"Sopravvivere è spesso un dono concesso a tutti: uomini, elfi, nani, e infondo anche a gente
per bene o criminali sanguinolenti; ma vivere nella vera accezione del termine è qualcosa
che solo pochi eletti possono orgogliosamente dire di fare, senza preoccuparsi del giorno
che verrà, senza preoccuparsi dell'oggi.
Nacqui in una piovosa giornata d'autunno e crebbi nella piccola comunità elfica di
Har-Thelen, nel Dominio di Sithicus. Mia madre mi diede il nome di Berelin per via dei tratti
delicati del mio volto, quasi femminili che in elfico significa "Brezza autunnale"; ho sempre
detestato questa scelta, tant'è che spesso dissi di chiamarmi Berel, che prende il significato
di "Sovrano". Quelli della mia razza erano pochi, pochi e discriminati, quasi trattati come
bestie dagli altri, da quelli che noi chiamavamo "diversi" e che a loro volta ci definivano allo
stesso modo; resi schiavi, internati in campi di contenimento come Tristezza e forzati alle più
brutali e tragiche fini.
Sin da quando ne ho memoria, ho sempre visto gente lasciare il posto che chiamavamo la
Culla, casa nostra, e morire, davanti ai miei occhi o per sentito dire. Ma nessuno aveva mai
alzato un dito, mai nessuno si era ribellato a questa forzata oppressione.
Quelli della mia tribù si erano stanziati nel fitto della foresta del Nido di Vipera, a Ovest delle
Colline di Ferro; l'inospitalità della selva, l'alto rischio ad avventurarvi al suo interno e la
remota posizione dal centro la resero un luogo perfetto in cui sistemarci, nella speranza che
nessuno potesse mai raggiungerci, isolandoci dal resto del mondo. Al di là della situazione
ostile del bosco, il terreno era estremamente fertile e adatto alle coltivazioni; gli anziani del
villaggio dissero di aver rinvenuto antichi ruderi di monumenti elfici ormai caduti in rovina da
immemore tempo, di cui facemmo le nostre case, scoprendo una fonte di acqua sotterranea
che scorreva sotto di noi, proveniente dalla foce del fiume Senza Fine.
Per noi fu coniato il termine di Elfi dei Monumenti, gente che aveva rinunciato a salvare la
propria razza, con il solo scopo di sopravvivere. Proprio per questo, molti rimasero nella
Culla, molti altri la lasciarono per lavorare come mercenari all'esterno. Ma la sofferenza,
l'abbandono e il nichilismo ci caratterizzava tutti.
Sin da quando ero piccolo, ebbi un'innata propensione per la caccia; l'ambiente boschivo e
le difficoltà che esso mi poneva davanti fece sì che divenissi più agile per poter
sopravvivere, districandomi tra un ramo e l'altro della selva, evitando i morsi delle vipere,
nascondendomi tra le fratte. Avevo pochi amici al tempo, ma ricordo che quando giocavamo
a nascondino, spesso arrivava la sera e nessuno riusciva mai a trovarmi; così dopo un po'
mi annoiai di essere la preda e iniziai a cercare io, divenendo predatore. Oggi se ci ripenso,
sorrido, trovando in quel banale gioco una perfetta metafora della vita.
Cominciai a crescere mentalmente più di quanto non facesse il mio corpo, divenendo più
grande di quello che in effetti ero; maturai e riuscì a concepire quei concetti che da piccolo
potevo solo osservare passivamente, e la rabbia cresceva dentro di me, modellando il mio
carattere.
Non furono pochi i discorsi accesi con mia madre e mio padre, genitori di poco polso, che
accettavano le loro condizioni come quelle dei loro simili; spenti, fiacchi, con gli occhi vuoti e
la faccia scavata. Fui soprannominato con un certo sdegno "Scintilla" da alcune persone
della mia comunità, per il brutto vizio di accendermi come una miccia ed esplodere; quando
passavo, capitava che mi venissero rivolti sguardi indiscreti, mentre altri si allontanavano.
Capì relativamente presto che quello non era il mondo che mi apparteneva; presi poche
cose con me, quello che mi bastava per poter sopravvivere, e in una fredda notte d'inverno,
all'alba dei miei 16 anni, partì alla volta del mondo esterno, in cerca di fortuna, con la
consapevole utopia che un giorno sarei riuscito a riportare la mia razza dove meritava di
stare.
Decisi di seguire il corso del Fiume Senza Fine che si estendeva giungendo fino alla
capitale, Kingsport; a piedi ci sarebbero voluti più di sette giorni di viaggio, tra il freddo
pungente di Sithicus e la possibilità di venire sorpreso da qualcosa all'interno della selva che
corre al margine del fiume, ma riuscì a trovare una carovana di mercanti che accettò di
trasportarmi fino a lì. Notai subito un particolare interessamento verso di me da parte del
commerciante, ma cercai di non pensarci troppo, vagamente tranquillizzato dal suo fare
eloquente e rasserenante. Si chiamava Von Kain, da quello che mi disse.
Giungemmo in città dopo tre giorni e due notti.
Per via della forte xenofobia che vigeva a Kingsport, fui fatto entrare in maniera illecita
attraverso un pedaggio sporco, in cui Von Kain sborsò una discreta somma di denaro ai
gendarmi all'ingresso pur di farmi entrare in città; non capì il perché di tutta quella cordialità
fino a quella stessa notte.
Alloggiammo all'interno di una prestigiosa locanda della capitale, un posto discretamente
raffinato e costoso, "La Dama Bianca"; mi vennero portati i piatti nella mia stanza così da
non dare troppo nell'occhio nella sala da pranzo, cosa che era già successa nel momento in
cui eravamo arrivati.
Fu la prima volta che mangiai qualcosa di cucinato con maniacale cura e sentì ogni sapore
venir scandito dalle mie papille gustative; quella sera avrei dormito comodamente su quel
letto a baldacchino che profumava di lavanda, al fresco dell'aria che spirava dalla finestra e
su lenzuola pulite e su un cuscino morbido ricamato a mano.. o almeno così pensavo.
L'ultima persona che vidi prima di addormentarmi fu Von Kain; discutemmo per qualche
minuto al chiaro della luna mentre egli gustava uno scuro calice di vino rosso, ponendomi
delle domande sulla mia provenienza e su cosa ci facessi su quella strada di notte. Il suo
sguardo era sempre fisso su di me, occhi rossi come il sangue,con un leggero sorriso
beffardo tra i baffi mentre faceva roteare la bevanda. Esitai a rispondere, dando informazioni
confuse e sparse, dicendo che mi ero avventurato per cambiare aria.
Egli sembrò piacevolmente allietato dalle mie balle e sorridendomi mi disse di riposare in
vista del giorno seguente, mentre lui sarebbe sceso di sotto per concludere un affare.
Quando chiuse la porta, il silenzio piombò nella stanza; svuotai il petto, espirai a fatica con il
cuore a mille.
Ero.. inquietato fino alla punta delle dita; entrai nel mio stato di trance e
meditazione,sperando che il giorno dopo sarebbe andato meglio.
Mi svegliai, non so dire dopo quante ore; sentivo un forte dolore alla testa, come se un'
incudine mi fosse caduta addosso. Sentivo anche una fitta lancinante al ventre: alzandomi la
maglia, notai una cicatrice all'altezza dell'appendice. Realizzai in un secondo momento di
essere in catene grazie al tintinnio del metallo, ma ancora peggio, ero in catena all'interno di
una gabbia adatta agli animali da macello; cercai immediatamente di capire dove fossi, ma
tutto quello che vedevo era una stanza di velluto rosso scuro con il pavimento di legno nero.
Non vi erano finestre, tanto che l'aria era soffocante e calda, ma solo una porta chiusa
davanti a me, a circa 9 metri. La sala presentava dei quadri di persone che non avevo mai
visto prima di allora, ma presumibilmente tutti nobili o gente benestante, in una sorta di
ritratto di famiglia con un elfo costante in ogni immagine. La rabbia e la confusione al
momento non mi permettevano di ragionare lucidamente e cercai di dimenarmi e urlare al
meglio che potevo.
Poi la porta si aprì.
Vidi Von Kain parlare animatamente con un uomo dai lunghi abiti che lo coprivano
interamente e una maschera d'oro sul viso, a celarne l'identità; quando poi mi videro, il
mercante con cui avevo trascorso il viaggio invitò il suo ospite ad avvicinarsi a me per
esaminarmi meglio. Il tizio mascherato non attese nemmeno che parlasse, che si trovava già
in piedi davanti a me; in preda alla rabbia, intimai di farmi uscire, sbattendo contro le sbarre.
Mi vidi solo arrivare il suo scarpone sulle dita, facendomi molto male; mi raggomitolai a terra,
urlando per il dolore, mentre il mascherato mi guardava con impassibile freddezza.
Si voltò, affermando un secco "Lo prendo." a Von Kain che rimase estasiato dall'ottima
riuscita dell'affare; il figuro misterioso uscì dalla stanza e Von Kain, prima di chiudere la
porta, affermò con una quasi beffarda malinconia: "Mi dispiace figliolo, sono gli affari."
Tornai nel buio, solo con me stesso e la mia agonia.
Dopo qualche ora tornarono nella stanza alcuni degli uomini che viaggiavano con Van Kain, i
suoi tirapiedi, tre di numero; mi fecero uscire dalla gabbia con le catena ai piedi e le manette
che mi stritolavano i polsi, sputarono sul mio viso e inveirono contro di me.
Mi condussero poi all'esterno, per portarmi a destinazione, come se fossi una bestia in
vendita; alle prime luci dell'alba, tra i raggi del mattino e il buio della notte che se ne stava
andando, la. strada era deserta e la brezza fresca.
Nessuno si sarebbe accorto di noi, nessuno avrebbe mosso un dito per me, ancora una
volta.
Poi fu come un fulmine a ciel sereno; dal collo di uno di quei figli di puttana zampillò fuori
sangue e frammenti mollicci, prima che i suoi occhi si voltassero all'insù e il suo corpo si
accasciasse a terra, morto.
Piombarono intorno a noi tre figure incappucciate, con i volti celati da maschere ognuna
diversa dall'altra ma bianche allo stesso modo e in pochi secondi anche gli altri due miei
aguzzini fecero la fine del loro compagno.
Uno di loro si cacciò poi la maschera, rivelando al di sotto quello che era.. un elfo. Disse poi
"Sussurro" e "Ombra" e anche gli altri due fecero la stessa cosa; si mostrarono allora una
mezz'elfa e un mezz'orco.
Mi dissero di non fiatare e che le guardie gli erano già alle calcagna, di muovermi a seguirli
se volevo avere salva la pellaccia; a dimostrazione delle loro non intenzioni ostili, l'elfo
spezzò le catene che mi tenevano prigioniero.
Giungemmo all'ingresso di una fogna e vi entrammo quando il sole ormai era sorto da
qualche minuto e la città iniziava ad animarsi, mentre noi scomparivamo nelle ombre del
sottosuolo; ci ritrovammo in un ampio accampamento costruito all'interno di una caverna
sotto terra che passava per le fognature della città stessa.
I tre appartenevano a una confraternita, la Lama dei Reietti, assassini, ladri, ribelli, scarti
della società, coloro che erano discriminati per la loro classe sociale, per la loro razza etnica
o per il loro passato.
I tre sapevano di un recente traffico di elfi in città e ne avevano approfittato per perlustrare la
zona alla ricerca di tali obiettivi, riuscendo a trovare anche me; non ero stato il solo a essere
salvato quel giorno e quando arrivai vidi che alcuni elfi come me stavano venendo medicati
da ferite simili a quelle che avevo riportato io.
Fui sistemato dalla mezz'elfa e dal mezz'orco al meglio delle loro possibilità; i due erano
vagamente più riservati rispetto all'elfo, un tizio carismatico e dalla parlantina facile e il
sarcasmo sempre pronto, un elfo che non avevo mai visto prima di allora.
Non mi dispiaceva quella compagnia.
Mi lasciarono poi da solo in una tenda per riposare e fu allora che la vidi per la prima volta;
entrò con il passo di una pantera nella notte, mentre i suoi occhi giallo ambra, felini, mi
annichilivano. Capelli bianchi come la neve e lisci come la sete, labbra scurite da un rossetto
nero, orecchie lunghe a punta. Liz Salamander, il nome della Gran Maestra della Lama dei
Reietti.
Fui allevato nei loro ranghi grazie all'offerta che Liz e l'elfo, il cui nome avevo saputo essere
Acasin, mi avevano fatto; redimermi dal fallimento e aiutarmi a raggiungere l'utopia a cui
ambivo, in un obiettivo che entrambi condividevamo. Liz mi diede una lettera; se avessi
voluti restare, l'avrei dovuta imbucare in una cassetta postale al crepuscolo. Altrimenti, avrei
potuto strapparla e andarmene.
E se c'era la minima possibilità grazie a quella gilda di potermi tirare su dal baratro, allora
avrei accettato, costi quel che costi. Fu allora che intrapresi il mio percorso da adepto,
venendo seguito e istruito all'arte dell'assassinio e della vita criminale.
Da Nortus, il mezz'orco, imparai l'arte dei veleni e di come usarli a mio favore, a come
essere un fantasma silenzioso ma letale, come trovare le mie prede; da Sallara,la mezz'elfa,
come muovermi tra le ombre e colpire il nemico in modo veloce e preciso, non lasciandogli
via di fuga; con Acasin, iniziai a sviluppare delle capacità innate che tenevo assopite nel mio
animo da elfo, come anche egli stesso mi dimostrò, capacità che mi sarebbero tornate
sicuramente comode nel corso dei miei lavori. Inoltre, mi spiegò come funzionava il
linguaggio della confraternita, qualora ne avessi avuto bisogno. A me fu attribuito un nome in
codice; "Vipera".
I miei trascorsi sicuramente mi aiutarono a maturare in fretta, per la contentezza di Liz e dei
miei tre supervisori, che lentamente cominciai a ritenere anche una sorta di fratelli maggiori;
capitava, delle volte, che dopo una lunga giornata di lavoro, alla sera ci andavamo a bere
qualcosa in qualche bisca dei sotto borghi della città. Ridevamo, scherzavamo.. o almeno,
Acasin lo faceva, ma non mancavano le risate e i sorrisi da parte nostra e come ogni sera,
ce ne andavamo pagando il conto in dracme e pugnalate contro quelli che ci volevano fare
fuori.
Iniziai prima con piccoli furti, piccole scorribande notturne, turni di ronda o palo ai tre miei
compagni; pian piano che il tempo passava e io e le mie abilità crescevamo, cominciai con i
primi impieghi. Il mio più grande successo fu quando avvelenai un mercante di schiavi
versandogli del veleno di vipera nel thè o quando tagliai la gola a un tizio che si divertiva a
indire gare clandestine tra razze considerate feccia.
Allora salvai anche un ragazzetto.
Sentivo, però, un costante brivido che mi percorreva la schiena ogni qual volta portavo a
termine un' operazione. Ma era questione di istanti prima che svanisse.