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INTERPRETAZIONI E RASSEGNE

CITTÀ E SIGNORI NEL REGNO DI NAPOLI


A PARTIRE DA UNO STUDIO RECENTE, SECOLI XV-XVI

Se pure «sono state e restano difficili, e conseguentemente ancora rare, le


ricerche sulle singole realtà urbane» del Regno in età medievale, e se sono «co-
munque sempre pochi i nuovi studi generali sull’insieme del mondo urbano, in
particolare del Mezzogiorno continentale», agli storici interessati alla città del
Mezzogiorno medievale e primo-moderno conviene oggi vedere il bicchiere fi-
nalmente mezzo pieno e registrare il numero di contributi pubblicati di recente,
«in un’evidente fase di rinnovamento degli studi sul tema» (1). In poco meno
di un decennio, perlomeno dal 2012 fino al 2018, non c’è stato anno che non
abbia salutato l’uscita di un volume interessato all’urbanesimo meridionale dei
secoli XIV-XVI (2), a testimonianza della persistente vitalità di una stagione di
studi pluridecennale, non breve quindi, e fruttifera.
L’effettiva consistenza del fenomeno negli ultimi vent’anni la rintracciamo
in verità dilatando l’arco cronologico verso la modernità inoltrata e verso i secoli

(1) Le citazioni vengono dalla lettura che G. Petralia dà del volume di G. Vitolo, L’Italia
delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli, Liguori, 2014, nella rassegna
Monarchia, città e feudalità nel Mezzogiorno italiano del basso medioevo, in «Nuova Rivista Stori-
ca», CL, 2018, 3, pp. 1119-1173, alle pp. 1150-1164 (i passi citati sono alle pp. 1152 e 1153).
(2) Considerando le monografie e le raccolte di saggi, molti dei quali rimaneggiati, di un
unico autore, abbiamo: G. Stanco, Gli statuti di Ariano. Diritto municipale e identità urbana
tra Campania e Puglia, Ariano Irpino, Centro Europeo di Studi Normanni, 2012; F. Mottola,
L’universitas di Penne nel ‘400. Autonomia cittadina, cultura, territorio, Spoleto, CISAM, 2013; del
2014 G. Vitolo, L’Italia delle altre città, cit.; P. Terenzi, L’Aquila nel Regno. I rapporti politici tra
città e monarchia nel Mezzogiorno tardomedievale, Bologna, Il Mulino, 2015; R. Alaggio, Brin-
disi, Spoleto, CISAM, 2015; G. Vitale, Percorsi urbani nel Mezzogiorno medievale, Battipaglia,
Laveglia&Carlone, 2016; P. d’Arcangelo, La Capitanata urbana tra Quattro e Cinquecento,
Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 2017; F. Senatore, Una città, il Regno: istituzioni e
società a Capua nel XV secolo, 2 voll., Roma, ISIME, 2018; A. Galdi, Amalfi, Spoleto, CISAM,
2018; Ead., In orbem diffusior, famosior… Salerno in età angioina (XIII-XV secolo), Salerno, Uni-
versità degli Studi di Salerno, 2018. Aperto ad altre tematiche ma ugualmente interessato alla
dimensione cittadina è lo studio di R. Berardi La contea di Corigliano. Profilo storico, economico
e sociale della Sibaritide (secoli XI-XVI), Rossano, Ferrari, 2015.
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XI-XIII (3), ponendo mente anche alle raccolte, agli atti di convegni, alle mo-
nografie dedicate a singoli aspetti della vita cittadina, ai saggi brevi, ai capitoli di
libri, alle rinnovate “storie di città”, alle sezioni di grandi opere interessati a una,
ad alcune o a tutte le città del Regno (4). Difficile dire se ci troviamo adesso al

(3) Vanno citate almeno le monografie di A. Carrino, La città aristocratica. Linguaggi e


pratiche della politica a Monopoli tra Cinque e Seicento, Bari, Edipuglia, 2000; Ead., Quasi sint
civitates: società, poteri e rappresentazioni nella Puglia in età moderna, Canterano, Aracne, 2017; M.
R. Berardi, I monti d’oro: identità urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale,
Napoli, Liguori, 2005; P. Oldfield, City and Community in Norman Italy, Cambridge - New
York, Cambridge University Press, 2009; R. Alaggio, Brindisi medievale. Natura, santi e sovrani
in una città di frontiera, Napoli, Editoriale Scientifica, 2009; B. Visentin, La nuova Capua
longobarda: identità etnica e coscienza civica nel Mezzogiorno altomedievale, Manduria, Lacaita,
2012; V. Rivera Magos, Milites Baroli. Signori e poteri a Barletta tra XII e XIII secolo, Napoli,
Federico II University Press, 2020.
(4) Esula dai compiti assegnati a questo scritto fornire una rassegna puntuale della storiografia
urbana meridionale degli ultimi vent’anni. Mi limito a segnalare alcune opere a vario titolo rappre-
sentative per ciò che riguarda la ricerca sul tardo medioevo. Per Napoli: G. Vitale, Élite burocratica
e famiglia: dinamiche nobiliari e processi di costruzione statale nella Napoli angioino-aragonese, Napoli,
Liguori, 2003; B. de Divitiis, Architettura e Committenza nella Napoli del Quattrocento, Venezia,
Marsilio, 2007; R. Di Meglio, Istanze religiose e progettualità politica nella Napoli angioina, in
«Studi storici», LIV, 2013, 2, pp. 323-338; M. Santangelo, Spazio urbano e preminenza sociale:
la presenza della nobiltà di seggio a Napoli alla fine del medioevo, in Marquer la prééminence sociale,
a cura di J.-P. Genet - E. I. Mineo, Rome-Paris, Publications de la Sorbonne-École Française de
Rome, 2014, pp. 273-318. Per le città delle province: A. Airò, Per una storia dell’universitas di Ta-
ranto nel Trecento, in «Archivio storico italiano», CLVIII, 2000, 583, pp. 29-84; Città e contado nel
Mezzogiorno tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Vitolo, Salerno, Laveglia, 2005; G. Vitolo,
«In palatio communis». Nuovi e vecchi temi della storiografia sulle città del Mezzogiorno medievale, in
Città e territori nell’Italia del medioevo. Studi in onore di Gabriella Rossetti, a cura di G. Chittolini
- G. Petti Balbi - G. Vitolo, Napoli, Liguori, 2007, pp. 243-294 (poi rimaneggiato in G. Vitolo,
L’Italia, cit., pp. 45-106); Il Medioevo, a cura di R. Licinio, in Storia di Manfredonia, diretta da S.
Russo, Bari, Edipuglia, 2008; E. Sakellariou, Southern Italy in the Late Middle Ages: Demographic,
Institutional and Economic Change in the Kingdom of Naples. c. 1440-c.1540, Leiden - Boston, Brill,
2012 (spunti importanti già in Ead., The Cities of Puglia in the Fifteenth and Sixteenth Centuries.
Their Economy and Society, in Mediterranean Urban Culture. 1400-1700, a cura di A. Cowan, Exeter,
University of Exeter Press, 2000, pp. 97-115); B. de Divitiis, Memoria storica, cultura antiquaria,
committenza artistica: identità sociali nei centri della Campania tra medioevo e prima età moderna,
in Architettura e identità locali, a cura di F. P. Di Teodoro - L. Corrain, Firenze, Olschki, 2013, pp.
157-167; Ead., Architettura e identità nell’Italia meridionale del Quattrocento: Nola, Capua e Sessa,
in Architettura e identità locali, a cura di H. Burns - M. Mussolin, Firenze, Olschki, 2013, pp. 315-
331; Città, spazi pubblici e servizi sociali nel Mezzogiorno medievale, a cura di G. Vitolo, Battipaglia,
Laveglia&Carlone, 2016; P. Terenzi, The citizens and the king: voting and electoral procedures in
southern Italian towns under the Aragonese, in Cultures of Voting in Pre-Modern Europe, a cura di S.
Ferente - L. Kunčević - M. Pattenden, London-New York, Routledge, 2018; Id., Evoluzione politica
e dialettica normativa nel regno di Napoli: statuti, consuetudini, privilegi (secoli XIII-XV), in «Archivio
storico italiano», CLXXVII, 2019, 659, pp. 95-125. Per le “piccole città”: E. Sakellariou, Le piccole
e medie città nel Regno aragonese di Napoli, in Actas del XVII congreso de Historia de la Corona de
Aragón. El mundo urbano en la Corona de Aragón da 1137 a los decretos de nueva planta, Barcelona
- Lérida, 7-12 settembre, Barcelona, Universitat de Barcelona, 2003, 3 voll., I, pp. 557-572; C.
Massaro, Potere politico e comunità locali nella Puglia tardomedievale, Galatina, Congedo, 2004.
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culmine della parabola, o anche se l’immagine della parabola sia calzante. Certo
occorrerà presto una meditata riflessione d’insieme. Per il momento, tra tante
proposte storiografiche ed editoriali, stupisce alla vista e al tatto (due tomi, per un
totale di 1147 pagine più 13 pagine introduttive), e si segnala per il prestigio della
sede che lo ospita (la collana «Nuovi studi storici» dell’Istituto Storico Italiano
per il Medio Evo), promettendo molto al lettore, lo studio Una Città, il Regno:
istituzioni e società a Capua nel XV secolo di Francesco Senatore.
Ci sono voluti più o meno quindici anni perché l’interesse dell’Autore per
il mondo urbano meridionale in generale e per Capua in particolare concepisse
e mandasse infine alle stampe l’opera, anni che tracciano un percorso personale
dipanatosi nel seno fecondo di quella «fase di rinnovamento» di cui si è detto. Due
decenni di storiografia – e i classici della storiografia meridionale novecentesca,
da Croce a Calasso, da Galasso a Del Treppo – riversano in queste pagine temi,
problemi e materiali, ben imbrigliati in una Werkstruktur composita e lucida, che
nella sua bipartizione di fondo più di qualcosa dice delle intenzioni primigenie
dell’Autore e della sua sensibilità per il fatto documentario. Nonostante la mole di
pagine della trattazione vera e propria, ospitata nel primo dei due tomi, Senatore
non rinuncia infatti a pubblicare nel secondo l’edizione critica dei Quaderni dei
Sindaci di Capua (1467-1494), insieme alle Lettere ricevute dall’università di Ca-
pua (1470-1497), gli uni e le altre provenienti dall’Archivio comunale di Capua,
e ancora un elenco dei membri del consiglio dei Quaranta di Capua risalente al
1488 e trascritto nel Libro primo dei capitoli, databile tra la fine del XV e l’inizio
del XVI secolo e custodito presso il medesimo Archivio.
Né il testo, né l’edizione di fonti esauriscono peraltro lo spazio dei rispettivi
volumi. Nel primo, sei corpose Appendici danno ordinatamente conto attraverso
sunti, regesti, schede e tabelle degli Statuti di Capua, dei centri abitati situati
nelle pertinenze di Capua, degli ufficiali e dei collegi presenti nella città e nel
territorio, degli appaltatori, del debito pubblico dell’università di Capua corpo
e delle biografie di trentotto capuani. Nel secondo, un esteso paratesto mette su
pagina le ramificazioni dell’approccio alla ricerca dell’Autore. La lista delle fonti
inedite utilizzate rimanda ad una ventina di istituti archivistici e bibliotecari di
dodici città italiane ed europee, con i depositi capuani e napoletani a giocare
la parte del leone. Le «Illustrazioni» arrivano a trentasei e includono mappe,
piante della città, vedute d’epoca, riproduzioni di testi e figure, fotografie degli
spazi monumentali richiamati nel testo, riproduzioni di documenti d’archivio,
tutte strettamente funzionali al testo. Ben cinque indici finali dotano il lettore
di strumenti utili per cercare e trovare.
Cosa il lettore debba aspettarsi dalla trattazione contenuta nella prima sezione
dell’opera Senatore lo dice presentandola. Prima ancora che alle pratiche sociali
e identitarie, temi in voga in anni recenti, lo sguardo è rivolto a «istituzioni e
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società», vale a dire a temi classici, eppure per lungo tempo sciaguratamente
tenuti ai margini del dibattito sul Regno, quali il territorio della città, le ancora
oggi poco indagate finanze dell’università tardomedievale, gli uffici e gli ufficiali,
le élites di governo e nel governo (p. XI).
Non trovano spazio nel piano di lavoro le pratiche del culto e le istituzioni
ecclesiastiche cittadine. L’ampiezza degli spazi documentari esplorati e la vigile
analisi che di essi si giova portano alla luce, va detto, piste che riconducono
dritte alle istituzioni religiose urbane e rurali, in primo luogo alla Cattedrale, e
in qualche passaggio pare viva la tentazione di muovere più di un passo in questa
direzione. Nella medesima pagina in cui lascia intendere quanto la ricchezza delle
fonti disponibili sull’arcivescovo e sul suo entourage vinca le possibilità del mo-
mento («il loro sfruttamento va oltre le nostre forze»), l’Autore concede in nota
un affondo sul patrimonio del capitolo e dell’arcivescovo denso di riferimenti e
osservazioni (p. 52), seguito più avanti (pp. 89-90) da una serie di dati sui diritti
della Mensa vescovile su Castel Volturno utili a dipanare la vicenda tardomedievale
del centro costiero in orbita capuana.
Qualcosa di simile accade intorno ad altre assenze. L’articolazione sociale
all’interno degli organi di governo, i livelli e gli ambiti molteplici delle pratiche
di patronage, i titoli, le parentele forniscono nessi logici essenziali nell’economia
del discorso, ma le classi professionali e le pratiche economiche, la socialità fuori
dall’università, la quotidianità e le traiettorie personali dei cives – pure queste
ultime considerate nel testo e in parte illuminate dalle schede biografiche in Ap-
pendice – e dei rurali restano sullo sfondo. Ciò detto, anche sotto questo rispetto
eccentricità non significa silenzio. Con i movimenti di truppe e i conflitti, con le
richieste straordinarie fatte pervenire all’università, decanta nelle fonti la società
cittadina e assieme alle carriere militari salgono a galla professioni, prestazioni e
specializzazioni, strategie di reperimento dei materiali, mezzi e tecnologie, locan-
de, sistemi di trasporto e vie di comunicazioni (ad es. alle pp. 15-20). In tempi
meno agitati sono gli usi civici, solita cassa di risonanza della conflittualità e dei
locali rapporti di forza, a svelare dati stimolanti. Intercettiamo così l’attività di
intermediari con disponibilità di capitali interessati al fiorente allevamento di
bovini tra il 1470 e il 1480; veniamo a conoscenza di dettagli preziosi sul (o
su parte del) gruppo sociale dei mercanti capuani, presenti in consiglio e tra gli
eletti, ancorché sforniti di garanzie formali circa il numero di seggi loro assegnati
come in altre città. Per costoro l’interesse per prati e bufale è tale da spingerli ad
assecondare attorno al 1470 l’introduzione di fide e chiusure da parte del re sfi-
dando «li ientilomini», i quali non hanno partecipato alla trattativa e considerano
pernicioso ciò che ad essa è seguito (pp. 95-103).
Vi sono poi rapporti di forza e spazi sociali dal diverso grado di formalizzazio-
ne che si vorrebbe conoscere con dovizia di particolari, ma che la documentazione
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lascia intuire senza illuminare. Il riferimento è principalmente ai tre Seggi citta-


dini (dei giudici, di Antignano e dei nobiluomini), sui quali Senatore ammette
di poter dire poco più di quanto mostrino le evidenze materiali superstiti.
È appena il caso di sottolineare che un lavoro tanto vasto e complesso certo
non resta impresso per ciò che dichiaratamente o per forza di cose non affronta.
Al contrario, se una grande opera di sintesi qual è l’affresco di Marino Berengo
sulle città europee riesce mirabilmente ad assegnare al termine compilazione
la dignità che gli spetta, il rigore, la sistematicità e l’organicità possono fare di
un’indagine condotta eminentemente sul campo come la nostra un magnifico
repertorio – anche qui, in un’accezione nobile del termine – da cui attingere a
piene mani per verificare nomi, fatti, cose, tecniche, istituti giuridici. È dalle
sintetiche quanto accurate indicazioni su colta e focatico (pp. 123-124), focatico e
apprezzo (p. 127), iura vetera, iura nova (p. 137) e nove impositioni (pp. 132-133),
merum e mixtum imperium (pp. 148-149), reggimento e consiglio (pp. 229-236) e
ancora altro che passa la ricostruzione delle architetture istituzionali e di governo
di Capua e del Regno. Grande è la ricchezza della terminologia passata al vaglio
fine discutendo delle finanze dell’università; non meno attenta l’esplorazione delle
distinzioni cetuali a partire dalle parole nobilis e ientilhomo, cittadino e popolare,
barone, magnate, dominus e messer (pp. 370-381), alla ricerca di una significazione
che volentieri si fa corale, lumeggiata dinamicamente per gruppi di parole e che
invita alla cautela nel rapportare il ceto (ad es. uomini indicati come nobiles) con
il singolo (ad es. un uomo indicato come nobilis).
Per Senatore le parole valgono, prima ancora di qualsiasi confronto con i
discorsi di taglio sociologico o antropologico adottati dalla ricerca storica. Filtrati
nelle note a piè pagina attraverso la produzione storiografica più avvertita oppure
ellitticamente evocati, di questi discorsi in vari punti se ne scorge la sagoma e lo
stimolo euristico, ad esempio nelle tre agili pagine introduttive del quarto capitolo
in riferimento all’autorappresentazione della comunità sospesa tra immaginario
e realtà (pp. 321-323). Sotto e accanto a tutto ciò, opera tuttavia una genuina e
meticolosa volontà di correggere e chiarire. È ragionando sul lessico delle fonti
che diviene possibile smontare l’«invenzione di una tradizione» intorno alla piazza
della nobiltà capuana e smascherarne il principale artefice, Francesco Granata,
autore della settecentesca Storia della fedelissima città di Capua (pp. 225-239).
Non vi è possibilità di fraintendere tra la vecchia Capua (il casale di Santa Maria
Maggiore, oggi Santa Maria Capua Vetere) e la nuova, ma la città e il territorio
su di essa gravitante invitano di continuo alla precisazione. Se è pacifica l’esigenza
di distinguere tra civitas e universitas, dalle fonti capuane emerge bene la duttilità
del concetto di universitas, di volta in volta associato a uno o più casali, alle Forie,
ad un gruppo vassalli, all’istituzione che presiede il governo della città. Il nome
Capua e l’aggettivo capuano possono rimandare ad un toponimo extraurbano, la
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Terra Capuana, evolutosi in uno dei due distretti rurali che le fonti attestano a
partire dal Quattrocento, la Foria di Terra Capuana; all’intero territorio di Capua,
inteso esso stesso come Foria di Capua (pp. 32, 53, 68-69); a Capua corpo, da
non confondere con i casali da essa controllati. Le pertinenze capuane si rivela-
no essere dal canto loro una realtà composita e mutevole nel tempo per ciò che
concerne le sue partizioni interne, rispetto alla quale nel secondo Quattrocento
sono aggregati ma non confusi due corpi “estranei”, gli abitati e i territori di
Calvi e Castelvolturno.
Abbiamo insomma davanti uno di quei libri che si tirano spesso fuori dallo
scaffale, anche quando non si è strettamente interessati al tema principale, in
questo caso la città, che è impossibile d’altronde separare o peggio contrappor-
re al Regno e alle altre sue componenti. Ma di questo diremo. Vale la pena di
evidenziare la chiarezza con cui la sistemazione concettuale è presentata, con un
gusto per l’utilizzo del vocabolario contemporaneo (riunioni ordinarie, commissa-
riamento, tesoretto, …; del debito pubblico discuteremo rapidamente più avanti)
che non crea paradossi ma contribuisce in maniera efficace alla comprensione degli
argomenti proposti. Singolarmente piana, nonostante l’intrinseca complessità del
tema, la spiegazione della gestione delle finanze dell’università nel terzo capitolo.
Una tale abbondanza è ben incanalata, quasi tenuta a bada da tre fattori.
Al primo abbiamo en passant fatto cenno: i limiti imposti alla ricerca dalla do-
cumentazione disponibile. Significativamente, «desultorietà» è un termine che
ricorre in più punti. Almeno in parte si tratta di silenzi, non di perdite, ed è
bene sottolineare, come lo stesso Senatore fa, da un lato che la snellezza delle
scritture delle università meridionali non significa necessariamente immaturità
o arretratezza istituzionale (pp. 455-456), dall’altro che il materiale disponibile
per Capua e per l’intero Mezzogiorno resta ad ogni modo copioso e attende in
larga parte di essere riconosciuto e studiato (p. XI). Possiamo spingerci ancora
oltre ed evidenziare le grandi potenzialità, quando non addirittura l’unicità del
materiale di età angioina, aragonese e primospagnola. Per alcuni temi la docu-
mentazione relativa alle città e alle terre del Mezzogiorno consente affondi che
non dappertutto è dato progettare. Preso atto delle note cautele con cui vanno
maneggiate le classiche fonti della demografia storica meridionale, i fuochi fi-
scali in primis, è evidente ad esempio quanto efficace e dettagliato prometta di
diventare il quadro demografico per il secondo Quattrocento e il Cinquecento
nel Meridione, segnatamente per ciò che riguarda la stima della popolazione dei
singoli centri, laddove per altre zone d’Italia al momento si ragiona a spanne in
fatto di demografia, con la sensazione che per alcune realtà urbane e paraurbane
l’incertezza sia destinata in futuro a restare tale.
Il secondo punto è che la quantità e la tipologia della documentazione re-
agiscono necessariamente con il personale percorso di ricerca dell’Autore, con
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ciò che più gli interessa, prima di tutto con la attenzione costante prestata ai
processi di scrittura. Ritorna in queste pagine il continuum (p. 394, 461) istitu-
zionale e documentario proposto anni prima per spiegare la natura e la struttura
della documentazione delle università meridionali nel Regno, opportunamente
arricchito da densi passaggi spesi per spiegare la necessità che l’università avverte
di «manutenere» il corpus documentario a propria disposizione a fronte della
«irrisolta conflittualità», della frammentarietà, delle contraddittorietà costitutive
dell’organismo statale di antico regime (pp. 106-114).
Terzo punto: come in un campo magnetico, dati e ragionamenti prendono
tutti posizione rispetto ad un polo che fa da principio ordinatore, una visione
del Regno e delle sue componenti più vitali che è la maturazione di alcuni frutti
della stagione di studi sopra richiamata. Già nel titolo («una città, il Regno») e
nella Premessa (pp. XI-XII) è annunciato il continuum dispiegato nel testo e nel
polifonico capitolo conclusivo: è impossibile «separare la monarchia dalla città,
due soggetti che non possono essere contrapposti» (p. 20). Come la città di antico
regime, e quindi Capua nel Regno, risulta «fondata su norme, pratiche e valori
che non possono essere compresi prescindendo dal Regno» (p. XII), così il sovrano
governa «insieme» alle élites cittadine, beninteso nella cornice di una relazione
«assolutamente asimmetrica» (p. 391). Non è pattismo tra corpi distinti e poten-
zialmente ostili, né secondo Senatore serve a qualcosa continuare a interrogarsi
sull’«autonomia» della città meridionale (pp. 391, 464). Nella misura in cui la
città è una risorsa per il sovrano e viceversa, quest’ultimo legittima e condiziona,
proibisce e concede nella sua città, trovando nelle impalcature amministrative e di
governo dell’università un’articolazione dello stato in loco e un formidabile refe-
rente, seppure non necessariamente risolutivo, per misurarsi con le istanze espresse
dalla comunità. La corte «ingloba le strutture dello stato» (p. 412) battendo varie
strade, vigilando su «legami istituzionali e personali» (p. 391) e usufruendo essa
per prima di pratiche di patronage. Peculiarmente vicini a Napoli e alla corte e
residenti in una città demaniale, per i Capuani l’accesso diretto all’entourage del
re è una soluzione ricorrente, veicolo di modelli e stili di governo da riprodurre
in una città che pare un «prolungamento della corte», contigua ad essa «nelle
pratiche, nelle relazioni, nelle persone» (p. 412). Nondimeno, resta perfettamente
leggibile lo spazio di manovra dei reggitori dell’università, filtro e strumento nelle
mani di chi sa – e per questo dai concittadini è chiamato a – mantenere, magari
incrementandola, l’egemonia capuana sul territorio e tenere a bada forze inquiete
come feudatari e università vicini.
Finiscono così nel mirino capziosi confronti nord/sud in cui è la città (e
l’università) meridionale a uscirne fatalmente con le ossa rotte, lo «stereotipo»
secondo cui la «monarchia bloccò l’evoluzione in senso comunale delle città
meridionali» (p. 463), le inutili paratie issate all’interno della triangolazione sta-
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to/feudo/città. È intorno a questi temi che si snoda l’analisi che nelle prossime
pagine andiamo a condurre.
Partiamo dall’ultimo aspetto. Sebbene incentrato sulla vicenda di una della
più importanti città del Regno, demaniale per giunta, il libro concede ampio
spazio a feudi e baroni, lumeggiando la natura organicista di uno stato in cui non
si scorgono autonomie, solo rapporti e articolazioni. Senatore mutua da Sandro
Carocci il concetto di signoria pervasiva e lo applica allo stato stesso, l’unica vera
signoria pervasiva del Mezzogiorno tardomedievale (p. 445). Nel momento in cui
un nuovo sovrano sale al potere si vede bene di che materia è fatto il Regno: dopo
l’investitura papale, il riconoscimento arriva dalle due componenti fondamentali,
i baroni e le città demaniali.
Sia i primi, sia le città – non solo quelle demaniali – hanno ricevuto, ricorda
Senatore, più di un torto dalla storiografia meridionale. Il cattivo “reagente”, in
una serie di fraintendimenti risalenti nel tempo, va riconosciuto proprio nello
stato monarchico, oppressore delle seconde, sistematicamente sabotato dai pri-
mi, a detrimento della realizzazione di uno stato finalmente moderno. Nel caso
dei signori di città e castelli, la diffidenza arriva da lontano e riconduce fino alle
pagine coeve di alcuni tra i migliori nomi dell’Umanesimo, tra i quali Senatore
seleziona Machiavelli e Pontano (pp. 382-386). Pur non deplorando il principato
e scorgendo un nesso tra possibilità di esistere del potere principesco e diffusione
di gentiluomini e signori di castello, il Segretario vede nei gentiluomini, nel Regno
e altrove, l’ostacolo da eliminare per il raggiungimento della mitizzata «equalità»
repubblicana. Diversamente Pontano fonda la propria visione della monarchia
sui poteri giurisdizionali di conti e baroni, ma teme la follia della ribellione, il
destabilizzante desiderio di novità. Sia nel Regno di Napoli visto da Machiavelli,
sia nella monarchia idealizzata dal Pontano, ancorché da prospettive diverse, il
potere dei baroni pervade il corpo dello stato, ma riluce in maniera sinistra.
Un riconoscibile filo rosso si dipana da questi autori agli storiografi cinque-
seicenteschi, e ancora fino alle pagine note e cupe di Benedetto Croce e Giuseppe
Galasso sulla feudalità regnicola, in una rappresentazione in cui il ruolo assegnato
a quest’ultima altro non è che quello dell’antistato (pp. 459-460). Oggi la ricerca
evidenzia piuttosto l’inconsistenza delle letture che si accontentano di rievocare
rappresentanti della feudalità privi di progettualità politica, stolidamente eversivi,
che sopportano e appena possono contestano la sottomissione alla corte, impal-
pabili al di fuori della tormentata dialettica con re e dinastie (p. 462). D’altro
canto non è univoco il giudizio degli studiosi sui modi in cui questa dialettica si
è dispiegata nel tempo, segnatamente in età aragonese. La posizione di Senatore
in merito è chiara. Soffermandosi sul carattere ideologicamente orientato delle
posizioni degli autori più risalenti (e, meno apertamente, anche dei più recenti:
p. 460), non ha da obiettare sul fatto che il potere signorile risulti in effetti
pienamente partecipe della struttura statale e che i baroni siano la «componente
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politica più importante del Regno» (p. 461). In nessun momento, nemmeno


durante guerre e ribellioni, il quadro costituzionale dello stato risulta messo in
discussione: si contesta il monarca, non la monarchia, non diversamente che in
qualsiasi altro regno dell’Europa tardomedievale (pp. 107, 459). È una lettura
che richiama da presso quelle di chi, come Benedetto Vetere, ha sostenuto che il
sovvertimento politico si sia materializzato nel Regno sempre all’interno di una
cornice costituzionale che non si intende distruggere (5), o di chi, come Giancarlo
Vallone, ha avuto modo di notare che un’alterazione dell’ordinamento della mo-
narchia napoletana, nei rapporti tra sovrano – cioè il dominus feudale – e signori
– cioè i vassalli – di fatto non ha mai avuto luogo, pur dovendosi registrare una
certa “aria di sovranità” in talune esperienze principesche (6).
Esiste nondimeno un altro modo di intendere le cose, che da alcuni affondi
sulla storia del Principato di Taranto risalenti della prima metà del Novecento (7)
conduce ad anni a noi vicini e ad alcuni dei numerosi contributi sulla mede-
sima, grande realtà politica (8), passando per le indagini di Raffaele Colapietra
che scorgono velleità semi-indipendentistiche – e qualcosa più di questo – nei
progetti e nell’operato della feudalità del Regno (9). Nella recente interpretazione
datane da Francesco Somaini, la progettualità delle azioni di un gran principe
come Giovanni Antonio Orsini del Balzo, a ben vedere, nulla nasconde circa la
volontà di costruire un nuovo stato e una piena sovranità (10).

(5) B. Vetere, Premessa, in Giovanni Antonio Orsini Del Balzo. Il principe e la corte alla vigilia
della “congiura” (1463). Il Registro 244 della Camera della Sommaria, a cura di B. Vetere, Roma,
ISIME/Centro Studi Orsiniani, 2011, pp. VII-LXXVII, a p. XXX.
(6) G. Vallone, Il principato di Taranto come feudo, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano
per il Medioevo», CXVIII, 2016, pp. 291-312.
(7) G. M. Monti, La condizione giuridica del principato di Taranto, in G. M. Monti, Dal
secolo sesto al decimoquinto. Nuovi studi storico-giuridici, Bari, Cressati, 1929, pp. 83-117; Id.,
Ancora sulla feudalità e i grandi domini feudali del Regno di Sicilia e sul Principato di Taranto, in
«Rivista di Storia del Diritto Italiano», IV, 1931, pp. 509-549; Id., Quattro chiarimenti, in «Japi-
gia», III, 1932, 2, pp. 227-229; da confrontare con G. Antonucci, ll consistorium principis degli
Orsini di Taranto, in «Japigia», III, 1932, 1, pp. 89-93; Id., Sui principi di Taranto, in «Rivista di
Storia del Diritto Italiano», IV, 1931, pp. 155-172.
(8) Si vedano Geografie e Linguaggi politici alla fine del Medioevo. I domini del principe di
Taranto in età orsiniana (1399-1463), a cura di F. Somaini - B. Vetere, Galatina, Congedo, 2009;
Un principato territoriale nel Regno di Napoli? Gli Orsini del Balzo principi di Taranto (1399-1463),
a cura di L. Petracca - B. Vetere, Roma, ISIME, 2013; “Il re cominciò a conoscere che il principe
era un altro re”. Il principato di Taranto e il contesto mediterraneo (secc. XII-XV), a cura di G. T.
Colesanti, Roma, ISIME, 2014; I documenti dei principi di Taranto del Balzo Orsini (1400-1465),
a cura di R. Alaggio - E. Cuozzo, Roma, ISIME 2020.
(9) R. Colapietra, I Sanseverino di Salerno: mito e realtà del barone ribelle, Salerno, Laveglia
Carlone Editore, 1985.
(10) F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale alla fine del Medio Evo. Ap-
punti su ruolo, ambizioni e progettualità di Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, principe di Taranto
(1420-1463), in «Itinerari di Ricerca Storica», XXX, 2016, 2, pp. 33-52.
734 Interpretazioni e rassegne

Ora, il destino infine perdente di una idealità, di precisi piani d’azione, di


aspirazioni di singoli non rende questi meno reali, ma è parimenti vero che la loro
comprensione passa attraverso la valutazione degli ambiti di opportunità, degli op-
ponenti in campo, come anche attraverso la valutazione dei risultati raggiunti. Nel
caso di baroni smaniosi di un posto al sole fuori dalla cornice del Regno, l’opponente
altri non è che il Regno stesso e chi ne è alla guida. Proprio perché nella vicenda di
Giovanni Antonio Orsini va riconosciuta una sfida formidabile all’integrità e alla
tenuta dello stato, lo svolgimento e il finale di partita mettono in risalto la forza
ambigua ma indubbia, resiliente della monarchia. Lo spazio di manovra e la visio-
ne politica sono notevoli per i baroni in età tardoangioina e aragonese, alcuni dei
quali possono non considerare l’unità e indivisibilità del Regno valori intangibili;
allo stesso tempo, nemmeno a chi è fortissimo – all’Orsini – il colpo riesce. E forse
andrebbero recuperati i cenni di Giuseppe Galasso al divide et impera dei sovrani
su di una feudalità frammentata e invischiata nelle vicende dinastiche (11).
Resta da stabilire quanto il caso peculiare del principato di Taranto dica del
contesto regnicolo, in cui l’eterogeneità degli scenari e dei protagonisti è un aspetto
di primaria importanza con cui fare i conti. Senatore mette in guardia di fronte a
visioni totalizzanti come quelle di Machiavelli e Pontano, dinanzi cioè a quelle inter-
pretazioni in cui è evidente la dicotomia tra rappresentazione ideologica e struttura
socio-economica (p. 385). D’altra parte l’idea della centralità del potere signorile
nel Mezzogiorno è accettabile solo accordando il debito spazio alla molteplici vie
della costruzione e del consolidamento del potere e non confinando nell’ombra
dell’ingombrante feudo gli altri organi del Regno, in primis le città. Il materiale
raccolto per Capua invita a rifuggire divisioni nette e inconciliabili diversità nel
rapportare gentiluomini e cittadini. Nel Quattrocento alcuni baroni, ossia titolari
di patrimoni feudali cospicui quali Matteo di Capua, conte di Palena, e Fabrizio
della Leonessa, signore di Telese, vivono in città, a Capua. All’interno dell’élite
urbana non sono rintracciabili chiare differenziazioni tra costoro (pochi, va detto,
molti meno che a Napoli) e i restanti gentiluomini. Nel secolo successivo qualcosa
cambia, ma la contiguità resta. Quantunque i principali nobili capuani esercitino
una maggiore influenza sull’università rispetto al passato, siano difficili da gestire,
persino pericolosi, e preferiscano in qualche caso risiedere a Napoli, restano pur
sempre – e come tali alcune fonti li chiamano – «baroni cittadini» (pp. 376-377).
Una viva esigenza di concretezza innerva l’interesse dell’Autore per la relazione
tra «rappresentazioni pubbliche», «teorie pubbliche» e «realtà», da intendersi quest’ul-
tima appunto come «struttura socio-economica, per dirla in termini marxiani» (p.
389). Si tratta di un approccio che a ben vedere caratterizza l’intera opera, emer-

(11) G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), Torino,


UTET, 1992, p. 215.
Interpretazioni e rassegne 735

gendo con vigore lì dove le appartenenze, le preminenze e i diritti sul territorio


vengono considerati nell’esercizio quotidiano del potere, dove la prosopografia e il
dato giuridico lasciano intendere la circolarità tra norma e prassi. Nei punti in cui
lo sguardo è rivolto al «vivere politico» (p. 389) della città e all’eterogeneità della
sua aristocrazia, con la piena consapevolezza delle tante sovrapposizioni tra mondo
urbano e mondo feudale, questa impostazione diviene nulla meno che imprescin-
dibile per superare il coriaceo pregiudizio circa l’eccezionalità dei baroni napoletani
e per bilanciare opportunamente vivaci suggestioni culturaliste, risultando vieppiù
efficace se arricchita da ricerche condotte «al microscopio» (p. 460) interessate anche
a ciò che i baroni fanno tra le mura della città.
Passiamo al secondo aspetto, lo stereotipo secondo il quale la monarchia ha
costituito un ostacolo per l’affermazione politica ed economica delle città del
Mezzogiorno, riconducibile alla più ampia questione del multiforme rapporto
tra la città e il sovrano.
Diciamo subito che per Senatore in fondo la questione non si pone: il respiro
dell’università è quello stesso del Regno. Lo studio della monarchia converge con
lo studio dell’università, con la seconda «articolazione funzionale» della prima,
secondo quella continuità di cui si è detto e secondo una visione della storia
generale che è «storia locale al massimo, e più profondo livello» nelle parole di
Mario Del Treppo (p. 443). C’è da dire che Capua si presta particolarmente a
essere osservata da questa angolazione. Essa è al centro del Regno: è altamente
strategica, pullula di uomini vicini al re, è a un passo da Napoli senza essere
mortificata da questa vicinanza, è demaniale, nel Quattrocento è la terza realtà
del Regno per numero di abitanti, la sua élite dispone di eccellenti mezzi di con-
trollo delle risorse del territorio, recepisce a corte e riutilizza pratiche e valori di
patronage operando come una sorte di «corte collettiva» (p. 414). Se vi sono casi
di studio da cui è particolarmente agevole risalire al centro diffuso e alla periferia
concentrata di Pietro Corrao, Capua è uno di questi.
L’idea di fondo è quindi che la descrizione e la comprensione delle fasi della
sua storia non possano prescindere dall’analisi delle vicende del Regno e delle dina-
stie al potere. La consustanzialità dell’università rispetto all’impianto monarchico
vincola al favore regio l’ampiezza dei privilegi di cui gode la città e l’eventualità
che questa ampiezza possa essere ulteriormente incrementata (pp. 34-39) in virtù
della convergenza di interessi tra Corte e città. Come il controllo esercitato dal
sovrano non si pone come espressione di un potere costitutivamente oppressivo
e dannosamente interessato, così le basi ideali e materiali del potere regio paiono
una versione potenziata, ancorché supportata da peculiari ragioni giuridiche e
ideologiche, di quelle stesse di cui la città dispone. L’utile del sovrano è l’utile dei
cittadini e viceversa, poiché cittadini ricchi fanno un re ricco, mentre un buon
re vigila sull’utile perseguito dai sudditi come obiettivo naturale e al contempo
736 Interpretazioni e rassegne

consente che le risorse della monarchia divengano esse stesse mezzo efficacissimo
di ascesa sociale (pp. 465-468). Dal canto suo, il capitano di città è uomo del re
e insieme tutore dell’università e della comunità (pp. 157-158). A Capua queste
ultime possono inoltre contare sui diritti acquisiti sugli introiti del primo ufficiale
regio in città: se crescono gli introiti del capitano sul territorio, cresce anche la
quota spettante di diritto all’università (p. 40).
L’università, è chiaro, non risolve nel suo seno tutte le procedure di controllo
delle risorse locali, né preclude vie alternative di contatto con gli altri apparati di
governo del Regno e con la corte, né tantomeno vincola a sé tutti i percorsi di
ascesa o discesa sociale. Una delle poche cose che si possono dire su due dei tre
seggi capuani, «spazi pubblici e di interesse pubblico» apparentemente poco for-
malizzati (p. 328), è che non paiono connotati da una funzione istituzionale ben
precisa, né da un legame formale con gli ingranaggi amministrativi dell’università.
Rapporti di tipo personale pervadono tutta la vita cittadina, segnatamente i canali
di comunicazione con la corte. Gli stessi consigli sono sovente integrati – non
diversamente da quanto riscontrabile in comuni e università un po’ in tutta la
Penisola – da commissioni e personalità esterne, senza contare l’intervento diretto
del sovrano per il tramite dei suoi uomini e portavoce. Figure particolarmente
influenti sono in grado di battere ognuna di queste vie: in età aragonese l’ubiquo
Giacomo d’Azzia pare il perfetto «collegamento tra la Corte e l’oligarchia politica
capuana, garante della città presso il re e viceversa» (p. 454).
Ciò non toglie tuttavia che a Capua la magistratura degli Eletti e il Consiglio
dei Quaranta restino in maniera continuativa punti di riferimento imprescindibili
della vita politica, perlomeno a partire dal pieno Quattrocento. A essi Senatore
dedica ampio spazio sondandone la composizione, il funzionamento e l’evolu-
zione, con occhio vigile sul peso giocato dalla partecipazione al consiglio nella
definizione dei parametri nobiliari e nella complicata emersione di un patriziato
cittadino giuridicamente formalizzato.
Anche in questo frangente al sovrano viene riconosciuto un ruolo di primo
piano. Perseguendo un’alternanza delle cariche e una trasparenza che, in ottempe-
ranza degli alti compiti del re, intendono ottenere concordia prima che consen-
so (pp. 186, 454-455), e contrastando l’inaridimento dei bacini di reclutamento
di Eletti e consiglieri a seguito di conflitti bellici e chiusure oligarchiche, gli
interventi dei sovrani garantiscono il regolare rinnovamento previsto dalla nor-
mativa; assecondano o frustrano le aspirazioni di chi si sente escluso; apportano
innovazioni che profilano meglio le definizioni cetuali e i criteri di accesso alle
magistrature. Il “governo delle liste”, sintetizza Senatore, a Capua è «saldamente
nelle mani del re» (p. 195).
Varie caratteristiche – non ultimo proprio lo stretto controllo regio – ren-
dono gli organi collegiali capuani una realtà a sé nel contesto del Mezzogiorno
Interpretazioni e rassegne 737

e presagiscono solamente, non anticipano in toto le più organiche istanze di


uniformazione delle magistrature urbane del Regno espresse nel biennio 1491-
1492 (p. 189). Non è tuttavia diverso il senso di fondo, la volontà cioè non di
controllare rigidamente, bensì di regolare le élites urbane (p. 190). Nel 1488 il
re bilancia la composizione per ceti dei sei Eletti (tre gentiluomini, due cittadini
e un letterato) e vincola la formazione del Consiglio dei Quaranta (che in verità
conta più di settanta membri) alla redazione di una matricola di tutti «li ientil-
homini et citadini de epsa cità, cio è de li principali» (p. 185) in cui reperire i
nomi degli eleggibili. Quest’ultimo provvedimento non viene letto da Senatore
come una chiusura cetuale, piuttosto come un adeguamento alle esigenze, per
così dire, di cambiamento nella continuità di un organo – il Consiglio – soggetto
a frequenti ricambi, che non perimetra un patriziato chiuso e che presenta in-
vece al suo interno nette distinzioni tra «i veri nobili», i gentiluomini, e tutti gli
altri (pp. 195, 388-389). Ancora a inizio Cinquecento la presenza in Consiglio
– fra i cui banchi trovano stabilmente posto nobili, cittadini (ossia mercanti e
imprenditori), letterati (in gran parte notai) e qualche artigiano – è espressione
di un settore non esiguo della popolazione cittadina e non esprime ipso facto la
nobiltà. Il Consiglio è il luogo in cui l’eminenza si manifesta, non l’origine della
stessa (p. 195).
Sfruttando le liste presenti nei Quaderni dei sindaci è possibile a dar conto
del tasso di rinnovamento del Consiglio e della rappresentatività dei nomi raccolti
rispetto ai cognomi e al numero totale dei fuochi di Capua corpo (pp. 192-193).
Non disponendo della matricola stilata nel 1488, di cui peraltro non resta traccia
negli anni successivi, probabilmente perché presto accantonata, viene però meno
l’allettante prospettiva di guardare al rapporto tra oligarchia di governo e popola-
zione attraverso numeri e cognomi ricavabili da un documento prezioso. Restano
inoltre nell’ombra gli snodi del confronto dialettico tra cives, patruni e corte su
cui la riforma del 1488, al pari di ogni altro intervento regio, risulta concepita e
fondata: cos’è nel concreto che guida Ferrante e i suoi collaboratori nella selezione
di cognomi e individui? Dove arriva – e da chi arriva – lo stimolo dei Capuani
e dove inizia l’azione del re allorquando è decisa un’operazione articolata e inva-
siva come quella del 1488? In riferimento al semplice rinnovo dell’imborsazione
quadriennale degli Eletti del 1471, Senatore scorge le sollecitazioni del capitano e
dei Capuani dietro lo «havimo inteso» dell’incipit della lettera regia (p. 183), ma
delle consultazioni che precedettero la riforma del 1488 e delle argomentazioni
espresse da pedine fondamentali come il sopra menzionato Giacomo d’Azzia non
si conoscono i dettagli. Nemmeno d’altro canto si può dir qualcosa dell’uso solo
effimero della matricola del 1488, così come, più in generale, non sono noti i
criteri e le tempistiche di rinnovo del Consiglio per tutto il secondo Quattrocento
e nei primi decenni del secolo successivo, forse perché mai messi per iscritto.
738 Interpretazioni e rassegne

È a ogni modo possibile tracciare un quadro delle caratteristiche generali


dell’eminenza sociale all’interno delle mura della città alla fine del medioevo:

La varietà; il peso sociale dei mercanti e dei letterati; la stretta relazione,


che però non è coincidenza, tra le famiglie preminenti e l’oligarchia politica che
gestisce l’università; la relativa apertura di quell’oligarchia politica, che coinvolge
strati medi della cittadinanza nei collegi e negli uffici più importanti. I due
seggi nobiliari, di Antignano e dei cavalieri, avevano certamente una funzione
identitaria, ma non sembrano condizionare stabilmente l’università. La nobi-
litazione, d’altra parte, non era determinata dall’aggregazione al Consiglio dei
Quaranta in quota nobili, come accadde nel corso del Cinquecento (p. 388).

Paiono tutto sommato poco veementi le sfide poste a un’oligarchia che


sa trovare ascolto presso un sovrano interventista come Ferrante e che si serve
opportunamente di cooptazioni in Consiglio funzionali alle sostituzioni per
cause naturali e, soprattutto, alla mobilità sociale di un centro politicamente
ed economicamente vivo. A tutto questo fanno da opportuna sponda l’in-
determinata lunghezza dei mandati consiliari e i rifiuti di sanzionare inedite
aperture da parte del re. Nel 1496 gli artigiani, attivi in consiglio ma privi di
riconoscimenti formali come ceto, non ottengono né l’ingresso tra gli Eletti, né
il riconoscimento di quote riservate in Consiglio (p. 187), non è dato stabilire
fino a che punto ostacolati dalle altre fasce sociali e fino a che punto penalizzati
dalla volontà del sovrano.
Aprendo al medio e al lungo periodo, vale a dire operando delle incursioni
fino alla fine del Cinquecento e oltre, è necessario guardarsi da un uso disinvolto
e precoce della definizione nobiltà di piazza o di consimili facenti riferimento
a una nobiltà che è tale per l’appartenenza a un’assemblea formalmente chiusa,
sul modello dei Seggi napoletani e sulla scia delle confusioni dell’erudizione sei-
settecentesca, per tacere delle sviste della storiografia novecentesca. L’esempio
di Capua dimostra quanto poco convenga sovrapporre automaticamente, fin
quasi all’indistinzione, le trasformazioni riguardanti gli organi di governo e le
ridefinizioni dell’eminenza. Si tratta di fenomeni manifestamente interconnes-
si (significativamente, uno dei capitoli del libro in cui si discute estesamente
di nobiltà è intitolato «L’amministrazione») ma da analizzare preservandone i
rispettivi percorsi (12). Nelle liste del Consiglio dei Quaranta si nota un ricambio

(12) In sede di sintesi G. Muto ha messo in risalto il ruolo dei Seggi in quanto strumenti
di identificazione e di ricognizione dello stato di patrizio e canali di selezione del ceto dirigente
cittadino: G. Muto, Noble presence and stratification in the territories of Spanish Italy, in Spain in
Italy. Politics, society, and religion 1500-1700, a cura di T. J. Dandelet - J. Marino, Leida-Boston,
Brill, 2007, pp. 251-297, in particolare a p. 276.
Interpretazioni e rassegne 739

non indifferente tra Quattro e Cinquecento (pp. 192-193) e già le riforme regie


quattrocentesche assecondano un certo avvicendamento. Comunicano nondimeno
stabilità la bipartizione tra gentiluomini e cittadini, che mai viene meno, e la
mancata applicazione di alcune innovazioni promosse dalla Corte, come anche i
dinieghi di questa: l’abbandono della matricola del 1488; la bocciatura regia degli
allargamenti proposti nel 1496; il mancato rispetto della nuova turnazione trien-
nale introdotta nel 1518. Nel secondo quarto del Cinquecento arriva un robusto
consolidamento con il drastico restringersi dello scarto tra il bacino di recluta-
mento degli Eletti e quello dei Consiglieri e, soprattutto, con il conferimento a
vita della carica di Consigliere, con conseguente chiusura del Consiglio fatte salve
ben ponderate aggregazioni. Non vi è però la creazione di una nobiltà definita
dall’appartenenza al consiglio. Nel Quattrocento, come altrove negli stessi anni,
gli strati superiori della popolazione costituiscono una realtà composita in cui
alcuni individui solo col tempo vedono anteposto al proprio nome una qualifica
nobiliare, altri non dispongono degli appellativi della distinzione assegnati a loro
parenti, mentre il Consiglio non solo non rende tutti nobili, ma nemmeno rende
tali. Nel corso del Cinquecento e ancora successivamente soltanto per i consiglieri
nobili la cooptazione in Consiglio significa aggregazione alla nobiltà, non per gli
altri. La nobilitazione è una procedura che il solo accesso in Consiglio non ga-
rantisce e che, contestualmente all’incremento della quota percentuale dei nobili
in Consiglio e dell’evoluzione della figura del barone cittadino, passa attraverso
altri canali: l’assenso del viceré, le sentenze del tribunale, il vivere nobilmente, la
ricerca erudita delle prove di una nobiltà «di fatto» (pp. 225-239).
Il confronto con altre realtà può evidenziare somiglianze e divergenze, ma è
chiaro quanto lungo, contraddittorio e accidentato sia ovunque il percorso verso
la creazione di un ceto patrizio formalmente individuato e, in determinati con-
testi, la definizione con contemporaneo irrigidimento dei criteri di nobiltà. Una
delle transizioni tra XV e XVII secolo studiate più a fondo è quella dispiegatasi a
Manfredonia (13). Come a Capua, a partire dall’ultimo quarto del XV vengono
progettate varie riforme del Consiglio, alcune delle quali non paiono apertamente

(13) Il Libro Rosso dell’università di Manfredonia, Manfredonia, Comune di Manfredonia,


1974; G. Coniglio, Ebrei e Cristiani a Manfredonia nel 1534, in «Archivio Storico Pugliese»,
XXI, 1968, 1, pp. 63-69; C. Colafemmina, Cristiani novelli a Manfredonia nel secolo XV, in
Atti dell’11° Convegno Nazionale sulla Preistoria-Protostoria e Storia della Daunia, San Severo,
2-3 dicembre 1988, San Severo, Gerni, 1990, pp. 269-278; A. Ciuffreda, Élite cittadina e
struttura produttiva. Un feudo rurale di Capitanata (1530- 1750), in «Nuova Rivista Storica»,
LXXVII, 1993, pp. 570-623; i volumi Il Medioevo e L’età moderna della Storia di Manfredonia
diretta da S. Russo, Bari, Edipuglia, 2008 e 2009; P. Ognissanti, L’università sipontina nel ‘400,
[Manfredonia], s. n., 2004; Id., L’università sipontina nel ‘500, [Manfredonia], s. n., 2002; P.
d’Arcangelo, La Capitanata, cit.
740 Interpretazioni e rassegne

funzionali alla creazione di un patriziato in carica a vita nel Consiglio, lungo un


cammino costellato di criticità e ripensamenti. Come a Capua, a Manfredonia
la chiusura del Consiglio è accertabile a partire dagli anni Venti o Trenta del
Cinquecento. Diversamente che a Capua, le partizioni interne al Consiglio tese
a distinguere i nobili dal resto della popolazione paiono posticce e mal digerite
da molti, disegnando un’evoluzione assai accidentata che ancora a inizio Seicento
risulta largamente irrisolta.
Ma il confronto non va operato solamente con le altre città del Regno, tra
le quali peraltro Manfredonia non rappresenta che un caso tra molti. La transi-
zione dal Regno aragonese al Viceregno spagnolo è in realtà multiforme e svela
mutazioni profonde in più settori della politica e dell’amministrazione.
L’immagine del Regno quattrocentesco come laboratorio di tecniche e in-
dirizzi di governo – non ultimo il potere “assoluto” perseguito da Ladislao e
ancor più da Alfonso e Ferrante – ripresi e sfruttati al tempo dei Viceré è ormai
un dato acquisito nella storiografia degli ultimi decenni, che Senatore puntella
evidenziando la resistenza al cambiamento di uno stato – quello aragonese –
tendenzialmente accentratore (p. 446) e la reale portata dalla crisi del 1495, che
«non intaccò profondamente le strutture istituzionali e sociali della città [scil. di
Capua] e del Regno» (p. 441). Intorno ad alcuni fenomeni che ora cominciano a
essere meglio visibili per il Tre e il Quattrocento, ad esempio la persistente diffu-
sione di legami di tipo personale – ne accenneremo tra poco – confliggente con
un’idea di ineludibile territorialità nell’esercizio dei poteri, sappiamo ancora poco,
ma non sarebbe sorprendente riscontrarne la capacità di durata nel XVI secolo.
Al netto di invarianze quali l’importanza della città e le vocazioni economiche
del territorio, le peculiarità del Quattrocento capuano risaltano tuttavia non meno
che le continuità con il secolo successivo. Certo, alcuni aspetti tracciano delle
trasformazioni anche rispetto al secolo precedente, il Trecento: basti pensare allo
stimolo potentissimo che lo strutturarsi e definirsi dell’università in età tardoan-
gioina e aragonese esercita sul processo di costruzione territoriale avente come
fulcro la città, oppure alla gestione e poi all’acquisto di entrate indirette come
momenti cruciali per la trasformazione dell’università da mero organo di prelievo
e di rudimentale rappresentanza a strutturato organo di governo. Nondimeno,
le nebbie documentarie che avvolgono l’università e i suoi apparati ancora nel
primo Quattrocento, insieme all’esplosione di carte di età ferrandina, favoriscono
l’indagine su ciò che Capua e la sua università sono nel tardo Quattrocento e
cosa successivamente esse diventano.
Fino alle guerre d’Italia la capacità di autodeterminazione, ossia «lo spazio
di resistenza e di contrattazione» dei Capuani di fronte al sovrano, non dipende
da una «autonomia» tutelata in punta di diritto bensì dalla «contingente forza
politica» (pp. 204-205). Questa mutevolezza intrinseca della vita politica fa pen-
Interpretazioni e rassegne 741

dant con la lasca regolamentazione e la mirabile capacità di adattamento degli


strumenti di governo cittadini. Lo stesso Consiglio dei Quaranta, prodotto di una
genesi che resta nebulosa, non ha una sede fissa, ha un numero di partecipanti
che varia anche di molto nel tempo, forse non vi è nemmeno una normazione
stringente in fatto di rinnovi fino al primo Cinquecento, produce registrazioni
scritte pesantemente selettive e non standardizzate; in generale, non sembra se-
guire un corpo di norme strettamente vincolanti messe per iscritto. In moltissimi
frangenti contano molto sul processo informativo e decisionale la personalità e
l’influenza di singoli personaggi; in vari momenti le riunioni si allargano a uomini
esterni al consiglio.
Un certo cambiamento inizia a delinearsi negli anni Novanta del Quattrocen-
to e nei primi del Cinquecento, allorquando si registra una maggiore regolarità
e formalizzazione nelle convocazioni e nelle registrazioni, che tuttavia Senatore
intende come «un segno di crisi e di limitazione dei margini di libertà dell’uni-
versità, non di stabilizzazione dell’istituzione» (pp. 196, 208). Mutano gli uffici:
come in altre città del Regno, si ridefinisce nel 1504 la figura del sindaco dell’u-
niversità, nel caso di Capua attraverso la geminazione delle cariche di sindaco
e cancelliere nei primissimi anni del Cinquecento, agevolando la doppia anima
tecnica e politica del vecchio ufficio (p. 220). Cambia inoltre dal punto di vista
architettonico e funzionale la città con i suoi luoghi del potere. Nel secondo
Cinquecento vengono eretti il palazzo del governatore, l’antico capitano, e il pa-
lazzo dell’Udienza, sede dell’esecutivo dell’università (p. 326). Con occhi diversi
si inizia a guardare al grande patrimonio di scritture che la città conserva, sulle
tracce della sua storia – e quindi della sua identità – e di percorsi di nobilitazione
di singoli da riscoprire, se non proprio da inventare (pp. 225-238). Segna uno
stacco tra Quattro e Cinquecento finanche il dato biologico. Lì dove la vicinanza
anche fisica al re conta parecchio, il ricambio generazionale non può che avere
ripercussioni decisive sul dialogo tra corte e città (pp. 428-429, 450).
In sede conclusiva Senatore si concede ariose aperture e rimarca il generale
pragmatismo delle scelte politiche e istituzionali degli Aragonesi in deroga al pur
evidente afflato “assolutista”, consci degli oggettivi condizionamenti geopolitici.
Uno strumento tipico della tradizione aragonese – non senza importanti prece-
denti nella stessa storia del Regno – asseconda questa consapevolezza, vale a dire
i plenipotenziari che supervisionano o sostituiscono gli ufficiali territoriali, senza
che vi siano coerenti programmi riformatori (pp. 452-453). Per ciò che riguar-
da l’università, la sua fluida natura è quella dei grandi Tribunali napoletani del
tempo, i cui organi collegiali ripropongono modi tempi e metodi rinvenibili in
città (pp. 205-206, 456). Come la Corte aragonese non è uno spazio fisico ma
è ovunque si trovi il re, così l’università è lì dove sono gli eletti, in chiesa, in una
bottega, è lo stendardo della processione del mercato (p. 456).
742 Interpretazioni e rassegne

Una rottura è certamente rappresentata dall’inserimento nell’Impero, dalla ri-


duzione delle possibilità di sfruttare legami e conoscenze personali, del venir meno
del principio della moltiplicazione del centro: le udienze provinciali spagnole sono
uffici, non repliche del sovrano (p. 453). In effetti, nel Regno la razionalizzazione
e la centralizzazione cinquecentesche marcano un’evoluzione sostanziale rispetto al
Quattrocento. Intendiamoci: è lungo l’elenco degli studi che evidenziano la razio-
nalità e l’efficacia – la «spinta unitaria» di Ferrante secondo Galasso (14) – alla base
dell’opera di rinnovamento delle strutture politiche, amministrative e finanziarie
nel XV secolo, come bene hanno dimostrato da ultime le riflessioni di Roberto
Delle Donne e Giovanni Vitolo rispettivamente sul funzionamento della Camera
della Sommaria e sulle capacità cartografiche d’età aragonese (15). D’altra parte
sono perfettamente riconoscibili per tutto il Cinquecento figure dotate di poteri
straordinari, che derogano alle ordinarie funzioni di governo, sia a Napoli che nelle
province. Quando osserviamo costoro all’opera, notiamo tuttavia che più di qualcosa
è cambiato rispetto agli anni di Alfonso e di Ferrante. Con la stabilizzazione carolina
successiva alla fine delle guerre d’Italia una grande stagione di riforme inquadra in un
progetto di ampio respiro l’azione dei vari Figueroa, Masturzo, Reverter, Magnani,
Pignone come mai accaduto prima, ricorrendo peraltro a commissari e ufficiali con
funzioni insolitamente ampie non per introdurre tali o consimili figure, bensì per
condurre azioni che perseguono l’inaridimento degli spazi di manovra riconosciuti
per tutto il XV secolo e ancora nella prima metà di quello successivo a tutti i livelli
dell’ufficialità del Regno. Presso le maggiori istituzioni che governano le finanze
del Regno, ossia la Camera della Sommaria e, al di sotto di essa, la Dogana della
mena delle pecore di Foggia, la discrezionalità dell’ufficiale del re – l’«arbitrio» che
in età aragonese non solo non costituisce in sé un problema, ma è un’apprezzata
risorsa – e la giustapposizione sghemba di uffici e pertinenze coesistenti e concor-
renti rappresentano da metà Cinquecento, perlomeno nelle intenzioni di riforma,
ciò che va superato, nella difficile ricerca dell’esatta collocazione di ogni ufficiale in
un organigramma di governo fattosi ipertrofico (16).
Rispetto al secolo precedente, mutano il ruolo e l’onore riconosciuti all’uffi-

(14) G. Galasso, Il Regno, cit., pp. 836-840.


(15) R. Delle Donne, Burocrazia e fisco a Napoli tra XV e XVI secolo. La Camera della Som-
maria e il Repertorium alphabeticum solutionum fiscalium Regni Siciliae Cisfretanae, Firenze, Firenze
University Press, 2012; G. Vitolo, Governo del territorio e rappresentazione dello spazio nel Mezzo-
giorno aragonese, in Ricerca come incontro. Archeologi, paleografi e storici per Paolo Delogu, a cura di
G. Barone - A. Esposito - C. Frova, Roma, Viella, 2013, pp. 399-424; La rappresentazione dello
spazio nel Mezzogiorno aragonese, a cura di Giovanni Vitolo, Battipaglia, Laveglia&Carlone, 2016.
(16) Mi sia consentito rimandare a P. d’Arcangelo, Il signore va alla Camera. Il fondo Relevi
dell’Archivio di Stato di Napoli (secoli XV-XVII), in corso di stampa; Id., Così vicini, così lontani.
L’età aragonese nello specchio delle riforme cinquecentesche della Dogana della mena delle pecore di
Foggia, in «Itinerari di ricerca storica», XXXII, 2018, 2, pp. 163-176.
Interpretazioni e rassegne 743

ciale e, a un livello più generale, mutano lo stile e la concezione stessa del governo
del Regno, in un profluvio di ordini, istruzioni e mandati che cercano di mettere
per iscritto le regole dell’azione di governo nella capitale e sul territorio con una
sistematicità e pervasività che non è dato vedere nel Quattrocento. Inglobato il
Regno nell’Impero e continuando a essere l’università un organismo che non si
oppone alla monarchia poiché ne è parte integrante, le magistrature cittadine non
restano sorde all’evoluzione in atto presso altre componenti della macchina statale.
Senatore riconosce a Capua una spinta verso una maggiore formalizzazione di
pratiche e scritture già negli anni Novanta del Quattrocento, giusto pochi anni
prima che la figura del sindaco dell’università conosca anch’essa un’importante
e duratura ridefinizione. Va detto che molto resta da fare per conoscere il Cin-
quecento capuano e delle altre città del Regno. Occorrerà anzitutto misurarne
gli interventi di riforma con quanto ora sappiamo sulla Sommaria. A lungo la
storiografia si è soffermata sulle contraddizioni delle operazioni intraprese, sugli
effetti della venalità degli incarichi, sull’inconsistenza e l’inefficacia degli interventi
tentati nel XVI e ancora nella prima metà del XVII secolo, mancando però di
notare i problemi connessi con il riutilizzo, nelle grandi operazioni di riforma
cinquecentesche a Napoli e nelle province, della normativa e delle indicazioni
prodotte in età aragonese, dimostrandosi sensibile forse solo al sottile vagheggia-
mento di un’età dell’oro del Magnanimo e del figlio (17).
Nonostante gli sforzi dei riformatori, le direttive aragonesi restano figlie del
loro tempo e di uno stato, quello aragonese, che è fluido perché tale vuole esse-
re. Esse propongono un modello operativo tendenzialmente – non certo inge-
nuamente – aderente alla forma delle cose, meno descrittivo e programmatore,
potenzialmente problematico quindi per il buon governo in un mutato contesto
politico, legislativo, culturale. Preso atto per un verso dei limiti della storiografia
incapace di vedere qualcosa di diverso della lentezza e della difficoltà del processo
di ammodernamento dello stato napoletano, per un altro delle continuità di vario
tipo che ricerche più recenti scovano tra il Regno tardomedievale e il Viceregno,
vanno tenuti presente i tratti peculiari che non rimandano tanto alla accresciuta
o diminuita intensità di un fenomeno nel tempo o allo stato di avanzamento di
un’evoluzione: tra il regno di Alfonso e l’intensa seppur aggrovigliata stagione delle
riforme di Carlo V e Filippo II maturano nell’impianto di governo importanti
differenze di tipo qualitativo (18).

(17) Oltre agli studi menzionati nella nota precedente e alla bibliografia ivi considerata, si
veda almeno M. Del Treppo, Realtà, mito e memoria di Napoli aragonese, in Fra spazio e tempo.
Studi in onore di Luigi de Rosa, a cura di I. Zilli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, 2
voll., I, pp. 315-336.
(18) Cfr. G. Muto, Noble presence, cit., p. 275: «In the passage from the Aragonese to the
Castilian age antagonistic and contradictory elements had entered into the social and cultural
picture, with obvious effects on the political options of society’s leaders».
744 Interpretazioni e rassegne

Tornando a Capua e alla sua università e appuntando lo sguardo sul settore


delle finanze, è facile reperire spunti ulteriori in merito. Nell’intreccio di diritti,
cessioni, azioni di appaltatori, proprietari, prestiti e interessi che costituisce la
mobile costellazione della fiscalità e della finanza capuana, solo sullo scorcio del
Quattrocento la riduzione del carattere largamente informale delle procedure
adottate muove alcuni passi decisi. Qualche intervento si profila già negli anni
Sessanta (pp. 290-291), ma è nel 1488 e negli anni Novanta, in significativa corri-
spondenza con quanto accade in campo documentario e presso il Consiglio e con
il decisivo concorso della Corona, che il numero degli ufficiali che maneggiano
denaro aumenta, i compiti si definiscono, si riducono «gli spazi di autonomia di
alcuni individui e di alcune famiglie, non dell’università nel suo complesso» (p.
300), segnando una tappa del percorso verso la codificazione delle operazioni e
del comportamento dell’ufficiale.
In età aragonese la configurazione del prelievo è mobile e complessa, da misu-
rarsi caso per caso e momento per momento. Il perfezionamento dei meccanismi
del governo fiscale perseguito dalla Corona, con tutto ciò che questo comporta
in termini di centralizzazione e velocizzazione, non può non lasciar traccia in una
città particolarmente legata al re come Capua, ma al contempo non nasconde
i continui aggiustamenti, gli ostacoli quotidiani, l’indefinizione e la sovrapposi-
zione di cariche e compiti (pp. 290-293, 314-319). Non vi è programmazione
di spesa, e se vi è previsione essa si lega a pagamenti fiscali del tutto consueti
o a congiunture molto particolari (p. 319). Negli stessi anni, la Sommaria che
tutto governa valendosi di raffinate tecniche di accertamento e di gestione, vive
in fondo tensioni non troppo diverse (pp. 290, 313-314).
Paiono questi molti degli elementi che hanno consentito a Giovanni Muto
di evidenziare, con riferimento al Cinquecento, la persistente immaturità teo-
rica e pratica della finanza pubblica del Regno (19). Senatore però non scorge
nelle pratiche di gestione quattrocentesche segni di svantaggiosa arretratezza o
di disordine. Un sistema di prelievo poco ingessato si rivela reattivo di fronte
agli imprevisti, fa un uso proficuo di sperimentate pratiche creditizie, riesce a
gestire efficacemente il debito dell’università a sostegno della crescita economica,
urbanistica e politica della città (pp. 319-320). L’utilizzo dell’espressione “debito
pubblico” per indicare una serie di soluzioni praticate da una città del Regno
per finanziare le proprie spese e assolvere gli obblighi fiscali “prima del debito”,
per dirla con Maria Ginatempo (20), e prima della comparsa dei creditori instru-

(19) Id., Le finanze pubblica napoletane tra riforme e restaurazioni (1520-1536), Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1980, p. 72.
(20) M. Ginatempo, Prima del debito. Finanziamento della spesa pubblica e del deficit nelle
grandi città toscane (1200-1350 ca), Firenze, Olschki, 2000.
Interpretazioni e rassegne 745

mentarii sorprende solamente se non si considera l’effettiva aderenza semantica


di questa espressione a ciò che Senatore descrive, ossia prestiti e alienazioni che
servono a mantenere in piedi una diramazione fondamentale del “pubblico”,
ossia l’università. Si tratta di un meccanismo mobile in linea con gli aspetti or
ora ripresi e con il funzionamento del sistema del credito della monarchia, non
regolamentato da organismi stabili perché costruito sulla possibilità di accesso
informale all’entourage del sovrano (pp. 301-313).
Di tipo diverso è invece la diacronia che emerge osservando il territorio della
città. Prima che gestito, il territorio va costruito. La “conquista del contado” (p.
470) a Capua conosce una fase decisiva tra il 1393 e il 1436. L’esito è la creazione
di una realtà complessa, fondata su livelli amministrativi plurimi che non cessano
di ridefinirsi nel tempo. Lungi dal ritagliarsi uno spazio omogeneo all’interno del
demanio regio, Capua «egemonizza» (pp. 5, 85-86) la campagna e i centri abitati
su basi giuridiche e con intensità differenti che rispetto all’omogeneizzazione e alla
razionalizzazione del controllo e del prelievo risultano essere complicazioni di non
poco conto. La mediazione politica e la gestione delle risorse passano attraverso
varie vie, ma in tutti i casi è la volontà regia, interlocutore imprescindibile, ciò
che ogni azione sul territorio presuppone. Ritorna l’immagine della gestione «in
condominio» (p. 470) con il re: «Il territorio della città di Capua, il suo distric-
tus […], era, lo ripetiamo, un’articolazione funzionale dello Stato monarchico.
Non era né uno Stato nello Stato, né era il coerente spazio geografico in cui
si dispiegava un potere territoriale urbano, ma era l’ambito mutevole in cui si
manifestava la centralità della città, intesa come formidabile base della Corona
in Terra di Lavoro» (p. 469).
«Principio ordinatore di quell’area» (p. 85, 470), la città non può comunque
adagiarsi sulle concessioni regie accumulate. Esse trovano sostanza solo «nell’eser-
cizio quotidiano del potere fiscale e giurisdizionale» (p. 85) e non determinano
affatto una tabula rasa di diritti e giurisdizioni alternativi su cose, luoghi e per-
sone. Emergono bene gli elementi refrattari o in qualche misura disfunzionali al
processo di territorializzazione condotto nel corso del Quattrocento dalla città:
la doppia applicazione della giurisdizione del capitano, in personas quella penale,
territoriale quella civile; le resistenze dei baroni detentori di vassalli; un feudo
come quello di Acerra, che nel Quattrocento nulla conserva della dimensione
spaziale e mostra di essere unicamente un aggregato di persone; una particolare
categoria sociale come quella dei cacciatori regi (pp. 47-58).
Le eccezioni alla compiutezza degli ambiti spaziali nel XV e ancora nel XVI
secolo nel Mezzogiorno è un tema destinato ad arricchirsi presto. Con le infor-
mazioni ora in nostro possesso, non pare trattarsi di un fenomeno così residuale,
dato il caso macroscopico della personalità della giustizia del doganiere di Foggia,
o le più risalenti dipendenze personali che ancora spuntano in buon numero nelle
746 Interpretazioni e rassegne

fonti calabresi quattro-cinquecentesche, o ancora, per restare vicino a Capua, la


frammentazione estrema di diritti e giurisdizioni nelle mani di famiglie napo-
letane in alcuni punti della Terra di Lavoro. Nel caso del territorio della città,
non va dimenticata l’ambiguità di fondo su cui nel Regno esso insiste, nonché la
debolezza dei vincoli di cui la città dispone per dominarlo in maniera esclusiva,
elementi che arrivano da lontano – lo dimostra lo studio di Sandro Carocci sulla
signoria rurale normanno-sveva (21) – e che alla fine del medioevo e per tutta l’età
moderna fanno i conti con una demanialità tripla – demanio del re, del feudatario,
dell’università – fonte di infiniti strascichi legali fino al ventennio fascista e oltre.
Calato nel contesto capuano, l’argomento dei demani conferma tutta la
sua scivolosità. A Capua la parola demanio fa riferimento non a uno spazio ma
alla giurisdizione sul territorio, oppure chiama in causa la terra di cui Capua
dispone a Castel Volturno in quanto signore feudale. Nel territorio dipendente
dalla città l’esistenza di terre comuni può essere soltanto supposta, mentre sono
perfettamente riconoscibili i diritti d’uso e di pascolo sulle terre aperte, quale che
sia la loro origine. Senatore non si sbilancia nel seguire la lettura di Giovanni
Cassandro che vede nelle terre pratali capuane le antiche terre demaniali (p. 97).
Dalle fonti quattrocentesche citate questa evoluzione in verità è irriconoscibile,
mentre pare evidente la connotazione tecnica delle indicazioni contenute nelle
richieste della città e nelle disposizione regie. I prati sono intesi come aree da
sfalcio soggette alla stagionalità, bocconi prelibati per speculatori non interessati
tanto all’allevamento, quanto al subaffitto e a forme lucrose di prevaricazione ai
danni di elementi economicamente più deboli (pp. 95-97). Il sovrano dal canto
suo gioca un ruolo importante nella partita sfruttando la demanialità del territorio
capuano, sia imponendo pagamenti e chiusure con la complicità di imprenditori
spregiudicati, sia introducendo la fida lì dove è più facile scorgere un nesso diretto
tra demanialità e controllo regio, ossia nelle zone paludose, scatenando prevedibili
resistenze in città e nei casali (pp. 100-105).
La difesa dei diritti sul territorio da parte di Capua corpo e tutti gli elementi
della dialettica con il potere regio fin qui richiamati concorrono nel delineare
l’«identità immateriale» (pp. 347-369) di cui una grande comunità come quella
capuana dispone. Essa si manifesta dialetticamente rivolta verso l’esterno ed è al
contempo analiticamente costruita a uso di chi vive all’interno delle mura e nei
borghi. È nel contesto del Regno, imponendosi sulle altre città, prima di tutto
sulla vicina Aversa, che va affermato il rango, comprovato dalla dimestichezza con
i re, dai lunghi e ripetuti soggiorni di questi ultimi all’interno delle mura capuane,
dagli ingressi trionfali, dai transiti illustri. Ma l’onore e l’identità della comunità

(21) S. Carocci, Signorie di Mezzogiorno. Società rurali, poteri aristocratici e monarchia (XII-
XIII secolo), Roma, Viella, 2015.
Interpretazioni e rassegne 747

e della sua classe dirigente non sono dati una volta per tutte. Vanno rivissuti in
riti collettivi che segnano la partecipazione della cittadinanza alle vicende liete e
tristi della monarchia e dei suoi alleati, come «allegrezze» e commemorazioni (pp.
366-368), o che scandiscono e portano in scena le componenti istituzionali e
sociali della città davanti a beneficio e monito degli stessi cives: è questo il caso
del corteo per il mercato di San Giovanni (pp. 368-369).
È opportuno accogliere le indicazioni che arrivano dalle recenti indagini sul
riuso dell’antico a Capua e altrove, da parte di singole componenti del panorama
urbano come della stessa università. Senatore è attento nel valutare la diacronia di
questi fenomeni. L’uso dell’antico a Capua – per la cui analisi l’Autore si avvale di
una accurata descrizione degli apparati effimeri approntati per l’ingresso in città
di Carlo V nel 1536 – varia nel tempo e a seconda dei contesti (pp. 355-365); la
processione di San Giovanni evolve e reca traccia dei mutamenti sopraggiunti nel
Cinquecento nell’impalcatura di governo del Regno e della parallela attenuazione
della capacità di espressione dell’identità cittadina (p. 369).
L’elaborazione di questa identità, il potenziamento politico, la definizione
degli apparati amministrativi, l’egemonia zonale intorno al basso Volturno vanno
quindi modellandosi tra il XIV e il XV secolo mantenendo come interlocutore
imprescindibile il re e l’apparato di governo che a lui fa capo. La contingenza
politica e militare è di fatto un’opportunità per consolidare la propria posizione
sulla base degli speciali riguardi dei re per la città. Scorgiamo un reiterato oppor-
tunismo funzionale al raggiungimento di obiettivi mirati che riguardano Capua e
non lo Stato nel suo complesso, tra cui il riuscito ampliamento e la definizione del
territorio della città nel corso del XV secolo. Questa abilità dei Capuani integra e
non contraddice la possibilità di accedere regolarmente a una normazione parte-
cipata nella “monarchia amministrativa” evocata da Pietro Corrao e da Senatore
richiamata in causa (pp. XI, 446). La vicenda plurisecolare della monarchia da
un lato determina nel corso del tempo la condizione privilegiata dei Capuani in
città, nel distretto e nel Regno tutto, dall’altro condiziona l’irrobustimento delle
università senza per questo frenarlo. È però necessario dare sostanza ai consueti
riferimenti alle fasi di avanzamento e di regresso delle prerogative delle università
in funzione delle alterne fortune delle dinastie, in anni recenti meglio calibrati
ma di taglio spesso molto generale e largamente incompleti. Questo cammino è
calato da Senatore nel concreto svolgersi della storia capuana quattrocentesca, se
ne vedono i nessi causali e la cronologia, nella speranza che in futuro si accrescano
per numero e qualità le raccolte sistematiche di dati concernenti le terre e le città
del Regno: solo in questo modo verrà costruita una base sufficientemente solida
per un discorso d’insieme concettualmente e prima ancora cronologicamente
consapevole circa gli assetti socio-politici della città meridionale tra XII e XVII
secolo; solo così si potranno evitare retrodatazioni molto poco giustificate dalla
748 Interpretazioni e rassegne

piena modernità al basso medioevo, favorendo al contempo un uso più sapiente


e forse più cauto di espressioni quali “debolezza” o “crisi” dell’università.
Affrontati alcuni dei tanti aspetti del complesso rapporto città/monarchia,
approdiamo infine alla terza grande questione storiografica: l’annoso confronto,
mai del tutto sopito nel dibattito storiografico, con i centri del resto della Penisola.
Contro antichi scetticismi circa la vitalità politica della città meridionale
si possono facilmente notare le strategie e gli strumenti utili per il controllo di
uomini e risorse che a Capua, come in un qualsiasi comune toscano o padano, si
sa bene come mettere in campo: l’uso politico della cittadinanza (pp. 34-38); la
creazione e il mantenimento, da parte dell’università, di legami di patronage con
singoli individui da portare dalla propria parte o tenere a bada (p. 38); l’assalto
ai beni ecclesiastici sul territorio (pp. 52-53). D’altro canto persistono agli occhi
dello storico differenze decisive, tra cui l’origine ed esercizio del potere baiulare
a Sud e la potestas statuendi a Nord (p. 99) e ciò che riguarda il ruolo, o anche
soltanto la presenza di un potere sovrano di livello superiore nella “conquista del
contado”.
Senatore ripropone una mossa sperimentata: ampliare lo sguardo e conside-
rare il contesto europeo. Il passo ulteriore qui consiste nel chiamare in causa la
Francia e le sue bonnes villes, definizione

che non qualificava una rigida condizione giuridica, ma corrispondeva ad


una tipologia di centri urbani o quasi urbani strettamente legati alla Corona.
La bonne ville è quella che presenta un interesse per il re, in ragione della sua
importanza, della sua ricchezza e della sicurezza che offre. In questo contesto,
la questione dell’autonomia amministrativa – ha osservato Albert Rigaudière
– non si pone: la bonne ville è una risorsa per il re, ed il re lo è per la bonne
ville (pp. 464-465).

È suggestiva l’immagine delle città fedelissime come contraltare italiano delle


bonnes villes francesi (p. 465). Ponendo in tali termini la questione, emerge però
un interrogativo. Tra queste città particolarmente importanti e favorite c’è ov-
viamente Capua: ma le altre? quelle che bonnes o fedelissime non sono? Viriamo
cioè verso il problema della rappresentatività del caso capuano, permanendo
sullo sfondo l’eterna questione della forma e della sostanza della città medievale
e moderna nel Meridione italiano.
Gli studi di Giovanni Vitolo sulla città meridionale mostrano tre vie per
assegnare un profilo alle nostre città (22). Potremmo fare riferimento al gruppo

(22) G. Vitolo, L’Italia, cit., pp. 1-43.


Interpretazioni e rassegne 749

dei centri che l’ottica regia riconosce come particolarmente importanti in quanto
dotati di buona visibilità in campo politico, poiché in grado di relazionarsi con
soggetti esterni al Regno, ma in questo caso metteremmo sotto osservazione un
gruppo tutto sommato stabile nel tempo ma troppo ristretto per dar conto dei
tanti canali lungo cui viaggia il mutuo interesse tra sovrano e città. Si potrebbe
allora vedere nelle città fedelissime di Senatore le terre famose che Vitolo individua
nella documentazione angioina, fondamentali per l’organizzazione politico-am-
ministrativa del Regno e abitate da individui in grado di allacciare forti interessi
economici con la Corte. Anche qui le difficoltà tuttavia non mancano e derivano
dalla contingenza all’origine della documentazione che fa menzione di queste terre
famose, dalla tracciabilità della definizione in età aragonese e spagnola, dai limiti
di elenchi apparentemente nitidi ma inclusivi di terre di cui non si intuiscono
bene le caratteristiche salienti e dimentichi di altre dal peso specifico sicuramente
elevato. Si può allora, sempre con Vitolo, aprire il ventaglio dei criteri da consi-
derare, andare oltre la sfera politico-istituzionale e mettersi alla ricerca di quelle
vitali reti di scambio che innervano il territorio e che hanno come snodi nume-
rose terre che non sono città in senso stretto, small towns come quelle inglesi e
in parte francesi secondo la rilettura di Giuseppe Petralia (23). A questo punto il
problema è di altra natura: il gruppo dei centri in grado di emergere si dilata ed
è lecito chiedersi cos’è, se c’è, che accomuna Capua con, poniamo, Civitella del
Tronto, Campli e Bucchianico in Abruzzo Ultra, per restare agli esempi di Vitolo.
Petralia non sembra vedere difficoltà intorno a questo punto poiché propende
per un’accezione plurima del termine città, in grado di dar conto della ormai
acclarata complessità del fenomeno urbano già dai 2000 o anche dai 500 abitanti
in su (24). Forse però esiste una soluzione più facile, che consente di aggirare
l’insidioso problema delle definizioni e delle soglie urbane.
Per il Mezzogiorno, è noto, va considerato nella documentazione l’uso esteso
della parola terra rispetto a civitas. Non offre troppe certezze l’uso che le fonti
fanno del secondo termine: ha certo un suo peso per la valutazione della caratura
degli insediamenti, ma ci sono centri come Barletta e Foggia che civitates non
sono, mentre all’estremo opposto centri disastrati ma ancora abitati conservano
ancora nella prima metà del XVI secolo la diocesi e il titolo di città. È però la stessa
storiografia a mostrarsi per certi versi irrisolta nel creare tipologie e nell’individuare
il proprio oggetto di studio. La tassonomia proposta da Aurelio Musi dimentica
la città senza casali – poi recuperata da Vitolo, al quale era parimenti sfuggita in
una prima sistemazione – mentre crea non pochi problemi la definizione città di

(23) Monarchia, città feudalità, cit., p. 1162.


(24) Ivi, pp. 1162-1163.
750 Interpretazioni e rassegne

casali (25). Altrettanto sintomatico è il fatto che importanti ricerche degli ultimi


anni non rinuncino a una certa fluidità nell’utilizzo di concetti quali “rurale” e
“centro minore”. Per l’età normanno-sveva, l’analisi delle società rurali di Sandro
Carocci prende in considerazione le dominazioni su città vere e proprie come
Eboli, Troia e Isernia (26). Per il tardo medioevo, in un importante contributo sui
centri minori altopugliesi, Francesco Violante e Saverio Russo hanno considerato
Manfredonia, le stesse Foggia e Barletta, Andria, Bisceglie, Trani, Bari (27).
Questa irresoluzione dipende largamente da due tratti fondamentali dei centri
meridionali che contrastano fortemente rispetto alla classica – e oggi anch’essa
molto ritoccata – immagine dell’Italia del Centro-Nord intra civitates ferme divisa,
ossia la debole e in alcuni casi inconsistente subalternità politica, istituzionale
ed economica delle campagne rispetto alle città e lo schiacciamento della gerar-
chia urbana del Regno all’uscita della crisi tardomedievale, con Napoli avviata a
imporre il suo primato. Di qui le difficoltà a cui va incontro chi a Sud tenta di
distinguere l’urbano dal rurale. Le fonti tardomedievali e primomoderne evitano
soglie e fratture mediante l’utilizzo dell’elastico concetto di terra, che può andar
bene per Salerno come per Montefusco in Principato Ultra, per Melfi come per
la minuscola Policastrello in Calabria Citra. In momenti in cui occorre valutare
e inquadrare, ecco qualifiche quali bona, picciola, famosa, ruynata, populosa, …,
che nella loro semplicità riescono a dar conto icasticamente dei tratti salienti
dell’insieme di uomini e pietre.
Vi è poi un secondo aspetto non meno importante. Le fonti che gli studiosi
considerano per dara vita a una gerarchia demica meridionale sono diretta espres-
sione, o comunque sono potentemente influenzate, dal punto di vista regio. Per
il sovrano in fondo sin dai tempi di Federico II tra Capua e Bucchianico non vi
è differenza di natura: sono tutte terre del re, demaniali o infeudate non importa,
ed è interloquendo con il potere sovrano che effettivamente tutte sono andate
strutturandosi. L’assunto che l’università sia parte della monarchia implica che la
nobile storia di Capua abbia sicura valenza comparativa all’interno del Regno, a
patto di non dimenticare la non corrispondenza tra università e città – la prima

(25) A. Musi, Nè anomalia né analogia: le città del Mezzogiorno in età moderna, in Città e
contado, cit., pp. 307-312; G. Vitolo, L’egemonia cittadina sul contado nel Mezzogiorno medievale,
in Città e contado, cit., pp. 9-26; Id., L’Italia, cit., pp. 1-2. Sulla “città di casali” si vedano anche
le rapide osservazioni e le indicazioni bibliografiche nel volume di Senatore su Capua, a p. 473.
(26) S. Carocci, Signorie, cit., in particolare p. 164.
(27) S. Russo - F. Violante, Élites fondiarie e ceti mercantili nella Puglia centro-settentrionale
tra tardo medioevo e prima età moderna, in I centri minori italiani nel tardo medioevo. Cambiamento
sociale, crescita economica, processi di ristrutturazione (secoli XIII-XVI), Atti del XV Convegno di
studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo, San Miniato, 22-24 set-
tembre 2016, a cura di F. Lattanzio - G. M. Varanini, Firenze, 2018, pp. 371-398.
Interpretazioni e rassegne 751

non risolve in sé la seconda – e il numero e la varietà dei centri. In altri termini


ciò che conviene tenere sott’occhio non sono tanto – o non sono soltanto – le
città, quanto l’intera rete insediativa meridionale. Ricerche condotte per definiti
ambiti territoriali combinando parametri quantitativi e qualitativi, come vuole
Vitolo, che non limitino per quanto possibile la disamina al piano politico-
istituzionale, fortemente polarizzato dall’attività dell’università, possono spiegare
la grande varietà nella comune substantia dei centri meridionali, tracciando e
contestualizzando le differenze esistenti tra città come Capua e terre di caratura
inferiore – ma in un contesto europeo la terra media sarebbe Capua (p. 474) – o,
più giù nella gerarchia, terre piccole e mal note.
Sia riguardo all’università, sia riguardo alla città, è la grandezza stessa di
Capua a imporre tutta una serie di cautele in fatto di confronti. Senatore ha
chiaro il problema mentre descrive l’aristocrazia capuana (p. 387), si sofferma
sul diverso grado di intensità con cui la Corona controlla il Regno (p. 451),
o si chiede quanto sia esemplificativa la diffusione e la consistenza dei lega-
mi di tipo personale riscontrata a Capua rispetto a ciò che riguarda le altre
città del Regno, di cui peraltro ancora poco sappiamo (p. 452). Nelle pagine
precedenti abbiamo rilevato che la “centralità” della città sul Volturno sia in
effetti rintracciabile con difficoltà altrove e che nel Regno le vicende connesse
con la creazione dei patriziati urbani, la chiusura oligarchica e prima ancora
la strutturazione – per alcuni centri è dubbia la stessa creazione – dei consigli
ristretti passano attraverso una varietà di percorsi non corrispondenti e di durata
differente da città a città.
A p. 189, nel riassumere le peculiarità delle magistrature collegiali capua-
ne, Senatore è chiaro: «resta assodato che nel XV secolo i collegi capuani non
funzionavano come quelli delle altre città del Regno riformate da Ferrante».
Aggiungiamo che la complessa architettura che tiene legata a Capua una fetta
non trascurabile del territorio circostante non ha poi molti eguali, per quello che
se ne sa, nel Regno aragonese, e in province come il Contado di Molise, la Ba-
silicata o la Capitanata pare francamente inimmaginabile per centri nient’affatto
trascurabili. Per quanto riguarda il numero di abitanti (pp. 7-10), lo stacco tra le
quasi 15.000 unità ipotizzate sull’intero territorio capuano per gli ultimi anni del
Quattrocento e le stime molto più basse della stragrande maggioranza dei centri
del Regno nasconde l’evidente somiglianza tra la stazza di Capua corpo – tra i
3 e i 4.000 abitanti – e quella dei numerosi insediamenti dotati al tempo di più
di 6-700 fuochi, non pochi dei quali in Terra di Bari.
Vi è infine un aspetto nella Capua di Senatore che colpisce tanto il lettore
esperto delle reti urbane di altre province del Regno, quanto – e forse mag-
giormente – quello che frequenta stabilmente la rigogliosa storiografia urbana
dell’Italia centro-settentrionale.
752 Interpretazioni e rassegne

Il quadro generale che viene fuori dal testo è estremamente ricco, descrive una
realtà complessa e viva, eppure la conflittualità non si prende la scena come in
altre ricerche di ambito urbano in età tardomedievale: si pensi all’Aquila di Maria
Rita Berardi e di Gianluigi Terenzi, o alla Salerno angioina di Amalia Galdi (28),
per non parlare degli studi su Napoli e sulle città extraregnicole.
Il ricambio generazionale individuato all’interno dell’oligarchia capuana al
potere tra Quattro e Cinquecento non sembra passare attraverso sommovimen-
ti fortemente destabilizzanti o violenti. Non pare ricostruibile nel dettaglio il
confronto tra città e corte dietro i singoli interventi regi di riforma istituzionale,
che nell’interpretazione di Senatore si pongono come veicoli di concordia tra
segmenti della popolazione più che di consenso. Al contempo, la discreta lar-
ghezza e l’apertura della quota di popolazione in grado di accedere ai principali
uffici o di essere coinvolta nel processo decisionale in momenti delicati possono
disinnescare gli attacchi più radicali, mentre i servigi resi al sovrano in momenti
di difficoltà consolidano il ruolo politico e gli interessi economici dell’università
e di chi alle sue magistrature accede, con influenti patruni a fare da raccordo e
da vigili antenne tra la corte e la città e viceversa.
In generale l’università e l’intera comunità capuana paiono realtà “che funzio-
nano”, che riescono cioè nel corso del Quattrocento a consolidare e a incrementare
la presa sul territorio, a cavalcare una congiuntura economica che va migliorando
quanto più ci si addentra nel secolo e ancora oltre nel corso del Cinquecento. Pur
tra turbolenze politiche e momenti di tensione con la Corona, Capua intercetta
questa crescita a vantaggio di un’élite che gestisce e al tempo stesso beneficia
del flessibile debito pubblico dell’università. Le entrate dell’università crescono.
Del sistema degli appalti non tutto è noto, ad esempio non è noto chi e perché
viene messo da parte in alcuni particolari frangenti. È però evidente come di tale
sistema riescano a giovarsi, in un’organizzazione a più livelli, profili diversificati
riconducibili a un bacino sociale allargato, più ampio di quello che rifornisce
Consiglio e collegio degli Eletti.
Nell’individuare le tensioni intorno agli uffici e alla gestione delle risorse, Se-
natore procede interessandosi al modo in cui la vita sociale di una città demaniale,
vicinissima alla monarchia e che non pare conoscere la lotta fazionaria (p. 418) è
incanalata, sicuramente condizionata anche per ciò che riguarda l’espressione del
dissenso e la possibilità dello scontro violento o del conflitto armato dal sovrano
e dai suoi collaboratori. Se la pace sociale è obiettivo a cui l’azione del re non
può rinunciare, sistematici saranno gli interventi volti a controllare lo scontro
nel cuore del Regno; se gli interessi della città sono quelli del re e viceversa, l’at-

(28) Si vedano sopra le note 2 e 3.


Interpretazioni e rassegne 753

tenzione sulla città e sul suo territorio sarà massima e interessata. Secondo una
visione in cui la moltitudine, diversamente da quanto riscontrabile nelle pagine di
Machiavelli, è elemento destabilizzante e da non assecondare, la riunione plenaria
dei cittadini maschi diviene obsoleta, mentre l’attività del Consiglio, arricchita
dai canali delle conoscenze e delle dipendenze personali, va esaltata e mantenuta
nell’ordine e nel decoro perché strumento di governo riconosciuto sia dal re che
dalla comunità: ubi moltitudo, ibi confusio (pp. 179, 187, 385, 420-421, 424).
Questa via interpretativa è senz’altro percorribile e Senatore la incastona nel
grande impianto che sorregge il suo studio. Ritorna tuttavia la questione della rap-
presentatività del caso capuano. Se qui e in altre importanti città del Mezzogiorno
l’attenzione di Ferrante per la composizione e il funzionamento dei Consigli ristretti
è molto alta, e se è vero che in molte delle principali città alla fine del medioevo
il Consiglio scalza l’assemblea allargata dei cittadini, va notato che per tanti centri,
alcuni dei quali dotati di peso politico, strategico ed economico non indifferente,
tracce evidenti di Consigli ristretti non se ne vedono perlomeno fino agli inizi del
Seicento, sì da rendere in tanti luoghi la gestione dei conflitti e le modalità di inter-
vento e mediazione del re necessariamente diverse da quelle individuabili a Capua.
In Capitanata ad esempio si registrano i casi dubbi di Ascoli e Monte Sant’Angelo,
dove si fatica a riconoscere assemblee ristrette e le cui oligarchie evidentemente non
hanno a Corte le entrature dei Capuani. Ricostruzioni concernenti Manfredonia,
Lucera e Foggia mettono in luce fratture profonde e durature all’interno degli
stessi Consigli ristretti riformati a fine Quattrocento, né l’affermazione dei Consigli
sembra comportare la repentina scomparsa delle assemblee allargate. A differenza
che a Capua, a Foggia parzialità e schieramenti fazionari tra la fine del Quattro e
l’inizio del Cinquecento combinano disastri (29).
Ma non tutto ruota attorno al problema della esemplarità o rappresentati-
vità, che peraltro non può sfociare in una meschina caccia alla differenza. Molto
passa dal riconoscimento di cosa le fonti utilizzate vogliono o non vogliono dire.
Senatore individua finemente il modo in cui l’élite capuana opera una sistematica
opera di «rimozione freudiana» del conflitto verbale e fisico, in significativa con-
sonanza con la tendenza a non ammettere tensioni e dissensi nelle carte prodotte
presso il re e presso la Sommaria (pp. 418-419, 454-455). Non si vedono fazioni
o partiti politici: tutto ciò che porta turbamento è disservitio, mancato servizio
al re (p. 455).
Dei confronti dentro e fuori il Consiglio a Capua in effetti se ne conoscono,
più che il dipanarsi, gli esiti. Eppure, qualcosa di molto significativo trapela.
Il ceto mercantile non gode come altrove di quote fisse in Consiglio e risulta

(29) Per tutto ciò basti il rinvio a P. d’Arcangelo, La Capitanata, cit.


754 Interpretazioni e rassegne

sussunto tra i cives, ma i conflitti intorno ai diritti di pascolo mostrano da par-


te di alcuni autonomia di interessi e spregiudicata capacità di perseguirli, non
importa se a detrimento della comunità, in particolare delle fasce meno visibili
ed economicamente meno solide. Non solo vediamo all’opera mediatori sprov-
visti di bestiame che la comunità nel suo insieme non vede di buon occhio: i
mercanti raggiungono accordi separati con il sovrano per l’introduzione di nuovi
assetti, salvo rischiare di essere penalizzati essi stessi dall’esuberante applicazione
dei nuovi ordinamenti. Negli anni Settanta nella comunità – e probabilmente
anche in Consiglio – non c’è coesione: «Se li mercanti contrassero con la maestà
de re de pagareno uno tanto per bestia, non fo de volumtà de li citadini, anche
de contrario, et li capitoli stanno contractati con li mercanti predicti (p. 795)».
Oltre a far risaltare la mentalità imprenditrice dei mercanti e intermediatori
capuani di fronte alla concezione dello sfruttamento del territorio degli ientilho-
meni, meno dinamica ma più attenta, perlomeno a parole, alla sostenibilità degli
assetti agropastorali e forse politicamente ostile a un settore dei citadini (ma cfr.
p. 455), questi dati svelano il lato oscuro del rapporto tra re e città, qui sabotato
dalla mancata sovrapposizione degli interessi del re con quelli di tutta la comunità.
In età aragonese non mancano altri momenti di seria tensione, sfociati in un caso
nel clamoroso arresto degli Eletti (pp. 416, 428). Quando poi tra Capua e il re
si scava un baratro, le sorti della dinastia ne sono fatalmente segnate. Nel 1435
l’appoggio dei Capuani è decisivo per la vittoria del Magnanimo. Sessant’anni
dopo il destino di Federico III si decide sotto le mura di Capua. Ancora, la storia
della città è la storia del Regno.
Potito d’Arcangelo
Università degli Studi Napoli “Federico II”

The paper is a reading of Francesco Senatore’s Una città, il Regno: istituzioni e


società a Capua nel XV secolo, Roma 2018. Moving from the analysis conducted
by Senatore on the urban society of a celebrated city in the XV century, the essay
aims to discuss three major points: the long-standing comparison between northern
and southern cities in Italy; the evolution of the Universitas as an articulation of the
Reign; the barons and their presence within the walls of the city.

KEYWORDS
Kingdom of Naples
Urban Society
Barons
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