Il libro di Paola Gregory – un libro austero, old-style, tutto giustamente mirato sulla serrata
trattazione teorica e rigorosamente non illustrato – è a mio avviso un contributo di alto interesse e
di rara chiarezza per la comprensione dell’architettura contemporanea e dei suoi fondamenti
filosofico-teorici, variamente intrecciati e nascosti entro le poetiche e le pratiche soggettive delle
cosiddette archistar, ma profondamente influenzati e immessi nel solco del pensiero della post-
modernità. Seguendo le trame serrate e consequenziali del suo discorso si può rintracciare un filo
rosso illuminante nell’intricato gomitolo dell’”inquietudine teorica” – per usare una fortunata
locuzione di Rafael Moneo – degli architetti capiscuola della contemporaneità. Credo che il miglior
commento al suo libro, sia tentarne – come si faceva da bambini a scuola – un rapido riassunto,
per cercare di rendere ancora più evidente quel fil rouge di cui dicevo.
Teoria
La cultura architettonica contemporanea non possiede più – com’era in passato – un codice
teorico di riferimento, una teoria condivisa. E tuttavia la necessità di una fondazione teorica delle
pratiche progettuali è tutt’altro che secondaria: anzi, è fondamentale per tutti quanti operano nel
nostro campo. E le teorie – al plurale – sono tutt’altro che assenti nella produzione internazionale:
semplicemente sono consegnate alle pratiche e alle posizioni dei singoli protagonisti della cultura
architettonica. Come scrive Paola Gregory nel suo libro, con grande capacità di sistematizzazione
e grande chiarezza di pensiero e di introspezione: La riflessione teorica rappresenta oggi il
complesso e profondo intreccio che lega l’attività tecnica, artistica e critica dell’architetto
alla sua visione del mondo, così che, per i protagonisti della scena internazionale, la teoria è
rintracciabile nella “messa in scena” di un pensiero sia nella scrittura sia nella stessa
pratica progettuale.
Postmodernismo
La cultura del cosiddetto Postmodernismo, d’altronde, ha introdotto un profondo mutamento di
atteggiamento da parte degli architetti capiscuola nei riguardi del ruolo e del significato
dell’architettura in risposta ai fenomeni della “società liquida” contemporanea e dei sempre più
instabili e incostanti modi di presentarsi nel mondo della città e del territorio. Il Postmodernismo è
infatti giustamente considerato dall’autrice nel suo manifestarsi come un tentativo da parte della
cultura occidentale di prendere coscienza dei mutati presupposti materiali-tecnologici-
economici su cui si regge e di fare a essi corrispondere una diversa etica e estetica, basata
innanzitutto sulla consapevolezza della relativizzazione e pluralizzazione culturale. La
Gregory sottolinea perciò le fluttuazioni di un pensiero in cui, venuti meno i fondamenti
dell’architettura moderna – in particolare la connessione ragione-progresso, la concezione del
nuovo come valore, il prevalere del processo tecnico e la sua coincidenza col processo
progettuale, la tendenziale identificazione dell’architettura con l’oggetto isolato, la dipendenza della
forma dalla funzione – si attuano continui sconfinamenti e incursioni, problematizzazioni,
interferenze e contaminazioni. Ne deriva un’architettura basata su teorie non univoche e non
determinate; un’architettura poliedrica e continuamente diversificata perché prodotto di
strutture multiple e dinamiche; un’architettura esplosa in infiniti percorsi possibili. Da cui
appunto quella felice definizione di “inquietudine teorica” data alle posizioni recenti dell’architettura
contemporanea da Rafael Moneo. L’impossibilità di un “linguaggio universale” e di un “codice
condiviso” per l’architettura di oggi è il frutto inevitabile di questa “condizione post-moderna”, che –
giustamente sottolinea la Gregory – va di pari passo con la “crisi del determinismo che –
secondo l’autorevole giudizio di Lyotard – ha coinvolto tutte le scienze – con l’emergere per es.
della geometria frattale di Mandelbrot o della teoria delle catastrofi di Thom – e ha
delegittimato la filosofia positivista dell’efficienza, a favore di un obiettivo diverso dal
sapere scientifico tradizionale: quello dell’instabilità. Ancor più questa mutazione ha coinvolto
le arti contemporanee, centrate non più sull’opera ma sempre più sull’esperienza vissuta
del fruitore. Di qui il passaggio evidentissimo, nel “pensiero estetico” come in quello “scientifico”,
da un’attenzione prevalente alla “ragione” e alla “razionalità astratta, cartesiana” verso una sempre
maggiore attenzione al “corpo” e alla “sensorialità”, fenomenologico-percettiva: un passaggio a cui
può essere associata – spiega la Gregory – sia la rilevanza della conoscenza sensibile quale
guida al processo conoscitivo, sia la riscoperta ecologista del valore etico e estetico della
natura, sia ancora l’esigenza di compensare con l’estetizzazione della realtà la direzione
tecnocratica ed economicista della sfera sociale. L’esperienza diviene quindi una parola
chiave, che lega direttamente e indissolubilmente la persona umana, il fruitore, agli oggetti
dell’arte, dell’architettura, della città e del territorio, sottolineando di conseguenza gli aspetti
fenomenologici dello spazio vissuto (Bachelard, Heidegger, Merleau-Ponty ecc), le pratiche
narrative (Ricoeur), il sistema relazionale fra l’uomo e il suo ambiente di vita. E’ proprio questo
passaggio dagli oggetti alle relazioni, dalla struttura al processo, dall’essere al divenire, a
costituire uno dei fulcri principali del pensiero architettonico postmoderno e la chiave di volta per
comprendere il significato primario delle più recenti sperimentazioni dell’architettura
contemporanea. La grande trasformazione delle scienze – scrive la Gregory – è dunque il
passaggio dal determinismo alla complessità, dalla razionalizzazione alla ricerca del modo
di sperimentare il nuovo, di esplorare il possibile e comprendere il differente, riconoscendo
che “la natura delle cose” si rivela sempre interconnessa e in qualche modo imprevedibile.
E di conseguenza anche l’architettura non aspira più alla realizzazione di strutture stabili,
autosufficienti e autoreferenziali, finite e concluse, bensì a sperimentare un nuovo concetto
di artefatto che trasforma l’opera da “oggetto materiale” a “processo di relazioni”,
modificando profondamente la stessa cultura del progetto. Questa logica relazionale si
sostituisce così alla funzione identitaria, accettando l’imprecisione e l’aleatorietà, e
reintroducendo il soggetto quale costante perturbazione dell’oggetto. Come io stesso –
meno sistematicamente – ho cercato di affermare nel mio libro, al centro dell’esperienza
dell’architettura contemporanea non è quindi più l’oggetto ma la relazione fra gli oggetti, fra di loro
e con il fruitore: quindi lo spazio topologico e l’esperienza fenomenologica dello spazio; quindi una
architettura delle relazioni, che conduce alla pratica del progetto architettonico e urbano o
paesistico come incidente non tanto sulle opere-oggetto finite ma sui processi in continuo
divenire. Questa “logica relazionale” ha radici ormai abbastanza lontane nell’esperienza post-
moderna: gli antefatti sono giustamente identificati dalla Gregory in due filoni di esperienze degli
anni ’70-80, che l’autrice intitola: 1. Neostoricismi e mass-mediologia, 2. L’evidenza
fenomenologica dell’architettura; esperienze che a loro volta si collegano ampiamente
all’eredità del proto-moderno (Mackintosh, Berlage,Wright), o di quel Moderno eretico, che è di
autori come Asplund, Loos, Tessenow, da un lato, o Aalto, Lewerentz, Scharoun, da un altro.
1. Neostoricismi e mass-mediologia
L’iniziatore di questa nuova sensibilità post-moderna in architettura è individuato dall’autrice
nell’opera teorica e pratica di Robert Venturi e in particolare nel suo famoso libro intitolato non a
caso ai concetti di Complessità e Contraddizione, estremamente provocatorio nel suo inneggiare
all’ibridità contro la purezza, nel suo aprire la strada a una considerazione non affatto distratta di
fenomeni urbani eretici quali Las Vegas. “Coniugando la lezione storicista di Kahn con il vitalistico
scenario di Las Vegas – scrive la Gregory – Bob Venturi può dirsi il vero iniziatore dell’architettura
postmoderna”. Il suo libro, controcorrente, è un inno all’ibridità e alla complessità: “Un’architettura
complessa e piena di compromessi – scrive Venturi – deve essere però anche unitaria… un’unità
difficile, da raggiungere attraverso il processo inclusivo e non l’unità facile ottenuta attraverso il
processo esclusivo”. Ed accanto a lui l’autrice accosta (nella categoria del neo-storicismo) autori
sia pur molto diversi, ma molto interessati all’”urbanità storica dell’architettura” come Aldo Rossi o
ancor più James Stirling, quest’ultimo un campione della ricerca compositiva di complessi
paesaggi architettonici, fondati spesso su una prevalenza dell’assetto dinamico della circolazione
nell’edificio e nella città, quindi su uno sviluppo dell’idea di “promenade”.
2. L’evidenza fenomenologica dell’architettura
Ma nell’ambito della nuova sensibilità post-moderna si collocano anche autori più decisamente in
continuità con l’esperienza del Moderno “razionalista”, ma che guardano appunto verso quel
moderno che ho chiamato più eretico (Alvar Aalto, per capirsi, o Scharoun), e che sono
decisamente molto influenzati da una visione fenomenologico-percettiva degli spazi e delle forme
architettoniche: è il caso di Alvaro Siza o di Steven Holl. Emerge in questo caso un netto rapporto
dell’architettura con la dimensione paesaggistica e con l’approccio multisensoriale allo spazio
architettonico e paesaggistico considerati nelle loro componenti di fenomenologia della percezione
(con esplicito riferimento, soprattutto in Holl, al pensiero di Merleau-Ponty). Il riferimento alla
fenomenologia da Husserl fino a Merleau-Ponty diviene per questi architetti centrale: Gregory
scrive: “Nello spostamento dall’oggetto all’esperienza estetica, intesa secondo l’etimo di “attività
sensoriale” se non propriamente fenomenologica, risiede la peculiarità della ricerca minimalista”.
Questo significa – come ha scritto Pallasmaa – aprire una finestra sulla seconda dimensione della
nostra coscienza, la realtà dei sogni, delle immagini e delle memorie, … e dipendere dalla natura
di una visione periferica, che ripiega il soggetto nello spazio. Si istituisce così quello spazio
dell’esperienza umana che è luogo della relazionalità, dell’essere “nel mezzo delle cose”, là dove
soltanto può prodursi la nostra esistenza, ritrovando presso di esse la “misura” del dimorare
umano e la naturalità dell’abitare poetico (Heidegger). La ricerca di Siza – rimarca l’autrice – inizia
e finisce sempre nel paesaggio o ancor più precisamente costruisce un paesaggio a partire
dalla propria stanza. Si cerca quindi – come dice Siza stesso – la “sensazione che l’architettura
non termini in alcun punto, che vada dall’oggetto allo spazio e quindi alla relazione fra gli spazi,
fino a trovare compimento nella natura. Un’idea di continuità che può essere ricca di dissonanze
senza mai smettere di esistere”. “Una proposta architettonica – scrive Gregory – che ricerca radici
nelle forze di trasformazione esistenti nei conflitti e nelle tensioni che conformano la realtà e che
non vuole essere pura materialità o passivo inquadramento di questa realtà…” E quanto a Holl, è
l’autore stesso a dichiarare che “l’architettura non è tanto un inserimento nel paesaggio,
quanto lo strumento per spiegarlo”. Lo spazio architettonico deve essere dunque uno spazio
narrativo, che “condensi il significato attraverso rappresentazioni evocative. Lo spazio è uno spazio
fluido, fruibile in movimento, capace di suscitare sensazioni multiple con tutti i sensi, non solo con
la vista, ma anche col tatto, con l’udito, persino con l’olfatto, con la percezione del calore o del
freddo, e così via. Le parole-chiave di questo approccio diventano: Dinamicità, interattività,
contingenza, diversità, topologia, ibridazione, paesaggio. I fattori tempo e movimento si
affermano prepotentemente nella definizione spaziale dell’architettura e dell’ambiente che la
accoglie.
3. Il pensiero della decostruzione
Il terzo filone identificato dall’autrice è già pienamente dentro la “condizione della post-modernità” e
si confronta direttamente con il rivoluzionario dibattito filosofico-architettonico apertosi negli anni
’80-90 sui temi della decostruzione. Un capitolo aperto in Francia dalle riflessioni filosofiche di
Derrida (sulla nozione di differance), di Foucault (archeologia del sapere) e di Deleuze (sulla
nozione di piega) e dal largo seguito avuto da tali riflessioni in architetti capi-scuola nel dibattito
teorico di quegli anni come Eisenman, Tschumi e Koolhaas. “La decostruzione in architettura –
scrive Gregory – non vuol dire né decomposizione né distruzione, piuttosto si tratta di re-inscrivere
gli assunti tradizionali della disciplina in un “nuovo spazio, in una nuova forma, elaborando una
nuova maniera di edificare in cui quei motivi e valori siano re-inscritti, pur avendo perduto la loro
egemonia esterna”. Questo filone di pensiero ha reintrodotto nell’architettura contemporanea
procedure di montaggio, giustapposizione, stratificazione, dislocazione fisica di elementi, e
di conseguenza un procedimento di tipo archeologico, che ha largamente introdotto nel
vocabolario del progetto contemporaneo termini come strato, scavo, sterro, palinsesto,
collegabili con azioni tipiche della ricerca geologica e archeologica e della stessa ricerca
linguistico-letteraria (il palinsesto come opera di cancellazione e sovrascrittura su un supporto
dato), nonché termini legati al lavoro di manipolazione delle forme (morphing) collegabile alle
nuove opportunità offerte dal mondo digitale, ma già presenti nel mondo delle geometrie non
euclidee, come deformazioni, distorsioni, interruzioni, ripetizioni, inserzioni, piegature,
capovolgimenti, oscillazioni ecc
Di qui: per Eisenman, l’idea di un’architettura come scrittura in opposizione a un’architettura
come immagine e la realizzazione di uno spazio informe o “senza forma”, uno spazio liscio
caratterizzato da fluidità dinamica ed energia come “pura intensità differenziale”, in
contrapposizione allo spazio esatto cartesiano-newtoniano e allo spazio striato euclideo
della quantità e della determinazione. Si afferma così la nozione di palinsesto: l’architetto è
come un archeologo che scava nella sua immaginazione la città che poteva essere stata; cerca di
disseppellire le storie dei luoghi, le geometrie abbandonate. Emerge prepotentemente l’in-
between, lo spazio interstiziale. “Alla fine degli anni Ottanta – scrive Gregory – si apre la
sperimentazione di uno spazio-tempo in grado di definire l’oggetto, passando da un processo di
astrazione a uno a carattere informale, dove l’informe designa, sulle orme di Bataille,
un’operazione di slittamento”.
“Scandaglia dunque le tematiche dello spazio interstiziale, della differenza, del between, operando
però attraverso una modellazione tridimensionale che, originandosi direttamente dallo spazio,
consente di cercare rovesciamenti continui delle consuetudini e della visione”. Per produrre queste
ricerche, Eisenman escogita una serie di strumenti o tecniche operative inconsueti nella pratica
progettuale: dallo scaling alla rotation, dal doubling al folding, al morphing, alla superposition, al
warping, che hanno influenzato molta dell’avanguardia architettonica della fine del secolo XX. Di
qui: per Tschumi, l’emergere dei temi della disgiunzione e dell’in-between, e di un’architettura-
evento contrapposta all’architettura-oggetto, in grado di far interagire le “differenze” ed esaltare
l’eterogeneità come valore. Con la volontà di “sondare quei territori di limite, di soglia, di faglia,
dove si inserisce una mancanza, un’assenza, una tensione irrisolta”. “Il progetto architettonico –
scrive Gregory – non ha di conseguenza una sua verità assoluta: qualsiasi significato scaturisce
dall’interpretazione, dalla lettura indipendente e personale del soggetto che in esso si muove, dal
suo uso che costantemente disgiunge lo spazio dall’evento”. Di qui: per Koolhaas, la convinzione
che “il lavoro dell’architetto sia un processo costruito sul montaggio, sulla concatenazione
di sequenze programmatiche, cinematografiche o spaziali” e che l’architettura debba lavorare
più sullo spazio vuoto che sul pieno, più sugli spazi interstiziali che sugli oggetti in sé, e sul
montaggio di frammenti urbani. “Sono convinto – scrive Koolhaas – che il lavoro dello scenografo
e quello dell’architetto siano dei processi costruiti sul montaggio, sulla concatenazione di
sequenze programmatiche, cinematografiche o spaziali”. Nel progetto diventa preminente il
ruolo del programma rispetto a quello della forma ed emerge “la qualità del nulla, quello spazio fra
le cose che costituisce forse “l’unico campo rimasto in cui sia ancora possibile qualche certezza”.
La cultura della congestione e la strategia del vuoto diventano strumenti fondamentali per la
progettazione della metropoli futura. “Tagliare, piegare, strappare, rivestire: la costruzione ha
acquistato una nuova morbidezza… ammorsare, appiccicare, piegare, lasciar cadere, incollare,
raddoppiare, fondere … L’architettura fa del processo la sua unica caratteristica. Di qui ancora, per
Libeskind, la creazione di metafore visive e mentali in grado di creare nuove tensioni spaziali.
“Costruire un museo attorno a un vuoto che permei di sé l’intero edificio e che sia fisicamente
avvertito dai visitatori”.
4. Informe e biomorfismi
Accanto alle poetiche della decostruzione si allineano ed accostano altre esperienze più
direttamente legate alla ricerca artistica sul tema dell’informe, del biomorfismo e dell’organico,
che affiancano alla svolta provocata dal passaggio dalle geometrie euclidee a quelle topologiche o
frattali, la logica introdotta dalle energie e relazioni dei flussi, sostituendo alla materia il
materiale bruto e alla forma la forza, spingendosi definitivamente verso il regno delle scienze
della complessità. Queste nuove tendenze architettoniche – così come già fatto da Koolhaas o
da Tschumi – si ispirano spesso alle teorie filosofiche di Derrida e Deleuze (la piega) e a nuove
metafore bio-logiche, e indagano l’influenza sull’architettura delle geometrie non euclidee,
soprattutto quelle frattali, e alla cosiddetta teoria delle catastrofi. L’informale o l’informe, secondo la
definizione di Bataille, costituisce la rappresentazione di un “universo infinito che ha perduto ogni
centro come anche ogni figura attribuibile”. Si va così verso una dissoluzione della forma a favore
di uno stato originario di disordine e indifferenziazione della materia. “Piegare-spiegare (Deleuze)
non significa semplicemente tendere-distendere, contrarre-dilatare, ma avviluppare-sviluppare,
involgere-evolvere. Alla rappresentazione analogica del tipo come alla disseminazione di
frammenti diversi, questi architetti sostituiscono una “generazione” topologica di relazioni
che si instaurano nel tempo e nello spazio. Il nuovo regno cui guarda l’architettura è allora
quello delle scienze della complessità. L’architettura denuncia le infinite trasformazioni di una
materia fluida, malleabile, che sembra provenire dall’origine del mondo. È il caso, secondo la
Gregory, di ricerche architettoniche come quella di Frank O. Gehry, a partire dalla sua
dichiarazione di poetica: “Ho esplorato l’idea dell’edificio in costruzione, ma ero già
interessato a quella del movimento congelato. Amavo l’immagine di una catasta di legno
portata via dal vento e arrestatasi in piena corsa… Ho prima studiato l’idea del movimento e
dell’esperienza spaziale attraverso oggetti separati per poi assemblarli a formare un
continuum”. “L’architettura di Gehry cresce dunque come un organismo i cui sviluppi non sono
prevedibili, attraverso modelli – materiali o virtuali – capaci di restituire nelle loro metamorfosi la
genesi della Gestalt, il suo continuo farsi-prodursi-disfarsi in un learning-by-doing che dà forma al
pensiero attraverso l’evoluzione del suo stesso processo”. “Dovendo misurarsi con la rapidità del
cambiamento e la sovrapposizione improvvisa di istanti diversi, nonché con la moltiplicazione dei
punti di vista, le forme per lui non saranno mai chiuse e perfette, essendo piuttosto espressione di
un processo temporale che, partendo da una dialettica di forme elementari, appare caratterizzarsi
per una dinamica de-formativa e sfigurante, poiché, nel continuo divenire del suo costituirsi, coglie
anche l’attimo in cui è travolto ogni argine, ogni contorno”. È il caso anche dell’architettura di Ben
van Berkel, in cui il movimento coinvolge nella formazione dell’opera lo stesso processo
generativo, lavorando su una manipolazione della forma basata su interferenze, connessioni e
flussi, fino ad istituire analogie biologiche o addirittura processi di ibridazione morfologica. Ne
deriva un “progetto inclusivo”, capace di condensare nella propria forma una possibile risposta al
luogo. Le interferenze, le connessioni, i flussi, diventano perciò fondamentali. Ogni cosa è vista in
relazione a qualcos’altro. Emerge anche il ruolo fondamentale nell’ideazione progettuale del
“diagramma”. “Svolgendo il ruolo di mediatore fra concetto e realizzazione, il diagramma distrugge
le astratte geometrie di parti per sostituirle con una “indicizzazione” dinamica di flussi, movimenti,
forze e resistenze che attraverso una loro compressione e sintetizzazione, ottenuta mediante
modelli matematici forniti dalle tecnologie informatiche, pervengono a complesse relazioni spazio-
temporali” Centrale nell’opera di van Berkel è il concetto di ibridazione, capace di favorire un nuovo
genere di amalgama e coesione che, contrariamente al collage, prevenga la possibilità di
individuare entità chiaramente distinguibili e riconoscibili…
Il morphing coniuga allora teoria della probabilità e principi del caos, insiemi sistemici e
pianificazioni strategiche, pratiche di biologia – come operazioni transgeniche e clonazione – e
scienze urbane. L’architettura diventa un involucro performativo, quindi, che include nella propria
organizzazione le dinamiche spazio-temporali, assorbite nella duttile plasticità delle configurazioni.
Il caso-limite dell’informale è forse negli esperimenti di Greg Lynn, che lavora su procedimenti
digitali quasi automatici (anticipando la più recente “architettura parametrica”), con “strategie di
progettazione genetica” basate su proprietà topologiche, temporali e parametriche. Le sue
architetture sono prodotti di “meta-biologia”. Sono corpi-architettura. Operano la liquefazione di
tutto ciò che è solido e cristallino in architettura.
5. L’ecologia dell’artificiale
Si giunge così – negli anni più vicini a noi – all’emergere prepotente di una ricerca sull’architettura
che si fa carico delle problematiche epocali dell’ecologia e della sostenibilità dello sviluppo,
passando sempre più da un’architettura della de-formazione a un’altra dell’in-formazione
(Kipnis) e ad “uno spostamento dell’estetica architettonica dall’oggetto scultoreo alla sua
capacità di assorbire e trasmettere messaggi”, fino a una sempre più spinta fusione fra
edificio e paesaggio. “Per Bateson la spiegazione cibernetica deve includere l’osservatore nel
sistema che si colloca in uno specifico dominio situato: la stessa scienza perciò è un modo di
percepire, di conferire un senso alla cognizione, la cui relatività biologica-ontologica può essere
compresa solo all’interno dell’unità complessa organismo-nel-suo-ambiente”.
Ne emerge una diversa concezione di artefatto, non più considerato entità isolata, estranea alle
dinamiche ambientali e d’uso, ma a essa immanente. Si dà luogo a un’architettura che tenta di
divenire amplificazione dell’ambiente, di ospitare il cambiamento, di enfatizzare il suo carattere
evenemenziale, per porsi come “realtà intermediaria” nella costante ricerca di un continuo
adattamento, molto influenzata dalla nuova coscienza ecologica e dai concetti di sviluppo
sostenibile. Si lavora molto sulla reificazione dell’immateriale: “qualcosa di più simile al tentativo di
catturare l’intangibilità del vento che passa attraverso gli alberi, che l’espressione dei meccanismi
ingombranti della tecnologia costruttiva” (Wines, Green Architecture) “E’ un deciso spostamento
dell’estetica architettonica dall’oggetto scultoreo alla sua capacità di assorbire e trasmettere
messaggi” (ivi). Si dà perciò luogo in molti casi a una ideale fusione fra edificio e paesaggio.
Si dà inoltre luogo a una ricerca di smaterializzazione, per cui l’architettura è sempre più
un’interfaccia. L’opera assume le caratteristiche proprie di un filtro osmotico, sfumando i confini fra
oggetto e contesto. L’effetto immediato è la tendenza verso una sparizione dell’oggetto
architettonico, poiché – Virilio – è proprio dell’interfaccia commutare il senso della superficie limite
in quella di membrana osmotica, trasformando la delimitazione delle superfici e dei volumi…. “in
una via di accesso dissimulata nella più impercettibile delle entità … uno spessore senza
spessore…” Su questa linea lavorano architetti anche molto diversi fra loro, da Renzo Piano a
Norman Foster (fautori di un’architettura hi-tech), da Jean Nouvel a Herzog-de Meuron (che
lavorano soprattutto sulle trasparenze e sulle pelli), da Kengo Kuma a Kazuyo Sejima (che
lavorano sulla smaterializzazione in «atmosfere» dell’architettura). In questi ultimi, come anche in
Shigeru Ban, si configura una poetica dell’astrazione e della leggerezza. Si trasforma l’oggettualità
in un “processo di relazioni”, fino quasi alla dissoluzione della materia: emblematica in tal senso
l’opera di Diller e Scofidio. L’architettura perde così sempre più la sua tradizionale materialità e
pesantezza a favore di processi di smaterializzazione e leggerezza, quando non addirittura di
sostanza di comunicazione e informazione immateriale, affidata ai meccanismi sensoriali e alle
atmosfere più che alla materialità della costruzione, o comunque ad un gioco di superfici e di
membrane, spesso cangianti e sensibili, piuttosto che di volumi solidi, a un lavoro sulla pelle
piuttosto che sul corpo stesso. L’elogio (calviniano) della leggerezza ( “con la precisione e la
determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso” (Calvino), affidata ad una light
architecture delle tecnologie innovative e sostenibili della costruzione, è già presente in un autore
come Renzo Piano, in una ricerca che potremmo etichettare di ascendenza leonardesca, che
affida alla macchina la capacità di infrangere le barriere della gravità, e testualmente cita “Il faut
etre leger comme l’oiseau et non comme la plume”, ma rimane anche fortemente ancora ai
valori dell’eredità culturale dei luoghi. “sostenibilità dell’architettura”, che implica rispetto non
solo per l’ambiente ecologico, ma anche per l’ambiente culturale, sociale, emotivo che vi si
esprime“. Ma l’approccio alla materializzazione, giocata sulle atmosfere evanescenti e immateriali,
trova sviluppo fertile soprattutto nella ricerca degli architetti giapponesi, in continuità logica con una
tradizione fortemente radicata rintracciabile negli spazi eterei e sostanzialmente topologici della
casa tradizionale giapponese e del giardino zen. In tali esperienze (si pensi per es. a Toyo Ito), la
ricerca di rarefazione e mutevolezza del corpo edilizio induce a una nuova ed estrema forma
di relazione tra architettura, ambiente e essere umano. L’architettura non è più oggetto solido,
stabile e permanente, bensì fenomeno sensoriale, transitorio e evenemenziale. Gli edifici
appaiono assorbiti in uno spazio trasparente, a-prospettico, neutro: uno spazio in cui
l’architettura può divenire solo “dispositivo produttore di fenomeni…, dispositivo che
produca paesaggio, che renda visibile il fluire delle cose invisibili, come l’aria” Fluidità,
molteplicità di strati, fenomenalità, sono le caratteristiche comuni della città di oggi, che Ito
definisce come “giardino in microchip”. Gli edifici appaiono assorbiti in uno spazio trasparente, a-
prospettico, neutro: uno spazio in cui l’architettura può divenire solo “dispositivo produttore di
fenomeni…, dispositivo che produca paesaggio, che renda visibile il fluire delle cose invisibili come
l’aria”. Costruire edifici significa allora collocarsi nei flussi esistenti e situarsi in un sistema di
relazioni relative, interpretando il manufatto come uno spazio fluido e fenomenologico, un giardino
che, in luogo di porsi in antitesi allo spazio circostante, produca un ambiente davvero transfinito. Ci
si avvicina così ad esperienze di dissoluzione dell’architettura in “atmosfera”, che trovano i casi
limite nella cosiddetta blurring architecture, e nella radicale dissoluzione del rapporto interno-
esterno, che porta ad un’architettura-paesaggio che non fonde più l’architettura nelle forme del
paesaggio, ma più precisamente ingloba nell’azione architettonica l’esperienza fenomenica
dell’ambiente nei suoi caratteri sensoriali e immateriali – climatici, atmosferici, sonori, olfattivi e
così via. I casi di Kazuyo Sejima e Kengo Kuma (cui potrebbero accostarsi – pur con modalità
diverse – le ricerche di Peter Zumthor o di Diller e Scofidio, ma anche quelle di Herzog e de
Meuron) possono essere al riguardo estremamente espliciti.
6. Il paradosso dell’apparenza
Si palesa così, alla fine, il valore del “velo” come “ostacolo e segno interposto” in grado di attivare
quella condizione intermedia oscillante fra la trasparenza della realtà e la soggettività
dell’esperienza del “guardare attraverso” (Starobinski). L’itinerario critico di Paola Gregory si
conclude così in un’apertura a caratterizzare molti dei percorsi individuati nel
postmodernismo, che, nella presenza di tensioni, problematizzazioni, disgiunzioni, s-
confinamenti, intrecci, intersezioni, trans-apparenze, indicano – con lo spostamento
significativo dall’opera all’esperienza, nella sua irriducibile relazionalità, differenza. e
singolarità – la possibilità al nostro sguardo di esistere in un rapporto di “reversibilità
riflessiva” che rende il vedere a sua volta visto, il prendere a sua volta preso. La pratica
dell’architettura si apre così sempre più a sconfinamenti in altri territori: fisici, estetici,
psicologici, epistemologici, che la conducono a ragionare sul nostro essere nel mondo, in un
mondo in mutamento rapido e perpetuo, sempre più plurale, indeterminato, liquido, in cui ogni
tentativo di cristallizzare forme risulta sostanzialmente vano e caduco, mentre sempre più diventa
importante saper ragionare e interpretare sulle relazioni e sulle dinamiche processuali del
cambiamento. E’ in questo che emerge fortemente, a mio giudizio, la fertile connessione della
ricerca architettonica con quella sul paesaggio, ma anche con le arti visive (soprattutto la scultura
e l’installazione contemporanee) e con quelle performative (soprattutto il cinema, anche il teatro e
la danza) che in questi anni ha contrassegnato il mio stesso lavoro di indagine. Le logiche
relazionali e le dinamiche processuali sono infatti presenti – ben prima che in architettura –proprio
in queste esperienze artistiche e soprattutto nell’approccio al paesaggio, che è per definizione
materia spazio-temporale e continuamente soggetta al mutamento (stagionale, ciclico, di
deperimento e rinascita). Lo spazio-tempo-architettura di Giedion, che inaugura la stagione epica
del Moderno, aveva già in sé questi germi evolutivi e trova nella “condizione post-moderna” la
definitiva rottura dei dogmi cartesiano-euclidei. Il paesaggio, perfino il pittoresco – nozioni aborrite
dall’ortodossia del Moderno, ispirata alla razionalità e all’oggettività o alla nuova oggettività –
ritrovano ampio spazio nella riflessione – assai più soggettiva, plurale, ibrida, liquida, instabile,
intrisa di corporeità e di sensorialità – della post-modernità. Questo – ben più che una semplice
spinta “ecologista” – è il senso che ispira un dialogo sempre più intenso fra architettura e
paesaggio, anzi fra architettura, arti e paesaggio. Ed è anche il terreno dove si fa più importante e
correttamente incisivo il dialogo del progetto con le nuove tecnologie della rappresentazione
digitale, che hanno invaso la pratica dell’architettura, in termini meno strumentali e meno
automatici di come in genere vengono correntemente praticate, ma piuttosto come strumenti di
indagine fortemente innestati nel processo progettuale.