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(1) Le citazioni vengono dalla lettura che G. Petralia dà del volume di G. Vitolo, L’Italia
delle altre città. Un’immagine del Mezzogiorno medievale, Napoli, Liguori, 2014, nella rassegna
Monarchia, città e feudalità nel Mezzogiorno italiano del basso medioevo, in «Nuova Rivista Stori-
ca», CL, 2018, 3, pp. 1119-1173, alle pp. 1150-1164 (i passi citati sono alle pp. 1152 e 1153).
(2) Considerando le monografie e le raccolte di saggi, molti dei quali rimaneggiati, di un
unico autore, abbiamo: G. Stanco, Gli statuti di Ariano. Diritto municipale e identità urbana
tra Campania e Puglia, Ariano Irpino, Centro Europeo di Studi Normanni, 2012; F. Mottola,
L’universitas di Penne nel ‘400. Autonomia cittadina, cultura, territorio, Spoleto, CISAM, 2013; del
2014 G. Vitolo, L’Italia delle altre città, cit.; P. Terenzi, L’Aquila nel Regno. I rapporti politici tra
città e monarchia nel Mezzogiorno tardomedievale, Bologna, Il Mulino, 2015; R. Alaggio, Brin-
disi, Spoleto, CISAM, 2015; G. Vitale, Percorsi urbani nel Mezzogiorno medievale, Battipaglia,
Laveglia&Carlone, 2016; P. d’Arcangelo, La Capitanata urbana tra Quattro e Cinquecento,
Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 2017; F. Senatore, Una città, il Regno: istituzioni e
società a Capua nel XV secolo, 2 voll., Roma, ISIME, 2018; A. Galdi, Amalfi, Spoleto, CISAM,
2018; Ead., In orbem diffusior, famosior… Salerno in età angioina (XIII-XV secolo), Salerno, Uni-
versità degli Studi di Salerno, 2018. Aperto ad altre tematiche ma ugualmente interessato alla
dimensione cittadina è lo studio di R. Berardi La contea di Corigliano. Profilo storico, economico
e sociale della Sibaritide (secoli XI-XVI), Rossano, Ferrari, 2015.
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XI-XIII (3), ponendo mente anche alle raccolte, agli atti di convegni, alle mo-
nografie dedicate a singoli aspetti della vita cittadina, ai saggi brevi, ai capitoli di
libri, alle rinnovate “storie di città”, alle sezioni di grandi opere interessati a una,
ad alcune o a tutte le città del Regno (4). Difficile dire se ci troviamo adesso al
culmine della parabola, o anche se l’immagine della parabola sia calzante. Certo
occorrerà presto una meditata riflessione d’insieme. Per il momento, tra tante
proposte storiografiche ed editoriali, stupisce alla vista e al tatto (due tomi, per un
totale di 1147 pagine più 13 pagine introduttive), e si segnala per il prestigio della
sede che lo ospita (la collana «Nuovi studi storici» dell’Istituto Storico Italiano
per il Medio Evo), promettendo molto al lettore, lo studio Una Città, il Regno:
istituzioni e società a Capua nel XV secolo di Francesco Senatore.
Ci sono voluti più o meno quindici anni perché l’interesse dell’Autore per
il mondo urbano meridionale in generale e per Capua in particolare concepisse
e mandasse infine alle stampe l’opera, anni che tracciano un percorso personale
dipanatosi nel seno fecondo di quella «fase di rinnovamento» di cui si è detto. Due
decenni di storiografia – e i classici della storiografia meridionale novecentesca,
da Croce a Calasso, da Galasso a Del Treppo – riversano in queste pagine temi,
problemi e materiali, ben imbrigliati in una Werkstruktur composita e lucida, che
nella sua bipartizione di fondo più di qualcosa dice delle intenzioni primigenie
dell’Autore e della sua sensibilità per il fatto documentario. Nonostante la mole di
pagine della trattazione vera e propria, ospitata nel primo dei due tomi, Senatore
non rinuncia infatti a pubblicare nel secondo l’edizione critica dei Quaderni dei
Sindaci di Capua (1467-1494), insieme alle Lettere ricevute dall’università di Ca-
pua (1470-1497), gli uni e le altre provenienti dall’Archivio comunale di Capua,
e ancora un elenco dei membri del consiglio dei Quaranta di Capua risalente al
1488 e trascritto nel Libro primo dei capitoli, databile tra la fine del XV e l’inizio
del XVI secolo e custodito presso il medesimo Archivio.
Né il testo, né l’edizione di fonti esauriscono peraltro lo spazio dei rispettivi
volumi. Nel primo, sei corpose Appendici danno ordinatamente conto attraverso
sunti, regesti, schede e tabelle degli Statuti di Capua, dei centri abitati situati
nelle pertinenze di Capua, degli ufficiali e dei collegi presenti nella città e nel
territorio, degli appaltatori, del debito pubblico dell’università di Capua corpo
e delle biografie di trentotto capuani. Nel secondo, un esteso paratesto mette su
pagina le ramificazioni dell’approccio alla ricerca dell’Autore. La lista delle fonti
inedite utilizzate rimanda ad una ventina di istituti archivistici e bibliotecari di
dodici città italiane ed europee, con i depositi capuani e napoletani a giocare
la parte del leone. Le «Illustrazioni» arrivano a trentasei e includono mappe,
piante della città, vedute d’epoca, riproduzioni di testi e figure, fotografie degli
spazi monumentali richiamati nel testo, riproduzioni di documenti d’archivio,
tutte strettamente funzionali al testo. Ben cinque indici finali dotano il lettore
di strumenti utili per cercare e trovare.
Cosa il lettore debba aspettarsi dalla trattazione contenuta nella prima sezione
dell’opera Senatore lo dice presentandola. Prima ancora che alle pratiche sociali
e identitarie, temi in voga in anni recenti, lo sguardo è rivolto a «istituzioni e
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società», vale a dire a temi classici, eppure per lungo tempo sciaguratamente
tenuti ai margini del dibattito sul Regno, quali il territorio della città, le ancora
oggi poco indagate finanze dell’università tardomedievale, gli uffici e gli ufficiali,
le élites di governo e nel governo (p. XI).
Non trovano spazio nel piano di lavoro le pratiche del culto e le istituzioni
ecclesiastiche cittadine. L’ampiezza degli spazi documentari esplorati e la vigile
analisi che di essi si giova portano alla luce, va detto, piste che riconducono
dritte alle istituzioni religiose urbane e rurali, in primo luogo alla Cattedrale, e
in qualche passaggio pare viva la tentazione di muovere più di un passo in questa
direzione. Nella medesima pagina in cui lascia intendere quanto la ricchezza delle
fonti disponibili sull’arcivescovo e sul suo entourage vinca le possibilità del mo-
mento («il loro sfruttamento va oltre le nostre forze»), l’Autore concede in nota
un affondo sul patrimonio del capitolo e dell’arcivescovo denso di riferimenti e
osservazioni (p. 52), seguito più avanti (pp. 89-90) da una serie di dati sui diritti
della Mensa vescovile su Castel Volturno utili a dipanare la vicenda tardomedievale
del centro costiero in orbita capuana.
Qualcosa di simile accade intorno ad altre assenze. L’articolazione sociale
all’interno degli organi di governo, i livelli e gli ambiti molteplici delle pratiche
di patronage, i titoli, le parentele forniscono nessi logici essenziali nell’economia
del discorso, ma le classi professionali e le pratiche economiche, la socialità fuori
dall’università, la quotidianità e le traiettorie personali dei cives – pure queste
ultime considerate nel testo e in parte illuminate dalle schede biografiche in Ap-
pendice – e dei rurali restano sullo sfondo. Ciò detto, anche sotto questo rispetto
eccentricità non significa silenzio. Con i movimenti di truppe e i conflitti, con le
richieste straordinarie fatte pervenire all’università, decanta nelle fonti la società
cittadina e assieme alle carriere militari salgono a galla professioni, prestazioni e
specializzazioni, strategie di reperimento dei materiali, mezzi e tecnologie, locan-
de, sistemi di trasporto e vie di comunicazioni (ad es. alle pp. 15-20). In tempi
meno agitati sono gli usi civici, solita cassa di risonanza della conflittualità e dei
locali rapporti di forza, a svelare dati stimolanti. Intercettiamo così l’attività di
intermediari con disponibilità di capitali interessati al fiorente allevamento di
bovini tra il 1470 e il 1480; veniamo a conoscenza di dettagli preziosi sul (o
su parte del) gruppo sociale dei mercanti capuani, presenti in consiglio e tra gli
eletti, ancorché sforniti di garanzie formali circa il numero di seggi loro assegnati
come in altre città. Per costoro l’interesse per prati e bufale è tale da spingerli ad
assecondare attorno al 1470 l’introduzione di fide e chiusure da parte del re sfi-
dando «li ientilomini», i quali non hanno partecipato alla trattativa e considerano
pernicioso ciò che ad essa è seguito (pp. 95-103).
Vi sono poi rapporti di forza e spazi sociali dal diverso grado di formalizzazio-
ne che si vorrebbe conoscere con dovizia di particolari, ma che la documentazione
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Terra Capuana, evolutosi in uno dei due distretti rurali che le fonti attestano a
partire dal Quattrocento, la Foria di Terra Capuana; all’intero territorio di Capua,
inteso esso stesso come Foria di Capua (pp. 32, 53, 68-69); a Capua corpo, da
non confondere con i casali da essa controllati. Le pertinenze capuane si rivela-
no essere dal canto loro una realtà composita e mutevole nel tempo per ciò che
concerne le sue partizioni interne, rispetto alla quale nel secondo Quattrocento
sono aggregati ma non confusi due corpi “estranei”, gli abitati e i territori di
Calvi e Castelvolturno.
Abbiamo insomma davanti uno di quei libri che si tirano spesso fuori dallo
scaffale, anche quando non si è strettamente interessati al tema principale, in
questo caso la città, che è impossibile d’altronde separare o peggio contrappor-
re al Regno e alle altre sue componenti. Ma di questo diremo. Vale la pena di
evidenziare la chiarezza con cui la sistemazione concettuale è presentata, con un
gusto per l’utilizzo del vocabolario contemporaneo (riunioni ordinarie, commissa-
riamento, tesoretto, …; del debito pubblico discuteremo rapidamente più avanti)
che non crea paradossi ma contribuisce in maniera efficace alla comprensione degli
argomenti proposti. Singolarmente piana, nonostante l’intrinseca complessità del
tema, la spiegazione della gestione delle finanze dell’università nel terzo capitolo.
Una tale abbondanza è ben incanalata, quasi tenuta a bada da tre fattori.
Al primo abbiamo en passant fatto cenno: i limiti imposti alla ricerca dalla do-
cumentazione disponibile. Significativamente, «desultorietà» è un termine che
ricorre in più punti. Almeno in parte si tratta di silenzi, non di perdite, ed è
bene sottolineare, come lo stesso Senatore fa, da un lato che la snellezza delle
scritture delle università meridionali non significa necessariamente immaturità
o arretratezza istituzionale (pp. 455-456), dall’altro che il materiale disponibile
per Capua e per l’intero Mezzogiorno resta ad ogni modo copioso e attende in
larga parte di essere riconosciuto e studiato (p. XI). Possiamo spingerci ancora
oltre ed evidenziare le grandi potenzialità, quando non addirittura l’unicità del
materiale di età angioina, aragonese e primospagnola. Per alcuni temi la docu-
mentazione relativa alle città e alle terre del Mezzogiorno consente affondi che
non dappertutto è dato progettare. Preso atto delle note cautele con cui vanno
maneggiate le classiche fonti della demografia storica meridionale, i fuochi fi-
scali in primis, è evidente ad esempio quanto efficace e dettagliato prometta di
diventare il quadro demografico per il secondo Quattrocento e il Cinquecento
nel Meridione, segnatamente per ciò che riguarda la stima della popolazione dei
singoli centri, laddove per altre zone d’Italia al momento si ragiona a spanne in
fatto di demografia, con la sensazione che per alcune realtà urbane e paraurbane
l’incertezza sia destinata in futuro a restare tale.
Il secondo punto è che la quantità e la tipologia della documentazione re-
agiscono necessariamente con il personale percorso di ricerca dell’Autore, con
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ciò che più gli interessa, prima di tutto con la attenzione costante prestata ai
processi di scrittura. Ritorna in queste pagine il continuum (p. 394, 461) istitu-
zionale e documentario proposto anni prima per spiegare la natura e la struttura
della documentazione delle università meridionali nel Regno, opportunamente
arricchito da densi passaggi spesi per spiegare la necessità che l’università avverte
di «manutenere» il corpus documentario a propria disposizione a fronte della
«irrisolta conflittualità», della frammentarietà, delle contraddittorietà costitutive
dell’organismo statale di antico regime (pp. 106-114).
Terzo punto: come in un campo magnetico, dati e ragionamenti prendono
tutti posizione rispetto ad un polo che fa da principio ordinatore, una visione
del Regno e delle sue componenti più vitali che è la maturazione di alcuni frutti
della stagione di studi sopra richiamata. Già nel titolo («una città, il Regno») e
nella Premessa (pp. XI-XII) è annunciato il continuum dispiegato nel testo e nel
polifonico capitolo conclusivo: è impossibile «separare la monarchia dalla città,
due soggetti che non possono essere contrapposti» (p. 20). Come la città di antico
regime, e quindi Capua nel Regno, risulta «fondata su norme, pratiche e valori
che non possono essere compresi prescindendo dal Regno» (p. XII), così il sovrano
governa «insieme» alle élites cittadine, beninteso nella cornice di una relazione
«assolutamente asimmetrica» (p. 391). Non è pattismo tra corpi distinti e poten-
zialmente ostili, né secondo Senatore serve a qualcosa continuare a interrogarsi
sull’«autonomia» della città meridionale (pp. 391, 464). Nella misura in cui la
città è una risorsa per il sovrano e viceversa, quest’ultimo legittima e condiziona,
proibisce e concede nella sua città, trovando nelle impalcature amministrative e di
governo dell’università un’articolazione dello stato in loco e un formidabile refe-
rente, seppure non necessariamente risolutivo, per misurarsi con le istanze espresse
dalla comunità. La corte «ingloba le strutture dello stato» (p. 412) battendo varie
strade, vigilando su «legami istituzionali e personali» (p. 391) e usufruendo essa
per prima di pratiche di patronage. Peculiarmente vicini a Napoli e alla corte e
residenti in una città demaniale, per i Capuani l’accesso diretto all’entourage del
re è una soluzione ricorrente, veicolo di modelli e stili di governo da riprodurre
in una città che pare un «prolungamento della corte», contigua ad essa «nelle
pratiche, nelle relazioni, nelle persone» (p. 412). Nondimeno, resta perfettamente
leggibile lo spazio di manovra dei reggitori dell’università, filtro e strumento nelle
mani di chi sa – e per questo dai concittadini è chiamato a – mantenere, magari
incrementandola, l’egemonia capuana sul territorio e tenere a bada forze inquiete
come feudatari e università vicini.
Finiscono così nel mirino capziosi confronti nord/sud in cui è la città (e
l’università) meridionale a uscirne fatalmente con le ossa rotte, lo «stereotipo»
secondo cui la «monarchia bloccò l’evoluzione in senso comunale delle città
meridionali» (p. 463), le inutili paratie issate all’interno della triangolazione sta-
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to/feudo/città. È intorno a questi temi che si snoda l’analisi che nelle prossime
pagine andiamo a condurre.
Partiamo dall’ultimo aspetto. Sebbene incentrato sulla vicenda di una della
più importanti città del Regno, demaniale per giunta, il libro concede ampio
spazio a feudi e baroni, lumeggiando la natura organicista di uno stato in cui non
si scorgono autonomie, solo rapporti e articolazioni. Senatore mutua da Sandro
Carocci il concetto di signoria pervasiva e lo applica allo stato stesso, l’unica vera
signoria pervasiva del Mezzogiorno tardomedievale (p. 445). Nel momento in cui
un nuovo sovrano sale al potere si vede bene di che materia è fatto il Regno: dopo
l’investitura papale, il riconoscimento arriva dalle due componenti fondamentali,
i baroni e le città demaniali.
Sia i primi, sia le città – non solo quelle demaniali – hanno ricevuto, ricorda
Senatore, più di un torto dalla storiografia meridionale. Il cattivo “reagente”, in
una serie di fraintendimenti risalenti nel tempo, va riconosciuto proprio nello
stato monarchico, oppressore delle seconde, sistematicamente sabotato dai pri-
mi, a detrimento della realizzazione di uno stato finalmente moderno. Nel caso
dei signori di città e castelli, la diffidenza arriva da lontano e riconduce fino alle
pagine coeve di alcuni tra i migliori nomi dell’Umanesimo, tra i quali Senatore
seleziona Machiavelli e Pontano (pp. 382-386). Pur non deplorando il principato
e scorgendo un nesso tra possibilità di esistere del potere principesco e diffusione
di gentiluomini e signori di castello, il Segretario vede nei gentiluomini, nel Regno
e altrove, l’ostacolo da eliminare per il raggiungimento della mitizzata «equalità»
repubblicana. Diversamente Pontano fonda la propria visione della monarchia
sui poteri giurisdizionali di conti e baroni, ma teme la follia della ribellione, il
destabilizzante desiderio di novità. Sia nel Regno di Napoli visto da Machiavelli,
sia nella monarchia idealizzata dal Pontano, ancorché da prospettive diverse, il
potere dei baroni pervade il corpo dello stato, ma riluce in maniera sinistra.
Un riconoscibile filo rosso si dipana da questi autori agli storiografi cinque-
seicenteschi, e ancora fino alle pagine note e cupe di Benedetto Croce e Giuseppe
Galasso sulla feudalità regnicola, in una rappresentazione in cui il ruolo assegnato
a quest’ultima altro non è che quello dell’antistato (pp. 459-460). Oggi la ricerca
evidenzia piuttosto l’inconsistenza delle letture che si accontentano di rievocare
rappresentanti della feudalità privi di progettualità politica, stolidamente eversivi,
che sopportano e appena possono contestano la sottomissione alla corte, impal-
pabili al di fuori della tormentata dialettica con re e dinastie (p. 462). D’altro
canto non è univoco il giudizio degli studiosi sui modi in cui questa dialettica si
è dispiegata nel tempo, segnatamente in età aragonese. La posizione di Senatore
in merito è chiara. Soffermandosi sul carattere ideologicamente orientato delle
posizioni degli autori più risalenti (e, meno apertamente, anche dei più recenti:
p. 460), non ha da obiettare sul fatto che il potere signorile risulti in effetti
pienamente partecipe della struttura statale e che i baroni siano la «componente
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(5) B. Vetere, Premessa, in Giovanni Antonio Orsini Del Balzo. Il principe e la corte alla vigilia
della “congiura” (1463). Il Registro 244 della Camera della Sommaria, a cura di B. Vetere, Roma,
ISIME/Centro Studi Orsiniani, 2011, pp. VII-LXXVII, a p. XXX.
(6) G. Vallone, Il principato di Taranto come feudo, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano
per il Medioevo», CXVIII, 2016, pp. 291-312.
(7) G. M. Monti, La condizione giuridica del principato di Taranto, in G. M. Monti, Dal
secolo sesto al decimoquinto. Nuovi studi storico-giuridici, Bari, Cressati, 1929, pp. 83-117; Id.,
Ancora sulla feudalità e i grandi domini feudali del Regno di Sicilia e sul Principato di Taranto, in
«Rivista di Storia del Diritto Italiano», IV, 1931, pp. 509-549; Id., Quattro chiarimenti, in «Japi-
gia», III, 1932, 2, pp. 227-229; da confrontare con G. Antonucci, ll consistorium principis degli
Orsini di Taranto, in «Japigia», III, 1932, 1, pp. 89-93; Id., Sui principi di Taranto, in «Rivista di
Storia del Diritto Italiano», IV, 1931, pp. 155-172.
(8) Si vedano Geografie e Linguaggi politici alla fine del Medioevo. I domini del principe di
Taranto in età orsiniana (1399-1463), a cura di F. Somaini - B. Vetere, Galatina, Congedo, 2009;
Un principato territoriale nel Regno di Napoli? Gli Orsini del Balzo principi di Taranto (1399-1463),
a cura di L. Petracca - B. Vetere, Roma, ISIME, 2013; “Il re cominciò a conoscere che il principe
era un altro re”. Il principato di Taranto e il contesto mediterraneo (secc. XII-XV), a cura di G. T.
Colesanti, Roma, ISIME, 2014; I documenti dei principi di Taranto del Balzo Orsini (1400-1465),
a cura di R. Alaggio - E. Cuozzo, Roma, ISIME 2020.
(9) R. Colapietra, I Sanseverino di Salerno: mito e realtà del barone ribelle, Salerno, Laveglia
Carlone Editore, 1985.
(10) F. Somaini, La coscienza politica del baronaggio meridionale alla fine del Medio Evo. Ap-
punti su ruolo, ambizioni e progettualità di Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, principe di Taranto
(1420-1463), in «Itinerari di Ricerca Storica», XXX, 2016, 2, pp. 33-52.
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consente che le risorse della monarchia divengano esse stesse mezzo efficacissimo
di ascesa sociale (pp. 465-468). Dal canto suo, il capitano di città è uomo del re
e insieme tutore dell’università e della comunità (pp. 157-158). A Capua queste
ultime possono inoltre contare sui diritti acquisiti sugli introiti del primo ufficiale
regio in città: se crescono gli introiti del capitano sul territorio, cresce anche la
quota spettante di diritto all’università (p. 40).
L’università, è chiaro, non risolve nel suo seno tutte le procedure di controllo
delle risorse locali, né preclude vie alternative di contatto con gli altri apparati di
governo del Regno e con la corte, né tantomeno vincola a sé tutti i percorsi di
ascesa o discesa sociale. Una delle poche cose che si possono dire su due dei tre
seggi capuani, «spazi pubblici e di interesse pubblico» apparentemente poco for-
malizzati (p. 328), è che non paiono connotati da una funzione istituzionale ben
precisa, né da un legame formale con gli ingranaggi amministrativi dell’università.
Rapporti di tipo personale pervadono tutta la vita cittadina, segnatamente i canali
di comunicazione con la corte. Gli stessi consigli sono sovente integrati – non
diversamente da quanto riscontrabile in comuni e università un po’ in tutta la
Penisola – da commissioni e personalità esterne, senza contare l’intervento diretto
del sovrano per il tramite dei suoi uomini e portavoce. Figure particolarmente
influenti sono in grado di battere ognuna di queste vie: in età aragonese l’ubiquo
Giacomo d’Azzia pare il perfetto «collegamento tra la Corte e l’oligarchia politica
capuana, garante della città presso il re e viceversa» (p. 454).
Ciò non toglie tuttavia che a Capua la magistratura degli Eletti e il Consiglio
dei Quaranta restino in maniera continuativa punti di riferimento imprescindibili
della vita politica, perlomeno a partire dal pieno Quattrocento. A essi Senatore
dedica ampio spazio sondandone la composizione, il funzionamento e l’evolu-
zione, con occhio vigile sul peso giocato dalla partecipazione al consiglio nella
definizione dei parametri nobiliari e nella complicata emersione di un patriziato
cittadino giuridicamente formalizzato.
Anche in questo frangente al sovrano viene riconosciuto un ruolo di primo
piano. Perseguendo un’alternanza delle cariche e una trasparenza che, in ottempe-
ranza degli alti compiti del re, intendono ottenere concordia prima che consen-
so (pp. 186, 454-455), e contrastando l’inaridimento dei bacini di reclutamento
di Eletti e consiglieri a seguito di conflitti bellici e chiusure oligarchiche, gli
interventi dei sovrani garantiscono il regolare rinnovamento previsto dalla nor-
mativa; assecondano o frustrano le aspirazioni di chi si sente escluso; apportano
innovazioni che profilano meglio le definizioni cetuali e i criteri di accesso alle
magistrature. Il “governo delle liste”, sintetizza Senatore, a Capua è «saldamente
nelle mani del re» (p. 195).
Varie caratteristiche – non ultimo proprio lo stretto controllo regio – ren-
dono gli organi collegiali capuani una realtà a sé nel contesto del Mezzogiorno
Interpretazioni e rassegne 737
(12) In sede di sintesi G. Muto ha messo in risalto il ruolo dei Seggi in quanto strumenti
di identificazione e di ricognizione dello stato di patrizio e canali di selezione del ceto dirigente
cittadino: G. Muto, Noble presence and stratification in the territories of Spanish Italy, in Spain in
Italy. Politics, society, and religion 1500-1700, a cura di T. J. Dandelet - J. Marino, Leida-Boston,
Brill, 2007, pp. 251-297, in particolare a p. 276.
Interpretazioni e rassegne 739
ciale e, a un livello più generale, mutano lo stile e la concezione stessa del governo
del Regno, in un profluvio di ordini, istruzioni e mandati che cercano di mettere
per iscritto le regole dell’azione di governo nella capitale e sul territorio con una
sistematicità e pervasività che non è dato vedere nel Quattrocento. Inglobato il
Regno nell’Impero e continuando a essere l’università un organismo che non si
oppone alla monarchia poiché ne è parte integrante, le magistrature cittadine non
restano sorde all’evoluzione in atto presso altre componenti della macchina statale.
Senatore riconosce a Capua una spinta verso una maggiore formalizzazione di
pratiche e scritture già negli anni Novanta del Quattrocento, giusto pochi anni
prima che la figura del sindaco dell’università conosca anch’essa un’importante
e duratura ridefinizione. Va detto che molto resta da fare per conoscere il Cin-
quecento capuano e delle altre città del Regno. Occorrerà anzitutto misurarne
gli interventi di riforma con quanto ora sappiamo sulla Sommaria. A lungo la
storiografia si è soffermata sulle contraddizioni delle operazioni intraprese, sugli
effetti della venalità degli incarichi, sull’inconsistenza e l’inefficacia degli interventi
tentati nel XVI e ancora nella prima metà del XVII secolo, mancando però di
notare i problemi connessi con il riutilizzo, nelle grandi operazioni di riforma
cinquecentesche a Napoli e nelle province, della normativa e delle indicazioni
prodotte in età aragonese, dimostrandosi sensibile forse solo al sottile vagheggia-
mento di un’età dell’oro del Magnanimo e del figlio (17).
Nonostante gli sforzi dei riformatori, le direttive aragonesi restano figlie del
loro tempo e di uno stato, quello aragonese, che è fluido perché tale vuole esse-
re. Esse propongono un modello operativo tendenzialmente – non certo inge-
nuamente – aderente alla forma delle cose, meno descrittivo e programmatore,
potenzialmente problematico quindi per il buon governo in un mutato contesto
politico, legislativo, culturale. Preso atto per un verso dei limiti della storiografia
incapace di vedere qualcosa di diverso della lentezza e della difficoltà del processo
di ammodernamento dello stato napoletano, per un altro delle continuità di vario
tipo che ricerche più recenti scovano tra il Regno tardomedievale e il Viceregno,
vanno tenuti presente i tratti peculiari che non rimandano tanto alla accresciuta
o diminuita intensità di un fenomeno nel tempo o allo stato di avanzamento di
un’evoluzione: tra il regno di Alfonso e l’intensa seppur aggrovigliata stagione delle
riforme di Carlo V e Filippo II maturano nell’impianto di governo importanti
differenze di tipo qualitativo (18).
(17) Oltre agli studi menzionati nella nota precedente e alla bibliografia ivi considerata, si
veda almeno M. Del Treppo, Realtà, mito e memoria di Napoli aragonese, in Fra spazio e tempo.
Studi in onore di Luigi de Rosa, a cura di I. Zilli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, 2
voll., I, pp. 315-336.
(18) Cfr. G. Muto, Noble presence, cit., p. 275: «In the passage from the Aragonese to the
Castilian age antagonistic and contradictory elements had entered into the social and cultural
picture, with obvious effects on the political options of society’s leaders».
744 Interpretazioni e rassegne
(19) Id., Le finanze pubblica napoletane tra riforme e restaurazioni (1520-1536), Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1980, p. 72.
(20) M. Ginatempo, Prima del debito. Finanziamento della spesa pubblica e del deficit nelle
grandi città toscane (1200-1350 ca), Firenze, Olschki, 2000.
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(21) S. Carocci, Signorie di Mezzogiorno. Società rurali, poteri aristocratici e monarchia (XII-
XIII secolo), Roma, Viella, 2015.
Interpretazioni e rassegne 747
e della sua classe dirigente non sono dati una volta per tutte. Vanno rivissuti in
riti collettivi che segnano la partecipazione della cittadinanza alle vicende liete e
tristi della monarchia e dei suoi alleati, come «allegrezze» e commemorazioni (pp.
366-368), o che scandiscono e portano in scena le componenti istituzionali e
sociali della città davanti a beneficio e monito degli stessi cives: è questo il caso
del corteo per il mercato di San Giovanni (pp. 368-369).
È opportuno accogliere le indicazioni che arrivano dalle recenti indagini sul
riuso dell’antico a Capua e altrove, da parte di singole componenti del panorama
urbano come della stessa università. Senatore è attento nel valutare la diacronia di
questi fenomeni. L’uso dell’antico a Capua – per la cui analisi l’Autore si avvale di
una accurata descrizione degli apparati effimeri approntati per l’ingresso in città
di Carlo V nel 1536 – varia nel tempo e a seconda dei contesti (pp. 355-365); la
processione di San Giovanni evolve e reca traccia dei mutamenti sopraggiunti nel
Cinquecento nell’impalcatura di governo del Regno e della parallela attenuazione
della capacità di espressione dell’identità cittadina (p. 369).
L’elaborazione di questa identità, il potenziamento politico, la definizione
degli apparati amministrativi, l’egemonia zonale intorno al basso Volturno vanno
quindi modellandosi tra il XIV e il XV secolo mantenendo come interlocutore
imprescindibile il re e l’apparato di governo che a lui fa capo. La contingenza
politica e militare è di fatto un’opportunità per consolidare la propria posizione
sulla base degli speciali riguardi dei re per la città. Scorgiamo un reiterato oppor-
tunismo funzionale al raggiungimento di obiettivi mirati che riguardano Capua e
non lo Stato nel suo complesso, tra cui il riuscito ampliamento e la definizione del
territorio della città nel corso del XV secolo. Questa abilità dei Capuani integra e
non contraddice la possibilità di accedere regolarmente a una normazione parte-
cipata nella “monarchia amministrativa” evocata da Pietro Corrao e da Senatore
richiamata in causa (pp. XI, 446). La vicenda plurisecolare della monarchia da
un lato determina nel corso del tempo la condizione privilegiata dei Capuani in
città, nel distretto e nel Regno tutto, dall’altro condiziona l’irrobustimento delle
università senza per questo frenarlo. È però necessario dare sostanza ai consueti
riferimenti alle fasi di avanzamento e di regresso delle prerogative delle università
in funzione delle alterne fortune delle dinastie, in anni recenti meglio calibrati
ma di taglio spesso molto generale e largamente incompleti. Questo cammino è
calato da Senatore nel concreto svolgersi della storia capuana quattrocentesca, se
ne vedono i nessi causali e la cronologia, nella speranza che in futuro si accrescano
per numero e qualità le raccolte sistematiche di dati concernenti le terre e le città
del Regno: solo in questo modo verrà costruita una base sufficientemente solida
per un discorso d’insieme concettualmente e prima ancora cronologicamente
consapevole circa gli assetti socio-politici della città meridionale tra XII e XVII
secolo; solo così si potranno evitare retrodatazioni molto poco giustificate dalla
748 Interpretazioni e rassegne
dei centri che l’ottica regia riconosce come particolarmente importanti in quanto
dotati di buona visibilità in campo politico, poiché in grado di relazionarsi con
soggetti esterni al Regno, ma in questo caso metteremmo sotto osservazione un
gruppo tutto sommato stabile nel tempo ma troppo ristretto per dar conto dei
tanti canali lungo cui viaggia il mutuo interesse tra sovrano e città. Si potrebbe
allora vedere nelle città fedelissime di Senatore le terre famose che Vitolo individua
nella documentazione angioina, fondamentali per l’organizzazione politico-am-
ministrativa del Regno e abitate da individui in grado di allacciare forti interessi
economici con la Corte. Anche qui le difficoltà tuttavia non mancano e derivano
dalla contingenza all’origine della documentazione che fa menzione di queste terre
famose, dalla tracciabilità della definizione in età aragonese e spagnola, dai limiti
di elenchi apparentemente nitidi ma inclusivi di terre di cui non si intuiscono
bene le caratteristiche salienti e dimentichi di altre dal peso specifico sicuramente
elevato. Si può allora, sempre con Vitolo, aprire il ventaglio dei criteri da consi-
derare, andare oltre la sfera politico-istituzionale e mettersi alla ricerca di quelle
vitali reti di scambio che innervano il territorio e che hanno come snodi nume-
rose terre che non sono città in senso stretto, small towns come quelle inglesi e
in parte francesi secondo la rilettura di Giuseppe Petralia (23). A questo punto il
problema è di altra natura: il gruppo dei centri in grado di emergere si dilata ed
è lecito chiedersi cos’è, se c’è, che accomuna Capua con, poniamo, Civitella del
Tronto, Campli e Bucchianico in Abruzzo Ultra, per restare agli esempi di Vitolo.
Petralia non sembra vedere difficoltà intorno a questo punto poiché propende
per un’accezione plurima del termine città, in grado di dar conto della ormai
acclarata complessità del fenomeno urbano già dai 2000 o anche dai 500 abitanti
in su (24). Forse però esiste una soluzione più facile, che consente di aggirare
l’insidioso problema delle definizioni e delle soglie urbane.
Per il Mezzogiorno, è noto, va considerato nella documentazione l’uso esteso
della parola terra rispetto a civitas. Non offre troppe certezze l’uso che le fonti
fanno del secondo termine: ha certo un suo peso per la valutazione della caratura
degli insediamenti, ma ci sono centri come Barletta e Foggia che civitates non
sono, mentre all’estremo opposto centri disastrati ma ancora abitati conservano
ancora nella prima metà del XVI secolo la diocesi e il titolo di città. È però la stessa
storiografia a mostrarsi per certi versi irrisolta nel creare tipologie e nell’individuare
il proprio oggetto di studio. La tassonomia proposta da Aurelio Musi dimentica
la città senza casali – poi recuperata da Vitolo, al quale era parimenti sfuggita in
una prima sistemazione – mentre crea non pochi problemi la definizione città di
(25) A. Musi, Nè anomalia né analogia: le città del Mezzogiorno in età moderna, in Città e
contado, cit., pp. 307-312; G. Vitolo, L’egemonia cittadina sul contado nel Mezzogiorno medievale,
in Città e contado, cit., pp. 9-26; Id., L’Italia, cit., pp. 1-2. Sulla “città di casali” si vedano anche
le rapide osservazioni e le indicazioni bibliografiche nel volume di Senatore su Capua, a p. 473.
(26) S. Carocci, Signorie, cit., in particolare p. 164.
(27) S. Russo - F. Violante, Élites fondiarie e ceti mercantili nella Puglia centro-settentrionale
tra tardo medioevo e prima età moderna, in I centri minori italiani nel tardo medioevo. Cambiamento
sociale, crescita economica, processi di ristrutturazione (secoli XIII-XVI), Atti del XV Convegno di
studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo, San Miniato, 22-24 set-
tembre 2016, a cura di F. Lattanzio - G. M. Varanini, Firenze, 2018, pp. 371-398.
Interpretazioni e rassegne 751
Il quadro generale che viene fuori dal testo è estremamente ricco, descrive una
realtà complessa e viva, eppure la conflittualità non si prende la scena come in
altre ricerche di ambito urbano in età tardomedievale: si pensi all’Aquila di Maria
Rita Berardi e di Gianluigi Terenzi, o alla Salerno angioina di Amalia Galdi (28),
per non parlare degli studi su Napoli e sulle città extraregnicole.
Il ricambio generazionale individuato all’interno dell’oligarchia capuana al
potere tra Quattro e Cinquecento non sembra passare attraverso sommovimen-
ti fortemente destabilizzanti o violenti. Non pare ricostruibile nel dettaglio il
confronto tra città e corte dietro i singoli interventi regi di riforma istituzionale,
che nell’interpretazione di Senatore si pongono come veicoli di concordia tra
segmenti della popolazione più che di consenso. Al contempo, la discreta lar-
ghezza e l’apertura della quota di popolazione in grado di accedere ai principali
uffici o di essere coinvolta nel processo decisionale in momenti delicati possono
disinnescare gli attacchi più radicali, mentre i servigi resi al sovrano in momenti
di difficoltà consolidano il ruolo politico e gli interessi economici dell’università
e di chi alle sue magistrature accede, con influenti patruni a fare da raccordo e
da vigili antenne tra la corte e la città e viceversa.
In generale l’università e l’intera comunità capuana paiono realtà “che funzio-
nano”, che riescono cioè nel corso del Quattrocento a consolidare e a incrementare
la presa sul territorio, a cavalcare una congiuntura economica che va migliorando
quanto più ci si addentra nel secolo e ancora oltre nel corso del Cinquecento. Pur
tra turbolenze politiche e momenti di tensione con la Corona, Capua intercetta
questa crescita a vantaggio di un’élite che gestisce e al tempo stesso beneficia
del flessibile debito pubblico dell’università. Le entrate dell’università crescono.
Del sistema degli appalti non tutto è noto, ad esempio non è noto chi e perché
viene messo da parte in alcuni particolari frangenti. È però evidente come di tale
sistema riescano a giovarsi, in un’organizzazione a più livelli, profili diversificati
riconducibili a un bacino sociale allargato, più ampio di quello che rifornisce
Consiglio e collegio degli Eletti.
Nell’individuare le tensioni intorno agli uffici e alla gestione delle risorse, Se-
natore procede interessandosi al modo in cui la vita sociale di una città demaniale,
vicinissima alla monarchia e che non pare conoscere la lotta fazionaria (p. 418) è
incanalata, sicuramente condizionata anche per ciò che riguarda l’espressione del
dissenso e la possibilità dello scontro violento o del conflitto armato dal sovrano
e dai suoi collaboratori. Se la pace sociale è obiettivo a cui l’azione del re non
può rinunciare, sistematici saranno gli interventi volti a controllare lo scontro
nel cuore del Regno; se gli interessi della città sono quelli del re e viceversa, l’at-
tenzione sulla città e sul suo territorio sarà massima e interessata. Secondo una
visione in cui la moltitudine, diversamente da quanto riscontrabile nelle pagine di
Machiavelli, è elemento destabilizzante e da non assecondare, la riunione plenaria
dei cittadini maschi diviene obsoleta, mentre l’attività del Consiglio, arricchita
dai canali delle conoscenze e delle dipendenze personali, va esaltata e mantenuta
nell’ordine e nel decoro perché strumento di governo riconosciuto sia dal re che
dalla comunità: ubi moltitudo, ibi confusio (pp. 179, 187, 385, 420-421, 424).
Questa via interpretativa è senz’altro percorribile e Senatore la incastona nel
grande impianto che sorregge il suo studio. Ritorna tuttavia la questione della rap-
presentatività del caso capuano. Se qui e in altre importanti città del Mezzogiorno
l’attenzione di Ferrante per la composizione e il funzionamento dei Consigli ristretti
è molto alta, e se è vero che in molte delle principali città alla fine del medioevo
il Consiglio scalza l’assemblea allargata dei cittadini, va notato che per tanti centri,
alcuni dei quali dotati di peso politico, strategico ed economico non indifferente,
tracce evidenti di Consigli ristretti non se ne vedono perlomeno fino agli inizi del
Seicento, sì da rendere in tanti luoghi la gestione dei conflitti e le modalità di inter-
vento e mediazione del re necessariamente diverse da quelle individuabili a Capua.
In Capitanata ad esempio si registrano i casi dubbi di Ascoli e Monte Sant’Angelo,
dove si fatica a riconoscere assemblee ristrette e le cui oligarchie evidentemente non
hanno a Corte le entrature dei Capuani. Ricostruzioni concernenti Manfredonia,
Lucera e Foggia mettono in luce fratture profonde e durature all’interno degli
stessi Consigli ristretti riformati a fine Quattrocento, né l’affermazione dei Consigli
sembra comportare la repentina scomparsa delle assemblee allargate. A differenza
che a Capua, a Foggia parzialità e schieramenti fazionari tra la fine del Quattro e
l’inizio del Cinquecento combinano disastri (29).
Ma non tutto ruota attorno al problema della esemplarità o rappresentati-
vità, che peraltro non può sfociare in una meschina caccia alla differenza. Molto
passa dal riconoscimento di cosa le fonti utilizzate vogliono o non vogliono dire.
Senatore individua finemente il modo in cui l’élite capuana opera una sistematica
opera di «rimozione freudiana» del conflitto verbale e fisico, in significativa con-
sonanza con la tendenza a non ammettere tensioni e dissensi nelle carte prodotte
presso il re e presso la Sommaria (pp. 418-419, 454-455). Non si vedono fazioni
o partiti politici: tutto ciò che porta turbamento è disservitio, mancato servizio
al re (p. 455).
Dei confronti dentro e fuori il Consiglio a Capua in effetti se ne conoscono,
più che il dipanarsi, gli esiti. Eppure, qualcosa di molto significativo trapela.
Il ceto mercantile non gode come altrove di quote fisse in Consiglio e risulta
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