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GIACOMO LEOPARDI

Nasce a Recanati nel 1798. In una prima fase del suo pensiero, detta
pessimismo storico, Leopardi giunge alla conclusione che la sofferenza degli
uomini non dipende dalla natura, ma dall'evoluzione della civiltà nel suo
progredire storico. Alle origini i popoli antichi vivevano a stretto contatto con
la natura che, come madre benevola, li aveva dotati della capacità di
immaginare che è tipica dell'infanzia. Tuttavia il progressivo affermarsi della
ragione e della civiltà ha allontanato le illusioni generate dalla natura,
sprofondando gli uomini nell'angoscia.

Nella seconda fase elabora la teoria del piacere: l'autore constata che l'uomo
tende al raggiungimento del piacere che coincide con la felicità, tuttavia
l'uomo desidera un piacere infinito e assoluto nello spazio e nel tempo che
non esiste in natura. Dalla sproporzione fra il desiderio dell'uomo di un
piacere infinito e la finitezza della realtà nasce l'infelicità dell'uomo. L'unica
via attraverso cui l'uomo può raggiungere il piacere illusorio sono
l'immaginazione e la fantasia, nella forma del ricordo di un piacere passato o
dell'attesa di un piacere futuro.

Nella fase del pessimismo cosmico, l'infelicità dell'uomo è vista come un dato
assoluto e ineliminabile, che riguarda tutti gli uomini e tutte le creature
viventi di ogni epoca. Leopardi non concepisce più la natura come una madre
benevola, ma come un meccanismo cieco e crudele, che ha come unico scopo
la perpetuazione dell'esistenza, secondo un ciclo che comporta la nascita e la
morte dei singoli individui. La natura è del tutto indifferente al benessere
delle sue creature, che tormenta con ogni genere di mali.

Nell'ultima fase della sua poesia, detta titanismo eroico, Leopardi riscopre il
valore della solidarietà umana. Nella ginestra, suo testamento poetico,
l'autore rivolge all'umanità un alto insegnamento morale e civile: gli uomini
dovrebbero unirsi in social catena, di fronte al vero nemico, la natura
matrigna.

L'INFINITO

Composto a Recanati nel 1819, l'Infinito è il primo dei cosiddetti idilli. Il poeta
siede assorto su un colle, dove l'ostacolo visivo costituito da una siepe stimola
per contrasto nella sua immaginazione l'idea dell'infinito, permettendogli di
superare i limiti circoscritti della realtà. Metrica: endecasillabi sciolti.

La lirica evoca le tappe di un'avventura dell'immaginazione che conduce l'io


lirica dalla finitezza del mondo reale all'infinito. Il testo si articola in due
sequenze omogenee e simmetriche:

● Nella prima, vv. 1-8, partendo da una situazione concreta l'io lirico
viene indotto da un ostacolo visivo, la siepe, a passare dal piano della
realtà al piano del'immaginazione, giungendo alla percezione
dell'infinito spaziale;
● Nella seconda, vv. 8-13, un altro stimolo sensoriale, in questo caso
acustico, il vento, e sempre dalla dimensione finita della realtà, gli
permette stavolta di raggiungere con la fantasia l'infinito temporale.

Nel finale la situazione iniziale si è rovesciata, il poeta non si trova più in una
realtà concreta, ma nella dimensione immaginaria e dolcemente vaga
dell'infinito.

IL SABATO DEL VILLAGGIO

Composto nel 1829, il sabato del villaggio fa parte dei canti pisano-recanatesi
e forma insieme alla quiete dopo la tempesta, una coppia di testi che muove
dalla contemplazione del paese natale per allargare la riflessione a tematiche
esistenziali. Quando giunge la sera del sabato, tutti gli abitanti del borgo si
preparano alla festa domenicale, pregustando i divertimenti e il riposo del
giorno seguente. Ma questa vigilia piena di speranza è per il poeta come un
simbolo delle speranze illusorie degli uomini, destinate a essere frustrate
dalla realtà. Metrica: canzone libera di settenari ed endecasillabi, con rime
saltuarie. Il componimento evoca in apertura, l'atmosfera gioiosa che anima il
borgo nella sera che precede la domenica. Al pensiero del giorno festivo che
sta per giungere, tutti, uomini e donne, giovani e anziani, si rallegrano,
pregustando il riposo o i divertimenti dell'indomani. Ma tutte le speranze
saranno presto deluse: la domenica porterà solo tristezza e noia, insieme al
pensiero di una nuova settimana di lavoro. La trepidante attesa della festa è
quindi solo un'illusione. Allo stesso modo, nella vita di ogni uomo, la
giovinezza è come una vigilia piena di speranza, cui seguirà presto una vita
adulta grigia e deludente. Il poeta si rivolge perciò nel finale a un ragazzo
spensierato, invitandolo a godere le gioie dell'età, dal momento che la
maturità gli riserverà solo amare delusioni.

LA GINESTRA

Composta a Torre del Greco nel 1836, in una villa ai piedi del Vesuvio, il
componimento viene pubblicato nell'edizione postuma del canzoniere
leopardiano, curata da Antonio Ranieri nel 1845. Sono di mano di Ranieri
tutte le copie manoscritte del testo Per volontà del poeta, La Ginestra è
collocata a chiusura dei Canti, come una sorta di testamento spirituale. La
ginestra, umile fiore che germoglia con tenacia alle pendici del Vesuvio, in un
luogo in cui si manifesta appieno la potenza distruttiva della natura,
rappresenta un momento etico positivo per gli esseri umani, i quali
dovrebbero abbandonare ogni illusione di progresso e riconoscere con
dignità la propria condizione. Proseguendo nella sua polemica contro le false
illusioni degli uomini, abituati a credersi il fine e il centro dell'universo, il
poeta volge lo sguardo allo spazio celeste osservando la sproporzione tra
l'immensità del cosmo e la piccolezza del genere umano, esposto agli attacchi
di una natura onnipotente, ostile ed esterna, simboleggiata dalla forza
distruttiva del Vesuvio. Dall'umile ginestra giunge il messaggio ultimo della
lirica: pur nella sua sofferenza, l'uomo può trovare una superiore dignità
nell'accettazione serena della propria sorte, contemplato con piena lucidità
intellettuale. Metrica: strofe libere di endecasillabi e settenari. Il
componimento si apre su un paesaggio desolato alle pendici del Vesuvio,
dove sboccia l'odorata ginestra, simbolo di una pacata resistenza alla violenza
ostile alla natura. La visione della ginestra sollecita una riflessione sul senso
della vita dell'uomo e della sua storia. Dalla descrizione paesaggistica
scaturisce inoltre nella seconda strofa la polemica del poeta verso la propria
epoca, e verso tutti coloro che , non volendo riconoscere la fragilità mana, si
illudono con false credenze ottimistiche e rinnegano le conquiste filosofiche
dei secoli illuminati. Nella terza strofa, in antitesi rispetto ai miti ingannevoli,
il poeta invita gli uomini ad accettare la propria condizione,senza
mistificazioni, e a stringersi in social catena contro la natura, comune nemica.
Solo così il vivere collettivo potrà avere una solida base etica per tentare di
arginare il dolore della vita. La quarta strofa si allarga alla contemplazione
degli sconfinati spazi cosmici, di fronte ai quali risalta per contrasto la
piccolezza dell'uomo, il quale pure non cessa di illudersi della propria
centralità nell'universo. La quinta strofa, attraverso una similitudine
quotidiana, paragona la distruzione provocata dall'eruzione del vulcano al
cadere dell'albero di una mela troppo matura, che annienta un intero popolo
di formiche. La riflessione sulla potenza della natura e sulla sua violenza
cieca contro l'umanità culmina nella sesta strofa, in cui il poeta sottolinea
come il timore del vulcano tormenti ancora, come in passato, gli abitanti delle
campagne circostanti: la mole del monte che sovrasta il paesaggio si fa
simbolo della natura e dei suoi tempi eterni, di fronte ai quali la storia
dell'uomo appare irrilevante. Con esatta simmetria rispetto all'esordio, la
strofa finale della lirica si concentra nuovamente sulla ginestra, destinata a
piegarsi anch'essa al sopraggiungere della lava distruttrice, ma fino ad allora
lontana sia dal folle orgoglio, sia dalla viltà. Con la sua umile tenacia e con la
sua dignità, l'arbusto fiorito che dà titolo alla lirica diventa quindi un esplicito
modello esistenziale ed etico per l'uomo.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

Composta nel 1824, l'opera segna l'approdo di Leopardi alla fase del
cosiddetto pessimismo cosmico, che influenzerà lo sviluppo successivo di
tutta la sua produzione letteraria. Abbandonata ogni speranza di felicità e
spinto dal desiderio di ridurre al minimo la propria sofferenza, un Islandese
si allontana dalla società umana e, dopo lunghe peregrinazioni, nei pressi
dell'equatore si imbatte nella Natura, personificata in una inquietante figura
femminile. Dopo aver ascoltato il racconto delle vicissitudini dell'uomo e le
sue accuse appassionate, essa risponde con tono freddo e distaccato e le sue
parole suonano terribili. Dopo una breve sequenza narrativa che inquadra
l'incontro tra l'Islandese e la Natura, la prima parte dell'operetta è occupata
da un lungo monologo dell'Islandese, portavoce delle teorie di Leopardi e
simbolo dell'intero genere umano, che ricorda le tappe della propria vana
ricerca di un'esistenza libera dal dolore e si conclude con una violenta accusa
contro la Natura, ritenuta nemica scoperta degli uomini e causa prima dei
loro mali. Nella seconda parte, attraverso un'ampia similitudine, l'Islandese
sostiene che, dal momento che la Natura ha dato la vita agli uomini,
dovrebbe garantire loro un'esistenza serena. Ma la Natura afferma
lapidariamente la propria indifferenza verso le sorti dell'uomo che, come le
altre creature, è parte di un perpetuo circuito di produzione e distruzione, in
cui la sofferenza è necessaria alla conservazione del mondo. Le domande
finali dell'Islandese sul senso della vita umana restano senza risposta, e
nell'epilogo l'autore ipotizza con enigmatica ironia l'incerta sorte finale del
personaggio.

LA TEORIA DEL PIACERE: L'INFINITO E L'ILLUSIONE

Il brano tratto dallo Zibaldone, fa parte di una sorta di piccolo saggio


filosofico in cui Leopardi tra il 2 e il 25 luglio 1820, si propone di esporre in
modo organico una serie di importanti riflessioni sul rapporto tra felicità e
immaginazione. Leopardi presenta qui una vera e propria teoria del piacere,
secondo la quale l'uomo, aspirando per natura a un piacere infinito che non
esiste nella realtà è destinato a vedere sempre frustrato il proprio desiderio di
felicità. Soltanto l'immaginazione e la fantasia, favorite dalla benevolenza
della natura, permettono di raggiungere un'illusione di piacere. Il testo
prende avvia dalla constatazione che ogni uomo per natura desidera
raggiungere un piacere infinito nello spazio e nel tempo, ossia una felicità
assoluta. Ma, poichè la realtà fisica è finita e limitata, questo desiderio
illimitato non viene mai soddisfatto e ciò causa sofferenza. La tensione
dell'uomo verso l'infinito può essere in parte soddisfatto attraverso
l'immaginazione, che permette di raggiungere una felicità eterna ed illusoria.
L'immaginazione, favorita da una natura benevola, è quindi l'unica fonte di
piacere, mentre a ragione, che svela la miseria della realtà è nemica
dell'uomo. Ne deriva la predilezione per le immagini poetiche indefinite e, al
tempo stesso, la superiorità degli antichi e dei fanciulli rispetto ai moderni e
agli adulti, più razionali e meno capaci di lasciare libero spazio alla fantasia.

LA POETICA DEL VAGO E DELL'INDEFINITO

In questi appunti datati tra il 1820 e il 1821, Leopardi collega le proprie


riflessioni filosofiche sulla felicità e sulla natura del piacere a considerazioni
più strettamente estetiche, elaborando la poetica del vago e dell0indefinito.
Nel primo brano l'autore sottolinea lo stretto legame tra infinito e indefinito,
poichè l'infinito cui l'uomo aspira non esiste nella realtà, l'unico piacere può
consister nell'evocazione poetica di sensazioni indefinite. Il secondo brano
contiene una teoria della visione, nella quale si esaminano le immagini
poetiche che, per la loro indeterminatezza, sono fonte di maggiore piacere. La
stessa funzione viene svolta come si sottolinea nelle ultime due annotazioni
da termini ed espressioni polisemiche, cioè che possono avere più significati e
vaghe.

CHARLES DICKENS
Autore inglese nato nel 1812. I suoi romanzi aprono al lettore lo scenario della
società inglese ottocentesca, caria ed affascinante; i suoi personaggi vivono in
tale società con energia spesso intrepida, attraversando mille peripezie senza
mai deviare dal proprio percorso verso l'happy end. Alla fine della storia, di
fatto, il lieto fine arriva immancabilmente, ricco di ordine e di dignità, di
moderato progresso e di buoni sentimenti. In un mondo che cambia tra
conflitti e sofferenze, il romanzo dickensiano ricorda al lettore la possibilità di
soluzioni serene e decorose. Nel 1854, Dickens pubblica il romanzo Hard
Times, tempi difficili, che è considerato il capolavoro del romanzo sociale,
poichè affronta temi legati ai cambiamenti della società inglese durante la
rivoluzione industriale. Attraverso le vicende della famiglia di Grandgring ,
sociologo e membro del parlamento, il romanzo descrive lo stile di vita dei
proletari e dei borghesi medio- piccoli, lo sfruttamento economico e la città
moderna, rappresentata da Coketown, città del carbone, di cui l'autore
dipinge un dettagliato e indimenticabile ritratto.

CAP. V COKETOWN

La straordinaria e drammatica descrizione di Coketown si basa, in realtà,


sull'assenza di una vera e propria descrizione : della città - fabbrica Dickens
dice che essa non è, ovvero che non possiede vita. L'autore mostra la vera
natura della città industrializzata, di cui Coketown rappresenta l'esempio
tipico, elencando i particolari che dovrebbero rendere un centro abitato
originale e caratteristico con una propria vitalità, un luogo piacevole in cui
vivere. Invece, a Coketown i colori dominanti sono il rosso e il nero a causa
del fumo e della cenere, le strade e gli edifici sono identici, ripetitivi come le
giornate di coloro che lavorano senza sosta nelle fabbriche. Persino le persone
sono tutte uguali tra loro, senza una vera individualità. Nella descrizione
dell'autore, la fredda e triste Coketown ha tutte le caratteristiche di una città
senz'anima, forse dannata, in cui ogni elemento è scolorito dal fumo che esce
dalle fabbriche, compresi i lavoratori ridotti dalla mentalità del capitalismo
vittoriano a semplici mani utili al lavoro.

ALESSANDRO MANZONI
Nacque a Milano nel 1795. Manzoni teorizza l'idea del fine morale della
letteratura, l'utile, che dicendo la verità possa educare i lettori e avere
un'azione di intervento sulla realtà. Per ottenere questo fine, la letteratura
deve rivolgersi a un pubblico ampio più ampio possibile. Per raggiungere il
fine pedagogico e morale della letteratura, Manzoni intende mettere al centro
delle opere letterarie vicende interessanti per il popolo. E' interessante ciò che
è vicino alla realtà e che può essere compreso da tutti perchè attinge ai
sentimenti e alle esperienze che ogni essere umano ha provato. Manzoni
sostiene l'adesione al vero e nei Promessi Sposi, prende ispirazione dalla
storia e fa di due umili, Renzo e Lucia, i protagonisti di un grande romanzo.
Bisogna quindi rifiutare la mitologia della poesia classica, i cui protagonisti
sono frutto della fantasia e si deve rivolgere l'attenzione proprio alle classi
sociali che la letteratura romantica vuole educare. Per questo motivo
Manzoni introduce i Promessi Sposi fingendo di iniziare a trascrivere un
presunto manoscritto anonimo secentesco contenente la travagliata storia di
due giovani fidanzati. Lo stile del testo, tuttavia, è così barocco e roboante da
risultare non solo grottesco ma anche incomprensibile: così dopo aver
pensato addirittura di rinunciare del tutto a raccontare la vicenda, che però è
degna di essere conosciuta, Manzoni si risolve a tradurre il manoscritto in
Italiano moderno.

CAP. I: DON ABBONDIO E I BRAVI

Il romanzo inizia con una vasta e celebre descrizione del paesaggio in cui la
storia prende avvio "Quel ramo del lago di Como...". Don Abbondio compie
la sua passeggiata serale leggendo il breviario e si imbatte in due bravi, che lo
stanno aspettando e che, su ordine di Don Rodrigo, gli impongono di non
celebrare il matrimonio, fissato di lì a poco, tra Renzo e Lucia. La prima
sequenza narrativa del romanzo introduce subito molti degli elementi
centrali della narrazione: il progettato matrimonio, il sopruso di Don
Rodrigo, la viltà e la debolezza di Don Abbondio, l'inefficacia delle leggi,
l'impunità dei malvagi. Dal punto di vista strutturale, il brano può essere
diviso in cinque sequenza:

1. La parte iniziale, descrittiva, si sofferma sul paesaggio, focalizzando


gradualmente l'attenzione su un scenario sempre più circoscritto.
2. Nella seconda sequenza, dopo l'entrata in scena di Don Abbondio, la
pace dei luoghi naturali viene infranta dall'apparizione dei bravi, a cui
segue la minuziosa descrizione del loro aspetto fisico e del loro
abbigliamento.
3. Nella terza sequenza si apre un'ampia digressione storica volta a
spiegare, anche attraverso la citazione delle gride, chi erano i bravi nel
Seicento.
4. La quarta sequenza contiene il tragicomico dialogo tra i bravi e Don
Abbondio che, con la proibizione di celebrare le nozze tra Renzo e
Lucia, dà avvio al meccanismo narrativo, infrangendo l'equilibrio
rappresentato emblematicamente dalla quiete del paesaggio e dalla
tranquilla passeggiata del curato.
5. Nella quinta sequenza il curato riprende il cammino angosciato e si
dirige verso casa.

CAP. XXI: LA NOTTE DELL'INNOMINATO

Dopo l'incontro con Lucia, in un'altra camera del castello l'Innominato


trascorre una notte insonne, che porta a maturazione il suo cambiamento.
Attraverso il monologo interiore, il narratore segue il rovello dei suoi pensieri
che, in un crescendo di angoscia, lo portano a sfiorare l0idea del suicidio,
bloccato sul nascere dal pensiero di quell'altra vita dalla quale non si può
sfuggire nemmeno con la morte. Solo a questo punto, al culmine della
disperazione il ricordo delle parole di Lucia "Dio perdona tante cose, per un
opera di misericordia", gli apre uno spiraglio di speranza. Il suono delle
campane, che all'alba gli arriva da fondo valle, giunge all'Innominato come il
segno di un possibile mutamento di vita.

CAP. XXXI: LA PESTE

Il pericolo di un'epidemia che il tribunale di sanità aveva temuto come


conseguenza del passaggio delle soldatesche, purtroppo si dimostrò presto
non infondato. Infatti nei luoghi attraversati dalle truppe si era trovato
qualche soldato morto nelle case o per le strade; insorgono strane malattie e
la gente comincia a morire, e talora intere famiglie, di un male violento non
prima conosciuto. Il governatore di Milano, Don Gonzalo, pur essendo
avvertito del contagio scoppiato nel territorio di Lecco, tutto preso dalle
preoccupazioni della guerra, non prende nessun provvedimento, d'altra parte
in città nessuno vuole arrendersi alla realtà della peste che già infieriva nei
territori vicini e tutti preferiscono attribuire la mortalità alla carestia dell'anno
prima e alle prepotenze dei soldati. Così la peste arriva a Milano, portata da
un soldato Italiano al servizio della Spagna, che si era fermato presso dei
parenti. Qui si era ammalato e, trasportato all'ospedale, era morto dando il
sospetto ai medici che si trattasse di peste. La famiglia presso cui era stato
ospitato e i vicini di casa si ammalarono poco dopo; alcuni loro, portati al
lazzaretto, vi morirono. Il contagio dilaga nei primi mesi del 1630 e comincia
a colpire anche le persone agiate. Il popolino ignorante vuole credere alla
natura del male e si ostina a pensare che la peste sia stata sparsa da gente
malvagia, che chiama untori, superstizione avvalorata dal fatto che una
mattina, inspiegabilmente, le porte e i muri di una gran parte della città sono
trovati imbrattati di una sostanza biancastra con spugne. Il popolo credette
che fossero stati degli untori, ossia dei malvagi diffonditori della peste con
quel liquido. Si bruciano i luoghi unti e vengono accusati anche Don Gonzalo
e altri grandi personaggi. Si continua a non voler credere alla malattia, si
pensa al maleficio, finchè la realtà della tragedia non si impone in tutta la sua
gravità

CAP. XXXIV: LA MADRE DI CECILIA

La pestilenza ha sconvolto Milano investendo col suo mortale respiro uomini


e cose. Ogni cosa ne reca i tristi segni: una croce fatta col carbone sulla porta
per indicare ai monatti che vi sono morti da portar via, o i sigilli si vi sono
persone ammalate. Per le strade, lo spettacolo è addirittura sconvolgente. A
ogni passo i pochi vivi che osano ancora avventurarsi per la città inciampano
in cadaveri abbandonati, malamente coperti di stracci. E intorno è come se la
vita attiva, laboriosa di ogni giorno fosse finta. Il silenzio che sale da quei
corpi morti e che invade le vie è solo rotto di tanto in tanto dal rumore dei
carri funebri e dalle grida dei monatti. Solo a ore fisse, all'alba, a mezzogiorno
e alla sera una campana del Duomo dà il segnale della preghiera. Allora,
nell'aria si propaga la voce delle altre chiese che accompagnano il bisbiglio di
chi prega e nella preghiera trova la sola ragione di speranza e di conforto. Fra
tutto quello squallore disperato che il Manzoni descrive con crudo e
drammatico realismo a momenti perfino sconcertante, si eleva, altamente
poetica, l'immagine della madre di Cecilia. L'episodio che può sembrarci una
creazione del tutto originale della fantasia del Manzoni, ha invece un sicuro
fondamento storico: infatti, il Borromeo nel suo De Pestilentia lo racconta ma
come una breve notizia di cronaca, senza alcun commento. Manzoni,
riprendendo quel motivo e sviluppando, riesce a creare un pezzo non solo di
mirabile bravura, ma di commossa umanità. Il Manzoni si sofferma su queste
due creature con un'umanità toccante, scevra da qualsiasi retorica e la
semplicità commossa delle sue espressioni aumenta l'atmosfera e mestizia e
di pena che noi proviamo ricostruendo davanti ai nostri occhi quel quadro di
tragica realtà: la madre che scende lenta e composta coi segni della morte sul
viso dalla scala di una delle tante case, con in braccio, ben pettinata e vestita
tutta di bianco, la sua bimba morta. E questa donna non piange, non grida,
non impreca. Come già distaccata dalla vita, parla ai monatti vorrebbero
toglierle di braccio la piccola morta, gli offre una borsa di denaro e da se
stessa compone il corpicino sul carro. Poi, quasi per rassicurare la piccola, le
dona come ultimo viatico per il suo viaggio il conforto di una promessa:
quella che a sera ella e la sorellina saranno di nuovo con lei in un mondo do
ve Cecilia potrà rivedere per sempre il sorriso della sua mamma. Su questo
sfondo di desolato squallore, niente ci appare più commovente di questa riva,
già morta, e che alla morte guarda con tragica compostezza. Ma il senso di
commozione che invade il cuore proviene anche da qualche cosa che non si
vede: dalla religiosa rassegnazione alla volontà di Dio.

CAP. XXXVIII: IL FINALE

Nell'ultimo capitolo, Lucia, accompagnata dalla mercantessa conosciuta nel


Lazzaretto, arriva al paese natio. Qui l'aspettano Renzo e Agnese e presto,
vinte le ultime resistenze di Don Abbondio, rassicurato dalla morte certa di
don Rodrigo, si celebrano le tanto rimandate nozze: siamo nell'ottobre del
1630, due anni esatti dopo la data fissata per il matrimonio all'inizio del
romanzo. Il luogo dove i due sposi hanno deciso di stabilirsi insieme ad
Agnese è il paese di Bortolo, il cugino in società, con il quale Renzo ha
acquistato un filatoio. Sistemate le ultime faccende, giunge il momento di
partire. Nel brano conclusivo, la voce del narratore si fa più presente e
insistente: è il momento di congedarsi dal lettore, di fare la morale, di
esplicitare il sugo di tutta la storia. Il finale procede rapido, con una seri di
inattesi spostamenti. Tornati al paese natio, Renzo e Lucia potrebbero restare
e invece ripartono alla volta del paese di Bortolo: arrivati potrebbero
rimanere, ma le chiacchiere sull'aspetto di Lucia indispettiscono Renzo a tal
punto da spingerlo ad andarsene; nella nuova sistemazione gli affari stentano
all'inizio a decollare, ma poi tutto procede per il meglio: sono tutti finali
possibili che vengono via via negati e riproposti in diverse declinazioni. Dopo
l'affannato succedersi di soluzioni precarie, finalmente, il ritmo rallenta per
permettere al narratore di trarre la morale del racconto: gli affari sono
sistemanti, la famiglia è ampliata. Renzo e Lucia sono pronti per dettare
l'insegnamento finale delle loro vicende e consegnarlo al lettore. In apparenza
la morale è rassicurante: bisogna accettare serenamente la vita che Dio ci
manda, con le sue gioie e i suoi dolori. In realtà la conclusione è molto più
problematica di quella che appare.

MATILDE SERAO
Matilde Serao è una scrittrice e giornalista che ha fondato con il marito Il
Mattino. Nel 1884 pubblica un inchiesta giornalistica.

IL VENTRE DI NAPOLI: BISOGNA SVENTRARE NAPOLI

Questo romanzo inchiesta, scritto in tre momenti differenti, ricostruisce in


maniera lucida e con uno spirito combattivo un reportage della città di
Napoli. Una narrazione concentrata e libera dagli aspetti pittoreschi ed
eccessivi della città: l'autrice racconta con sguardo appassionato ed analitico
la Napoli di fine Ottocento. Tutto ha inizio quando nel 1884 la città di Napoli
si ammala nuovamente di colera, un'epidemia che devasta, mette in
ginocchio circa settemila napoletani. I pozzi da cui i napoletani attingono
l'acqua sono inquinati da liquami e dagli sversamenti che fuoriescono dalle
condutture fognarie. I pozzi le cisterne e le riserve d'acqua della città sono
invase dai percolamenti che arrivano dal terreno. La Serao descrive il ventre
di Napoli, ossia i quartieri straripanti di poveri e disadattati che non sanno
come tirare avanti, preda del degrado urbano e delle malattie. Il sindaco invia
quindi una lettera a Roma al presidente Depretis per metterlo al corrente
della situazione. Inizia dunque lo sventramento delle zone più degradate
della città per il risanamento. Molti quartieri sono abbattuti per fare spazio a
strade più ampie e piazze più larghe. Ma sono tanti altri i problemi della città
Non bastano 4 strade attraverso i quartieri per salvare la città Non si possono
certamente lasciare in piedi le case lesionate dall'umidità, dove al piano terra
vi è il fango e all'ultimo piano si bruci dal calore in estate e si gela d'inverno,
dove le scale sono ricettacoli di immondizia e nei cui pozzi si attinge acqua
corrotta. Si mangia nella stanza da letto ed è qui che si muore. Quartieri senza
aria, senza luce, senza igiene; chi arriva a Napoli ha la sensazione di giungere
in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case tutte in altezza,
di decadimento di sudiciume. I napoletani, sembrano sia rassegnati di fronte
a tanta corruzione, incapaci di fuoriuscire dal proprio disagio. Preferiscono
restare legati al proprio destino, alla misera condizione dei un popolo vinto
da forze più forti. Preferiscono adattarsi e sopravvivere alle condizioni più
avverse o rimettersi nelle mani di qualche truffatore di passaggio. Il popolo
napoletano è un popolo degno di tutti i diritti e onori riservati agli altri
popoli, e un popolo a cui non deve essere sottratta la cultura e la bellezza.
Questa inchiesta ha lo scopo di suscitare e risvegliare una coscienza assopita
per riportare alla luce la bellezza e l'orgoglio di un popolo. Secondo l'autrice
per distruggere la corruzione materiale e morale che invade e corrode la città
bisogna insegnare ai napoletani come si vive: non basta sventrare Napoli,
bisogna quasi tutta rifarla.

IL PAESE DI CUCCAGNA: L'ESTRAZIONE DEL LOTTO.

Il paese di Cuccagna è un romanzo pubblicato nel 1890 e crea un affresco


corale della vita napoletana nei suoi diversi ambienti, con una particolare
attenzione al ceto popolare che vive, sopravvive e si dispera nei vicoli della
città. In questo brano viene descritta l'estrazione pubblica dei numeri del
lotto, passione che accomuna tutti i ceti sociali. L'autrice, con una tecnica
narrativa solo in parte ascrivibile al Verismo, raffigura la folla nell'attesa
carica di aspettative che precede l'estrazione e durante i momenti che
intercorrono tra un numero e l'altro, evidenziando, alla fine, l'inevitabile
delusione collettiva che ne deriva. L'episodio può essere diviso in quattro
macro-sequenze, più descrittive che propriamente narrative:

● La prima descrive il radunarsi della folla poco prima dell'estrazione.


● La seconda mostra l'allestimento del banco del lotto e presenta il
bambino incaricato di estrarre i numeri.
● La terza segue l'estrazione cadenzata dei cinque numeri, tra i commenti
sempre più rancorosi della gente che assiste.
● La quarta, infine, sottolinea la disillusione della folla, che sembra quasi
non voler credere a quanto è appena avvenuto.

GIOVANNI VERGA
Nasce a Catania nel 1840. Dopo aver scritto romanzi riguardanti temi
scapigliati e romantici, Verga a partire dal 1874 si dedicò alla lettura dei
principali autori realisti e naturalisti che già l'amico Capuana stava
contribuendo a far conoscere in Italia, grazie ai suoi articoli pubblicati sul
Corriere della Sera. La conversione di Verga al Verismo, e in generale la sua
poetica, fu influenzata e favorita da Zola, Sonnino e Franchetti. I principi
della nuova poetica di Verga sono enunciati in tre testi programmatici che
costituiscono i manifesti del verismo verghiano:

1. la novella Fantasticheria: l'autore annuncia di voler rappresentare il


mondo dei poveri pescatori di Aci Trezza, e di volere indagare sulle
cause che spingono questa gente a sopravvivere in un ambiente così
duro e ostile, cercando di conservare le cose dal loro stesso punto di
vista. Delinea per la prima volta il concetto di religione della famiglia
che spinge la povera gente a voler rimanere il più possibile attaccata
alla propria famiglia e teorizza l'ideale dell'ostrica ovvero il tenace
attaccamento dei poveri al loro mondo.
2. La lettera dedicatoria all'amico Salvatore Farina, l'Amante di Gramigna:
il racconto deve avere la caratteristica di un documento umano, ovvero
di un fatto realmente accaduto. La ricostruzione dei processi psicologici
deve essere scientifica, cioè deve indagare nel grande libro del cuore, in
modo da giungere a una scienza del cuore umano che sarà il frutto
della nuova arte. Alla base di questa nuova arte deve esserci il canone
dell'impersonalità, lo scrittore deve limitarsi a riprodurre la realtà
oggettiva e a mettere in luce i rapporti di causa - effetto che legano
l'uomo al suo ambiente, senza commentare o lasciar trasparire i propri
sentimenti e le proprie opinioni.
3. Prefazione ai Malavoglia: Verga si propone di indagare le cause
materiali ed economiche che sono alla base dell'agire umano, di
prendere come soggetto nella sua opera, I Vinti, cioè coloro che sono
stati sconfitti nel loro tentativo di conquistare una posizione sociale
migliore, di limitarsi ad osservare i fatti narrati in modo impersonale,
senza commenti e giudizi, riaffermando in questo modo il principio
dell'impersonalità dell'opera letteraria.

Le tecniche narrative utilizzate sono:

● L'eclissi dell'autore: Il romanzo deve escludere ogni intervento


dell'autore che deve invece mettersi nei panni dei personaggi, così che
dal racconto possa emergere una visione oggettiva della realtà che dia
al lettore l'impressione di essere presente all'avvenimento.
● La regressione: dal momento che l'autore si eclissa, il narratore deve
appartenere al mondo rappresentato, quindi per assumere il punto di
vista dei personaggi di una determinata realtà sociale si utilizza
l'artificio della regressione: cioè il narratore regredisce al livello sociale
e culturale dei personaggi per meglio rappresentarli.
● Lo straniamento: Consiste nel rappresentare come strano ciò che non lo
è, in modo da aumentare il divario tra la visione del mondo del
narratore e dei personaggi della storia e quella dell'autore e dei lettori
che invece sono esterni alla vicenda.
● Il discorso diretto libero: da un punto di vista grammaticale è in terza
persona, non è preceduto dal che o da verbi come dire o pensare.
L'obiettivo è infatti presentare gli avvenimenti dal punto di vista dei
personaggi. Il linguaggio ovviamente deve adeguarsi per ricostruire i
fatti con la massima precisione e fedeltà; per questo vengono usati
anche modi di dire, proverbi, e una sintassi semplice che esprime in
tutto e per tutto il modo di parlare della gente umile.

Nelle opere di Verga è possibile cogliere l'influenza delle maggiori correnti di


pensiero:

1. Dal positivismo: la realtà può essere descritta solo con approccio


scientifico;
2. Dal materialismo: individua l'origine dei bisogni materiali dell'uomo;
3. Dal determinismo: l'uomo subisce l'influenza dell'ambiente, delle leggi
economiche e della sua razza.
4. Dall'evoluzionismo di Darwin: Verga riprende il concetto di lotta per la
vita e di legge del più forte che spinge l'uomo ad imporsi o a
soccombere.
Il pessimismo verghiano si manifesta nell'idea, opposta alla fiducia nel
progresso positivista, che gli uomini, nonostante il continuo progresso,
sembrano essere costretti a sottostare a una legge naturale universale e porta i
vincitori di oggi , ad essere i vinti di domani. Inoltre, contrariamente a quanto
affermava il suo principale modello, Zola, e gli altri naturalisti francesi,
secondo Verga l'arte non è in grado si intervenire per cambiare la società e
non può risolverne i problemi. Verga vede il lavoro, non come mezzo di
riscatto sociale, ma solo come mezzo di sostentamento per l'individuo e per la
sua famiglia. Questo perchè per Verga esisterà sempre la legge del pesce
grosso che mangia il pesce piccolo. Non trova riscatto neppure nella
religione, infatti ne esclude ogni forma di consolazione o di speranza di una
vita migliore nell'aldilà L'unico valore caro a Verga è quello della famiglia.
Sostiene che l'uomo che si allontana dal proprio ambiente, dalla propria
famiglia e dalle proprie tradizioni è destinato a perdersi e a fallire.

VITA NEI CAMPI: ROSSO MALPELO


Rosso Malpelo è il primo testo propriamente verista di Verga. Pubblicato nel
1878 a puntate sul quotidiano "il Fanfullo", venne poi inserito nel 1880 nella
raccolta Vita dei campi. Ambientato in Sicilia, la novella narra la drammatica
esperienza di un ragazzo emarginato e sfruttato, costretto a lavorare in una
cava di sabbia in condizioni disumane. In un modo privo di affetti e
dominato dalla legge del più forte, il protagonista matura la consapevolezza
delle leggi di sopraffazione che regolano l'esistenza e, con una sorta di lucido
orgoglio, va incontro al proprio destino senza esitazioni. Nel rappresentare
questa realtà Verga rinuncia a ogni giudizio morale, lasciando parlare i fatti e
affidando la narrazione alla voce dei lavoratori della cava: in tal modo la
denuncia sociale resta implicita, ma risulta più efficace in quanto nasce da
una rappresentazione apparentemente oggettiva. Il protagonista della
vicenda, noto a tutti come Malpelo, conduce una vita di stenti, lavorando in
una cava di sabbia, emarginato dagli altri operai e privo di affetti familiari;
solo il padre sembrava volergli bene, ma l'uomo è morto in un incidente,
seppellito dalla sabbia nella stessa cava in cui lavora anche il figlio. La triste
realtà con cui è costretto a confrontarsi tutti i giorni fa sì che Malpelo elabori
una visione della vita desolata e in apparenza cinica: egli si adatta
all'immagine negativa che tutti hanno di lui e si limita a una sorta di
resistenza passiva, accettando ogni sopruso. L'unica sua compagnia è quella
di Ranocchio, un ragazzo zoppo che diventa suo compagno di lavoro e che
Malpelo protegge ma al tempo stesso tratta con durezza, per educarlo alle
asprezze della vita. Quando Ranocchio muore, al protagonista non resta che
accettare la propria sorte: incaricato di una difficile spedizione nella cava si
perde per sempre nei cunicoli di sabbia, trovandovi la morte.
I MALAVOGLIA: PREFAZIONE LA FIUMANA DEL PROGRESSO
Nella prefazione Verga pone l'attenzione sulla fiumana del progresso, cioè
quel processo di trasformazione della realtà economica e sociale, in
particolare dell'Italia post unitaria. La forza motrice di questo processo è data
dai bisogni dell'uomo, dalla lotta per l'esistenza al bisogno dei beni materiali.
Di fronte a questo processo Verga esprime la sua ammirazione per la
grandiosità arrivando persino a ripetere uno dei principi basilari
dell'ideologia borghese moderna formulato da Adam Smith: l'individuo,
perseguendo il suo interesse personale, coopera inconsapevolmente al
benessere di tutti. Verga però insiste sugli aspetti negativi: l'avidità l'egoismo,
i vizi, la meschinità. Infatti i protagonisti del romanzo sono dei vinti. Alla fine
Verga aggiunge che ogni scena va rappresentata con colori adatti, cioè che
ogni forma deve corrispondere al livello sociale rappresentato.
I MALAVOGLIA: CAP. 1

Dopo la presentazione dei vari membri della famiglia Malavoglia, il romanzo


ha inizio con la partenza del giovane 'Ntoni per il servizio militare. Questo
evento dà avvio alla narrazione, in quanto rappresenta simbolicamente
l'inizio della disgregazione del nucleo familiare dei Malavoglia. Si possono
individuare due sequenze narrative:

1. Nella prima il narratore popolare presenta al lettore i membri della


famiglia Malavoglia: una famiglia unita, modesta ma laboriosa, guidata
dal vecchio padron 'Ntoni e composta da suo figlio Bastianazzo, sua
moglie Maruzza e i loro cinque figli: 'Ntoni, Luca, Mena, Alessi e la
piccola Lia.
2. La seconda rievoca l'evento che determina la rottura dell'equilibrio
iniziale: 'Ntoni viene chiamato per la leva obbligatoria e, nonostante i
tentativi di padron 'Ntoni per evitarne la partenza, è costretto a lasciare
il paese.

I MALAVOGLIA: CAP. IV

Passano tre giorni dalla tempesta e di Bastianazzo e della Provvidenza non si


sa nulla. Ogni speranza così svanisce e tutta la comunità di Aci Trezza si
stringe attorno ai Malavoglia che, dopo il naufragio, si ritrovano in
difficilissime condizioni. Durante il funerale, mentre i Malavoglia si
inginocchiano davanti a una bara vuota perchè il mare non ha più restituito i
l corpo del ragazzo, gli abitanti del paese cercano di distrarre i membri della
famiglia tenendo dei discorsi, ma alla fine ciò che emerge è solo un profondo
egoismo che a nulla serve per confortare i Malavoglia. La famiglia, una volta
tornata a casa, è disperata, non solo Bastianazzo è scomparso, ma hanno un
debito da pagare, la figlia Mena da maritare e per colpa della carenza di
pioggia anche a livello agricolo la situazione è drammatica. Intanto viene
accuratamente descritto il personaggio di Zio Crocifisso, un usuraio, certo,
ma non di quelli troppo crudeli , perchè non distruggeva i debitori con
interessi troppo alti. La sua figura è fondamentale per l'economia del paese.

I MALAVOGLIA: CAP. IX

La tragedia è dietro l'angolo: i preparativi per le nozze di Mena sono iniziati,


ma durante la cerimonia di spartizione dei capelli, arriva una notizia
tremenda. Una nave militare Italiana è infatti affondata nella battaglia di
Lissa e la famiglia Malavoglia, che non riceve notizie del figlio Luca da
diverso tempo, teme il peggio. Le loro paure non sono infondate e si rivelano
vere: dopo pochi giorni infatti scoprono che Luca ha perso la vita. A quel
punto le nozze di Mena saltano e Piedipapera, su cui era stato riversato per
finta il debito, non vuole più aiutarli a dilazionare il debito con Zio
Crocifisso. 'Ntoni intanto capisce che il suo matrimoni con Barbara non si
potrà più celebrare e, come se non bastasse, i Mlavoglia a questo punto sono
costretti a cedere la Casa del Nespolo.

I MALAVOGLIA: CAP. XI

Dopo la perdita della casa, la famiglia Malavoglia lavora duramente per


saldare il debito con lo Zio Crocifisso. Ma il giovane 'Ntoni tornato dal
servizio militare a Napoli, fatica a riadattarsi alla solita vita di stenti e
vorrebbe lasciare per sempre Aci Trezza per cercare fortuna in una grande
città. All'insofferenza del giovane si oppone però il nonno, che incarna i
valori arcaici di un mondo rurale destinato presto a scomparire. Nel capitolo
sono riportati i discorsi che hanno luogo tra i membri della famiglia
Malavoglia durante la salatura delle acciughe:

● 'Ntoni affascinato dal comportamento spavaldo di due giovani che,


dopo aver fatto fortuna lontano, sono tornati al paese, si sente sempre
più insofferente verso la propria vita di stenti;
● Al contrario, padron 'Ntoni e come lui Alessi, Mena e Nunziata, non
comprende il desiderio del giovane al andarsene dal paese per
cambiare vita e arricchirsi, e , contento della sua umile condizione, non
sembra desiderare altro dalla vita.

Il dialogo tra nonno e nipote assume toni accesi, e soltanto i rimproveri del
nonno e l'affetto della madre Maruzza, trattengono per poco il giovane dal
suo desiderio di andarsene.

I MALAVOGLIA: CAP. XV

Dopo la morte di padron 'Ntoni, il nipote Alessi ha riscattato la casa del


nespolo, dove vive insieme alla moglie Nunziata, ai sui figli e alla sorella
Mena. 'Ntoni, che ha scontato cinque anni di carcere per aver accoltellato il
finanziere Don Michele, torna alla casa natale: ma la famiglia di un tempo
non esiste più e lui si sente inevitabilmente un estraneo. Rendendosi conto
che la sua ribellione lo ha per sempre escluso dai valori della religione della
famiglia, decide così di abbandonare il paese, in cui la via continua sempre
uguale a se stessa. Il finale è articolato in tre sequenze:

● La prima descrive in tono malinconico la vita dei Malavoglia superstiti.


Alessi ha riscattato la casa del nespolo, dove vive con la moglie
Nunziata e la sorella Mena, ma su tutti loro pesa il ricordo dei familiari
perduti: padron 'Ntoni è morto, 'Ntoni è chissà dove e Lia è fuggita a
Catania.
● La seconda sequenza rappresenta l'inatteso ritorno di 'Ntoni che,
tornato a casa, dopo aver scambiato poche battute con i fratelli e
consapevole di essere ormai un estraneo se ne va per sempre.
● La terza e ultima parte amplia la visuale al paese di Aci Trezza, ancora
immerso nella quiete notturna e contemplato con accorato rimpianto da
'Ntoni che se ne allontana all'alba, mentre per le strade riprende la vita
di sempre.

PAUL VERLAINE
Allora e ora: Languore

Sonetto tradizionale, formato da due quartine e da due terzine pubblicato nel


1883. Il componimento ebbe molto successo perchè interpretava il senso
diffuso dei decadenza, in una società dominata dal Positivismo e
caratterizzata dall'ottimismo e dalla fiducia nel progresso. Il poeta paragona
se stesso all'impero romano nel periodo del disfacimento dopo la sua
decadenza, cioè durante le invasioni barbariche, epoca di debolezza morale e
di evasione nei piaceri della vita. Stanco di ricercare la bellezza e il piacere
egli si limita a guardare quello che sta succedendo, componendo poesie
inutili e che non richiedono impegno, in uno stile molto raffinato e
malinconico che fa pensare al sole che tramonta. I Barbari bianchi sono gli
invasori germanici di carnagione bianca che hanno invaso l'Impero Romano e
nella poesia sono il simbolo della borghesia del tempo. L'animo del poeta è
afflitto dalla noia di vivere e dall'incapacità di agire, proprio come facevano i
Romani, dopo la decadenza, che non facevano nulla per contrastare i Barbari,
limitandosi a constatare soltanto che erano in corso contro il nemico delle
battaglie sanguinose. Il poeta non si sente in grado partecipare alle battaglie,
cioè di ridare vitalità alla sua esistenza perchè si rende conto non essere
capace di portare a termine i propri desideri e di prendere una decisione. In
questa forma di inerzia e di languore diffusi, il poeta prova compiacimento e
il suo desiderio oscilla tra la vita e la morte. Il poeta prova ormai
rassegnazione perchè la poesia ha ormai consumato e sperimentato tutto, il
poeta ha dunque sperimentato tutto, ma anche l'Impero, che ormai non
produce più nulla, ha sperperato tutte le sue ricchezze e i Barbari stanno
saccheggiando quanto è rimasto e anche Batillo, celebre attore vissuto al
tempo dei Romani e quindi simbolo dell'arte, non ride più perchè ormai tutto
è finito. Il poeta prende coscienza della sua solitudine; la poesia che egli è in
grado di comporre è superficiale e degna solo di essere buttata nelle fiamme.
Egli si identifica in uno schiavo spiritualmente insignificante, frivolo,
inconcludente e alla fine, non gli resta che abbandonarsi alla noia, una noia di
tipo esistenziale perchè non si sa da che cosa sia derivata. I temi dominanti
della poesia sono:
● decadenza che genera languore;
● poesia svuotata di ogni contenuto morale o sociale, diventata puro
esercizio formale;
● noia di vivere senza conoscerne la causa;
● solitudine, inerzia;
● presa di coscienza dell'incapacità di ogni reazione;
● compiacimento del poeta di trovarsi in questa situazione di languore e
di inerzia.

Il languore come malattia dell'anima e causa di inerzia intellettuale si ritrova


anche nel romanzo "Il Piacere" di d'Annunzio.

OSCAR WILDE
Nato a Dublino nel 1856.

IL RITRATTO DI DORIAN GRAY: PREFAZIONE

Il romanzo più noti di Wilde, pubblicato su rivista nel 1890 e poi in volume in
una versione più ampliata, ha come protagonista l'avvenente Dorian Gray, un
giovane che sceglie di incentrare la propria vita sulla ricerca della bellezza,
calpestando ogni principio morale e cadendo in un abisso di eccessi e
perversione; i rimorsi per la sua dissolutezza non gli lasceranno però scampo
e lo condurranno a un tragico epilogo. Il finale rende esplicito il significato
profondo dell'opera: soltanto l'arte può sfidare il tempo e trionfare sulle
brutture della vita, mentre l'uomo è legato irrimediabilmente a un triste
destino di decadimento.

Nella prefazione l'autore esprime i principi fondamentali dell'Estetismo,


corrente del Decadentismo:

● Il desiderio di condurre un'esistenza eccezionale, dedita alla ricerca


della bellezza e del piacere;
● Il rifiuto delle convenzioni sociali e del moralismo;
● Il valore dell'arte in quanto espressione della Bellezza e soprattutto il
legame indissolubile tra arte e vita.

IL RITRATTO DI DORIAN GRAY: CAP. II

Mentre Dorian Gray sta posando per il proprio ritratto nello studio dell'amico
Basil Hallward, entra in scena l'aristocratico Lord Henry. Inutilmente Basil
invita quest'ultimo a non esercitare sul giovane la sua nefasta influenza: il
cinico dandy non sa resistere alla tentazione. Le parole di Lord Henry,
raffinato esteta, turbano profondamente Dorian, che, influenzato dalla sua
filosofia di vita, perderà ben presto la sua serena innocenza. Il capitolo si
incentra sull'incontro del protagonista con Henry Wotton che, affascinato
dalla bellezza di Dorian, diventerà presto suo maestro di vita, conducendolo
sulla via della ricerca della bellezza, ma anche della depravazione morale.
Alla presenza dell'amico pittore Basil Howard, che temendo l'influenza di
Lord Henry sul suo giovane amico, ha invano tentato di allontanarlo, il
dialogo si muta presto in un monologo. Con le sue insinuanti riflessioni, Lord
Henry esorta il protagonista a vivere intensamente la propria giovinezza,
seducendolo con la prospettiva di una via fondata su un nuovo edonismo.

GABRIELE D'ANNUNZIO
Nacque a Pescara nel 1863. Fu molto ispirato dalla cultura francese tanto che
lui si incarnò nel mito dell'eroe decadente, un personaggio raffinato, amante
del bello, aristocratico e lontano dalla civiltà dell'epoca, creando un mito dal
vivere inimitabile in una profonda ricerca del piacere dei sensi. Tuttavia il
mito dell'esteta ha anche i suoi limiti, egli per la sua aspirazione veniva
distinto per la sua meschinità e veniva considerato un perdente tanto che lo
portava a un isolamento. A segnare una svolta nella sua vita, fu anche la
tematica del superuomo, un individuo capace di esprimere una nuova libertà
creativa, ovvero un uomo con tutti i valori considerati fondamentali dalla
società. Sposando così l'ideologia nazionalistica, il superuomo legittimava il
ricorso a una politica aggressiva. Legato a questa ideologia si affianca il
panismo, termine che deriva dal Dio Greco Pan, è uno stato di esaltazione
eccitazione ed ebbrezza dei sensi che portano l'uomo a fondersi con la natura.
Insieme a Pascoli, D'Annunzio è considerato il principale esponente del
decadentismo italiano. Tra i due autori vi è una differenza sostanziale. Il
decadentismo di Pascoli è connaturato e più che consapevole, mentre quello
dannunziano è esteriore. Gli elementi che D'Annunzio assimilò furono:
l'estetismo, ovvero il culto per la bellezza, il vitalismo, ovvero la vita
concepita come un'opera d'arte, il panismo, ovvero l'assimilazione con la
natura e con il tutto e l'ulissismo, ovvero il dinamismo tipico di Ulisse. Il
poeta non visse queste nuove assimilazioni con vittimismo, a differenza di
Pascoli, e contrariamente a quanto fecero i poeti decadenti, egli ignorò il
misticismo gnoseologico e il dramma dell'angoscia esistenziale. Tuttavia
nonostante questo limite chiaro, evidente e vistoso, non soltanto D'Annunzio
divenne parte integrante del decadentismo europeo, ma creò addirittura un
proprio filone culturale e letterario: il d'Annunzianesimo. Gli aspetti più
significativi del decadentismo d'annunziano sono:

● L'estetismo artistico, visione che concepisce la vita e l'arte come due


forme di estetismo contrapposta alla volgarità del verismo. Infatti,
mentre i veristi rappresentavano nelle loro opere la vita reale e le
persone comuni, il poeta si eleva giungendo ad una forma perfetta di
estetismo.
● L'estetismo pratico, che ha un rapporto di analogia con l'estetismo
artistico, secondo cui la vita pratica deve essere realizzata al di fuori di
ogni legge morale.
● L'analisi narcisisticamente compiaciuta delle sensazioni più rare e
raffinate.
● Il gusto della parola, scelta in base al suo valore fonosimbolico ed
evocativo, più che per il significato logico discorsivo.
● Il panismo, l'assimilazione con la natura che, consiste nel sentirsi parte
del tutto.

IL PIACERE: CAP.1

Primo romanzo pubblicato nel 1880 e articolato in quattro libri. Nel libro 1
ambientato nell'atmosfera raffinata del suo appartamento, nel cuore della
Roma barocca, nell'ultimo giorno dell'anno il protagonista, Andrea Sperelli
aspetta di rivedere Elena Muti molto tempo dopo la fine del loro amore.
Nell'inquietudine dell'attesa, i pensieri del protagonista vagano tra passato e
futuro, ricordando altri incontri d'amore e pregustando l'incontro con la
sensuale amante di un tempo. Nel pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno,
Andrea Sperelli attende nel suo appartamento romano l'arrivo di Elena Muti,
tra rose profumate, coppe di cristallo e vasi preziosi. Nell'attesa il narratore
segue i pensieri del protagonista, che rievoca la presenza de Elena in quello
stesso luogo, durante i loro passati incontri d'amore. Dal ricordo Andrea
ritorna alla fiduciosa attesa dell'arrivo imminente della donna, mentre
nell'ultima parte in un nuovo flashback, Andrea rievoca il loro addio,
avvenuto due anni prima.
IL PIACERE: CAP. 2 E 3

Il secondo libro presenta il protagonista e descrive la sua educazione. Andrea


Sperelli incarna la figura dell'esteta decadente, tutto impregnato di arte e
dedito al culto della bellezza, libero da ogni preoccupazione di natura
morale. Unico erede di una prestigiosa famiglia, egli viene presentato come
l'ultimo esponente di una dinastia di aristocratici, dediti all'arte e alle lettere.
Nello sviluppo della sua personalità, fondamentale è il ruolo del padre, che lo
fa viaggiare per l'Europa e fa in modo che la sua formazione sia il risultato di
nozioni teoriche ed esperienze pratiche. Grazie a una eccezionale sensibilità e
a una grande curiosità intellettuale, il ragazzo si mostra aperto a tutte le
forme di conoscenza, ma il cinismo del padre trascura volutamente le
implicazioni etiche legate alla sua crescita. Libero da preoccupazioni morali,
Andrea si abitua così a una vita di menzogne e falsità

ALCYONE: LA PIOGGIA NEL PINETO

La lirica, fu composta nell'estate del 1902. Il componimento si basa u un esile


spunto narrativo. Il poeta e la donna che l'accompagna, Ermione, figura
dietro la quale si cela Eleonora Duse, stanno passeggiando in una pineta in
riva al mare quando vengono sorpresi dallo scoppio di un temporale estivo. I
due si inoltrano nel folto bosco e, in una sorta di magica metamorfosi, si
trasformano essi stessi in elementi vegetali, parte della natura che li circonda.
Metrica: quattro strofe lunghe di trentadue versi ciascuna, variamente rimati
e assonanzati, di lunghezza variabile tra tre e nove sillabe, con una
prevalenza del senario. La lirica registra le sensazioni che il poeta prova
compiendo, insieme alla donna amata, trasfigurata nella mitica Ermione, una
passeggiata nella pineta che costeggia la spiaggia, sotto la pioggia d'estate. Al
silenzio della coppia si sovrappongono i suoni delle gocce di pioggia sulla
vegetazione, a cui si uniscono, come in un concerto, lo stridere delle cicale e il
gracidio delle rane. Via via che i due amanti si inoltrano nel folto della pinete,
in essi si compie una sorta di metamorfosi, che progressivamente li rende
parte della natura che li circonda: in loro vive la vita stessa che anima gli
alberi, il volto della donna si intride di pioggia come una foglia e i suoi capelli
profumano come chiare ginestre. Mentre essi si stringono per mano, la natura
circostante li abbraccia e li include in sè, accrescendo in loro il desiderio di
vita e di amore.
ALCYONE: LA SERA FIESOLANA

La lirica, prima in ordine di composizione della raccolta, fu scritta il 17


giugno 1899 a Settignano, vicino Firenze, dove il poeta all'epoca abitava
insieme a Eleonora Duse. In una tranquilla serata estiva, dai colli di Fiesole, il
poeta contempla il paesaggio naturale in compagnia della donna amata. In un
silenzio carico di mistero, mentre la campagna ancora umida di pioggia
attende il sorgere della luna, egli registra le sensazioni suscitate il lui dalla
visione del paesaggio, trasferendolo in un testo poetico di suggestiva
intensità. Metrica: Tre strofe di quattordici versi di varia lunghezza con
prevalenza di endecasillabi, con rime libere. Ogni strofa è seguita da una
lauda di tre versi, ciascuno dei quali rima con un verso della strofa
precedente. Rivolgendosi alla donna amata, il poeta si propone di spiegarle il
mistero di una sera d'estate. Il testo si articola in tre strofe alternate a lodi
rivolte alla Sera, personificata in figura di donna:

● Nella prima strofa le immagini si concentrano sull'idea della frescura


portata dal calore del giorno e dall'imminente sorgere della luna.
● La seconda evoca la dolcezza della pioggia, che durante il giorno è
caduta lieve sulla vegetazione, in una sorta di commosso saluto della
primavera morente.
● Nell'ultima strofa il poeta ribadisce il desiderio di svelare alla donna
amata il misterioso messaggio che la natura nasconde di sè, che in
apparenza resta taciuto, ma che coincide con le sensazioni evocate dalla
poesia: l'autore ha trasmesso alla donna e al lettore il segreto ultimo
della sera, che consiste appunto nelle intime corrispondenze che legano
l'uomo alla natura.

LE VERGINI DELLE ROCCE: CAP. 1

Il romanzo uscì a puntate sulla rivista "il Convito" tra la fine del 1894 e l'inizio
del 1895, prima di essere ristampato in volume nel 1895. Le vergini delle
rocce si incentra sulla figura di Claudio Cantelmo , il superuomo
disprezzatore della folla e divulgatore di un'ideologia antisociale,
antidemocratica, antireligiosa. Claudio coltiva progetti di potenza e di
dominio; o meglio, non li coltiva per sè, quanto per il figlio che vorrebbe
generare. Lo immagina superuomo, con un ruolo di capo, proteso a tracciare
nuove strade per l'umanità: la sua principale funzione sarà annunciare una
rivoluzione, materiale e culturale, necessaria per superare la presente crisi
della società borghese. Per compiere tale rivoluzione bisognerà sovvertire le
regole liberali della democrazia e del parlamentarismo. Nel capitolo 1 la
parola di Claudio Cantelmo enuclea i fondamenti ideologici del superuomo
d'annunziano. Cantelmo sa toccare le corde giuste sia per convincere gli
intellettuali, che hanno perduto il loro tradizionale prestigio sociale, sia per
sollecitare l'aristocrazia, che si sta invilendo nella nostalgia di un passato
glorioso. Il suo discorso si sviluppa in tre sequenze:

● La proclamazione dell'ideologia politica del superuomo, impregnata di


estetismo e senso della superiorità dei pochi sui molti, e la
proclamazione del suo compito sociale: affermare il primato della
bellezza, intesa in senso lato.
● L'appello ai poeti, invitati a difendere la Bellezza e la tradizione che da
essa deriva, a non contaminare la poesia con argomenti troppo bassi, e
a rendersi coscienti della propria superiorità intellettuale.
● L'appello ai patrizii a non scendere a patti con la gestione democratica
della politica. I nobili devono rivendicare la propria naturale
superiorità di stirpe, che non può mescolarsi con l'esistenza comune e
volgare: essi per esempio non dovranno accettare il sistema delle
votazioni, altrimenti si ritroveranno governati dai loro sarti, cappellai
ecc.

Il brano costituisce un violento atto d'accusa, lo sdegno verso lo spettacolo


indecoroso della politica contemporanea, un appello, il superuomo non sta
inerte a guardare cosa accade; prende l'iniziativa per modificare la realtà,
arringa dunque la folla utilizzando il fascino della parola e sollecitando
all'azione, mescolando necessità: benchè infatti si rivolga ai poeti e ai patrizi,
è evidente che di fatto sta cercando di persuadere la folla a seguirlo. Nel
brano c'è anche un proclama politico: l'ammirazione per le forme di vita e di
potere, aristocratiche e superiori è mista a tristezza, perchè esse appaiono
ormai rovinate in nome del principio di uguaglianza. Per questo il
superuomo invita i nobili ad agire subito, per affermare una visione
aristocratica del mondo e del potere.
GIOVANNI PASCOLI
Nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Ebbe una concezione dolorosa
della vita, sulla quale influirono due fatti principali:

● La tragedia familiare che colpì il poeta quando il 10 agosto 1867 gli fu


ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre,
della sorella maggiore, Margherita e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi
lutti lasciarono nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono
il mito del nido familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e
idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In
una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di
dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e
le ansie si placano.
● L'altro elemento fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e
travolse i sui miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e
dal mito del progresso.

La poetica di Pascoli si basa principalmente su quanto esposto dal poeta


stesso nel saggio "il fanciullino", in cui Pascoli sostiene che dentro ogni uomo
è nascosto un fanciullino in grado di provare meraviglia e stupore e di
scoprire, pertanto, i misteri che si nascondono in ogni cosa. Di questo però è
capace solo il poeta. Ed è così che nasce la poetica della meraviglia e dello
stupore, attraverso la quale si può conoscere la realtà vera, quella
inaccessibile per via razionale. Ed è proprio perchè solo la poesia può essere
usata come strumento di conoscenza del mondo, che egli matura una forte
sfiducia nella scienza. Entrambi gli aspetti appena citati, ci portano a
collocare Pascoli all'interno di una prospettiva decadente. Infatti, ad esempio,
il ritorno all'infanzia, può essere considerato una sorta di tentativo di
evasione dalla realtà presente. Ma la sua sensibilità decadente la si nota
soprattutto da ciò che egli ha in comune con il Simbolismo francese ovvero: la
ricerca di significati nascosti delle cose, l'uso di un linguaggio simbolico e
musicale, soprattutto di analogie, per esprimere i suddetti significati. Il suo
stile può essere definito impressionistico, perchè vuole dare delle impressioni
sensoriali immediate attraverso l'uso di legami di suono tra le parole, il
significato grammaticale, quindi, è messo in secondo piano. I temi ricorrenti
nella sua poesia sono:

● Il ricordo dei cari defunti e l'assassinio del padre, quindi in generale il


pensiero della morte.
● L'esaltazione del nido, visto come simbolo del mondo chiuso,
accogliente e protettivo degli affetti familiari.
● la celebrazione della natura, che il poeta riesce a vedere in profondità
grazie alla sua sensibilità di fanciullino.
● Il significato simbolico e misterioso attribuito ad alcuni elementi del
paesaggio.
● Il senso di angoscia e smarrimento di fronte all'immensità del cosmo.
● L'affrontare temi esistenziali riprendendo i miti del mondo classico.

Il linguaggio analogico in Pascoli si basa su analogie tra le cose che creano


legami tra realtà anche profondamente diverse e lontane. In questo modo è
possibile scoprire legami nascosti, e quindi parliamo di potenza allusiva del
linguaggio. Le parole spesso assumono un significato simbolico, cioè creano
un nesso tra il simbolo e la realtà simboleggiata. Ad esempio il nido
simboleggia la realtà del legame familiare. La struttura sintattica è
prevalentemente paratattica, cioè costituita solo da frasi principali. Pascoli
usa versi, strofe e rime propri della tradizione, ma li rende nuovi grazie al
variare degli accenti ritmici, che creano effetti musicali particolari. Le pause a
volte riescono a conferire alla poesia una certa drammaticità. Fa uso
dell'onomatopea, ovvero il riprodurre il suono di un oggetto o di un'azione
tramite una parola che dal punto di vista semantico non ha significato, ma
che descrive il modo in cui il nostro orecchio sente quel suono. Importante è
anche il fonosimbolismo, cioè quel procedimento basato sulle suggestioni
provenienti dai suoni delle parole, scelte più per il loro valore fonico che
semantico. Si parla di plurilinguismo Pascoliano perchè egli usa sia termini
aulici che colloquiali o dialettali, o anche termini tecnici e scientifici, o ancora,
espressioni straniere.

MYRICAE: X AGOSTO

Il titolo della poesia si riferisce alla morte del padre di Pascoli, assassinato da
ignoti il 10 agosto 1867, mentre tornava dalla fiera di Cesena. A distanza di
quasi trent'anni dal quel lutto il poeta pubblica questa lirica. Nel testo Pascoli,
dopo aver affermato di conoscere la causa del pianto del cielo, la notte di San
Lorenzo è la notte delle stelle cadenti, mette a confronto l'uccisione di una
rondine che tornava al suo nido con l'assassinio di un uomo innocente, colto
di sorpresa sulla via del ritorno a casa. Metrica: sei quartine di decasillabi e
novenari a rima alternata. Nella prima strofa il poeta afferma di conoscere il
misterioso motivo che provoca il fenomeno delle stelle cadenti, interpretato in
senso negativo come un pianto del cielo. Nel seguito della lirica sono
rievocate due vicende parallele: l'uccisione di una rondine che, colpita senza
motivo, lascia soli i suoi piccoli, destinati a morte certa e l'uccisione
altrettanto immotivata di un uomo, che lascia nell'abbandono la sua casa che
lo attende invano. La quartina finale si ricollega alla strofa iniziale e spiega
che il pianto di stelle è il modo in cui il cielo, dall'alto compiange la
sofferenza di tutti coloro che abitano sulla Terra.

MYRICAE: LAVANDARE

Mentre i campi sono avvolti dalla nebbia, il poeta sente in lontananza i suoni
provenienti dal lavatoio, dove le donne accompagnano il loro lavoro con una
canto malinconico, che evoca una struggente sensazione di abbandono e
solitudine. Metrica: madrigale, composto da due terzine e una quartina di
endecasillabi. La lirica si articola in tre parti, corrispondenti alle tre strofe del
testo:

● Nella prima strofa viene descritto il paesaggio nei suoi elementi


fondamentali, attraverso una serie di notazioni visive: è autunno e in un
campo immerso nella nebbia, arato solo a metà, spicca un aratro
abbandonato.
● Nella seconda strofa entra in scena la presenza umana delle lavandaie,
che il poeta percepisce grazie al rumore dei panni tuffati nell'acqua e al
suono dei canti con cui accompagnano il loro lavoro.
● Nella strofa finale, viene riportata la canzone delle lavandaie, in cui si
parla di una giovane donna abbandonata dall'innamorato e rimasta sola
come l'aratro.

MYRICAE: TEMPORALE

In pochi versi, con rapide notazioni di colore giustapposte fra loro, il poeta
descrive un evento atmosferico, caricandolo di inquietanti valenze
simboliche. Metrica: Ballata minima di settenari. Il temporale viene descritto
dapprima attraverso un dato acustico isolato. Nei versi seguenti, il poeta
coglie gli elementi del paesaggio attraverso notazioni di coloro contrapposte:
il rosso del cielo infuocato dal tramonto, il nero minaccioso del temporale, le
macchie più chiare delle nuvole. Nel paesaggio cupo e sconvolto risalta il
bianco di una casa, che per libera analogia viene associata a un'ala di
gabbiano.

MYRICAE: IL LAMPO

Il poeta evoca con rapidi tratti il brevissimo istante in cui, durante un


temporale, la luce abbagliante del lampo illumina il paesaggio sconvolto
dalla furia degli elementi. Il bozzetto impressionistico ha però anche un
valore simbolico. Il lampo diviene emblema dell'improvvisa e cruda
rivelazione della vera essenza della realtà, intrisa di violenza e di morte.
Metrica: ballata minima di endecasillabi. Nell'atmosfera sospesa e carica di
tensione che precede lo scoppio di un violento temporale, un lampo illumina
il paesaggio circostante di una luce vivida e spettrale. Il bagliore del fulmine
rivela d'un tratto la vera natura della realtà, che appare pervasa di terrore e di
angoscia: la terra è ansante e scossa da un sussulto, il cielo è cupo e tragico.
Su questo sfondo da incubo, compare per un attimo, nella luce abbagliante,
un casolare bianco, paragonato a un occhio pieno di terrore che si spalanca e
subito si richiude.

MYRICAE: IL TUONO

Il primo verso, separato tipograficamente, costituisce la ripresa de il lampo,


che inizia con il verso dall'analogo ritmo "E cielo e terra si mostrò qual era".
Ovviamente l'autore voleva destare nel lettore la sensazione mimetica della
sequenza lampo-tuono. Tuttavia a differenza delle altre due poesie citate,
nelle quali si trova un accumulo di riferimenti semantici visivi, in il tuono si
insiste fortemente sui richiami uditivi. Metrica: ballata. Attraverso questa
ricostruzione ritmica il poeta vuole descrivere in forma sonora lo scatenarsi
dello spaventoso fenomeno atmosferico che rompe la misteriosa quiete
notturna. Nel finale compare il tema pascoliano per eccellenza, l'immagine
del nido distrutto da un evento improvviso e immotivato, metafora
autobiografica che l'autore sviluppa in X Agosto.
MYRICAE : NOVEMBRE

La poesia è stata pubblicata ne l891. Il titolo originale era "San Martino come
l'omonima poesia a cui si è spirato scritta da Giosuè Carducci. Metrica: strofe
saffiche, composte da 3 endecasillabi e un quinario, con rime alternate. La
prima strofa presenta l'immagine di una giornata di straordinaria limpidezza
e luminosità; sembra primavera, visto che lo sguardo, istintivamente, cerca
gli albicocchi in fiore. Nella seconda strofa subentra l'inganno: altri segnali, il
ramo stecchito, il cielo senza uccelli, il terreno cavo ai passi umani, negano le
apparenze iniziali. Nella terza strofa abbiamo la dichiarazione conclusiva: la
luce che pareva anticipare il risveglio primaverile si rivela essere gelida aria
che annuncia il sopraggiungere dell'inverno. E' L'estate... dei morti: dunque
siamo all'inizio di novembre come già il titolo dichiarava. Lo svolgimento
tematico e psicologico della poesia si attua dunque nel contrasto fra il
principio e la conclusione: dai simboli della vita, la chiarezza del sole, la
luminosità dell'aria, si giunge all'estremo opposto dove la freddezza
autunnale diventa emblema della morte.

CANTI DI CASTELVECCHIO: LA MIA SERA

Dopo un violento temporale che durante la giornata ha sconvolto ogni cosa, il


paesaggio si rasserena nella quiete della sera. Anche il poeta, giunto ormai
alla sera della sua vita, si sente finalmente libero dalle sofferenze e quasi
pregusta la pace della morte, vista come una sorta di ritorno al grembo
materno. Metrica: Strofe di sette novenari e un senario che rimano. Ogni
strofa termina con la parola sera. Dopo il temporale del giorno, nei campi cala
la sera con la sua pace. I rumori dei tuoni di sono spenti e nel silenzio
risuonano solo il gracidare delle rane e lo scorrere di un ruscello, mentre nel
cielo si inseguono le rondini. Nella tranquillità della sera, ch presto si
trasforma in una serena notte stellata, il poeta riflette sulla sua vita e stabilisce
una corrispondenza tra la quieta serale e la pace interiore finalmente
raggiunta nell'età matura, dopo i lutti e le sofferenze del passato. Cullata dal
suono delle campane, che si confondono con il ricordo delle ninne- nanne
cantate da sua madre, egli si abbandono a un sonno che allude alla morte ma
anche al recupero di una innocente dimensione infantile.

CANTI DI CASTELVECCHIO: NEBBIA


Rivolgendosi alla nebbia, il poeta chiede che essa lo separi dal mondo
esterno, tenendo lontane le sofferenze e i richiami della vita, permettendogli
di vivere in uno spazio protetto da cui uscirà solo nel momento inevitabile
della morte. Metrica: cinque strofe di sei versi ciascuna, in prevalenza senari,
con un ternario in quarta sede e un senario finale. Il primo verso di ogni
strofa è sempre uguale, come identica è la rima finale di ogni strofa. In questa
lirica il paesaggio diviene metafora della condizione di pace cui aspira il
poeta: ancorato alla realtà delle piccole e rassicuranti cose presenti, egli
chiede alla nebbia di nascondere le cose lontane, come l'infanzia e la
giovinezza, le cui dolorose memorie ancora non sono spente. La lirica è
incentrata sulla condizione esistenziale del poeta. La nebbia, simbolo di
chiusura del mondo e dalle sue minacce è qui evocata da Pascoli come difesa
del suo nido di affetti familiari: a lei il poeta chiede di tenere lontani non solo
lo sgomento del presente, ma anche il dolore del ricordo e persino il pericolo
di amare, di sapere. Il desiderio del poeta di conoscere solo il presente, pago
degli affetti familiari e della sua tranquillità quotidiana, è simboleggiato con
suggestiva efficacia da numerose figure e soprattutto dall'ultima immagine
del cane, che interpreta la fedeltà ai valori familiari.

IL FANCIULLINO: UNA POETICA DECADENTE

Pubblicato nel 1897 ha come idea centrale il concetto che il poeta coincide con
il fanciullo che sopravvive al fondo di ogni uomo: un fanciullo che vede tutte
le cose per la prima volta con stupore e meraviglia. Il poeta non ha fini
pratici, ma canta solo per cantare. Non si pone obiettivi civili, morali,
propagandistici. Induce alla bontà all'amore alla fratellanza, vuole abolire la
lotta tra le classi e la guerra tra i popoli. La poesia è nelle piccole cose. Pascoli
si propone come cantore delle realtà umili, oggetti umili. Rifiuta separazione
tra ciò che è aulico e ciò che è umile, vi può essere pacifica convivenza. Un
fanciullino è dentro di noi, prova gioie e dolori. Quando si è piccoli egli
confonde la sua voce con la nostra, si stupisce di ogni cosa, è curioso,
spontaneo. Quando cresciamo diventa piccolo, una vocina interiore. In alcuni
uomini pare che non ci sia, ma i segni della sua presenza sono semplici e
umili: nelle paure legate a traumi infantili, come la paura del buio, oppure si
trova nei sogni, oppure nel parlare con gli animali, con gli alberi, le stelle,
quello che piange e ride senza perchè. Fanciullino consente di cogliere la
realtà nella sua essenza profonda senza seguire il ragionamento logico.
POEMETTI: ITALY

Italy è un poemetto che racconta degli immigrati che tornano a casa. E' una
storia di una famiglia migrata in America alcuni dei quali tornano in Italia. In
America si sono fatti una vita ma Giuseppe e Luca tornano, portano con sè
una bambina figlia del fratello malata di tisi, sperando che l'ambiente di
campagna la aiuti a recuperare la salute: Molly. In Italia vivono in una casa
buia, dove si sente l'odore della stalla e tutto è vecchio. Molly trova orribile
l'ambiente e non capisce la lingua, non capisce cosa le dicono e la nonna non
capisce cosa dice lei. La gente del paese va a farsi raccontare di com'è
l'America e loro parlano una lingua mista. C'è una generazione legata al
passato e una che vive a metà tra un mondo e l'altro, vede i vantaggi del
mondo moderno e in questa lingua mista esprime questa sua realtà di
passaggio. Molly è nata nel nuovo mondo e appartiene a quello, non ha
legami con l'Italia ma quando riparte per tornare in America con gli zii
ritrova il legame con la terra dei suoi antenati poichè quando i bambini le
chiedono se sarebbe tornata, risponde si, e sarà l'unica parola in italiano che
dirà. E' la storia del cercare una strada, una via, il benessere in una realtà
lontana dalla propria, senza però dimenticarla. La nonna fila, Molly dice che
in America ci sono delle macchine che fanno in poco tempo il lavoro che si
potrebbe fare in un anno. Per la nonna è una favola, immaginano che ci siano
delle fate e cerca di fare il filo più sottile possibile per dimostrare che è ancora
capace: si vede la differenza estrema tra i due mondi.

FILIPPO TOMMASO MARINETTI


Nacque ad Alessandria d'Egitto nel 1876. Fonda il futurismo nel 1909. E' un
movimento d'avanguardia che polemizza in modi ostentati e violenti contro
la tradizione e si contrappone all'arte del passato, considerata ormai superata.
Proiettati verso il futuro e animati ds un accentuato ribellismo, i futuristi si
ispirano alla realtà contemporanea e celebrano nelle loro opere i valori e i
simboli della modernità e del progresso: la velocità, il dinamismo, le
macchine e le grandi metropoli.

IL MANIFESTO DEL FUTURISMO


In esso esprime violente critiche verso l'arte e la cultura che l'hanno
preceduto:

● Critiche alla cultura: bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sforzo
e magnificenza per aumentare l'entusiasmo fervore degli elementi
primordiali. La poesia deve essere concepita come un violento ascolto
contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.
● Critiche alla società: bisogna giustificare la guerra, il militarismo, il
patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si
muove il disprezzo della donna; ma distruggere anche i musei, le
biblioteche, le accademie d'ogni specie e combattere contro il
moralismo, il femminismo e contro ogni volontà opportunistica e
utilitaria.
● Affermazione di nuovi valori: il coraggio, l'audacia, la ribellione
saranno elementi essenziali della nostra poesia. Il voler esaltare il
movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto
mortale, lo schiaffo e il pugno. Affermare che la magnificenza del
mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità
● Programma Artistico: nessuna opera che non abbia carattere aggressivo
può essere un capolavoro, accostamenti a immagini con estreme
violenze descrittive.

ZANG TUMB TUMB: IL BOMBARDAMENTO

In questo brano Marinetti racconta la guerra combattuta ne l1912-1913 da


Grecia, Bulgaria e Serbia contro l'impero ottomano. Il bombardamento si
riferisce al bombardamento della città turca di Adrianopoli, assediata dai
bulgari nella fase finale del conflitto. La riproduzione dei suoni dei cannoni e
dei mitragliatori, unita alla particolare configurazione grafica del testo,
sembra collocare il lettore nel centro dello scontro, descritto con toni enfatici e
compiaciuti. Marinetti evoca il bombardamento di Adrianopoli attraverso
l'accostamento di notazioni sonore e visive. L'interesse del poeta non si
concentra nè sull'aspetto umano della guerra, nè sulla descrizione delle sue
fasi strategiche, ma si limita a sottolineare l'estrema violenza e il dinamismo
delle macchine belliche che, vere protagoniste dalla scena, avanzano con il
loro fragore assordante, suscitando nell'animo dei combattenti più
entusiasmo che terrore.
EZRA POUND: CANTO XLV, CON USURA
Dante aveva collocato gli usurai al VII cerchi dell'Inferno, rappresentandoli
nel canto XVII. In questo suo canto, Pound riprende il motivo dell'usura
convinto che la pratica dell'usura, consolidatasi con la diffusione del
commercio e l'istituzione delle banche, rappresenti il male peggiore della
società moderna e contemporanea e inquinandola alle radici. La condanna
dell'usura si trasforma quindi in un polemico e radicale rifiuto della presente
società capitalistico - borghese, con i principi utilitaristici ed esclusivamente
economici su cui si è sviluppata. L'usura coincide con l'assenza di ideali e
viene definita su un piano negativo. L'usura ha tradito le ragioni più
autentiche della vita, e in particolare il rapporto tra l'uomo e le cose,
trasformandole da valori d'uso in semplici valori di scambio, il cui scopo non
è il godimento appagante e disinteressato, ma la ricerca alienante e disumana
del denaro e del profitto. L'usura è così diventata un peccato contro natura,
capace di alterare ogni rapporto affettivo; ma è soprattutto lebbra, una
cancrena, che può corrodere e corrompere ogni cosa, portandola alla
decomposizione e alla putrefazione.

ALDO PALAZZESCHI: L'INCENDIARIO - CHI SONO?


Questa poesia rappresenta un vero e proprio manifesto poetico dell'autore.
Palazzeschi rifiuta i ruoli istituzionali in cui viene tradizionalmente racchiusa
la poesia e si confronta direttamente con la realtà massificata e la
mercificazione dell'arte. Già il titolo, attraverso la domanda "Chi sono?" mette
a fuoco il cuore del problema: la ricerca dell'identità. Al v.5 la penna che non
sa scrivere altro che la parola follia, indica che l'unica cosa che il poeta sa fare
è la trasgressione della norma, intesa come assenza di un criterio
universalmente valido. Al v. 10 la tavolozza che ha il solo colore della
malinconia esprime l'assenza della tradizionale tonalità di certa poesia che
viene programmaticamente rigettata da Palazzeschi. All'ultimo verso c'è
l'unica definizione che il poeta riesce a dare di se stesso: un saltimbanco.
Come un saltimbanco, infatti, cioè come un'acrobata che vende la sua arte
nelle pubbliche piazze, così il poeta dichiara di vendere la propria arte. E
anzi, per farsi notare, è costretto a mostrare di se l'intimità più profonda
ingrandendola con una lente perchè la gente riesca a vederla. Ciò che se ne
deduce è che l'anticonformismo della proposta di Palazzeschi di fonda sul
recupero della dimensione giocosa dell'arte e del suo potere trasgressivo.
Metrica: un'unica strofa di 21 versi liberi.

JAMES JOYCE: ULISSE - IL MONOLOGO DI MOLLY BLOOM


Nacque a Dublino nel 1882. E' considerato uno dei padri fondatori del
romanzo novecentesco, grazie alla vera e propria rivoluzione cui sottopone le
forme della narrativa tradizionale, attraverso un'incessante sperimentalismo
tematico e formale. Nell'Ulisse l'autore si propone di reinterpretare l'epopea
omerica in chiave moderna, narrando con dovizia i particolari, attraverso un
migliaio di pagine, una singola giornata e precisamente il 16 giugno 1904, di
un qualunque cittadino di Dublino.Questo brano è tratto dalle pagine
conclusive del romanzo, interamente occupate dal monologo interiore a cui si
abbandona la moglie di Leopold, Molly Bloom, prima di addormentarsi
accanto al marito. E' notte tarda e Molly, sdraiata nel letto matrimoniale, non
riesce a prendere sonno. Come spesso accade nel dormiveglia, i suoi pensieri
vagano liberamente, spaziando da particolari banali alla rievocazione, nel
finale, del primo incontro d'amore con Leopold. Il flusso dei pensieri della
protagonista è registrato dal narratore secondo la tecnica del flusso di
coscienza, senza alcun ordine logico e con l'abolizione della punteggiatura
per meglio evocarne il flusso indistinto. Tutto il monologo di Molly è
costruito sul libero fluire delle fantasticherie e dei ricordi della donna, che
ondeggiano senza soluzione di continuità tra passato, presente e futuro e tra
luoghi diversi, che si richiamano per analogia. Nella prima parte del brano
prevalgono considerazioni più quotidiane, legate ai preparativi per l'incontro
dell'indomani con Stephen Dedalus. La sequenza conclusiva è invece
dedicata alla rievocazione del giorno di diciotto anni prima in cui Leopold
chiese a Molly di sposarlo, a cui si sovrappongono altri ricordi anteriori nel
tempo, legati alla giovinezza di Molly a Gibilterra, alla Spagna e ai suoi primi
amanti.

La narrazione, condotta in terza persona, ricorre al continuo variare del


punto di vista, fornendo una rappresentazione poliprospettica che disorienta
il lettore, a cui viene a mancare un'ottica interpretativa unitaria. La
focalizzazione prevalente segue comunque il punto di vista del protagonista,
in una continua alternanza di passato e presente, che asseconda il flusso dei
pensieri attraverso la tecnica del monologo interiore.
VIRGINIA WOOLF: GITA AL FARO - L'EROSIONE DEL TEMPO.
Pubblicato nel 1927, gita al faro, nome originale al faro è considerato uno dei
migliori romanzi modernisti. La trama non è importante, ciò che conta è
l'introspezione psicologica e filosofica. E' il più autobiografico dei romanzi
della Woolf e descrive la famiglia Ramsay che è solita trascorrere le vacanze
estive in una grande casa sul mare. Il romanzo è diviso in tre capitoli: la
finestra, il tempo passa e il faro. Il primo e il terzo capitolo sono i più lunghi e
descrivono un lasso di tempo di meno di 24 ore. Il tempo è quindi molto
dilatato e rispecchia più di un tempo psicologico che non uno reale. Nel
primo capitolo la famiglia intera è riunita nella casa dell'isola dei Skye, e il
figlio James chiede di poter andare in gita al faro il giorno successivo. La
madre gli dice che se il tempo sarà bello andranno mentre il padre risponde
bruscamente che non si farà alcuna gita perchè il tempo sarà brutto. Questo
episodio è una scusa per ritrarre personaggi e dinamiche familiari, un padre
severo e autoritario e una madre più dolce e accondiscendente. Nel secondo
capitolo il tempo passa velocemente: dieci anni trascorrono nello spazio di
poche pagine nelle quali scopriamo che la signora Ramsay è morta
improvvisamente così come sono morti il figlio maggiore Adrian durante la
Prima Guerra Mondiale e la figlia Prue per complicanze dopo il parto. Nel
terzo capitolo chi resta della famiglia torna nella casa sul mare, i figli James e
Cam faranno finalmente la famosa gita al faro col vecchio padre in un impeto
di emozioni contrastanti, mentre la pittrice Lily Briscoe, che era ospite anche
nel primo capitolo, quando aveva iniziato un ritratto della Sig.ra Ramsay,
completa l'opera a simboleggiare l'avvenuto ritratto, da parte di Virginia
Woolf, della propria famiglia.

LUIGI PIRANDELLO
Nacque ad Agrigento nel 1867. Egli stesso si definì uno scrittore filosofo.
Questo perchè partiva da una concezione propria dell'esistenza, e le sue
opere erano dunque un modo per dimostrare il suo punto di vista. Tipica
della sua letteratura è prima di tutto una grande attenzione per la vita di ogni
giorno. Tuttavia egli non è un verista, bensì un realista. Allo stesso modo egli
non può essere definito neanche un decadente, perchè per Pirandello
l'essenza unita e universale delle cose non esiste, e non ci si può dunque
arrivare. Tema fondamentale di tutte le sue opere è l'identità. L'identità dei
singoli esseri umani, l'immagine di noi stessi, ciò che appare agli altri di ciò
che realmente siamo. Secondo Pirandello, infatti, la vita è un flusso. E proprio
questo flusso è il principio di una amarezza profonda, dell'inutilità, della
frustrazione. Poichè la vita è un flusso, dunque, anche l'uomo è un costante
divenire, come pure i suoi pensieri. Gli esseri umani, perciò, cambiano,
assumendo nuove identità. Cambiando forma e faccia non si ferma
comunque il flusso della vita. C'è un momento, quindi, in cui, secondo
Pirandello, ci accorgiamo che non siamo più quelli di prima. Tutto d'un
tratto, improvvisamente. Allora c'è la fase di sdoppiamento, in cui non
abbiamo più la nostra identità. La sensazione è quella di vedersi vivere:
vedere di se stessi quello che vedono gli altri. Diveniamo cosi "uno, nessuno e
centomila". Siamo nessuno perchè nessuno conosce il nostro vero sentirci. E
siamo anche centomila: le centomila identità fasulle che ci vengono attribuite
da chi ci sta intorno. Ci chiediamo allora chi davvero siamo, e se
l'impressione che diamo è quella che sentiamo dentro di noi. Ma ciò che
percepiscono gli altri non siamo noi, ecco che siamo tutti dei nessuno. L'uomo
si aggrappa per tutta la vita ad ideali illusori, ma in questo consiste anche il
senso di oppressione che caratterizza gli esseri umani. Occorre dunque
cambiare, insieme al flusso della vita. Questo però significa anche rinunciare
alle nostre certezze, e sentirci pertanto indifesi. Il problema, però, è che
l'uomo ha un bisogno insopprimibile di certezze, e cambiando ruolo, cambia
anche il mondo attorno a lui, perchè il cambiamento riguarda anche chi lo
circonda. Sconvolgendo la realtà che lo circonda, il personaggio pirandelliano
diviene allora un escluso, un estromesso dalla società, un uomo che non ha
più un posto per sè in cui vivere. Allora egli viene in molti casi considerato
un pazzo. Tema dominante nelle opere di Pirandello è infatti anche la pazzia.
Chi può dire, si domanda Pirandello, chi sia matto e chi no?. Pirandello si
occupa, nel corso della sua vita sia di narrativa che di teatro. Il teatro, in
particolare, aiuta Pirandello ad esprimere questa dualità che sente tra essere e
sembrare. Il teatro è dunque il luogo in cui si può rappresentare, nel suo arsi,
quel momento in cui ci accorgiamo che gli altri ci vedono in modo diverso.
Usciamo allora da noi stessi e guardiamo la nostra maschera che recita, e
facciamo a riguardo i nostri commenti, osservando come reagiscono gli altri.
Il teatro diventa da questo punto di vista una rappresentazione della vita. La
maschera, uscita dall'uomo, è nuda, cioè senza vita, e i rapporti sociali si
fondano dunque sull'inganno: "Io sono ciò che mi si crede". Pirandello è
dunque lo scrittore della crisi. La crisi dell'identità prima di tutto: se la vita è
infatti un flusso, non siamo sempre gli stessi, e ce ne rendiamo conto solo
quando il mutamento comincia ad avere un certo peso. Nello stesso tempo la
vita associata ha ruoli determinati, ruoli ben precisi. E se si cambia, ecco che
tutto viene sconvolto. Ecco dunque la scelta di buttare all'aria tutto, da parte
del personaggio pirandelliano, e di fare tutto ciò che si vuole. Gli altri lo
chiamano allora pazzo. In secondo luogo, Pirandello descrive anche una crisi
di ideali oggettivi: tutto diventa soggettivo, e senza un senso preciso.
Esistono infatti due mondi: uno interiore ed uno esteriore.

LE NOVELLE PER UN ANNO: LA CARRIOLA

Il protagonista di questa novella è un'illustre avvocato e professore di diritto.


E' un uomo stimato e rispettato, al quale tutto il paese di residenza si rivolge
per consigli e suggerimenti. Tutto ha inizio in treno, di ritorno da un viaggio
di lavoro. Il treno simboleggia il desiderio di voler cambiare vita. Durante
questo viaggio, dunque, l'uomo si rende conto che la vita che ha condotto
fino a quel momento non gli appartiene. Non si riconosce più nel suo corpo,
nel suo aspetto, nel suo ruolo di avvocato, marito e padre. Si rende conto che
la sua vita scorre velocemente e lui assiste passivamente. Si sente estraneo
alla sua vita. Tuttavia fa ritorno a casa e per l'ennesima volta riapre la porta
di casa pronto a rivestire il ruolo di padre e marito perfetto. L'apertura della
porta di casa rappresenta il ritorno alla vita che gli viene imposta dalla società
e dalla famiglia. La famiglia e la società considerano l'avvocato come un
uomo perfetto, incapace di commettere errori. L'avvocato, quindi, per non
rovinare le aspettative è costretto a rivestire il ruolo dell'uomo perfetto.
Questo ruolo, però, opprime e soffoca l'avvocato, infatti, ogni giorno ripete
un rito. Questo rito è l'unico modo per sentirsi vivo. Se questo rito venisse
scoperto comprometterebbe la sua vita e la sua carriera fatta di perfezione.
Ogni giorno, dopo essersi assicurato di non essere osservato da nessuno,
prende le due zampe della sua cagnolina e gli fa fare la carriola. Questo è
l'unico svago che l'avvocato si permette. La carriola, quindi, rappresenta la
follia e la voglia di evasione dal carcere dell'esistenza.

LE NOVELLE PER UN ANNO: CIAULA SCOPRE LA LUNA

Ciaula è un povero minatore che lavora tutto il giorno sotto terra e ritenuto
dagli altri incapace di capire e provare sentimenti umani. La vicenda è
ambientata in Sicilia e Cacciagallina, colui che sorveglia il lavoro dei
minatori, quando doveva prendersi uno sfogo, se la prendeva con Zi' Scarda.
Quest'ultimo se la prendeva con Ciaula. Un giorno Zi' Scarda dice a Ciaula
che avrebbero dovuto lavorare tutta la notte, ma lui ha paura del buio. Ha
paura del buio da quella volta che il figlio di Zi' Scarda ebbe un grave
incidente in seguito allo scoppio di una mina. A quello scoppio tutti avevano
smesso di lavorare ed erano andati sul luogo dell'incidente, tutti tranne
Ciaula, che attento era scappato a ripararsi in un antro noto solo a lui. Nella
fretta di andare là, gli si era spenta la lumiera che faceva luce e aveva cercato
di trovare l'uscita dalla galleria. In quel momento ebbe paura. Il lavoro con Zi'
Scarda cominciò e quella notte, all'uscita dalla galleria vide la luna, o meglio
la scopre perchè non l'ha mai vista prima: la sua emozione è così grande e
intensa che scoppia a piangere. Ciaula rappresenta tutti gli uomini che,
oppressi dall'oscurità dell'angoscia aspirano al chiarore delle certezze e che
nella bellezza del mondo cercano il riscatto della loro miseria.

IL FU MATTIA PASCAL: LA NASCITA DI ADRIANO MEIS

Romanzo pubblicato nel 1921. Dopo un'inattesa vincita al gioco al casinò di


Montecarlo, sul treno che lo riporta a casa Mattia apprende da un quotidiano
che nel suo paese è stato ritrovato il corpo di uno sconosciuto suicida, che sua
moglie e sua suocera hanno riconosciuto essere il suo. Il protagonista decide
allora di dare una svolta radicale alla sua vita: lasciare che tutti credano alla
sua morte e costruirsi una nuova identità e una nuova vita. Dopo aver
appreso la notizia della propria presunta morte, Mattia Pascal è invaso una
crescente euforia per la possibilità che il caso gli offre di liberarsi di
un'identità che lo opprimeva. Al senso di leggerezza si accompagna però
subito l'intenzione di crearsi una nuova identità. La trasformazione inizia
dall'aspetto esteriore, con una sosta dal barbiere, e continua poi attraverso la
costruzione del personaggio di Adriano Meis, per il quale il protagonista, non
senza esitazioni e difficoltà, immagina un passato verosimile.

IL FU MATTIA PASCAL: LA LANTERNISOFIA

La cosiddetta lanternisofia è una teoria filosofica esposta da Mattia Pascal al


proprietario della pensione in cui egli alloggia, Anselmo Paleari, il quale ama
filosofeggiare. Secondo questa teoria gli uomini hanno la possibilità di
conoscere soltanto poco della realtà, perchè sono dotati di un lanternino che
genera poca luce e che quindi non permette loro di avere una conoscenza
completa della realtà: il mondo così come appare è soltanto un'illusione,
generata dalla luce del lanternino che tende a tramutare la natura di ciò che ci
circonda. Ogni epoca, infatti, proietta la luce dominanti e quindi determinate
virtù: ad esempio il lanternino di luce rossa è quello che ha generato la virtù
pagana, ossia una pienezza di vita, in accordo con la mentalità pagana
secondo cui l'uomo vive una vita sola, quella del mondo sensibile, mentre il
lanternino di luce viola è quello che ha generato la virtù cristiana, ossia una
mortificazione della vita, in accordo con la mentalità cristiana secondo cui la
vera vita non è quella del mondo sensibile ma quella che l'uomo vive
nell'aldilà. Nell'epoca della modernità, però, secondo Mattia, il lume ha finito
il suo olio sacro, sono cioè cadute le certezze metafisiche tradizionali che
aiutavano l'uomo a sopportare il peso dell'esistenza come indica l'espressione
"strappo nel cielo di carta". Il cielo rappresenta la metafisica, ed è un cielo di
carta, ovvero di un materiale fragile, non nobile. Il fatto che il cielo di carta sia
bucato indica appunto il crollo delle certezze metafisiche, nulla esiste di
metafisico, la realtà lascia al buio l'uomo che si trova da solo con il suo debole
lanternino, privo di olio sacro. L'uomo quindi non riesce a trovare dei punti
di riferimento, prova un grande senso di disorientamento, non riesce ad
identificare delle certezze nè nella realtà che lo circonda nè dentro di lui,
poichè tutto è in continuo divenire. Il senso drammatico della coscienza
moderna consiste nel fatto che l'uomo, per via del suo debole lanternino, non
riesce a capire l'essenza che l'essenza della vita è il divenire, sforzandosi di
ottenere l'impossibile: trovare certezze metafisiche e inquadrare la propria
identità entro certi parametri.

UNO, NESSUNO E CENTOMILA: NESSUN NOME

Nel finale di Uno, nessuno e centomila il protagonista Vitangelo Moscarda,


che ha donato tutti i suoi beni per fondare un ospizio per poveri, dove si è
ritirato a vivere, riflette sul senso della sua esperienza. Finalmente libero dalle
convenzioni sociali, egli ha rinunciato alla sua stessa identità, ritrovando una
paradossale forma di felicità nel ricongiungimento con gli elementi della
natura e con il libero fluire della vita, al di là di ogni forma. Nel monologo
che conclude il romanzo, Moscarda chiarisce i motivi della sua scelta di vita:
consapevole del carattere illusorio delle convenzioni sociali, egli ha deciso di
abbandonare la società e la civiltà per vivere a contatto con la natura, simbolo
di una vita in perenne e continuo divenire. Al tempo stesso egli ha anche
rinunciato alla propria identità e persino al proprio nome, che serve soltanto
a fissare l'individuo in una forma cristallizzata e morta. Nelle sue passeggiate
all'alba fuori dall'ospizio può così assaporare la bellezza della natura e, senza
più memoria di sè, identificarsi negli alberi, nelle nuvole e nel vento.
Finalmente libero dai suoi pensieri ossessivi, Moscarda rinasce e si rinnova
ogni giorno.

SEI PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE: L'INGRESSO IN SCENA DEI


PERSONAGGI

Siamo nella parte iniziale della rappresentazione. Mentre gli Attori sono
impegnati nelle prove per il Giuoco delle parti, una commedia di Pirandello,
sopraggiungono dalla platea sei misteriosi Personaggi, con il volto coperto da
maschere, che rivolgono al Regista un'insolita richiesta: vedere rappresentata
sulla scena la tragedia che essi portano dentro di sè. Partoriti dalla fantasia di
un artista che ha poi lasciato incompiuto la sua opera, essi desiderano
soltanto vivere sulla scena. Dopo un'ampia didascalia in cui l'autore fornisce
una serie di consigli relativi al modi di rappresentare i Personaggi, l'usciere
annuncia l'ingresso sulla scena di certi signori che intendono parlare con il
Capocomico. Suscitando lo stupore del Regista e degli Attori, si fanno avanti i
sei Personaggi, chiedendo di veder rappresentato il loro dramma doloroso.
Di fronte all'iniziale rifiuto del Capocomico, che vede il suo lavoro interrotto,
i Personaggi sottolineano di essere vivi e reali, molto più delle vicende
inverosimili che la compagnia si appresta a rappresentare, e insistono per
vedere esaudito il loro desiderio.

ITALO SVEVO: PREMESSA ALLA COSCIENZA DI ZENO


Nacque nel 1861 a Trieste. Pubblicò questo romanzo nel 1923. La premessa è
costituita da due brevi capitoli, Prefazione e Preambolo. Essi anticipano il
contenuto del romanzo: la storia di una nevrosi, di una malattia che il
protagonista desidera in apparenza curare con l'aiuto della psicoanalisi
freudiana. La cura si rivelerà però uno strumento inadeguato e insufficiente a
comprendere la complessità della psiche e le sue contraddizioni. Fin
dall'esordio si evidenzia il carattere innovativo della struttura del romanzo: la
narrazione è affidata direttamente al protagonista, che nel suo memoriale
mescolerà passato e presente, verità e autoinganni della coscienza. Nella
breve prefazione il narratore è il dottor S, lo psicoanalista che aveva in cura il
protagonista e che, scrivendo a vicenda ormai conclusa, informa il lettore che
quella che leggerà è una sorta di autobiografia redatta su consiglio
dell'anziano Zeno Cosini. Il dottor S, avverte esplicitamente il lettore che
Zeno, come tutti i nevrotici, nella sua narrazione ha mescolato verità e bugia
più o meno consapevoli. Egli stesso, tuttavia, affermando di pubblicare le
memorie del suo paziente per vendetta, si mostra altrettanto poco attendibile.
Nella Coscienza di Zeno Svevo porta a dissoluzione le strutture tradizionali
del romanzo ottocentesco. Al narratore onnisciente si sostituisce una voce
narrante di cui si sottolinea in partenza l'inattendibilità Nel corso della
narrazione infatti Zeno, protagonista e io- narrante, riferirà gli eventi della
sua vita passata, in modo poco oggettivo: essendo un nevrotico, sarà
inconsapevolmente portato ad alterare la verità spiegando i moventi delle
proprie azioni in modo da autoassolversi da ogni senso di colpa, finendo
spesso con l'ingannare se stesso e il lettore. Fin dall'esordio emerge on
chiarezza il tema centrale del romanzo: la malattia del protagonista che,
affetto da nevrosi, si rivolge ad uno psicoanaliste per curarsi. Il dottor S.
avverte però il lettore che la terapia è stata abbandonata da Zeno, che pure
sembrava tanto curioso di se stesso. Nel testo si richiamano inoltre, per lo più
in modo indiretto, alcune modalità e tecniche tipiche della psicoanalisi
freudiana, l'idea che l'origine delle nevrosi dell'adulto vada ricercata
nell'infanzia e la tecnica delle libere associazioni, mescolate però a metodi e
atteggiamenti poco ortodossi: l'astio dello psicoanalista verso il suo paziente.
Nel corso del romanzo il rapporto tra salute e malattia verrà continuamente
rovesciato, finchè il protagonista giungerà gradualmente alla consapevolezza
che la malattia è una componente inevitabile della vita e anzi coincide con
essa e rifiuterà quindi ogni cura, affermando di essere guarito o meglio
paradossalmente, di non essere mai stato malato. Nel romanzo quindi Svevo,
pur rifacendosi alle teorie freudiane, mantiene verso la psicoanalisi un
atteggiamento critico e polemico, presentandone i metodi in una luce ironica
e sarcastica. Fin dall'esordio, la figura del dottor S. sembra una sorta di
grottesca caricatura di Freud. I due brevi capitoli iniziali si collocano
cronologicamente in due momenti diversi: la Prefazione si immagina scritta
dal dottor S. dopo che Zeno ha abbandonato la cura, e quindi a vicenda
conclusa. Il Preambolo ci riporta invece a una fase precedente, in cui Zeno,
prima di intraprendere la terapia psicoanalitica, segue il consiglio del dottor
S. e inizia a scrivere il suo memoriale. Egli si sforza inoltre di ritornare con la
memoria al proprio passato, per ritrovarvi l'origine del suo disagio. Il
risultato è però deludente: nello sforzo il paziente si addormenta. L'intero
romanzo presenta una gestione del tutto originale del tempo narrativo. Gli
eventi passati non verranno infatti narrati seguendo un ordine cronologico
lineare, ma secondo un criterio tematico. In una continua alternanza di piani
temporali diversi la scrittura asseconda il tempo misto della memoria
spostandosi tra il presente e il passato.

UMBERTO SABA: AMAI


Tratto dal Canzoniere, il testo appartiene a una delle ultime raccolte di Saba,
Mediterranee, pubblicata nel 1947. Si tratta di un'esplicita dichiarazione di
poetica, in cui l'autore ribadisce i caratteri della propria poesia, che usa un
lessico quotidiano e apparentemente banale per cogliere la verità profonda
che giace nel cuore dell'uomo. Metrica: due quartine e un distico di
endecasillabi. La lirica, composta da Saba in età matura, si propone come una
sorta di bilancio della sua attività di poeta. La ripetizione del verbo amare,
coniugato prima al passato e poi al presente, sottolinea il permanere nel
tempo di una medesima visione della poesia, caratterizzata dalla semplicità e
profondità dei contenuti e dello stile e da un atteggiamento di cordiale
apertura nei confronti del pubblico dei lettori.

GIUSEPPE UNGARETTI
Nacque ad Alessandria d'Egitto nel 1888. Il suo pensiero e la sua poetica
possono essere divisi in 3 fasi:

● Lo sperimentalismo, Allegria: la prima fase è caratterizzata da un forte


sperimentalismo, influenzate principalmente dalla poesia simbolista
francese. Le prime poesie hanno una decisa impronta autobiografica, la
poesia trova così fondamento nelle esperienze esistenziali, recuperate
attraverso la dimensione della memoria. Segno evidente di queste
impostazioni autobiografiche sono il luogo e la data di composizione.
La poesia si concentra su quanto c'è di universale nelle proprie
esperienze e che vale per tutti gli uomini: innalza la dimensione privata
a simbolo di condizione universale. Il poeta dunque indaga le realtà nei
suoi aspetti più profondi servendosi dell'analogia per superare i legami
logici in favore di associazioni basate sull'intuizione immediata e di
ardite metafore. Per rinnovare il suo linguaggio poetico la parola si
carica di significati profondi e diventa un mezzo per cogliere l'essenza
delle cose, per recuperare una purezza originaria in grado di riscattare
dalle atrocità del presente mediante un sofferto scavo interiore che
porta ad improvvise e folgoranti illuminazioni. Inoltre gli orrori del
fronte che visse in prima persona influirono pesantemente sulla scelta e
creazione di un linguaggio poetico che lui volle scarno e essenziale. Le
innovazioni stilistiche sono: Linguaggio scarno ed essenziale.
Abolizione della rima e del verso tradizionale. Frantumazione della
sintassi e abbandono della punteggiatura. Riduzione del verso ad una
singola parola. Spazi bianchi, pause e silenzi. Verticalizzazione:
prevalenza di versi molto brevi che creano un effetto di essenzialità.
● Il recupero delle tradizioni, Sentimento del tempo: questa fase è segnata
da una profonda crisi spirituale dove predomina la riflessione sul
tempo, sulla morte e sul sentimento religioso.
● La compostezza formale, Il dolore: in questa fase il tema è il dolore
privato per la morte del figlioletto ed il dolore collettivo per le atrocità
della Seconda Guerra Mondiale.

L'ALLEGRIA: I FIUMI

In un momento di tregua dai combattimenti, il poeta ha fatto il bagno nel


fiume Isonzo. A sera ricorda il senso di armonia e serenità provato e come in
quel fiume egli abbia ritrovato altri fiumi, il Serchio, il Nilo e la Senna, legati
ad altrettante fasi della sua vita. Metrica: quindici strofe irregolari di versi
liberi. La poesia ha una struttura circolare e risulta come racchiusa tra la
prima e l'ultima strofa, che si riferiscono a una situazione presente: la sera di
un giorno di guerra. Al'interno di questa cornice si colloca il ricordo di un
evento recente: il bagno che ha fatto quella stessa mattina nell'Isonzo. In quel
momento il poeta ha poi ripercorso, a ritroso nel tempo, gli altri fiumi che
hanno segnato le tappe principali della sua vita. Il bagno è inteso come
esperienza benefica di comunione con la natura e come momento rivelatore
della propria identità. L'essersi riconosciuto nelle propria vita attraverso i
fiumi provoca un sentimento di nostalgia e di dolce e fragile tristezza.

L'ALLEGRIA: SAN MARTINO DEL CARSO

Il contesto storico della poesia è la prima guerra mondiale. Nella lirica il


poeta ricorda, davanti al paese mezzo distrutto dalla guerra, i suoi compagni
di battaglia. I suoi compagni vengono ricordati uno ad uno in segno di affetto
e di omaggio da parte del poeta. Il loro ricordo è rimasto in fondo al cuore e
questa poesia è stata scritta con un linguaggio molto semplice proprio con
l'obiettivo di ricordare i suoi cari. Intorno a Ungaretti regna la desolazione di
San Martino del Carso e i segni di una guerra logora che tutto ha distrutto e
rovinato, persino le persone a lui più care con cui lui interloquiva. Lo stile
poetico utilizzato nella lirica è molto semplice ed essenziale ed è teso a far
capire lo stato d'animo del poeta. Il dolore di Ungaretti è vivo. La spaventosa
realtà della guerra e della morte è espressa mediante un'analogia, le macerie
del paese diventano il simbolo del cuore del poeta e del suo dolore. Lo strazio
per l'orrore della guerra è espresso dalle case, metaforicamente ridotte a
qualche brandello di muro. Di tanti soldati uccisi non è rimasto neppure un
brandello del corpo, ma tutti sono vivi nell'animo e nel ricordo del poeta.

L'ALLEGRIA: VEGLIA (L'ALLEGRIA)

La poesia parla dell'esperienza della Prima Guerra Mondiale, composta


proprio al fronte, segna profondamente il poeta: un compagno di armi è stato
ucciso e Ungaretti è costretto a trascorrere tutta la notte in trincea, immobile
accanto al cadavere. L'orrore e l'angoscia della morte dominano la prima
parte del testo, in cui si affollano immagini crude e raccapriccianti. Tuttavia
proprio la vicinanza della morte suscita nel poeta, per contrasto, un
fortissimo impulso vitale, una reazione che lo spinge a pensare ai suoi cari, e
a ritrovare in sè un disperato amore per la vita. La situazione che si delinea
nella lirica riassume il senso dell'intera raccolta. A contatto con il naufragio e
con l'esperienza estrema della guerra, scatta più forte nell'uomo l'istinto
vitale, una paradossale allegria che induce a riscoprire l'amore e la solidarietà
verso i propri simili.

L'ALLEGRIA: SOLDATI
Questa poesia chiude la quarta sezione dell'Allegria, intitolata Girovago, ed è
stata scritta da Ungaretti sul fronte francese, in uno dei momenti più
sanguinosi e drammatici della Prima Guerra Mondiale. La brevissima poesia
si basa sull'analogia tra la precarietà della vita dei soldati, indicati dal titolo, e
le foglie che in autunno ogni minimo soffio di vento può staccare dall'albero.
Il testo si basa su un semplice paragone tra i soldati e le foglie. Si tratta di una
similitudine classica, usata per indicare la precarietà dell'esistenza fin dalla
Bibbia e da Omero; ma probabilmente Ungaretti ha presenti i più famosi
passi di Virgilio e Dante, che ricorrono a questa immagine per indicare le
anime dei morti in attesa di entrare all'inferno. La condizione di attesa
espressa dal testo allude quindi alla condizione dei soldati in trincea, in attesa
dell'attacco o della morte, ma anche alla condizione generale dell'umanità, in
riferimento alla brevità della vita.

EUGENIO MONTALE
Nacque a Genova nel 1896. I temi fondamentali della sua poetica sono:

● Pessimismo: Secondo Montale la poesia nasce dalla dolorosa


meditazione sulla propria condizione ed è la forma di vita di chi non
vive veramente. Possiamo dunque trarre l'inconciliabilità tra la vita e la
parole e, quindi, l'impossibilità di tradurre le sensazioni in parole, le
quali costituiscono un muro che impedisce di attingere alla vita. Non a
caso lui stesso è definito il poeta del male di vivere: l'esistenza non
riserva gioir, nè tanto meno il conforto della religione o di un intervento
divino; questa idea si nota in Ossi di Seppia e in Le Occasioni, in forma
di pessimismo esistenziale, invece vediamo un'evoluzione in La bufera
e Altro, poichè si ha l'impegno civile della ricostruzione attraverso la
poesia: pessimismo storico e sociale.
● Poesia Metafisica: la poesia è una sorta di testimonianza con cui il poeta
affida ad un interlocutore le sue riflessioni sul disagio esistenziale
dell'uomo. La poesia per lui non consente di aprire porte su altre realtà
e nemmeno di riscoprire l'identità degli autori in comune con il resto
del mondo o con la natura. Definisce dunque la sua poesia metafisica,
poichè nasce dal cozzo della ragione contro qualcosa che non è ragione,
per attingere alla profondità irrazionale della realtà
● Polemica contro la società dei costumi: dopo gli anni '60 accentua la sua
visione negativa del mondo e gli eccessi della società dei consumi,
diventando il suo obiettivo polemico. Da qui notiamo infatti, nelle
ultime opere specialmente, accenti ironici nella sua poesia per dare
l'idea di una realtà priva di senso.
● La ricerca del varco: lui è costantemente alla ricerca di un varco verso
l'essenza delle cose e confida in un miracolo per rilevare ciò di cui
intimamente è convinto, cioè la nullità dell'esistenza. La parola è
dunque lo strumento che serve al poeta per confrontarsi con il mondo
attraverso l'osservazione. Per rendere una dimensione più autentica
utilizza due elementi depositari di un valore simbolico: 1- la poetica
degli oggetti: essendo per lui le parole un suono puro della concreta
determinazione di fatti e di oggetti cerca sempre di indirizzarsi su
elementi della realtà comune con i quali l'uomo è sempre a contatto.
Tentando di conoscere l'essenza delle cose, cerca di scrutare il
significato più profondo dell'esistenza. 2 - le figure femminili: esse non
sono mai descritte fisicamente, ma ognuno di loro ha significati diversi,
fissate in un gesto o in un particolare, trasfigurazione poetica.
● Modelli: ritroviamo in lui vari modelli: Leopardi, la pessimistica e
dolorosa visione della vita; Pascoli, l'interesse per le piccole cose ed il
linguaggio semplice e familiare, oltre ai rapporti con la cultura
moderna; Eliot, la poetica dell'oggetto; Scrittori russi, pensiero
esistenzialistico, ovvero una ricerca della verità che consenta di dare
valore all'esistenza.
● Linguaggio: è nuovo, aspro, alla ricerca della parola essenziale. Spesso
mescola termini precisi con termini letterari o comuni accordati da
suoni. Ogni oggetto è un frammento di ricordo. La metrica,
inizialmente, è la classica che vediamo spesso: strofe quartine ad
endecasillabo; successivamente si ha una ricerca di musicalità del verso
attraverso assonanze, allitterazioni ed onomatopee. Inoltre più si va
avanti con la sua produzione e più notiamo somiglianze con la prosa:
versi lunghi, enjambement, settenari, ottonari e novenari.

OSSI DI SEPPIA : MERIGGIARE

Scritta nel 1916. è una delle prime poesie composte da Montale: inserita in
Ossi di Seppia, si trova all'interno della sezione che dà il titolo all'opera. Il
paesaggio ligure, descritto nell'accecante solarità del mezzogiorno, diventa
emblema del male di vivere, di una condizione universale di disarmonia e di
impossibile desiderio di comunione con la natura. Metrica: quattro strofe di
versi novenari, decasillabi e endecasillabi liberamente alternati. La lirica trae
spunto dalla descrizione del paesaggio della brulla marina ligure per
riflettere sulla condizione umana e sulla sua dolente insensatezza. Le prime
tre strofe hanno carattere descrittivo. Il poeta apre la lirica presentando la
situazione, è mezzogiorno, egli si trova vicino a un muto che lo separa da un
orto. Poi si sofferma su una serie di particolari della natura circostante, colti
dapprima attraverso l'udito, poi con la vista: il fruscio delle serpi, il canto
stridulo dei merli e delle cicale e l'affacendarsi delle formiche sul suolo riarso.
Nella strofa finale si attua in modo più evidente il passaggio dalla descrizione
alla riflessione. La vita umana è infatti paragonata a un doloroso vagare
lungo una muraglia che non si può superare: l'esistenza di ogni creatura si
consuma nella gabbia opprimente di una realtà di sofferenza, animata dalla
vana ricerca di un senso che resta irraggiungibile.

OSSI DI SEPPIA: NON CHIEDERCI LA PAROLA

Il poeta rifiuta l'idea tradizionale della poesia come portatrice di verità


assolute per sostenere invece la sua funzione di sguardo critico verso la
realtà, che non rinuncia a un sentito impegno morale. Montale rivolgendosi a
un tu generico che si identifica con il lettore e parlando alla prima persona
plurale, a nome di tutti i poeti della sua generazione, esorta a non cercare
nella poesia una risposta certa alle proprie domande esistenziali nè una verità
univoca sul mondo e sulla vita. Soltanto le persone superficiali possono
appagarsi di facili certezze consolatorie e stereotipate. I suoi versi si limitano
invece a segnalare con fermezza un messaggio in negativo, che indica i falsi
valori in cui non è possibile riconoscersi. Il testo sottolinea la funzione che
Montale attribuisce alla poesia, nella crisi di ogni certezza che caratterizza la
cultura del Novecento. Il poeta non ha più la funzione di guidare la
collettività indicando verità assolute o modelli di comportamento. In antitesi
rispetto al poeta-vate di fine Ottocento, l'artista moderno non si propone più
come individuo eccezionale capace di comprendere il significato
dell'esistenza, ma può solo dare voce al suo fermo rifiuto di valori negativi e
mistificatori. Con il suo senso critico e la sua tensione morale, il poeta resta
comunque superiore all'uomo qualunque, che accetta passivamente modelli
imposti dall'esterno.

LE OCCASIONI: LA CASA DEI DOGANIERI

Datata 1930, la lirica è uno dei primi testi scritti dopo Ossi di seppia. Il Tu a
cui si rivolge il poeta si identifica, secondo quanto afferma Montale stesso,
con una villeggiante morta molto giovane, da identificare con Anna degli
Uberti, cantata con il nome di Annetta o Arletta. In realtà, da successive
ricerche è emerso che la donna morì solo nel 1959, anche se i rapporti tra lei e
Montale cessarono nel 1924. Il poeta si rivolge alla donna per rievocare il loro
incontro, avvenuto una sera di molti anni prima nella casa dei doganieri, ora
disabitata. Ma, diversamente da lui, la donna, lontana o forse morta, non
ricorda l'evento: l'inesorabile scorrere del tempo rende impossibile trovare un
punto di contatto. Metrica: Quattro strofe, le dispari di cinque versi, le pari di
sei, di versi liberamente rimati, quasi tutti endecasillabi oppure versi doppi,
formati da un quinario e un senario. Rivolgendosi a una giovane donna,
probabilmente Arletta, Montale ricorda il loro incontro, avvenuto in un
imprecisato passato nella casa dei doganieri, sulla costa di Monterosso. Molto
tempo è trascorso, e sebbene il poeta si sforzi di mantenere vivo il ricordo, la
separazione intervenuta tra i due o, forse, la morte prematura della donna,
impedisce che quest'ultima ricordi quell'episodio. L'impossibilità di
condividere il ricordo e di ristabilire un legame con la donna e con il proprio
passato, suscita nel poeta un ansioso disorientamento, che si oggettiva in
immagini di totale spaesamento. Nell'ultima strofa si affaccia per un istante
un'improvvisa apertura verso un varco, le luci lontane di una petroliera
sembrano indicare la possibilità di superare le difficoltà e ristabilire un
contatto, ridando senso al passato. Ma si tratta di una speranza illusoria, che
non fa che accrescere lo stato di confusione del poeta, il quale non sa
distinguere il passato dal presente, la vita dalla morte.

LA BUFERA: GLI ORECCHINI


Gli orecchini venne pubblicata nel 1940 sulla rivista Prospettive. E' un sonetto
elisabettiano, tre quartine e un distico finale. Si tratta di un sonetto d'amore
per una donna che non c'è e non ci sarà più. La donna evocata nella poesia è
Irma Brandels, la studiosa americana che Montale conobbe a Firenze nel 1933
e con cui ebbe una relazione amorosa durata fino a quando nel 1939, la donna
dovette tornare negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziste del
regime fascista. Irma era ebrea. Il poeta non la rivide più. In essa il poeta non
conserva le immagini che ha ricevuto, come se fossero stati cancellati da una
spugna. I deboli segni di un'esistenza sono scomparsi dalla sua memoria. Lui
cerca di ricordare gli orecchini di corallo della donna e il suo amore, che per
lui rappresentano una divinità incarnata che consumano il desiderio. Fuori il
rumore, come ali di insetti è indifferente alle loro vite. Nella mente tornano i
tristi pensieri della sera, come molli meduse velenose. Nel finale si imprime
nel poeta un'immagine di morte e vede gli orecchini di corallo e squallide
mani di morti che li fissano ai lobi della donna.

SATURA: HO SCESO, DANDOTI IL BRACCIO

La breve poesia, inserita in Xenia II, fu scritta nel 1967, quattro anni dopo la
morte della moglie Drusilla Tanzi. Rivolgendosi alla donna ormai scomparsa,
il poeta ricorda con affettuosa nostalgia gli anni trascorsi al suo fianco,
quando lei, semplice e fedele compagna di vita, lo guidava quotidianamente
con la sua capacità di vedere oltre le apparenze. Metrica: Due strofe di versi
liberi, con alcune rime e assonanze. Il testo si presenta come un affettuoso
colloquio con la moglie morta. A lei Montale si rivolge ricordando il lungo
viaggio percorso insieme. L'assenza dolorosa dell'amata Mosca, soprannome
della donna, provoca un senso di vuoto e di smarrimento nel poeta, che a lei
si affidava nella vita di ogni giorno. Ora che la donna non è più al suo fianco,
Montale si rende conto che, nonostante l'apparente fragilità, Mosca aveva una
conoscenza profonda della realtà, poichè era in grado di comprendere che la
verità va ben oltre le apparenze superficiali. Da qui la conclusione
inaspettata: sebbene gli occhi della donna fossero offuscati dalla miopia,
sapevano vedere molto più chiaramente di quelli del poeta ed erano capaci di
orientarsi nel labirinto dell'esistenza.

GEORGE ORWELL
Eric Arthur Blair conosciuto come George Orwell, nasce in India nel 1904.
1984

Romanzo pubblicato nel 1949. Siamo nel 1984, in un mondo distopico in cui
la Terra è divisa tra Oceania Eurasia ed Estasia. Queste tre superpotenze
continuano a farsi guerra per mantenere il controllo sulla società che viene
amministrata e governata da un unico partito con a capo il Grande Fratello. Si
tratta di una sorta di entità che nessuno ha mai visto, ma che controlla tutto e
tutti tramite la TV e i teleschermi che sono installati per forza in ogni
abitazione e che diffondono propaganda in ogni istante. Il romanzo è
ambientato a Londra nel 1984 e una guerra atomica ha diviso il mondo tra
Oceania, Eurasia e Estasia. Proprio in Oceania la società viene controllata in
tutto e per tutto da un unico Partito governato dal Grande Fratello, basato sui
principi di Socing, un socialismo estremo. In città non vige che una libertà
apparente: il Grande Fratello controlla tutti tramite televisori installati
ovunque in città e anche nelle case degli abitanti di Oceania da cui si
trasmette continuamente propaganda. Nelle vie della città si trovano le
pattuglie della Psicopolizia, un'organizzazione paramilitare che ha lo scopo
di controllare la vita dei cittadini ed evitare che pensino qualcosa che vada
contro il regime. La lingua che tutti conosciamo è stata sostituita dalla
Neolingua, un linguaggio epurato dai termini ambigui perfetto per esprimere
le norme base del Socing e in cui sono stati riscritti tutti i testi. Il personaggio
principale è Winston Smith, un 39 enne che lavora ne Partito Esterno, negli
uffici del Ministero della Verità. Il suo lavoro è quello di correggere articoli,
libri e giornali già stati pubblicati in passato per renderli in linea con le
previsioni fatte dal Partito Esterno. Praticamente Winston modifica la storia
scritta per continuare ad alimentare l'infallibilità del Partito e non far sorgere
dubbi sulla sua attendibilità Se all'apparenza Winston sembra un impiegato
come tanti altri, in realtà fa molta fatica a sottostare ai condizionamenti del
regime che influenzano tutta la sua vita e non riesce molto ad adeguarsi, al
punto che inizia a scrivere su un diario i suoi pensieri contro il regime.

Nel romanzo si criticano i sistemi totalitari e i Mass Media estremizzandone


l'uso e trasportandoli in una realtà, che fortunatamente , a oggi non si è
ancora verificata. Ciò che Orwell cerca di trasmettere è anche la necessità di
un uso moderato dei mezzi di comunicazione di massa e di non affidare
unicamente a loro la nostra conoscenza e il nostro sapere in quanto questo
significa dargli potere estremo. 1984 è un romanzo distopico, ossia presenta il
peggiore dei futuri possibili e per comprenderlo a fondo non possiamo non
fare riferimento al sistema politico che Orwell intendeva criticare aspramente.
La società presentata, infatti, è una critica aperta a tutti i sistemi totalitari, ma
soprattutto, contiene numerosi riferimenti al regime stalinista e all'operato di
Stalin e Lenin. A distanza di anni, anche adesso alla fine della Seconda
Guerra Mondiale , rimane inalterato il monito di Orwell a non sottovalutare
mai l'importanza di essere liberi e del pensiero critico.

LA FATTORIA DEGLI ANIMALI

Anche questo libro è un romanzo distopico, dove per distopia si intende una
società indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Il termine indica spesso una
società fittizia, ambientata in un futuro prossimo nella quale le tendenze
sociali sono portate a estremi apocalittici. Le caratteristiche di un romanzo
distopico sono:

● E' presente una società gerarchica in cui le divisioni tra le classi sociali o
caste, sono rigide e insormontabili.
● La propaganda del regime e i sistemi educativi costringono la
popolazione all'adorazione dello stato e del suo governo convincendola
che il proprio stile di vita è l'unico o il migliore possibile.
● Il dissenso e l'individualità sono visti come valori negativi, in
opposizione al conformismo dominante.
● Lo Stato è spesso rappresentato da un leader carismatico adorato dalla
gente e caratterizzato da un culto della personalità
● Il mondo al di fuori dello Stato è visto come paura e ribrezzo.
● Il sistema penale comprende spesso la tortura fisica o psicologica,
spesso seguita dall'omicidio statale.
● Agenzie governative, una polizia segreta, sono impegnate nella
sorveglianza continua dei cittadini.

Ne La Fattoria degli Animali, gli animali della Fattoria, maltrattati e sfruttati


dal loro padrone, Jones, vengono a conoscenza del sogno di un vecchio verro
della fattoria, chiamato Vecchi Maggiore e rispettato dalla fattoria intera. In
questo sogno, gli animali sono liberi dal controllo dell'uomo, i soli artefici del
proprio destino e consumano tutto ciò che producono. Infatti Vecchio
Maggiore, oltre a riferire il suo sogno, fa notare a tutti gli animali della
fattoria come il loro unico rivale sia l'uomo, l'unico animale che consumi
senza produrre, arrivando a formulare questa massima, "tutto ciò che ha
quattro gambe o ali è buono, tutto ciò che ha due gambe è cattivo". Per
concludere la sua lezione Vecchi Maggiore, insegna agli altri animali un canto
che aveva appreso da piccolo, cioè Bestie d'Inghilterra, e prevedeva una
Rivoluzione che poteva avvenire in un futuro più o meno prossimo. Il signor
Jones, diventato ormai alcolizzato, trascura sempre di più la fattoria, fino a
quando un giorno, agli animali non è distribuito il pastone e le mucche non
sono munte; non resistendo più, gli animali sfondano i recinti, lasciati andare
per cibarsi da soli, mentre Jones e gli altri uomini si scagliano contro di loro.
Spontaneamente gli animali iniziano a combattere contro gli umani e riescono
a cacciare questi dalla fattoria, che diventa di loro esclusiva proprietà e viene
ribattezzata Fattoria degli Animali. Ben presto, tuttavia, emerge tra loro una
nuova classe di dirigenti sfruttatori, formata dai maiali, gli stessi che avevano
incitato il popolo a liberarsi dall'oppressione. Essi con scaltrezza, egoismo,
cupidigia e i mezzi propri delle dittature come la propaganda, s'impongono
in modo prepotente e tirannico sugli altri animali più ingenui e semplici. Tra
questi i più potenti sono Napoleone e Palla di Neve, i quali aspirano a
concentrare tutto il potere nelle loro mani. Gradualmente infatti sono
eliminati tutti gli elementi democratici nella Fattoria e la situazione diventa
più drammatica di quella che c'era prima di Jones. Napoleone si circonda di
un gruppo di cani rapiti dalla madre come sue milizie personali e resi
rabbiosi per i maltrattamenti subiti. Essi scacciano Palla di Neve e uccidono
chi non si mostra d'accordo con le idee del dittatore. Il dittatore,
malignamente, fa ricadere tutte le colpe sull'esiliato Palla di Neve e
attribuisce a sè tutti i meriti, come ad esempio la realizzazione del mulino,
che poi fallisce miseramente. Anche in questo caso il crollo dell'edificio è stato
fatto passare come un atto estremista di Palla di Neve. Napoleone tradisce
anche i suoi collaboratori più fedeli come Boxer, il cavallo che conduce al
mattatoio, quando non è più utile ai suoi progetti, senza avere nulla da
invidiare a Jones. Gli ideali di fratellanza ed equità proclamati al tempo della
Rivoluzione sono rinnegati da un unico comandamento che sostituisce gli
altri sette. Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
La frase che termina il racconto è n modo satirico di Orwell per evidenziare il
fatto che il comunismo sia sempre utopistico: nessun uomo riuscirà mai a
debellare il desiderio di potere e prevaricazione.

ALBERTO MORAVIA
Nasce a Roma nel 1907. La critica nei confronti del mondo borghese è il
nucleo fondamentale della produzione letteraria di Moravia. Tale critica è
presente soprattutto nel capolavoro Gli Indifferenti. In esso prevalgono molte
sequenze descrittive, come quelle che interessano gli ambienti borghesi in cui
si trovano a discutere i personaggi. Questo è un metodo che consiste
nell'accompagnare la sequenza dialogica o la sequenza narrativa con una
precisissima descrizione di tutto ciò che c'è intorno; ciò avviene perchè tanto
più la scena è dettagliata tanto meno il lettore può notare l'inconsistenza della
scena in cui si dovrebbe svolgere l'azione: in sostanza il narratore non può
fare altro che descrivere perchè l'azione è pensata, ma poi non è portata
avanti dai personaggi.

GLI INDIFFERENTI: CAP. 3 L'INDIFFERENZA DI MICHELE

Nel terzo capitolo i personaggi sono riuniti in salotto: Mariagrazia appare


angosciata alla notizia dell'imminente rovina economica; Michele comprende
che ci si attende da lui una reazione indignata per il comportamento di Leo,
che tenta di imbrogliare economicamente Mariagrazia, sua amante, ma egli
non riesce a rompere la prigione della propria indifferenza. Nel bel mezzo
della discussione arriva Lisa, amica di famiglia e vecchia amante di Leo.
Quest'ultimo sentendosi offeso dall'insulto di Michele, pretende delle scuse, e
il ragazzo costretto dalla madre gliele porge. Lisa invita a casa sua Michele
l'indomani. Nel frattempo Leo rimasto solo con Carla, tenta di baciarla; la
ragazza cede, ma prospettando un taglio netto con la vecchia vita acconsente
ad un incontro per il giorno successivo. L'indomani mattina Michele si reca a
casa di Lisa e la donna tenta di sedurlo, ma alla fine riesce a strappargli un
bacio. Michele non accettando quell'assurda situazione, nè provando alcun
sentimento per Lisa, torna a casa.

Il romanzo è stato pubblicato nel 1929 nel periodo in cui il fascismo italiano
proseguiva trionfante il suo cammino e in Germania il nazismo si accingeva a
prendere il potere. In questo romanzo, nato da un diretto desiderio di un
analisi moralistica e satirica, vengono ritratti gli aspetti disperati e corrotti
della vita e del costume della società borghese di quel periodo storico, con
una lucidità e freddezza puntigliosa che sembrano rifiutare gli ideali della
politica trionfalistica del regime e sottintendono il giudizio negativo
dell'autore nei confronti del fascismo italiano. L'indifferenza si carica nel
romanzo di connotazioni storiche precise: si tratta del conflitto dell'individuo
con la vita, ma anche del conflitto dell'individuo con una determinata società.
I personaggi chiave si possono raggruppare in due schiere opposte: I vinti,
cioè cloro che sono destinati allo scacco, che tentano in modo spesso
velleitario di ribellarsi al destino; i Vincitori sono i personaggi che accettano
la vita senza farle il processo e che proprio per questo risultano alla fine dei
vincitori o per lo meno non del tutto sconfitti. Michele oscilla tra una vanità
falsa e l'indifferenza in cui sembra lasciarsi andare, senza combattere. E' un
vinto. A volte reagisce, sembra che voglia rompere con la finzione, strappare
le maschere a quei volti della sua vita duri, patetici, inespressivi, denudare i
propri istinti. La ribellione, però, quando avviene, è tiepida e mite: la noia,
l'indifferenza svuotano ogni azione.

PRIMO LEVI
Nasce a Torino nel 1919. E' ebreo e nonostante le leggi razziali si laurea in
chimica e successivamente decise di unirsi a un gruppo di resistenza ebraica
formatosi in seguito all'intervento tedesco nel Nord Italia. Viene catturato e
deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Il suo capolavoro è Se questo
è un uomo che descrive le condizioni di vita dei deportati. Attraverso un
atteggiamento analitico fa appello alla ragione per comprendere le cause
profonde delle atrocità vissute in prima persona. Mosso da un'attitudine
mentale scientifica, legata alla sua formazione da chimico, Levi scrive non
solo per liberarsi dell'ossessione del ricordo, ma anche per analizzare
lucidamente i moventi e i meccanismi della sopraffazione dell'uomo
sull'uomo. Lui pensa che il suo dovere è testimoniare. Il libro si apre con una
poesia che l'autore dedica alle generazioni future affinchè non dimentichino
gli errori e gli orrori che hanno dovuto subire gli uomini durante le
persecuzioni naziste. Egli che è stato ridotto a una larva umana, umiliato e
offeso, ma che è riuscito a sopravvivere alla sua distruzione vuole far sapere
agli altri il dramma infinito che hanno vissuto quegli uomini che non erano
più uomini perchè la loro dignità veniva distrutta e calpestata e non erano
più degni di questo nome perchè il Lager aveva annullato quanto di umano
c'era in loro. Ciò non deve essere dimenticato affinchè i giovani possano
costruire una società fatta di libertà e non di schiavitù, di rispetto e non di
sopraffazione, di amore e non di odio.

SE QUESTO E' UN UOMO: CAP. 1 IL VIAGGIO

Primo Levi si trova nel campo di transito di Fossoli, vicino Modena. Da qui i
prigionieri vengono trasportati in treno in Polonia, attraversando prima il
Brennero e poi l'Austria. Le condizioni che i prigionieri sono costretti a
sopportare nei vagoni sono disumane e molti muoiono già prima dell'arrivo.
Una volta ad Auschwitz i prigionieri vengono fatti scendere, divisi sia per
sesso che per età o condizioni fisiche: spesso è semplicemente il caso di
trovarsi in una fila e non in un'altra a determinare la condanna a morte o la
salvezza di un essere umano. I selezionati salgono su degli autocarri dove
vengono confiscati loro tutti gli averi.

SE QUESTO E' UN UOMO: CAP. XI IL CANTO DI ULISSE

Levi, durante il trasporto di una cisterna di zuppa, cerca di ricordarsi i versi


canto XXVI dell'Inferno di Dante per recitarli ad un compagno francese, Jean
Picolo. Lo sforzo di trasmettere ad un ascoltatore straniero il significato e la
profonda bellezza del canto dantesco diventano, nel contesto assurdo ed
alienante del campo di concentramento, una metafora dell'esperienza della
prigionia.

ELSA MORANTE
Nasce a Roma nel 1912. E' stata la prima donna a vincere il premio strega nel
1957. Moglie di Alberto Moravia e grande amica di Pier Paolo Pasolini. Nelle
opere, in particolare nei suoi quattro romanzi l'autrice esprime il suo
pensiero. In questi libri c'è il valore assoluto che per l'autrice assume
l'innocenza degli umili, opponendoli alla forza del mondo moderno che
incombe. Per lei al mondo si scontrano due categorie di esseri: gli infelici,
molti contro i felici pochi. In particolare questi ultimi sono definiti come
categoria di portatori di bellezza, salvezza e scandalo. Per la Morante il poeta
è colui che deve combattere il nemico principale dell'uomo, l'irrealtà che
porta alla morte e alla disintegrazione. Elsa Morante aveva una personalità
forte, definita, che al contempo era in grado di farle vedere in faccia la realtà
senza filtri, ma la faceva commuovere alla vista di un gattino. Elsa Morante
ha avuto la capacità di guardare dritto negli occhi la miseria umana senza
mai volgere lo sguardo altrove, pagando di persona in un vita che ha amato
donando tutta se stessa fino all'ultimo briciolo del suo animo.

LA STORIA : LO STUPRO

Pubblicato nel 1974, il romanzo è ambientato a Roma tra il 1941 e il 1947, si


concentra sulla storia degli umili, narrando la tragedia della maestra
elementare Ida Ramundo e dei suoi figli Nino e Useppe che, frutto della
violenza subita da un soldato tedesco, morirà ancora bambino di epilessia.
Nel romanzo si intrecciano costantemente realtà e sogno, concretezza e
fantasia; l'autrice si propone di mostrare l'intreccio tra gli eventi della Storia,
polemicamente definita nel sottotitolo Uno Scandalo che dura da diecimila
anni e le vicende dei personaggi popolari che di essa sono sempre vittime
incolpevoli. Ida è ebrea e vedova con un figlio Nino. Nel 1940 viene stuprata
da un soldato tedesco, che lei lasciò inizialmente fare non ribellandosi perchè
temeva fosse venuto ad arrestarla, vista la sua origine giudaica. Quando
comprese le sue intenzioni era troppo tardi e da questo rapporto non voluto
nasce Useppe.

ANTONIO GRAMSCI
Nacque ad Ales, Cagliari nel 1891.

ODIO L'INDIFFERENZA

Antonio Gramsci propone un testo di grande spessore morale, riguardo al


tema dell'indifferenza. Inizialmente egli dice che vivere vuol dire essere
partigiani, cioè partecipare all'azione degli eventi. Chi si comporta in modo
Indifferente, al contrario, non vive ed è visto come un vigliacco. Il succedersi
della storia è dovuto, non tanto ai pochi che agiscono, quanto alla massa che
ignora, che non agisce, e lascia che qualunque cosa accada.

● Con la frase "l'indifferenza è il peso morto della storia" vuole dire che
gli Indifferenti, coloro che non partecipano attivamente alla vita sociale,
contribuiscono passivamente al verificarsi di qualsiasi evento storico.
Le cose non accadono per opera di una ristretta minoranza, ma perchè
l'indifferenza della maggioranza lascia che accadano. Ciò che succede
avviene perchè la massa abdica alla propria volontà, lascia promulgare
leggi che la penalizzano, lascia salire al potere persone che non sono
degne di governare o amministrare la vita pubblica. Proprio per questo
l'indifferenza opera potentemente nella storia.
● Con la frase "la massa degli uomini", si riferisce a tutte quelle persone ,
la maggioranza della società, che non si schierano da alcuna parte
lasciando fare agli altri, e comportandosi passivamente. Egli giudica
questo comportamento in modo negativo, criticando l'indifferenza
perchè si ribella all'intelligenza e la strozza.
● Con la frase "lascia raggruppare i nodi che poi solo la spada potrà
tagliare", l'autore vuole dire che gli indifferenti, non partecipando alla
vita della società provocano rivolte o ammutinamenti per porre fine a
quegli eventi negativi che si manifestano per colpa della loro passività
Se fin da subito avessero espresso la propria opinione, o si fossero
preoccupati di ciò che gli succedeva attorno, magari certe violenze si
sarebbero potute evitare.
● "La massa ignora", indica una mancanza di responsabilità da parte degli
indifferenti. Attraverso l'atteggiamento indifferente l'uomo si chiude in
se stesso, diventa isolato e pericoloso. Chi è indifferente dimostra
debolezza, paura di dialogare, tristezza nel vivere e negatività nel
rischiare. L'indifferenza si scontra con la vita stessa, perchè la vita è
incontro, gioco, rischio e rapporti. Siamo chiamati all'incontro e al
confronto sempre e in ogni luogo in cui siamo. L'indifferente, invece è
colui che sceglie di disinteressarsi di tutto e di tutti, è colui che ignora
deresponsabilizzandosi, lasciando correre tutto ciò che accade.
● Nell'ultima parte del brano Gramsci parla di fatalità, descrivendola
come apparenza illusoria dell'indifferenza. Dice ciò riguardo al
succedersi della storia; piccoli gruppi agiscono, la maggior parte ignora,
e per questo sembra che la storia non sia che un evento casuale, un
evento dettato dal fato, che coinvolge tutti, violenti o non violenti.

RENATA VIGANO'
Nasce nel 1900 a Bologna. Con il marito e il figlio partecipa alla lotta
partigiana, come infermiera, staffetta garibaldina e come collaboratrice della
stampa clandestina. Il suo capolavoro è l'Agnese va a morire pubblicato nel
1949 per cui ha ricevuto il premio Viareggio.

L'AGNESE VA A MORIRE
Questo libro racconta la storia di una donna di mezza età, Agnese, che da una
vita tranquilla accanto al marito passa dapprima a una vita sotterranea di
collaboratrice dei partigiani e poi a una vita clandestina insieme alle truppe
della Resistenza. La storia è ambientata nelle valli di Comacchio durante la
Seconda Guerra Mondiale dal settembre del '43 alla primavera del '45. Le
vicende cominciano con la deportazione del marito di Agnese, Palita,
intellettuale comunista membro della Resistenza; quest'evento stravolge la
vita di Agnese, donna semplice e contadina, che viene in questo modo
avvicinata al movimento della Resistenza dai compagni di Palita. Agnese
diventa protagonista della vita sotterranea caratteristica del movimento civile
della Resistenza, che operava nei villaggi e nelle città: Agnese fa la staffetta
da un paese all'altro per portare cibo, notizie e armi. La sua vita prosegue così
per circa sei mesi, durante i quali viene a conoscenza della morte del marito
durante il trasporto verso i campi di concentramento. Ma un giorno un
soldato tedesco, ospitato dalla famiglia con la quale Agnese e Palita,
dividevano la casa, uccide per gioco la loro gatta nera, simbolo del loro
mondo affettivo stuprato da una guerra gratuitamente crudele. La notte, con
la lentezza di un rito sacrificale, Agnese uccide il soldato spaccandogli la testa
con il mitra. E così scappa e si da alla macchia entrando a far parte della vita
clandestina della Resistenza. Agnese diventa "Mamma Agnese", prepara un
pasto caldo ai partigiani che tornano dalla guerriglia, controlla che vi siano
provviste per tutti, condivide con loro le gioie, i dolori e la morte, il cui odore
aleggia costantemente nell'atmosfera lattiginosa delle valli di Comacchio.
Agnese, umile madre del popolo, esegue tutti i compiti casalinghi,
indispensabili nella vita clandestina; sostiene sulle sue spalle il peso di
un'idea ne modo più pragmatico possibile: non c'è alcun recondito motivo
alla sua partecipazione alla Resistenza, ma lo fa perchè è giusto, e Resistenza
vuol dire obbedire al Comandante, incarnazione reale di quell'idea, e di fare
bene, di eseguire gli ordini.

ROBERTO SAVIANO
Nasce a Napoli nel 1979. Nei suoi scritti, articoli e nel suo romanzo di
esordio Gomorra (che lo ha portato alla notorietà) utilizza la letteratura e il
reportage per raccontare la realtà economica, di territorio e d'impresa
della Camorra e della criminalità organizzata in senso più generale.

GOMORRA: LA TERRA DEI FUOCHI


Nell'ultimo capitolo del suo libro Saviano, chiama terra dei fuochi quell'area
della regione Campania che va dalla provincia di Napoli a quella di Caserta.
In queste terre per anni la camorra ha riversato e nascosto illegali rifiuti
tossici e non, nessun'altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico così
ingente di rifiuti. Sono stati più di 6000 i roghi tra il 2012 e il 2013 e questo
oltre a inquinare l'aria e il suolo ha contaminato anche la falda acquifera che è
collegata direttamente alla proliferazione dell'incidenza di tumori tra la
popolazione locale. Per la camorra la terra dei fuochi è stato un vero Business
dai fatturati miliardari. Nello specifico i soldi che sono andati nelle tasche dei
clan e dei mediatori sono stati all'incirca cinquanta miliardi di euro. Dalla fine
degli anni 90 i clan camorristici sono stati i leader continentali nello
smaltimento dei rifiuti. Il meccanismo usato per occultare i rifiuti prevedeva
l'acquisto di un terreno che diventava discarica di rifiuti legali e illegali. La
discarica veniva poi venduta dalla camorra allo Stato Italiano, generalmente
per la costruzione di strade e, quindi cementificata, per fare in modo che i
rifiuti venissero coperti. Ad essere coinvolti però non erano solo i camorristi,
ma tutta una serie di figure che rendevano possibili questi crimini. Si parte
dagli imprenditori, grandi e piccoli, che volevano smaltire i materiali di
risulta non più utilizzabili nella produzione industriale. Si passava poi ai
chimici, che erano fondamentali per la certificazione dei rifiuti, e che,
magicamente trasformavano quelli illegali in legali. Successivamente, ad
entrare in gioco erano i trasportatori, che avevano il compito di monitorare le
varie discariche e di scegliere il luogo adatto per lo smaltimento. Infine, gli
smaltitori, gestori di discariche autorizzate o impianti di compostaggio
oppure proprietari di cave o campi agricoli che dovevano essere poi adibite a
discariche abusive.

PIER PAOLO PASOLINI


Nasce a Bologna nel 1922. La personalità di Pasolini è una delle più originali
della letteratura italiana. Egli è stato infatti poeta, narratore, regista e critico
sotto alcuni punti di vista scomodo, anticonformista, ma capace di suscitare
scandalo e raccogliere molti consensi, al punto che ha lasciato un segno
indelebile nella cultura Italiana del secondo Novecento. Fu anche ideologo
animato da volontà di denuncia e intellettuale trascinato dalla passione e
dalla razionalità i cui risultati non lineari, e spesso incoerenti con le sue opere
lo hanno trasformato in un personaggio irritante e discusso, ma anche in una
delle figure più presenti e incisive nel dibattito culturale del dopoguerra. La
sua carriera può essere divisa in due fasi. La prima fase è legata al
simbolismo e all'impegno civile e ideologico e domina il tema
dell'adolescenza diviso tra purezza e maturità peccaminosa: alla civiltà
contadina si lega la prima; la seconda coincide con la moderna civiltà
industriale. Tale dualismo purezza/peccato ha anche un'origine privata nel
complesso edipico del poeta, infatti all'infanzia corrisponde l'innocenza
correlata all'amatissima figura materna, mentre alla maturità corrisponde il
peccato e la colpevolezza per l'amore esclusivo per la madre. Sarà questo,
anche, il periodo del plurilinguismo in cui Pasolini ispirandosi a Pascoli
scriverà i poemetti narrativi in terzine. Da un punto di vista ideologico
Pasolini si avvicina al pensiero di Gramsci di cui accetta l'idea marxista, ma
rifiuta la non valorizzazione della massa. Pasolini vanta anche una grande
filmografia. Con i primi film degli anni sessanta infatti valorizzata al
massimo la carica positiva delle pulsioni vitali del popolo, esaltata come
alternativa possibile alla spietatezza del capitalismo. Durante la seconda fase
Pasolini mette in discussione la letteratura, incapace di rispondere ai nuovi
bisogni della società di massa; per questo egli ricorrerà al cinema che non è
solamente uno strumento alternativo alla letteratura, ma anche un modo di
criticarla e rifiutarla. Numerose sono le poesie scritte da Pasolini. Egli,
attraverso la poesia e il giornalismo, vuole mantenere vivo il divario esistente
tra la dimensione pubblica e privata e cogliere la condizione alienata
dell'uomo - massa. Il tema della corporalità e del rilancio della dimensione
privata non aveva in Pasolini il valore di un'alternativa alla politica, ma era
una forma estrema di opposizione. Pasolini viene assassinato nel 1975.

SCRITTI CORSARI: RIMPIANTO DEL MONDO CONTADINO E


OMOLOGAZIONE CONTEMPORANEA

In questo articolo Pasolini accusa la società consumistica moderna di aver


cancellato e ridotto ad Italietta, quell'universo transnazionale della classe
dominata, sempre esistito a livello di substrato culturale. L'essenziale
naturalezza e l'originalità di questo mondo sottoproletario sono quindi state
soppiantate dalla banalità e l'angosciosa volontà di uniformarsi, proprie della
società del benessere. Per lo stesso procedimento, le culture del Terzo Mondo
si vanno progressivamente perdendo a causa dei loro più consistenti contatti
con i paesi sviluppati. Esempio di quest'uniformità dilagante, in ambito
italiano, è la scomparsa progressiva ed inesorabile dei dialetti, quali forme
espressive originarie radicate nella cultura di ogni singolo paese o regione,
che rimangono privi di quell'innata creatività e vivacità che li distingueva
dall'italiano vero e proprio. Lo stile in cui Pasolini scrive quest'articolo è
sintetico, fortemente polemico e spesso sarcastico, con allusioni nemmeno
troppo velate al regime fascista. Le frasi brevi e fulminanti e i frequenti incisi
spingono il lettore a una riflessione più profonda. Da notare l'efficace
accuratezza lessicale con cui Pasolini puntualizza razionalmente i concetti
espressi: ad esempio la scelta del termine acculturazione, anzichè cultura.
Spiega in che senso Pasolini definisce la società contemporanea dei consumi "
il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto". Il motivo di questa
espressione va ricercato, nella stessa espressione da lui utilizzata.
Generalmente, infatti, si intende per ideologia totalitaria un'ideologia che
subordini le attività sociali, economiche, politiche, intellettuali, culturali e
talvolta spirituali ai fini del gruppo dominante. Nel totalitarismo, la vita
dell'individuo deve conformarsi in ogni suo aspetto all'ideologia del partito o
del leader. La situazione descritta da Pasolini appare dunque peggiore:
trattandosi di un fenomeno culturale a livello mondiale, in cui a tutta la
società umana, o quasi è proposto lo stesso ed unico modello culturale, non
presenta alcun genere di fuga alla cosiddetta omologazione. Ciò appare
deleterio soprattutto perchè sembra operare un vero e proprio sradicamento
dell'uomo da cultura, tradizioni e costumi. Il codice interclassista è da
intendere, per Pasolini, nella sua accezione negativa, in quanto questo
fenomeno impoverisce la società invece di arricchirla con le differenze sociali
e culturali tipiche d'ogni fascia della popolazione.

LA RABBIA: IL RAPPORTO CON MARYLIN

Pier Paolo Pasolini nel 1963 realizza il montaggio del film La rabbia,
esperimento alquanto bizzarro perchè per questo film non sarà utilizzata una
sola macchina da presa. Infatti il progetto nasce dal montaggio di centinaia di
immagini e filmati che appartenevano a un cinegiornale degli anni 50. Un
commento a volte in prosa, altre in poesia accompagna lo scorrere delle
immagini, creando analogie e forti contrasti. Una parte di questa sorta di
esperimento, chiamato dallo stesso Pasolini poema cinematografico, è
dedicata a Marilyn Monroe. Le foto che tutti conosciamo di una Marilyn
bellissima e sempre sotto i riflettori, si alternano ad altre di lei bambina
mentre la voce fuoricampo recita una poesia scritta da Pasolini per
l'occasione. Marilyn improvvisamente non è più solo un personaggio,
un'icona vuota da guardare a tutta pagina su una qualsiasi rivista di spicco,
ma acquisisce profondità: Pasolini permette al personaggi di riconciliarsi con
la vera se stessa che si chiama veramente Norma Jeane Mortenson Baker
Monroe. Quello che l'autore utilizza è quindi un approccio completamente
nuovo, lontanissimo per esempio dall'artista Andy Warhol che nel 1967
realizzò dieci serigrafie del famosissimo volto della donna. Alle immagini
dell'attrice si alterna più volte, nella sequenza a lei dedicata, quella di un
Cristo frustrato durante una processione. Il riferimento voluto dall'artista è
forte e immediato: Marilyn è una martire. Martire di un mondo che si è
appropriato della sua bellezza e l'ha resa merce da lanciare sul mercato,
messa in vetrina come un altro qualsiasi prodotto, come uno di quei
manichini che giacciono ammassati in alcune scene del film. Pile di manichini
rotti, abbandonati e infine mangiati dalle fiamme. Marilyn fu ritrovata senza
vita il 5 agosto 1962 nella sua camera da letto a Los Angeles, così il mondo si
mise tra lei e la sua bellezza innata. L'ipotesi più accreditata fu quella del
suicidio dovuto a un'overdose di barbiturici. Numerose però sono state le
ricostruzioni di quella notte, parevano esserci infatti molte incongruenze.
Tredici anni dopo nel 1975, la stessa frase potrà essere utilizzata riguardo alla
morte di Pier Paolo Pasolini. Mortale fu per Marilyn la sua bellezza e mortale
fu probabilmente per Pasolini averla saputa cogliere prima di tutti, prima di
quel feroce mondo futuro di cui aveva visto ogni stortura.

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