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Vittorino Andreoli “PRINCIPIA” “Avvenire” 12.02.

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Nel ‘600 la scienza aveva asserito che l’universo, e anche l’uomo che ne è parte, ha una struttura
meccanica, determinata. Ciò ha scatenato una critica che ha preso due forme: la prima “leggere”,
interna alla stessa scienza, che ha cercato di salvarne il valore e qualche spazio per la libertà
dell’uomo; la seconda è stata un attacco distruttivo da parte della filosofia. Si è passati così da una
scienza intesa come verità assoluta a una vista come strumento relativo di conoscenza.

1- Quanto siamo lontani dalla concezione di tre secoli fa, allorché sembrava che ogni segreto
della natura stesse per essere svelato.
2- La scienza non ha risolto i problemi della conoscenza, semmai li ha complicati e ha lasciato
l’uomo nel dubbio
3- Il problema del nostro tempo è se la civiltà fondata sulla ragione possa sopravvivere,
mentre la ragione crolla o è già del tutto scomparsa.
4- Quando il mondo classico decadde non se ne rese conto. Pensava anzi di essere progredito
con il suo lavoro “enciclopedico”.

(3) Scienza, il ko dei filosofi

A generare la crisi della scienza ha concorso la sua incapacità di rispondere alle esigenze di libertà
dell’uomo: dentro il determinismo assoluto l’uomo si riduce a un ingranaggio fatale nella grande
macchina della natura. Non a caso è stata la filosofia a contribuire in modo determinante ad
incrinare la forza titanica con la quale la scienza si era imposta, e ad incrinare al tempo stesso il suo
futuro quale unica modalità di conoscenza...
Occorre ricordare tuttavia che anche all’interno del mondo scientifico, che nella seconda metà
dell’Ottocento si identificava con il positivismo, vi era stato chi aveva criticato l’indebita estensione
del principio di causalità (ad ogni effetto occorre sempre una causa che lo produca), constatato certo
nei fenomeni osservati, ma allargato con determinismo assoluto alla natura, fino a negare
conseguentemente la libertà nell’uomo.

MODERATA AUTOCRITICA
Antoine Augustin Cournot aveva osservato che, a rigore, noi constatiamo tante singole serie di
cause, le quali ci portano a spiegare il perché dei fenomeni, seppure queste stesse serie siano
indipendenti l’una dall’altra, e quindi isolabili. La nostra conoscenza riguarda dunque sempre
pezzetti di una natura che nel suo insieme ci sfugge. I fenomeni si associano o si giustappongono
sotto l’impulso di un’azione che è insieme transitoria e inspiegabile. Questo «incontro irrazionale di
serie causali o indipendenti» costituisce il caso, che è necessario ammettere anche se esclude tanto
la razionalità del reale quanto la sua rigorosa causalità deterministica (A.A. Cournot, Théorie des
chances et des probabilités, Paris 1843, cap. II). Insomma, la scienza studia singoli avvenimenti e
stabilisce come questi siano legati e preceduti – in ciascun fenomeno – da cause specifiche, diverse
l’una dall’altra. Per cui, se non si può dire che un fenomeno è prodotto dal caso, si può tuttavia
affermare «che due o più fenomeni sono riuniti dal caso» ( John Stuart Mill, System of Logic, 1843,
l.III, cap.XVII, par.2). Ammettere pertanto un rapporto di causa ed effetto per il singolo fenomeno
non significa estendere questo principio al mondo intero e alla natura nel suo complesso, quanto
meno una simile estensione non è possibile dimostrarla scientificamente.
E qui, proprio dalle quinte della scienza, ecco far capolino il caso, una sorta di demonietto che
ancora una volta appare senza sapere perché, e senza una motivazione scientifica che lo
giustifichi.
Roberto Ardigò parlò al riguardo di «concetto positivo del caso». La natura – sosteneva – era sì
regolata secondo il più rigido meccanicismo, sicché non si poteva affermare vero alcun effetto
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senza una causa determinante, ma la stessa natura può svolgersi in modi infinitamente diversi,
poiché non vi è una successione prestabilita di forme determinate. Ogni fatto, ogni evento è
strettamente legato alla sua causa, ma questa avrebbe potuto causare infiniti altri fatti e comporre
infiniti altri ritmi, nessuno dei quali è preordinato e quindi prevedibile: «l’ordine col caso e il caso
con l’ordine». Esiste un ordine ed esisterà sempre, ma è un caso che esso si realizzi in un certo
modo piuttosto che in un altro.
Si fonda così dentro la natura un certo empirismo, che si oppone al determinismo, e dunque alla
certezza del fenomeno naturale. Viene in tal modo confutata la possibilità di prevedere il futuro (cfr.
La formazione naturale nel fatto del sistema solare, 1877, con un’importante aggiunta sul "caso" in
Opere, vol. II, Padova 1884).
A ben vedere, è qui condotto il tentativo di negare il determinismo basandosi sul caso, anche se ciò
è difficilmente definibile. E se viene in mente Bacone secondo cui «ciò che il caso è nell’universo,
nell’uomo è la volontà», è per affermare recisamente che «caso è il nome di una cosa che non
esiste» (Novum Organum, I, 60).
Rimane certo che il caso ha una grande forza per il tema ora assai sentito della libertà. E s’è
peraltro già detto come l’esigenza di libertà sia la motivazione forte nella critica alla scienza.
Ma se osservando un fenomeno occorre trovare la causa sua specifica, andando al primo fenomeno,
in principio, quale può essere la sua causa? Charles Renouvier e lo spiritualista Rudolph Hermann
Lotze osservavano che la serie causale può sì non avere fine, ma deve avere un principio: un libero
inizio che darebbe origine, non essendo esso stato causato, alla serie necessaria successiva; sicché,
almeno agli inizi, la libertà poteva essere ammessa.
Anche Alfred Fouillée aveva cercato di salvare la libertà senza distruggere il determinismo nel suo
libro sulle idee-forza (La liberté et le déterminisme, Paris 1872). Le idee – diceva – nascono, come
tutto nasce nell’universo, per cause determinanti, e non sono quindi libere, ma forze nuove che, una
volta sorte, influiscono sulla realtà determinandone a loro volta il corso e quindi un corso che non
era in tutto prevedibile.
Con questa autocritica non si esce ancora dalla scienza, ma ci si allontana dal meccanicismo fatale
di Laplace, poiché nell’universo, contrariamente a quanto egli affermava, non si può certo
prevedere lo stato futuro del mondo.
Accenni, questi, che senza voler distruggere nelle sue linee generali il quadro dell’universo fisico
che la scienza aveva rappresentato, ne combattono tuttavia l’estensione universale.

PROCESSO ALLA SCIENZA


Ma è alla filosofia che spetta il compito del vero e proprio assalto ai positivisti, anche a quelli
capaci di un’autocritica. Si fa incominciare il "processo alla scienza", ossia la sua ufficiale messa in
stato di accusa, in Francia ad opera del gruppo della cosiddetta "philosophie universitaire". E già il
portare sul banco degli imputati la scienza significava sminuirne la regalità. «Il s’est produit en effet
de nos jours – scrive Adrien Naville – un phénomène assez etonnant, c’est que la royauté de la
science a étée contestée» (in Revue de Théologie et de Philosophie, n. 16, sept.-oct. 1915).
Cominciò Jules Lachelier, con la tesi Du fondement de l’induction (1871), in cui cercava di
dimostrare, sulle orme di Kant, che l’ordine secondo cui si succedono i fenomeni è da legare al
pensiero. Sosteneva inoltre che la più elevata conoscenza non riguarda tanto il mondo esterno,
quanto il pensiero e la sua propria natura. La critica alla scienza suona particolarmente dura, poiché
dice agli scienziati che si illudono se credono con i loro metodi di affrontare e comprendere il
mondo esterno, dal momento che si limitano a svelare il pensiero che ordina e determina le loro
ricerche.
Due anni più tardi un giovane allievo di Lachelier, Emile Boutroux, presenterà una tesi, De la
contingence dans les lois de la nature, che sarà il primo elaborato a condurre una sistematica e
decisa critica della conoscenza scientifica. Aveva lo scopo di «scrollare il postulato che rende
inconcepibile l’intervento della libertà nel corso dei fenomeni», il postulato cioè della necessità
assoluta di ciò che accade. Parte così il grande impegno di Boutroux che, vent’anni dopo (1893),

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nell’opera De l’idée de loi naturelle dans la science e dans la philosophie contemporaine
completerà le sue teorie.
La realtà, per Boutroux, si svolge per salti imprevedibili; l’ordine e la necessità vi sono
introdotti dal pensiero, la legge stessa è opera del pensiero. Vi è sì qualcosa "a parte
naturale", una certa uniformità, ma ciò può essere spiegato psicologicamente.
Non proviamo forse in noi stessi come, attraverso l’abitudine, la libertà si attenui fino a diventare
spesso una dura catena, avvertita talora come infrangibile, cioè come se fosse una legge necessaria?
Si può dunque considerare meccanico ciò che è semplicemente abitudinario, e che pur è partito
casualmente. E non era possibile per Boutroux far riferimento ai comportamenti ossessivi, alla
coazione a ripetere gesti che sembrano meccanici e insopprimibili, ma che nascono dal caso o da
esigenze psicologiche.
L’idea che la scienza studi la realtà vestendola della mente e dei suoi principi ha un solo
presupposto, che vi sia cioè una stretta analogia tra natura e spirito, e che l’attore principale
si collochi nello spirito (immateriale).
Questi filosofi erano ormai entrati nel cuore della critica, e non di una singola scienza, ma della
scienza nel suo complesso. Ed è a questo punto che il castello della scienza classica comincia a
tremare non solo per gli scienziati che fanno la scienza, ma anche per i filosofi che indagano sulle
questioni teoretiche del sapere scientifico.

LA SCIENZA RIDIMENSIONATA
L’esempio forse più significativo di questa stagione è di un gruppo di fisici capeggiati da James
Clerk Maxwell, per i quali la scienza non può darci la verità, né ha questo come fine: essa ha
piuttosto una funzione pratica, indirizzata com’è all’azione. Per giungere a ciò, la scienza ha
bisogno di formulare i suoi concetti, rappresentandoli mediante immagini sensibili, cioè mediante
modelli meccanici che sono fondati su semplici analogie. Le immagini non rappresentano la realtà,
ma la simboleggiano soltanto: possono quindi essere sempre sostituite da altre che risultino in
quella circostanza più adatte. Non sono né vere né false, ma verosimili e utili. Insomma detto in
maniera semplice, la scienza è un mezzo di conoscenza, una modalità per avvicinarsi a capire il
mondo, e in quanto tale non può arrogarsi né l’esclusività del sapere, né quello della verità.
Sul finire del secolo, massimo difensore di questo indirizzo fu William Thomson (Lord Kelvin). «Io
non accetto nulla – egli diceva – di cui non possa immaginare un modello». Ed aggiungeva: «Mi
sembra che il vero senso della domanda: comprendiamo noi o no un dato fisico? Sia questo:
possiamo costruire un modello meccanico corrispondente?» (Lectures in molecular Dynamics,
London 1904, p. 131). Insomma, la scienza capisce in quanto fa dei modelli di ciò che intende
studiare.
Piccola pausa e cerchiamo di fare il punto.
Dunque, la scienza nel Seicento si era affermata come modalità unica del sapere e del sapere
definitivo, e aveva asserito che l’universo, e anche l’uomo che ne è parte, ha una struttura
meccanica (si parlò persino di homme machine) fatalmente determinata. Era una scienza che negava
di conseguenza la libertà, ridotta ad un’illusione.
Ciò scatenò la critica che prese due espressioni: la prima "leggera", interna alla stessa
scienza, che cercava di salvarne il valore e anche una qualche libertà minore, e una seconda
nella forma di un vero attacco distruttivo da parte della filosofia.
Si giunge così a concepire la scienza come una modalità del sapere, una delle vie di conoscenza che
si caratterizza semplicemente per un suo proprio modo di studiare: riproducendo nei laboratori i
fenomeni che si vedono in natura, e quindi studiando la realtà attraverso dei suoi modelli.
Il salto tra scienza come verità e scienza come strumento relativo di conoscenza, è enorme. Ma non
è finita.

I MODELLI MECCANICI

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La teoria dei modelli meccanici trovò degli oppositori che la definirono "mitologia meccanica". Tra
questi Ernst Mach (Analisi delle sensazioni, 1886) e Richard Avenarius (La critica della esperienza
pura, 1888-90). Essi sostenevano che la realtà è costituita da fenomeni – i "fatti" – oggetto di
esperienza, che la mente raccoglie in classi per ragioni esclusivamente pratiche e conformemente a
un principio di economia. Si tratta cioè di comode abbreviazioni della immensamente ricca
molteplicità dei fatti: tutta la coerenza non è che adattamento economico. Altro che verità, dunque.
L’unica realtà e veri elementi del mondo sono le sensazioni, e il fenomenismo è il limite
insuperabile dell’indagine naturale. Ciò significa pure che il confine tra fisico e psicologico è
puramente pratico e convenzionale.
Ce n’è abbastanza allora per non veder più, se non immerso nell’ombra, il grande edificio della
scienza quale perfezione e quale unica conoscenza che porta alla verità.
Anche Karl Pearson (The Grammar of Sciences, London 1892) e i pragmatisti giungono ad
analoghe conclusioni, e così in Francia Henri Poincaré (cfr. l’articolo «Les géométries non
euclidiennes» del 1901 nel vol. La science et l’hypothèse, Paris 1902). Per Poincaré la scienza si
fonda su convenzioni accettate come convenienti, perché in grado di giustificare i fatti sperimentali:
le "convenzioni giustificate" (La Valeur de la Science, Paris 1909). In altre parole, la scienza non ci
dà tanto la verità oggettiva quanto solamente una sua concezione legalistica.
Ma se questo è la scienza, trova forza il ritorno della filosofia, con un problema nuovo: quello di
come distinguere l’una dall’altra.

ET-ET, NON AUT – AUT


Il percorso compiuto dalla scienza dall’inizio del Seicento, aveva messo da parte la filosofia come
vecchio sistema di conoscenza, privo di un andamento progressivo, riducendola a mero gioco di
idee e parole senza un controllo, senza un metodo rigoroso quale quello scientifico e sperimentale.
Sul finire dell’Ottocento e agli albori del Novecento, la scienza entra in crisi e risorge la filosofia,
che ha solo bisogno di definire i suoi campi propri, non confondibili con quelli della scienza.
La caduta della scienza, che sta forse all’origine di quella caduta dei princìpi che a noi giunge
ormai nella forma di un massacro, può essere letta e riscontrata anche nella cultura in
generale, per esempio nella letteratura.
Mentre nel 1848 Ernest Renan aveva inteso dare ali alle più accese speranze in quel vangelo dello
scientismo che fu il suo Avenir de la science (pubblicato solo nel 1889), nel 1894 Ferdinand
Brunetière pensava di poter addirittura proclamare «la banqueroute de la science» (cfr. «Visite au
Vatican», in Revue des Deux Mondes). Secondo questo letterato, la scienza era fallita perché non
era riuscita a risolvere alcuno dei problemi che assillavano l’umanità: l’origine della vita, il destino
dell’uomo, Dio e via di questo passo. Un giudizio affrettato, certo, ma significativo di un particolare
modo in cui era vissuta in quel periodo la scienza. La quale forse non era fallita, ma occorreva
ridimensionarla, per non trovarsi a pretendere da lei ciò che non doveva né poteva dare.
Tuttavia questo processo era servito a dimostrare che quella concezione classica della scienza, nata
nel Seicento, apparsa perfetta e indistruttibile, era ormai permeata di troppo dogmatismo. E che il
determinismo, niente affatto provato, consisteva dunque in un’affermazione non scientifica: per
darvi un fondamento non si era necessariamente costretti a fare della libertà un’illusione.
Insomma, si animò una guerra sul problema della libertà difesa dalla filosofia e contro il
determinismo della scienza. Una guerra che, nella seconda metà dell’Ottocento, vede contrapposte
schematicamente due posizioni: da una parte il romanticismo e la filosofia di Hegel, la
Naturphilosophie, che avevano proclamato la sovranità della filosofia, all’interno della quale
doveva risolversi la scienza, e dall’altra lo scientismo che, sotto l’influsso del positivismo, aveva
proclamato la sovranità della scienza fino al disprezzo di ogni filosofia e alla caduta della
metafisica. Una guerra che lasciò strascichi per molto tempo: su un versante c’erano infatti i
sostenitori di una scienza pura, empirica, che deploravano l’intrusione della filosofia; sull’altro i
sostenitori della filosofia che rilevavano invece i mali della scienza.

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SCIENZA E TECNOLOGIA
Bisogna però fare ora riferimento alla tecnologia. Si ammetteva che la scienza genera la tecnologia:
con i suoi vantaggi ma anche con i danni che essa determina, altrettanto evidenti. E proprio in
questa relazione si arrivò persino ad intravedere nella scienza un male. «Sapere è potere, è stato
detto; ma ahimè, se il potere è bene, è anche potere il male» (Louis de Broglie, Materia e luce, p.
390).
Non è facile separare le due dimensioni, della scienza e della tecnologia. E sovente i danni della
tecnica si riversano negativamente sulla scienza. Goethe stesso fa sì che Faust, l’eroe del secolo,
esplorati i campi dello spirito e dell’esistenza terrena, rivolga alla tecnica il suo ultimo pensiero:
morente, placato, davanti alla visione delle vaste lande demoniacamente bonificate, sa che nella
tecnica si adempirà il destino dell’economia, ma non dello spirito. Faust non si è redento, e la
maledizione mefistofelica ha continuato a tormentare i suoi seguaci: la tecnica non è sufficiente a
redimere.
In altre parole, non sarà la sola tecnica a salvare una civiltà.
Un esempio: se la civiltà greco-romana cadde, ciò fu per il lento oscuramento e per la dispersione di
un patrimonio culturale faticosamente accumulato, e non per ragioni esterne come le invasioni
barbariche. Finché il desiderio di fedeltà alla propria storia resta vivo, e forse oggi non lo è più
dentro la nostra civiltà, non c’è da temere né decadenza né fine, e ciò a prescindere dalla tecnologia.
La Serenissima Repubblica di Venezia, ad un certo punto, crolla dopo un dominio durato un
millennio, e non si riesce ad individuare alcun fatto rilevante che possa giustificare la sua fine. A
venire meno sono piuttosto la perdita di "fiducia" nelle istituzioni che ne erano state alla base e il
modo stesso di percepire Venezia e il suo ruolo. Insomma, la caduta è prima di tutto legata alla
stanchezza, all’esaurimento dei capisaldi (i principi) e della cultura che l’aveva vista nascere e
dominare con un suo stile proprio e mai più ripetuto poi nella storia. Dal canto suo, José Ortega Y
Gasset grida un allarme specifico ne La ribellione delle masse (1929-30). Lì parla infatti di
«barbarie della specializzazione», che è un fenomeno tipico delle scienze e delle tecnologie sia pure
in senso ampio.
Insomma non è alla tecnologia che può legarsi una civiltà, e nemmeno la sua fine. Problema
del nostro tempo piuttosto è se la civiltà, fondata sulla ragione, possa sopravvivere mentre la
ragione crolla o è già del tutto scomparsa.
Quando la scienza del mondo classico decadde, i suoi contemporanei non se ne resero conto, essi
pensavano anzi di avere progredito sostituendo con vaste e ben ordinate enciclopedie gli scritti
frammentari e disordinati dei precursori. E quando la superstizione dominò tramite i neopitagorici e
gli ultimi rappresentanti del neoplatonismo, gli uomini del tempo non si resero conto che stavano
perdendo qualcosa di prezioso, la sobria chiarezza della ragione e i tesori del sapere, al contrario
erano convinti di scoprire o riscoprire mondi nuovi e ben più ricchi. Una decadenza morale vera e
propria si ha quando il senso dell’onesto si ottunde, e non quando i moralisti tuonano contro la
corruzione dei tempi.
Che la scienza sia oggi in crisi è indubbio, ma occorre vedere in che cosa consista questa crisi. I
grandi risultati che la scienza continua ad accumulare sono fuori discussione, tanto appaiono
prodigiosi, ma a ben guardare essi intaccano la vita materiale, non il sapere vero e proprio.
Anzitutto sono i risultati stessi a costituire un problema, per il differente uso che se ne può fare: non
sono il bene in sé, ma devono loro – ossia questi risultati – servire al bene, che però le scienze del
mondo fisico non sanno da sole definire o indicare.
La Scientia deve essere guidata dalla Sapientia, avrebbe detto uno stoico. Ed ecco quindi come
dalla scienza nasca un problema filosofico, che deve assolutamente coinvolgere lo scienziato, in
quanto uomo. Inoltre, se non si può andare contro la scienza, pretendendo di correggerla in base alle
nostre esigenze e ai nostri princìpi, non ci si deve neppure aspettare che la scienza possa fornirci la
soluzione di quei problemi insopprimibili che sono veramente e genuinamente filosofici.
Non si può nutrire l’illusione scientista che i problemi che toccano più da vicino l’umanità
possano essere risolti, o lo saranno un giorno, grazie a qualche scoperta scientifica.

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I fatti, insomma, che sono campo esclusivo della scienza sperimentale, non bastano più a se stessi:
per riuscire a spiegarli è necessario introdurre uno straordinario numero di ipotesi, e queste sono
attualmente così contrastanti tra loro da costituire da sole un problema, una questione di tale
complessità che non può, almeno per ora, esser risolta sperimentalmente. In altre parole, la scienza
scopre in sé tutto un mondo di problemi che sono eminentemente di natura filosofica, al punto da
diventare essa stessa, nel suo costituirsi e svilupparsi, un problema filosofico. A tale proposito,
viene in mente un celebre libro, Man, the Unknown, di Alexis Carrell (trad. it., L’uomo, questo
sconosciuto, Bompiani 1939), ma anche: The mysterious Universe di James Jeans (trad. it., 1930).
Quanto lontani siamo dalla "pacifica filosofia sicura" del Settecento, allorché sembrava che ogni
segreto della natura fosse stato svelato o stesse per esserlo. Mentre ritorna l’antico ammonimento
socratico che nel V secolo a. C. proclamava nelle piazze di Atene: «Unum scio, nihil scire». Ma
anche nell’Eneide (IX, 742) leggiamo: «Hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem».
Insomma, la scienza si pone come una grande costruzione umana che non risolve i problemi
dell’uomo ma semplicemente li esprime.
Hugo Dingler afferma: «La crisi della scienza moderna non può essere risolta se la scienza moderna
non acquista uno spirito filosofico» (in: Der Zusammenbruch der Wissenschaft und der Primat der
Philosophie, München 1926) e il biologo Ludwig van Bertalanffy proclama la necessità di porre a
fondamento della biologia sperimentale una biologia teoretica, che è poi disciplina filosofica. E per
promuovere questo studio fu fondata a Leyda nel 1935 una apposita rivista: gli Acta biotheoretica.

Non c’è dunque dubbio alcuno, la scienza non ha risolto i problemi della conoscenza, semmai li ha
complicati e, a parte i progressi nella vita pratica e i disagi che vi si mescolano, ha lasciato l’uomo
nel dubbio, nell’incertezza, quando non nella disperazione. In questo senso si parla di crisi di una
civiltà, e a farlo non sono certo delle Cassandre, ma già Spengler, nel Tramonto dell’Occidente,
parla di una decadenza della civiltà legata all’incertezza della scienza e all’indeterminazione di ciò
che questa ci racconta.
Non siamo lontani da quanto diceva un medico veronese del Cinquecento, Gerolamo Fracastoro,
scopritore delle cause della sifilide (il Treponema pallidum) nell’epistola a Flaminium et Galeatum
Florimontium: «Che dirò mai ch’io faccia, qual vita dirò ch’io conduca se, misero, inquieto, indago
sempre ed invano il mondo che mi sfugge, se, appena per poco si mostra, a me, sì come Proteo, già
presto mutato d’aspetto, in mille modi m’inganna?» (trad. G. Lentini - G. Carabba).

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