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Da una diagnosi generale della “malattia dei princìpi”ad un’analisi dettagliata della sua genesi e dei
suoi esiti terminali della società di oggi. È il viaggio intrapreso da Vittorino Andreoli, che in questa
seconda tappa esamina la nascita, la crisi e il declino dei grandi paradigmi scientifici.
1- A partire dal XVII secolo la scienza ha esercitato un suo dominio, quasi una «signoria»
come le grandi dinastie europee
2- La sua crisi inizia secondo molti alla fine dell’800. Le numerose scoperte avute in seguito
sono da porsi dentro l’ambito dell’empirismo
3- Si è poi fatta strada l’idea che la scienza sia negativa perché ha prodotto problemi maggiori
dei suoi pur evidenti benefici.
4- Questo ha significato una drammatica caduta di certezze, riversatasi sulla visione della vita
e sull’attuale morte dei «principia»
SI PARTE
Dopo lo sguardo dato domenica scorsa alla condizione in cui si trovano i princìpi dentro il nostro
tempo, e dopo quella percezione immediata che abbiamo avuto così carica di preoccupazione, ora
iniziamo concretamente un viaggio che non si baserà su delle semplici, precarie impressioni, ma si
calerà più in profondità, attraverso un percorso di analisi vera, che vuol portare ad evidenza il
"come stanno davvero le cose" e come ha potuto effettivamente determinarsi la condizione di crisi
in cui ci troviamo.
Non siamo arrivati a caso al punto odierno. È stato fatto un tragitto preciso lungo i decenni, che ora
noi a ritroso ripercorriamo per rendercene conto meglio. Un itinerario che non è eccentrico rispetto
alle cose che contano, in quanto passa addirittura dentro la scienza. Perché? Ma perché non è
nemmeno pensabile una scienza che non abbia princìpi e metodo. Anzi, quale migliore terreno per
mostrare quanto i princìpi si fossero ben insediati? E mostrare, aggiungiamo subito, come essi siano
poi anche morti? La morte dei princìpi appunto, rilevata innanzitutto in quello che è il regno dei
princìpi, cioè la scienza.
Qualche lettore potrebbe ritenerlo, questo, un cammino un po’ lungo, perché ha voglia che si arrivi
subito a parlare del comportamento dell’uomo.
Noi pensiamo invece che convenga fare una strada un po’ più lunga e si debba passare
proprio attraverso la vicenda dei princìpi dentro la scienza, in quanto quella vicenda risulterà
decisamente incisiva anche per comprendere la nostra realtà odierna.
Tale tragitto dentro la scienza infatti mostra la via attraverso cui i princìpi si sono chiarissimamente
affermati, ma anche le diatribe che hanno portato alla loro distruzione. Ebbene, solamente attraverso
un simile percorso potremo evidenziare la dimensione dei princìpi dentro la nostra cultura e la
nostra mentalità e preparare il contesto per scavare attorno ai princìpi del comportamento umano
dell’uomo di oggi.
Sapete cosa serve per un simile viaggio? Un equipaggiamento speciale, ossia quella voglia di capire
in profondità che si distanzia al quanto dalla pseudo-cultura dominante che, per rendere tutto
semplice, nasconde o banalizza ogni problema. Voglia di capire che significa anche meditare,
ritornare talvolta sopra le righe appena lette per cogliere quei significati che ad una prima scorsa
sfuggono, come significa anche appropriarsi di qualche illuminante sentenza di questo o
quell’autore che verrà indicata lungo il tragitto. Insomma, bisogna fare quello che non si fa di solito
con un giornale, ma che per una volta vale la pena tentare. Nessun riferimento è messo lì a caso, o
per lusso. Queste pagine sono una sorta di mappa per arrivare effettivamente alla comprensione
della realtà che ci morde dentro.
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Occorre dunque dotarsi di curiosità, e poi di fiducia in chi vi guida: proprio come una guida,
desidero mostrare dei punti, indicarveli, perché guardandoli possiate voi stessi aggiungere le vostre
osservazioni, il portato della vostra sensibilità. So bene che non vi condurrò in giro per un parco di
divertimenti, ma dentro la testa e il pensiero di tanti autori che hanno fatto la nostra storia, e la
storia dei princìpi di cui oggi soffriamo la distruzione. Ma è tempo di andare, cioè di pensare, e non
escludo che scopriate (molti lo sanno già) che pensare è persino divertente, e al contempo utile, anzi
molto utile.
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Ma crisi della scienza significa veramente una caduta di princìpi straordinariamente forti che – e
questo fa parte della nostra ipotesi – si è poi riversata sull’empirismo del vivere e sull’attuale morte
dei princìpi.
Per capire ciò che è andato in crisi, e per capire meglio come questo sia avvenuto, è opportuno
richiamare sia pure schematicamente che cosa erano la scienza e la sua forza, che pure tanto
avevano colpito Kant. Guardare cioè alla fase di entusiasmo, prima di quella della caduta.
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Ogni scienziato infine, ove gli fosse stato chiesto che cosa intendesse per scienza, non avrebbe
esitato a rispondere all’incirca così: una conoscenza definitiva del mondo conseguita
attraverso l’osservazione e l’esperimento, e con la misurazione dei fenomeni oltre alla
scoperta delle leggi regolatrici del reale.
Si era raggiunta, insomma, una concezione perfetta della scienza e dei suoi metodi.
Le manchevolezze, le lacune e talora le contraddizioni che pur si riscontravano qua e là nelle
trattazioni delle singole discipline non potevano dipendere che dalla incompleta conoscenza dei
fenomeni stessi: lo studio le avrebbe via via eliminate tutte e l’edificio della scienza, ordinatissimo
nelle sue fondamenta, si sarebbe completato a poco a poco fino a raggiungere la perfezione. I
meravigliosi progressi della scienza sperimentale alimentavano, a fine Ottocento, le vive speranze
degli scienziati e della maggior parte degli uomini colti.
LA SCIENZA E L’UOMO.
È fuori discussione che l’idea di un mondo perfettamente comprensibile e riducibile dentro le
formule della matematica, e dunque in una previsione di perfezione, fosse molto rassicurante.
Anche se nel Settecento non si era ancora passati all’elemento umano e alle scienze antropologiche,
c’erano buone premesse, in questo campo, per poter affermare che pure l’uomo è e deve essere un
oggetto geometrico e logico, pure lui sottoposto a leggi, e dunque a una vita che può essere
ricondotta all’interno di regole comprensibili e persino perfette. L’esserne ancora lontani dipendeva
solo dalla constatazione che il lavoro della scienza non era completato e molto restava da fare:
l’ignoramus non significava affatto ignorabimus: non lo sappiamo adesso ma lo sapremo molto
presto. Tale era la sicurezza che la "Signoria della Scienza" aveva fornito a una civiltà che per più
di tre secoli si era fondata su questa via della certezza e della verità definitive. È questo il castello
che cominciò a vacillare a partire dai primi anni del Novecento, quando iniziò la crisi nelle certezze
della scienza, si avviò la fine delle leggi che diverranno sempre più parziali e dubbie, soprattutto si
avvicinò la disgregazione dei princìpi che su quell’assetto regnavano.
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libertà, quella propria di uno che, sorpreso nella campagna da un acquazzone, non solo non
potrebbe cercare un riparo, ma neppure dovrebbe lamentarsi, nel secondo si mette in gioco
addirittura l’ordine della natura. E l’essere libero sarebbe come un folle che danza allegro e per
proprio conto nel bel mezzo di una perfezione prestabilita, o come un gatto dispettoso che con un
balzo crea scompiglio su una tavola accuratamente apparecchiata o, se ancora si preferisce, come un
bimbo che getta un sasso dentro gli ingranaggi di una macchina perfetta. Anche ammettendo che vi
sia nella natura una qualche capacità di ristabilire l’ordine violato dal turbolento intervento
dell’essere libero, difficilmente si riuscirebbe a salvare il determinismo: in questo caso, infatti,
cadrebbe la possibilità di prevedere un qualsiasi stato futuro. E d’altra parte, quand’anche la natura
avesse questa capacità di ricostituirsi nel proprio ordine, quasi assorbendo o eliminando da sé ogni
alterazione, essa possederebbe quella che è forse la più spiccata caratteristica degli organismi
viventi: la libertà di agire, di operare.
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Gli scienziati, da parte loro, rendendosi conto dell’antinomia, non se ne preoccuparono mai troppo,
sanandola talvolta con un ricorso alla fede che non doveva essere oggetto di ricerca scientifica.
Racconta Gabriel Hanotaux, nella prefazione al Déclin du Moyen Age di Johan Huizinga, che Louis
Pasteur, interrogato da Hippolyte Taine all’Accademia sull’argomento della fede, rispondeva
tranquillamente: «Noi non troviamo ciò nei nostri alambicchi»: saggia risposta, forse, ma che non
serviva a risolvere il problema, troppo importante d’altra parte perché si potesse eluderlo.
Né vale a risolverlo il contrapporre, come fece la scuola di Cousin, la coscienza al determinismo
della scienza; e infatti la prima poteva anche essere facilmente spiegata (nei termini con cui aveva
fatto Spinoza, e dopo di lui Leibniz ) come un epifenomeno, un’illusione: l’illusione del sasso che,
lanciato nell’aria e ignorando le cause del suo andare, si crede libero.
Insomma, sarà proprio il problema della libertà, quello che non si riusciva ad inserire nel sistema
della perfezione scientifica,
A spingere prima verso una soluzione filosofica che potesse salvare il grande valore della
scienza insieme all’esigenza della libertà, e successivamente a portare inesorabilmente a
criticare la scienza, le sue premesse e persino i propri statuti.
Cominciò a profilarsi allora la presa di coscienza che anche in periodi pre-scientifici come il
Rinascimento, prima dunque di Bacone e di Cartesio, si fossero ottenuti, senza l’applicazione di
alcuna vera propria metodologia, frutti magnifici (Th. H. Huxley, Methods and Results, London
1894, pp. 46-47).
D’altra parte Gaston Bachelard dichiara che ogni metodo sia sperimentale che razionale, come ogni
concetto, finisce con il trascorrere del tempo per perdere ogni fecondità, sicché «un discours sur la
méthode scientifique sera toujours un discours de circonstance, il ne décrira pas une constitution
definitive de l’esprit scientifique» (Le nouvel esprit scientifique, Paris 1937, pp. 10 e 147).