercato, ma tutte
le testimonianze sembrano attribuire alla General Electric un ruolo guida
nella triste vicenda). Tredici anni piú tardi William Ginn – appena tornato
libero dopo qualche settimana di detenzione e appena sollevato da un
incarico che gli fruttava 135 000 dollari annui – si presentò alla
sottocommissione per riferire su varie questioni, compresa la sua strana
reazione a quel famoso ordine privo di ammiccamenti. Non ne aveva tenuto
conto, disse, perché aveva ricevuto disposizioni contrarie da altri due
dirigenti di grado superiore, Henry V. B. Erben e Francis Fairman; e fu
proprio nell’esporre i motivi che lo avevano indotto a rispettare il volere di
questi ultimi, e non quello di Paxton, che Ginn introdusse l’affascinante
teoria dei gradi di comunicazione: altro ottimo pane per i denti di un
borsista foraggiato da qualche fondazione. Erben e Fairman, dichiarò Ginn,
erano stati piú chiari, persuasivi ed efficaci di Paxton; Fairman, in
particolare, aveva dimostrato di essere «un grande comunicatore, un grande
filosofo e, per dirla tutta, un fervente sostenitore della stabilità dei prezzi».
Erben e Fairman, inoltre, avevano biasimato l’ingenuità di Paxton; in
sostanza, Ginn testimoniò di essersi allontanato dalla retta via perché «i
seguaci del diavolo mi hanno abbindolato meglio dei filosofi che
inneggiavano al Signore».
Sarebbe bello avere sottomano una dichiarazione degli stessi Erben e
Fairman in merito alla tecnica di comunicazione impiegata per avere la
meglio su Paxton, ma purtroppo i due filosofi aziendali non ebbero modo di
rendere testimonianza alla sottocommissione, per la buona ragione che
all’epoca delle udienze erano entrambi deceduti. Paxton, che invece era
ancora in circolazione, viene descritto nella deposizione di Ginn come uno
dei mercanti-filosofi piú indefessamente schierati dalla parte del Signore.
«Per spiegarvi il tipo di persona, vi dirò che Mr Paxton è stato, tra tutti gli
uomini d’affari che ho conosciuto in America, il piú vicino alle posizioni di
Adam Smith», dichiarò Ginn. Eppure nel 1950, quando Ginn ammise
durante una conversazione informale con Paxton di essersi «compromesso»
rispetto alle norme antitrust, Paxton si limitò a dirgli che era stato un
maledetto idiota e si guardò bene dal riferire ad altri ciò che Ginn gli aveva
confessato. Quanto ai motivi di tale comportamento, Paxton stesso
testimoniò che all’epoca della conversazione non era piú il superiore di
Ginn e che, in base alla sua etica personale, riferire le dichiarazioni di un
dipendente non piú sottoposto alla sua autorità sarebbe stato «un
pettegolezzo», e «una maldicenza».
Nel frattempo Ginn, non piú tenuto a rispondere del suo operato a
Paxton, si incontrava spesso con gli emissari della concorrenza e saliva a
passo spedito la scala gerarchica della GE . Nel novembre del 1954 fu
nominato direttore generale della divisione trasformatori, il cui quartier
generale si trovava a Pittsfield, nel Massachusetts: un incarico prestigioso,
che lo inseriva nella rosa dei candidati a una vicepresidenza. Di lí a poco
Ralph J. Cordiner, che dal 1949 presiedeva il consiglio di amministrazione
della General Electric, convocò Ginn a New York con il preciso scopo di
raccomandargli un’obbedienza assoluta e tenace alla Direttiva 20.5. A
quanto pare Cordiner riuscí a comunicare il suo volere con sufficiente
chiarezza, ma l’effetto durò soltanto per il tempo necessario a uscire
dall’ufficio di Cordiner ed entrare in quello di Erben: a quel punto, dichiarò
Ginn, la sua comprensione di quanto gli era stato detto si era già fatta
incerta e nebulosa. In quanto direttore della squadra distribuzione della
General Electric, Erben ricopriva nella gerarchia aziendale una posizione
intermedia tra Cordiner e Ginn; secondo la testimonianza resa da
quest’ultimo, non appena si ritrovarono soli Erben non esitò a revocare gli
ordini di Cordiner, dicendo a Ginn: «Adesso continua pure a fare come hai
sempre fatto, ma cerca di usare la testa e attieniti al buon senso». Anche
quella volta la straordinaria abilità comunicativa di Erben raggiunse
l’obiettivo, e Ginn continuò a incontrarsi con i concorrenti. «Sapevo che Mr
Cordiner avrebbe potuto licenziarmi, – dichiarò in seguito al senatore
Kefauver, – ma sapevo anche che il mio capo era Mr Erben».
Alla fine del 1954 Paxton rilevò l’incarico di Erben e divenne
nuovamente il capo di Ginn. Questi continuò imperterrito a incontrarsi con i
concorrenti, ma sapendo che Paxton non approvava evitò di metterlo al
corrente della cosa. Di lí a un paio di mesi, poi, Ginn finí per convincersi
che era assolutamente impossibile rinunciare a quelle riunioni, perché nel
gennaio del 1955 l’intero settore delle apparecchiature elettriche si trovò
coinvolto in un’accesissima guerra di prezzi – poi soprannominata «la
svendita bianca» per il periodo in cui si verificò e per le ottime occasioni
che si presentarono agli acquirenti – durante la quale le aziende concorrenti
dimenticarono i rapporti amichevoli e ingaggiarono una corsa forsennata al
ribasso dei prezzi. Ovviamente un simile esercizio di libera concorrenza era
proprio ciò che i complotti interaziendali cercavano di evitare, ma in quel
momento l’offerta di macchinari elettrici era talmente superiore alla
domanda che le aziende già coinvolte nella cospirazione (all’inizio poche,
poi sempre piú numerose) presero a violare i patti che esse stesse avevano
concluso. Cercando di fronteggiare la situazione meglio che poteva, Ginn
dichiarò di aver «applicato le filosofie che mi erano state inculcate in
precedenza»: il che, tradotto, significa che continuò a organizzare incontri
per combinare i prezzi, nella speranza che almeno alcuni degli accordi
conclusi in quelle sedi fossero onorati. Quanto a Paxton, nelle sue
testimonianze Ginn si disse convinto che il filosofo aziendale fosse non
soltanto all’oscuro dei complotti, ma cosí tenace nella sua devozione alla
libera e aggressiva concorrenza da trovare persino divertente, per quanto
deleteria sul piano dei profitti, la guerra di prezzi in corso. (Chiamato a
deporre, Paxton negò vigorosamente di averne tratto il benché minimo
godimento).
Di lí a un anno o pressappoco, il mercato delle apparecchiature elettriche
ebbe una svolta favorevole, e nel gennaio del 1957 William Ginn, avendo
superato abbastanza bene la burrasca, ottenne l’agognata vicepresidenza.
L’avanzamento di carriera impose il suo trasferimento a Schenectady, dove
gli era stato affidato il comando della divisione generatori a turbina: di
conseguenza Cordiner lo convocò una seconda volta nel quartier generale
dell’azienda per impartirgli una lezioncina sulla Direttiva 20.5. Ormai le
ramanzine di Cordiner erano quasi di prammatica: ogni volta che un
dipendente della GE (nuovo o vecchio che fosse) era assegnato a un incarico
di importanza strategica, si dava per certo che prima o poi sarebbe stato
invitato nell’ufficio del direttore per ascoltare l’ennesima replica del suo
austero credo. Nel suo saggio The Heart of Japan, Alexander Campbell ci
ha raccontato di quella grande società giapponese del settore elettrico che si
è data sette comandamenti (per esempio: «Sii gentile e sincero!») Ogni
mattina i suoi dipendenti sono obbligati a recitarli in coro, mettendosi
sull’attenti e intonando subito dopo l’inno aziendale («Ama il lavoro, sii
diligente | Produrre di piú è un dovere importante!») Cordiner non
pretendeva che i suoi subalterni recitassero a memoria o cantassero la 20.5
– né la fece mai mettere in musica, a quanto è dato sapere – tuttavia,
considerata la frequenza con cui Ginn e i suoi colleghi dovevano sorbirsene
la lettura o la citazione a imperitura memoria, è probabile che
all’occorrenza molti sarebbero riusciti a cantarla, improvvisando lí per lí
una melodia appropriata.
Quella volta il monito di Cordiner riuscí non soltanto a penetrare la
mente di Ginn, ma persino a fissarsi inalterato nella sua memoria. Stando
alle sue stesse dichiarazioni, Ginn si convertí all’istante e rinunciò del tutto
alle vecchie abitudini. Sembra tuttavia che il merito della sua improvvisa
conversione non vada attribuito soltanto alla capacità comunicativa di
Cordiner, né tanto meno allo stillicidio delle ripetute enunciazioni: a quanto
pare fu una scelta eminentemente pragmatica, non dissimile sotto
quest’aspetto dalla conversione al protestantesimo di Enrico VIII. Ginn
disse infatti di aver rinnegato la vecchia fede per mancanza di «copertura
aerea».
«Per mancanza di cosa?» domandò il senatore Kefauver.
«Di copertura aerea, – ripeté Ginn. – Un tempo ce l’avevo, ma ormai
l’avevo perduta. Mr Erben non c’era piú, e nemmeno i vecchi colleghi. Ero
alle dirette dipendenze di Mr Paxton, e sapendo come lui la pensava sulla
faccenda […] Insomma, la filosofia che mi aveva sostenuto fino ad allora
era andata a farsi friggere».
Supponiamo che il garante della copertura aerea fosse Henry Erben:
poiché dalla fine del 1954 Erben non era piú il capo di Ginn, se ne deduce
che quest’ultimo era privo di protezione da oltre due anni, ma
probabilmente, nella frenesia della guerra dei prezzi, non se n’era accorto.
Comunque fossero andate le cose, all’epoca a cui quella dichiarazione si
riferiva Ginn era un uomo sprovvisto non soltanto di una copertura aerea,
ma anche di una filosofia. Per fortuna il vuoto fu prontamente colmato da
un nuovo corredo di principî, ispirato dai quali Ginn prese a distribuire
copie della Direttiva 20.5 tra i responsabili di reparto alle sue dipendenze e
per giunta a esortare – conformemente a quella che egli stesso chiamava
«politica del lebbroso» – i suoi subalterni a evitare ogni contatto, per quanto
informale, con le controparti delle aziende concorrenti, perché «dopo molti
anni di dura esperienza, ho capito che una volta stabiliti, i contatti tendono a
svilupparsi, ed è lí che cominciano gli intrighi». Ma per un crudele scherzo
del destino, Ginn finí per assumere a sua insaputa la medesima posizione in
cui Paxton e Cordiner si erano trovati per anni: quella del filosofo che si
sforza invano di mostrare la via del Signore a un gregge che si rifiuta di
ascoltarlo, preferendo invece dedicarsi sistematicamente agli intrighi contro
i quali è stato messo in guardia. Nella fattispecie, si appurò che per tutto il
biennio 1957-58 e per la prima metà del 1959 due impiegati alle dipendenze
di Ginn con una mano avevano devotamente controfirmato la 20.5 e con
l’altra si erano instancabilmente dedicati alla manipolazione dei prezzi, in
una nutrita serie di incontri con le aziende concorrenti a New York,
Philadelphia, Chicago, Hot Springs in Virginia e Skytop in Pennsylvania,
piú svariate altre località.
Evidentemente Ginn non era riuscito a dispensare una congrua quantità
della sua nuova e scintillante filosofia e, come sempre, la causa era il solito,
annoso problema della comunicazione. Invitato a spiegare perché i suoi
dipendenti si fossero tanto allontanati dalla retta via, Ginn replicò: «Devo
ammetterlo, ho fatto un errore di comunicazione. Non sono stato abbastanza
persuasivo con i ragazzi […] Il prezzo è un fattore importantissimo nella
gestione di un’azienda, e quindi, filosoficamente parlando, dobbiamo
convincere la gente che non solo è contro la legge, ma che […] per molte,
moltissime ragioni bisognerebbe proprio astenersi dal... Ma questo richiede
un approccio filosofico e un approccio comunicativo […] E anche se […]
avevo detto ai miei ragazzi di non farlo, alcuni di loro hanno effettivamente
preso la strada sbagliata […] Io stesso mi vedo costretto ad ammettere che
qui siamo di fronte a un fiasco comunicativo […] e sono prontissimo ad
assumermi la mia parte di responsabilità».
Sforzandosi con sincerità di analizzare le cause del fiasco, disse ancora
Ginn, era giunto a concludere che la sola emanazione delle direttive,
indipendentemente dalla frequenza con cui ciò avveniva, non era
sufficiente. Quel che ci voleva, in realtà, era «una filosofia a tutto tondo,
una comprensione a tutto tondo, la completa caduta delle barriere
interpersonali: questo serve per arrivare a capirsi, per vivere e per gestire le
aziende nel contesto filosofico in cui andrebbero gestite».
Il senatore Hart si permise di replicare: «Lei può comunicare finché ha
fiato in gola, ma se l’argomento della sua comunicazione, foss’anche una
legge dello Stato, viene inteso dai suoi ascoltatori come un’usanza
folcloristica […] non riuscirà mai a convincere nessuno».
Suo malgrado, Ginn ammise che era vero.

La teoria dei gradi di comunicazione fu poi ulteriormente ampliata,


benché in maniera indiretta, dalla testimonianza di un altro imputato, Frank
E. Stehlik, che dal maggio 1956 al febbraio 1960 era stato direttore generale
del dipartimento quadri elettrici di basso voltaggio della General Electric.
(Come tutti – tranne un’esigua minoranza di utilizzatori – felicemente
ignorano, i quadri elettrici servono a controllare e proteggere le
apparecchiature usate per generare, trasformare, trasmettere e distribuire
l’elettricità: negli Stati Uniti se ne vendono ogni anno per oltre cento
milioni di dollari). Stehlik era stato istruito a svolgere i suoi compiti
aziendali in parte con il tradizionale sistema degli ordini verbali o scritti, e
in parte – forse in egual misura, a giudicare dalla sua testimonianza – con
una prassi comunicativa meno intellettuale e piú viscerale, fondata su quelli
che il personaggio in questione chiamava «impatti». Ogni volta che
all’interno dell’azienda si verificavano fatti che lo colpivano, Stehlik
consultava una sorta di voltmetro metafisico interno e, dopo aver misurato
l’intensità dello scossone ricevuto, cercava di cogliere le reali tendenze
della politica aziendale. Per tutto il biennio 1956-57, per esempio, e per
buona parte del 1958, Stehlik era stato certo che la General Electric fosse
sinceramente e pienamente intenzionata a osservare la norma 20.5.
Nell’autunno del 1958, però, il suo diretto superiore George E. Burens gli
raccontò di aver ricevuto da Robert Paxton, all’epoca presidente della GE ,
l’ordine di pranzare in compagnia di Max Scott, presidente di un’azienda
rivale nel settore dei quadri elettrici, la I-T-E Circuit Breaker Company.
Nella sua deposizione Paxton confermò la versione di Burens, ma aggiunse
di aver categoricamente vietato a Burens di parlare di prezzi durante il
pranzo di lavoro con Scott. Forse Burens si era dimenticato di riferire quella
circostanza a Stehlik; in ogni caso, il fatto che un alto papavero dell’azienda
avesse intimato al suo capo di andare a pranzo con un temibile concorrente
ebbe, come da testimonianza dell’interessato, «un impatto fortissimo» su
Stehlik. Invitato a spiegarsi meglio, disse: «Spesso succedono cose che
hanno un impatto su di me, e condizionano la mia idea di quale sia il vero
comportamento dell’azienda». L’accumularsi di piccoli e grandi impatti
produsse infine un effetto su Stehlik: lo convinse di essersi ingannato nel
credere che la GE rispettasse sul serio i principî della Direttiva 20.5. E
quando, verso la fine del 1959, Burens ordinò a Stehlik di organizzare
incontri con la concorrenza e accordarsi sui prezzi, quest’ultimo non ne fu
affatto sorpreso.
La solerzia di Stehlik nell’eseguire gli ordini del suo superiore produsse
alla fin fine una nuova serie di impatti decisamente piú brutali sul piano
della forza comunicativa. Nel febbraio del 1960 la General Electric gli
decurtò lo stipendio da 70 000 a 26 000 dollari annui, a mo’ di sanzione per
aver violato la Direttiva 20.5; un anno piú tardi il giudice Ganey lo
condannò a un’ammenda di 3000 dollari e a trenta giorni di carcere (poi
sospesi) per violazione della legge Sherman; di lí a un mese, infine, la GE
chiese e ottenne le sue dimissioni. Certo è che nei suoi ultimi anni alla
General Electric Stehlik sopportò una quantità di colpi bassi degna di un
eroe di Raymond Chandler. Tuttavia le dichiarazioni rese da L. B. Gezon,
direttore della sezione marketing della divisione quadri elettrici a bassa
tensione, sembrano avvalorare l’ipotesi che Stehlik, simile anche in questo
al tipico eroe chandleriano, fosse esperto tanto nel ricevere quanto nel
somministrare colpi bassi di discreta brutalità. L. B. Gezon, diretto
subalterno di Stehlik nella gerarchia aziendale, dichiarò alla
sottocommissione di aver preso parte ad alcune riunioni indette allo scopo
di manipolare il mercato anche prima dell’aprile 1956, data in cui Stehlik
era stato nominato suo superiore; in seguito, disse, non aveva piú violato la
normativa antitrust fino agli ultimi mesi del 1958, allorché aveva ripreso a
farlo in conseguenza di un colpo basso del tutto privo della sottigliezza
rilevata da Stehlik nelle sue esperienze iniziali. Il colpo basso in questione
proveniva da Stehlik medesimo, che nel comunicare con i suoi sottoposti
non lasciava, a quanto pare, nulla al caso. Gezon dichiarò in sostanza che
Stehlik gli aveva detto «di riprendere gli incontri; che la politica aziendale
non era affatto cambiata; che il rischio era alto, come sempre; e che se le
nostre manovre fossero state scoperte io sarei stato licenziato o sottoposto a
sanzioni disciplinari [da parte dell’azienda], e perseguito dalla legge».
Gezon si trovava perciò di fronte a tre possibili scelte: andarsene,
disobbedire a un ordine diretto del suo superiore (nel qual caso, egli
immaginava che «avrebbero trovato qualcun altro disposto a fare il mio
lavoro») oppure obbedire, cioè violare la normativa antitrust senza alcuna
difesa dalle eventuali conseguenze di quell’atto. In breve, scelte all’altezza
di una spia internazionale.
Alla fine Gezon ricominciò a tramare con la concorrenza ma non fu
incriminato, forse perché il suo ruolo nella vicenda era relativamente
secondario. La General Electric lo retrocesse, ma non gli chiese di
rassegnare le dimissioni. Ciò nonostante, sarebbe sbagliato supporre che
Gezon sia uscito abbastanza indenne da quell’esperienza. Quando il
senatore Kefauver gli domandò se non pensava che l’ordine di Stehlik lo
avesse costretto in una situazione senza via di scampo, egli disse di non
aver avuto, all’epoca, quell’impressione. E quando gli fu chiesto se non
riteneva ingiusto essere retrocesso per aver obbedito alle disposizioni di un
superiore, rispose: «Personalmente, non mi pare». Insomma, è piú che certo
che la vicenda abbia lasciato un segno profondissimo nel cuore e nella
mente di L. B. Gezon.

L’altra faccia del problema comunicativo – la difficoltà di comprendere


ciò che un subordinato dice al suo superiore – è vividamente illustrata dalle
testimonianze di Raymond W. Smith, direttore generale della divisione
trasformatori della GE dall’inizio del 1957 fino agli ultimi mesi del 1959, e
di Arthur F. Vinson, dall’ottobre 1957 vicepresidente responsabile del
settore impiantistica, nonché membro del comitato esecutivo dell’azienda.
Smith faceva ciò che Ginn aveva fatto nei due anni precedenti, e Vinson,
una volta ottenuta la vicepresidenza, diventò il diretto superiore di Smith. Il
salario massimo percepito da Smith nel periodo in questione ammontava a
circa 100 000 dollari annui; Vinson riscuoteva invece uno stipendio base di
110 000 dollari, piú un bonus di consistenza variabile, generalmente
compreso tra i 45 000 e i 100 000 dollari. Smith testimoniò di essersi
incontrato, il 1º gennaio del 1957 – il suo primissimo giorno a capo della
divisione trasformatori, nonché festività nazionale – con il capo
coordinatore e vicepresidente esecutivo Paxton, il quale gli somministrò la
consueta ramanzina sul rispetto della Direttiva 20.5. Nel corso di
quell’anno, tuttavia, la concorrenza si fece cosí accanita che era impossibile
vendere i trasformatori senza applicare sconti fino al 35 per cento, in certi
casi; pertanto Smith decise di propria iniziativa che era il momento di
riprendere le trattative con la concorrenza e stabilizzare il mercato. A
giustificarlo nel suo intento, disse, era la certezza che tanto negli ambienti
aziendali quanto nell’intero comparto produttivo quel genere di
patteggiamenti fosse «all’ordine del giorno».
Nell’ottobre del 1957, dunque, Smith si incontrava regolarmente con la
concorrenza per concordare i prezzi. Nell’intento di informare Vinson,
appena diventato suo capo, su quanto stava facendo, Smith ebbe modo di
dirgli in due o tre occasioni la seguente frase: «Stamattina ho avuto una
riunione con la cricca». Il pubblico ministero della sottocommissione
domandò a Smith se avesse mai accennato alla circostanza in termini piú
diretti; se per esempio avesse mai detto a Vinson qualcosa come: «Ci
incontriamo con la concorrenza per truccare i prezzi. C’è una piccola
cospirazione in atto e non desidero che si sappia in giro». Smith rispose di
non aver mai detto niente del genere; di non avere cioè mai fatto altro
fuorché accennare alla circostanza con frasi del tipo: «Stamattina ho avuto
una riunione con la cricca». In mancanza di informazioni piú approfondite
sul perché Smith non abbia mai parlato chiaro, la logica ci offre due
possibili spiegazioni. Forse intendeva tenere Vinson al corrente della
situazione proteggendolo al tempo stesso dal rischio di diventarne
complice. Oppure si stava semplicemente esprimendo nello stile obliquo e
colloquiale che gli era consueto. (Paxton, intimo amico di Smith, gli aveva
una volta fatto notare che «tendeva a essere piuttosto criptico»). In ogni
caso Vinson testimoniò di aver completamente frainteso il senso della frase
di Smith; anzi, non rammentava neppure di averlo sentito usare
l’espressione «riunione con la cricca»; ricordava però altre frasi pronunciate
dal suo subalterno, per esempio: «Be’, vado dai ragazzi a fargli vedere
questo nuovo progetto sui trasformatori». Vinson dichiarò di aver pensato
che i «ragazzi» fossero i colleghi dell’ufficio vendite di zona oppure i
clienti della GE , e che il «nuovo progetto» fosse un piano di marketing;
disse inoltre che era stato un brutto colpo scoprire a distanza di un paio
d’anni, a scandalo ormai scoppiato, che i «ragazzi» di cui parlava Smith
erano la concorrenza, e il «nuovo progetto» era un patto per manipolare i
prezzi. «Credo che Mr Smith sia una persona sincera, – testimoniò Vinson.
– Sono sicuro che […] fosse davvero convinto di dirmi che andava a una di
quelle riunioni. Ma per me erano parole senza senso».
Smith, invece, era perfettamente certo che Vinson avesse capito. «Non
ho mai avuto l’impressione di essere frainteso», dichiarò ai membri della
sottocommissione. In un successivo confronto con Vinson, il senatore
Kefauver gli domandò se riteneva possibile che un dirigente del suo calibro,
con trenta e piú anni di esperienza nel settore elettrico, fosse tanto ingenuo
da interpretare erroneamente il messaggio di un suo subalterno su una
questione tanto determinante quanto la vera identità dei cosiddetti
«ragazzi». «Non mi sembra un eccesso di ingenuità, – replicò Vinson. – Da
noi ci sono un sacco di ragazzi […] Può anche darsi che io sia un ingenuo,
ma sto dicendo la verità, e da questo punto di vista non ho niente in
contrario a definirmi ingenuo».

SENATORE KEFAUVER Mr Vinson, se lei fosse davvero ingenuo non credo che sarebbe
diventato un vicepresidente con uno stipendio da 200 000 dollari l’anno.
MR VINSON Io invece credo che avrei potuto arrivarci anche essendo ingenuo. Anzi,
forse mi sarebbe stato utile.

Questo scambio di battute fa riemergere in un contesto del tutto diverso


il problema della comunicazione. Siamo davvero certi che Vinson abbia
voluto dire a Kefauver ciò che sembra avergli detto, ossia che un certo
grado di ingenuità riguardo alle violazioni delle norme antitrust può essere
utile per conquistare e mantenere un posto da 200 000 dollari alla General
Electric? La cosa è improbabile. Ma allora, cos’altro voleva dirgli? Quale
che sia la risposta a questo interrogativo, né gli agenti federali dell’antitrust
né i senatori della sottocommissione furono in grado di provare che
Raymond Smith avesse efficacemente comunicato ad Arthur Vinson la sua
partecipazione agli incontri con la concorrenza. E in mancanza di quella
prova, non fu possibile accertare ciò che federali e senatori avevano dato
l’impressione di volere a tutti i costi accertare, ovvero che ai massimi
vertici della General Electric c’era almeno una persona – un membro del
sacro consiglio direttivo – implicata nella faccenda. Di fatto, quando la
cospirazione venne a galla Vinson non solo si dichiarò favorevole al pesante
declassamento inflitto a Smith, ma fu lui stesso a informarlo personalmente
della decisione: il che, se davvero Vinson aveva capito ciò che Smith aveva
tentato di dirgli tempo addietro, dimostrerebbe una notevole dose di
cinismo e ipocrisia. (Smith, d’altro canto, preferí dimettersi piuttosto che
essere degradato; dopo la condanna a 3000 dollari di ammenda e trenta
giorni di detenzione con la condizionale, trovò un impiego altrove, a 10 000
dollari l’anno).
Questo non fu l’unico coinvolgimento di Vinson nel caso. Il suo nome
compariva anche in uno degli atti di accusa che avevano dato luogo al
procedimento; il problema, in questo caso, non era la sua comprensione del
gergo di Smith ma i maneggi che erano stati perpetrati nel reparto quadri
elettrici. Quattro responsabili di quel reparto, infatti – Burens, Stehlik,
Clarence E. Burke e H. Frank Hentschel – testimoniarono, davanti al gran
giurí prima e alla sottocommissione poi, che in un giorno imprecisato di
luglio, agosto o settembre 1958 (nessuno dei quattro fu in grado di indicare
la data esatta) Arthur Vinson aveva pranzato con loro nella sala mensa B
dello stabilimento General Electric di Philadelphia, e in quella circostanza li
aveva incaricati di ritrovarsi con la concorrenza per concordare i prezzi. In
conseguenza di quell’ordine, il 9 novembre 1958 si era tenuto all’hotel
Traymore di Atlantic City un incontro al quale avevano partecipato i
rappresentanti della General Electric, della Westinghouse, della Allis-
Chalmers Manufacturing Company, della Federal Pacific Electric Company
e della I-T-E Circuit Breaker Company. Nel corso della riunione i
partecipanti si erano accordati per spartirsi le vendite di quadri elettrici
destinati alle aziende elettriche federali, statali e locali. La General Electric
avrebbe dovuto accaparrarsi il 39 per cento del mercato, la Westinghouse il
35, la I-T-E l’11, la Allis-Chalmers l’8 per cento e la Federal Pacific
Electric il 7 per cento. Nelle riunioni successive si stipularono ulteriori
accordi per la spartizione delle vendite ai privati e si mise a punto una
complessa formula in base alla quale il privilegio di presentare l’offerta piú
bassa ai potenziali clienti era concesso a turno a ciascuna azienda per un
periodo di due settimane. Per la sua natura ciclica, il meccanismo prese il
nome di «formula delle fasi lunari»: denominazione che a suo tempo diede
luogo a una sorta di dialogo lirico tra i membri della sottocommissione e L.
W. Long, dirigente della Allis-Chalmers:

SENATORE KEFAUVER Chi c’era nelle fasi… nelle fasi lunari?


MR LONG Come è emerso in seguito, la cosiddetta «operazione fasi lunari» è stata messa
in atto a un livello inferiore al mio, in quello che – credo – fosse uno specifico
gruppo di lavoro…
MR FERRALL [membro del collegio d’accusa] Qualcuno gliene ha mai parlato?
MR LONG Delle fasi lunari? No, mai.

Vinson disse agli avvocati del dipartimento di Giustizia, e ripeté davanti


alla sottocommissione, di non aver mai saputo nulla delle riunioni al
Traymore, delle fasi lunari e della stessa cospirazione, finché non era
scoppiato lo scandalo; quanto al pranzo nella sala mensa B, fu irremovibile
nel dire che non aveva mai avuto luogo. Su questo specifico punto Burens,
Stehlik, Burke e Hentschel furono sottoposti dall’Fbi alla macchina della
verità, e superarono la prova. Vinson si rifiutò di affrontare il test, dapprima
sostenendo che era il suo avvocato a consigliarglielo anche se lui,
personalmente, sarebbe stato disposto; in seguito, visti i risultati degli altri
quattro, disse che se la macchina non si era accorta che mentivano voleva
dire che non funzionava. Alla fine si stabilí che in otto giorni lavorativi dei
mesi di luglio, agosto e settembre, tutti e quattro i dirigenti del reparto
quadri elettrici si erano trovati all’ora di pranzo nello stabilimento di
Philadelphia; Vinson, dal canto suo, mostrò alcune distinte per il rimborso
spese dalle quali risultava che in ognuna di quelle date lui era sempre stato
altrove. Sulla base di questa prova, il dipartimento di Giustizia lasciò cadere
l’accusa nei confronti di Vinson, che conservò il suo posto di vicepresidente
della General Electric. Nelle dichiarazioni rese alla sottocommissione, poi,
non emersero elementi tali da mettere in dubbio la linea di difesa con cui
Vinson aveva fatto colpo sugli avvocati della pubblica accusa.
I piani alti della General Electric, dunque, uscirono sani e salvi
dall’inchiesta; i verbali dimostrarono che il complotto si era infiltrato
abbastanza profondamente nei gradini inferiori della scala gerarchica, ma
non era arrivato fino in cima. Fu accertato che Gezon aveva agito per ordine
di Stehlik, e che a sua volta Stehlik aveva obbedito a Burens, ma non si
riuscí ad andare oltre: certo, Burens sosteneva di essere stato istruito da
Vinson, ma quest’ultimo aveva negato e non c’era stato modo di smentirlo.
In conclusione delle indagini, il pubblico ministero dichiarò alla corte di
non avere raccolto prove sufficienti per affermare che il presidente del
consiglio di amministrazione Cordiner e il presidente Paxton avessero
autorizzato le cospirazioni o ne fossero quanto meno stati al corrente: venne
cosí ufficialmente esclusa la possibilità che i due alti dirigenti fossero
colpevoli della benché minima strizzatina d’occhio. E neppure quando
Paxton e Cordiner si presentarono a Washington per testimoniare davanti
alla sottocommissione si riuscí dimostrare che i due avessero mai ceduto a
qualsiasi forma di ammiccamento.

Paxton – già descritto da Ginn come il piú ostinato e fervente sostenitore


della libera concorrenza – spiegò ai membri della sottocommissione che il
suo pensiero si fondava, certo, sulle teorie di Adam Smith, ma non
direttamente, bensí attraverso la mediazione del compianto Gerard Swope,
un ex dirigente della GE alle cui dipendenze Paxton aveva lavorato. Questi,
spiegò Paxton, era fermamente convinto che il fine ultimo dell’economia
consistesse nel produrre sempre piú beni per un pubblico sempre piú vasto,
a un costo sempre piú basso. «Ci credevo allora e ci credo adesso, – affermò
Paxton. – Sono convinto che nessun altro industriale abbia mai espresso un
principio di filosofia economica piú straordinario di questo». Nel corso
della testimonianza, Paxton forní una spiegazione, filosofica o di altro
genere, per ciascuna delle circostanze in cui il suo nome era stato associato
alla vicenda dei prezzi truccati. Per esempio, era emerso che nel 1956 o
1957 un certo Jerry Page, giovane impiegato di basso rango della divisione
quadri elettrici della GE , aveva scritto direttamente a Cordiner sostenendo
che la sua divisione e le omologhe ripartizioni di varie aziende concorrenti
erano coinvolte in un complotto per scambiarsi informazioni sui prezzi
tramite un codice segreto che prevedeva l’uso di carta da lettere di colori
diversi. Cordiner aveva passato la comunicazione a Paxton,
raccomandandogli di fare chiarezza; quest’ultimo, dopo opportune indagini,
aveva stabilito che il complotto della carta colorata era «tutta
un’allucinazione del ragazzo». La conclusione di Paxton era
apparentemente corretta, anche se in seguito sarebbe venuto fuori che
proprio in quegli anni e in quella divisione c’era stato un complotto per
truccare i prezzi: ma il tutto si era svolto in modo abbastanza
convenzionale, con incontri segreti che non necessitavano di fantasiosi
codici policromi. Quanto a Jerry Page, non fu chiamato a testimoniare a
causa delle cattive condizioni di salute.
Paxton ammise che c’erano state alcune occasioni in cui, probabilmente,
«era stato proprio un maledetto stupido». (Stupido o meno, le sue mansioni
di presidente della General Electric erano come è ovvio remunerate ben piú
generosamente rispetto a quelle di Vinson: lo stipendio base di Paxton
ammontava a 125 000 dollari annui, cui si aggiungevano vari incentivi per
altri 175 000, piú i diritti di opzione sulle azioni della società che fruttavano
ulteriori proventi soggetti ad aliquote fiscali piú basse). Sul tema della
comunicazione interaziendale, poi, Paxton tendeva a un certo pessimismo.
Durante le udienze gli fu chiesta la sua opinione riguardo alle conversazioni
svoltesi nel 1957 tra Smith e Vinson: Paxton rispose che, conoscendo
Smith, non riusciva a «immaginarselo nella parte del bugiardo», e aggiunse:

Quand’ero giovane giocavo spesso a bridge. Eravamo in quattro: facevamo una


cinquantina di partite ogni inverno, probabilmente a un buon livello. Se tra voi c’è
qualcuno che gioca, saprà che nel bridge i giocatori di una stessa coppia si scambiano
una serie di segnali codificati. È un gioco molto formalizzato. […] A ripensarci ora,
soprattutto dopo aver letto la testimonianza di Smith in cui si parla di «riunioni della
cricca» o dei «ragazzi», mi viene il sospetto che tra coloro che trattavano con la
concorrenza potesse esserci un sistema di comunicazione formalizzato. Se cosí fosse,
Smith avrebbe potuto dire «Ho informato Vinson di quanto stavo facendo», e Vinson,
dal canto suo, avrebbe potuto rispondere che non aveva la minima idea di quel che
Smith gli aveva detto, e testimoniando sotto giuramento il primo avrebbe detto sí, il
secondo avrebbe detto no, ed entrambi avrebbero detto la verità […] Come se fossero su
due diverse lunghezze d’onda. La stessa frase avrebbe avuto due significati diversi.
Credo, anzi sono convinto, che entrambi fossero certi di dire la verità, ma che la
comunicazione avvenuta tra di loro sia stata manchevole sul piano della comprensione.

Difficile immaginare un’analisi piú sconfortante del problema della


comunicazione.

Quanto a Cordiner, dalla sua testimonianza sembra di capire che si


trovasse in una condizione simile a quella dei Cabot, l’antica famiglia
dell’alta società bostoniana che, come dice la famosa filastrocca, parla
soltanto con i Lowell e con Dio 2. A giudicare dalla sfrenata prodigalità con
cui venivano ricompensati (un salario che nel 1960 superava di poco i 280
000 dollari, ai quali si aggiungevano sopravvenienze attive nell’ordine dei
120 000 dollari e stock option per un valore potenziale di altre centinaia di
migliaia di dollari), i servigi di Cordiner non potevano che essere molteplici
e preziosi; ciò nonostante, erano svolti a un livello talmente elevato da
renderlo praticamente incapace di comunicare secondo gli usi del pianeta
Terra, almeno in ciò che riguardava la normativa antitrust. Quando si
rivolse con veemenza alla sottocommissione sostenendo di non aver mai
avuto il minimo sospetto sull’esistenza di una rete cospiratoria, si capí che
nel caso specifico il problema non era la comunicazione difettosa, bensí la
totale assenza di comunicazione. A differenza di Ginn e di Paxton, nelle sue
testimonianze Cordiner non parlò mai né di filosofia, né di filosofi, ma dalla
frequenza con cui ordinava ristampe della Direttiva 20.5 e infarciva i suoi
discorsi di lodi alla libertà di impresa, sembra evidente che fosse un
philosophe sans le savoir – e per giunta uno di quelli che vendevano il
Signore, dato che nessuno riuscí mai a dimostrare una sua eventuale
propensione agli ammiccamenti. Il senatore Kefauver diede lettura di un
lungo elenco di violazioni alla norma antitrust attribuite alla General
Electric nell’arco di mezzo secolo, chiedendo ogni volta a Cordiner, che era
entrato in azienda nel 1922, quanto ne sapesse in proposito; nella maggior
parte dei casi, il grande capo della GE rispose di averle scoperte soltanto a
posteriori. Nel commentare la testimonianza di Ginn in merito alla frase con
cui Erben aveva revocato gli ordini di Cordiner, quest’ultimo si disse
«molto allarmato» e «altrettanto sorpreso», poiché Erben gli era sempre
parso animato da «un vivace spirito competitivo», non già da sentimenti
amichevoli verso la concorrenza.
Durante la sua testimonianza, Cordiner usò svariate volte la curiosa
formula «dare riscontro». Se, per esempio, Kefauver si distraeva e gli
poneva due volte la stessa domanda, Cordiner rispondeva: «Ho già dato
riscontro su questo un minuto fa»; oppure, se Kefauver lo interrompeva –
cosa abbastanza frequente – Cordiner chiedeva in tono educato: «Posso
dare riscontro?» Anche questo dettaglio potrebbe essere un ottimo spunto
per un borsista che volesse approfondire la differenza tra il dare riscontro
(in quanto reazione passiva) e il rispondere (in quanto gesto attivo)
analizzandone la relativa efficacia ai fini del processo comunicativo.
La posizione di Cordiner rispetto all’intera vicenda è efficacemente
sintetizzata dalla sua risposta a una domanda di Kefauver, il quale gli aveva
chiesto se a suo parere la GE fosse «caduta in disgrazia». «No, – disse
Cordiner, – non intendo dare riscontro a questo sostenendo che l’azienda sia
in disgrazia. Dirò che siamo molto addolorati e preoccupati […] Non ne
vado affatto orgoglioso».

Abbiamo dunque visto come il presidente Cordiner, pur avendo


propinato ai suoi uomini molte sonore ramanzine sull’opportunità di
rispettare le regole dell’azienda e le leggi del Paese, non sia di fatto riuscito
a convincerli; il presidente Paxton, dal canto suo, si sarà a lungo domandato
perché due funzionari che avevano fornito resoconti diametralmente opposti
della stessa conversazione non fossero stati considerati bugiardi ma soltanto
cattivi comunicatori. Nelle stanze della General Electric la filosofia sembra
aver toccato lo zenit, mentre la comunicazione è ai livelli di guardia. Se
solo i dirigenti imparassero a capirsi, il problema delle violazioni
dell’antitrust sarebbe risolto: questo il senso esplicito o implicito di molte
testimonianze rese alla sottocommissione Kefauver. Ma forse il problema è
tecnico e culturale al tempo stesso, ed è in qualche modo legato alla perdita
di identità personale di chi lavora in una grande organizzazione. Il
vignettista Jules Feiffer, che ha analizzato il problema della comunicazione
in un contesto non industriale, ha detto: «In realtà, la scissione avviene tra
la persona e sé stessa. Se non siamo in grado di comunicare efficacemente
neppure all’interno di noi stessi, com’è possibile che si riesca a stabilire un
contatto con gli estranei?» Supponiamo, per pura ipotesi, che il proprietario
di un’azienda ordini ai suoi dipendenti di rispettare le norme antitrust, ma a
causa di una cattiva comunicazione con sé stesso non sia in grado di capire
se vuole o meno che quell’ordine sia eseguito. Se le sue disposizioni non
vengono rispettate, le conseguenti manipolazioni del mercato porteranno
beneficio alle casse dell’azienda; se invece vengono rispettate, il
proprietario dell’azienda avrà agito giustamente. Nel primo caso non sarà
direttamente coinvolto negli illeciti, mentre nel secondo caso gli sarà dato
merito di aver fatto la cosa giusta. In entrambe le situazioni, cos’ha da
perdere? Dunque è ragionevole supporre che il proprietario di quell’azienda
possa decidere di privilegiare la comunicazione dell’incertezza rispetto alla
comunicazione dell’ordine. E qui, forse, un altro borsista potrebbe esplorare
il lato opposto del fallimento comunicativo: quelle situazioni, cioè, in cui i
messaggi che il mittente non è neppure consapevole di trasmettere arrivano
a destinazione con insospettabile efficacia.
Al termine dell’indagine, le società accusate non erano certo in
condizione di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Se un’azienda riesce
a dimostrare di aver pagato piú del necessario una certa fornitura a seguito
di una violazione delle norme antitrust, la legge le consente di citare per
danni il venditore, chiedendo in molti casi un risarcimento pari al triplo del
danno subito. Sulla scrivania del giudice capo della Corte suprema Warren
si accumularono cosí tante cause, con richieste di indennizzi per svariati
milioni di dollari, che alla fine si dovette istituire uno speciale collegio di
giudici federali. E naturalmente neppure il presidente del consiglio di
amministrazione della GE poté dimenticarsi della faccenda: anzi, è probabile
che per un certo periodo di tempo non sia riuscito a pensare ad altro.
Cordiner dovette infatti difendersi non solo dalle cause dei danneggiati, ma
anche dall’attacco – inefficace, si scoprí poi – di un gruppo di azionisti di
minoranza decisi a spodestarlo. Il presidente Paxton rassegnò le dimissioni
nell’aprile del 1961, per problemi di salute che si trascinavano già da
qualche mese a seguito di un grave intervento subito nel gennaio dello
stesso anno. Quanto ai dirigenti che si erano dichiarati colpevoli ed erano
stati puniti con ammende o con la detenzione, la maggior parte di quelli
impiegati in aziende diverse dalla General Electric restò al suo vecchio
posto o se ne vide assegnare un altro non dissimile. Quelli che invece
avevano lavorato alle dipendenze della GE non riebbero mai piú i loro
incarichi. Alcuni andarono definitivamente in pensione, altri si
accontentarono di ruoli relativamente marginali, altri ancora ne ottennero di
piú prestigiosi: il caso piú eclatante fu quello di Ginn, che nel giugno del
1961 diventò presidente della Baldwin-Lima-Hamilton, un’azienda
produttrice di macchinari pesanti. Quanto agli effetti futuri della vicenda, si
può supporre con ragionevole certezza che – grazie al dipartimento di
Giustizia, al giudice Ganey, al senatore Kefauver e ai triplici risarcimenti –
il suo impatto sui filosofi che governano le aziende e sui loro subalterni sia
stato tale da convincerli a rigare dritto almeno per qualche tempo. E chissà
che intanto non riescano anche a fare progressi sul fronte della
comunicazione.
1
Scandalo degli anni Venti, legato alla vendita di terreni petroliferi in una località del Wyoming
che si chiamava per l’appunto Teapot Dome [N. d. T.].
2
L’autore allude a una vecchia filastrocca che chiama in causa le famiglie della piú antica
«aristocrazia» bostoniana, i Cabot e i Lowell: «And this is old good Boston | The home of the bean
and the cod, | Where the Lowells talk only to Cabots | And the Cabots talk only to God» («E questa è
la bella Boston, antica città | patria dei fagioli e del baccalà | dove i Lowell non parlano che ai Cabot |
e i Cabot non parlano che a Dio») [N. d. T.].
7. L’ultimo corner
Un’azienda di nome Piggly Wiggly

Tra la primavera e la piena estate del 1958 il prezzo delle azioni


ordinarie della E. L. Bruce Company, prima produttrice statunitense di
pavimenti in legno duro, salí da poco meno di 17 a ben 190 dollari per
azione. Un’ascesa sconcertante, persino allarmante, che non conobbe soste
e terminò con un crescendo indiavolato: in un solo giorno, il prezzo
dell’azione aumentò di 100 dollari. Era da una generazione che non
succedeva niente di simile. Per di piú, l’impennata – dettaglio assai
inquietante – non sembrava riconducibile a un’improvvisa passione dei
consumatori americani per i pavimenti di legno duro. Per lo sgomento di
quasi tutte le persone coinvolte – compresi, probabilmente, i detentori di
azioni della Bruce Company – era conseguenza di una prassi del mercato
azionario comunemente detta corner, o accaparramento. A eccezione dei
casi di panico generalizzato come quello verificatosi nel 1929, il corner è il
piú drastico e spettacolare dei fenomeni osservabili in borsa: nell’Ottocento
e nei primi anni del Novecento è accaduto piú volte che un corner mettesse
in pericolo l’economia di un’intera nazione.
Con la Bruce Company, per fortuna, non si arrivò mai a questo punto. In
primo luogo era un’azienda talmente piccola che le oscillazioni (per quanto
folli) del suo titolo non potevano avere grandi effetti su scala nazionale. In
secondo luogo, il corner che interessò la Bruce era solo l’effetto collaterale
di una lotta per il controllo dell’azienda, mentre nella gran parte dei casi
precedenti si era trattato di deliberate manipolazioni del mercato. Dopo
qualche tempo, poi, si scoprí che non era stato neanche un vero corner:
infatti a settembre le azioni della Bruce ritrovarono la calma e si
assestarono su prezzi ragionevoli. Ma di certo la vicenda aveva fatto
riemergere i ricordi – a volte nostalgici – delle vecchie volpi di Wall Street:
gli operatori che frequentavano la sala contrattazioni all’epoca dei corner
piú classici, o quanto meno del piú recente tra questi.
Tutto era cominciato nel giugno del 1922, quando la Piggly Wiggly
Stores, una catena di negozi self-service con il quartier generale a Memphis
e numerosi punti di vendita negli Stati del Sud e dell’Ovest, si era quotata
alla borsa valori di New York: di lí a pochi mesi sarebbe divampata una
delle piú drammatiche battaglie finanziarie del turbolento decennio in cui
Wall Street, ancora troppo poco sorvegliata dalle autorità federali, era
eccessivamente vulnerabile alle macchinazioni di individui smaniosi di
arricchirsi e di distruggere i loro nemici. Tra gli aspetti piú teatrali di questa
particolare battaglia – tanto famosa a suo tempo da essere semplicemente
indicata come «la crisi della Piggly» nei titoli di molti quotidiani – vi era
senza dubbio la personalità dell’eroe protagonista (o del mascalzone,
secondo alcuni): un novellino di Wall Street, un ragazzo di campagna
spavaldamente deciso – tra gli applausi di buona parte dell’America rurale –
a ridurre all’impotenza i viscidi trafficanti di New York. Si chiamava
Clarence Saunders ed era di Memphis: un piacente grassottello di quarantun
anni che nella sua città era quasi una leggenda, soprattutto per via della casa
che si stava facendo costruire. Un’enorme struttura con la facciata in
marmo color pesca della Georgia e un maestoso vestibolo di candidi marmi
in stile romano: il suo Pink Palace sarebbe durato mille anni, diceva.
Doveva ancora essere ultimato, ma già cosí era facile rendersi conto che a
Memphis non s’era mai visto niente di simile. E naturalmente ci sarebbero
stati un giardino e un campo da golf, perché Saunders amava praticare i
suoi swing in privato. C’era un campo da golf persino nella magione
provvisoria in cui lui, la moglie e i quattro figli erano accampati in attesa
che il Pink Palace fosse terminato. (Alcuni sostengono che la preferenza di
Saunders per il gioco solitario fosse motivata dall’ostilità del country club
cittadino, i cui direttori lo accusavano di aver corrotto un intero plotone di
caddie con le sue mance sontuose). E di certo il fondatore e proprietario dei
Piggly Wiggly Stores albergava in sé i tratti piú salienti e vistosi del
commerciante americano: la generosità sospetta, l’attitudine
all’autopromozione, il gusto per l’ostentazione e cosí via. Ne aveva anche
altri, piú rari: uno stile estremamente vivace sia nel parlare sia nello
scrivere, e un talento – forse non del tutto consapevole – per la commedia.
Ma come molti grand’uomini prima di lui, anche Saunders aveva una
debolezza, un tragico difetto. Nel suo caso, quello di credersi un bifolco,
uno sciocco e un credulone; e insistendo a ritenersi tale, finiva spesso per
esserlo davvero.
È a questo personaggio improbabile che si attribuisce la paternità
dell’ultimo vero corner su un’azione quotata nelle borse statunitensi.

Il gioco del corner – perché questo era nel suo momento di massimo
splendore: un gioco, una scommessa pura e semplice, con poste altissime e
una stretta parentela con il poker – non era che una fase dell’interminabile
contesa tra i tori di Wall Street (che vogliono far salire i prezzi delle azioni)
e gli orsi (che vogliono invece farli scendere). La tattica era identica a ogni
«partita»: i tori compravano azioni; gli orsi ne vendevano. Ma poiché in
genere non avevano in portafoglio l’azione di cui volevano abbassare il
prezzo, i ribassisti ricorrevano al comunissimo strumento delle vendite allo
scoperto. In pratica, la transazione viene effettuata su titoli che il venditore
ha preso in prestito da un broker, al tasso di interesse che questi ritiene
opportuno. Poiché sono semplici agenti e non possiedono i titoli che
scambiano, i broker devono a loro volta farsi prestare i titoli che il ribassista
vorrebbe vendere. Per farlo, ricorrono al cosiddetto «flottante di borsa»,
cioè alla massa di titoli in perenne circolazione tra le società di
investimento: azioni che gli investitori privati affidano in conto vendita a
questa o quella società, quote di patrimoni o amministrazioni fiduciarie rese
libere al verificarsi di certe condizioni, e cosí via. In sostanza, il flottante
comprende tutte le azioni commerciabili di una data società, che non siano
cioè sepolte in una cassetta di sicurezza o cucite dentro un materasso. La
quantità di azioni circolanti è variabile, ma sempre tenuta sotto controllo; il
venditore allo scoperto che, per ipotesi, prende in prestito mille azioni da un
broker sa bene di aver contratto un debito inalterabile. La sua speranza –
l’aspettativa che lo tiene in vita – è che il prezzo di mercato di quell’azione
scenda, permettendogli di acquistare le mille azioni per le quali si è
indebitato a un prezzo inferiore rispetto a quello a cui le ha vendute,
cosicché, una volta pagato il costo del prestito, gli resti in tasca qualcosa. Il
rischio connesso a quest’operazione è che il prestatore decida, per qualsiasi
motivo, di farsi riconsegnare le sue mille azioni proprio quando il loro
prezzo di mercato è piú alto. In quel caso, il venditore allo scoperto sarebbe
costretto a riconoscere la dura verità del vecchio adagio di Wall Street: «Chi
vende ciò che non ha | deve comprarlo, o in prigione finirà» 1. Ai tempi in
cui era possibile fare i corner, poi, i sonni dei venditori allo scoperto erano
ulteriormente turbati dalla consapevolezza di operare alla cieca: poiché
trattava soltanto con agenti, il ribassista non conosceva mai né l’identità
dell’acquirente del suo lotto di azioni (magari un potenziale accaparratore?)
né quella del proprietario delle azioni prese in prestito (magari lo stesso
potenziale accaparratore che tentava un colpo a tradimento?)
Benché ampiamente criticata in quanto strumento speculativo, la pratica
delle vendite allo scoperto è tuttora consentita, con forti restrizioni, in tutte
le borse degli Stati Uniti. Nella sua forma piú libera, era la mossa iniziale di
ogni partita a corner. La situazione ideale si verificava quando un certo
numero di ribassisti si accordava per generare un’ondata di vendite allo
scoperto, spesso corroborate dalla diffusione di voci sulla presunta
debolezza dell’azienda a cui quel titolo faceva riferimento. Nel gergo di
Wall Street quest’operazione si chiama bear raid: la carica degli orsi, cioè
dei ribassisti. La piú temibile – e ovviamente piú rischiosa – contromossa
dei rialzisti consisteva nel tentare di mettere alle corde i ribassisti; di
intrappolarli in un angolo, appunto. L’operazione poteva riuscire soltanto in
presenza di massicce vendite allo scoperto: il bersaglio ideale, dunque,
erano proprio i titoli presi d’assalto dai ribassisti. L’aspirante incettatore
cercava di accaparrarsi tutto il flottante di quel titolo, piú una quantità di
portafogli privati sufficiente a bloccare l’offensiva degli orsi. Se il tentativo
andava a buon fine, quando l’accaparratore chiedeva di perfezionare
l’acquisto delle quote che i ribassisti gli avevano venduto allo scoperto,
questi ultimi non potevano che comprarle da lui. E dunque dovevano per
forza accettare il suo prezzo, dato che le uniche alternative – almeno sul
piano teorico – erano fallire o finire in galera per inadempienza.
Ai vecchi tempi dei duelli finanziari all’ultimo sangue, quando il
fantasma di Adam Smith ancora aleggiava su Wall Street, i corner erano
frequenti e ferocissimi: e spesso a rimetterci la testa (finanziariamente
parlando) non erano soltanto i ribassisti costretti all’angolo, ma anche
centinaia di spettatori innocenti. Il piú famoso accaparratore della storia fu
quel vecchio pirata di Cornelius Vanderbilt, detto il Commodoro, che negli
anni Sessanta dell’Ottocento portò a termine con successo almeno tre
operazioni di questo genere. L’esempio forse piú classico del suo modus
operandi fu il corner del titolo Harlem Railway. Vanderbilt acquistò in
segreto tutte le quote disponibili, e al tempo stesso mise in circolazione una
serie di voci infondate su un prossimo fallimento della società. I venditori
allo scoperto accorsero a frotte, ma a quel punto la trappola di Vanderbilt
era pronta a scattare: con l’aria di fargli un grosso favore e di salvarli dalla
galera, gli offrí in vendita le sue Harlem Railway alla modica cifra di 179
dollari per azione, avendole acquistate a un prezzo di gran lunga inferiore.
Un altro corner che fece danni enormi e generalizzati fu quello portato a
termine nel 1901 con il titolo Northern Pacific: per mettere insieme le
enormi quantità di denaro liquido necessarie a coprire le posizioni corte, i
venditori allo scoperto furono costretti a cedere una tale quantità di altre
azioni da provocare un’ondata di panico su scala nazionale, con
ripercussioni sulle borse di tutto il mondo. Il secondo corner in ordine di
grandezza fu realizzato nel 1920: per mettere in difficoltà i suoi rivali a
Wall Street, Allan A. Ryan, figlio del leggendario magnate Thomas Fortune
Ryan, cercò di mettere all’angolo il titolo della Stutz Motor Company, casa
madre della famosa auto sportiva Stutz Bearcat. L’impresa riuscí, e i
venditori allo scoperto furono spremuti a dovere. Ma Ryan si era
evidentemente cacciato in un ginepraio, perché le autorità di borsa
sospesero le contrattazioni del titolo Stutz; seguirono lunghe vertenze
legali, e l’incettatore ne uscí rovinato.
Negli anni successivi il gioco del corner finí per condividere la sorte di
molti altri giochi, definitivamente stroncati dalle discussioni post mortem
sulle regole. Le riforme introdotte negli anni Trenta del Novecento misero
poi fuori legge tutte le vendite allo scoperto effettuate al fine di deprimere
le quotazioni di un titolo, nonché le altre pratiche utili a mettere all’angolo i
ribassisti: di fatto, il gioco del corner fu abolito per decreto. Al giorno
d’oggi, l’unico angolo di cui si parli alla Borsa di New York è quello tra
Broad Street e Wall Street: eventuali situazioni analoghe a quelle che
abbiamo descritto potrebbero verificarsi soltanto per caso (o in maniera
incompleta, come per la Bruce Company), e Clarence Saunders verrà per
sempre ricordato come l’ultimo speculatore ad avere giocato di proposito
una partita di corner.

Nelle descrizioni dei suoi contemporanei, Saunders era «un uomo dotato
di scorte inesauribili di inventiva ed energia», oppure «un arrogante
presuntuoso come pochi altri», oppure ancora «un bambino di quattro anni
che giocava con tutto», o «uno degli uomini piú straordinari della sua
generazione». È certo tuttavia che molti, persino tra quanti subirono perdite
finanziarie a causa delle sue iniziative promozionali, vedessero in lui la
quintessenza dell’onestà. Clarence Saunders era nato nel 1881 da una
povera famiglia della contea di Amherst, in Virginia: come molti futuri
miliardari, aveva cominciato a lavorare da adolescente nell’emporio vicino
a casa, in cambio di una paga miserevole: quattro dollari alla settimana, nel
suo caso. Fu il primo passo di una rapida carriera che lo portò dapprima in
una ditta di commercio all’ingrosso di Clarksville, nel Tennessee, quindi in
un’altra a Memphis; appena ventenne, Saunders era già titolare di una
piccola catena di rivendite alimentari chiamata United Stores. Di lí a
qualche anno la vendette e, dopo una breve parentesi come grossista in
proprio, dal 1919 in avanti mise in piedi una catena di negozi self-service al
dettaglio con il buffo nome di Piggly Wiggly Stores. (Quando un suo socio
gli chiese perché avesse scelto quel nome, Saunders rispose: «Perché la
gente mi facesse la stessa domanda che mi hai appena fatto»). Il successo
dei Piggly Wiggly Stores fu talmente strepitoso che nell’autunno del 1922 i
punti vendita erano già oltre milleduecento. Di questi, circa 650 erano
proprietà diretta di Saunders tramite la Piggly Wiggly Stores Incorporated;
gli altri appartenevano a commercianti indipendenti che pagavano le royalty
alla casa madre per poter utilizzare il metodo di vendita ideato da Saunders.
Nel 1923, quando l’espressione «negozio di alimentari» evocava ancora
commessi in grembiulone bianco e bilance truccate, il «New York Times»
descriveva cosí il metodo Saunders: «Il cliente di un Piggly Wiggly Store
vaga libero per i corridoi delimitati da file di scaffali. Prelevate le merci di
cui necessita, paga il dovuto ed esce». Saunders non lo sapeva ancora, ma
aveva inventato il supermercato.
L’effetto naturale della rapida ascesa dei Piggly Wiggly Stores fu la
quotazione della società alla borsa valori di New York: a sei mesi dal lieto
evento il titolo Piggly Wiggly si era già fatto una reputazione di sicuro,
benché non munifico, pagatore di dividendi, il tipico investimento noioso
ma sicuro («buono per le vedove e gli orfani», dicono le vecchie volpi di
Wall Street) al quale gli speculatori guardano con la rispettosa indifferenza
che i giocatori di dadi nutrono verso il bridge. Ma a un certo punto le cose
cambiarono, e piuttosto in fretta. Nel novembre 1922 alcune piccole ditte di
New York, del New Jersey e del Connecticut proprietarie di negozi con
insegna Piggly Wiggly fallirono e andarono in amministrazione controllata.
Di fatto, i loro legami con la casa madre erano quasi inesistenti: Saunders si
era limitato a vendergli i diritti di utilizzo del nome e concedergli in
noleggio alcune attrezzature brevettate, dopodiché se n’era lavato le mani.
Ma per un gruppo di operatori di borsa le cui identità non vennero mai
rivelate (i broker che avevano agito su loro incarico si erano cuciti le labbra
a filo doppio) il fallimento di quei Piggly Wiggly indipendenti fu come una
specie di dono del cielo: era arrivato il momento propizio per un’offensiva
al ribasso. Bastava mettere in giro un po’ di pettegolezzi, e il pubblico meno
informato si sarebbe presto convinto che anche la casa madre fosse sull’orlo
del fallimento. Per dare attendibilità alle voci e far scendere le quotazioni
del titolo Piggly Wiggly, gli operatori misero in atto una raffica di vendite
allo scoperto. Il titolo cedette ben presto alle pressioni: nell’arco di poche
settimane il prezzo scese da circa 50 dollari ad azione a meno di 40.
A quel punto Saunders annunciò agli organi di stampa che era pronto a
varare una campagna di acquisti, per «battere i professionisti di Wall Street
al loro stesso gioco». Che lui stesso fosse tutt’altro che un professionista è
indubbio: prima dell’entrata in borsa della Piggly Wiggly, non aveva mai
posseduto nemmeno una singola azione sul listino di Wall Street. Difficile
credere, dunque, che all’inizio della sua campagna acquisti avesse già
intenzione di tentare un corner; sembra piú probabile che il suo unico,
ineccepibile scopo fosse proprio quello dichiarato: sostenere le quotazioni
del titolo per proteggere il proprio capitale e i soldi degli azionisti. In ogni
caso Saunders partí per la caccia all’orso con il suo solito slancio, e per
prima cosa rimpinguò le proprie casse chiedendo a un gruppo di banche di
Memphis, Nashville, New Orleans, Chattanooga e Saint Louis un prestito di
circa 10 milioni di dollari. La leggenda vuole che abbia stipato quei 10 e
rotti milioni in una grossa valigia e sia salito sul primo treno per New York,
marciando poi alla volta di Wall Street deciso a dare battaglia, con le tasche
piene di altre banconote che non erano entrate nel bagaglio. In seguito
Saunders avrebbe smentito con decisione, sostenendo di essere rimasto a
Memphis e di aver diretto l’operazione a colpi di telegrammi e telefonate
interurbane ai suoi agenti di cambio. Ovunque si trovasse all’epoca dei fatti,
Saunders aveva messo insieme una squadra di una ventina di broker, della
quale faceva parte, con mansioni di coordinatore, anche Jesse L. Livermore,
uno dei piú famosi speculatori del XX secolo. Aveva già quarantacinque
anni, ma c’era ancora qualcuno che si burlava di lui chiamandolo con il
soprannome che si era guadagnato una ventina d’anni addietro: Boy
Plunger, il ragazzino che gioca d’azzardo. E siccome Saunders considerava
gli operatori di Wall Street (e soprattutto gli speculatori) un’accozzaglia di
mascalzoni e parassiti che si divertivano a tartassare le sue azioni, è assai
probabile che la decisione di prendere Livermore come alleato gli sia
costata cara: d’altronde, portare dalla sua parte il capitano della squadra
nemica era una mossa di sicura efficacia.
Nel primo giorno di battaglia Saunders acquistò prevalentemente allo
scoperto, mimetizzandosi dietro i suoi broker, 33 000 azioni Piggly Wiggly;
di lí a una settimana ne aveva in portafoglio 105 000, ovvero piú di metà
delle 200 000 in circolazione. Nel frattempo si era anche preso il lusso di
dare libero sfogo alle proprie opinioni, esponendo con parole forti e
taglienti (e a rischio di scoprire le carte) la sua opinione su Wall Street
mediante una serie di annunci a pagamento sui quotidiani del Sud e
dell’Ovest. «Chi gioca d’azzardo detta legge? – domandava Saunders in una
di quelle esternazioni. – Egli incede su un bianco destriero. La sua armatura
intessuta di inganni nasconde un cuore spregevole. Il suo elmo è fatto di
raggiri, i suoi speroni tintinnano perfidia, e gli zoccoli del suo cavallo
battono il ritmo della distruzione. Il buon imprenditore dovrà fuggire al suo
cospetto? Dovrà farsi preda dello speculatore?» A Wall Street, intanto,
Livermore continuava ad acquistare azioni Piggly Wiggly.
L’efficacia della campagna acquisti di Saunders fu subito evidente: a fine
gennaio 1923 il prezzo dell’azione aveva superato la soglia dei 60 dollari,
segnando un record assoluto. A quel punto i timori dei ribassisti furono
esasperati dalle notizie provenienti dalla Borsa di Chicago, dove, a quanto
si diceva, la manovra di corner sulle azioni Piggly Wiggly era già
completata e i venditori allo scoperto non avevano piú modo di coprire le
loro posizioni senza rivolgersi a Saunders. Diceria immediatamente
smentita dalla Borsa di New York, che diede per certa la disponibilità di un
ampio flottante. Ma forse furono proprio quelle voci infondate a mettere la
pulce nell’orecchio di Saunders, convincendolo a tentare, verso la metà di
febbraio, una mossa bizzarra e a prima vista sconcertante: pubblicare una
nuova inserzione sui giornali per offrire in vendita 50 000 azioni Piggly
Wiggly al prezzo di 55 dollari l’una. L’annuncio sottolineava in maniera
abbastanza persuasiva che il titolo fruttava un dollaro di dividendi a
trimestre, pari a un rendimento annuo del 7 per cento. «L’offerta è di breve
durata, e potrebbe essere revocata senza preavviso, – si precisava poi con
pacata urgenza. – Partecipare alle fasi iniziali di un grande progetto è
un’opportunità che viene offerta a pochi, e non piú di una volta nella vita».
Chiunque abbia una conoscenza anche superficiale della vita economica
moderna non potrà fare a meno di domandarsi come la Securities and
Exchange Commission (a cui spetta tra l’altro il controllo della fondatezza,
impersonalità e neutralità emotiva delle pubblicità dei prodotti finanziari)
avrebbe giudicato, se fosse già esistita all’epoca, il tono aggressivo delle
ultime due frasi. E se in quella prima inserzione c’era già abbastanza per far
impallidire i controllori della Sec, la seconda, pubblicata quattro giorni piú
tardi, era roba da colpo apoplettico. Un annuncio a tutta pagina, a caratteri
cubitali, che cosí strombazzava:

OCCASIONE! OCCASIONE!

Ecco, ecco che bussa alla vostra porta!


La sentite? La ascoltate? La comprendete?
Restate in attesa? Agite all’istante?
È forse apparso un nuovo Daniele di cui i leoni non vogliono pascersi?
È forse arrivato un nuovo Giuseppe a svelare gli enigmi dei sogni?
È forse nato un nuovo Mosè in una nuova Terra Promessa?
No? E allora perché, si domanda lo scettico, CLARENCE SAUNDERS è cosí…
generoso?

Dopo aver chiarito ai lettori che la vendita aveva per oggetto delle quote
azionarie e non una misteriosa panacea, Saunders ribadiva che il prezzo
richiesto era di 55 dollari ad azione, e che la sua generosità era motivata dal
lungimirante desiderio di affidare la proprietà dell’azienda agli stessi clienti
e ad altri piccoli investitori, strappandola in tal modo agli squali di Wall
Street. Una generosità che, a detta di molti, rasentava la follia. Il prezzo
delle azioni Piggly Wiggly alla Borsa di New York era ormai vicino ai 70
dollari: accettando l’offerta di Saunders, chiunque si fosse trovato 55 dollari
in tasca avrebbe avuto l’opportunità di guadagnarne 15 senza rischiare
nulla. Sulla venuta di un nuovo Daniele, Giuseppe o Mosè era forse lecito
nutrire dei dubbi; ma dell’occasione preziosa che stava bussando alla porta
dei risparmiatori ci si poteva fidare.
In realtà gli scettici avevano visto giusto: il trucco c’era, eccome.
Nell’annunciare quella che dal suo punto di vista sembrava essere
un’offerta svantaggiosa e antieconomica, il neofita Saunders aveva trovato
una delle scappatoie piú abili mai messe in atto nel gioco del corner. Tra le
maggiori insidie di quel tipo di manovra, infatti, c’è il pericolo di vederla
trasformarsi in una vittoria di Pirro. Dopo aver spremuto a dovere i
venditori allo scoperto, l’accaparratore scopre spesso che la caterva di
azioni accumulate durante il corner gli fa lo stesso effetto di un macigno
legato al collo. Se tentasse di sbarazzarsene rimettendole sul mercato in un
sol colpo, ne farebbe scendere il prezzo quasi a zero; e se, come Saunders,
si fosse pesantemente indebitato prima ancora di entrare in gioco, i creditori
potrebbero bussare alla sua porta proprio in quel momento, sottraendogli i
suoi guadagni o addirittura costringendolo alla bancarotta. Con tutta
probabilità Saunders aveva previsto quel rischio fin dall’inizio e si era
messo alla ricerca di un metodo che gli permettesse di scaricare una parte
delle quote non dopo aver vinto la partita, ma prima. L’essenziale era
evitare che le azioni cosí rilasciate entrassero nel flottante, vanificando
l’intera manovra: e la soluzione trovata da Saunders fu vendere le sue
azioni a 55 dollari con un piano di pagamento rateale. Nelle inserzioni
pubblicate a febbraio si precisava infatti che le condizioni di vendita
imponevano il pagamento di un anticipo in contanti pari a 25 dollari per
azione; il saldo doveva essere corrisposto in tre rate da 10 dollari ciascuna,
da versarsi il 1º giugno, il 1º settembre e il 1º dicembre. I certificati azionari
– dettaglio importante – sarebbero passati nelle mani degli acquirenti
soltanto dopo il pagamento dell’ultima rata. E poiché era ovviamente
impossibile vendere i certificati prima di averli in mano, in questo modo
Saunders si assicurava che le quote cosí cedute non andassero a
rimpinguare il flottante. A sua volta, questo significava che avrebbe avuto
tempo fino al 1º dicembre per spremere tutto il possibile dai venditori allo
scoperto.
Per quanto possa sembrare facile, col senno di poi, scoprire il gioco di
Saunders, la sua manovra era talmente poco ortodossa che per un certo
periodo né i membri del Consiglio della borsa, né lo stesso Livermore,
riuscirono a capire cosa avesse in mente l’uomo di Memphis. La borsa
valori avviò un’indagine formale; Livermore cominciò a innervosirsi, ma
seguitò a comprare azioni, tanto da spingerne la quotazione ben al di sopra
dei 70 dollari. A quel punto Saunders iniziò a rilassarsi: smise di usare i
suoi spazi pubblicitari per cantare le lodi delle azioni Piggly Wiggly e tornò
a magnificare le virtú di mele, pompelmi, cipolle, prosciutti e torte Lady
Baltimore in vendita nei suoi negozi. Ai primi di marzo, tuttavia, fece
pubblicare un’altra inserzione che rammentava la sua offerta finanziaria e
invitava chiunque volesse parlarne di persona con lui a presentarsi nel suo
ufficio di Memphis. Aggiunse poi che bisognava decidere in fretta: il tempo
stava per scadere.
Ormai era chiaro che Saunders stava tentando un corner: a Wall Street
erano tutti in allarme, non soltanto i ribassisti che avevano venduto allo
scoperto le Piggly Wiggly. Un bel giorno Livermore – forse ricordando il
milione di dollari che aveva perso nel 1908 con un corner sul cotone –
decise che la misura era colma e chiese a Saunders di venire a New York
per fare il punto della situazione. Saunders arrivò la mattina del 12 marzo.
Come disse in seguito ai giornalisti, dal colloquio era emersa una disparità
di vedute. «Livermore, – spiegò Saunders nel tono divertito di chi capisce
di aver trasformato un giocatore d’azzardo in un prudentissimo ragioniere
delle puntate minime, – mi ha dato l’impressione di essere un po’
preoccupato per la mia situazione finanziaria, e teme di essere coinvolto in
un crollo dei mercati». Il risultato finale del confronto fu che Livermore
uscí di scena e lasciò a Saunders il comando dell’operazione Piggly Wiggly.
A quel punto l’uomo di Memphis partí in treno per Chicago, dove aveva
alcuni affari da sbrigare. Arrivato ad Albany, si vide consegnare un
telegramma spedito da un suo conoscente che lavorava a Wall Street (di
amici veri e propri Saunders non ne aveva, in quel mondo di bianchi
destrieri e armature intessute di inganni). Nel telegramma c’era scritto che
le sue stravaganze avevano fatto corrugare molte fronti ai piani alti della
borsa valori, e che non era proprio il caso di creare un secondo mercato
offrendo le azioni Piggly Wiggly a prezzi decisamente inferiori alla
quotazione ufficiale. Alla stazione seguente Saunders telegrafò una risposta
piuttosto evasiva: se i consiglieri temevano un corner potevano mettere da
parte ogni apprensione, dal momento che egli stesso alimentava ogni giorno
il flottante, prestando quote azionarie a chiunque gliele chiedesse. Saunders
non disse però fino a quando avrebbe seguito quella linea di condotta.
Una settimana piú tardi, lunedí 19 marzo, Saunders annunciò con una
nuova inserzione che la sua offerta stava per essere ritirata e che quello
sarebbe stato l’ultimo appello. Stando a dichiarazioni rese in un secondo
tempo, al momento Saunders possedeva o «controllava» attraverso il piano
di vendita rateale, non ancora giunto alla fase conclusiva, 198 872 azioni
Piggly Wiggly su un totale di 200 000: dunque le quote che mancavano
all’appello erano solo 1128. In realtà la cifra era alquanto controversa (c’era
ad esempio un investitore privato di Providence che sosteneva di avere ben
1100 quote), ma non c’è dubbio che Saunders avesse in mano la totalità
delle azioni Piggly Wiggly in circolazione sul mercato: l’accaparramento
era perfettamente riuscito. Quello stesso lunedí – cosí pare, almeno –
Saunders telefonò a Livermore e gli chiese se era disposto a tornare sui suoi
passi per il tempo sufficiente a concludere l’operazione, sollecitando la
consegna di tutte le quote dovute a Saunders: se, insomma, voleva essere
cosí gentile da far scattare la trappola. Niente da fare, rispose Livermore,
che evidentemente si riteneva ormai estraneo alla vicenda. E cosí la mattina
successiva, martedí 20 marzo, fu lo stesso Saunders ad azionare la molla.

Fu una delle giornate piú folli dell’intera storia di Wall Street. Il titolo
Piggly Wiggly aprí a 75 dollari e 50, in rialzo di cinque dollari e mezzo
rispetto alla chiusura del giorno precedente. La notizia che Saunders aveva
chiesto la consegna di tutte le sue azioni arrivò un’ora dopo l’apertura.
Secondo le regole di Wall Street, in casi del genere le quote vanno
recapitate al richiedente entro le 14.15 del giorno successivo. Ma le azioni
Piggly Wiggly, come Saunders ben sapeva, non si potevano comprare da
nessuno fuorché, ovviamente, da Saunders stesso. C’erano, a dire il vero,
alcune quote ancora in mano a investitori privati: i venditori allo scoperto,
ormai in preda al panico, cercarono di liberarle offrendo cifre sempre piú
alte. Tutto sommato, però, le contrattazioni furono scarsissime, per la
semplice ragione che di azioni Piggly Wiggly non ce n’erano. La zona in
cui venivano solitamente scambiate divenne il centro di un’azione di massa
alla quale presero parte circa due terzi dei broker presenti in sala: ai pochi
accorsi per fare un’offerta si aggiunsero i molti venuti lí semplicemente per
far ressa, incitare i colleghi o godersi il parapiglia. Ribassisti disperati
acquistarono Piggly Wiggly a 90, poi a 100, poi a 110. Si cominciò a
vociferare di guadagni stratosferici. L’investitore di Providence che in piena
offensiva ribassista aveva comprato le sue 1100 azioni a 39 dollari l’una
venne ad assistere al massacro, cedette le sue quote a un prezzo medio di
105 dollari e se ne tornò a Providence con il treno del pomeriggio, portando
a casa un guadagno di oltre 70 000 dollari. Ma avrebbe potuto cavarsela
ancora meglio, se avesse saputo attendere: poco dopo mezzogiorno le
Piggly Wiggly erano salite a 124. Sembrava che nulla potesse impedirgli di
arrivare alle stelle, magari sfondando il tetto della sala. In realtà non
superarono mai quota 124, perché appena raggiunta quella soglia
cominciarono a circolare le prime voci su un’imminente riunione del
Consiglio della borsa. I punti all’ordine del giorno erano la sospensione
delle contrattazioni per il titolo Piggly Wiggly e la proroga della scadenza
di consegna per le vendite allo scoperto. Se entrambe le ipotesi si fossero
concretizzate, i ribassisti avrebbero avuto piú tempo a disposizione per
setacciare il mercato in cerca di azioni, smontando o vanificando del tutto
l’operazione di accaparramento. In ogni caso, le indiscrezioni furono
sufficienti a invertire la tendenza: quando la campanella pose fine a quella
caotica giornata, le Piggly Wiggly valevano 82 dollari.
Le voci si dimostrarono fondate. Dopo la chiusura delle contrattazioni,
l’organo di governo della borsa valori annunciò sia la sospensione del titolo,
sia la proroga della scadenza di consegna per i venditori allo scoperto «fino
a nuove deliberazioni da parte di questo Consiglio». Le ragioni ufficiali
della decisione non furono rese note, ma alcuni membri del Consiglio
fecero sapere per via ufficiosa che si temeva, qualora il corner non si fosse
potuto evitare, una nuova ondata di panico simile a quella che aveva seguito
il caso della Northern Pacific. Di contro, alcuni osservatori esterni
insinuarono con una certa irriverenza che forse il Consiglio si era
impietosito per la triste sorte dei venditori allo scoperto, molti dei quali –
come nel caso della Stutz Motor Company, due anni prima – erano
probabilmente membri della borsa valori.
Nonostante tutto, la sera di martedí Saunders era al settimo cielo: in fin
dei conti aveva guadagnato, almeno sulla carta, svariati milioni di dollari.
Ma c’era un intoppo: quei profitti, ovviamente, non potevano essere
realizzati. A quanto pare Saunders non fu prontissimo ad afferrare la
situazione, né sembrò rendersi conto che la sua apparente vittoria era in
realtà alquanto compromessa. Le cronache riferiscono che andò a letto
convinto di aver sollevato un gran polverone nell’odiata Wall Street,
riuscendo per giunta a guadagnare un bel gruzzolo e a impartire una sonora
lezione, lui povero ragazzo del Sud, a quegli elegantoni di città.
Indubbiamente c’era di che montarsi la testa. Ma quella specie di ebbrezza,
come tutte le sensazioni, durò poco. La prima dichiarazione pubblica di
Saunders, rilasciata nella sera di mercoledí, attestò che l’umore euforico
aveva ceduto il passo a una strana mistura di perplessità e spirito polemico,
a cui si aggiungeva una lontana eco dell’esultanza di martedí sera. «Avevo
un coltello alla gola: è questa, metaforicamente parlando, la ragione che mi
ha spinto, di punto in bianco e senza alcun preavviso, a tagliare le gambe a
Wall Street e alla sua ghenga di scommettitori e maneggioni, – disse a un
intervistatore. – Era una questione di sopravvivenza: mia, della mia azienda,
delle fortune dei miei amici. L’alternativa era soccombere, coprirmi di
ridicolo come un qualsiasi babbeo del Tennessee. Alla fine, grazie a un
piano ben congegnato e attuato con prontezza, le armi di Wall Street si sono
rivoltate contro gli stessi tracotanti poteri che le brandivano, credendosi
invulnerabili». Per finire, Saunders dettò le condizioni: a dispetto della
proroga decretata dai consiglieri, la scadenza per la liquidazione di tutte le
quote vendute allo scoperto era fissata alle quindici del giorno successivo –
giovedí – al prezzo di 150 dollari ad azione; superato quel termine, il prezzo
sarebbe salito a 250.
Giovedí, con grande stupore di Saunders, pochissimi venditori allo
scoperto (probabilmente i pochi che non sopportavano l’incertezza) si
fecero avanti per consegnare i certificati. A quel punto fu il Consiglio della
borsa a tagliare le gambe a Saunders, annunciando che le azioni Piggly
Wiggly erano stabilmente escluse dalle contrattazioni, e che la scadenza per
i venditori allo scoperto era posticipata di ben cinque giorni – fino alle
quattordici e quindici del lunedí successivo. Per quanto Memphis fosse
lontana dal campo di battaglia, questa volta Saunders intuí la rilevanza delle
decisioni e si rese conto di non avere piú il coltello dalla parte del manico.
Il punto cruciale era, ovviamente, la proroga del termine di consegna dei
certificati. «A mio parere, – dichiarò nel nuovo comunicato che fu
distribuito quella sera ai giornalisti, – il mancato rispetto delle scadenze di
compensazione da parte di un broker o di una banca è un fatto grave; nel
secondo caso, però, tutti sapremmo che destino attende quella banca […] Il
comitato di controllo affiggerebbe alla sua porta un bel cartello con scritto
CHIUSO . Non riesco a credere che l’augusta e onnipotente Borsa di New
York non voglia tener fede alla parola data. Di conseguenza, mi ostino a
credere che […] le quote azionarie che ancora mi sono dovute per contratto
[…] saranno liquidate con la giusta procedura». Il quotidiano di Memphis
«Commercial Appeal» pubblicò un editoriale che sosteneva le tesi di
Saunders, dichiarando: «Quest’ultima trovata rassomiglia molto alla
condotta truffaldina di un allibratore che non paghi le scommesse. Ci
auguriamo che il nostro concittadino dia ai controllori della Borsa di New
York la lezione che si meritano».
Per pura coincidenza, quello stesso giovedí fu pubblicato il rapporto
annuale sulla situazione finanziaria della società Piggly Wiggly Stores
Incorporated. I dati erano molto incoraggianti: le vendite, gli utili, le attività
correnti e tutti gli altri indicatori fondamentali erano in netta crescita
rispetto all’anno precedente. Ciò nonostante il documento non ricevette la
minima attenzione: per il momento, il valore effettivo della società era
irrilevante. Contava solo il gioco.

Venerdí mattina, infine, la bolla scoppiò. Scoppiò perché Saunders, pur


avendo comunicato che dopo la scadenza di giovedí pomeriggio il prezzo
delle azioni in suo possesso sarebbe salito a 250 dollari, prese l’inspiegabile
decisione di accontentarsi di 100, e annunciò pubblicamente la sua
decisione. Quando gli fu chiesto perché mai il suo cliente avesse concesso
quello sconto inaspettato, l’avvocato newyorchese di Saunders, E. W.
Bradford, rispose spavaldamente che era stato un atto di pura e semplice
generosità. Ma la verità non tardò a venire a galla: Saunders non aveva altra
scelta. Approfittando della proroga concessa dalle autorità di borsa, i
venditori allo scoperto e i loro broker avevano passato al setaccio gli
elenchi degli azionisti ed erano riusciti a stanare certi piccoli lotti di azioni
Piggly Wiggly che Saunders non era riuscito ad accaparrarsi. Vedove e
orfani di Albuquerque e di Sioux City, che nulla sapevano di vendite allo
scoperto e di corner, furono ben contenti di tirar fuori dai materassi o dalle
cassette di sicurezza le loro dieci o venti azioni Piggly Wiggly, vendendole
sul mercato over-the-counter (poiché i titoli non erano piú quotati in borsa)
ad almeno il doppio di quanto le avevano pagate. Di conseguenza, invece di
comprare le azioni da Saunders a 250 dollari l’una per poi consegnargliele a
copertura dei prestiti ricevuti, molti venditori allo scoperto riuscirono a
procurarsele sul mercato non regolamentato a un centinaio di dollari al
pezzo, e dunque saldarono il loro debito verso l’uomo di Memphis non in
contanti, ma in azioni Piggly Wiggly: l’ultima cosa che Saunders avrebbe
voluto. Al crepuscolo di venerdí, praticamente tutti i venditori allo scoperto
erano fuori pericolo, avendo regolato i loro debiti o con le azioni acquistate
over-the-counter, o in contanti, cioè comprando le quote detenute da
Saunders al prezzo che lui stesso aveva generosamente fissato: 100 dollari
ad azione.
Quella sera Saunders diffuse l’ennesimo comunicato stampa: il tono era
ancora polemico, ma era impossibile non cogliere in sottofondo il grido di
dolore. «Wall Street è stata battuta ed è corsa a chiamare la mamma, –
diceva il testo. – Di tutte le istituzioni americane, la Borsa di New York è
senz’altro la piú perniciosa, avendo il potere di rovinare chiunque tenti di
contrastarla. Essa si pone al di sopra di ogni legge […] Un’accolita di
individui che rivendicano a sé un diritto negato persino a re e tiranni:
stabilire una regola, applicarla un giorno e revocarla l’indomani per offrire
una scappatoia a un branco di imbroglioni […] Da oggi in poi, l’intera mia
vita sarà dedicata a un solo scopo: proteggere i cittadini da una simile
ingiustizia […] Io non temo nulla. Se Wall Street vuole ridurmi
all’impotenza, che ci provi». Ma a quanto pareva Wall Street aveva già
avuto la meglio, perché era riuscita a bloccare il corner; sicché ora Saunders
si ritrovava indebitato fino al collo con un gruppo di banche del Sud, e
gravato da una montagna di azioni il cui immediato futuro sembrava a dir
poco incerto.

Ma l’invettiva di Saunders non rimase inascoltata dalle parti di Wall


Street. Lunedí 26 marzo, poco dopo la scadenza del termine per la consegna
dei certificati, quando ormai era indubbio che il corner della Piggly Wiggly
fosse a tutti gli effetti acqua passata, la Borsa di New York pronunciò la sua
apologia sotto forma di una dettagliata ed estesa analisi della crisi. Nel
difendere le proprie ragioni, le autorità di Wall Street misero in evidenza le
potenziali conseguenze negative dell’operazione tentata da Saunders: «La
simultanea liquidazione di tutti i contratti avrebbe spinto il titolo verso
l’alto, lasciando unicamente a Mr Saunders il potere di stabilire il prezzo;
inoltre, la messa all’asta di quantità non sufficienti a coprire la domanda
avrebbe prodotto gli effetti già osservati in precedenti e analoghe occasioni,
segnatamente durante il corner della Northern Pacific del 1901». Piú avanti,
il documento abbandonava la sintassi ampollosa in favore di uno stile piú
diretto: «Gli effetti demoralizzanti di questa situazione non sarebbero
rimasti circoscritti alle parti in causa, ma avrebbero interessato tutto il
mercato». Quanto alle contromisure adottate – la sospensione del titolo
Piggly Wiggly e la proroga della data di consegna dei certificati – la borsa
le riteneva perfettamente in accordo con i suoi principî e il suo atto
costitutivo. Al giorno d’oggi sembra una posizione arrogante, ma bisogna
tener presente che all’epoca le regole della Borsa di New York erano di
fatto l’unica forma di controllo dei mercati azionari.
Un aspetto della vicenda su cui gli appassionati di antiquariato
finanziario non sono ancora unanimi riguarda la correttezza delle
contromosse con cui gli elegantoni di città sbarrarono la strada al babbeo
del Tennessee. Forti prove indiziarie sembrano attestare che, in un secondo
tempo, gli stessi elegantoni siano stati colti dal dubbio. Che la borsa abbia il
diritto di sospendere le contrattazioni di un titolo è un fatto indiscutibile,
poiché la norma è scritta nell’atto costitutivo della borsa stessa. Ma il diritto
di rinviare la data di liquidazione delle vendite allo scoperto è ben altra
faccenda. Nel giugno del 1925, due anni dopo il corner di Saunders, la
Borsa di New York si sentí in obbligo di integrare il proprio atto costitutivo
con un nuovo articolo che cosí recitava: «Qualora il comitato di governo
accerti che una delle azioni comprese nel listino è oggetto di una manovra
di corner, […] il Consiglio della borsa ha facoltà di rinviare la data di
consegna dei certificati relativi alle compravendite di quel titolo». Quando
un’istituzione si dà una norma che autorizza un comportamento già messo
in atto da tempo è logico pensare che abbia, nel migliore dei casi, la
coscienza sporca.

Il primo effetto immediato della crisi Piggly Wiggly fu un’ondata di


simpatia nei confronti di Saunders. In tutto l’hinterland agricolo, Clarence
Saunders fu acclamato come il coraggioso campione degli umili,
crudelmente sconfitto dalla prepotenza del gigante. Persino nella stessa
New York, tana del nemico, un editoriale del «Times» riconobbe che
nell’immaginario di molti Saunders era una specie di san Giorgio in lotta
contro il drago. Il trionfo finale del drago, sosteneva il «Times», era «un
brutto colpo per una nazione che, essendo popolata per almeno il 66,6 per
cento da “sempliciotti”, aveva reagito con entusiasmo alla notizia che un
loro pari avesse avuto la meglio sui grandi potentati e preso per il collo gli
spietati maneggioni di Wall Street».
Non essendo tipo da ignorare una tale moltitudine di amichevoli
sempliciotti, Saunders si mise all’opera per trarne subito vantaggio. E ne
aveva bisogno, considerati i guai che lo affliggevano. Il problema piú grave
erano i 10 milioni di dollari che doveva alle banche finanziatrici, e che
chiaramente non aveva. Forse il piano originario – semmai ne aveva avuto
uno – era di fare un colpo talmente grosso da poter ripagare una buona fetta
del debito, estinguendo il resto con i proventi della vendita pubblica delle
azioni e uscendo a testa alta da quell’avventura, senza piú debiti e con in
tasca un bel malloppo di azioni Piggly Wiggly. Ma alla fine, pur avendo
messo a segno quello che a molti sarebbe sembrato un ottimo colpo (quanto
ottimo non è dato saperlo, ma stime autorevoli lo valutavano a mezzo
milione di dollari o suppergiú) vendendo le azioni al prezzo pur scontato di
100 dollari l’una, l’ammontare totale dei ricavi risultò essere solo una
minima parte di quanto ci si sarebbe potuto aspettare: di conseguenza, tutta
la struttura di Saunders crollò come un arco senza la chiave di volta.
Dopo aver trasferito alle banche le somme versategli dai venditori allo
scoperto e quelle incassate con la vendita pubblica delle azioni, Saunders
scoprí di avere ancora debiti per circa 5 milioni di dollari, da restituire in
due rate entro il 1º settembre di quell’anno e il 1º gennaio del 1924. Per
racimolare quei soldi avrebbe dovuto cedere una fetta piú consistente del
suo vasto portafoglio di azioni Piggly Wiggly, ma poiché era impossibile
venderle tramite la borsa, Saunders fece appello alla sua forma di
espressione preferita: le inserzioni sui giornali, stavolta corroborate da un
pressante invito all’acquisto per corrispondenza, al prezzo invariato di 55
dollari per azione. Purtroppo ci volle poco per capire che la solidarietà del
pubblico era un concetto astratto difficilmente traducibile in denaro
contante: a New York, a Memphis e persino a Texarkana, tutti ormai
avevano sentito parlare delle manovre speculative sul titolo Piggly Wiggly e
delle ristrettezze finanziarie in cui versava il presidente della società.
Nemmeno il piú amichevole dei sempliciotti sarebbe stato disposto a
entrare nell’affare, e la campagna pubblicitaria fu un disastroso fallimento.
Accettando suo malgrado la situazione, Saunders decise di appellarsi
all’orgoglio campanilistico dei suoi concittadini, rivolgendo i suoi
formidabili poteri di persuasione verso un nuovo obiettivo: convincerli che
il suo dilemma finanziario era un problema di interesse pubblico. Un
eventuale fallimento della Piggly Wiggly, disse, avrebbe causato danni non
soltanto all’immagine di Memphis e alla sua reputazione in ambito
economico, ma all’onore di tutto il Sud. «Non chiedo la vostra carità, – fece
scrivere in uno di quegli annunci a tutta pagina per i quali riusciva sempre a
trovare i soldi, – né vi chiedo di portare fiori al mio funerale finanziario, ma
invito […] tutti i cittadini di Memphis a tener presente che questo è un
annuncio serio, il cui scopo è informare quanti vorrebbero assistermi
nell’attuale frangente che vi è la possibilità di operare al mio fianco, con
altri amici e alleati, in una campagna destinata a convincere ogni abitante di
Memphis che ne abbia la possibilità a diventare socio della Piggly Wiggly,
prima di tutto perché è un buon investimento, e in secondo luogo perché è
la cosa giusta da farsi». In una seconda inserzione lo sguardo di Saunders
sembrava dirigersi verso orizzonti piú vasti: «La fine della Piggly Wiggly
sarebbe la vergogna di tutto il Sud».
Difficile stabilire quale di questi argomenti sia stato piú utile a
convincere i cittadini di Memphis che Saunders andava aiutato: ma in un
modo o nell’altro, il discorso funzionò. Di lí a poco il «Commercial
Appeal» cominciò a incitare i lettori affinché si schierassero al fianco del
loro giovane concittadino e lo aiutassero a cavarsi d’impaccio. I maggiori
imprenditori della città risposero con commovente partecipazione. Si
pianificò un’impetuosa campagna di tre giorni, con l’obiettivo di vendere ai
cittadini di Memphis 50 000 quote Piggly Wiggly al solito prezzo magico di
55 dollari l’una; questa volta, però, per tutelare gli acquirenti dal rischio di
trovarsi isolati in una posizione difficile, si stabilí che gli accordi sarebbero
stati perfezionati solo se tutto il lotto di 50 000 azioni fosse stato venduto
nei tre giorni della campagna. La camera di commercio locale appoggiò
l’iniziativa, portandosi dietro la American Legion, il Civitan Club e
l’Exchange Club; persino la concorrenza (ovvero i magazzini Bowers e gli
Arrow Stores) aderí alla nobile causa. Centinaia di volontari armati di
spirito civico si offrirono di organizzare una vendita porta a porta. Il 3
maggio, a cinque giorni dal decollo della campagna, duecentocinquanta
uomini d’affari di Memphis si radunarono al Gayoso Hotel per la cena
inaugurale. Saunders entrò nella sala accompagnato dalla moglie e fu
accolto da una salva di applausi; uno degli oratori di quella sera lo descrisse
entusiasticamente come «l’uomo che ha fatto per Memphis piú di chiunque
altro negli ultimi mille anni», dando cosí il benservito a chissà quanti capi
indiani della tribú Chickasaw. «Rivalità commerciali e divergenze di
opinione si sono volatilizzate come la bruma al sorgere del sole», scrisse un
cronista del «Commercial Appeal».
Date le premesse, la partenza non poteva che essere travolgente. Il primo
giorno della campagna – l’8 maggio – signore della buona società e boy-
scout uscirono in parata per le vie cittadine con un distintivo appuntato al
petto. Sopra c’era scritto: «Siamo al cento per cento dalla parte di Clarence
Saunders e della Piggly Wiggly». I negozianti tappezzarono le vetrine di
cartelloni che dicevano: «Un’azione Piggly Wiggly in ogni casa». Telefoni
e campanelli squillarono senza sosta. In men che non si dica furono
prenotate 23 698 quote. Ma proprio in quel momento, mentre quasi tutta la
città sembrava miracolosamente convinta che smerciare azioni Piggly
Wiggly fosse tanto nobile e edificante quanto raccogliere oboli per la Croce
Rossa o il circolo di beneficenza cittadino, il tarlo del dubbio cominciò a
farsi strada: alcune vipere sollevarono la testa dal nido e chiesero che
Saunders acconsentisse a una verifica immediata dei suoi libri contabili. Per
ragioni imprecisate Saunders rifiutò, offrendo agli scettici, a mo’ di
contentino, le sue dimissioni dalla carica di presidente della Piggly Wiggly
Incorporated, nella speranza, disse, «che il gesto potesse agevolare la
campagna di sottoscrizione». Alla fine nessuno si fece avanti per chiedergli
di rinunciare alla presidenza, ma il 9 maggio, secondo giorno della
campagna, i consiglieri di amministrazione della società affiancarono a
Saunders un comitato provvisorio di cani da guardia formato da tre
banchieri e un uomo d’affari, con il preciso compito di aiutarlo a gestire
l’azienda finché il polverone non si fosse posato. Quello stesso giorno
Saunders si trovò alle prese con un’altra situazione imbarazzante. Perché
mai, domandavano i fiancheggiatori della campagna, la costruzione del suo
miliardario Pink Palace proseguiva indisturbata in un momento cosí critico,
mentre l’intera città lavorava gratis per lui? L’interessato si affrettò a
promettere che avrebbe chiuso il cantiere il giorno successivo e sospeso i
lavori finché il suo futuro finanziario non fosse tornato a splendere.
La confusione generata da quei due intoppi ebbe l’effetto di rallentare il
ritmo delle prenotazioni. Alla fine del terzo giorno, il totale delle azioni
sottoscritte era ancora inferiore alle 25 000 unità: di conseguenza tutte le
vendite furono annullate, e Saunders dovette ammettere il fallimento
dell’iniziativa. «Memphis mi ha deluso», fu il suo commento finale, poi
smentito a gran voce qualche anno piú tardi, quando scoprí che il denaro dei
suoi concittadini gli era indispensabile per lanciarsi in una nuova avventura.
Tuttavia, dato lo stress del momento, non era strano che gli fosse sfuggita
una frase incauta. Il poveretto aveva i nervi a pezzi: poco prima di
annunciare in pubblico l’infelice esito della campagna di vendite, Saunders
partecipò a una riunione a porte chiuse con svariati imprenditori cittadini, e
ne uscí con uno zigomo ammaccato e il colletto strappato. Nessun altro dei
partecipanti mostrava segni di violenza. Non c’è che dire, era proprio una
giornata storta.
Benché non si sia mai stabilito con certezza se Saunders avesse o non
avesse messo mano alle casse aziendali della Piggly Wiggly mentre la
manovra di corner era in atto, la sua prima reazione dopo il fallito tentativo
di sbolognare una parte delle azioni giustifica il sospetto che, se non altro,
avesse buone ragioni per rifiutare un controllo immediato dei libri contabili.
In barba agli inutili brontolii del comitato di cani da guardia, Saunders
cominciò infatti a vendere non piú azioni ma negozi Piggly Wiggly: a
liquidare, in sostanza, una parte dell’azienda. Nessuno sapeva quando si
sarebbe fermato: i primi a passare di mano furono i punti vendita di
Chicago, seguiti a breve distanza da quelli di Denver e Kansas City. La
versione ufficiale era che Saunders stava tentando di rimpolpare le casse per
permettere all’azienda di comprarsi le azioni che il pubblico aveva
snobbato; ma il sospetto era che fossero proprio i forzieri aziendali ad avere
urgente bisogno di una trasfusione – e non certo di azioni! «Ho battuto Wall
Street e tutta la banda», annunciava trionfante Saunders a giugno. A metà
agosto, però, pressato dall’imminente scadenza di una rata da 2,5 milioni di
dollari del prestito, completamente sprovvisto di contanti e con nessuna
speranza di vederli arrivare in tempo, Saunders diede le dimissioni da
presidente della Piggly Wiggly Stores Incorporated e trasferí tutte le sue
proprietà – le quote di capitale aziendale, il Pink Palace e gli altri beni in
suo possesso – ai creditori.
Ormai non restava che apporre il sigillo ufficiale del fallimento. Il 22
agosto la casa d’aste newyorchese Adrian H. Muller & Son (leader
riconosciuta nella vendita di quote azionarie di infimo valore, tanto che la
sua sala era spesso chiamata «il cimitero delle azioni») aggiudicò 1500
Piggly Wiggly al prezzo consueto dei titoli con un piede nella fossa: un
dollaro cadauno. La procedura formale di fallimento ebbe inizio nella
primavera dell’anno successivo. Ma erano solo le battute conclusive di una
carriera che aveva già toccato il fondo il giorno in cui Saunders era stato
rimosso a forza dalla presidenza. In quello stesso giorno, a detta di molti
suoi ammiratori, l’uomo di Memphis aveva raggiunto l’apice della sua
potenza retorica quando, scombussolato ma ancora pieno di verve polemica,
era emerso dal consiglio di amministrazione e aveva annunciato ai
giornalisti le sue dimissioni. Dopo un istante di silenzio generale, aveva
aggiunto con voce roca: «Si sono presi il corpo della Piggly Wiggly, ma non
potranno mai prendersi l’anima».

Se Saunders intendeva dire che l’anima della Piggly Wiggly era lui
stesso, è certo che nessuno osò mai privarlo della libertà: soprattutto della
libertà di cambiare rotta nel suo solito modo imprevedibile. Anche se non
ritentò mai piú un altro corner, il suo spirito non uscí certo piegato dalla
disavventura. Nonostante il fallimento riuscí ancora a trovare amici di
generosa e incrollabile fedeltà, disposti a consentirgli un tenore di vita
appena meno sfarzoso che in passato: costretto a giocare a golf al Memphis
Club e non piú nel suo campo privato, continuò a elargire ai caddie le stesse
mance sontuose di un tempo. Certo, il Pink Palace non gli apparteneva piú,
ma per i suoi concittadini quel trascurabile dettaglio era l’unico memento
delle sventure di Saunders. Alla fine l’incompiuto palazzo dei piaceri finí
nelle mani delle autorità comunali, che stanziarono 150 000 dollari per
completare i lavori di costruzione e trasformarlo in un museo di storia
naturale e artigianato industriale. Come tale, il Pink Palace continua tuttora
ad alimentare la leggenda di Clarence Saunders.
Dopo la caduta, Saunders occupò buona parte dei tre anni successivi nel
tentativo di ottenere giustizia per i torti che riteneva di aver subito nella
battaglia per la Piggly Wiggly, senza mai smettere di contrastare le manovre
ostili di nemici e creditori. Per qualche tempo seguitò a dire che avrebbe
querelato la borsa valori per complotto e inadempienza contrattuale, ma finí
per rinunciare all’idea dopo il fallimento di una causa intentata a mo’ di
esperimento da alcuni piccoli azionisti. Nel gennaio del 1926, infine, venne
a sapere che il governo aveva intenzione di incriminarlo per uso fraudolento
del servizio postale in relazione alla sua campagna di azionariato per
corrispondenza. Saunders era convinto, a torto, che le autorità federali
avessero deciso di procedere a suo danno dietro suggerimento di un suo
concittadino ed ex socio, tale John C. Burch, che dopo il rimescolamento
societario era diventato segretario tesoriere della Piggly Wiggly. Esaurite
per l’ennesima volta le scorte di pazienza, Saunders andò al quartier
generale della società e affrontò Burch. In confronto alla baruffa di qualche
mese prima, quando era stato annunciato il fallimento della campagna
pubblica di acquisti, l’incontro si rivelò molto piú soddisfacente per
Saunders. Stando alla sua versione dei fatti, Burch «balbettò qualcosa nel
tentativo di negare» l’accusa, ma Saunders reagí con un destro alla mascella
che mandò in frantumi gli occhiali di Burch, senza tuttavia arrecare altri
danni. In seguito Burch minimizzò, sostenendo di essere stato colpito «di
striscio» e presentando un alibi degno di un pugile sconfitto ai punti:
«L’attacco è stato talmente repentino che non ho avuto né il tempo né
l’opportunità di colpire a mia volta Mr Saunders». In ogni caso, Burch non
volle sporgere querela.
Circa un mese piú tardi Saunders fu incriminato per frode postale, ma
avendo ormai accertato che Burch era incolpevole di qualsiasi maldicenza,
accolse la notizia con la consueta amabilità. «In questa nuova vicenda c’è
una sola cosa che rimpiango, – annunciò suadente, – ed è l’incontro di
pugilato tra me e John C. Burch». La nuova vicenda non durò a lungo: ad
aprile la Corte distrettuale di Memphis revocò l’atto di accusa. Da quel
momento le strade di Saunders e della Piggly Wiggly Incorporated si
divisero una volta per tutte. L’azienda, con un assetto sociale ampiamente
modificato, si era ormai ristabilita e si stava avviando verso una lunga fase
di prosperità: da quel momento in avanti le centinaia di supermercati Piggly
Wiggly frequentati dalle casalinghe americane sarebbero stati gestiti
attraverso accordi di franchising con la Piggly Wiggly Corporation di
Jacksonville, California.
Quanto a Saunders, anche lui tornò lestamente in salute. Nel 1928
inaugurò una nuova catena di negozi che battezzò – da quel raro
personaggio che era – Clarence Saunders, Sole Owner of My Name, Stores,
Incorporated 2. Il pubblico imparò ben presto a chiamarli magazzini Sole
Owner, cosa che peraltro non erano, giacché senza i fedeli fiancheggiatori
di Saunders quei magazzini sarebbero potuti esistere soltanto nei suoi sogni.
La scelta della ragione sociale non aveva intenti fuorvianti: era un modo
ironico per ricordare al mondo che, dopo la batosta infertagli da Wall Street,
il nome era praticamente l’unica cosa di cui Saunders potesse ancora
dichiararsi proprietario. Non è dato sapere quanti clienti dei magazzini Sole
Owner – o quanti consiglieri della borsa valori, se è per questo – abbiano
effettivamente colto il sottinteso: certo è che la nuova catena di negozi si
diffuse e fiorí con tale rapidità che Saunders, tornato ricco, poté permettersi
di acquistare una proprietà milionaria appena oltre il confine di Memphis.
Inoltre mise in piedi e finanziò una squadra di football professionistico
chiamata Sole Owner Tigers, investimento che diede ottime soddisfazioni
soprattutto nei molti pomeriggi d’autunno in cui, dalla tribuna dello stadio
di Memphis, Saunders poté sentire i tifosi scandire in coro: «Sole Owner,
alé! Sole Owner!»

Anche questa volta, però, la gloria di Clarence Saunders fu passeggera.


La prima ondata della Grande depressione colpí i magazzini Sole Owner
con una forza tale da portarli al fallimento già nel 1930. Saunders si trovò
nuovamente sul lastrico, ma riuscí per l’ennesima volta a cavarsela. Trovati
dei nuovi finanziatori, progettò un’altra catena di negozi di alimentari per la
quale inventò un nome ancor piú bislacco, se possibile, dei precedenti:
Keedoozle. Questa volta non vinse a man bassa, né si ricomprò una
proprietà miliardaria, anche se rimase sempre convinto di poterci riuscire
prima o poi. Le sue speranze di rivalsa erano ancorate all’omonimo
congegno, una sorta di drogheria automatica, al cui perfezionamento dedicò
gli ultimi vent’anni della sua vita. Nei negozi Keedoozle, infatti, le merci
erano esposte dietro pannelli di vetro al di sotto dei quali c’era una fessura,
come nei ristoranti self-service della catena Automat. Le analogie finivano
qui, perché invece di inserire le monete nella fessura ed estrarre la pietanza
richiesta, i clienti dei Keedoozle inserivano in ogni postazione la speciale
chiave che era stata loro distribuita all’ingresso. Ma il genio di Saunders
aveva concepito un’idea che andava ben oltre il semplice gesto di aprire un
pannello con una chiave: ogni volta che quest’ultima veniva inserita,
l’identità dell’articolo prescelto era registrata sotto forma di codice su un
frammento di nastro magnetico integrato nella chiave; al tempo stesso un
esemplare dell’articolo era automaticamente caricato su un nastro
trasportatore che lo spingeva verso l’uscita, situata sulla parte anteriore
dell’edificio. Terminata la spesa il cliente presentava la chiave al cassiere,
che decifrava i codici e faceva il conto. A pagamento avvenuto le merci
acquistate finivano tra le braccia del cliente, già incartate e imbustate
dall’apposito meccanismo collocato alla fine del nastro trasportatore.
I primi due negozi pilota furono aperti a Memphis e a Chicago, ma si
scoprí ben presto che il congegno era troppo complicato e costoso per
potersi misurare con i supermercati tradizionali in cui il cliente prendeva le
sue cose e le metteva nel carrello. Per nulla scoraggiato, Saunders si mise al
lavoro su una tecnologia ancora piú complessa, il Foodelectric, che oltre a
fare quanto già faceva il Keedoozle era in grado di emettere lo scontrino.
Sembra improbabile che il Foodelectric possa un giorno rimpiazzare i
tradizionali sistemi di vendita al dettaglio, tanto piú che era ancora
incompiuto alla morte di Saunders, sopraggiunta nell’ottobre del 1953:
cinque anni prima del falso corner della Bruce Company, che Saunders, se
mai avesse potuto vederlo, avrebbe certamente messo alla berlina, come
una vile baruffa tra dilettanti.

1
Cfr. N. von Hoffman, Il dizionario diabolico del business. Alta e bassa finanza: trucchi e
misteri, trad. di G. Lupi, Nuovi Mondi, Ozzano 2006 [N. d. T.].
2
Società registrata magazzini Clarence Saunders, unico proprietario del mio nome [N. d. T.].
8. Apologia della sterlina
Banche centrali, dollari e pound

1.

L’edificio che ospita la Federal Reserve Bank di New York si trova


nell’isolato circoscritto da Liberty Street, Nassau Street, William Street e
Maiden Lane, sul fianco di una delle poche collinette superstiti nella parte
bassa di Manhattan, quasi interamente spianata dai bulldozer per far posto
ai grattacieli. L’ingresso principale su Liberty Street ha un aspetto austero,
cupo. Le finestre ad arco del pianterreno, sul modello di quelle dei palazzi
Pitti e Medici Riccardi di Firenze, sono protette da sbarre grandi quanto il
polso di un ragazzo; ai piani superiori, le finestrelle rettangolari sono
intagliate in una falesia di arenaria e calcare alta tredici piani, i cui blocchi
un tempo di vari colori (dal bruno al grigio all’azzurrino) sono ora di un
uniforme grigio fuliggine; solo all’altezza dell’undicesimo piano l’austerità
della facciata è alleggerita da una loggia in stile fiorentino. Due gigantesche
lanterne di ferro – copie quasi esatte di quelle che a Firenze adornano
Palazzo Strozzi – fiancheggiano l’entrata principale, ma sembrano messe lí
non tanto per deliziare o illuminare chi entri, quanto piuttosto per incutergli
timore. Non che l’interno sia molto piú ridente o confortevole: al
pianterreno, sotto le cavernose volte a ogiva, le partizioni in ferro battuto
dai complicati decori geometrici, floreali e animali sono sorvegliate da orde
di addetti alla sicurezza le cui uniformi blu scuro ricordano molto da vicino
quelle dei poliziotti.
Cosí enorme e severo, l’edificio della Federal Reserve Bank suscita in
chi lo guarda i sentimenti piú diversi. Per gli ammiratori del disinvolto stile
architettonico che trova espressione nell’edificio della Chase Manhattan
Bank sul lato opposto di Liberty Street, con le sue enormi finestre, i muri
rivestiti di piastrelle a colori vivaci e le eleganti decorazioni ispirate
all’astrattismo espressionista, la sede della Fed è la perfetta e ponderosa
incarnazione dell’edilizia bancaria ottocentesca, anche se in realtà l’edificio
è stato completato solo nel 1924. Tre anni dopo, nel 1927, un intimorito
redattore della rivista «Architecture» lo definiva «inviolabile come la rocca
di Gibilterra e ugualmente capace di ispirare reverente soggezione», nonché
dotato di «una qualità che, in mancanza di aggettivi migliori, non posso che
definire “epica”». Le madri delle giovani segretarie e commesse che vi
lavorano se lo immaginano come una sinistra prigione. Anche i ladri di
banca sembrano rispettarne l’inviolabilità, tant’è che nessuno si è mai
azzardato a tentare una rapina. Dopo averlo relegato per anni nella categoria
II, ovvero «Strutture di particolare rilevanza locale o regionale che meritano
di essere preservate», dal 1967 la Municipal Art Society di New York lo ha
promosso a edificio di categoria I, ovvero «Strutture di rilevanza nazionale
da preservarsi a ogni costo». D’altronde la sede della Fed ha un innegabile
privilegio rispetto ai palazzi delle nobili famiglie fiorentine dei Pitti, Medici
Riccardi e Strozzi: è decisamente piú grande. Anzi, è piú grande di tutti i
palazzi mai costruiti nella nobile città toscana.
La Federal Reserve Bank di New York si differenzia dalle altre banche di
Wall Street non soltanto sul piano architettonico, ma anche in termini di
obiettivi e funzioni. Essendo la piú importante tra le dodici banche regionali
della riserva federale – che, insieme al Consiglio della riserva federale di
Washington e alle 6200 banche che ne fanno parte, costituiscono il Sistema
della riserva federale – la Fed di New York è il principale strumento
operativo della banca centrale statunitense. E benché in altre nazioni le
competenze di banca centrale siano spesso affidate non a una rete di istituti
ma a un unico ente – la Bank of England, la Banque de France, e cosí via –
tutte le banche centrali del globo hanno le stesse due finalità: controllare lo
stato di salute delle monete nazionali regolandone la provvista e agendo
sulle condizioni del credito, e, ove necessario, difendere il valore delle
monete nazionali in relazione a quelle di altri Paesi. Per raggiungere il
primo obiettivo, la Federal Reserve di New York, insieme al Consiglio della
riserva federale di Washington e alle altre undici banche del Sistema,
provvede alla regolazione periodica di una serie di meccanismi monetari, il
piú visibile dei quali (ma non necessariamente il piú importante) è il tasso
di interesse sui prestiti destinati alle altre banche. Quanto al secondo
obiettivo, in parte per consuetudine e in parte grazie alla sua collocazione
nel principale centro finanziario del mondo, la Fed di New York è
responsabile, per conto del Sistema della riserva federale e del Tesoro degli
Stati Uniti, dei rapporti con gli altri Paesi. È a lei, dunque, che spetta il
comando delle operazioni in difesa del dollaro. Operazioni di notevole
responsabilità, soprattutto durante la grande crisi monetaria del 1968 e –
poiché talora la difesa del dollaro impone di salvaguardare anche le monete
di altre nazioni – nei tre anni e mezzo che l’hanno preceduta.
Essendo tenuta a operare nell’interesse nazionale – non avendo, in
effetti, altra finalità – la Federal Reserve Bank di New York è, al pari delle
sue sorelle, un’istituzione governativa; ciò nonostante ha un piede nel
campo della libera impresa. Secondo quello che alcuni chiamerebbero il
caratteristico stile americano, sta proprio a cavalcioni della linea di gesso
che separa la sfera pubblica dall’imprenditoria privata. Funziona come un
ente pubblico, ma il suo capitale azionario è in mano ai privati, cioè alle
banche che ne fanno parte, alle quali la Federal Reserve paga dividendi
annuali limitati per legge al 6 per cento. E benché i suoi massimi dirigenti
giurino fedeltà allo Stato, non sono nominati né dal presidente degli Stati
Uniti né dal Consiglio della riserva federale, ma eletti dal consiglio di
amministrazione della banca stessa; ed è la banca, infine, a pagare i loro
stipendi. Tuttavia gli introiti – fortunatamente stabili e abbondanti – che
permettono di versare quegli stipendi sono del tutto accidentali rispetto alle
finalità della banca: e qualora risultino superiori alla somma delle spese e
dei dividendi, confluiscono automaticamente nelle casse del Tesoro
americano. Una banca che consideri accidentali i suoi profitti è un’assoluta
eccezione a Wall Street: ed è questo che conferisce ai funzionari della
Federal Reserve di New York una posizione sociale di grande vantaggio.
Poiché l’istituzione in cui lavorano è a tutti gli effetti una banca, per di piú
privata, e per di piú in attivo, non li si può trattare come semplici burocrati
di governo; di contro, poiché il loro sguardo non sfiora mai il volgare
pantano della cupidigia, possono a buon diritto essere considerati gli
intellettuali, se non addirittura gli aristocratici, di Wall Street.
I loro piedi poggiano su un piedistallo d’oro, il nobile metallo che a
dispetto dei recenti e gravi scossoni è ancora il substrato di ogni moneta. Ed
è proprio lí, nelle profondità dello zoccolo roccioso di Manhattan, a una
ventina di metri dal selciato di Liberty Street e circa quindici metri sotto il
livello del mare, in un locale blindato che sarebbe invaso dall’acqua se un
sistema di drenaggio non avesse deviato un torrente che correva lungo
Maiden Lane, che riposavano nel marzo del 1968 piú di 13 000 tonnellate
d’oro per un valore di oltre 13 miliardi di dollari, pari a piú di un quarto di
tutto l’oro monetario del mondo libero. Walter Bagehot, il famoso
economista inglese dell’Ottocento, confidò una volta a un amico che
quand’era giú di morale traeva beneficio dal recarsi in banca e «immergere
la mano in un mucchio di sterline d’oro». Scendere nei sotterranei della
Federal Reserve Bank e guardare quell’oro è di certo un’esperienza
altrettanto stimolante, anche se vi si conservano non mucchi di sterline ma
pile di lingotti piú o meno delle dimensioni di un mattone. Tuttavia
nemmeno il piú accreditato dei visitatori avrà mai la possibilità di
immergervi una mano, innanzitutto perché i lingotti (pesanti una dozzina di
chili ciascuno) sono poco adatti all’immersione, e in secondo luogo perché
neppure un grammo di quell’oro appartiene alla Federal Reserve Bank o
agli Stati Uniti. Le riserve auree statunitensi sono custodite in parte a Fort
Knox, in parte presso l’Ufficio del saggio dei metalli preziosi di New York,
e in parte nelle varie zecche statali. L’oro che scintilla debolmente nei
forzieri della Federal Reserve Bank appartiene invece a una settantina di
Paesi diversi – soprattutto europei – che hanno ritenuto opportuno
conservare lí buona parte delle loro riserve. In realtà i lingotti erano stati
trasferiti nel sottosuolo di New York per ragioni di sicurezza, durante la
Seconda guerra mondiale; terminato il conflitto, le nazioni europee – a
eccezione della Francia – decisero di non riportarli in patria, e anzi, ne
incrementarono notevolmente la quantità man mano che le loro economie si
ristabilivano.
Ma l’oro non è l’unico deposito estero che si conservi in Liberty Street:
se consideriamo anche le altre forme di investimento, il valore totale dei
depositi esteri a marzo 1968 supera i 28 miliardi. In quanto banca della
maggior parte delle banche centrali del mondo non comunista, nonché
banca centrale che rappresenta la moneta piú importante del mondo, la Fed
di New York è l’indiscussa roccaforte delle monete mondiali. Ciò le dona
una sorta di visione fluoroscopica, per cosí dire, dell’anatomia interna della
finanza internazionale, che a sua volta le permette di riconoscere al primo
sguardo le monete che covano qualche malanno, le economie sofferenti, e
cosí via. Immaginiamo, per esempio, che la Gran Bretagna incorra in un
deficit delle transazioni con l’estero: il fatto sarebbe immediatamente
registrato sui libri contabili della Fed, sotto forma di un peggioramento del
saldo attivo della Bank of England. E fu proprio un evento del genere a
segnare, nell’autunno del 1964, l’inizio della lunga, coraggiosa, spesso
formidabile e infine perdente battaglia che alcuni Paesi e le rispettive
banche centrali, guidati dagli Stati Uniti e dalla Fed, ingaggiarono per
salvaguardare l’ordine finanziario mondiale e l’integrità della sterlina. Gli
edifici imponenti finiscono spesso per ridimensionare il valore e l’operato
delle persone che vi lavorano, e benché nella maggior parte dei casi sia
abbastanza corretto immaginarsi la Fed di New York come una qualsiasi
altra banca, cioè un grosso ufficio pieno di muffosi passacarte, è indubbio
che là si siano svolti, a partire dal 1964, eventi che meritano se non proprio
un reverente omaggio, almeno il riconoscimento di una certa epicità.

Nei primi mesi del 1964 la Gran Bretagna, che per anni aveva mantenuto
in sostanziale equilibrio la propria bilancia dei pagamenti – per dirla in
parole povere, il valore delle somme di denaro trasferite all’estero era
sempre rimasto piú o meno pari a quello del denaro che entrava nel Paese –
cominciò a dare segnali di grave deficit. Il problema non era generato da
una crisi interna bensí, al contrario, da un’espansione fin troppo esuberante:
gli affari andavano a gonfie vele, e i molti cittadini britannici che avevano
da poco conquistato il benessere economico ordinavano quintali e quintali
di costose merci dall’estero; ma nessuno si dava da fare affinché le
esportazioni di prodotti inglesi crescessero di pari passo. In sostanza, la
Gran Bretagna stava vivendo al di sopra dei propri mezzi. Una bilancia dei
pagamenti in deficit è già un problema serio per una nazione relativamente
autosufficiente come gli Stati Uniti (la cui bilancia dei pagamenti era infatti
andata in rosso proprio in quegli anni, e lo sarebbe rimasta per molto); per
un Paese come la Gran Bretagna, la cui economia dipende per circa un
quarto dal commercio estero, diventa un pericolo grave.
Il caso destava crescente preoccupazione anche nella Federal Reserve
Bank, e l’epicentro della preoccupazione si trovava al decimo piano,
nell’ufficio di Charles A. Coombs, vicepresidente responsabile delle
operazioni all’estero. Per tutta l’estate gli esami fluoroscopici avevano
messo in evidenza il cattivo stato di salute della sterlina. Stando ai bollettini
che la sezione ricerche del dipartimento Esteri recapitava ogni giorno
nell’ufficio di Coombs, dalla Gran Bretagna uscivano fiumi di denaro. Dal
sottosuolo, intanto, giungeva voce che la pila di lingotti della Gran Bretagna
si stava assottigliando visibilmente: non perché qualcuno, là sotto, stesse
facendo il furbo, ma perché l’oro migrava in altri forzieri a saldo dei debiti
britannici. Dal sesto piano, l’ufficio valute comunicava quasi ogni
pomeriggio che sul mercato aperto il tasso di cambio della sterlina nei
confronti del dollaro era in discesa. In luglio e agosto, il valore della sterlina
scese da 2,79 dollari a 2,7890 e di lí a 2,7875. L’opinione prevalente in
Liberty Street era che la situazione fosse seria: a tal punto che Coombs, il
quale di solito si occupava di persona delle questioni valutarie limitandosi
ad aggiornare periodicamente i vertici della banca, era in costante contatto
con il suo superiore, l’alto e affabile Alfred Hayes, presidente della Federal
Reserve.
Al di là dell’apparente oscurità, le operazioni finanziarie internazionali
funzionano piú o meno come le transazioni private di un nucleo familiare.
Per le nazioni come per le famiglie, cioè, i problemi nascono dal fatto che a
volte la quantità di denaro in uscita è eccessiva, e non controbilanciata da
una sufficiente quantità di denaro in entrata. I fornitori stranieri che
vendono merci alla Gran Bretagna sono pagati in sterline che, ovviamente,
non possono spendere nei loro Paesi: dunque le convertono nelle rispettive
valute nazionali, cioè vendono le sterline sul mercato dei cambi esattamente
come se vendessero titoli alla borsa valori. Il prezzo di mercato della
sterlina fluttua a seconda della domanda e dell’offerta, e lo stesso vale per
tutte le altre monete a eccezione del dollaro, vero e proprio sole nel sistema
planetario delle valute da quando, nel 1934, gli Stati Uniti si sono impegnati
a convertire in dollari qualsiasi quantità di oro venga loro offerta dalle altre
nazioni, al prezzo fisso di 35 dollari per oncia.
Sotto la pressione delle vendite, il prezzo della sterlina tenderà
ovviamente a scendere. Le sue fluttuazioni, però, sono rigidamente limitate:
gli effetti delle forze di mercato non possono modificarne il prezzo se non
di un paio di centesimi sopra o sotto la parità. Se le oscillazioni dovessero
essere ampie e incontrollate, i banchieri e gli uomini d’affari che trattano
con la Gran Bretagna si troverebbero invischiati loro malgrado in una
specie di gioco della roulette, e molto probabilmente deciderebbero di non
fare piú affari con la Gran Bretagna. Ecco perché, in base agli accordi
monetari internazionali raggiunti nel 1944 a Bretton Woods e
successivamente modificati altrove, la sterlina britannica aveva nel 1964 un
valore nominale di 2,80 dollari ed era libera di fluttuare soltanto entro una
fascia compresa tra 2,78 e 2,82. Il garante di questa restrizione alla legge
della domanda e dell’offerta era la Bank of England. Nei giorni in cui tutto
andava liscio, la quotazione della sterlina sui mercati dei cambi avrebbe
potuto collocarsi per esempio a 2,7990 dollari, in aumento di 0,0015 dollari
rispetto alla chiusura del giorno precedente. (Quindici millesimi di dollaro
non sembrano granché a prima vista, ma se si tiene conto che l’unità di
misura standard delle transazioni monetarie internazionali è il milione di
dollari, se ne deduce che stiamo parlando di millecinquecento dollari per
ogni milione). In casi del genere, la Bank of England non avrebbe dovuto
muovere un dito. Ma se la sterlina fosse andata forte sui mercati, salendo
per esempio a 2,82 (cosa non facile, nel 1964) la Bank of England sarebbe
stata obbligata a vendere sterline, a quella quotazione, in cambio di oro o
dollari (cosa che avrebbe fatto ben volentieri, peraltro): in tal modo avrebbe
scongiurato ulteriori incrementi di prezzo e rafforzato le riserve di oro e
dollari, indispensabili sostegni alla propria moneta. Se viceversa la sterlina
si fosse mostrata debole (cosa assai piú probabile a quell’epoca) e fosse
scesa a 2,78 dollari, la Bank of England sarebbe stata obbligata a
intervenire sui mercati e acquistare in cambio di oro o dollari tutte le
sterline offerte in vendita a quel prezzo, anche se per farlo avesse dovuto
intaccare pesantemente le sue riserve. In sostanza, la banca centrale di una
nazione spendacciona si comporta proprio come il padre di una famiglia
spendacciona: intacca il capitale per pareggiare i conti. Ma i mercati
valutari sono creature psicologicamente instabili, e nei momenti di grave
debolezza valutaria una banca centrale si troverà a perdere piú riserve di
quanto sembrerebbe necessario. Per prima cosa, importatori ed esportatori
prudenti cercheranno di tutelare capitali e profitti riducendo al minimo le
loro riserve di sterline e smaltendole il piú in fretta possibile. Gli speculatori
in valute, poi, essendo abilissimi nel fiutare le monete in difficoltà,
piomberanno come falchi sulla povera sterlina vendendone allo scoperto
enormi quantitativi, nella speranza di trarre profitto da un ulteriore
deprezzamento. In ogni caso, la Bank of England sarà costretta a
compensare non solo le vendite effettuate a buon diritto, ma anche quelle
speculative.
La conseguenza ultima della debolezza di una moneta è la svalutazione,
provvedimento i cui effetti sono infinitamente piú disastrosi di una
bancarotta familiare. La svalutazione di una moneta chiave come la sterlina
è l’incubo ricorrente delle banche centrali di tutto il mondo, da Londra a
New York, da Francoforte a Zurigo e a Tokyo. Se a un certo punto, con
l’aggravarsi delle pressioni sulle proprie riserve, la banca centrale della
Gran Bretagna non potesse o non volesse piú rispettare l’obbligo di
mantenere il tasso di cambio della sterlina ad almeno 2,78 dollari, la
conseguenza inevitabile sarebbe, appunto, la svalutazione. La fascia di
oscillazione compresa tra 2,78 e 2,82 verrebbe abrogata, e con un semplice
decreto governativo si fisserebbe la parità della sterlina a un livello piú
basso, intorno al quale si definirebbe una nuova fascia di oscillazione. Il
pericolo maggiore sta nella possibilità che tutto ciò generi un caos non
confinato alla sola Gran Bretagna. La svalutazione è il rimedio piú
coraggioso e rischioso alle patologie di una moneta, e in quanto tale è
giustamente temuta. Infatti, se da un lato riduce il costo sui mercati esteri
delle merci prodotte nel Paese, favorendo di conseguenza le esportazioni e
riducendo o eliminando l’eventuale deficit dei conti internazionali,
dall’altro, aumentando i prezzi sul mercato interno delle merci importate e
di quelle di produzione nazionale, influisce negativamente sullo standard di
vita della popolazione. È un intervento di chirurgia radicale, che cura la
malattia a discapito del benessere e della forza vitale del malato, nonché, in
molti casi, del suo prestigio e dell’orgoglio nazionale. Peggio ancora, se la
moneta svalutata è, come la sterlina, ampiamente utilizzata nelle transazioni
internazionali, la malattia – o per meglio dire la cura – rischia di rivelarsi
contagiosa. Per i Paesi che custodiscono nei loro caveau ingenti riserve di
quella moneta, l’effetto di una svalutazione è pari a quello di un furto con
scasso. Quelle nazioni e altre, trovandosi per effetto della svalutazione in
una situazione di insostenibile svantaggio commerciale, potrebbero optare
loro malgrado per una svalutazione competitiva delle rispettive monete.
Sarebbe l’inizio di una spirale al ribasso: un susseguirsi di voci incontrollate
su ulteriori svalutazioni, una perdita di fiducia nelle valute degli altri Paesi
che disincentiverebbe gli scambi con l’estero, e infine una stagnazione del
commercio internazionale, dal quale dipendono le vite di centinaia di
milioni di persone in tutto il mondo. Cosí è stato ad esempio ai tempi della
piú classica svalutazione che la storia ricordi, quella del 1931, quando la
sterlina uscí dal sistema monetario del gold standard: evento che ancor oggi
è considerato una delle cause principali della Grande depressione mondiale
degli anni Trenta.
Le cose funzionano piú o meno allo stesso modo per le monete di tutti i
cento e piú Paesi membri del Fondo monetario internazionale,
l’organizzazione nata dagli accordi di Bretton Woods. Il saldo attivo della
bilancia dei pagamenti fa affluire nelle casse della banca centrale dollari
liberamente convertibili in oro; se la domanda di quella moneta è
abbastanza sostenuta, il Paese può addirittura decidere di rivalutarla, come
hanno fatto Germania e Olanda nel 1961. Da una bilancia dei pagamenti in
passivo potrebbe invece innescarsi la sequela di eventi che conducono alla
svalutazione forzata, e le conseguenze di una svalutazione sul commercio
mondiale dipenderanno dall’importanza internazionale di quella moneta.
(L’ampia svalutazione della rupia indiana decisa nel giugno 1966, per
esempio, ha lasciato pressoché indifferenti i mercati internazionali). Per
completare questa breve descrizione del macchinoso gioco in cui ciascuno
di noi, ovunque si trovi, è un’inconsapevole pedina, diremo infine che
neppure il Re Dollaro è al sicuro dagli effetti di un passivo nella bilancia dei
pagamenti o immune agli attacchi degli speculatori. Essendo ancorato
all’oro, il dollaro è la moneta standard di tutte le altre, dunque il suo prezzo
non subisce fluttuazioni; ciò nonostante può andare soggetto a malesseri,
meno visibili ma altrettanto perniciosi. Quando gli Stati Uniti spediscono
oltreconfine quantità di denaro (somme in pagamento di acquisti all’estero,
aiuti internazionali, investimenti, prestiti, spese di viaggio o per la difesa)
ampiamente maggiori di quelle che ricevono, i destinatari di quei dollari li
convertiranno nelle rispettive monete nazionali, che di conseguenza
vedranno aumentare il loro valore in dollari; a sua volta, l’apprezzamento
della moneta permetterà alle banche centrali di quei Paesi di incamerare
altri dollari e di venderli poi agli Stati Uniti in cambio di oro. Quando il
dollaro è debole, dunque, gli Stati Uniti perdono un po’ del loro oro. Il caso
tipico è quello della Francia – Paese con una moneta forte e nessun affetto
particolare nei confronti del dollaro – che per molti anni, fino all’autunno
1966, ha acquistato ogni mese dagli Stati Uniti 30 o piú milioni di dollari in
oro. Per giunta, tra il 1958 e la metà di marzo del 1968 il grave deficit dei
conti internazionali degli Stati Uniti ha esattamente dimezzato la nostra
riserva aurea, scesa da 22 miliardi e 800 milioni a 11 miliardi e 400 milioni.
Se la consistenza della riserva dovesse scendere a livelli inaccettabili gli
Stati Uniti sarebbero costretti a infrangere la parola data, modificando la
parità aurea del dollaro o addirittura sospendendo del tutto la vendita
dell’oro. Entrambe le mosse corrisponderebbero di fatto a una svalutazione:
l’unica svalutazione che, in virtú della posizione prioritaria del dollaro
nell’ordine monetario internazionale, potrebbe essere piú pericolosa di una
svalutazione della sterlina.

Hayes e Coombs sono entrambi troppo giovani per aver vissuto di


persona e in veste professionale la svalutazione del 1931, anche se, da
studiosi sensibili e diligenti delle vicende bancarie internazionali, ne
possiedono una conoscenza paragonabile all’esperienza diretta. Nei giorni
roventi del 1964 i due dirigenti della Fed di New York ebbero occasione di
parlare quasi ogni giorno con le loro controparti della banca centrale
britannica: Rowland Stanley Baring, terzo conte di Cromer, all’epoca
governatore della Bank of England, e Roy A. O. Bridge, consigliere del
governatore in materia di valute estere. Grazie a quelle conversazioni e alle
informazioni raccolte da altre fonti, si capí ben presto che lo squilibrio dei
conti esteri britannici non era, in quel momento, l’unico problema. Si
profilava all’orizzonte una crisi di fiducia nella solidità della sterlina legata
soprattutto all’imminente consultazione elettorale del 15 ottobre, che si
preannunciava come un banco di prova decisivo per il governo conservatore
in carica. Ora, non c’è nulla che i mercati finanziari internazionali detestino
e temano piú dell’incertezza. Poiché qualsiasi elezione rappresenta un
elemento di incertezza, la volatilità della sterlina non giungeva certo
inaspettata; nel caso specifico, però, l’appuntamento del 15 ottobre
sembrava particolarmente insidioso agli operatori in valute che avevano
un’idea ben precisa di come sarebbe stato un eventuale governo a guida
laburista. In sostanza, i finanzieri conservatori di Londra, per non parlare di
quelli dell’Europa continentale, nutrivano una diffidenza quasi istintiva nei
confronti di Harold Wilson, candidato premier dei laburisti; tanto piú che
tra i consiglieri economici di Wilson c’erano studiosi che avevano
apertamente celebrato nei loro scritti le virtú della svalutazione. Ad
aggravare ulteriormente la preoccupazione c’era poi il fatto che il
precedente governo a guida laburista avesse già provveduto, nel 1949, a
svalutare la sterlina nei confronti del dollaro spostando la parità da 4,03
dollari a 2,80.
Date le circostanze, è ovvio che tutti i soggetti presenti sui mercati
monetari internazionali, dai tranquilli uomini d’affari ai piú accaniti
speculatori, non vedessero l’ora di liberarsi delle sterline in loro possesso,
almeno fino a dopo le elezioni. Come tutti gli attacchi speculativi, anche
questo mostrò una spiccata tendenza ad autoalimentarsi. Ogni piccolo
arretramento del prezzo della sterlina si traduceva in un’ulteriore perdita di
sfiducia, e la sterlina era ormai in caduta libera su tutti i mercati
internazionali: una strana sorta di borsa valori diffusa che non ha una sede
precisa, ma funziona grazie alle linee telefoniche e ai cavi sottomarini che
mettono in contatto gli uffici valute delle principali banche di tutto il
mondo. E alla caduta della sterlina corrispondeva un’altrettanto vorticosa
caduta delle riserve auree e valutarie della Gran Bretagna, giacché la Bank
of England era costretta a intervenire a sostegno della moneta nazionale.
All’inizio di settembre Hayes andò a Tokyo per partecipare al congresso del
Fondo monetario internazionale. Nei corridoi dell’edificio che ospitava
l’evento, molti suoi colleghi delle banche centrali europee bisbigliavano
giudizi negativi sulla congiuntura economica della Gran Bretagna e sulle
sorti della sterlina. Perché, domandavano, Londra non aveva fatto nulla di
concreto per ridurre la spesa pubblica e migliorare la bilancia dei
pagamenti? Perché la Bank of England non portava il tasso di interesse
ufficiale (il cosiddetto tasso di sconto) al di sopra dell’attuale 5 per cento?
L’aumento generalizzato dei tassi di interesse che ne sarebbe conseguito
avrebbe avuto due conseguenze positive: frenare l’inflazione interna e
convogliare verso Londra gli investimenti in dollari, rafforzando le
posizioni della moneta.
È probabile che i rappresentanti della Bank of England presenti a Tokyo
abbiano poi dovuto rispondere apertamente a quelle stesse domande, e di
certo la banca centrale britannica aveva affrontato quei temi con le sue
controparti al ministero del Tesoro. D’altronde, era facile prevedere che i
tagli alla spesa pubblica e il rialzo del tasso di sconto sarebbero stati accolti
malvolentieri dall’opinione pubblica, in quanto classici presagi di austerità:
e il governo conservatore, come spesso capita alle compagini di ogni
bandiera, aveva davanti a sé lo spauracchio delle elezioni. In sostanza, si
decise di non decidere, tuttavia si presero alcune misure difensive di stretta
natura monetaria. In base a un accordo permanente stipulato molti anni
addietro, la Bank of England e la Federal Reserve avevano facoltà di
concedersi vicendevolmente, a breve termine e con pochissime formalità,
prestiti pari a 500 milioni di dollari: la Bank of England determinò quindi di
sfruttare quella possibilità, e prese accordi per ottenere ulteriori crediti per
500 milioni da varie banche centrali europee e dalla Bank of Canada. Quel
miliardo di dollari, sommato alle restanti riserve di oro e di biglietti verdi
(pari a 2 miliardi e 600 milioni), era secondo i responsabili della Bank of
England una base difensiva abbastanza solida. Se l’attacco speculativo ai
danni della sterlina si fosse prolungato o intensificato, la banca centrale
avrebbe risposto al fuoco investendo i suoi dollari per acquistare sterline sul
mercato libero: e questo, si sperava, avrebbe messo in rotta i nemici.
Com’era da prevedersi, l’attacco speculativo si fece in effetti piú
violento dopo le elezioni di ottobre, vinte dal partito laburista. Il nuovo
governo capí all’istante di trovarsi di fronte a una grave crisi, che bisognava
contrastare con prontezza ed energia. A quanto è stato successivamente
rivelato, il nuovo primo ministro e i responsabili delle questioni finanziarie
– George Brown, segretario di Stato agli Affari economici, e James
Callaghan, cancelliere dello Scacchiere – presero in seria considerazione
l’ipotesi di svalutare la sterlina. Alla fine l’idea fu accantonata, e tra la fine
di ottobre e i primi di novembre il governo introdusse una sovrattassa
straordinaria del 15 per cento sulle importazioni (che equivaleva, di fatto, a
un aumento generalizzato delle tariffe doganali), un supplemento di imposta
sui carburanti e nuove, pesanti tasse sulle imprese e sui redditi di capitale.
Erano misure deflazionistiche e certamente utili a rafforzare la moneta, ma
non bastarono a rassicurare i mercati. La specifica natura delle nuove tasse,
inoltre, suscitò sconcerto e persino collera negli ambienti finanziari
nazionali e internazionali, tanto piú che il nuovo bilancio statale prevedeva
un incremento della spesa per il welfare, laddove una politica
deflazionistica ne avrebbe comportato la diminuzione. In un modo o
nell’altro, dunque, nelle settimane a ridosso delle elezioni furono i ribassisti
a reggere le sorti del mercato della sterlina, e la Bank of England tentò di
allontanarli attingendo preziose munizioni dal suo arsenale di prestiti. A
fine ottobre una prima metà di quel miliardo si era già volatilizzata, ma
l’avanzata degli orsi proseguiva inesorabile, un millesimo di dollaro dopo
l’altro.
Frattanto, in Liberty Street, Hayes, Coombs e i loro colleghi del
dipartimento valute osservavano la situazione con crescente ansietà,
esasperati quanto gli inglesi dall’impossibilità di capire con certezza da che
parte provenisse l’attacco. La speculazione, infatti, è una caratteristica
intrinseca dei rapporti commerciali con l’estero, e per sua stessa natura è
quasi impossibile isolarla, identificarla o persino riconoscerla come tale. Ha
un’intera gamma di sfumature, ed è uno di quei concetti che, come
«egoismo» o «avidità», nascondono nella parola stessa una sorta di
giudizio; eppure ogni scambio di monete è, a rigor di logica, una
speculazione a favore della moneta acquistata e contro quella venduta.
Immaginiamo che su uno dei piatti di una bilancia ci siano transazioni
perfettamente legittime che hanno effetti speculativi ben precisi. Un
importatore inglese che acquisti una partita di merci negli Stati Uniti può
legittimamente scegliere di pagarle in dollari prima della consegna: cosí
facendo, però, specula a danno della sterlina. Un importatore americano che
ha accettato di pagare in sterline le merci acquistate in Inghilterra può
legittimamente chiedere che l’acquisto delle sterline di cui ha bisogno per
saldare il suo debito venga differito per un certo lasso di tempo: ma se lo fa,
anche lui specula a danno della sterlina. (L’enorme importanza per la Gran
Bretagna di queste comunissime operazioni commerciali, chiamate
rispettivamente «anticipi» e «ritardi», è dimostrata dal fatto che se in tempi
normali tutti gli acquirenti stranieri di merci britanniche dovessero ritardare
i pagamenti per un periodo anche breve, diciamo due mesi e mezzo, le
riserve di oro e dollari della Bank of England svanirebbero nel nulla).
Sull’altro piatto della bilancia c’è invece l’operatore in valute che prende in
prestito sterline e converte il prestito in dollari. Transazioni di questo genere
non si fanno semplicemente per proteggere i propri interessi: sono mosse
speculative in piena regola, che nel gergo della finanza si chiamano vendite
allo scoperto; l’operatore, ritenendo probabile un deprezzamento della
moneta, spera di poter ricomprare a un prezzo migliore le sterline per le
quali si è indebitato, traendone un profitto. E poiché le commissioni su
questo genere di manovre sono molto basse, la vendita allo scoperto sulle
valute è un ottimo modo di scommettere sui mercati dei capitali.
Anche se le scommesse di questo tipo concorrevano alla crisi della
sterlina in misura probabilmente minore rispetto alle manovre protettive
degli importatori e degli esportatori, è a loro che si dava la colpa dei guai
che affliggevano la moneta britannica tra l’ottobre e il novembre del 1964.
Nelle aule del parlamento inglese circolavano frequenti e stizzite allusioni
agli «gnomi di Zurigo» (dove Zurigo indicava per metonimia l’intera
Svizzera: giacché le sue norme finanziarie proteggono rigidamente
l’anonimato dei clienti, il Paese è una sorta di ripostiglio del sistema
bancario mondiale, e molte speculazioni in valute che hanno origine nei
luoghi piú disparati del pianeta vengono convogliate verso le banche
svizzere). Oltre all’anonimato e alle commissioni basse, poi, le speculazioni
in valute hanno un’altra virtú: grazie ai fusi orari e all’efficienza dei servizi
telefonici, il mercato valutario mondiale (diversamente dalle borse valori,
dagli ippodromi e dai casinò) non chiude praticamente mai. Londra apre
un’ora dopo i mercati dell’Europa continentale (o almeno cosí faceva fino
al febbraio 1968, prima che l’Inghilterra entrasse nella fascia oraria
europea); New York apre cinque (adesso sei) ore dopo Londra, San
Francisco tre ore dopo New York; e quando San Francisco chiude, Tokyo
comincia ad aprire i battenti. Solo la carenza di sonno o di denaro liquido
può costringere all’inattività uno scommettitore incallito.
«In realtà non erano gli gnomi di Zurigo a spingere al ribasso la
sterlina», avrebbe ammesso in seguito un autorevole banchiere della
capitale svizzera, rinunciando per il momento a far presente che gli gnomi
non esistono. Ma quel che è certo è che era in atto un’offensiva organizzata
di vendite allo scoperto – un assalto al ribasso, nel gergo degli operatori – e
che tanto i difensori della sterlina a Londra quanto i loro fiancheggiatori a
New York avrebbero pagato una cifra considerevole per poter guardare in
faccia il loro invisibile nemico.

Fu in quest’atmosfera che si tenne a Basilea, nel fine settimana del 7


novembre 1964, il consueto incontro mensile dei responsabili delle banche
centrali. Occasione di questi convegni, che si tengono regolarmente sin
dagli anni Trenta (con la sola eccezione del periodo 1939-45), è la riunione
del consiglio di amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali,
organismo istituito a Basilea nel 1930 in origine come camera di
compensazione per le riparazioni di guerra che la Germania doveva ancora
ai vincitori della Prima guerra mondiale; col tempo, la Bri è diventata una
sorta di agenzia per la cooperazione monetaria internazionale e, a margine,
una specie di club dei dirigenti delle banche mondiali. Ha risorse molto
meno consistenti rispetto alla Banca mondiale, e una rosa piú ristretta di
soci, ma come accade nei circoli piú esclusivi è spesso teatro di grandi
decisioni. I membri del suo consiglio di amministrazione sono i
rappresentanti delle banche centrali di Gran Bretagna, Francia, Germania
Ovest, Italia, Belgio, Olanda, Svezia e Svizzera – in breve, le potenze
economiche dell’Europa occidentale – ai quali si aggiungono alcune nazioni
ospiti: gli Stati Uniti sono assiduamente presenti a ogni riunione, mentre il
Canada e il Giappone rendono visite piú saltuarie. La Federal Reserve è
quasi sempre rappresentata da Coombs, piú di rado da Hayes o altri
dirigenti.
Che gli interessi delle diverse banche centrali siano in conflitto tra loro è
cosa perfettamente naturale, sicché al tavolo delle riunioni ci si guarda in
faccia come giocatori di poker. Ciò nonostante, se si considera che le
dispute internazionali in ambito monetario hanno una storia lunga quasi
quanto le questioni di soldi tra privati cittadini, la caratteristica piú
sorprendente della cooperazione monetaria internazionale è proprio la
novità. Nelle epoche antecedenti al primo conflitto mondiale non è mai
esistito niente del genere. Negli anni Venti del Novecento, la cooperazione
si realizzò soprattutto attraverso gli stretti legami personali che univano,
spesso nell’indifferenza dei rispettivi governi, i responsabili di alcune
banche mondiali. Il primo organismo ufficiale di cooperazione fu poi il
Comitato finanziario della Società delle nazioni, che in teoria avrebbe
dovuto sostenere le iniziative congiunte volte a prevenire le catastrofi
monetarie. Nel 1931, la crisi della sterlina e le sue tragiche conseguenze
dimostrarono senza ombra di dubbio che il Comitato aveva fallito nella sua
missione, ma per fortuna c’erano buone speranze per il futuro. La
conferenza finanziaria internazionale che si tenne a Bretton Woods nel 1944
istituí non soltanto il Fondo monetario internazionale ma anche l’intero
apparato delle normative postbelliche destinate a fissare i tassi di cambio e
a garantirne la stabilità. A Bretton Woods nacque anche la Banca mondiale,
destinata ad agevolare i flussi di denaro dai Paesi piú ricchi a quelli poveri e
devastati dalla guerra: ecco perché gli accordi di Bretton Woods hanno,
nell’ambito della cooperazione economica, un’importanza pari alla
fondazione delle Nazioni Unite nella sfera politica. Per avere un’idea della
loro importanza basterà pensare al credito di oltre un miliardo di dollari che
il Fondo monetario internazionale concesse alla Gran Bretagna durante la
crisi di Suez del 1956, scongiurando cosí una gravissima crisi finanziaria
internazionale.
Negli anni successivi le dinamiche del mutamento, sia in ambito
economico sia altrove, si fecero sempre piú rapide: dal 1958 in avanti le
crisi monetarie sono diventate piú improvvise, e il Fondo monetario
internazionale, ostacolato dalla lentezza dei suoi ingranaggi, si è talvolta
scoperto incapace di affrontarle da solo. Anche questa volta il nuovo spirito
di cooperazione internazionale è stato pronto a raccogliere la sfida su
iniziativa della nazione piú ricca in assoluto, gli Stati Uniti. A partire dal
1961 la Federal Reserve Bank, con il beneplacito del Consiglio della riserva
federale e del dipartimento del Tesoro di Washington, lavora in
collaborazione con le banche centrali dei maggiori Paesi per dare vita a un
sistema di crediti permanenti rotativi: la cosiddetta «rete degli accordi di
swap». Il suo scopo è integrare l’offerta di crediti a lungo termine erogati
dal Fmi con un sistema che permetta alle banche centrali di accedere
istantaneamente, e per brevi periodi, ai fondi necessari a sostenere le
proprie monete con azioni rapide e vigorose. L’efficacia della nuova rete è
stata ben presto messa alla prova. Tra il 1961 e l’autunno del 1964 le
facilitazioni di swap hanno avuto un ruolo determinante nello sventare una
serie di improvvisi e violenti attacchi speculativi a danno di almeno tre
monete: il dollaro canadese, nel giugno 1961; la sterlina, a fine 1961; e
infine la lira italiana, nel marzo 1964. Nell’autunno di quello stesso anno,
gli accordi di swap (l’accord de swap per i francesi, die Swap-
Verpflichtungen per i tedeschi) erano ormai considerati un elemento
primario della cooperazione monetaria internazionale. D’altronde, i 500
milioni di dollari americani che la Bank of England si vedeva costretta a
ritirare in quello stesso weekend di novembre, mentre i suoi responsabili
partivano per Basilea, erano stati resi disponibili proprio grazie a quel
meccanismo, notevolmente ampliato rispetto alle fasi iniziali del progetto.
Nel corso degli anni la Banca dei regolamenti internazionali aveva finito
per svolgere, in quanto istituzione bancaria, un ruolo paragonabile a quello
di un ingranaggio minore in una macchina assai complessa; viceversa, la
sua importanza in quanto club dei dirigenti delle banche centrali era
cresciuta costantemente. Le riunioni mensili del suo consiglio di
amministrazione erano (e sono tuttora) una preziosa occasione di dialogo in
un’atmosfera informale: parlandosi a quattr’occhi è piú facile scambiarsi
opinioni, pettegolezzi e intuizioni che sarebbero fuori luogo in uno scambio
epistolare o una telefonata sulle linee internazionali. Basilea, poi, è una
bella città medievale sulle rive del Reno, con una cattedrale gotica risalente
al XII secolo e una lunga tradizione di polo dell’industria chimica; è anche
un importante snodo delle linee ferroviarie europee, ed è per questo che è
stata scelta come sede della Banca dei regolamenti internazionali. Ma dato
che oggi i banchieri di rango internazionale viaggiano abitualmente in
aereo, quello che un tempo era un vantaggio è diventato un difetto, non
essendovi alcun collegamento aereo di lunga distanza da e per Basilea: i
delegati sono quindi costretti a scendere all’aeroporto di Zurigo e
proseguire il viaggio in automobile o in treno. In compenso Basilea ha molti
ottimi ristoranti, ed è probabile che numerosi delegati attribuiscano a questo
dettaglio un’importanza sufficiente a controbilanciare la scomodità del
viaggio, giacché, come è noto, la leadership di una banca centrale – o
almeno di una banca centrale europea – è un concetto che si associa per
consuetudine alla bella vita. Si narra che un certo governatore della Banca
nazionale del Belgio abbia detto a un ospite, con assoluta serietà, di sentirsi
in dovere di lasciare al suo successore una cantina meglio fornita di come
l’aveva trovata. Agli ospiti che pranzano presso la sede centrale della
Banque de France viene comunicato in tono di scusa che «le tradizioni della
banca impongono pasti frugali»: segue poi un banchetto in cui riesce piú
spontaneo discutere di vini pregiati che di questioni bancarie e la
«tradizionale» frugalità consiste nel fatto che si serve un solo vino (piú il
cognac, ovvio). La tavola della Banca d’Italia è parimenti sontuosa (la
migliore di Roma, dicono alcuni), e la sala in cui vengono serviti i pranzi è
ornata di preziose tele del Rinascimento che la banca ha acquisito in quanto
garanzie di crediti inesigibili. Ben diversa è l’atmosfera alla Fed di New
York: non vi si servono mai (tranne rarissimi casi) bevande alcoliche, la
conversazione è limitata alle questioni di lavoro e la cuoca si dimostra
pateticamente grata del piú piccolo commento, seppur critico, al suo
operato. Ma del resto, Liberty Street non è certo l’Europa.
In questi tempi democratici, il governo delle banche centrali europee è
considerato l’ultimo baluardo delle tradizioni aristocratiche: un mondo in
cui senso dell’umorismo, eleganza e cultura vanno a braccetto con l’astuzia
commerciale, e talvolta con la mancanza di scrupoli. Le controparti europee
delle guardie in uniforme blu che proteggono Liberty Street sono valletti in
tight. D’altronde, meno di una generazione fa i colloqui tra dirigenti delle
banche centrali erano improntati a un rigido formalismo. Alcuni ritengono
che i primi a violare la regola siano stati gli inglesi durante la Seconda
guerra mondiale, in ottemperanza a un ordine segreto che imponeva alle
autorità di governo e agli alti gradi dell’esercito di rivolgersi ai loro
omologhi americani chiamandoli per nome. Al giorno d’oggi l’usanza è
alquanto diffusa, e ciò si deve indubbiamente alla centralità del dollaro nel
sistema monetario mondiale. (Una seconda ragione è che in quest’epoca di
crescente cooperazione i banchieri centrali si incontrano molto piú spesso di
un tempo: non soltanto a Basilea ma anche a Washington, a Parigi e a
Bruxelles, ogni volta che si riuniscono i comitati bancari delle varie
organizzazioni internazionali. Vedere lo stesso gruppetto di dirigenti
incedere altero nelle hall dei grandi alberghi è cosa ormai talmente comune
da dare l’impressione che siano molto piú numerosi, un po’ come i lancieri
che entrano ed escono dal palcoscenico durante la marcia trionfale
dell’Aida). Anche la scelta dell’idioma comune e dei registri linguistici
sembra aver seguito le correnti del potere economico. Inizialmente i
responsabili delle banche centrali europee si parlavano in francese (in
cattivo francese, dicono alcuni); poi, nel lungo periodo in cui era la sterlina
a rivestire il ruolo di principale moneta mondiale, l’inglese è diventato la
prima lingua delle banche centrali, e tale è rimasto anche nell’èra del
dollaro. Tutti i massimi dirigenti delle banche centrali lo parlano
correntemente e di buon grado, tranne i francesi, che devono avvalersi di un
interprete giacché la maggior parte dei colleghi britannici e americani
sembrano ostinatamente contrari, o del tutto inabili, all’uso di una lingua
diversa dalla loro. (L’unico a farsi beffe di questa tradizione è Lord Cromer,
che parla il francese con perfetta padronanza).
A Basilea, il buon cibo e la comodità hanno la precedenza sul lusso:
molti dei delegati frequentano un ristorantino dall’aspetto dimesso
all’interno della stazione ferroviaria, e la stessa sede della Bri è
modestamente collocata tra una sala da tè e un salone di acconciature. In
quel fine settimana del novembre 1964 il vicepresidente Coombs era
l’unico portavoce del Sistema della riserva federale, e sarebbe poi stato il
principale rappresentante bancario degli Stati Uniti durante le fasi iniziali e
centrali della crisi che proprio allora si stava preparando. Un po’
soprappensiero, Coombs mangiò e bevve di gusto insieme ai colleghi – pur
non essendo, in omaggio alla consuetudine aziendale, un vero e proprio
gourmet – senza mai perdere di vista il suo vero intento: tastare il polso
della situazione e sondare gli animi dei partecipanti. Era l’uomo giusto per
una missione del genere, perché godeva della fiducia e della stima
incondizionate dei colleghi. Questi ultimi erano soliti chiamarlo per nome e
cognome non tanto in ossequio alla nuova moda, ma in segno di affetto e
ammirazione; e lo facevano anche in sua assenza, perché «Charliecoombs»
(quasi un’unica parola, per il lungo allenamento a ripeterne i suoni) era un
personaggio di tutto rispetto nel mondo delle banche centrali. Quegli stessi
colleghi l’avrebbero descritto come il tipico gentiluomo del New England
(è nato a Newton, nel Massachusetts) che sotto un’apparenza fredda e
distaccata, messa ancor piú in risalto dalla parlantina asciutta e dai modi
risoluti, nasconde un’indole calorosa e intuitiva. Per essere un laureato della
Harvard University (classe 1940), Charliecoombs ha un aspetto tutt’altro
che pretenzioso: capelli grigi, occhiali a mezza montatura, e quei modi
attenti e scrupolosi che fanno pensare piú al presidente di una banca di
provincia che al raffinato maestro di un’arte rara e complicata. Eppure è
opinione diffusa che fosse proprio lui, Charliecoombs, la mente geniale che
aveva ideato il sistema degli accordi di swap.
A Basilea si tennero come al solito svariate riunioni formali, ognuna con
il proprio ordine del giorno, ma si fecero anche – come al solito – molte
chiacchierate informali tra gruppetti di delegati, in albergo e durante la cena
di gala del sabato sera: quest’ultima non aveva un ordine del giorno, ma fu
dominata da quello che Coombs definí «il tema clou del momento». Quale
fosse quel tema non c’è bisogno di domandarlo: in pratica per tutto il fine
settimana non si parlò d’altro che della situazione della sterlina. «In base a
quanto mi era stato detto, era chiaro che la fiducia nei confronti della
sterlina stava calando», ha poi raccontato Coombs. Due erano gli
interrogativi che si affacciavano alla mente: ci si chiedeva innanzitutto se la
Bank of England intendesse alleviare le pressioni sulla moneta aumentando
il tasso d’interesse ufficiale. I delegati della banca centrale britannica erano
presenti, ovviamente, ma per ottenere una risposta non sarebbe bastato
sondare le loro intenzioni con una semplice domanda; e se anche avessero
voluto rispondere, la decisione di aumentare i tassi non spettava a loro,
giacché la Bank of England non ha il potere di modificarli senza
l’approvazione – che in molti casi è piú simile a un vero e proprio ordine –
del governo inglese; e i governi eletti, si sa, hanno una naturale avversione
per le misure che aumentano il costo del denaro. Il secondo interrogativo
riguardava la consistenza delle riserve di oro e dollari della Gran Bretagna:
se gli assalti speculativi fossero durati ancora a lungo, sarebbero state
sufficienti per contrastarli? Oltre a quanto restava del miliardo di dollari
ottenuto grazie agli accordi di swap e agli ultimi diritti di prelievo sulle
riserve comuni del Fondo monetario internazionale, la Gran Bretagna aveva
soltanto le proprie riserve ufficiali, che proprio la settimana precedente
erano scese al di sotto dei 2,5 milioni di dollari: il punto piú basso in molti
anni. E l’erosione continuava a velocità spaventosa: la settimana prima,
un’unica giornata nera era bastata ad assottigliare le riserve di altri 87
milioni di dollari, dicevano gli esperti. Un mese di giornate nere, e non
sarebbe rimasto piú nulla.
Eppure, racconta Coombs, nessuno dei partecipanti a quel weekend a
Basilea immaginava che le pressioni sulla sterlina potessero arrivare ai
livelli che avrebbero raggiunto di lí a poco, entro la fine del mese. Il
vicepresidente della Fed tornò a New York preoccupato ma combattivo. La
fase successiva della battaglia per la sterlina doveva svolgersi non a New
York, bensí nella capitale inglese. In quel momento il dubbio piú urgente
riguardava la data che Londra avrebbe scelto per annunciare il rialzo dei
tassi: giovedí 12 novembre si sarebbe saputo se il provvedimento era pronto
per entrare in vigore già nella settimana in corso. In materia di tassi di
interesse, come in tante altre cose, gli inglesi hanno un rituale ben preciso.
Quando è in programma una modifica, alle dodici del giovedí mattina – non
prima né dopo – nell’atrio a pianterreno della Bank of England viene affisso
un cartello che annuncia il nuovo tasso; al tempo stesso, un funzionario in
livrea rosa e cappello a cilindro chiamato Government Broker imbocca di
gran carriera Throgmorton Street, entra nella sede della borsa, sale su un
podio e annuncia solennemente la modifica. Venne giovedí 12, e il
mezzogiorno passò senza annunci; evidentemente il nuovo governo
laburista faticava a decidersi tanto quanto il vecchio governo conservatore.
Gli speculatori, ovunque si trovassero, reagirono come un sol uomo a quella
prova di vigliaccheria. Dopo un inizio di settimana relativamente vivace –
dopo tutto gli speculatori si aspettavano un rialzo dei tassi – venerdí 13 la
sterlina subí una batosta memorabile e scese a 2,7829 dollari, appena un
quarto di centesimo al di sopra della soglia minima ufficiale; la banca
centrale, costretta a intervenire piú volte per non farla scendere ancora piú
in basso, vide ridursi le riserve di altri 28 milioni. L’indomani il
commentatore finanziario del «Times» londinese che si firmava «Il nostro
inviato alla City», parlò senza peli sulla lingua. «La sterlina, – scrisse, –
appare meno solida di quanto sarebbe auspicabile».

La settimana successiva lo schema si ripeté identico, ma in forma piú


estesa. Lunedí il primo ministro Wilson, prendendo esempio da Winston
Churchill, decise di giocare la carta della retorica: durante una cena in
pompa magna al municipio della City prese la parola davanti a una platea di
alti dignitari che includeva l’arcivescovo di Canterbury, il Lord cancelliere,
il Lord presidente del Consiglio, il Lord del sigillo privato, il sindaco di
Londra e le rispettive consorti, e in toni altisonanti proclamò «non soltanto
la nostra fiducia, ma la nostra determinazione a proteggere la forza e il
prestigio della sterlina» precisando che il governo non avrebbe esitato a
compiere tutti i passi necessari a raggiungere il suo scopo. Pur evitando
accuratamente, come altri esponenti del governo avevano già fatto per
l’intera estate, di pronunciare la parola «svalutazione», Wilson cercò di far
capire che ormai il dado era tratto. Per dare piú enfasi al discorso, aggiunse
un duro monito agli speculatori: «Se qualcuno, in patria o all’estero, dubita
della nostra fermezza, che si prepari a pagare il prezzo della sua sfiducia».
Forse gli speculatori furono intimiditi dall’ardente oratoria del primo
ministro, o forse decisero di allentare la pressione sulla sterlina in
previsione dell’ormai imminente aumento dei tassi: sta di fatto che nelle
giornate di martedí e mercoledí la sterlina, pur non viaggiando ai massimi
livelli, riuscí quanto meno a mantenersi su quotazioni un po’ meno basse
rispetto al venerdí precedente, anche senza l’aiuto della Bank of England.
Giovedí 19, come si seppe in seguito, ci fu un’aspra discussione tra i
vertici della banca centrale e il governo, proprio in relazione alla modifica
del tasso di sconto: la Bank of England, tramite Lord Cromer, sosteneva
l’assoluta necessità di un rialzo non inferiore a un punto percentuale,
magari nell’ordine del 2 per cento; Wilson, Brown e Callaghan erano
ancora molto perplessi. Il risultato fu che anche quel giovedí il tasso di
sconto non venne aumentato, e l’inerzia del governo provocò un rapido
peggioramento della crisi. Venerdí 20 fu una giornata nera alla City di
Londra: poiché gli investitori erano molto sensibili alle vicende della
sterlina, la borsa valori ebbe un tracollo. La Bank of England, nel
frattempo, aveva deciso di fissare l’ultima linea di trincea della sterlina a
2,7825 dollari: appena un quarto di centesimo sopra il minimo. Venerdí
mattina la sterlina aprí esattamente con quella quotazione e rimase lí tutto il
giorno, inchiodata da una valanga di offerte di vendita da parte degli
speculatori; la banca centrale le recepí tutte, e cosí facendo intaccò
ulteriormente le riserve. Le offerte affluivano a una tale velocità che non si
tentava neppure di dissimularne l’origine: era chiaro che provenivano da
tutti i principali centri finanziari europei, comprese New York e la stessa
Londra. Intanto le borse valori del Vecchio continente erano turbate da voci
di un imminente deprezzamento della sterlina. Persino a Londra apparivano
i primi segni di cedimento psicologico: ormai si parlava apertamente di
svalutazione. Giovedí l’economista e sociologo svedese Gunnar Myrdal
aveva dichiarato, durante un pranzo ufficiale, che una modesta svalutazione
era forse l’unica soluzione possibile ai problemi della Gran Bretagna: e una
volta rotto il ghiaccio grazie a quel commento esogeno, anche i britannici si
arrischiarono a pronunciare la temuta parola. Persino «Il nostro inviato alla
City» l’avrebbe messa per iscritto il giorno successivo, dichiarando nei toni
di un comandante che prepari la sua guarnigione a una possibile resa, che
«Le voci incontrollate su un’imminente svalutazione della sterlina possono
causare danni. Ma sarebbe anche peggio se si trattasse quella parola come
un tabú».
Quando il calar delle tenebre concesse alla sterlina e ai suoi difensori un
weekend di tregua, la Bank of England ne approfittò per valutare la
situazione. I risultati furono tutt’altro che rassicuranti: del miliardo di
dollari preso in prestito a settembre, solo una minima parte non era andata
perduta nella battaglia. I diritti di prelievo dalle riserve del Fondo monetario
internazionale erano praticamente inutili: ci sarebbero volute settimane per
completare la transazione, ma ormai era questione di giorni, se non di ore.
Dunque restavano soltanto le riserve ufficiali, scese quel venerdí di altri 56
milioni di dollari: il valore complessivo di ciò che era rimasto si aggirava
intorno ai 2 miliardi di dollari. In seguito è stato dichiarato da piú parti che
quei 2 miliardi erano, in un certo senso, l’equivalente finanziario dei pochi
squadroni di aerei da caccia con cui la caparbia nazione britannica aveva
affrontato, ventiquattro anni prima, il momento piú drammatico della
battaglia d’Inghilterra.

L’analogia è stravagante, certo, ma tutt’altro che marginale se si


considera il significato che gli inglesi attribuiscono da sempre alla loro
moneta. In un’epoca materialistica come la nostra, la sterlina ha lo stesso
valore simbolico un tempo accordato alla corona: dunque c’è una perfetta
equivalenza tra lo stato di salute della moneta nazionale e quello dell’intera
nazione. Il pound è la piú antica tra le monete moderne; le origini del
termine pound sterling, a quanto pare, risalgono a un’epoca addirittura
precedente alla conquista normanna, ovvero ai tempi in cui i re sassoni
coniavano piccole monete d’argento puro – chiamate sterling o starling per
via delle stelle (star) che talora vi erano incise – il cui peso era pari a un
duecentoquarantesimo di libbra (pound). (Lo scellino pari a dodici sterling,
ovvero un ventesimo di libbra d’argento, sarebbe comparso sulla scena
soltanto dopo la conquista normanna). Dunque il pound in quanto mezzo di
pagamento è sempre stato presente nella storia inglese, anche se nei suoi
primi secoli di vita non si è certo distinto per solidità: colpa dei monarchi, i
quali avevano la sciagurata abitudine di ovviare alle croniche ristrettezze
economiche riducendo il tenore di metallo prezioso della moneta. Bastava
far fondere una certa quantità di sterling e gettare nel calderone una minima
dose di qualche metallo vile, dopodiché si coniavano nuove monete e il
gioco era fatto: un re senza scrupoli poteva magicamente trasformare 100
pounds in 110 pounds. A porre fine a questa pratica ci pensò Elisabetta I,
che nel 1561, con una mossa a sorpresa accuratamente preparata, ritirò dalla
circolazione tutte le monete svilite. La conseguenza fu una rapida e
spettacolare impennata nel prestigio della sterlina, alla quale contribuí
anche l’espansione dei commerci con l’estero: a meno di un secolo dal
colpo di mano di Elisabetta, il termine sterling aveva già assunto nella
lingua inglese il significato aggettivale che possiede tuttora: genuino,
eccellente, in grado di reggere qualsiasi prova. Alla fine del XVII secolo,
quando la neonata Bank of England fu incaricata di amministrare le finanze
del regno, la carta moneta era già diffusamente utilizzata nelle normali
transazioni economiche; per di piú, la si poteva convertire non solo in
argento ma anche in oro. Col passare del tempo il prestigio monetario
dell’oro crebbe costantemente a scapito dell’argento (nel mondo moderno
l’argento non è piú utilizzato per la formazione delle riserve monetarie, e
viene impiegato per il conio delle monete sussidiarie in appena una mezza
dozzina di nazioni). Tuttavia il gold standard o monometallismo aureo – il
sistema monetario in cui lo Stato si impegna a convertire la sua moneta
cartacea in monete o lingotti d’oro – fu introdotto in Gran Bretagna soltanto
nel 1816. La sovrana d’oro del valore di una sterlina fece la sua prima
comparsa un anno dopo e divenne quasi subito un simbolo di stabilità,
agiatezza e persino felicità, non solo per Bagehot ma per tutti i vittoriani
suoi contemporanei.
La prosperità genera desiderio di emulazione. Vedendo arricchirsi la
Gran Bretagna, le altre nazioni si convinsero che il gold standard avesse
quanto meno una funzione di supporto, e si affrettarono a introdurlo a loro
volta: la Germania lo fece nel 1871; Svezia, Norvegia e Danimarca nel
1873; Francia, Belgio, Svizzera, Italia e Grecia nel 1874; l’Olanda nel
1875; gli Stati Uniti, infine, nel 1879. I risultati furono però deludenti: quasi
nessuno degli emuli di Londra si ritrovò ricco dall’oggi al domani, e la
Gran Bretagna (che a posteriori dà l’impressione di aver prosperato in egual
misura grazie e a dispetto del monometallismo aureo) conservò il suo ruolo
di regina indiscussa del commercio mondiale. Nei cinquant’anni che
precedettero lo scoppio della Prima guerra mondiale Londra diventò il
maggiore centro di intermediazione della finanza internazionale, e la
sterlina si conquistò il ruolo di moneta semiufficiale delle transazioni
finanziarie mondiali. Per dirla con i toni nostalgici di David Lloyd George,
prima del 1914 «in tutti i porti del mondo civile, il crepitare di un “pagherò”
su Londra, – cioè di una tratta in sterline firmata da una banca londinese, –
valeva quanto il tintinnio dell’oro». La guerra venne poi a rompere l’idillio,
scompaginando i delicati equilibri che l’avevano reso possibile e portando
alla ribalta un avversario – il dollaro degli Stati Uniti – in grado di sfidare la
supremazia della sterlina. La Gran Bretagna, pressata dalla necessità di
finanziare lo sforzo bellico, adottò nel 1914 misure destinate a scoraggiare
la conversione della carta moneta in oro, abbandonando nella pratica, se
non nella legge, il monometallismo aureo; nel frattempo il tasso di cambio
della sterlina nei confronti del dollaro scese da 4,86 a un minimo di 3,20 nel
1920. Cinque anni dopo, nel tentativo di recuperare le perdute glorie,
Londra tornò al gold standard ancorando la sterlina all’oro in modo da
ristabilire la vecchia parità a 4,86 dollari. Il prezzo di quella smaccata
sopravvalutazione fu un’interminabile crisi dell’economia interna, senza
contare la scomparsa dalla scena politica, per una quindicina d’anni, del
cancelliere dello Scacchiere che l’aveva decretata: Winston Churchill.
La crisi monetaria generalizzata che si manifestò negli anni Trenta del
Novecento ebbe inizio non a Londra, ma in Europa continentale: nel 1931
la principale banca austriaca, il Creditanstalt, fu messa sotto attacco e infine
costretta a dichiarare fallimento. Questo evento relativamente marginale
innescò il classico (sempre ammesso che esista) effetto domino: le perdite
subite dalle banche tedesche produssero una crisi anche in Germania, e
poiché le banche in sofferenza detenevano un’ingente quota di fondi
britannici, la crisi attraversò la Manica e bussò alle porte della sterlina
imperiale. Di lí a poco la Bank of England, nonostante i prestiti concessi
dalla Francia e dagli Stati Uniti, non fu piú in grado di far fronte alle
richieste di conversione della carta moneta in oro. A quel punto c’erano due
alternative, entrambe scoraggianti: imporre un tasso di sconto ai limiti
dell’usura – tra l’8 e il 10 per cento – al fine di arginare il deflusso di
denaro e proteggere le riserve auree, oppure abbandonare il gold standard.
La prima opzione, considerata inaccettabile, avrebbe ulteriormente
penalizzato l’economia interna, già indebolita dalla presenza di oltre due
milioni e mezzo di disoccupati. Di conseguenza, il 21 settembre del 1931 la
Bank of England annunciò la sospensione della convertibilità tra banconote
e oro.
La decisione si abbatté come una folgore sul mondo finanziario. Il
prestigio della sterlina era tale da indurre il già famoso economista John
Maynard Keynes a dire, non del tutto ironicamente, che in realtà non era il
pound ad aver abbandonato l’oro, ma viceversa. Comunque fosse andata la
vicenda, il vecchio sistema si ritrovò senza ormeggi, e fu il caos. Di lí a
poche settimane tutti i Paesi della vasta porzione di globo allora soggetta al
dominio politico o economico della Gran Bretagna erano usciti dal sistema
monetario aureo, mentre la maggior parte delle altre valute guida avevano
abbandonato l’oro o si erano drasticamente svalutate rispetto a esso; sul
mercato libero, intanto, il valore della sterlina era sceso da 4,86 a 3,50
dollari. Passò qualche tempo, e anche il dollaro – cioè il nuovo, potenziale
punto di ancoraggio – si sganciò. Nel 1933, in seguito alla piú grave
depressione della loro storia, anche gli Stati Uniti abbandonarono il gold
standard. Vi fecero ritorno un anno piú tardi in una forma modificata, detta
gold-exchange standard o sistema monetario a cambio aureo, in base al
quale le monete d’oro furono tolte dalla circolazione e la Federal Reserve fu
autorizzata a vendere oro soltanto in forma di barre, e soltanto alle altre
banche centrali, a un tasso drasticamente svalutato corrispondente al 41 per
cento del vecchio prezzo. La svalutazione statunitense riportò la sterlina
all’antica parità, ma Londra non trasse gran conforto dal sapersi stabilmente
ancorata a un approdo diventato a sua volta alquanto malfermo. Nei cinque
anni successivi, mentre il principio mors tua vita mea diventava la nuova
legge della finanza internazionale, la sterlina riuscí a non perdere troppo
terreno rispetto alle altre monete; allo scoppio della Seconda guerra
mondiale il governo britannico decise coraggiosamente di ancorare la
moneta alla quota di 4,03 dollari e di imporre – in barba al principio della
libertà di mercato – dei controlli per garantirne la stabilità. Il rapporto resse
per un decennio, ma solo ufficialmente. Sul mercato libero della Svizzera,
Paese neutrale, il tasso di cambio della sterlina continuò a oscillare per tutta
la durata del conflitto a seconda delle fortune belliche della Gran Bretagna,
scendendo nei momenti piú bui fino a quota 2 dollari.
Nell’èra postbellica, la sterlina non ha praticamente mai avuto pace.
Assodato che il sistema aureo era fin troppo rigido, mentre la sostanziale
inconvertibilità della carta moneta produceva, come si era visto negli anni
Trenta, un eccesso di instabilità, le nuove regole del gioco finanziario
stabilite alla conferenza di Bretton Woods si basarono su una soluzione di
compromesso, nella quale il dollaro – nuovo re dei mercati valutari –
rimaneva agganciato all’oro, mentre la sterlina e le altre valute guida
venivano ancorate non piú all’oro ma al dollaro, con tassi di cambio
variabili all’interno di una ben precisa fascia di oscillazione. Di fatto l’èra
postbellica si aprí con una nuova svalutazione della moneta britannica, tanto
severa nella sostanza quanto quella del 1931, ma meno tragica nelle
conseguenze. La sterlina, come molte altre monete europee, era uscita da
Bretton Woods palesemente sopravvalutata in confronto allo stato
disastroso dell’economia nazionale, e aveva potuto mantenersi a quei livelli
soltanto grazie ai rigidi controlli governativi. Nell’autunno del 1949, dopo
un anno e mezzo di voci incontrollate su una possibile svalutazione, di
vivaci compravendite sul mercato nero e di progressiva erosione delle
riserve auree ormai scese a livelli di guardia, la sterlina fu svalutata da 4,03
a 2,80 dollari. Con le sole eccezioni del dollaro statunitense e del franco
svizzero, tutte le principali monete delle nazioni non appartenenti al blocco
comunista seguirono quasi all’istante l’esempio della sterlina: ma questa
volta non vi furono né interruzioni dei flussi commerciali né altri dissesti,
perché le svalutazioni del 1949, a differenza di quelle del 1931 e degli anni
immediatamente successivi, non erano piú il tentativo disperato e
inconsulto di alcune economie depresse che cercavano di accaparrarsi un
vantaggio sulle rivali. Questa volta si trattava di Paesi che riconoscevano di
essersi ripresi dalle devastazioni causate dalla guerra a un punto tale da
poter reggere senza stampelle l’urto di una concorrenza internazionale
relativamente libera. Prova ne fu che il commercio internazionale, invece di
interrompersi, registrò un brusco rialzo. Ma anche alla nuova e piú
ragionevole quotazione la sterlina continuò a comportarsi da miracolata,
sopravvivendo a crisi di varia gravità nel 1952, 1955, 1957 e 1961. Come il
suo antico volteggiare aveva accompagnato l’ascesa della Gran Bretagna al
ruolo di prima potenza mondiale e il suo successivo declino, cosí ora quella
fastidiosa e ricorrente debolezza segnalava – nel suo tipico modo freddo e
distaccato – che il ridimensionamento avviato nel 1949 non era ancora
proporzionato alle attuali ristrettezze.
Nel novembre del 1964, quei segnali e le loro umilianti conseguenze non
passavano certo inosservati agli occhi degli inglesi. L’emotività con cui
molti di loro guardavano alla situazione della sterlina è ben esemplificata da
uno scambio che ebbe luogo, all’apice della crisi, in quella celebre tribuna
che è la posta dei lettori del «Times». Un tale I. M. D. Little si era detto
infastidito dall’eccesso di piagnistei sulla sterlina e soprattutto delle tante
ansie su un’imminente svalutazione: questioni che, a suo parere,
riguardavano la sfera economica e non quella morale. Gli altri lettori del
«Times» replicarono in un battibaleno: un tale C. S. Hadfield, in particolare,
sosteneva che la lettera di Mr Little fosse un chiaro indizio della volgarità
dei tempi. Dunque la svalutazione non era una questione morale? «Il
ripudio – perché questo è una svalutazione, né piú e né meno – è dunque
diventato un atto rispettabile?» gemeva Hadfield, nel tono inconfondibile (e
vecchio quanto la sterlina) del patriota offeso.

Nei dieci giorni che seguirono la riunione di Basilea non fu la sterlina,


ma il dollaro, a occupare le menti della Fed newyorchese. Il deficit della
bilancia dei pagamenti stava ormai sfiorando la preoccupante cifra di 6
miliardi annui, e si temeva che un eventuale incremento del tasso di sconto
britannico, se non accompagnato da un’adeguata contromossa da parte degli
Stati Uniti, servisse unicamente a deviare verso il dollaro una parte degli
attacchi speculativi. Hayes, Coombs e le autorità monetarie di Washington –
William McChesney Martin, presidente del Consiglio della riserva federale,
piú il segretario al Tesoro Douglas Dillon e il suo vice Robert Roosa –
stabilirono che se gli inglesi avessero alzato il tasso la Federal Reserve
sarebbe stata costretta ad attuare una misura autodifensiva, innalzando a sua
volta il proprio tasso di sconto al di sopra del 3,5 per cento. Hayes discusse
a fondo la delicata questione in una serie di conversazioni telefoniche con il
suo omologo di oltreoceano, Lord Cromer. Oltre a essere un nobile di antico
lignaggio – figlioccio di re Giorgio V e nipote di Sir Evelyn Baring, ex
console generale inglese in Egitto, poi primo conte di Cromer – questi era
anche un banchiere di indiscusso talento e – a soli quarantatre anni – il piú
giovane direttore della Bank of England che la storia ricordi; tra Lord
Cromer e Alfred Hayes era nata una calorosa amicizia, rinsaldata dai
frequenti incontri a Basilea e altrove.

Nel pomeriggio di venerdí 20, la Fed poté finalmente dimostrare le sue


buone intenzioni schierandosi in prima linea a difesa della sterlina. La breve
tregua concessa dalla chiusura della borsa londinese si dimostrò illusoria: se
a Londra erano le cinque, a New York era solo mezzogiorno, e gli
insaziabili speculatori ne approfittarono continuando per ore a vendere
sterline sulla piazza di New York. Il risultato fu che la sala contrattazioni
della Federal Reserve Bank sostituí provvisoriamente la Bank of England
nel ruolo di roccaforte a difesa della sterlina. Armati di dollari britannici – o
piú precisamente di dollari statunitensi prestati alla Gran Bretagna
nell’ambito degli accordi di swap – gli operatori della Federal Reserve
opposero una strenua resistenza agli attacchi speculativi e riuscirono a non
far scendere il cambio al di sotto dei 2,7825 dollari per sterlina, anche se
l’operazione ebbe costi notevoli sulle sempre piú magre riserve della Bank
of England. Dopo la chiusura di New York, per fortuna, la battaglia non
proseguí a San Francisco né altrove. Evidentemente gli speculatori ne
avevano avuto abbastanza, almeno per il momento.
Quello che seguí fu uno di quegli strani fine settimana moderni in cui
persone apparentemente in pieno relax, sparse in varie zone del mondo,
discutono di questioni importanti e prendono decisioni importanti. Wilson,
Brown e Callaghan erano a Chequers, la residenza di campagna del primo
ministro, per una riunione che in teoria avrebbe dovuto vertere su questioni
di difesa nazionale. Anche Lord Cromer era in campagna: a Westerham, nel
Kent. Martin, Dillon e Roosa erano a casa o in ufficio, a Washington o nelle
immediate vicinanze. Coombs era nella sua casa di Green Village, nel New
Jersey; anche Hayes era nel New Jersey, ospite di amici. Alla residenza di
Chequers, Wilson e i suoi due ministri finanziari lasciarono le questioni di
difesa agli alti papaveri dell’esercito e si trasferirono al piano di sopra per
parlare della crisi valutaria; affinché Lord Cromer potesse partecipare alla
discussione si aprí un collegamento telefonico con la sua residenza del
Kent, proteggendolo con un dispositivo di cifratura per evitare che i nemici
invisibili – gli speculatori – captassero le loro parole. In un momento
imprecisato del sabato, gli inglesi pervennero a una decisione. Non soltanto
avrebbero alzato il tasso di sconto di due punti percentuali al di sopra del
livello corrente – portandolo dunque al 7 per cento – ma in sfida alle
tradizioni lo avrebbero fatto quel lunedí stesso, all’inizio della mattinata,
senza aspettare giovedí. Rinviare il provvedimento per altri tre giorni e
mezzo, fino a giovedí, avrebbe quasi certamente comportato un ulteriore
prosciugamento delle già esangui riserve nazionali; in secondo luogo,
l’intenzionale rottura delle tradizioni avrebbe conferito al gesto uno
spessore drammatico, dimostrando la determinazione del governo. La
decisione venne comunicata, tramite i rappresentanti britannici a
Washington, ai responsabili della politica monetaria statunitense, e da lí
ritrasmessa a Hayes e Coombs nel New Jersey. Questi ultimi, rendendosi
conto che i piani per un concomitante rialzo del tasso di sconto americano
andavano messi in atto il piú presto possibile, organizzarono per lunedí
pomeriggio una riunione del consiglio di amministrazione della Fed, al
quale spettava il potere d’iniziativa del provvedimento. Hayes, da autentico
gentiluomo qual è, ha poi confessato il suo grande disappunto nell’essere
stato, durante quel fine settimana, la disperazione della padrona di casa: non
soltanto aveva trascorso la maggior parte del tempo al telefono, ma non
aveva potuto, date le circostanze, fornire la benché minima spiegazione di
quel comportamento riprovevole.
Il passo che si era fatto – o meglio, che si stava per fare – in Gran
Bretagna era di quelli che hanno il potere di mettere in subbuglio l’intera
finanza internazionale. Dalla Prima guerra mondiale in poi il tasso di sconto
britannico non era mai salito oltre la soglia del 7 per cento, e solo in rare
occasioni si era spinto a quelle vette; mentre per ritrovare un altro
provvedimento di modifica annunciato in un giorno diverso dal giovedí
bisognava tornare indietro fino al 1931, data indubbiamente ricca di presagi
negativi. Prevedendo un’apertura vivace della Borsa di Londra, Coombs
andò in Liberty Street la domenica pomeriggio con l’intenzione di
trascorrere la notte in ufficio ed essere pronto all’azione quando le borse di
oltreatlantico avessero aperto i battenti, a un’ora corrispondente alle cinque
del mattino di New York. A fargli compagnia c’era un collega al quale
capitava talmente spesso di dormire in ufficio per esigenze di lavoro che ci
teneva una valigia sempre pronta: Thomas J. Roche, all’epoca responsabile
del settore valute estere. Roche accolse il suo capo nei dormitori del decimo
piano, una fila di camerette attrezzate a mo’ di stanze d’albergo con mobili
in legno d’acero, vecchie stampe di New York alle pareti, telefono,
radiosveglia, accappatoio e nécessaire da barba. Dopo aver analizzato gli
sviluppi del fine settimana, Coombs e Roche si ritirarono nelle rispettive
stanzette. La radiosveglia li destò poco prima delle cinque, e dopo una
colazione servita dal personale notturno i due si rinchiusero nella sala
contrattazioni del sesto piano e accesero i fluoroscopi.

Alle 5.10 erano già in contatto telefonico con la Bank of England per
ricevere gli ultimi aggiornamenti. Come previsto, il rialzo dei tassi era stato
annunciato all’apertura delle contrattazioni ed era stato accolto con grande
scalpore. Coombs avrebbe appreso in seguito che l’entrata del Government
Broker alla borsa valori, solitamente accolta in relativo silenzio, era stata
salutata con un boato tale da rendergli difficile comunicare la notizia.
Quanto alle prime reazioni del mercato valutario, somigliavano (cosí
avrebbe osservato un commentatore) a quelle di un cavallo dopato: nei dieci
minuti successivi all’annuncio del Government Broker la sterlina era
balzata a quota 2,7869, ben al di sopra della chiusura di venerdí. Qualche
minuto piú tardi i due mattinieri newyorchesi si misero in contatto
telefonico con la Deutsche Bundesbank (la banca centrale della Germania
occidentale) di Francoforte e con la Banca nazionale svizzera di Zurigo, per
sondare le reazioni dei colleghi europei. Erano positive, a quanto pareva.
Subito dopo richiamarono la Bank of England, dove il clima si stava
mettendo decisamente al bello. Gli speculatori erano in fuga e si
affrettavano a coprire le posizioni corte. Infine, mentre le prime luci
dell’alba filtravano dalle finestre di Liberty Street, Coombs ebbe notizia che
a Londra la sterlina era quotata a 2,79: il miglior prezzo da luglio, quando la
crisi era iniziata.

Andò avanti cosí per tutta la giornata. «Il 7 per cento aspirerà soldi dalla
luna», commentò un banchiere svizzero parafrasando il grande Bagehot
che, con la sua tipica concretezza vittoriana, aveva detto: «Il 7 per cento
risucchierà l’oro dalla terra». A Londra c’era un tale senso di sicurezza che
le baruffe politiche tornarono al centro della scena: Reginald Maudling,
massima autorità economica dell’opposizione conservatrice, colse al volo
l’occasione per dichiarare in parlamento che la responsabilità della crisi
ricadeva sull’operato dei laburisti. Il cancelliere dello Scacchiere Callaghan
replicò glaciale: «È mio dovere rammentare allo stimato gentiluomo che
egli stesso ha [recentemente] dichiarato di averci lasciato in eredità i suoi
problemi». Insomma, si respirava meglio. La Bank of England, dal canto
suo, vide in quell’improvvisa corsa alla sterlina un’ottima occasione per
rimpinguare le sue limitatissime scorte di dollari, e per una parte del
pomeriggio osò addirittura cambiare ruolo, vendendo sterline in cambio di
dollari a un tasso poco inferiore a quota 2,79. A New York, gli umori del
mercato si mantennero stabili anche dopo la chiusura di Londra. E quando,
quello stesso pomeriggio, i direttori della Fed di New York annunciarono il
previsto rialzo del tasso d’interesse ufficiale dal 3,5 al 4 per cento, lo fecero
con perfetta tranquillità riguardo alle sorti della sterlina. Racconta Coombs:
«Quel lunedí pomeriggio il sentimento dominante era: “Ce l’hanno fatta. Ne
sono usciti un’altra volta”. Insomma, sollievo generale. La crisi della
sterlina sembrava finita».

Non lo era, invece. «Martedí 24 la situazione cambiò molto


rapidamente», ricorda Hayes. L’apertura di quel giorno trovò la sterlina
apparentemente ben salda a quota 2,7875. Dalla Germania arrivavano
consistenti ordini di acquisto, e la giornata si prospettava buona. Cosí fu,
infatti, fino alle sei, ora di New York – mezzogiorno in Europa. È intorno a
quell’ora che nelle varie borse europee comprese Parigi e Francoforte, le
piú importanti, ci si riunisce per fissare i tassi di cambio giornalieri che
servono a regolare le compravendite di azioni e obbligazioni in valute
straniere. L’esito di quelle riunioni condiziona sempre i mercati monetari,
perché fornisce una chiara indicazione dello stato d’animo europeo nei
confronti di ciascuna moneta. Quel giorno i tassi di cambio per le
operazioni di borsa in sterline mostrarono una rinnovata e pronunciata
mancanza di fiducia. Al tempo stesso gli operatori in valute di tutto il
mondo, ma soprattutto gli europei, davano segnali di ripensamento riguardo
all’aumento dei tassi attuato il giorno precedente. Sulle prime, colti di
sorpresa, avevano reagito con entusiasmo, dopodiché avevano deciso che
un provvedimento annunciato e preso di lunedí era indice di scarsa
padronanza della situazione. «Tu cosa penseresti, se gli inglesi giocassero la
finale di campionato di domenica?» domandò un banchiere europeo a un
suo collega. La risposta non poteva essere che una: Albione era in preda al
panico.

Il ripensamento degli operatori si tradusse in un brusco dietrofront dei


mercati valutari. Tra le otto e le nove di quella mattina, Coombs fu lo
scoraggiato testimone degli eventi che portarono lo scompiglio in un
mercato della sterlina relativamente tranquillo. Ordini di vendita di
dimensioni mai viste arrivavano da ogni parte del mondo. Con il coraggio
della disperazione, la Bank of England spostò la sua ultima trincea da
2,7825 a 2,7860 dollari e riuscí, intervenendo di continuo, a inchiodare la
sterlina a quella quotazione. Era chiaro, tuttavia, che i costi dell’operazione
sarebbero presto diventati eccessivi: qualche minuto dopo le nove, secondo
i calcoli di Coombs, la Gran Bretagna stava perdendo riserve al ritmo folle
e intollerabile di un milione di dollari al minuto.

Hayes arrivò in banca qualche minuto dopo le nove e fece appena in


tempo a sedersi prima di ricevere la brutta notizia dal sesto piano. «C’è aria
di burrasca», annunciò Coombs, chiarendo subito dopo che le fortissime e
ancora crescenti pressioni sulla sterlina facevano supporre che entro la fine
della settimana la Gran Bretagna si sarebbe vista costretta a svalutare,
oppure a introdurre un sistema di controlli sui cambi tanto generalizzato
quanto insostenibile. Hayes chiamò immediatamente i governatori delle
maggiori banche centrali europee – alcuni dei quali accolsero la notizia con
sorpresa, giacché non tutti i mercati nazionali avevano ancora percepito
appieno la gravità della situazione – e li scongiurò di non modificare al
rialzo i loro tassi di interesse, perché una mossa del genere avrebbe
inasprito le pressioni sulla sterlina e sul dollaro. (Il compito di Hayes, va
detto, era reso piú arduo dalla necessità di ammettere che la sua stessa
banca aveva appena alzato il tasso). Fatto questo, il presidente della Fed
invitò Coombs a scendere nel suo ufficio. L’analisi della situazione li vide
concordi sul fatto che la sterlina aveva ormai le spalle al muro:
evidentemente il rialzo dei tassi deciso dalla Bank of England non aveva
raggiunto lo scopo, e se le riserve britanniche avessero continuato a perdere
un milione al minuto si sarebbero azzerate in meno di cinque giorni
lavorativi. Data la situazione, l’unica speranza consisteva nell’accumulare
nell’arco di poche ore, o al massimo di un giorno, una quantità di crediti
esterni talmente enorme da consentire alla Bank of England di sopravvivere
all’attacco e respingere gli speculatori. Analoghi pacchetti di emergenza
erano già stati organizzati in altre occasioni: per il Canada nel 1962, per
l’Italia appena pochi mesi prima, per la Gran Bretagna nel 1961. Era chiaro
che questa volta ci sarebbe voluto un pacco molto piú voluminoso: aiutare
la Gran Bretagna non era piú un’opportunità, ma una necessità. La
comunità delle banche mondiali stava per aggiungere una nuova pietra
miliare alla breve storia della cooperazione monetaria internazionale.

Altre due cose emergevano chiaramente dalla situazione: la prima era


che, date le correnti difficoltà del dollaro, gli Stati Uniti non potevano
illudersi di soccorrere la sterlina da soli; la seconda era che, malgrado le
correnti difficoltà del dollaro, gli Stati Uniti avrebbero dovuto dare inizio
all’operazione di soccorso schierandosi al fianco della Bank of England con
tutto il peso della loro economia. Come prima mossa, Coombs decise che
l’ammontare del credito stand-by erogato alla Bank of England fosse
immediatamente portato da 500 a 750 milioni di dollari. Sfortunatamente la
cosa non si poteva fare all’istante, giacché in base alla legge costitutiva del
Sistema della riserva federale le decisioni di quel genere vanno approvate
da un apposito comitato, i cui membri erano in quel momento sparpagliati
in varie zone del Paese. Mentre i telefoni e i telegrafi di tutto il mondo
fremevano di ansia per la crisi della sterlina, Hayes si consultò per via
telefonica con i membri del contingente monetario di Washington, Martin,
Dillon e Roosa, che si dissero d’accordo con l’analisi e il piano d’azione di
Coombs: di conseguenza l’ufficio di Martin si mise in contatto con i
membri del Comitato federale per le operazioni di mercato aperto,
convocandoli per una riunione telefonica alle tre di quel pomeriggio. Roosa,
dal ministero del Tesoro, propose di integrare il contributo statunitense con
un prestito da 250 milioni di dollari dalla Export-Import Bank,
un’istituzione finanziaria di Washington controllata e finanziata dal Tesoro
americano. Com’era prevedibile, Hayes e Coombs si pronunciarono a
favore, e cosí Roosa mise in moto gli ingranaggi burocratici necessari a
sbloccare quel forziere – operazione che, come egli stesso si premurò di
chiarire, non si sarebbe conclusa prima di sera.

Passò il primo pomeriggio, e mentre a Londra le riserve britanniche


perdevano milioni di dollari al minuto, Hayes, Coombs e i loro colleghi di
Washington stavano alacremente pianificando il passo successivo. Se
l’estensione dell’accordo di swap e il prestito della Export-Import Bank
fossero andati in porto, l’ammontare totale dei crediti statunitensi avrebbe
raggiunto il miliardo di dollari; a quel punto, dopo essersi consultati con i
colleghi impegnati a difendere il fortino assediato della Bank of England,
gli uomini della Federal Reserve cominciarono a pensare che per garantire
l’efficacia dell’operazione gli altri membri del gotha delle banche centrali –
dette per brevità «del Continente» benché vi fossero annoverate anche la
banca canadese e quella giapponese – avrebbero dovuto mettere a
disposizione crediti nell’ordine del miliardo e mezzo di dollari o piú, se
possibile. Cosí facendo, il «Continente» avrebbe sopravanzato gli Stati
Uniti nel ruolo di principale sostenitore della causa britannica, cosa che
però, secondo Hayes e Coombs, non avrebbe fatto grande piacere alle
banche stesse e ai loro governi di riferimento.

Alle quindici in punto il Comitato per le operazioni di mercato aperto


tenne la sua riunione telefonica, alla quale parteciparono dodici persone,
ognuna seduta alla propria scrivania in sei diverse città degli Stati Uniti, da
New York a San Francisco. Coombs descrisse la situazione e avanzò le sue
proposte in tono asciutto e impassibile. I membri del Comitato si lasciarono
convincere facilmente. Nel giro di un quarto d’ora avevano già approvato
all’unanimità il potenziamento del credito swap a 750 milioni di dollari, a
condizione che le altre banche centrali fornissero aiuti equamente
proporzionati.

Nel tardo pomeriggio giunsero da Washington voci incoraggianti in


merito al prestito della Export-Import Bank: entro mezzanotte, forse, si
sarebbe avuta la conferma definitiva. Dunque il miliardo di dollari di crediti
statunitensi era praticamente in pentola. Ora bisognava lanciare la sfida al
«Continente». In quel momento era notte in Europa, quindi non c’era
nessuno da sfidare: l’ora zero sarebbe scoccata all’apertura delle borse
europee, e di lí a poche ore avrebbe avuto inizio la fase piú critica per il
futuro della sterlina. Poco dopo le diciassette Hayes andò alla Grand
Central Station e prese il solito treno dei pendolari che l’avrebbe riportato a
New Canaan, nel Connecticut, non senza aver dato disposizioni affinché
una macchina della banca venisse a prelevarlo a casa alle quattro del
mattino successivo. In seguito Hayes avrebbe detto di rimpiangere quella
piccola resa al solito tran tran in un momento tanto drammatico. «Non ero
granché convinto di tornare a casa, – avrebbe detto. – Col senno di poi,
sarebbe stato meglio restare. Non tanto per motivi pratici – avrei potuto
rendermi altrettanto utile da casa, tant’è che passai buona parte di quella
sera al telefono con Charlie Coombs, che invece era rimasto in ufficio – ma
solo perché certi momenti non capitano spesso nella vita di un banchiere. In
fin dei conti sono un tipo abitudinario, almeno credo. E poi mi faccio regola
di mantenere il giusto equilibrio tra vita privata e vita professionale».
Anche se Hayes non l’ha detto chiaramente, forse c’era un ulteriore motivo:
per i presidenti e i governatori delle banche centrali vige la consuetudine di
non dormire sul luogo di lavoro. Se mai fosse corsa voce che un tipo
metodico come Hayes andava contro la tradizione in un momento del
genere, molti ci avrebbero visto un chiaro indizio di panico: proprio come
in un rialzo dei tassi britannici annunciato di lunedí.

Nel frattempo, Coombs si preparava a trascorrere la seconda notte in


Liberty Street: la sera precedente era tornato a casa perché il peggio
sembrava essere passato, ma quella sera si trattenne in ufficio oltre l’orario
normale. Lo stesso fece Thomas Roche, che mancava da casa dal weekend.
Verso mezzanotte, come promesso, Coombs ricevette la conferma del
credito da 250 milioni da parte della Export-Import Bank. Tutto era pronto,
dunque, per la battaglia del mattino. Coombs si sistemò per l’ennesima
volta in una scialba stanzetta al decimo piano, e dopo un’ultima
ricapitolazione degli argomenti con cui sperava di persuadere i banchieri del
«Continente», puntò la radiosveglia alle 3.30 e se ne andò a dormire. Un
uomo della Federal Reserve con un penchant letterario e un forte
temperamento romantico avrebbe in seguito visto un’analogia tra
l’atmosfera che regnava quella notte in Liberty Street e la scena dell’Enrico
V di Shakespeare ambientata nell’accampamento inglese alla vigilia della
battaglia di Agincourt: il famoso monologo in cui il re spiega con fiorita
eloquenza ai suoi compagni che la partecipazione al combattimento renderà
nobile anche il piú umile dei soldati, mentre i gentiluomini che in quel
momento dormono tranquilli nei loro letti malediranno sé stessi per non
aver imbracciato le armi. Coombs, da uomo pratico qual era, non aveva una
visione cosí altisonante: ma quella notte, mentre sonnecchiava inquieto in
attesa che il mattino rischiarasse l’Europa, si sarà certamente reso conto di
essere coinvolto in una serie di eventi mai verificatisi prima di allora nella
storia delle banche centrali.

2.

La sera del 24 novembre 1964, dunque, Hayes era arrivato nella sua casa
di New Canaan, nel Connecticut, intorno alle 18.30, avendo viaggiato come
da inesorabile abitudine sul treno in partenza dalla Grand Central Station
alle 17.09. All’epoca Hayes aveva cinquantaquattro anni: era alto, snello,
gentile, con un’aria professorale e una fama di persona imperturbabile; il
suo sguardo acuto era contornato da un paio da occhiali con la montatura
tonda, come occhi di civetta. Ripensandoci in seguito, egli stesso ha
riconosciuto non senza ironia che la flemma metodica dei suoi gesti, in un
momento del genere, era probabilmente servita a confermare in maniera
definitiva e spettacolare la sua fama di uomo impassibile. Varcata la soglia
di casa, un villino del 1840 un tempo adibito a dépendance dei custodi di
una proprietà, che gli Hayes avevano acquistato e ristrutturato una dozzina
di anni prima, il presidente della Fed era stato come al solito accolto da sua
moglie, una graziosa e vivace signora di origini angloitaliane di nome
Vilma (anche se tutti la chiamano Bebba). Mrs Hayes è figlia di Thomas
Chalmers, il compianto baritono della Metropolitan Opera House; si
interessa pochissimo di finanza, ma ama molto viaggiare. Poiché in quella
stagione era già buio, Hayes decise di rinunciare a una delle sue attività
distensive preferite: salire in cima a una collinetta erbosa poco lontano da
casa e godersi per un po’ la vista del canale e dell’isola di Long Island.
D’altronde non aveva nessuna voglia di rilassarsi: sentendosi al contrario
piuttosto teso, decise che tanto valeva restare teso per tutta la notte, visto
che l’auto della banca avrebbe bussato alla sua porta nelle primissime ore
del giorno successivo.
Durante la cena, Hayes e sua moglie parlarono dell’imminente visita del
loro figlio Tom, laureando alla Harvard University, che sarebbe presto
rientrato a casa per la festività del Ringraziamento. Alla fine del pasto
Hayes si alzò da tavola e si accomodò in poltrona per leggere. Negli
ambienti bancari il presidente ha fama di erudito e intellettuale, cosa che in
effetti è, se lo si paragona alla maggior parte dei suoi colleghi. Ciò
nonostante, le sue letture non professionali sono meno regolari e varie di
quelle della moglie. Hayes legge in maniera sporadica, capricciosa e
intensiva: tutto su Napoleone, per esempio, poi un periodo di astinenza
seguito, chissà, da un’indigestione di saggi sulla Guerra civile americana. In
quel preciso momento le sue letture si concentravano sull’isola di Corfú,
dove lui e la moglie intendevano trascorrere un periodo di vacanza. Ma
prima di potersi immergere nelle descrizioni dell’isola greca, Hayes fu
chiamato al telefono. Era la banca. C’erano stati dei nuovi sviluppi, e
Coombs riteneva che il presidente dovesse esserne messo al corrente.
In breve: le banche statali – o centrali, come vengono piú comunemente
dette – delle principali nazioni non comuniste avrebbero intrapreso il piú
presto possibile un’energica manovra di salvataggio della sterlina, della
quale la Fed sarebbe stata non solo sostenitrice, bensí iniziatrice, di comune
accordo con le altre istituzioni finanziarie. La manovra sarebbe cominciata
subito dopo l’apertura delle principali borse del Vecchio continente, ovvero
tra le quattro e le cinque del mattino, ora di New York. La Gran Bretagna
era sull’orlo della bancarotta per una serie di ragioni concomitanti: un
enorme deficit dei conti esteri che durava da parecchi mesi e aveva
impoverito le riserve di oro e dollari della Bank of England; un’ondata di
speculazioni e vendite a copertura del rischio sui mercati monetari
internazionali, scatenate dal timore che il neoeletto governo laburista
decidesse (per amore o per forza) di rimediare alla situazione abbassando la
parità della sterlina al di sotto dei 2,80 dollari; il sempre piú grave
prosciugamento delle riserve della banca centrale britannica, che perdeva
milioni di dollari al giorno nel tentativo di mantenere la sterlina al di sopra
dei 2,78 dollari come le imponevano i trattati internazionali. In quel
momento, le riserve della Bank of England ammontavano a circa 2 milioni
di dollari: il punto piú basso in un lungo periodo.
Le ultime speranze di salvezza erano riposte nella disponibilità delle
nazioni piú ricche del pianeta a concedere alla Gran Bretagna, nel giro di
poche ore – prima che fosse troppo tardi – una quantità inaudita di crediti a
breve termine denominati in dollari. Grazie a quei crediti, la Bank of
England sarebbe probabilmente riuscita a far incetta di sterline con rapidità
sufficiente a neutralizzare, contenere e infine respingere l’attacco
speculativo, dando respiro alla propria economia e consentendole di
riequilibrare i conti. Sull’ammontare complessivo dei crediti necessari per
portare a termine l’operazione non vi erano notizie certe; tuttavia nelle ore
precedenti le autorità monetarie degli Stati Uniti e della Gran Bretagna
avevano calcolato che, nella migliore delle ipotesi, ci sarebbero voluti
almeno 2 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, tramite la Fed di New York e la
Export-Import Bank di proprietà del Tesoro americano, avevano messo a
disposizione un miliardo: ora bisognava persuadere le banche centrali «del
Continente» a dare manforte, offrendo un altro miliardo e piú di dollari.
La situazione non aveva precedenti nella storia finanziaria europea.
Pochi mesi prima, nel settembre del 1964, le grandi banche centrali avevano
contribuito a un credito di emergenza per mezzo miliardo di dollari – un
vero e proprio record, all’epoca – sempre a beneficio della Bank of
England, già allora costretta a operare in difesa della sterlina. Quel mezzo
miliardo era tuttora in circolazione, ma nel frattempo la sterlina si era
trovata a navigare in acque assai piú tempestose, e dunque il Continente era
chiamato a partecipare al salvataggio con una somma piú che doppia – se
non addirittura quintupla. Ovviamente tutto questo avrebbe messo a dura
prova lo spirito di cooperazione internazionale, e forse la qualità stessa dei
soccorsi prestati.
Con la mente occupata da simili pensieri, è comprensibile che Hayes
avesse difficoltà a concentrarsi nella lettura del suo libro su Corfú. Per
giunta, la consapevolezza che l’auto della banca sarebbe venuta a prenderlo
alle quattro del mattino gli consigliava di andare a dormire presto. Mentre si
accingeva a farlo, Mrs Hayes gli disse di sentirsi piú invidiosa che
dispiaciuta per l’imminente alzataccia: era ovvio che il presidente non
vedeva l’ora di cimentarsi nell’impresa, qualunque fosse, che lo attendeva a
quell’ora antelucana.

Frattanto, in Liberty Street, Charlie Coombs dormiva sonni inquieti: la


radiosveglia suonò infine alle 3.30, ora di New York – cioè le 8.30 di
Londra e le 9.30 nella parte continentale dell’Europa. Le frequenti crisi che
di recente avevano colpito ora questa, ora quella moneta lo avevano a tal
punto abituato alle differenze di fusi orari che certe volte Coombs chiamava
«ora di pranzo» le otto di New York, e «metà pomeriggio» le nove. E
quindi, alzandosi, pensò che era «mattino» anche se le stelle splendevano
ancora sul cielo di Liberty Street. Coombs si vestí, scese nel suo ufficio al
nono piano e consumò una leggera colazione preparata dal personale di
cucina della Fed, che prestava regolare servizio anche nelle ore notturne;
dopodiché stabilí i contatti telefonici con i dirigenti delle altre banche
centrali. Tutte le chiamate furono inoltrate da un unico operatore, quello
cioè che siede al centralino della Fed fuori dall’orario d’ufficio; tutte
avrebbero avuto diritto alla speciale priorità accordata alle comunicazioni
dei dirigenti della Federal Reserve, ma in quell’occasione non ce ne fu
bisogno: alle 4.15, le linee intercontinentali erano quasi del tutto libere.
Scopo di quelle conversazioni era porre le basi per il lavoro da svolgere
in seguito. Le prime notizie giunte per via telefonica dalla Bank of England
indicavano che la situazione non era cambiata rispetto al giorno prima:
l’attacco speculativo ai danni della sterlina proseguiva imperterrito, e la
banca centrale londinese continuava a intaccare le sue riserve per
sostenerne il prezzo a 2,7860 dollari. Coombs aveva buone ragioni per
credere che da lí a cinque ore, all’apertura del mercato dei cambi di New
York, altri operatori avrebbero messo sul mercato consistenti quantitativi di
sterline che la Bank of England sarebbe stata costretta a comprare,
spogliandosi di altro oro e altri dollari. Questa preoccupante eventualità fu
il primo argomento delle conversazioni telefoniche tra Coombs e le sue
controparti alla Deutsche Bundesbank di Francoforte, alla Banque de
France a Parigi, alla Banca d’Italia a Roma e alla banca centrale giapponese
a Tokyo (i cui responsabili erano già a casa perché in Estremo Oriente,
quattordici fusi orari piú a est, erano già passate le diciotto). Dopodiché,
venendo al nocciolo della questione, Coombs informò i rappresentanti delle
altre banche centrali che di lí a poco sarebbero stati invitati a partecipare a
un’operazione in soccorso della Bank of England che prevedeva
l’erogazione di un credito di dimensioni eccezionali. «Cercai di fargli
capire, senza parlare di cifre, che eravamo sull’orlo di una crisi di prima
grandezza, della cui gravità molti di loro non si erano ancora resi conto»,
racconta Coombs. Un dirigente della Bundesbank, che trovandosi al di fuori
dei centri nevralgici di Londra, Washington e New York non poteva avere
piena consapevolezza della crisi, dichiarò tuttavia che a Francoforte erano
già «nella giusta disposizione d’animo» per accogliere – forse reggere era
un verbo piú adatto? – l’enorme richiesta che gli sarebbe stata presentata,
anche se fino a un istante prima di quella conversazione avevano continuato
a sperare che l’attacco speculativo si esaurisse spontaneamente; in ogni
caso, seguitò il dirigente, non avevano la minima idea della cifra da erogare.
Appena chiusa la comunicazione con Coombs, tuttavia, il governatore della
Bundesbank convocò una seduta del suo consiglio di amministrazione che,
a quanto poi risultò, si sarebbe prolungata fino a sera.
Queste, però, erano ancora le fasi preliminari. Le richieste effettive, con
tanto di cifre, potevano essere trasmesse soltanto dal massimo responsabile
della banca centrale direttamente ai suoi pari grado. E mentre Coombs
faceva quelle telefonate preparatorie, il massimo responsabile della Federal
Reserve si trovava su una limousine in un punto imprecisato del percorso
tra New Canaan e Liberty Street, e la limousine della Federal Reserve, in
flagrante violazione dello stile à la James Bond di molte trattative ad alto
livello, non era dotata di telefono.

Alfred Hayes, l’uomo che tutti aspettavano, era presidente della Fed di
New York da poco piú di otto anni; con gran sorpresa sua e di molti altri,
era stato scelto per ricoprire quell’incarico non da una posizione di pari
dignità, né dalle file della stessa Federal Reserve, bensí dalle folte legioni
dei vicepresidenti delle banche commerciali di New York. E per quanto
all’epoca la sua nomina sembrasse poco ortodossa, a posteriori non si può
che considerarla provvidenziale. Ripercorrendo le esperienze giovanili e le
fasi iniziali della carriera di Hayes, si ha l’impressione che non siano servite
ad altro se non a metterlo in grado di affrontare una crisi monetaria di quel
livello, esattamente come accade per quei pittori o scrittori la cui vita
sembra preludere alla creazione di un unico capolavoro. Se nell’imminenza
della crisi la divina Provvidenza – o il suo reparto finanziario – avessero
ritenuto opportuno valutare i requisiti di Hayes, il profilo dell’ipotetico
cacciatore di teste – o del suo omologo celestiale – avrebbe potuto suonare
piú o meno cosí:

Nato a Ithaca, Stato di New York, il 4 luglio 1910; cresciuto perlopiú a New York.
Padre docente di Diritto costituzionale alla Cornell University, poi consulente
finanziario a Manhattan; la madre, ex insegnante, di orientamento politico progressista,
entusiasta sostenitrice del suffragio femminile, prestava servizio in un centro di
assistenza sociale. Entrambi i genitori appassionati di birdwatching. Atmosfera familiare
colta, antidogmatica, orientata al sociale. Hayes frequenta scuole private a New York e
nel Massachusetts, con risultati di prim’ordine. Si iscrive alla Harvard University (per
un solo anno), poi passa a Yale (per tre anni: si specializza in matematica, al terzo anno
diventa membro della Phi Beta Kappa, si dedica con scarsi risultati al canottaggio, si
laurea nel 1930 con il massimo dei voti). Tra il 1931 e il 1933 prosegue gli studi al New
College di Oxford, con prestigiosa borsa di studio istituita da Cecil John Rhodes;
diventa fervente anglofilo e lavora a una tesi intitolata Politica della riserva federale e
gold standard negli anni 1923-30, pur non avendo, all’epoca, alcuna intenzione di
cercare impiego alla Federal Reserve. Attualmente gradirebbe molto ritrovare quella tesi
nella speranza di rinvenirvi qualche folgorante illuminazione giovanile, ma il
documento è irreperibile. Nel 1933 entra nell’ambiente delle banche commerciali
newyorchesi e pone le basi di una carriera lenta ma costante (salario annuale nel 1938:
27 000 dollari). Nel 1942 ottiene incarico (scarsamente prestigioso) di vicesegretario
della New York Trust Company; dopo un breve periodo nell’esercito (marina), nel 1947
diventa vicepresidente aggiunto, quindi (due anni dopo) direttore dell’ufficio estero
della New York Trust, benché totalmente privo di esperienza internazionale. Impara
molto in fretta; lascia di stucco colleghi e superiori, e nel 1949 si guadagna fama di
indovino pronosticando con settimane d’anticipo l’esatto ammontare della svalutazione
della sterlina (da 4,03 a 2,80).
Nominato presidente della Federal Reserve Bank di New York nel 1956; la decisione
è accolta con pari stupore dal diretto interessato e dalla comunità bancaria newyorchese,
che non lo ha mai sentito nominare. Reagisce con calma, parte con la famiglia per due
mesi di vacanza in Europa. Al momento è opinione diffusa che i direttori della Fed siano
stati molto preveggenti, leggasi fortunati, nello scegliere come presidente un esperto di
valute estere proprio quando il dollaro dava segni di debolezza e la cooperazione
monetaria diventava cruciale. Molto amato dai responsabili delle banche centrali
europee, che lo chiamano Al (come Alfred, ma a volte anche All, come Tutto). Stipendio
attuale 75 000 dollari l’anno; al secondo posto dopo il presidente degli Stati Uniti nella
graduatoria dei dirigenti federali meglio pagati, sebbene la scala retributiva della Federal
Reserve sia in relazione competitiva non con i salari dei funzionari pubblici ma con
quelli del settore bancario. Alto, molto magro. Cerca di essere regolare negli
spostamenti da e verso il lavoro, protegge scrupolosamente la sua vita privata, che
considera sacrosanta; giudica «scandalosa» la consuetudine di fermarsi in ufficio fino a
tardi tutte le sere. Si lamenta che il figlio abbia una scarsa opinione del mondo degli
affari; attribuisce la cosa a una forma di «snobismo al contrario», ma resta comunque
imperturbabile.
Conclusione: Hayes è l’uomo giusto per rappresentare la banca centrale degli Stati
Uniti durante una crisi della sterlina.

Non c’è dubbio che la figura di Alfred Hayes evochi l’immagine di un


congegno perfettamente progettato e attrezzato per svolgere un compito
difficile; tuttavia egli non si esaurisce in questo, essendo dotato come ogni
comune mortale di una personalità sfaccettata e contraddittoria.
Nell’ambiente bancario, i termini piú frequentemente usati per descrivere
Hayes sono «erudito» e «intellettuale»: ciò nonostante egli preferisce
pensarsi abile uomo d’azione, e da questo punto di vista gli eventi del 25
novembre 1964 non sembrano dargli torto. Ma sebbene per certi versi
Hayes sia banchiere fino al midollo – una persona che, come scriveva H. G.
Wells, «crede nel denaro come un terrier crede nei topi», senza la minima
ombra di interesse filosofico verso di esso – egli mostra nondimeno una
qualità assolutamente atipica per la categoria: uno spiccato interesse
filosofico verso qualsiasi altro aspetto della realtà. E benché i conoscenti lo
definiscano a volte un tipo noioso, gli amici piú cari ne lodano la non
comune capacità di godersi la vita e la serenità interiore, doti che sembrano
renderlo immune dalle tensioni e distrazioni che frammentano la vita di
tanti suoi contemporanei. Certo è che la serenità interiore di Hayes
dev’essere stata messa a dura prova durante il tragitto in auto verso Liberty
Street, in quella fatidica giornata di novembre. La prima cosa che fece,
appena arrivato nel suo ufficio – erano le 5.30 circa – fu schiacciare il tasto
dell’interfono che lo metteva in comunicazione con Coombs per avere da
lui gli ultimi aggiornamenti. Come previsto, la grave emorragia di dollari
dalle casse della Bank of England non si era interrotta. Ma c’era di peggio:
Coombs gli disse che i suoi contatti nel mondo delle banche commerciali
(responsabili degli uffici esteri di colossi come la Chase Manhattan e la
First National City), anch’essi già in ufficio di prima mattina, sostenevano
che nel corso della notte si fosse accumulato un gran mucchio di ordini,
sufficienti a inondare di sterline anche il mercato di New York, non appena
avesse aperto. La Bank of England, già quasi sommersa, rischiava dunque
di essere travolta di lí a quattro ore da un nuovo afflusso di ordini di vendita
provenienti da New York. Bisognava agire in fretta: Hayes e Coombs
stabilirono che l’imminente arrivo del pacchetto di crediti internazionali alla
Gran Bretagna dovesse essere annunciato il piú presto possibile dopo
l’apertura di New York, magari intorno alle dieci. Per facilitare le
comunicazioni, Hayes decise quindi di abbandonare il suo ufficio –
un’ampia stanza con le pareti rivestite di boiserie e un camino attorniato da
comode poltrone – e utilizzare come postazione di comando la stanza di
Coombs, piú piccola e austera, ma decisamente meglio organizzata. Una
volta insediatosi, Hayes afferrò uno dei tre telefoni e chiese al centralinista
di chiamare Lord Cromer alla Bank of England. Le due figure chiave
dell’operazione di soccorso alla sterlina riepilogarono al telefono le fasi
essenziali del progetto, controllarono l’ammontare delle richieste che
intendevano presentare a ciascuna banca centrale e stabilirono chi avrebbe
dovuto chiamare chi.
Secondo molti osservatori, Alfred Hayes e Lord Cromer sono una strana
coppia di banchieri. George Rowland Stanley Baring, terzo conte di
Cromer, è un aristocratico e un finanziere di nobilissima schiatta.
Discendente della famiglia di mercanti che aveva fondato la famosa banca
d’affari Baring Brothers, figlioccio di un monarca, Cromer aveva studiato a
Eton e al Trinity College, e dopo aver diretto per dodici anni la banca di
famiglia, era stato per due anni – dal 1959 al 1961 – delegato economico
della Gran Bretagna presso l’ambasciata britannica a Washington. Se a
Hayes erano occorsi anni di studio paziente per imparare a decifrare gli
arcani della finanza internazionale, in Lord Cromer quella stessa
conoscenza era ereditaria, istintiva, osmotica. E se Hayes, a dispetto della
notevole statura, poteva facilmente passare inosservato, la disinvoltura e
l’eleganza di Lord Cromer avrebbero fatto colpo ovunque. Laddove Hayes
tende a essere riservato con le conoscenze occasionali, Lord Cromer è
famoso per i modi cordiali: la sua amabilità ha conquistato e al tempo stesso
inspiegabilmente deluso molti suoi colleghi americani che, intimiditi dal
titolo nobiliare, si sono sentiti dire: «Chiamami pure Rowley». «Rowley è
un tipo sicuro di sé, molto deciso, – ha detto per l’appunto un banchiere
americano. – Non ha mai paura di intromettersi in un discorso, perché è
certo della ragionevolezza delle sue posizioni. Del resto, è proprio fatto
cosí: è una persona ragionevole. Capace di prendere in mano un telefono e
darsi da fare per risolvere una crisi». Lo stesso banchiere ha poi ammesso di
non aver mai sospettato, prima del 25 novembre del 1964, che Alfred Hayes
fosse altrettanto fornito di quella dote.
Vero è che alle sei in punto di quella mattina anche Hayes aveva preso in
mano un telefono, e proprio per chiamare Lord Cromer. Uno dopo l’altro,
anche i direttori delle principali banche centrali europee – Karl Blessing alla
Deutsche Bundesbank, Guido Carli alla Banca d’Italia, Jacques Brunet alla
Banque de France, Walter Schwegler alla Banca nazionale svizzera, Per
Åsbrink alla Riksbank svedese, e cosí via – vennero a sapere, talora con
grande sorpresa, della gravità della situazione, del prestito a breve termine
concesso dagli Stati Uniti e della necessità di attingere alle rispettive riserve
nazionali per aiutare la sterlina a superare la crisi. Alcuni di loro furono
informati da Hayes, altri da Lord Cromer: non da un conoscente o da un
estraneo di passaggio, ma da un loro pari, un altro membro del circolo
esoterico di Basilea. In quanto rappresentante dell’unico Paese che si era
già impegnato a erogare un credito assai sostanzioso, Hayes aveva assunto
quasi automaticamente il ruolo di comandante dell’intera operazione, ma si
premurò di spiegare a tutti gli interlocutori che in realtà la sua parte
consisteva nel mettere il peso della Federal Reserve sopra una richiesta che,
formalmente, proveniva dalla banca centrale britannica. «La sterlina è in
una posizione critica, e mi risulta che la Bank of England voglia chiederti di
metterle a disposizione una linea di credito da 250 milioni di dollari»,
annunciò Hayes, nel suo solito tono flemmatico, a un banchiere centrale
dopo l’altro. «Capirai certamente che la situazione richiede un’azione
unitaria e concorde». (Hayes e Coombs, come è ovvio, parlarono sempre in
inglese. Pur avendo recentemente rispolverato il suo francese con l’aiuto di
qualche lezione privata, e pur dovendo alla sua ottima memoria una parte
consistente dei suoi successi accademici a Yale, Hayes continuava a essere
negato per le lingue, e nelle conversazioni di lavoro si affidava unicamente
all’inglese). Quando lui e la sua controparte europea erano in rapporti di
amicizia, il tono della conversazione diventava un po’ meno formale e,
come usa nel gergo dei banchieri, il milione di dollari diventava l’unità di
misura standard: «Potresti arrivare, diciamo, a 150?» Ma
indipendentemente dal grado di formalità, avrebbe poi raccontato lo stesso
Hayes, la prima reazione dell’interlocutore era sempre guardinga, e non di
rado incredula. «Davvero sono messi cosí male, Al? Eravamo ancora
convinti che la sterlina ce l’avrebbe fatta da sola»: queste le frasi piú
ricorrenti. E dopo che Hayes aveva ribadito che sí, in effetti la situazione
era pessima e la sterlina non sarebbe mai riuscita a cavarsi d’impaccio
senza un aiuto, la risposta consueta era: «Vediamo cosa si può fare e ti
richiamiamo». Alcuni dei colleghi europei di Hayes ricordano di essere stati
colpiti, durante quel primo contatto telefonico, non tanto dal cosa ma dal
quando: rendendosi conto che a New York era ancora notte, e conoscendo
l’avversione di Hayes per il lavoro al di fuori degli orari d’ufficio canonici,
si erano resi conto della gravità della situazione non appena avevano sentito
la sua voce. Una volta rotto il ghiaccio, poi, Hayes passava la
comunicazione a Coombs per la messa a punto dei dettagli.
Il primo giro di telefonate diede a Hayes, a Lord Cromer e ai loro
collaboratori ragionevoli motivi di ottimismo. Nessuna delle banche centrali
interpellate aveva rifiutato di netto la proposta: neppure la Banque de
France, benché Parigi avesse già cominciato a prendere le distanze dalla
Gran Bretagna e dagli Stati Uniti non soltanto in fatto di cooperazione
monetaria. La cosa sorprendente, poi, era che svariati governatori avevano
deciso di partecipare al prestito con quote piú generose di quelle richieste.
Spinti da ciò, Hayes e Lord Cromer decisero di puntare piú in alto.
L’obiettivo di raccolta originario era fissato a 2,5 miliardi di dollari, ma
forse, ripensandoci, c’era la possibilità di arrivare a 3 miliardi.
«Scegliemmo di alzare un pochino la posta qua e là, – racconta Hayes. –
Non c’era modo di sapere esattamente qual era la somma minima necessaria
a far girare il vento. Sapevamo che molto sarebbe dipeso dall’effetto
psicologico del nostro annuncio, sempre ammesso che riuscissimo davvero
a farlo, quell’annuncio. Tre miliardi ci sembravano una bella cifra tonda».
Ma c’erano delle difficoltà: la piú grave, come appariva chiaro dalle
chiamate di conferma delle varie banche, era riuscire a fare tutto abbastanza
in fretta. Hayes e Coombs dovettero constatare che la cosa piú difficile da
spiegare ai loro colleghi era che ogni minuto di attesa significava altre
perdite milionarie per le già depauperate riserve britanniche, e che se i
crediti avessero seguito i normali iter burocratici sarebbero arrivati troppo
tardi per impedire la svalutazione della sterlina. Alcune banche centrali
erano tenute per legge a consultare i rispettivi governi prima di prendere
una decisione, ma anche quelle che non erano obbligate sostenevano di
volerlo fare comunque, per pura cortesia: questo richiese molto tempo,
soprattutto perché, non sapendo che c’era bisogno di lui per approvare alla
svelta un enorme e urgentissimo prestito la cui necessità era attestata
soltanto dalle parole di Lord Cromer e di Hayes, piú di un ministro delle
Finanze risultò temporaneamente irreperibile (uno, a quanto pare, era
impegnato in un dibattito in parlamento). Per di piú, alcuni ministri delle
Finanze che erano effettivamente a portata di mano si dimostrarono
riluttanti a prendere una decisione cosí a bruciapelo. Quando si tratta di
denaro, i governi sono piú lenti e prudenti delle banche centrali. Alcuni
ministri fecero sapere che se la Bank of England avesse presentato
opportuna documentazione contabile, piú una formale richiesta scritta, il
prestito di emergenza sarebbe senza dubbio stato erogato. Come se non
bastasse, persino le banche centrali mostrarono in alcuni casi un esasperante
attaccamento alle formalità. «Ma no, non è possibile! – pare che abbia
esclamato il responsabile dell’ufficio estero di una certa banca. – Il
consiglio di amministrazione si riunisce domani: ne parliamo in consiglio e
vi facciamo sapere». La risposta di Coombs, che si trovava in quel
momento all’altro capo del telefono, non è nota nella sostanza, ma a quanto
assicurano alcuni testimoni fu insolitamente veemente nella forma. Persino
la celebre imperturbabilità di Hayes fu messa a dura prova un paio di volte:
chi era presente racconta che il tono della sua voce restò calmo come al
solito, ma il volume si alzò ben al di sopra del normale.
I problemi incontrati dalle banche centrali europee sono ben
esemplificati dalla situazione che venne a crearsi presso la piú ricca e
potente di loro, la Deutsche Bundesbank. Il suo consiglio di
amministrazione si era già riunito in sessione straordinaria subito dopo la
chiamata di Coombs; la seconda telefonata da New York – questa volta era
Hayes che desiderava conferire con il presidente Blessing – diede una prima
indicazione della quantità di denaro che la Bundesbank avrebbe dovuto
mettere a disposizione. Le cifre esatte chieste a ogni banca centrale non
sono mai state rese note, ma sulla base di quanto è stato in effetti
comunicato si può presumere che la somma richiesta alla Bundesbank si
aggirasse intorno al mezzo miliardo di dollari: il contributo piú sostanzioso
del contingente europeo, e di certo l’importo piú cospicuo che una banca
centrale – eccetto la Fed – sia mai stata invitata a provvedere nel giro di
poche ore. Un istante dopo che Hayes aveva trasmesso quella sconvolgente
notizia, Blessing ricevette un’altra chiamata: era Lord Cromer, che da
Londra confermava quanto già detto da Hayes sulla gravità della crisi in
corso e ribadiva la richiesta. Benché un po’ malfermi sulle gambe, i
dirigenti della Bundesbank riconobbero in via di principio che la cosa
andava fatta, e fu proprio lí che cominciarono i problemi. Blessing e i suoi
collaboratori decisero che bisognava attenersi alle procedure. Prima di fare
qualsiasi cosa, perciò, la Germania doveva consultarsi con gli altri membri
del Mercato comune europeo e della Banca dei regolamenti internazionali:
l’uomo chiave a cui rivolgersi era il presidente della Bri, il dottor Marius W.
Holtrop, che in veste di governatore della banca centrale olandese era altresí
chiamato a contribuire al credito. In tutta fretta si stabilí un contatto
telefonico tra Francoforte e Amsterdam. Ma il dottor Holtrop, si scoprí, non
era nella capitale: quel mattino stesso era salito su un treno diretto all’Aia
per incontrarsi con il ministro delle Finanze olandese e discutere di alcune
questioni. Era impensabile che la banca centrale olandese potesse assumere
un impegno cosí importante senza che il suo governatore ne fosse
informato; e anche la banca centrale del Belgio, Paese la cui politica
monetaria è indissolubilmente legata a quella olandese, esitava a prendere
una decisione in attesa che l’Olanda pronunciasse il suo verdetto. E mentre
altri milioni di dollari prendevano il volo dai forzieri della Bank of England
e l’ordine monetario mondiale era sempre piú in pericolo, l’intera
operazione di soccorso rimase in sospeso per un’ora o forse piú, in attesa
che il dottor Holtrop, che in quel momento stava solcando le pianure
olandesi a bordo di un treno o magari era già all’Aia bloccato in un ingorgo
del traffico, potesse essere rintracciato.
A New York, intanto, erano tutti sulle spine, ma nelle prime ore della
mattina Washington intervenne per dare man forte a Hayes e Coombs. Il
giorno precedente, durante la fase di progettazione del salvataggio, le
principali autorità monetarie del governo – Martin al Consiglio della riserva
federale, Dillon e Roosa al Tesoro – avevano stabilito che dovesse essere
proprio la Fed di New York, in quanto braccio operativo tanto del Sistema
della riserva federale quanto del Tesoro statunitense nelle transazioni
monetarie internazionali, a fungere da quartier generale dell’operazione.
Quindi i membri della squadra di Washington erano andati a dormire a casa
loro e si erano ripresentati in ufficio alla solita ora. Ma non appena Hayes li
informò delle difficoltà che stava incontrando, Martin, Dillon e Roosa
decisero di fare un giro di telefonate per comunicare ai loro interlocutori
europei che l’America era molto preoccupata per la situazione che si stava
creando. Ma non c’era telefonata che potesse fermare gli orologi o trovare
l’irreperibile dottor Holtrop: alla fine Hayes e Coombs compresero che non
sarebbero mai riusciti ad annunciare al mondo entro le dieci del mattino, ora
di New York, che il pacchetto di crediti era stato concesso ed era già
disponibile. E c’erano anche altri ostacoli che minacciavano di far crollare
le speranze. All’apertura dei mercati di New York, l’inquietudine che per
tutta la notte aveva dilagato nel mondo finanziario si manifestò nella sua
piena gravità. L’ufficio delle transazioni valutarie, al sesto piano di Liberty
Street, comunicò che l’assalto alla sterlina era stato violento e terribile
come ci si aspettava, e che sul mercato valutario di New York aleggiava
qualcosa di molto simile al panico. Altre notizie allarmanti giunsero
dall’ufficio titoli di Stato: le obbligazioni del governo federale erano sotto
pressione come non accadeva da anni, segno di una preoccupante perdita di
fiducia nel dollaro. Per Hayes e Coombs, quella notizia fu il cupo presagio
di quanto sarebbe potuto accadere se la loro impresa non fosse andata in
porto: un forte deprezzamento della sterlina nei confronti del dollaro
avrebbe potuto innescare una specie di reazione a catena, obbligando il
dollaro a svalutarsi nei confronti dell’oro e provocando un caos di
dimensioni planetarie. E se mai, in qualche loro fantasticheria, i due uomini
della Fed si erano immaginati nel ruolo di buoni samaritani dei mercati
monetari mondiali, una notizia del genere era proprio quel che ci voleva per
riportarli alla realtà. A quel punto si venne a sapere che le numerose voci
incontrollate che circolavano negli ambienti di Wall Street sembravano
convergere su un’unica ipotesi, tristemente credibile proprio in virtú della
sua nitidezza. Il governo di Londra, si mormorava, avrebbe annunciato una
svalutazione della sterlina intorno a mezzogiorno, ora di New York. Notizia
certamente infondata quanto meno nel dettaglio relativo all’ora, poiché era
ovvio che Londra non avrebbe mai svalutato mentre si stava trattando la
concessione di una linea di credito. Combattuto tra il desiderio di mettere a
tacere una diceria potenzialmente distruttiva e la necessità di mantenere il
segreto sulla trattativa in corso, Hayes optò per una soluzione di
compromesso. Chiese a uno dei suoi collaboratori di mettersi in contatto
con alcuni importanti banchieri e operatori di Wall Street, comunicando
loro nel modo piú categorico possibile che le voci sulla svalutazione della
sterlina erano infondate. E quando banchieri e operatori domandarono al
collaboratore di Hayes se poteva fornire qualche dettaglio in piú, questi,
non avendo altra scelta, replicò semplicemente: «No, non posso».
Una parola non sostenuta da argomentazioni era già qualcosa, ma non
bastava: sui mercati dei cambi e dei titoli di Stato, il sollievo fu solo
passeggero. In certi momenti di quella mattina, raccontano Hayes e
Coombs, tra una telefonata e l’altra, gli era capitato di alzare gli occhi e
scambiarsi lo stesso muto pensiero: non faremo mai in tempo. Ma nella
migliore tradizione del melodramma – che a volte sembra sopravvivere in
natura, pur essendo defunto in quanto forma d’arte – proprio quando
l’orizzonte sembrava piú cupo cominciarono ad arrivare le buone notizie. Il
dottor Holtrop era stato rintracciato in un ristorante dell’Aia, mentre
pranzava con il ministro delle Finanze olandese Witteveen; pareva inoltre
che Holtrop avesse appoggiato l’operazione di soccorso, e quanto alla
necessità di consultare il governo non c’era alcun problema, perché
l’esponente di governo competente in materia era già seduto a tavola con
lui. Il principale ostacolo era dunque superato, e a quel punto le difficoltà si
ridussero a semplici seccature, come la necessità di scusarsi di continuo con
i giapponesi per averli tirati giú dal letto, visto che ormai a Tokyo era
mezzanotte passata. Il vento era girato. Prima che a New York scoccasse il
mezzogiorno, Hayes, Coombs e Lord Cromer sapevano che la proposta di
credito era stata accolta in linea di principio da dieci importanti banche
centrali – Germania Ovest, Italia, Francia, Olanda, Belgio, Svizzera,
Canada, Svezia, Austria e Giappone – piú la Banca dei regolamenti
internazionali.
Ora non restava che aspettare la conclusione delle lunghe e tormentose
procedure formali necessarie a trasformare l’adesione di principio in un
concreto e legittimo provvedimento. La Bundesbank, grande sacerdotessa
dei regolamenti, non poteva muovere un dito prima di avere il placet del
suo consiglio di amministrazione, i cui membri erano sparsi nei vari
avamposti provinciali del territorio tedesco. I due vicedirettori della banca
si divisero il compito di chiamare gli assenti e convincerli ad approvare la
delibera – compito reso piú delicato dal fatto che gli si chiedeva di ratificare
qualcosa che in realtà l’ufficio centrale stava già concretamente facendo. E
mentre in Europa era metà pomeriggio e i due vice si stavano cimentando in
quell’esercizio di acrobazia verbale, arrivò a Francoforte una chiamata da
Londra. Era Lord Cromer, che con i toni piú esasperati che la sua situazione
consentiva di usare, comunicava che le riserve britanniche si stavano
consumando con spaventosa rapidità e la sterlina non sarebbe sopravvissuta
un altro giorno. Con tutto il rispetto per le formalità, era una situazione da
«ora o mai piú». (L’ammontare delle riserve andate perse quel giorno non è
mai stato comunicato. In seguito, l’«Economist» ipotizzò che fosse una
cifra nell’ordine dei 500 milioni di dollari, circa un quarto di quanto ancora
restava nei forzieri della Bank of England). Dopo la chiamata di Lord
Cromer, i vicedirettori della Bundesbank sacrificarono un po’ del loro tatto
in favore della concisione: alla fine ottennero l’approvazione unanime dei
consiglieri, e poco dopo le diciassette, ora di Francoforte, poterono
finalmente annunciare a Lord Cromer e a Hayes che la Bundesbank
contribuiva al credito con il mezzo miliardo di dollari che le era stato
richiesto.
Nel frattempo le altre banche centrali che non l’avevano ancora fatto
stavano formalizzando la loro partecipazione al progetto. Canada e Italia
offrirono 200 milioni di dollari a testa e ne furono ben felici, avendo
beneficiato l’uno nel 1962 e l’altra nel 1964 di analoghe operazioni di
salvataggio, benché di minore entità. Francia, Belgio e Olanda non
divulgarono mai le cifre ufficiali, ma stando al rapporto successivamente
pubblicato dal «Times» di Londra, la loro quota sarebbe stata di 200 milioni
a testa. È noto che la Svizzera contribuí con 160 milioni di dollari, e la
Svezia con 100. L’Austria, il Giappone e la Banca dei regolamenti
internazionali misero quanto mancava a raggiungere la cifra tonda di 3
miliardi, ma l’ammontare preciso dei rispettivi apporti è tuttora sconosciuto.
Intorno all’ora di pranzo di New York, il traguardo era praticamente
tagliato: non restava che l’ultima parte del compito, ovvero far sí che la
missione appena compiuta avesse un impatto sui mercati il piú rapido e
decisivo possibile.
L’impresa portò in primo piano la figura di un altro dirigente della
Federal Reserve Bank, il vicepresidente responsabile della comunicazione
Thomas Olaf Waage. Waage aveva già trascorso buona parte della mattina
nell’ufficio di Coombs, senza mai allontanarsi dal telefono e in costante
collegamento con Washington. Nato e cresciuto a New York, figlio di un
pescatore e pilota di rimorchiatori di origine norvegese, Waage è uomo di
vasti e autentici interessi al di fuori dell’ambito finanziario – l’opera lirica,
Shakespeare, Trollope, l’amore per il mare trasmessogli dai suoi antenati –
ai quali si aggiunge una passione incontenibile per la narrazione non solo
dei fatti ma anche degli aspetti drammatici, delle incertezze e delle
emozioni che – malgrado lo scetticismo e l’indifferenza del grande pubblico
– caratterizzano il lavoro delle banche centrali. In breve, un banchiere
inguaribilmente romantico. In quanto tale, Waage affrontò con entusiasmo il
compito di annunciare al mondo, nella maniera piú enfatica possibile,
l’operazione di salvataggio della sterlina. Mentre Hayes e Coombs
cercavano di sciogliere gli ultimi nodi, Waage coordinava i tempi
dell’operazione con le controparti: il Consiglio della riserva federale e il
ministero del Tesoro a Washington, che avrebbero firmato il comunicato
ufficiale americano, e la Bank of England che, come Hayes e Lord Cromer
avevano stabilito, avrebbe diffuso contemporaneamente un proprio
comunicato. «Quando si cominciò ad avere la sensazione che ci fosse
qualcosa da annunciare, concordammo di farlo alle quattordici, ora di New
York, – ricorda Waage. – Troppo tardi per i mercati di Londra e del resto
d’Europa, ma non per quello di New York, che avrebbe ancora avuto tutto il
pomeriggio davanti a sé; e se la tendenza della sterlina si fosse invertita
prima della chiusura delle diciassette, c’erano buone possibilità che la
ripresa continuasse anche il giorno successivo a Londra e in Europa, mentre
i mercati americani sarebbero rimasti chiusi per il Ringraziamento. Quanto
all’ammontare del pacchetto di crediti, era ancora fermo a 3 miliardi di
dollari. Ricordo però che all’ultimo momento venne fuori un problema
imbarazzante. A cosa praticamente fatta, Charlie Coombs e io facemmo i
conti delle cifre messe a disposizione, tanto per essere sicuri: il totale faceva
2 miliardi e 850 milioni. A quanto sembrava ci eravamo persi 150 milioni
di dollari. Proprio cosí: avevamo sbagliato i calcoli. Nessun problema,
quindi».
Il pacchetto fu messo insieme in tempo per la nuova scadenza, e i
comunicati ufficiali della Federal Reserve, del Tesoro americano e della
Bank of England furono doverosamente trasmessi in simultanea, alle
quattordici di New York e alle diciannove di Londra. Grazie all’apporto di
Waage la versione americana del dispaccio, benché non all’altezza del
finale di un’opera wagneriana, era comunque piena di un pathos
decisamente non comune in ambito bancario: il testo accennava con
sommessa enfasi all’entità senza precedenti della cifra, sottolineando che le
banche centrali «si erano mosse con rapidità, organizzando un massiccio
contrattacco alle vendite speculative della sterlina». Il comunicato di
Londra aveva una diversa eleganza: era la perfetta essenza dello stile che i
britannici riescono sempre a sfoderare nei momenti peggiori di una crisi.
Diceva semplicemente: «In base ad accordi stipulati dalla Bank of England,
3000 milioni di dollari saranno resi disponibili per azioni di sostegno alla
sterlina».

La reazione del mercato valutario di New York fu tanto rapida e nervosa


quanto si sperava, segno che con tutta probabilità la segretezza
dell’operazione era stata salvaguardata. Gli speculatori a danno della
sterlina decisero all’istante, e senza esitazioni, che il loro gioco era finito.
Immediatamente dopo l’annuncio, la Federal Reserve Bank fece un’offerta
di acquisto per la sterlina a 2,7868 – leggermente al di sopra del livello a
cui la Bank of England l’aveva mantenuta a forza dall’inizio della giornata.
Ma gli speculatori avevano una tale fretta di acquistare sterline e uscire
dalle posizioni speculative, che la Fed ne trovò ben poche in vendita a quel
prezzo. Verso le 14.15 si verificò uno strano e confortante fenomeno; per
alcuni minuti il mercato valutario di New York sembrò totalmente
sprovvisto di sterline, a qualsiasi prezzo. Il flusso delle offerte riprese poco
dopo, ma a un livello piú alto, e i quantitativi furono divorati all’istante: il
prezzo della sterlina continuò a salire per tutto il pomeriggio, chiudendo poi
appena al di sopra dei 2,79 dollari.
Un trionfo, dunque! La sterlina era fuori pericolo: l’operazione era stata
un successo. Da ogni parte piovevano lodi, e persino l’autorevole
«Economist» dichiarò in breve: «Quando le altre reti di salvataggio si
spezzano, le banche centrali sembrano [avere] la straordinaria capacità di
ottenere risultati istantanei. E benché il loro intervento, sempre orientato al
sostegno a breve termine dello status quo, non sia il piú desiderabile in
assoluto, è innegabilmente l’unico che funzioni».
Ora che la sterlina era tornata a quote ragionevolmente alte, la Federal
Reserve Bank chiuse i battenti per la festa del Ringraziamento, e tutti i
dipendenti se ne andarono a casa. Coombs rammenta di aver bevuto un
martini con insolita fretta. Hayes tornò a New Canaan e vi trovò Tom,
appena giunto dalla Harvard University. Alle domande del figlio e della
moglie, che si erano accorti della sua insolita agitazione, Hayes rispose
sostenendo di aver appena vissuto la giornata piú soddisfacente di tutta la
sua vita lavorativa. Invitato a fornire qualche particolare in piú, il presidente
fece un resoconto conciso e semplificato dell’operazione di salvataggio,
tenendo ben presente che il suo pubblico era composto da una moglie che
non si interessava di finanza e da un figlio che aveva una pessima opinione
del mondo degli affari. La reazione che ottenne da quella piccola platea
avrebbe scaldato il cuore di un Waage o di un qualsiasi altro divulgatore di
vicissitudini bancarie a un uditorio profano e insensibile. «All’inizio
capivamo poco, – ammise poi Mrs Hayes, – ma alla fine pendevamo dalle
tue labbra».
Anche Waage, rientrando quella sera alla sua casa di Douglaston,
informò sua moglie dell’accaduto, ma lo fece nel suo modo caratteristico:
«Oggi era il giorno di San Crispino, – esclamò mentre varcava la porta, – e
io ho combattuto con Harry!»

3.

Ho cominciato a interessarmi della sterlina e delle sue vicende all’epoca


della crisi del 1964, e da allora non sono piú riuscito a separarmene. Per i
tre anni e mezzo successivi ho tenuto traccia dei suoi alti e bassi leggendo
la stampa americana e britannica, e di tanto in tanto ho visitato la sede della
Federal Reserve Bank per rinnovare la mia conoscenza con i suoi dirigenti e
cercare di avere ulteriori lumi sull’andamento della moneta britannica. Da
tutto ciò non ho avuto altro che una sonora conferma della tesi di Waage: il
lavoro delle banche centrali è, in effetti, pieno di drammi e di incertezze.
La sterlina non voleva saperne di essere fuori pericolo. A un mese dalla
grande crisi del 1964 gli speculatori tornarono all’attacco, e a fine anno la
Bank of England aveva già usato piú di mezzo miliardo dei tre che le erano
stati concessi. Neppure il nuovo anno portò tregua: dopo un gennaio
relativamente positivo, la moneta britannica subí nuove pressioni in
febbraio. Il credito di novembre era stato accordato per tre mesi, e ora che
la scadenza era vicina i Paesi donatori decisero di prolungarlo per altri tre
mesi, affinché Londra avesse piú tempo per rimettere in sesto la sua
economia. Ma a marzo inoltrato la congiuntura era ancora incerta, la
sterlina era tornata al di sotto di quota 2,79 e la Bank of England aveva
ricominciato a intervenire sui mercati valutari. In aprile ci fu una breve
ripresa, alimentata dalla pubblicazione di una legge di bilancio piú rigorosa
delle precedenti. All’inizio dell’estate, però, piú di un terzo dell’intera linea
di credito era già stato prelevato e utilizzato nella battaglia contro gli
speculatori; questi ultimi, rincuorati, non sembravano affatto disposti a
sospendere gli attacchi. A fine giugno, alcuni alti funzionari del governo
annunciarono che la crisi della sterlina era terminata, ma in realtà erano
semplici congetture; a luglio la moneta scese nuovamente a picco,
nonostante il governo avesse dato un ulteriore giro di vite all’economia
interna. A fine mese i mercati valutari internazionali sembravano convinti
che si stesse prospettando una nuova crisi; la profezia si avverò a fine
agosto, e per certi aspetti la situazione parve addirittura peggiore rispetto al
novembre 1964. Questa volta l’opinione prevalente sui mercati era che le
banche centrali, stanche di devolvere soldi alla causa della sterlina,
avrebbero lasciato che si deprezzasse senza preoccuparsi delle conseguenze.
Pressappoco in quel periodo telefonai a un importante operatore in valute
per chiedergli un parere: «A quanto mi risulta, – rispose questi, – il mercato
di New York è sicuro al cento per cento che quest’autunno ci sarà una
svalutazione della sterlina: e bada bene, ho detto cento per cento, non
novantacinque». Ma poi, l’11 settembre, lessi sui giornali che lo stesso
gruppo di banche centrali, senza la Francia questa volta, aveva messo a
disposizione un altro pacchetto di aiuti in extremis, il cui ammontare non
era ancora noto – si seppe poi che era circa un miliardo di dollari. Da allora,
giorno per giorno e poco alla volta, il prezzo di mercato della sterlina risalí
fino a superare a fine mese la soglia dei 2,80 dollari, cosa che non accadeva
da ben sedici mesi.
Dunque le banche centrali ce l’avevano fatta una seconda volta: lasciai
passare un po’ di tempo, poi decisi di indagare di persona sui dettagli
dell’operazione. Andai a parlare con Coombs, e lo trovai molto loquace e
fiducioso. «L’operazione di quest’anno è stata tutt’altra cosa rispetto a
quella del 1964, – mi disse. – Una mossa aggressiva da parte nostra, non
certo una difesa in extremis. Perché, vedi, all’inizio di settembre eravamo
giunti alla conclusione che la sterlina fosse enormemente sottovalutata: che,
insomma, la speculazione a suo danno fosse di gran lunga sproporzionata in
confronto ai dati economici. Considera che nei primi otto mesi di
quest’anno le esportazioni britanniche sono cresciute piú del 5 per cento
rispetto allo stesso periodo del 1964, e che il deficit della bilancia dei
pagamenti sembra essersi ridotto della metà, sempre in confronto al 1964.
Insomma, i progressi sul fronte economico c’erano, ma gli speculatori al
ribasso sembravano non tenerne conto. Continuavano a vendere sterline allo
scoperto basandosi esclusivamente sull’analisi dei fattori tecnici del
mercato. Erano loro, in realtà, a essere esposti. E cosí abbiamo deciso che i
tempi erano maturi per una controffensiva in piena regola».
Questa volta, mi spiegò Coombs, la manovra della Fed era stata
organizzata in tutta calma: non per telefono ma faccia a faccia, durante il
fine settimana del 5 settembre a Basilea. La Federal Reserve Bank era
rappresentata da Coombs, come al solito, ma anche da Hayes, che aveva
rinunciato a una parte della sua agognata vacanza a Corfú. Il contrattacco
era stato preparato con precisione militare. Per confondere il nemico – cioè
gli speculatori – e prenderlo alla sprovvista, si era deciso ad esempio di non
rendere nota l’entità della linea di credito. La manovra sarebbe iniziata nella
sala contrattazioni della Federal Reserve Bank alle nove, ora di New York,
del 10 settembre, a mercati europei ancora aperti. All’ora zero la Bank of
England sparò una salva di avvertimento, annunciando che la conclusione
di nuovi accordi tra le banche centrali avrebbe presto consentito di mettere
in atto «opportune iniziative» sui mercati valutari. Dopo una pausa di
quindici minuti per permettere a quella velata minaccia di sortire l’effetto
dovuto, la Federal Reserve Bank assestò il primo colpo. D’accordo con i
britannici, si serví del nuovo pacchetto di crediti internazionali per collocare
presso tutte le principali banche che operavano sul mercato valutario di
New York svariate offerte di acquisto di sterline per un valore complessivo
di quasi 30 milioni di dollari, alla quotazione corrente di 2,7918 dollari.
Messo sotto pressione, il mercato risalí all’istante e la Federal Reserve ne
assecondò il movimento, aumentando poco alla volta il prezzo di offerta.
Raggiunta la quota di 2,7934 la banca interruppe momentaneamente le
operazioni, in parte per capire come si comportava il mercato in sua
assenza, in parte per confondere le acque. Il mercato rimase stabile, segno
che a quel livello gli acquirenti di sterline erano tanto numerosi quanto i
venditori, e che gli orsi – gli speculatori – si stavano perdendo d’animo. Ma
poco dopo, non ancora soddisfatta, la Fed ritornò in forze sul mercato, e con
nuove offerte di acquisto fece salire il prezzo della sterlina fino a 2,7945. A
quel punto la valanga cominciò a ingrossarsi da sola, e il risultato finale fu
quello che avevo letto sui giornali. «Abbiamo messo alle strette i ribassisti»,
mi disse Coombs con una cupa soddisfazione che trovai del tutto
condivisibile; mi venne da pensare che per un banchiere dev’essere un
piacere raro e prezioso riuscire a sgominare i nemici, annientarli e farli
battere in ritirata non in nome del profitto personale o istituzionale, ma per
il bene di tutti.
Da un altro banchiere venni poi a sapere quanto fosse stata dolorosa la
stretta inferta ai ribassisti. Poiché i margini di credito sulle speculazioni in
valuta sono quelli che sono – per portare a termine una transazione di un
milione di dollari a danno della sterlina bastano a volte trenta o
quarantamila dollari in contanti – la maggior parte degli speculatori
avevano effettuato vendite allo scoperto per decine di milioni. E se per
esempio un immaginario operatore fosse stato esposto per 10 milioni di
sterline, ovvero 28 milioni di dollari, sarebbe bastata una variazione di un
centesimo di centesimo nel prezzo della sterlina per aumentare o ridurre di
migliaia di dollari il valore del suo portafoglio. Tra la parità a 2,7918 del 10
settembre e quella a 2,8010 del 29 settembre, dunque, un ipotetico
speculatore al ribasso sulla sterlina avrebbe perduto la bellezza di 92 000
dollari: abbastanza per indurlo a pensarci due volte prima di vendere altre
sterline allo scoperto.
Seguí poi un periodo di discreta tranquillità. L’aria di crisi incombente
che aveva inquinato gli scambi per buona parte dell’anno precedente si era
finalmente dileguata, e per oltre sei mesi il mercato della sterlina si orientò
al bello stabile come non accadeva da anni. A novembre, nel primo
anniversario del grande salvataggio, un alto funzionario inglese che preferí
(saggiamente) conservare l’anonimato dichiarò: «La battaglia per la sterlina
è conclusa». Ora, seguitava la fonte, «è iniziata la battaglia per
l’economia». A quanto sembrava le cose si stavano mettendo bene anche su
quel fronte, perché la bilancia dei pagamenti britannica per il 1965, fatti i
conti, registrò un deficit piú che dimezzato rispetto all’anno precedente. E
nel frattempo, grazie alla ritrovata forza della sterlina, la Bank of England
era riuscita non soltanto a ripagare tutti i debiti a breve termine verso le
altre banche centrali, ma persino ad accumulare, vendendo sterline sul
mercato aperto, piú di un miliardo di dollari freschi da aggiungere alle sue
preziosissime riserve. E cosí tra il settembre del 1965 e il marzo del 1966 il
loro valore salí da 2,6 a 3,6 miliardi di dollari: una cifra abbastanza
tranquillizzante. La sterlina riuscí addirittura a superare senza patemi – cosa
alquanto rara – un periodo di campagna elettorale. Quando rividi Coombs,
nella primavera del 1966, ebbi la sensazione che guardasse alla moneta
britannica con lo stesso orgoglioso disincanto che un vecchio tifoso dei
New York Yankees potrebbe nutrire per la sua squadra.
Avevo appena deciso che non era piú divertente seguire le sorti della
sterlina, quand’ecco esplodere una nuova crisi. Vari fattori, tra cui uno
sciopero del personale marittimo, riportarono in deficit la bilancia
commerciale britannica: ai primi di giugno del 1966 la quotazione scese per
l’ennesima volta al di sotto dei 2,79 dollari, e la Bank of England
ricominciò a spendere le sue riserve a sostegno della moneta. Il 13 di
giugno, con la noncuranza di una valente squadra di pompieri chiamata a
spegnere il piú banale degli incendi, le banche centrali accorsero con una
nuova linea di credito a breve termine. Questa volta, però, i benefici furono
solo temporanei: e cosí a fine luglio il primo ministro Wilson, deciso a
estirpare il problema alla radice, impose a tutta la popolazione un pacchetto
di misure di austerità di una durezza mai vista in tempo di pace: tasse
elevatissime, inesorabile stretta creditizia, blocco di prezzi e salari, taglio
della spesa per l’assistenza pubblica e imposizione di un limite di 140
dollari alle esportazioni di denaro contante. In seguito Coombs mi disse che
la Federal Reserve era intervenuta sul mercato subito dopo l’annuncio del
programma, ottenendo risultati positivi. A settembre, poi, la Fed decise per
buona misura di potenziare l’accordo di swap con la Bank of England,
portandolo da 750 milioni a un miliardo e 350 milioni. Quando vidi Waage,
pochi giorni piú tardi, mi parlò con calore della nuova corrente di dollari
che stava veleggiando verso la banca centrale inglese. «Ormai le crisi della
sterlina stanno diventando noiose», annotava flemmatico l’«Economist» in
quegli stessi giorni.
Fu il preludio a una nuova fase di calma, che anche questa volta durò
poco piú di sei mesi. Nell’aprile del 1967 la Gran Bretagna aveva
rimborsato tutti i debiti a breve termine e possedeva ampie riserve, ma di lí
a un mesetto arrivò la prima di una scoraggiante serie di battute d’arresto.
Due effetti del breve conflitto arabo-israeliano – un enorme deflusso di
fondi di proprietà araba dalla sterlina ad altre valute, e la chiusura del
canale di Suez, arteria fondamentale per il commercio estero della Gran
Bretagna – provocarono, quasi dall’oggi al domani, una nuova crisi. A
giugno la Bank of England (passata nelle mani di Sir Leslie O’Brien,
succeduto a Lord Cromer nel 1966) dovette attingere pesantemente alla
linea di credito swap con la Federal Reserve, e a luglio il governo di Londra
si vide obbligato a rinnovare le dolorose restrizioni economiche imposte
l’anno precedente; malgrado ciò, a settembre la parità della sterlina
precipitò a 2,7830 dollari, il punto piú basso dalla crisi del 1964. A quel
punto richiamai il mio esperto di mercati valutari e gli chiesi come mai, a
suo parere, la banca centrale inglese – che nel novembre 1964 aveva
collocato l’ultima linea di trincea a 2,7860, e che secondo le sue stesse
dichiarazioni possedeva al momento riserve superiori ai 2,5 miliardi di
dollari – permetteva che la sua moneta si avvicinasse tanto pericolosamente
al minimo assoluto (salvo svalutazioni) di 2,78 dollari. «Be’, la situazione è
meno disperata di quanto sembri, – rispose il mio esperto. – La pressione
speculativa è nettamente inferiore rispetto al 1964. E il quadro economico
complessivo è, almeno finora, molto piú favorevole. Nonostante la guerra in
Medio Oriente, il programma di austerità ha avuto gli effetti previsti. Nei
primi sei mesi del 1967 la bilancia dei pagamenti britannica ha sfiorato il
pareggio. Evidentemente la Bank of England ritiene che questo momento di
debolezza della sterlina possa essere superato senza il suo intervento».
Fu allora, pressappoco, che mi accorsi di un fenomeno portentoso e
inquietante: gli inglesi sembravano aver vinto l’antico tabú che gli impediva
di pronunciare a voce alta la parola «svalutazione». Come molti altri tabú,
anche questo sembrava fondato su un miscuglio di logica terra terra (a
parlare di svalutazione si rischiava di scatenare fughe speculative che
avrebbero prodotto, per l’appunto, una svalutazione) e superstizione. Ora
però scoprivo che la stampa inglese parlava liberamente e frequentemente
di svalutazione della sterlina, e c’erano persino autorevoli quotidiani che la
invocavano. E non era finita lí. Se da un lato il primo ministro Wilson
continuava a girare il mondo promettendo solennemente che il suo governo
si sarebbe astenuto dal prendere misure di quel tipo (non ci sarebbe stato,
disse una volta con estrema delicatezza, «alcun cambiamento nell’attuale
politica» in materia di «questioni valutarie»), dall’altro il 24 luglio il
cancelliere dello Scacchiere James Callaghan aveva addirittura menzionato
la svalutazione al cospetto della Camera dei Comuni, lamentando che era
diventato di moda sostenerne la necessità e dichiarando che una misura del
genere (a cui il suo governo non si sarebbe mai piegato) equivaleva a una
violazione degli accordi con le altre nazioni e i loro popoli. I sentimenti
espressi dal cancelliere erano familiari e rassicuranti; tutt’altro che
rassicurante era il fatto che li avesse esposti in maniera cosí aperta.
Nemmeno nei giorni piú cupi della crisi del 1964 si era osato pronunciare la
parola «svalutazione» in parlamento.
Venne l’autunno, e mi ritrovai a pensare che la Gran Bretagna fosse stata
colpita da una diabolica concatenazione di sfortune, alcune delle quali
danneggiavano nello specifico la sterlina, mentre altre nuocevano piú
genericamente al morale della nazione. A primavera il disgraziato naufragio
di una petroliera aveva insozzato le coste della Cornovaglia; ora, invece,
un’epidemia stava uccidendo prima decine, poi centinaia di migliaia di capi
di bestiame. La camicia di forza che aveva imprigionato l’economia
nazionale per piú di un anno aveva portato la disoccupazione a livelli mai
visti in tempi recenti, e il governo laburista era ormai uno dei piú
impopolari del dopoguerra. (Sei mesi piú tardi, in un sondaggio promosso
dal «Sunday Times», gli inglesi avrebbero assegnato a Harold Wilson il
quarto posto nella classifica dei personaggi piú malvagi del secolo, subito
dopo Hitler, De Gaulle e Stalin). Lo sciopero dei portuali di Londra e di
Liverpool iniziato a metà settembre si sarebbe protratto per oltre due mesi,
penalizzando ulteriormente il già malconcio export britannico e troncando
definitivamente ogni speranza di chiudere l’anno con la bilancia dei
pagamenti in pareggio. All’inizio di novembre 1967 la sterlina era quotata a
2,7822 dollari, il punto piú basso dell’ultimo decennio. Da quel momento in
avanti, la discesa fu rapida. La sera di lunedí 13, Wilson colse l’occasione
del banchetto annuale del sindaco di Londra – la stessa tribuna da cui, con
parole fiammeggianti, si era impegnato a difendere la sterlina durante la
crisi di tre anni prima – per supplicare il Paese e il mondo intero di non dare
troppo peso ai dati sul commercio estero che sarebbero stati resi noti
l’indomani, e che a suo dire erano alterati da interferenze transitorie. Le
statistiche puntualmente divulgate il giorno successivo indicavano per il
mese di ottobre un deficit commerciale di oltre 100 milioni di sterline: il
dato peggiore di sempre. Giovedí 16 il governo si riuní all’ora di pranzo, e
quello stesso pomeriggio il cancelliere dello Scacchiere Callaghan, invitato
a confermare o smentire le voci su un nuovo e colossale credito delle
banche centrali vincolato all’adozione di ulteriori misure di austerità che
avrebbero certamente generato nuova disoccupazione, replicò con impeto e
con quella che in seguito fu criticata come una mancanza di discrezione: «Il
Consiglio dei ministri prenderà le decisioni che riterrà appropriate in base ai
convincimenti del governo stesso, e di nessun altro, circa le necessità
dell’economia nazionale. E queste, al momento, non comprendono
l’incremento del tasso di disoccupazione».
Come un sol uomo, i mercati valutari stabilirono che il governo aveva
deciso di svalutare, e che con quella risposta Callaghan si era lasciato
scappare il segreto. Venerdí 17 fu la giornata piú burrascosa mai vissuta sui
mercati valutari di tutto il mondo, e il giorno piú nero nella storia millenaria
della sterlina. Per tenerla ferma a 2,7825 – la parità indicata questa volta
come ultima linea di trincea – la banca centrale spese una quantità di riserve
che probabilmente non verrà mai rivelata; i dirigenti di alcune banche
commerciali di Wall Street, parlando a ragion veduta, hanno ipotizzato una
perdita complessiva di circa un miliardo di dollari, il che equivarrebbe a
un’emorragia continua di oltre 2 miliardi al minuto per l’intero arco della
giornata. Quel giorno, dunque, le riserve britanniche scesero al di sotto dei
2 miliardi, e forse molto al di sotto. Il giorno successivo – un sabato 18
novembre inframmezzato da oscuri allarmi – la Gran Bretagna annunciò la
resa. Ebbi la notizia da Waage, che mi telefonò quel pomeriggio alle 17.30,
ora di New York. «Un’ora fa la sterlina è stata svalutata a 2,40 dollari, e il
tasso di sconto è arrivato all’8 per cento», mi disse, con un leggero tremito
nella voce.
Quel sabato sera, memore del fatto che solo una guerra importante può
turbare gli equilibri finanziari mondiali piú della svalutazione di una
moneta importante, me ne andai in ricognizione a Wall Street, capitale del
mondo finanziario. Un vento stizzoso faceva volare le cartacce per le strade
deserte, e come sempre accade quando gli uffici sono chiusi, l’intero
quartiere era avvolto in un silenzio minaccioso. A un certo punto, però, vidi
qualcosa di insolito: finestre illuminate – perlopiú una fila per ogni edificio
– che risaltavano sullo sfondo nero delle facciate. In alcuni casi fui in grado
di capire che le luci corrispondevano agli uffici esteri delle grandi banche. I
pesanti portoni di ingresso erano chiusi e sbarrati, ma forse i funzionari
suonano il campanello per farsi aprire durante i fine settimana, oppure
accedono da invisibili ingressi laterali o posteriori. Rialzai il bavero del
cappotto e proseguii lungo Nassau Street, poi svoltai in Liberty Street per
dare un’occhiata all’edificio della Federal Reserve. Anche lí vidi finestre
illuminate, non in fila bensí sparse in modo irregolare su tutta la facciata
fiorentina: l’effetto era, chissà perché, piú gradevole. Anche in questo caso,
però, il portone principale era irremovibilmente chiuso. Mentre osservavo la
scena, una folata di vento mi portò – probabilmente dalla Trinity Church, a
pochi isolati di distanza – un incongruo frammento di musica per organo, e
in quel momento mi resi conto che da dieci o quindici minuti non
incontravo nemmeno un passante. Tutta la scena rappresentava alla
perfezione la faccia fredda e ostile delle banche centrali: pochi uomini
trincerati in un’arrogante segretezza a prendere decisioni che riguardano
tutti, ma che noi comuni mortali non possiamo né influenzare né
comprendere. Evidentemente non era la sera adatta per mostrare la faccia
piú amabile, quella del cenacolo di saggi ed eleganti uomini d’affari che a
Basilea, tra vino e tartufi pregiati, mettono in salvo monete traballanti.
Domenica pomeriggio, in una sala al nono piano della banca, Waage
tenne una conferenza stampa alla quale assistei insieme a un’altra dozzina
di giornalisti che bazzicavano regolarmente la zona di Wall Street. Waage
parlò in termini generali della svalutazione, eludendo le domande a cui non
intendeva rispondere con la vecchia tecnica (a lui ben nota, essendo stato un
insegnante) di rispondere a una domanda con un’altra domanda. Era ancora
decisamente troppo presto, dichiarò Waage, per valutare il rischio che la
svalutazione innescasse «un nuovo 1931». Per formulare un’ipotesi,
aggiunse, sarebbe stato necessario indovinare le mosse di milioni di persone
e migliaia di banche in tutto il mondo. Il seguito della storia sarebbe stato
piú chiaro nei giorni a venire. Waage sembrava piú elettrizzato che
depresso: era in ansia, certo, ma anche determinato ad affrontare la
situazione. Mentre si avviava verso l’uscita gli domandai se fosse rimasto
sveglio tutta la notte. «No, – mi rispose. – Ieri sera sono stato a teatro a
vedere Il compleanno di Harold Pinter, e devo dire che in questi giorni
l’universo di Pinter mi sembra piú sensato del mio», rispose.
Nei giorni successivi si cominciò a capire cos’era accaduto tra giovedí e
venerdí, e si scoprí che le voci in circolazione erano in gran parte fondate.
La Gran Bretagna aveva in effetti avviato le trattative per un nuovo,
colossale credito (paragonabile al pacchetto da 3 miliardi concesso nel
1964, e ancora una volta con gli Stati Uniti in veste di donatore piú
generoso), ma non era chiaro se alla fine Londra avesse svalutato per sua
scelta o per necessità. In un appello televisivo alla nazione Wilson aveva
cercato di chiarire i motivi del provvedimento, dichiarando che «sarebbe
stato possibile contrastare l’ondata di speculazioni ricorrendo a prestiti da
altre nazioni o altre banche centrali», ma che in quel momento una scelta
del genere sarebbe stata «irresponsabile», perché «i creditori stranieri
avrebbero potuto chiederci in cambio garanzie su questo o quell’aspetto
della nostra politica nazionale»; il premier non disse se l’avessero fatto o
meno. In ogni caso il Consiglio dei ministri britannico aveva già preso –
con immaginabile riluttanza – la sua decisione di principio durante il fine
settimana precedente, e l’incontro di giovedí era servito unicamente a
stabilire l’entità precisa della svalutazione. Il governo aveva inoltre deciso
di sostenere l’efficacia del provvedimento con nuove misure di austerità che
comprendevano, tra l’altro, un aumento della tassazione a carico delle
società, un taglio della spesa militare e l’innalzamento del tasso di sconto al
livello piú alto degli ultimi cinquant’anni. Quanto al ritardo di due giorni tra
la decisione di svalutare e la sua effettiva attuazione (ritardo che era costato
carissimo alle riserve nazionali britanniche), i portavoce della Bank of
England dissero che era stato inevitabile, data la necessità di concordare
una strategia comune con le grandi potenze monetarie. Cosí imponevano le
regole internazionali in caso di svalutazione; per di piú, Londra aveva
voluto accertarsi che i suoi principali concorrenti nel commercio
internazionale non intendessero minare l’effetto della sua svalutazione
prendendo a loro volta analoghi provvedimenti. Ora si capiva, finalmente,
cosa avesse scatenato il panico e le massicce vendite di sterline lo scorso
venerdí. Non era stata un’arbitraria mossa speculativa da parte dei famosi –
benché invisibili, e forse inesistenti – gnomi di Zurigo, bensí, al contrario,
una mossa di autoprotezione – chiamata «copertura» in gergo – da parte
delle grandi corporation internazionali, soprattutto americane, che avevano
venduto allo scoperto quantità di sterline equivalenti alle somme che
avrebbero dovuto ricevere di lí a qualche settimana o mese. La prova fu
fornita dalle stesse grandi società, alcune delle quali si erano premurate di
comunicare agli azionisti che, grazie alla preveggenza dei loro responsabili,
la svalutazione della sterlina avrebbe causato perdite tutt’al piú marginali.
La International Telephone & Telegraph, per esempio, annunciò quella
domenica che il cambio di parità non avrebbe avuto effetti negativi sugli
utili per l’anno in corso, giacché «la dirigenza aveva già da tempo preso in
considerazione quell’ipotesi». La International Harvester e la Texas
Instruments dissero di essersi protette mediante vendite allo scoperto di
sterline. La Singer Company ammise di averne addirittura ricavato qualche
profitto. Altre società americane fecero sapere di non aver subito perdite ma
rifiutarono di fornire dettagli per non esporsi, dissero, all’accusa di aver
tratto vantaggio dalla difficile situazione di Londra. «Diciamo
semplicemente che siamo stati in gamba», dichiarò un portavoce. Una
confessione abbastanza onesta, per quanto sprovvista di grazia ed eleganza.
Nella giungla del commercio internazionale le operazioni di copertura sulle
valute deboli sono considerate una mossa autodifensiva perfettamente
legittima; vendere allo scoperto per trarne profitto è invece una pratica
meno rispettabile, ma la cosa interessante è che tra quanti riconobbero di
aver speculato a danno della sterlina nella giornata di venerdí c’era gente
che abitava decisamente lontano da Zurigo. Per esempio un gruppo di
professionisti di Youngstown, Ohio – veterani dei mercati azionari che
prima di allora non avevano mai osato scommettere sulle valute – che
avendo avuto sentore di una svalutazione imminente avevano venduto allo
scoperto 70 000 sterline, ricavandone un profitto di poco inferiore ai 25 000
dollari. Le sterline vendute allo scoperto, ovviamente, erano state acquistate
in dollari dalla Bank of England, che aveva aggiunto quella minuscola
goccia alle sue già ingentissime perdite. Quando scoprii che il broker dei
professionisti aveva raccontato – con presumibile orgoglio – la sua impresa
al «Wall Street Journal», mi augurai che gli apprendisti gnomi di
Youngstown avessero quanto meno intuito le conseguenze del loro gesto.
Lunedí, con buona pace degli scrupoli morali, il mondo finanziario (o
gran parte di esso) tornò al lavoro e la svalutazione fu messa alla prova su
due punti specifici. Quesito numero uno: servirà allo scopo, ovvero sosterrà
le esportazioni britanniche e ridurrà le importazioni in misura sufficiente a
sanare il disavanzo con l’estero e bloccare le speculazioni a danno della
sterlina? Quesito numero due: sarà seguita, come nel 1931, da una serie di
svalutazioni competitive delle altre monete, che a loro volta avranno come
conseguenze ultime la svalutazione del dollaro nei confronti dell’oro, il
caos monetario e forse una depressione di dimensioni mondiali? Le risposte
a entrambe le domande sarebbero arrivate di lí a poco.
Quel giorno, però, le banche e gli uffici di cambio di Londra rimasero
chiusi a doppia mandata per ordine del governo, e poiché la Bank of
England era assente dai mercati la maggior parte degli operatori evitò di
prendere posizione nei confronti della sterlina: in sostanza, era ancora
troppo presto per rispondere alla prima domanda. I marciapiedi di
Threadneedle e Throgmorton Street erano affollati di broker, operatori e
impiegati che si raccoglievano in capannelli e discutevano animatamente,
mentre la Union Jack sventolava da tutti i pennoni per l’anniversario di
matrimonio della regina. La Borsa di New York aprí con un lieve ribasso
ma recuperò in fretta. (Il calo iniziale non aveva alcuna spiegazione
razionale eccetto che, come osservarono alcuni, una svalutazione mette
sempre tristezza). Al calar della notte di lunedí si seppe che altri undici
Paesi – Spagna, Danimarca, Israele, Hong Kong, Malta, Guyana, Malawi,
Giamaica, Fiji, Bermuda e Irlanda – avevano abbassato i tassi di cambio
delle rispettive monete. La notizia non era poi cosí negativa, giacché gli
effetti di una svalutazione sono tanto piú rilevanti quanto maggiore è il peso
della moneta svalutata nel commercio mondiale: nel caso specifico, dunque,
nessuno si aspettava effetti dirompenti. L’unica a destare qualche
preoccupazione era la corona danese, perché c’era il rischio che anche
Norvegia, Svezia e Olanda, sue grandi alleate economiche, decidessero di
svalutare: e allora sí che la faccenda sarebbe diventata seria. Ma l’Egitto, a
cui la svalutazione aveva istantaneamente decurtato le riserve in sterline per
un valore pari a 38 milioni di dollari, mantenne le posizioni, e cosí fece il
Kuwait, pur avendo perso 18 milioni.
Martedí i mercati di tutto il mondo ripartirono con il vento in poppa. La
Bank of England, rientrata in attività, fissò i limiti della nuova fascia di
oscillazione a 2,38 e 2,42 dollari. Subito dopo la sterlina volò dritta dritta
alla soglia massima come un palloncino sfuggito di mano a un bimbo, e non
si mosse piú da lí; anzi, per oscure ragioni che i palloncini non sanno
spiegare, stazionò per buona parte del tempo addirittura al di sopra di quel
limite. E cosí adesso, invece di sborsare dollari in cambio di sterline, la
banca centrale britannica intascava dollari, e dunque cominciava a
ricostituire le proprie riserve. Chiamai Waage pensando che mi sarei trovato
a condividere la sua gioia, ma scoprii che non aveva perso nemmeno una
goccia del suo aplomb. La forza della sterlina era, a suo dire, un fenomeno
«tecnico» indotto dai ribassisti, che la scorsa settimana avevano venduto
allo scoperto e ora acquistavano sterline per incassare i profitti; per il primo
vero collaudo, disse Waage, bisognava aspettare fino a venerdí. Nel corso
della giornata altre sette nazioni di secondaria importanza annunciarono
modifiche alla parità delle loro monete. In Malesia, dove la svalutazione
aveva interessato la vecchia sterlina malese agganciata a quella britannica
ma non il nuovo dollaro agganciato all’oro, la popolazione si ribellò contro
il provvedimento, e nelle due settimane successive le rivolte avrebbero
causato la morte di oltre ventisette persone: le prime vittime della
svalutazione. Ma a parte questo infelice sviluppo, utile forse a rammentare
che nel grande gioco della finanza internazionale si scommette con i mezzi
di sussistenza delle persone, se non con le loro stesse vite, la situazione
sembrava fino a quel momento abbastanza tranquilla.
Mercoledí 22 cominciò a profilarsi all’orizzonte un secondo, meno
circoscritto presagio di sventura: l’attacco speculativo che aveva colpito e
infine sconfitto la sterlina si diresse, come molti avevano temuto, contro il
dollaro. In quanto unica nazione tenuta a vendere oro alle banche centrali di
tutte le altre nazioni al prezzo fisso di 35 dollari l’oncia, gli Stati Uniti sono
la chiave di volta del sistema monetario mondiale, e l’oro custodito nei
forzieri del Tesoro americano – il cui valore sfiorava all’epoca i 13 miliardi
di dollari – è il basamento sul quale poggia il sistema. William McChesney
Martin, presidente del Consiglio della riserva federale, aveva dichiarato piú
volte che gli Stati Uniti avrebbero sempre e in qualsiasi condizione venduto
oro a chiunque ne avesse fatto richiesta, tenendo fede ai propri obblighi fino
all’ultima barra, se necessario. Nonostante ciò, e nonostante lo stesso
presidente Johnson avesse reiterato la promessa subito dopo l’annuncio
della svalutazione, gli speculatori cominciarono ad acquistare enormi
quantità di oro in cambio di dollari, accogliendo le dichiarazioni ufficiali
con lo stesso scetticismo dei newyorchesi che, pressappoco nello stesso
periodo, avevano cominciato a fare incetta di gettoni della metropolitana. A
Parigi, a Zurigo e in altri centri finanziari la domanda di oro raggiunse in
breve tempo livelli inusuali, ma fu a Londra, prima piazza mondiale del
prezioso metallo, che il fenomeno assunse dimensioni tanto rilevanti da far
pensare a una vera e propria «Corsa all’oro di Londra». Gli ordini, per un
valore complessivo che alcune fonti stimano a oltre 50 milioni di dollari,
sembravano giungere da ogni parte del mondo eccetto probabilmente gli
Stati Uniti e la Gran Bretagna, dove è vietato per legge acquistare o
possedere oro monetario. E chi mai si sarebbe preso la briga di vendere oro
a quelle invisibili moltitudini, cosí repentinamente pervase dall’antica
brama per il giallo metallo? Non certo il Tesoro degli Stati Uniti, che
attraverso la Federal Reserve cedeva oro soltanto alle banche centrali; né le
altre banche centrali, che non avevano alcun obbligo di mettere in vendita il
loro oro. Il compito di soddisfare quella brama sarebbe toccato all’ennesimo
organismo di cooperazione internazionale, il cosiddetto pool dell’oro di
Londra, costituito nel 1961 e rifornito dai Paesi membri – Stati Uniti, Gran
Bretagna, Italia, Olanda, Svizzera, Germania Ovest, Belgio e, fino a un
certo momento, Francia – di una scorta di lingotti che avrebbe dato le
vertigini allo stesso Creso (il quantitativo maggiore, pari al 59 per cento del
totale, era messo a disposizione dagli Stati Uniti). Scopo
dell’organizzazione era evitare le situazioni di panico monetario fornendo
agli acquirenti non governativi tutto l’oro che desideravano acquistare, a un
prezzo pari a quello praticato dalla Federal Reserve, in modo da proteggere
la stabilità del dollaro e dell’intero sistema monetario.
E proprio questo fece il pool dell’oro, in quel mercoledí di novembre.
Giovedí, purtroppo, le cose andarono molto peggio: la febbre del giallo
metallo dilagò sui mercati di Parigi e Londra, e le quotazioni
polverizzarono i record stabiliti nel 1962 durante la crisi dei missili cubani.
Fu allora che un sospetto ampiamente e lungamente diffuso persino tra gli
alti ufficiali britannici e americani si trasformò in certezza: la corsa all’oro,
si diceva, era parte di un complotto ordito dalla Francia e dal generale De
Gaulle per umiliare prima la sterlina, poi il dollaro. Le prove erano
circostanziali, ma persuasive. Per prima cosa si sapeva da tempo che De
Gaulle e i suoi ministri auspicavano un forte ridimensionamento del ruolo
internazionale delle due valute, e si diceva che una quantità sospetta degli
acquisti di oro, compresa una parte di quelli effettuati a Londra, fosse
riconducibile alla Francia. Lunedí sera, trentasei ore prima che la corsa
all’oro avesse inizio, Parigi aveva fatto sapere tramite «indiscrezioni» di
volersi ritirare dal pool dell’oro (in seguito si scoprí che i suoi contributi
erano già sospesi da giugno); anche le voci infondate su un imminente ritiro
del Belgio e dell’Italia erano, a detta di alcuni, alimentate dalla Francia.
Poco alla volta, altri elementi si aggiungevano al quadro: per esempio, si
veniva a sapere che nei giorni immediatamente precedenti la svalutazione la
Francia era stata assai riluttante a sottoscrivere l’ennesima linea di credito a
favore della Gran Bretagna, e che per giunta le autorità avevano esitato fino
all’ultimo istante prima di impegnarsi a mantenere inalterato il tasso di
cambio anche in caso di svalutazione della sterlina. Tutto sommato c’erano
buone ragioni per sospettare che la premiata ditta De Gaulle e soci avesse
giocato sporco. Personalmente, e a prescindere dalla fondatezza dei
sospetti, non posso fare a meno di pensare che le accuse ai danni della
Francia siano servite, se non altro, ad aggiungere una buona dose di pepe
alla crisi della sterlina; la situazione sarebbe diventata ancor piú piccante
qualche mese piú tardi, quando le circostanze avrebbero obbligato gli Stati
Uniti a trarre d’impaccio la moneta francese, precipitata in gravi difficoltà.

Venerdí, sul mercato di Londra, la sterlina rimase appiccicata tutto il


giorno al suo limite massimo, superando cosí a pieni voti il primo vero test
post-svalutazione. Da lunedí in avanti soltanto pochi Paesi di secondaria
importanza si erano aggiunti all’elenco di quelli che avevano a loro volta
svalutato, e ormai era chiaro che Norvegia, Svezia e Olanda non
intendevano modificare la parità delle loro monete. Sul fronte del dollaro,
invece, le cose andavano peggio che mai. Gli acquisti di oro effettuati a
Londra e a Parigi superarono di gran lunga il record del giorno precedente,
e secondo alcune stime il valore complessivo dell’oro acquistato su tutti i
mercati nei tre giorni precedenti rimase poco al di sotto del miliardo di
dollari; per di piú, la Borsa di Johannesburg fu messa a soqquadro dagli
speculatori che sgomitavano per accaparrarsi le azioni delle società
minerarie, e in tutta Europa si vendevano dollari in cambio non soltanto di
oro, ma anche di altre monete. Certo, la posizione della moneta statunitense
aveva pochissimo in comune con quella della sterlina nella settimana
precedente: ciò nonostante, c’erano alcune sconfortanti analogie. In seguito
si venne a sapere che nei primi giorni dopo la svalutazione la Federal
Reserve, invece di intervenire a sostegno delle altre monete come faceva di
solito, era stata costretta a contrarre prestiti in valute straniere per un valore
di quasi 2 miliardi per sostenere la propria divisa.
La sera di quello stesso venerdí, dopo aver presenziato a una conferenza
stampa in cui Waage era parso in preda a uno strano, beffardo nervosismo
che aveva finito per rendere nervoso anche me, uscii dalla sede della Fed
quasi convinto che la svalutazione del dollaro sarebbe stata annunciata
prima di lunedí. E invece non accadde niente del genere; per il momento,
anzi, sembrava che il peggio fosse passato. Domenica arrivò la notizia che i
rappresentanti delle banche centrali del pool dell’oro (tra questi Hayes e
Coombs) si erano riuniti a Francoforte e si erano formalmente accordati per
mantenere il dollaro all’attuale parità con l’oro, intervenendo in suo aiuto
con le risorse di ciascuna nazione. A quel punto sembrava che non
potessero piú esserci dubbi sul fatto che il dollaro era spalleggiato non
soltanto dai 13 miliardi di riserve auree statunitensi, ma anche dai 14
miliardi distribuiti nelle casseforti di Belgio, Gran Bretagna, Italia, Olanda,
Svizzera e Germania occidentale. Gli speculatori parvero doverosamente
impressionati. Il lunedí successivo gli acquisti di oro sulle piazze di Londra
e Zurigo registrarono una netta flessione; non cosí a Parigi, dove si continuò
a comprare oro a livelli da record benché il presidente De Gaulle, in una
sulfurea conferenza stampa indetta quel giorno stesso, avesse azzardato
l’ipotesi che gli ultimi sviluppi sul fronte valutario preannunciassero un
probabile declino del ruolo internazionale del dollaro. Martedí le
compravendite di oro crollarono bruscamente ovunque, persino a Parigi.
«Oggi è andata bene, – mi disse Waage al telefono quel pomeriggio. – E
domani andrà meglio, speriamo». Mercoledí, infatti, i mercati dell’oro
tornarono alla normalità: una normalità relativa, considerato che nel corso
della settimana il Tesoro americano aveva perso circa 450 tonnellate d’oro –
cioè quasi mezzo miliardo di dollari – per far fronte ai propri obblighi verso
il pool e soddisfare la domanda delle banche centrali estere.
A dieci giorni dalla svalutazione della sterlina, la situazione sembrava
ormai tranquilla. In realtà era soltanto il punto di minima tra due onde
d’urto successive: dall’8 al 18 dicembre, infatti, un nuovo, violento attacco
speculativo ai danni del dollaro sottrasse al pool dell’oro altre quattrocento
tonnellate di lingotti. Come in precedenza, anche questa volta l’attacco fu
bloccato grazie all’intervento degli Stati Uniti e delle nazioni aderenti al
pool, che si dichiararono fermamente determinate a preservare lo status
quo. Tra il giorno della svalutazione della sterlina e la fine dell’anno il
Tesoro americano perdette quasi un miliardo di dollari d’oro e l’ammontare
complessivo delle sue riserve scese sotto la soglia dei 12 miliardi, cosa che
non accadeva dal 1937. Per fortuna il programma di riequilibrio della
bilancia dei pagamenti annunciato dal presidente Johnson il 1º gennaio
1968, fondato su una serie di restrizioni ai prestiti bancari e agli
investimenti produttivi all’estero, serví anche a tener buoni gli speculatori
per un paio di mesi. Ma la corsa all’oro non era ancora finita: in barba a
tutte le dichiarazioni di intenti, era alimentata da fattori economici e
psicologici di enorme importanza. Era, in senso lato, la manifestazione
concreta di quell’antica sfiducia nei confronti delle monete cartacee che
riemerge ogni tanto nei momenti di crisi. In senso piú specifico, però, era
anche la sgradita conseguenza della svalutazione della sterlina e – ancor piú
specificamente – un voto di sfiducia agli Stati Uniti e alla loro pretesa di
tenere in ordine l’economia a dispetto di una propensione ai consumi che
andava al di là dell’immaginabile e del loro coinvolgimento in una guerra
lontana, costosissima e senza una fine prevedibile. Agli occhi di chi
speculava sull’oro, era come se al mondo intero si chiedesse di porre fiducia
nelle ricchezze di un temerario e sconsiderato spendaccione.
Quando gli speculatori tornarono all’attacco, il 29 febbraio – scegliendo
quella data per nessun’altra ragione se non che un senatore degli Stati Uniti,
Jacob Javits, si era appena dichiarato con assoluta serietà o con svagata
indiscrezione favorevole a una sospensione transitoria di tutti i trasferimenti
di oro agli altri Paesi – lo fecero con una tale ferocia che la situazione
sfuggí di mano in un attimo. Il 1º marzo il pool dell’oro distribuí, secondo
alcune stime, da 40 a 50 tonnellate di prezioso metallo sulla piazza di
Londra (contro le 3-4 tonnellate di una giornata normale); il 5 e 6 marzo,
altre 40 tonnellate; l’8 marzo, piú di 75; il 13, una quantità non
accuratamente stimabile ma ampiamente superiore alle 100 tonnellate. Nel
frattempo la sterlina, che in caso di modifica della parità oro-dollaro non
avrebbe potuto evitare una seconda svalutazione, scese per la prima volta al
di sotto della nuova soglia di 2,40 dollari. L’ennesima reiterazione delle
solite dichiarazioni di intenti, stavolta da parte del club delle banche centrali
riunite a Basilea il 10 di marzo, non sortí alcun effetto. Il mercato era nella
piú classica delle situazioni di caos: diffidente nei confronti di qualsiasi
garanzia ufficiale e alla mercé di ogni diceria. Un autorevole banchiere
svizzero dichiarò cupamente che la situazione era «la piú pericolosa dal
1931 a oggi». Un membro del club delle banche centrali fece notare, con
un’angoscia appena temperata da quel pensiero caritatevole, che forse gli
speculatori in oro non si erano resi conto che il loro comportamento stava
mettendo in pericolo il sistema monetario mondiale. Il «New York Times»
scrisse in un editoriale che «l’erosione del sistema dei pagamenti
internazionali è […] ormai evidente».
Giovedí 14 marzo il panico si sommò al caos. I mercanti di oro londinesi
descrissero gli eventi del giorno con parole decisamente poco british quali
«assalto», «catastrofe», «incubo». Non è mai stato detto ufficialmente
quanto oro sia stato venduto in quella giornata – forse non si era riusciti a
fare una valutazione credibile – ma tutte le fonti propendono per un record
assoluto: circa 200 tonnellate secondo la maggior parte delle stime, per un
valore di 220 milioni di dollari; addirittura il doppio secondo i calcoli del
«Wall Street Journal». Se si considera attendibile la prima valutazione, ne
risulta che nel corso di quella giornata il Tesoro degli Stati Uniti abbia
erogato, solo tramite la sua quota nel pool dell’oro, lingotti per un valore di
un milione di dollari ogni 3 minuti e 42 secondi. Se invece la cifra giusta
fosse quella del «Journal» (come sembrerebbe a giudicare da un successivo
annuncio del Tesoro americano) sarebbero bastati un minuto e 51 secondi
per far passare di mano l’equivalente in lingotti di un milione di dollari.
Cosí non poteva certo andare avanti. Proprio come in Gran Bretagna nel
1964, un simile ritmo di vendite avrebbe rischiato di svuotare i forzieri
americani nel giro di pochi giorni. Quel pomeriggio il Sistema della riserva
federale decise di portare il tasso di sconto dal 4,5 al 5 per cento: una
misura difensiva talmente timida e inadeguata che un banchiere di New
York la paragonò a un colpo sparato con un fucile a tappi; la Federal
Reserve Bank di New York, rappresentante del Sistema sui mercati valutari,
si rifiutò per protesta di applicare un rialzo che considerava pura apparenza.
Nel pomeriggio di New York (quasi mezzanotte a Londra), gli Stati Uniti
chiesero alla Gran Bretagna di tenere chiusi i mercati dell’oro nella giornata
successiva, venerdí, per evitare ulteriori catastrofi e aprire la strada alle
consultazioni internazionali che si sarebbero tenute nel weekend.
L’opinione pubblica americana, in gran parte ignara della stessa esistenza di
un pool dell’oro, intuí la gravità della situazione dai notiziari di venerdí
mattina, venendo a sapere che la regina Elisabetta si era riunita con i suoi
ministri per discutere della crisi tra la mezzanotte e l’una del mattino.
Venerdí fu un giorno di ansia e di attesa: i mercati di Londra e gli
sportelli di cambio valute in quasi tutto il resto del mondo rimasero chiusi,
ma sul mercato di Parigi – praticamente un mercato nero, dal punto di vista
degli americani – l’oro schizzò verso l’alto, mentre a New York la sterlina,
priva di sostegno per la chiusura a doppia mandata della Bank of England,
scese brevemente al di sotto del minimo ufficiale di 2,38 dollari ma
recuperò presto il terreno perduto. Nel fine settimana le banche centrali del
pool dell’oro (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania Ovest, Svizzera, Italia,
Olanda e Belgio: non la Francia, ancora latitante e questa volta neppure
invitata) si riunirono a Washington. A rappresentare la Fed c’erano Coombs
e il presidente Martin. Dopo due giorni di discussioni a porte ermeticamente
chiuse, mentre il mondo della finanza aspettava con il fiato sospeso, nel
tardo pomeriggio di domenica i delegati delle banche centrali annunciarono
le loro conclusioni. Il prezzo monetario ufficiale di 35 dollari per un’oncia
d’oro sarebbe stato utilizzato per tutte le operazioni tra banche centrali; il
pool dell’oro sarebbe stato sciolto e le banche centrali non avrebbero piú
rifornito di oro il mercato di Londra, che da allora in poi avrebbe effettuato
soltanto transazioni private al prezzo stabilito dal mercato; le banche
centrali che avessero tentato di ricavare un profitto dal differenziale tra il
prezzo ufficiale e quello del mercato libero sarebbero state passibili di
sanzioni; il mercato dell’oro di Londra, infine, sarebbe rimasto chiuso per
un paio di settimane, in attesa che il polverone si posasse. Grazie ai nuovi
accordi, alla riapertura dei mercati la sterlina mise a segno un netto
rimbalzo e il prezzo di libero mercato dell’oro si fermò leggermente al di
sopra di quello praticato dalle banche centrali, con uno scarto (da 2 a 5
dollari) nettamente inferiore alle aspettative di molti.
La crisi, o quanto meno quella crisi, era passata. Il dollaro aveva evitato
la svalutazione e il meccanismo monetario internazionale era rimasto
integro. E la soluzione trovata non era poi cosí drastica: dopo tutto la
doppia quotazione dell’oro era già in vigore nel 1960, prima che si
costituisse il pool dell’oro. Era però una soluzione temporanea, un
provvisorio tappabuchi: il sipario non era ancora calato sul dramma della
sterlina, che, come il fantasma di Amleto, era soltanto uscita di scena per un
attimo dopo aver messo in moto il dramma. Ora che l’estate si avvicinava,
gli attori principali sul palcoscenico erano: la Federal Reserve e il Tesoro
americano, che facevano quel che era tecnicamente in loro potere per
salvaguardare la normalità; un Congresso assai benevolo verso i ceti piú
abbienti e in ansia per le imminenti elezioni, tanto da opporsi all’aumento
della pressione fiscale e a qualsiasi misura di austerità considerata troppo
impopolare (nello stesso pomeriggio in cui a Londra regnava il panico, la
commissione finanze del Senato aveva respinto l’ipotesi di un’imposta
addizionale sui redditi); e infine un presidente che da un lato invocava un
«programma di austerità nazionale» a difesa del dollaro, ma dall’altro
spendeva sempre di piú per finanziare una guerra che ormai, a detta di
molti, minacciava gravemente la salute della moneta e della stessa anima
americana. In sostanza, la politica economica degli Stati Uniti si trovava di
fronte a tre possibilità: porre fine alla guerra in Vietnam, che in quanto
causa del disavanzo sulla bilancia dei pagamenti era di fatto la vera radice
del problema; rassegnarsi a un’economia di guerra in piena regola, con
tasse altissime, controlli sui prezzi e sui salari, e persino misure di
razionamento; oppure affrontare una svalutazione forzata del dollaro e,
forse, una tempesta monetaria mondiale che avrebbe potuto spianare la
strada alla depressione.
Puntando lo sguardo al di là del conflitto in Vietnam e delle sue
vastissime implicazioni monetarie, le banche centrali continuarono tuttavia
a darsi da fare. Due settimane dopo aver provvisoriamente risolto la crisi
del dollaro, i rappresentanti delle banche centrali dei dieci Paesi piú
industrializzati si riunirono a Stoccolma e si accordarono, con la sola
eccezione della Francia, per costruire poco alla volta una nuova unità
monetaria internazionale che rimpiazzasse l’oro nella funzione di substrato
roccioso di tutte le monete. Se alla decisione seguirà l’azione, la nuova
unità sarà costituita da diritti speciali di prelievo sul Fondo monetario
internazionale, resi disponibili alle nazioni in quantità proporzionale alle
riserve depositate. Nel gergo dei banchieri, la nuova moneta verrà per
l’appunto denominata «Diritti speciali di prelievo», ma la vox populi l’ha
già battezzata «oro di carta». L’operazione – che mira in sostanza a
scongiurare il rischio di svalutazione del dollaro e a compensare la carenza
di oro monetario, allontanando all’infinito il pericolo di una tempesta
monetaria mondiale – avrà successo soltanto se uomini e nazioni
riusciranno finalmente a far trionfare la ragione, soffocando – cosa che non
sono riusciti a fare in quasi quattro secoli di denaro cartaceo – uno dei piú
antichi e meno razionali impulsi umani, cioè la brama di guardare e toccare
l’oro. Riusciremo un giorno ad attribuire a una promessa scritta su un pezzo
di carta lo stesso valore di un pezzo d’oro? La risposta la avremo solo
nell’ultimo atto del dramma, ma le speranze di lieto fine appaiono fragili.

Mentre si preparava quell’ultimo atto – dopo la svalutazione della


sterlina, ma prima del panico dell’oro – andai in Liberty Street a parlare con
Coombs e Hayes. Coombs mi parve esausto, ma non scoraggiato dalla
coscienza di aver sprecato tre anni in una causa persa. «Io penso che la
battaglia per la sterlina non si sia combattuta invano, – mi disse. – Abbiamo
guadagnato tre anni, e nel frattempo gli inglesi hanno provveduto a
rafforzare l’economia interna. Se fossero stati costretti a svalutare già nel
1964, l’inflazione da prezzi e da salari avrebbe potuto neutralizzare tutti i
benefici, riportandoci al punto di partenza. Per di piú, in quei tre anni si
sono fatti progressi anche sul fronte della cooperazione internazionale. Dio
solo sa che fine avrebbe fatto il sistema, se si fosse svalutato nel 1964.
Senza quei tre anni di lavoro comune a livello internazionale – chiamiamola
pure “azione di retroguardia” – il crollo della sterlina avrebbe potuto essere
molto piú catastrofico, causando molti piú danni di quanti se ne vedano
oggi. Dopo tutto, i nostri sforzi e quelli delle altre banche centrali non erano
mirati a sorreggere la sterlina di per sé. Volevamo sorreggerla per il bene
del sistema. E il sistema, alla fine, è sopravvissuto».
Esteriormente, Hayes sembrava la stessa persona che avevo visto
l’ultima volta, placido e composto come se avesse passato tutto quel tempo
a preparare una vacanza a Corfú. Gli chiesi se rispettava ancora il suo
principio di non fare mai straordinari, e lui mi rispose, con un leggero
sorriso, che quel principio aveva abdicato da tempo alle esigenze di
opportunità, e che, in termini di consumo di tempo, la crisi della sterlina del
1964 era stata un gioco da ragazzi, se paragonata alla crisi del 1967 e alle
attuali difficoltà del dollaro. Ma quei tre anni e mezzo di intenso lavoro
erano pur serviti a qualcosa, aggiunse poi: i risvolti piú intensamente
melodrammatici della vicenda avevano contribuito a suscitare in Mrs Hayes
un qualche interesse per la finanza, e persino il giovane Tom aveva
riconsiderato il suo giudizio negativo sul mondo degli affari.
Quando affrontammo l’argomento della svalutazione, però, capii che la
flemma di Hayes era solo una maschera. «Oh, certo che ci sono rimasto
male, – mi disse in tono pacato. – Dopo tutto avevamo sudato sette camicie
per evitarla, e ci eravamo quasi riusciti. Sono convinto che la Gran
Bretagna avrebbe ottenuto aiuti esterni sufficienti a permetterle di non
modificare la parità. Si sarebbe potuto fare anche senza la Francia, ma alla
fine Londra ha deciso di svalutare. Secondo me ci sono buone probabilità
che si dimostri una scelta vincente. E sul piano della cooperazione
internazionale, i vantaggi sono piú che evidenti. Charlie Coombs e io ce ne
siamo accorti a novembre, alla riunione del pool dell’oro che si è tenuta a
Francoforte: la sensazione di tutti è che sia arrivato il momento di fare
fronte comune. Eppure…» Hayes tacque un istante, e quando riprese a
parlare la sua voce aveva un’eco di placida forza, tanto che io stesso riuscii
per un istante a vedere la svalutazione con i suoi occhi: non solo un grave
infortunio professionale ma la perdita di un ideale, la caduta di un idolo.
«Quel giorno di novembre, – disse infine, – quando il corriere mi consegnò
il documento top secret che ci informava dell’imminente svalutazione, mi
sono sentito fisicamente male. La sterlina non sarebbe mai piú stata quella
di prima. Il mondo non avrebbe mai piú avuto la stessa fede in lei».
Il libro

«R
A C C O N TA R E L’ECONOMIA COME LO FA C E VA BROOKS
nell’America degli anni Sessanta è un’arte. Brooks era un umile
artigiano del reportage, senza aspirazioni letterarie: fatti, solo fatti. Ma
che goduria».
Federico Rampini

«Uno scettico si chiederà cos’abbia da dirci una serie di articoli degli anni Sessanta,
sul mondo del business di oggi. Dopo tutto, nel 1966, quando Brooks scrisse il suo
ritratto di Xerox, la fotocopiatrice di quella marca pesava trecento chili, costava 27
500 dollari, richiedeva un operatore a tempo pieno e veniva venduta con l’estintore
in dotazione, per la facilità con cui si surriscaldava. Da allora sono cambiate
parecchie cose: ma non quelle fondamentali».
Bill Gates

Il piú rovinoso flop dell’industria automobilistica di tutti i tempi, il clamoroso


successo della prima macchina xerografica da ufficio, la causa legale da cui è partita
la normativa sull’insider trading. I saggi di John Brooks, pubblicati in origine negli
anni Sessanta, dopo essere stati «riscoperti» da personaggi del calibro di Warren
Buffett e Bill Gates, sono oggi considerati un caposaldo del pensiero economico.
Senza tecnicismi e con un gusto per l’ironia che rende spassoso persino un saggio sul
sistema fiscale americano, Brooks esamina otto vicende economiche e finanziarie
esemplari dalle quali continuiamo ad avere molto da imparare.
L’autore

John Brooks (1920-1993) è stato il giornalista finanziario del «New Yorker». Oltre
a questa raccolta di saggi, è autore di una decina di volumi su temi economici e
finanziari.
Titolo originale Business Adventures. Twelve Classic Tales from the World of Wall Street
© 1959, 1960, 1962, 1963, 1965, 1967, 1968 John Brooks. All rights reserved.
All of the material in this book has appeared in the «New Yorker»
in a slightly different form.
Italian language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale, Milano.
Per la scelta di saggi pubblicata nella presente edizione
© 2016 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: foto © Phil Banko / Stone / Getty Images.
Progetto grafico: Riccardo Falcinelli.

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Ebook ISBN 9788858421598

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