1. Introduzione
Cominciamo dunque il nostro studio dei singoli libri del Pentateuco, tenendo pre-
sente che 1) sono parte di un corpo unico, e che 2) hanno tu<i una loro ‘personalità’.
1
In 36,9 viene ripetuto quanto c’è in 36,1: «Queste le generazioni di Esaù (»)וְ אֵ לֶּה תֹּלְ דוֹת עֵ ָשׂו.
1
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2
L’Uomo (con la maiuscola) traduce il termine ebraico אָדם,
ָ che intende qui la persona umana non
in quanto ‘maschio’ ma in quanto ‘umanità’.
3
H. WEINRICH, Tempus, 20.
2
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creò il cielo e la terra». È chiaro: è proprio un’altra cosa. È legato a Dio, viene da lui, e allo
stesso tempo è altro da sé. Ed è importante, perché per esserci una vera relazione si deve
essere in due: non si può essere da soli. Una nuova ‘natura’, dunque, appare accanto a
quella di Dio.
3
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v. 2 – e poi faccia ordine poco a poco. Questa traduzione viene usata per difendere la
creazione ex nihilo4.
3. La terza possibilità è quella di leggere i vv. 1-2 come una serie di proposizioni
subordinate, circostanziali, che hanno al v. 3 il verbo principale. La traduzione sa-
rebbe dunque questa: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra – ora, la terra
era vuota e vacua, v’era tenebra sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Dio aleggia-
va sulle acque – Dio disse: …». In questo caso, la prima azione vera e propria della
Scri<ura sarebbe quella del v. 3, ovvero il fa<o che Dio parli.
Va de<o che, nel testo ebraico, c’è un problema di vocalizzazione in tu<e e tre le
le<ure (quasi a dire che l’origine è sempre un mistero?); la prima (e la seconda), poi,
è quella ripresa nelle versioni antiche. Va de<o però che la sintassi ebraica, nel suo
complesso, spinge verso la terza. Prima di dare una valutazione finale guardiamo
alla situazione che descrive il v. 2.
«La terra era vuota e vacua». Per descrivere la terra si usano due parole sinonime,
תֹהוּ וָ בֹהוּ, che danno l’idea di qualcosa di vuoto, di caotico. Ger 4,23. È il contrario di
un mondo ordinato, pieno di cose create. Qui c’è il vuoto, che dunque non ha forma,
non ha contorni5.
Confermano questa le<ura ‘in negativo’ le versioni di Aquila e Teodozione: il pri-
mo traduce κένωµα καὶ οὐδεν, mentre il secondo legge κενὸν καὶ οὐδεν, «vuoto e
nulla».
4
Oppure si potrebbe pensare che tra il v. 1 e il v. 2 ci sia un gap: qualcosa è avvenuto tra il fa<o
creatore e la terra finita nel disordine.
5
Interessante: anche in Ger 4,23 qui si parla del cielo e della terra: un cielo che è senza la sua luce, e
la terra è vuota e vacua.
4
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6
«Quel si muoveva, dice costui [un siro], viene interpretato come “riscaldava”, e “fecondava” la na-
tura delle acque, alla maniera di un uccello che cova e infonde forza vitale nelle uova so<oposte al suo
calore. Tale è, dicono, il significato espresso da questa parola: lo Spirito si muoveva, cioè preparava la
natura delle acque alla generazione» (BASILIO DI CESAREA, Sulla Genesi, 59 [II,6,3]).
7
G. BORGONOVO, «L’inno del creatore per la bellezza della creazione (Gn 1,1–2,4a)», 404.
5
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Non possedendo i conce<i astra<i di ‘nulla’ e di ‘materia’, Gen 1 parla della crea-
zione partendo da qualcosa che non-esisteva (1,2), prima che tu<o iniziasse ad esi-
stere (1,3).
Che cosa c’è, prima che tu<o fosse? Solo lo spirito di Dio. Sul non-ancora-creato si
stende lo spirito di Dio, che aleggia עַ ל־פְּ נֵי הַ מָּ יִ ם, le<. «sul volto delle acque». Come in
un grembo che sta per partorire, il non-ancora-nato è accarezzato dallo spirito di
Dio. Lo spirito non si confonde con esso – sta appunto ‘sul suo volto’8 – ma ne è
l’unica possibilità di esistenza.
Che cos’è questo spirito? Se lo spirito di Dio è il suo respiro («Il mio spirito, »רוּחי, ִ
Gen 6,3), e il respiro è la vita stessa dell’uomo (cf. Sal 31,6), allora lo «spirito di Dio»
(הים7
ִ ֱ רוּחַ א/ πνεῦµα θεοῦ) è la Vita per antonomasia, che si comunica alla creazione.
È la prima rivelazione di Dio al mondo, il primo riflesso che il mondo ha avuto di Dio. È
come l’annuncio, il germe delle rivelazioni future. Un mondo che, alla sua nascita, è stato
accarezzato dalle ali della ruakh divina, conserva qualcosa di questo conta<o. Avendo sve-
gliato il mondo, la ruakh resterà nella sua vita.9
8
Cf. A. NEHER, L’essenza del profetismo, 108-109. «L’immagine suggerisce che lo Spirito di Dio ab-
braccia il mondo, senza tu<avia penetrarvi» (Ibi, 108).
9
A. NEHER, L’essenza del profetismo, 75-76. «La creatura, per il fa<o della sua creazione, ha già lo Spi-
rito di Dio; è, in questo senso, pneumatofora, benché questa capacità conosca una sua misura» (S. BUL-
GAKOV, Il Paraclito, 336).
10
«È il panenteismo biblico, nel quale si vede con ragione l’a<eggiamento originale ebraico di fronte
al trascendentalismo e al panteismo delle filosofie» (A. NEHER, L’essenza del profetismo, 108). Questa an-
tinomia la si può intravedere nell’etimologia stessa della parola ‘spirito’. Che cosa significa ַ ?רוּחI sensi
fondamentali sono due, riconducibili a una stessa radice. La ַ רוּחè lo «spazio atmosferico tra il cielo e
la terra, spazio che può essere calmo o agitato, uno spazio aperto. Per estensione indica lo “spazio vi-
tale” nel quale l’uomo si muove e respira» (R. CANTALAMESSA, «Spirito Santo», 1333). Ecco allora i due
sensi: 1) il primo è ‘vento’, ‘aria’. È qualcosa di forte, violento, imprevedibile (cf. Ez 13,13; At 2,2). E il
‘vento’ è simbolo dello spirito perché è qualcosa di esterno, di inafferrabile (cf. Gv 3,8) e quindi è sim-
bolo di qualcosa che non appartiene alla creazione, è di un altro ordine, qualità. 2) Il secondo senso è ‘re-
spiro’. Lo spirito è il respiro (cf. Gv 20,22), ovvero qualcosa di intimo all’uomo, qualcosa di nascosto,
caldo, delicato. Così, io sono vivo, e la vita è intima a me, mi anima dall’interno. Ma io vivo perché re-
spiro: pochi a<imi senza respirare e la vita mi abbandona. È intimamente me, ma allo stesso tempo è
altro da me.
11
Cf. anche Gb 34,14-15; 27,2-4.
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Le creature sono vive se la ַ רוּחle a<raversa; altrimenti tu<o ritorna ad essere im-
mobile e morto.
Cosa possiamo notare? Nei primi tre giorni vengono fa<e tre separazioni: il gior-
no dalla no<e, le acque so<o il firmamento da quelle sopra, la terra asciu<a dalle
acque dei mari. Dio agisce su quegli elementi del v. 2 che abbiamo visto sopra: la te-
12
Sì, sono dieci le parole che creano il mondo, secondo Gen 1, dieci volte in cui compare il ritornel-
lo «E Dio disse (הים7
ִ ֱ»)וַ יֹּאמֶ ר א. C’è una parola in più, la benedizione agli uccelli e ai pesci in 1,22, intro-
do<a però così: «E Dio li benedisse». Il le<ore ritroverà più avanti altre Dieci parole (cf. Es 20,1-17),
nel luogo dove Israele viene creato come popolo di Dio, affrancato dal faraone e reso libero da Dio.
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nebra, l’abisso e la terra. A<raverso queste separazioni si creano dei grandi spazi, ‘fis-
si’: la volta del cielo, i mari, la terra.
Dal quarto al sesto giorno, invece, compaiono delle creature poste in quegli am-
bienti, ‘mobili’, che popolano e abbelliscono ciò che è stato fa<o nei primi giorni.
I. Luce (giorno-no<e) → luminari
II. Firmamento (acque s.-i.) → pesci e uccelli
III. Terra (asciu<o-mari) → animali terrestri, uomo e donna
Notiamo ancora che, se i giorni sono sei, le opere sono però o<o: il terzo e il sesto
giorno Dio ‘divide il lavoro’ in due momenti: nel terzo giorno fa emergere la terra
dalle acque inferiori e poi fa crescere su di essa tu<a la vegetazione, mentre nel sesto
giorno crea gli animali terrestri e poi crea l’uomo e la donna. Anche la vegetazione si
divide in due so<ogruppi: c’è l’«erba verde» (1,30), donata in cibo agli animali,
mentre l’erba e ogni albero da fru<o che produce seme è cibo per l’Uomo.
Non possiamo qui percorrere tu<o il testo. Faremo tre affondi nel primo, sesto e
se<imo giorno.
13
«Per mezzo di yah il Signore creò i mondi» (Genesi Rabbah XI, 9).
14
P. BEAUCHAMP, «In principio Dio parla», 14.
15
J.-P. SONNET, «Le le<ure della Genesi», 69.
8
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«E Dio vide che la luce era cosa buona». Una volta che una cosa è creata, Dio la
guarda: è ormai qualcosa di altro-da-sé. E la prima cosa che fa è riconoscerla buona,
bella, bene. Sa godere della cosa creata, si ferma a contemplarla. Il Creatore fa emer-
gere la creatura e la riconosce nella sua ogge<ività, ‘adora’ la sua creatura. Alla fine
del c., contemplando l’opera nel suo insieme – l’Uomo con tu<o il creato – dirà: «È
cosa molto buona» (1,31).
Questa frase si può tradurre in diversi modi. Di solito sentiamo in italiano: «Dio
vide che la luce era cosa buona». Ma l’ebraico sembra molto più vivido, e anche il
greco. Il complemento ogge<o segue subito il verbo. «E Dio vide la luce: »!טוֹב. E
viene usata una parola che sì, vuol dire ‘bene’, ‘buono’. Ma anche bello, dolce, piace-
vole. E il greco traduce con καλόν! Dunque: «E Dio vide la luce: Bella!»16. Dio vede
che la luce è bella. Perché è bella? Perché fa trasparire qualcosa di sé17.
Che cosa fa Dio, una volta creata la luce? La separa dalle tenebre. I primi tre giorni
(più il quarto) Dio li impiegherà a separare, a me<ere dei confini, a dare a ciascuna
cosa il suo spazio18. Ed è curioso: Dio non cancella le tenebre con la luce, come non
annienta l’abisso. Non esercita nessun potere distru<ore. Semplicemente, dà dei
confini, e me<e in dialogo la luce con le tenebre, crea una relazione tra i due. La parola
di Dio crea delle distinzioni perché il mondo diventi un cosmo, qualcosa di bello e di
ordinato. La bellezza non è nell’unicità, ma nella comunione di due opposti.
E se Dio non distrugge nulla, l’Uomo potrà fare esperienza di un senso nelle cose
anche nelle tenebre, tant’è che la storia della salvezza si articola, nei suoi grandi mo-
menti, proprio di noWe19. La no<e dell’esodo, la no<e di Natale, la no<e di mezzogior-
no, quella della morte del Figlio. La no<e degli inferi.
C’è già il seme della salvezza, in queste righe. Che cosa può scoprire l’Uomo? La
cosa più bella, scri<a nel Sal 139,11-12: «Se dico: «Almeno le tenebre mi avvolgano e
la luce intorno a me sia no<e, nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la no<e è lu-
minosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce».
16
Quando Dio farà passare la sua gloria davanti a Mosè, chiuso nella fessura della roccia, dirà:
«Farò passare davanti a te tu<a la mia bellezza/la mia bontà (( »)כָּל־טוּבִ יEs 33,19).
17
«[…] [L]a bellezza non è altro che l’incarnazione in forme sensibili di quello stesso contenuto
ideale che prima di tale incarnazione si chiamava bene e verità» (V. SOLOV’ËV, «Il significato universale
dell’arte», 150).
18
Il primo giorno Dio separa la luce dalle tenebre, il secondo le acque di so<o al firmamento da
quelle di sopra – il firmamento era concepito come una membrana so<ile e trasparente che si inarcava
sopra la terra, creando uno spazio aperto, libero dalle acque –, il terzo la terra asciu<a dalle acque del
mare. Nel quarto giorno, in occasione della creazione dei luminari, viene ribadita la divisione giorno/
no<e.
19
Nel Targum Neofiti (I-IV sec. d.C.?) troviamo il ‘poema delle qua<ro no<i’: 1) la no<e della crea-
zione; 2) la no<e di Abramo (cf. Gen 15,5), quando legò Isacco per offrirlo sull’altare (cf. Gen 22); 3) la
no<e di pasqua (cf. Es 12,42); 4) la no<e della salvezza escatologica e messianica; cf. J.-P. SONNET, «Le
le<ure della Genesi», 65-66 (e il titolo bibliografico alla n. 3).
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Se tu<o riceve la luce del logos, del Senso delle cose, della Luce, allora anche le te-
nebre sono come luce. Allora ogni angolo buio della nostra vita diventa prezioso,
ogni a<imo della nostra storia diventa sensato. Perché Dio ha chiamato le tenebre
‘no<e’, ha dato loro una parola, anche le tenebre le ha chiamate all’esistenza.
Il giorno in cui Dio crea la luce, però, non è il ‘primo giorno’, come gli altri. In
ebraico, greco e latino, in 1,5 leggiamo: «E fu sera e fu ma<ina: giorno uno/unico». Il
primo giorno si distingue dagli altri, è il giorno uno, o anche il giorno unico. Come se
la creazione della luce comprendesse già tu<o il resto che verrà. Il giorno uno è l’ar-
chetipo dei giorni, il parametro20.
20
«[…] [L]’autore non ha chiamato primo giorno l’inizio del tempo, ma giorno uno, perché la deno-
minazione esprimesse l’affinità del giorno con l’eternità» (BASILIO DI CESAREA, Sulla Genesi, 67 [II, 8,7]).
Gv 20,1 fa cominciare così il racconto pasquale: «Nel giorno uno della seWimana (Τῇ δὲ µιᾷ τῶν
σαββάτων) Maria di Magdala si recò al sepolcro di ma<ino, quand’era ancora buio…», facendo eco al
«giorno uno ( יוֹם אֶ חָ ד/ ἡµέρα µία)» di Gen 1,5.
21
«Lo sviluppo storico è un lungo e difficile processo dallo stato zoo-umano allo stato divino-uma-
no» (V. SOLOV’ËV, Opravdanie dobra, Opera omnia VIII, 174).
22
Cf. gli esempi di Is 6,8; 2Sam 24,14; Gen 11,7-8. Il pluralis majestatis, invece, è presente solo in
Esd 4,18; ben poco probabile, dunque.
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sta rivolgendo alla sua corte celeste, di dèi o di angeli – dunque un residuo mitologi-
co: Dio comunicherebbe alla schiere del cielo ciò che sta per fare.
Se poi dobbiamo andare al di là del velo per un istante, non possiamo non citare
Basilio e con lui tu<i i Padri che, di comune accordo, hanno intravisto qui l’esprimer-
si della Trinità23. Ascoltiamo ad esempio Basilio:
C’è però una parola che chiude loro completamente la bocca. E Dio disse: Facciamo
l’uomo. C’è ancora, dimmi, una sola persona? Perché non disse: «Sia fa<o l’uomo», ma
Facciamo l’uomo. Finché non c’era colui al quale era destinato l’insegnamento, il messag-
gio della do<rina teologia restava profondamente celato; ma ora che si a<ende la crea-
zione dell’uomo, la fede si svela e la do<rina della verità si apre più chiaramente. Faccia-
mo l’uomo. Tu senti, o nemico di Cristo, che Egli parla a colui che gli si associa nella
creazione, a colui «per mezzo del quale ha creato anche i secoli, che tu<o sorregge con la
sua potente parola».24
23
Cf. anche S. BULGAKOV, Il Paraclito, 258.
24
BASILIO DI CESAREA, Sulla Genesi, 295.297 [IX,7-8].
25
Cf. però Sal 39,7; 73,20, dove צֶ לֶםè un’ombra e un sogno.
26
Cf. ad es. 1Sam 6,5: «Fate dunque figure ( )צַ לְ מֵ יdei vostri bubboni e figure ( )וְ צַ לְ מֵ יdei vostri topi,
che infestano la terra […]».
27
Testi citati in F. GIUNTOLI, Genesi 1–11, 84.
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Ma Dio parla anche della «somiglianza» (דּמוּת,ְ da דמה, ‘essere simile’), che sembra
meno concreto: indica due realtà paragonabili per il loro aspe<o. L’Uomo somiglia a
Dio, non soltanto in una sua dimensione, ma in modo globale. Dio ha creato
un’umanità in qualche modo simile a sé. Comunque, anche se il primo termine sem-
bra più concreto, nel complesso si può dire che sono praticamente sinonimi. Prova
ne è il fa<o che in Gen 5,1 leggeremo che Dio fece l’Uomo «a somiglianza di Dio».
Excursus: al di qua e al di là del velo. È inutile contrapporre le soluzioni al problema del plu-
rale di Gen 1,26. Si possono invece mantenere i vari livelli di le<ura, che non si contraddi-
cono ma si approfondiscono a vicenda. È dalla le<era che emerge lo Spirito. L’autore del
V o IV sec. non aveva di certo in mente la Trinità quando scriveva Gen 1, ma è questo il
tra<o affascinante. Da una le<ura – lecita e vera – si passa a un livello di verità superiore,
più profondo. E poi: ogni cosa che trae dal testo un senso è esegesi (ἐξήγησις), è un trarre
fuori, una spiegazione: qualcosa che è compresso viene tirato fuori e appianato, reso piano,
tolte le pieghe.
[in fieri] Che cosa succede con il peccato? I Padri rispondono: l’Uomo perde la so-
miglianza con Dio, ma non l’immagine impressa in lui, che rimane sepolta
nell’Uomo. Con il ba<esimo e la conversione l’immagine viene lavata e viene ripreso
il processo con il quale l’Uomo diventa somigliante a Dio. Ascoltiamo ad esempio
Diadoco di Fotica:
Con il ba<esimo di rigenerazione la grazia divina ci trasme<e due beni, di cui l’uno su-
pera infinitamente l’altro. Invero ci elargisce subito il primo, quando con la stessa acqua
del lavacro, cancellando ogni nostra macchia di peccato, rinnova lo splendore dell’imma-
gine divina in ogni tra<o della nostra anima; per elargisci poi il secondo che è quello della
somiglianza a<ende la nostra cooperazione. Quando dunque l’intelle<o comincia in un
senso profondo a gustare la bontà dello Spirito Santo, dobbiamo comprendere allora che
la grazia comincia a dipingere nell’immagine la rassomiglianza».28
• v. 27 E Dio creò l’Uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina
li creò.
Questa somiglianza scompare, al v. 27. Perché? I Padri hanno colto questa man-
canza e hanno le<o così: l’immagine di Dio è sempre presente nell’Uomo, che è chia-
mato, nel corso della sua vita, a configurare anche la somiglianza con il Creatore.
In effe<i, possiamo aggiungere, va notata l’assenza del commento «e Dio vide che
era cosa buona», così come per le altre opere. L’affermazione arriverà soltanto al v.
30, riferentesi a «quanto aveva fa<o», non specificando però se si tra<i dell’Uomo o,
come più probabile, di tuWo quanto aveva fa<o. La creazione dell’Uomo ha dunque
qualcosa che lascia aperto uno spazio, un incompiuto29.
28
DIADOCO, Cento considerazioni sulla fede, 100 [89].
29
È per l’opera del secondo giorno che nel TM manca l’apprezzamento di Dio. Per quale motivo?
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Possiamo allora abbozzare una risposta alla domanda di prima: perché quel «Fac-
ciamo» iniziale? A chi è rivolto? All’Uomo stesso: «Facciamo». Anche l’Uomo, infa<i,
‘fa’ (diversamente da ‘creare’). Il processo di creazione dell’Uomo è appena iniziato,
tu<o il racconto a venire sarà una creazione dell’Uomo, un ‘fare’ l’Uomo verso la sua
misura compiuta. In questo diventare se stesso, che abbisognerà di tempo, anche
l’Uomo stesso è coinvolto: l’energia dell’Uomo è inclusa nella sua stessa creazione.
Solo Dio crea l’Uomo; ma l’Uomo può ‘fare’, può prendere parte a quest’opera30.
Che cos’è a immagine di Dio? Essere creato a immagine e somiglianza di Dio, per
l’Uomo, non riguarda questa o quella sua facoltà. È l’Uomo intero che è creato come
una persona, come un ‘tu’ che possa rispondere liberamente alla chiamata di Dio alla
vita. L’Uomo è l’unica creatura capace di questa risposta.
Dio crea l’Uomo – appare per la terza volta (e per tre volte) il verbo – בראa sua
immagine, come previsto dal v. 26. La creazione dell’Uomo avviene tramite poesia,
che, oltre a fare dell’Uomo un essere poetico, perme<e la sovrapposizione di due ele-
menti: Dio crea l’Uomo, singolare, a sua immagine, e questa sua immagine si esplici-
ta nel terzo stico come maschio e femmina.
C’è infa<i un passaggio chiaro: «creò l’Uomo», «lo creò», «li creò». L’Uomo è crea-
to come doppio, e questo fa parte della sua identità più profonda: la sessualità
dell’Uomo (intendo il suo essere maschio o femmina) lo costituisce radicalmente
Uomo: non è una cara<eristica tra le altre. E non ci può essere vera umanità senza
questa diade.
E da questa alternanza vediamo che singolare e plurale non si contraddicono, né
nell’Uomo né in Dio. L’unità di uomo-donna è immagine di Dio – e qui torniamo a
quel plurale che aveva introdo<o la creazione dell’Uomo. È l’insieme, è la comu-
nione-della-differenza ad essere definita come immagine di Dio, facendo quindi in-
travedere che anche in Dio non c’è solitudine, non c’è monolitismo, ma una segreta
comunione dei diversi.
• v. 28 Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi (fruWificate), moltiplicatevi e riem-
pite la terra e soggiogatela; dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni es-
sere vivente che striscia sulla terra».
Probabilmente l’autore ha voluto che la frase «E Dio vide che era cosa buona» fosse presente se<e
volte. Spiega così Rashi di Troyes (Commento alla Genesi, 7): «Per quale motivo non si dice dell’opera
del secondo giorno: “Dio vide che era cosa buona”? Perché l’opera riguardante le acque non fu com-
piuta che nel terzo giorno – Dio la iniziò soltanto nel secondo giorno – e una cosa che non è compiuta
non è né perfe<a né buona. Ma nel terzo giorno, in cui fu portata a termine l’opera riguardante le
acque e Dio iniziò e portò a compimento un’altra opera, l’espressione “Dio vide che era cosa buona” è
ripetuta due volte: una in riferimento al compimento dell’opera del secondo giorno e l’altra in riferi-
mento al compimento dell’opera di quel giorno». Questa mancanza, dunque, avalla la le<ura propo-
sta anche per la creazione dell’uomo come qualcosa di incompleto.
30
Sul lavoro di Dio e dell’uomo cf. infra su Gen 2,15.
13
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Una volta creato l’Uomo, Dio lo benedice e gli dona la fecondità. È la prima volta
che Dio non semplicemente «disse», ma «disse loro»: Dio ha un interlocutore che un
giorno potrà rispondergli! Ecco che cosa significa a immagine e somiglianza.
Qui sta la differenza tra l’umanità e il resto delle creature, compresi gli animali, che pure
ricevono la benedizione alla pari dell’umanità, in quanto anch’essi posseggono una nepeš
ḥajjâ.31
Così come con le piante (cf. 1,11) e gli animali del cielo e del mare (cf. 1,22), anche
l’Uomo è fecondo. Dio, che crea la vita, dona anche il dono di donare la vita, non ri-
serva per sé questa cara<eristica. Tu<o nel mondo è fecondo, ha dentro dei fru<i che
producono seme (il termine ebraico per «Siate fecondi», פְּ רוּ, ha in sé la parola ‘fru<o’,
)פְּ ִרי.
C’è però un’altra questione qui, che ci aiuta a rivedere le domande lasciate aperte
più sopra. Dio dà all’Uomo un comando forte, preciso: quello di soggiogare la terra e
di dominare sugli animali, come già anticipato nel v. 26 («sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo, sul bestiame, su tu<a la terra e su tu<i i re<ili che strisciano sulla
terra»). Viene qui usata una terminologia regale: l’Uomo domina come un re su tu<o
il creato32. Anzi, come il re, in Israele, era tu<o il popolo, lo rappresentava, così
l’Uomo per il creato: l’Uomo regna sul creato in quanto lo rappresenta – e in qualche
modo lo include. Come persona, tenendo conto di Dio, potrà dominare ed esprimer-
si nella natura.
Ai vv. 29-30, però, Dio fa un dono all’Uomo: quello del cibo. Dio dona all’Uomo
un cibo speciale, diverso da quello degli animali. A lui andranno ogni erba che pro-
duce seme e ogni albero fru<ifero. Come l’Uomo potrà diventare adulto, come potrà
essere se stesso? Mangiando, crescendo. Ma la domanda a questo punto è d’obbligo:
cosa vorrà dire, allora, dominare sugli animali, tenendo conto di questo dono del
cibo?
Dio ha dominato parlando – e la parola è dolcezza33. Dio dà una strada all’Uomo
per realizzare quella somiglianza: l’Uomo dovrà esercitare il dominio – è lui il re del
creato – ma potrà farlo, se vorrà, proprio come Dio esercita il suo dominio, coniugan-
do forza e mitezza. L’Uomo potrà dominare sugli animali senza ucciderli. L’Uomo
somiglierà a Dio esercitando il dominio sul creato alla maniera di Dio.
31
Cf. G. BORGONOVO, «L’inno del creatore per la bellezza della creazione (Gn 1,1–2,4a)», 419. In
effe<i, in Gen 1,22 Dio benedice anche gli animali del quinto giorno, ma non dice loro.
32
Cf. G. BORGONOVO, «L’inno del creatore per la bellezza della creazione (Gn 1,1–2,4a)», 418.
33
Cf. le pagine pregnanti di P. BEAUCHAMP, «In principio Dio parla», 20-21.
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34
Se lo chiede a ragione Wénin (Da Adamo ad Abramo ovvero l’errare dell’uomo, 31).
35
Cf. Rm 1,18-32, dove Paolo parla dell’idolatria – adorazione di «uccelli, quadrupedi e re<ili»
(1,23) – insieme alle perversioni della natura (cf. 1,24ss).
36
P. BEAUCHAMP, «In principio Dio parla», 19. Qui si fa riferimento al secondo giorno, l’unico dove
non si dice (nel testo ebraico) «e Dio vide che era cosa buona» (cf. supra n. 29).
37
Cf. P. BEAUCHAMP, LeWere la Sacra ScriWura oggi, 69-73.
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poi una cosa strana: nel terzo giorno si comincia a parlare della terra, dell’ambito di
vita dell’Uomo, ma nel quarto giorno si ritorna in cielo con i luminari. Se poi guardia-
mo alla lunghezza e all’ampollosità del quarto giorno, possiamo dedurre che esso è
al centro della stru<ura se<enaria.
C’è dunque una corrispondenza tra il primo, il quarto e il se<imo giorno. A ben
vedere, infa<i, in questi giorni speciali Dio crea qualcosa che ha a che fare con il tem-
po. Il primo giorno crea la luce e inizia l’alternanza giorno/no<e; nel quarto giorno,
quello centrale, vengono creati i luminari, «per separare il giorno dalla no<e; siano
segni per le feste, per i giorni e per gli anni» (1,14). Al se<imo giorno – in ebraico
‘se<e’ si dice – ֶשׁבַ עDio crea lo שׁבָּ ת,
ַ il sabato. Il giorno del riposo, il giorno in cui Dio
ha cessato il lavoro per riposare ()שׁבַ ת. ָ Il se<e è un numero di pienezza (c’è una pa-
rentela con la radice שׂבע, ‘essere sazio, soddisfa<o’). Cominciamo a dire che la se<i-
mana di creazione ha una fine e dunque un fine.
Che cosa fa Dio in questo giorno? Dio porta a compimento ( )כלהtu<a la creazione.
Ma come? Il v. 2 dice così:
E Elohim compì durante il se<imo giorno la sua opera che aveva fa<a
e si riposò durante il se<imo giorno di tu<a la sua opera che aveva fa<a38
Che cosa stabilisce questo parallelismo? Una cosa molto semplice: Dio compie la
creazione proprio riposandosi, cioè fermandosi, e lasciando che la creazione viva e si
sviluppi.
Da un lato, sme<endo di operare, Dio si ferma. Me<e fine al dispiegamento della propria
potenza creatrice, impone un limite alla propria capacità di dominio, dimostrando che
domina anch’essa. In tal modo, si mostra più forte della propria forza, padrone del pro-
prio dominio, per riprendere delle formule che amava Paul Beauchamp. Dall’altro lato, e
nello stesso movimento, manifesta che non vuole riempire tu<o – ragion per cui delega il
proprio potere agli astri e agli umani. In questo modo, apre definitivamente a quello che
non è lui, uno spazio dal quale lui stesso si assenta. In tal modo, la creazione si compie
nell’autonomia del mondo, in particolare dell’umanità custode del dominio sulla terra. Le
cose non sono quindi terminate.39
In effe<i, il racconto resta aperto. Il sintagma che la Bibbia CEI traduce con «crean-
do», in realtà in ebraico suona più simile a «per fare». La traduzione di 2,3 sarebbe
questa: «Dio benedisse il se<imo giorno e lo santificò, poiché in esso si era riposato
da ogni sua opera che Dio aveva creato in vista del fare / per fare (») ַלעֲשׂוֹת.
Questo inno si chiude con una sospensione: Dio si riposa. È presente nella crea-
zione – perché in ogni cosa c’è la traccia della sua Parola – ma allo stesso tempo la
creazione è Altro-da-sé, è una realtà personale, libera di continuare il disegno della
creazione secondo la propria creatività, ereditata come dono dal Creatore.
38
Traduzione di A. WÈNIN, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo, 26.
39
A. WÈNIN, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo, 26.
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A questo punto potremmo farci una domanda: quando viene compiuta l’opera in-
iziata in questa se<imana ‘aperta’? Se andiamo a Es 40 troviamo qualcosa che può
interessarci. Es 39,32.43; 40,16-17.33. Ritorna qui il vocabolario del finire, del com-
piersi, del benedire. Se al termine della se<imana di creazione abbiamo il riposo del
sabato, che cosa dà compimento alla costruzione della tenda? Es 40,34-3540. Dio
prende dimora in mezzo al popolo, ed è questo che dà compimento alla creazione. Il
riposo è la dimora di Dio in mezzo al suo popolo.
Il se<imo giorno non ha una fine: non è scri<o «e fu sera e fu ma<ino: se<imo
giorno». È il giorno della comunione con Dio, fine di tu<a la creazione.
Infine. Tu<o è bello, in questo inno, e il le<ore, mentre scorre giorno dopo giorno
questa se<imana mirabile, si accorge che il mondo ivi descri<o non è quello che è
abituato a conoscere. «E Dio vide che era cosa buona». Non c’è alcuna negazione in
tu<o il testo: che cosa è successo, dunque, perché il mondo diventasse quello a cui il
le<ore è abituato? Il racconto che seguirà ne fornirà la spiegazione. Una cosa è certa:
il male non verrà certo da Dio né da qualche altra entità, dato che, per creare ciò che
c’è, Dio non ha dovuto lo<are contro nessun mostro primordiale, né contro il mare.
Abbiamo notato che quando viene creato l’Uomo il narratore non aggiunge: «E Dio
vide che era cosa buona». Da dove dunque sarà introdo<o ciò che buono non è?
40
Tra l’altro, ricordiamo che sia Gen 1 che Es 40 appartengono alla stessa tradizione sacerdotale.
41
P. BEAUCHAMP, «In principio Dio parla», 25.
17
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42
È il «popolo del paese», rimasto nella terra di Giuda durante l’esilio; cf. J.-L. SKA, «Genesi 2–3;
qualche domanda di fondo», 61-63.
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fa<i di Gen 3 (in effe<i, in 2,4-5, si vede bene che c’è solo un deserto come situazione
di partenza). In sintesi, Gen 2 va le<o insieme al c. 3, forma con esso un’opera unica.
In Gen 2 viene creato un mondo che in Gen 3 subisce una modifica; durante la le<u-
ra si avverte che il mondo descri<o da Gen 2 non è quello in cui viviamo, e dunque
ci si aspe<a qualcosa che spieghi perché quella situazione è cambiata43.
Non è dunque possibile leggere Gen 2 senza Gen 3. Basta guardare tu<i i termini
ricorrenti: ci sono i due alberi, in Gen 2 viene dato un comando e in Gen 3 viene tras-
gredito, si parla della nudità in entrambi i testi, in Gen 2 l’uomo viene posto nel giar-
dino e in Gen 3 viene scacciato dal giardino. È sufficiente una le<ura per compren-
dere che i due cc. vanno messi insieme. Sono come due ante di un di<ico, e questo è
importante per la loro interpretazione.
Prima di entrare nei particolari: perché questi due racconti (Gen 1; Gen 2–3) sono
stati mantenuti? Forse che chi li ha messi insieme non si è accorto delle differenze?
Pertanto: cosa significa leggerli in sequenza? Ormai non c’è più soltanto Gen 1, né
soltanto Gen 2: ormai c’è il libro della Genesi.
Quando iniziamo a leggere Gen 1, siamo affascinati dall’ordine e della composi-
zione perfe<a con cui viene descri<a la creazione. «Ha fa<o bene ogni cosa»
(Mc 7,37): è questo ciò che il le<ore, a bocca aperta, riesce a balbe<are alla fine di
Gen 1. C’è un equilibrio stupendo, tu<o viene creato molto bello, tu<o per un’opera
di separazione, di bilanciamento: luce e tenebre, acque di sopra e acque di so<o,
no<e e giorno, sera e ma<ino… Tu<o è contenuto nel se<enario dei giorni.
Se adesso andiamo a Gen 2, notiamo che, in partenza, viene operato un cosciente
ribaltamento: la terra viene prima del cielo (cf. 2,4b).
E poi, mentre ci si addentra nel racconto, già dall’inizio ci si accorge che la sintassi
stessa è più complessa, arzigogolata. 2,4-7. Il secondo racconto è più interessato
all’uomo e alla sua libertà, al suo destino, al suo lavorare la terra.
Pensiamo alla donna: in Gen 1 è perfe<amente equiparata all’uomo: «a immagine
di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (1,27): non poteva essere espressa in modo
migliore l’uguaglianza. Nel secondo racconto, la donna compare alla fine, dopo gli
animali, uscendo inspiegabilmente dall’uomo. Perché, dunque, una tale diversità?
Me<endo una cosa dopo l’altra, lo scri<ore biblico può farci percepire la complessità
delle cose. Vengono unite due prospe<ive divergenti (come nel cubismo, quando si
me<e un volto sia di fronte che di profilo, cosa di per sé impossibile). Dio è sia mae-
stoso, sovrano, sia impegnato a sporcarsi le mani facendo l’uomo con il fango. A<ra-
verso due racconti dico cose complementari, che non ci starebbero in un solo
racconto44.
43
Cf. J.-L. SKA, «Genesi 2–3: qualche domanda di fondo», 39-41.
44
Dal punto di vista storico, Ska («Genesi 2–3: qualche domanda di fondo», 62) fa notare che pro-
babilmente Gen 1 è nato come risposta ai racconti di creazione di Babilonia, mentre Gen 2–3 come ‘ri-
sposta’ a Gen 1, in parte come contrapposizione ad esso. Il popolo del paese, a<raverso questo raccon-
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Che cosa rappresenta, dunque, Gen 2–3? Il primo c. nel complesso delle Scri<ure,
rappresenta l’affresco iniziale (e finale) di tu<a la storia di Dio con l’uomo. Gen 2–3,
invece, rappresentano come uno zoom sull’Uomo e sulle sue relazioni fondamentali.
Il racconto del Paradiso, Gen 2,4b–3,24, stre<amente parlando non è un secondo racconto
della Creazione, ma uno studio più a<endo dell’essere umano che è stato creato, le sue
origini e i suoi rapporti fondamentali con Dio e con il mondo.45
In effe<i, l’unica cosa lasciata in sospeso in Gen 1 è proprio l’Uomo. Scrive Wénin:
Al capitolo 1, il narratore fa uso di un obie<ivo “grandangolare” per situare la creazione
in un contesto cosmico. Poi, in un movimento di “zoom in avanti”, l’occhio della teleca-
mera si focalizza sull’essere umano nel suo mondo, l’unico luogo in cui, dopo Genesi 1, è
possibile che avvenga qualcosa. In questa scala, l’azione può precisarsi e prendere una
forma veramente narrativa – cosa che non perme<e il quadro grandioso del capitolo 1.46
In Gen 1 avevamo ascoltato le ultime parole di Dio riguardanti il dono del cibo.
Gen 2 si aggancerà a questo ordine con un’ulteriore specifica.
Anzi, ancora più che uno zoom sul sesto giorno, è più corre<o dire che Gen 2–3 sia
un flashback proprio sul sesto giorno48.
to, vuol riba<ere alla classe sacerdotale del tempio che «non è necessario andare in Babilonia per
sapere com’è stato creato il mondo», e che il mondo non ha come centro «un Dio celebrato il sabato e
nelle feste del calendario liturgico», ma «un giardino affidato a un agricoltore».
45
J. FOKKELMAN, Come leggere un racconto biblico, 132.
46
A. WÉNIN, Da Adamo ad Abramo ovvero l’errare dell’uomo, 38.
47
RASHI DI TROYES, Commento alla Genesi, 18.
48
Cf. J.-P. SONNET, «C’è un narratore nella Bibbia?», 34.
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Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo – ora, nessun cespuglio campestre
era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fa<o
piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorga-
va dalla terra e irrigava tu<o il suolo –, il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suo-
lo» (2,4b-6).
Come là avevamo una situazione di vuoto, di nulla, ecco che qui si parte descri-
vendo in modo piu<osto diffuso ciò che non c’è; non c’è la vegetazione. E la motiva-
zione è duplice: Dio non ha fa<o piovere (dal cielo) e l’uomo non ha ancora coltivato il
suolo (la terra). L’uomo, fin da questa sua prima (non) comparsa è legato al suolo,
49
Proprio questa differenza fu il primo indizio che portò la critica moderna alla ricerca delle fonti
del Pentateuco. È da ricordare anche solo per questo.
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[in fieri] Così, l’uomo è sintesi di tre elementi: la terra, l’acqua che scende dal cielo e
lo Spirito del Dio vivente.
• v. 7 Allora il Signore Dio modellò l’uomo con polvere del suolo e insufflò nelle sue narici
un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
In 2,7 abbiamo le prime vere e proprie azioni del racconto. Con se<e verbi viene
descri<o questo modellamento dell’uomo.
Già al v. 5 i termini אָדםָ e אֲ ָדמָ הapparivano vicini, e ora ne comprendiamo la ra-
gione. Serve qualcuno che coltivi l’humus, allora Dio trae proprio dall’humus questo
lavoratore, questo agricoltore. Viene qui usato il verbo יצר, che viene usato altrove
proprio per indicare l’a<ività del vasaio che plasma l’argilla (cf. ad es. Ger 18,1-12).
L’uomo viene plasmato con il suolo, così come dal suolo, più avanti, germoglie-
ranno le piante (cf. 2,9) e verranno fuori gli animali (cf. 2,19). C’è dunque una paren-
tela stre<a tra l’uomo e il resto delle creature. È dunque ad esse equiparato? No, ci
sono due vistose differenze, di segno opposto.
– innanzitu<o, l’uomo è creato con polvere dal suolo. Se già la terra è qualcosa di
fragile, che si può rompere in un a<imo tra le mani del vasaio (cf. il testo citato di
Ger 18), la polvere accentua ancora di più questa impressione: l’uomo è la fragilissima
tra le creature. In molti salmi l’orante chiede di non scendere nella polvere. La pol-
vere è legata dunque alla morte, come 3,19 ci confermerà;
– la seconda differenza è questo respiro che Dio insuffla nelle narici dell’uomo.
Anche gli animali respirano, ma non viene de<o per loro che Dio inspiri in loro il
suo stesso alito. C’è dunque qualcosa di più. Che cos’è questo respiro personale che
50
I due termini derivano dalla stessa radice מ.ד.א, che significa ‘essere rosso’ (cf. anche )אֱ דֹם. Rossa
è la terra coltivata, rossa è la pelle abbronzata di quegli uomini.
51
RASHI DI TROYES, Commento alla Genesi, 17.
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Dio soffia nell’uomo? Ci ricordiamo della riflessione fa<a su Gen 1,3, quando il vento
di Dio si articola in parola. Questo soffio è la sua Parola. Già i Padri cappadoci dico-
no che Dio crea l’uomo rivolgendogli la parola. L’uomo è l’unico che potrà dire una
parola a Dio, che potrà rispondere liberamente a questo Dio che lo chiama, lo «chia-
ma all’esistenza» (Rm 4,17).
Così l’uomo, anche in questo testo, ha qualcosa che lo imparenta con il resto delle
creature e qualcosa che lo rende somigliante a Dio; l’uomo è grande e misero (cf. Sal
8). Anche in Gen 2 l’uomo sta in mezzo tra l’animale e il Signore Dio, che lo plasma e
gli parla.
• vv. 8-9.15 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo
che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla
vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza
del bene e del male. […] Il Signore Dio prese l’uomo e lo (ri)pose nel giardino di Eden, perché
lo coltivasse e lo custodisse.
Come promesso all’inizio del racconto, Dio fa germogliare un giardino – da im-
maginarsi proprio come un paradiso in mezzo a una terra deserta – e ci pone l’uomo
perché lo coltivi. Questo è il senso del v. 8, che funziona da sommario prole<ico ri-
spe<o a ciò che seguirà. In molte culture mediorientali il giardino rappresenta un
ideale di felicità, data la conformazione perlopiù desertica della terra. Se il deserto è
morte – poiché è difficile sopravviverci – il giardino, con i suoi fiumi, è simbolo di
vita e di gioia (sul fiume cf. Sal 1; Ez 47).
Il giardino viene descri<o come qualcosa di bello e di buono, e di tu<i gli alberi se
ne distinguono due, che sono «in mezzo al giardino»52. È inutile discutere su quale
dei due alberi sia al centro: secondo la sintassi eb., il complemento va riferito sia
all’uno che all’altro albero, e così la cosa migliore da fare è immaginarsi tuWi e due gli
alberi al centro.
Una seconda questione: come intendere l’espressione «del bene e del male», riferi-
to all’albero? Da un lato sembra tra<arsi di un’espressione polare, che indicherebbe la
conoscenza intima e profonda di tuWa la realtà (cf. 2Sam 14,17.20 e la nota della Bib-
bia di Gerusalemme). Dall’altra, però, si sarebbero potuti scegliere altri due estremi
del polarismo: perché proprio il bene e il male53?
52
Il costru<o preposizionale Nֹ בְּ תוforse non insiste sul fa<o che gli alberi siano ‘al centro’, ma che
facciano semplicemente parte del giardino; il gr. e il latino però hanno inteso secondo l’immaginario
comune.
53
Se poi si tiene conto del fa<o che alla fine del libro, in Gen 50,19-20, Giuseppe svela ai fratelli che
anche il male «Dio ha pensato di farlo servire a un bene», può forse essere considerata questa una mera
coincidenza? «[…] Giuseppe appare allora come il nuovo Adamo che riceve nella sua sapienza il
fru<o della “conoscenza del bene e del male”» (J.-P. SONNET, «C’è un narratore nella Bibbia?», 45 n.
32).
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Al v. 15, dopo la digressione sui qua<ro fiumi, l’uomo viene posto in questo giar-
dino di delizie per coltivarlo e custodirlo. Il verbo che qui viene usato è עבד, che si-
gnifica proprio ‘servire’ e dunque, tra<andosi del suolo, ‘coltivare’. L’uomo è posto a
servizio del giardino, ed è il suo custode (il secondo verbo è )שׁמר.
Così, il giardino darà all’uomo i suoi fru<i «graditi alla vista e buoni da man-
giare», mentre lui dovrà coltivarlo e custodirlo. Ci sono tu<i i presupposti per un’al-
leanza tra l’uomo e il resto del creato. Il lavoro fa parte così originariamente
dell’uomo ed è visto come qualcosa di positivo: un’esistenza senza lavoro non sa-
rebbe pienamente umana54. Perché? Perché l’uomo è a immagine di Dio, e in questo
racconto vediamo all’opera un Dio che lavora, che crea lavorando, impastando
l’uomo con le sue mani. L’uomo, con il suo lavoro, potrà essere creativo, proprio
come il Signore Dio55.
Ma c’è una piccola particolarità grammaticale nel testo. Quando noi diciamo «lo
coltivasse e lo custodisse» (2,15) intendiamo chiaramente il ‘giardino’ come referente
del pronome. Ma in ebraico abbiamo un suffisso femminile, che dunque mal si accor-
da con גָּן, decisamente maschile. Come risolvere la questione?
In effe<i, questi due verbi vengono usati molto spesso in un contesto di alleanza.
‘Servire il Signore’ sarà ciò che fa Giosuè con la sua famiglia in Gs 24,14-24 (la radice
עבדcompare 14x in quel testo). Servire è l’a<eggiamento di chi acce<a liberamente
un’alleanza; ‘custodire’ è invece il bero preferito per dire l’osservanza del comanda-
mento, la custodia della parola di Dio. Dunque – così risolvono il problema i com-
mentatori ebrei – questi pronomi so<intendono i sostantivo ‘servizio (liturgico)’, o
‘comandamento’.
• vv. 16-17 Il Signore Dio comandò all’uomo: «Di tuWi gli alberi del giardino tu potrai
certo mangiarne, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangiarne, perché,
nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente morirai».
Dopo il dono (Gabe) del giardino, ecco il compito (Aufgabe), ecco il comando.
Come interpretare questo comando? Perché Dio ha posto nel giardino un albero del
quale dice all’uomo di non mangiarne?
Cominciamo ad analizzarlo, innanzitu<o. Il comando presenta due parti ben defi-
nite: la prima parte è positiva, dice all’uomo di mangiare di ogni albero del giardino
54
C’è qui un ulteriore tra<o di demitologizzazione: l’uomo non ruba il fuoco agli dèi, non è in compe-
tizione con lui.
55
Cf. quanto dice Virgilio a Dante in Inferno XI, 97-105: «“Filosofia”, mi disse, “a chi la ‘ntende, /
nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende / dal divino ‘intelle<o e da sua arte;
/ e se tu ben la tua Fisica note, / tu troverai, non dopo molte carte, / che l’arte vostra quella, quanto
pote, / segue, come ‘l maestro fa ‘l discente; / sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote. / Da queste due, se
tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio, convene / prender sua vita e avanzar la gente”». La natura
ha il suo corso da Dio e dalla sua opera, e l’uomo segue, per quanto può quell’arte divina, come un di-
scepolo il maestro. Così l’operosità dell’uomo è quasi discendente di quella di Dio.
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(l’espressione positiva è parallela a quella negativa, e può essere intesa anche con un
comando). Notiamo che la prima parola di Dio all’uomo, in Gen 2, riguarda il dono
del cibo, come in Gen 1,29-30. Perché è così so<olineato questo dono del cibo? Pen-
siamo: che cos’è il cibo? Il cibo è la nostra relazione con il resto della creazione, è il
simbolo della nostra unione, della nostra relazione con il mondo. Mangiando dei
fru<i della terra, l’uomo assume il creato, lo assimila a sé, lo fa diventare suo corpo e
lo ‘personalizza’56. Ma il cibo non è solo la nostra relazione con il mondo, bensì anche
quella con Dio. Perché? Perché il nutrimento è ciò che mantiene l’uomo in vita. Cia-
scuna assunzione di cibo è un dono di Dio: mentre mangi ti relazioni col mondo e
con Dio, perché Dio è la vita, e tu ti mantieni vivo a<raverso il cibo. Dunque il cibo è
offerta di relazione da parte di Dio, è alleanza. Pertanto, la prima parola di Dio è
l’espressione di un dono, e un dono immenso (ricordiamo che la radice di padre, è il
sanscrito pa-, che significa ‘proteggere’ e ‘nutrire’).
Poi, sull’orizzonte di questo dono immenso, di questo dono per la vita e la rela-
zione con Dio, si innesta un secondo comando, questa volta al negativo, riferito a un
solo albero. Se l’uomo ne mangerà, morirà. Ma che cos’è questa morte? Difficile da
definire. Sarà la punizione per la trasgressione? Oppure sarà la conseguenza inevita-
bile? Se fosse così, Dio non sta minacciando l’uomo, ma lo sta avvertendo, lo vuole
me<ere in guardia!
Notiamo che il Signore Dio non dice di più, le sue parole sono poche e non molto
chiare, lasciano lo spazio a più interpretazioni. Poniamo dunque di nuovo la doman-
da: perché Dio ha posto nel giardino un albero del quale dice all’uomo di non
mangiarne?
– Dio preclude all’uomo la conoscenza del bene e del male, gli proibisce una cono-
scenza che lo renderebbe autonomo e maturo. Pur avendo creato l’uomo a sua im-
magine, Dio vuole mantenere una superiorità verso di lui, e questo limite lo rende-
rebbe chiaro;
– Dio sta offrendo all’uomo lo spazio per una relazione con lui. Proprio perché
Dio ha creato l’uomo come suo partner, gli dà un comando per la sua felicità. Se
l’uomo ascolterà questa parola potrà approfondire la sua relazione con Dio.
È proprio in questa possibile duplice le<ura che si innesca la libertà dell’uomo.
L’uomo può chiedersi esa<amente ciò che ci siamo chiesti noi: questo comando è
buono o ca<ivo? E, di conseguenza, colui che l’ha dato è buono o ca<ivo?
L’uomo sposerà la prima le<ura, che sarà proprio quella suggerita dal serpente: è
l’avversario di Dio, non possiamo prenderlo come esegeta!
56
«Nella storia biblica della creazione, l’uomo è presentato anzitu<o come essere affamato, e il
mondo intero come suo cibo. […] L’uomo deve mangiare per vivere. Deve prendere il mondo nel pro-
prio corpo e trasformarlo in se stesso, in carne e sangue. […] Nella Bibbia, il cibo che l’uomo mangia il
mondo che deve consumare per vivere, gli è dato da Dio e gli è dato come comunione con Dio. […] È
l’amore divino fa<o cibo,fa<o vita per l’uomo» (A. SCHMEMANN, Per la vita del mondo, 17.21).
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A cosa serve, dunque, questo comando? Possiamo dire che serve a preservare la
libertà dell’uomo. All’uomo è stato donato un giardino bellissimo e lussureggiante.
Ora Dio gli dà un comando che, come abbiamo visto, non è comprensibile del tu<o, e
questo apre all’uomo uno spazio, ovvero quello di fidarsi più pienamente di Dio e di
custodire il comandamento. Come se Dio gli avesse dato un comando per custodire
la loro relazione: finché tu non mangerai di questo albero la relazione con me sarà
per te la cosa più importante, la mia parola varrà ai tuoi occhi più che ogni altra cosa.
Potremmo parafrasare a questo punto Dt 8,3: “Non solo di tu<i gli alberi del giardi-
no vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore”.
Questo comando è uno spazio aperto per la libertà, per l’accoglienza volontaria
dell’uomo di tu<o ciò che ha ricevuto. Il comandamento apre una possibilità, per
l’uomo: quella di approfondire la relazione con Dio, di restare legato a lui (il termine
‘legge’ è forse tra<o dal latino ligare).
Due riflessioni conclusive. Che cos’è questo comando, in fondo? Abbiamo de<o
che ha una parte negativa e una parte positiva. E questo albero è l’albero del conoscere
bene e male. In fondo, Dio, dando questo comando, sta già dicendo all’uomo che cosa
è bene e male. Bene è mangiare di tu<i gli alberi, bene è tenersi lontani da quell’uni-
co albero. Male è avventarsi su quell’albero, perché porterà di certo alla morte!
Dunque Dio dà da mangiare dell’albero proprio in quel suo comando. È ascoltando e custo-
dendo quella parola che l’uomo parteciperà della conoscenza di Dio e potrà vivere!
Dell’albero della conoscenza del bene e del male, dunque, potremmo dire che se ne
mangia non mangiandone.
Una seconda riflessione. Il Signore Dio crea l’uomo, gli dona tu<o, ma non im-
pone il suo amore. Dio pone un limite al suo desiderio di relazione con l’uomo. Tu<o
il giardino parla del bene che Dio vuole all’uomo e del suo desiderio di nutrirlo per
la vita. Ma, proprio perché Dio è amore, non impone il suo amore, e lascia all’uomo
una via di fuga, me<e nel mondo un ‘dispositivo’ che perme<a all’uomo di fuggire
da questo giardino bellissimo, nel momento in cui non lo vorrà più. È il dramma
dell’amore, che è una presenza che si manifesta come assenza.
Infine, non è certo a caso che l’albero sia della conoscenza57. La Scri<ura, fin dalle
prime pagine, me<e nero su bianco che la conoscenza è una realtà relazionale:
l’uomo è chiamato a conoscere le cose con Dio. Non riguarda innanzitu<o l’ambito
intelle<uale, ma quello relazionale.
57
Cf. anche supra per quanto riguarda il ‘bene’ e il ‘male’.
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• v. 18 E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che
gli stia come di fronte».
C’è chiaramente uno stacco tra il v. 17 e il v. 18. Il Signore Dio prende la parola e
introduce una grande novità nel racconto biblico. In Gen 1,1–2,3 avevamo sentito per
ben se<e volte il ritornello «E Dio vide che era cosa [molto] buona (»)כִּ י־טוֹב. Per la
prima volta, ora, sentiamo una cosa che non è buona (א־טוֹב7): che l’uomo sia solo.
L’uomo è creato a immagine di un Dio che è uno perché è comunione, e dunque la so-
litudine contraddice questa somiglianza dell’uomo con Dio.
Per questo motivo il Signore Dio si me<e d’impegno per ovviare a questo inci-
dente. Qui abbiamo una stru<ura in due tempi, molto ordinata: abbiamo un primo
intervento di Dio e poi la reazione dell’uomo, dunque un secondo intervento di Dio
e la seconda reazione dell’uomo.
Dio dice che vuol fare all’uomo58 un aiuto ‘che gli corrisponda’ (così, di solito, le
traduzioni). I LXX e la Vg., a questo punto, introducono di nuovo un plurale, allu-
dendo chiaramente a 1,26: «Facciamo (ποιήσωµεν / faciamus) un aiuto che gli
corrisponda!».
Un aiuto «che gli corrisponda». In realtà l’ebraico עֵ זֶ ר כְּ נֶגְ דּ ֹוporta a due considera-
zioni: il primo termine contraddistingue un aiuto urgente, necessario, un soccorso.
Pensiamo soltanto al secondo figlio di Mosè che si chiama Eliezer, «perché: “Il Dio di
mio padre è venuto in mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone”» (Es 18,4).
Il secondo termine, invece, contiene una preposizione impropria, ֶנגֶד, che significa ‘di
fronte’ o anche ‘opposto a’. Sarà un soccorso ciò che Dio creerà, ma non starà di fian-
co a lui, non sarà propriamente un suo alleato, ma gli starà «come di fronte». E qual-
cuno che ti è di fronte ti può essere anche opposto. Scrive Rashi:
Un aiuto contro di lui – Se l’uomo ne sarà degno, la donna sarà per lui un aiuto; se non ne
sarà degno, ella sarà contro di lui per comba<erlo.59
La donna è di fronte all’uomo, e in questi termini c’è una tensione: l’altro sarà un
aiuto che scampa dalla solitudine, dalla morte, ma questo soccorso ha in sé qualcosa
di problematico, che resisterà all’uomo. Gli sarà di fronte, sarà un suo partner, ma
allo stesso tempo gli sarà contrapposto. A tal proposito, vengono in mente le pagine
di Lewis sulla differenza tra l’amicizia e l’amore erotico:
Gli innamorati stanno quasi tu<o il tempo faccia a faccia, assorti nella contemplazione
l’uno dell’altro; gli amici, fianco a fianco, assorti in qualche interesse comune.60
58
Qualche interprete pensa all’uomo di cui si parla qui come a un essere androgino, in quanto
viene usato il termine più generico אָדם.
ָ Un Adamo che viene come ‘sdoppiato’.
59
RASHI DI TROYES, Commento alla Genesi, 20.
60
C.S. LEWIS, I quaWro amori, 62.
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Questo ‘aiuto’ che l’uomo ancora non ha dovrà stargli come di fronte: dovrà
dunque essere in relazione con lui.
• vv. 19-20 Allora il Signore Dio modellò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tuWi
gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque
modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello sarebbe stato il suo nome.
Così l’uomo impose nomi a tuWo il bestiame, a tuWi gli uccelli del cielo e a tuWi gli animali
selvatici, ma per l’uomo non (si) trovò un aiuto che gli stesse come di fronte.
Il primo modo per ovviare alla solitudine dell’uomo è la creazione degli animali.
Dio li conduce all’uomo e questi li nomina. È splendido il particolare per il quale Dio
conduce all’uomo gli animali e appare curioso («per vedere») di sapere come il suo
partner li avrebbe chiamati.
Comprendiamo quanto è fecondo il dialogo tra questo racconto e l’inno del c. 1.
Là era Dio il quale, man mano che la creazione nasceva, come un padre dava il nome
alle cose (così come quando nasce un bimbo la prima cosa che si fa è dargli un
nome); qui è l’uomo che, a immagine di Dio, dona un nome a tu<e le altre creature.
L’uomo è
un “piccolo dio” (Sal 8), perché Dio lo ha posto al centro del mondo come sacerdote. Il
creatore gli chiede di “dare un nome” a tu<e le cose (Gn 2,19), cioè di dischiudere le loro
intime essenze. Nell'a<o di nominare le creature di Dio, l'uomo solleva il velo che appare
in superficie e a<inge alla loro ragion d'essere, che è la sorgente divina stessa.61
«In altri termini, dare il nome ad una cosa significa benedire Dio per quella cosa e
in quella cosa»62. E notiamo ancora come cambia l’ordine degli animali portati da
Dio all’uomo. All’inizio abbiamo gli animali selvatici e gli uccelli del cielo, mentre,
quando l’uomo nomina gli animali, ne aggiunge una categoria: comincia dagli ani-
mali domestici, quelli che a lui sono più vicini.
Ma la conclusione è frustrante: «non (si) trovò un aiuto che gli stesse come di
fronte». I commentatori ebrei hanno immaginato che l’uomo avesse visto sfilare da-
vanti a lui gli animali a coppie, maschio e femmina, e questo avrebbe di fa<o acuito
in lui il senso di solitudine.
Gli animali non soddisfano la complicazione che aveva innescato la solitudine
dell’uomo. È comprensibile: gli animali, come abbiamo già visto a suo tempo, non
possiedono quel soffio, quel Respiro nelle narici.
• v. 21 Allora il Signore Dio fece cadere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli
prese una delle sue costole e richiuse la carne al suo posto.
L’azione di Dio è davvero curiosa. Consideriamo le fasi di questa operazione:
61
M. BUSCA – S. PASSERI, Vieni alla mensa, 107.
62
A. SCHMEMANN, Per la vita del mondo, 22.
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• v. 22 Il Signore Dio costruì con la costola che aveva preso dall’uomo una donna, e la
condusse all’uomo.
Innanzitu<o notiamo che questo Dio è davvero poliedrico, sa fare un sacco di
cose: è un Dio che parla (cf. c. 1), è un vasaio che impasta la polvere del suolo (cf. 2,7),
è un contadino pianta un giardino (cf. 2,9), è un chirurgo che agisce l’uomo facendogli
l’anestesia, operando e curando la ferita (cf. 2,21). Qui lo vediamo mentre costruisce la
donna (viene usato proprio un verbo edilizio). Ecco perché l’uomo è chiamato a col-
tivare il giardino: è a immagine di Dio, e come lui lavora per essere se stesso!
63
I commentatori ebrei, molto più prosaicamente, commentano: «Prima che gli venisse tolta dal
fianco la costola con cui fu fa<a Eva, Adamo fu immerso in un sonno profondo, poiché se avesse visto
come la donna veniva creata non avrebbe mai potuto innamorarsene» (L. GINZBERG, Le leggende degli
ebrei, I, 77).
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Dio innanzitu<o lavora alla costola e la trasforma64. Come un padre che porta la
sposa all’altare, Dio conduce la donna all’uomo. L’altro è un dono di Dio, e questo è
reso benissimo con questo condurre che Dio fa della donna all’uomo.
Ma qual è il senso di questa operazione? Dio ha creato l’uomo a sua immagine, a
vivere 1) il suo essere creatura – la sua natura 2) a modo di Dio (i Padri parlano di
τρόπος) – il suo essere persona. Ma Adamo non può compiere questo da solo, per-
ché la persona si definisce a<raverso la relazione: dunque Adamo non riuscirà da solo
a vivere la sua chiamata. Allora Dio ‘sdoppia’ Adamo e vien fuori Eva. Eva ha rice-
vuto già il Respiro di Dio in Adamo: erano già una cosa sola. Ma Dio ‘sdoppia’ Ada-
mo perché l’unione non sia secondo la natura, ma in modo personale, quindi libero.
Adamo cercherà sempre la sua צֵ לָע, e la donna tenderà sempre al luogo da cui è stata
tra<a: così i due si cercheranno. Ecco l’amore erotico, l’amore di desiderio, che è la
strada che Dio dà all’uomo per compiere quell’unione libera, personale, ad imma-
gine di Dio. L’eros è la chiamata privilegiata perché l’uomo non si ripieghi su se stes-
so ma esca da sé, in un’ἒξτασις che lo porti ad alzare gli occhi da sé e a tendere verso
l’altro, perché possa realizzare questa immagine personale di Dio.
• vv. 23-24 Allora l’uomo disse: «Questa volta sì che è osso dalle mie ossa e carne dalla
mia carne! La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Se anche per gli animali l’uomo aveva di certo parlato dando dei nomi, quando
gli viene presentata da Dio la donna vengono riportate le prime parole dell’uomo nel
racconto biblico –e sono poesia.
C’è un’alli<erazione in questa poesia, tra ‘uomo’ ( ִאישׁ/ vir) e ‘donna’ ( ִא ָשּׁה/ virago),
benché i termini, di per sé, non vengano dalla stessa radice.
L’uomo, incontrando la donna, dovrà ‘abbandonare’ e ‘unirsi’. Vengono qui usati
due verbi che ricorrono spesso in testi dove si parla dell’alleanza tra Dio e l’uomo.
• v. 25 Ora, l’uomo e la sua donna erano entrambi nudi, ma non avevano vergogna l’uno
dell’altro.
La prima anta del di<ico di Gen 2–3 si chiude con una constatazione: i due sono
nudi ma non ne provano vergogna. Questa piccola nota finale avverte il le<ore, co-
sciente che la sua situazione a<uale non coincide con quanto qui asserito. Quest’ulti-
64
Si sprecano i commenti maschilisti dei commentatori ebrei. Citiamone un brano celebre: «Poco
prima di foggiare Eva Dio disse: “Non la trarrò dal capo dell’uomo, perché non tenga alta la testa con
arroganza e superbia; non dall’occhio, perché non ammicchi con lascivia; non dall’orecchio perché
non stia ad origliare; non dal collo, perché non sia altezzosa; non dalla bocca, perché non sia pe<ego-
la; non dal cuore, perché non sia incline all’invidia; non dalla mano, perché non sia intrigante; non dal
piede, perché non ami bighellonare. La trarrò da una parte del corpo che sia casta”. Via via che Dio fa-
ceva un arto o un organo, gli diceva: “Sii casto! Sii casto!”, ma a dispe<o di ogni cautela la donna ha
tu<i i dife<i che Dio aveva cercato di prevenire» (L. GINZBERG, Le leggende degli ebrei, I, 76).
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65
EFREM, Commento alla Genesi II,17.
66
Cf. S. BROCK, «The Robe of Glory», 248-250.
31
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67
Il vb. יצר, con il quale si descrive la formazione dell’uomo (cf. 2,7), viene usato 20x in Is per indi-
care l’azione di Dio che plasma il suo popolo; cf. ad es. Is 43,1.7. Il vb. נוחche in 2,15 dice il ‘me<ere a
riposo’ l’uomo nel giardino viene usato molte volte per dire il riposo del popolo nella terra promessa,
una volta ricevuta in dono (cf. ad es. Gs 23,1; Dt 12,10).
68
Cf. F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 494-495.
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1Re 18,39; Gv 20,28). In effe<i, il serpente e la donna toglieranno il Nome, resterà un ge-
nerico ‘Dio’: è l’unicità di Dio ad essere in crisi.
Abbiamo qui un procedimento tipico della mentalità biblica: essa parte dall’osser-
vazione dei dati molteplici dell’esperienza per poi risalire a un’unica origine: come
se la metastoria fosse la ‘radice’ della storia. Come nel Sal 51, ad esempio: per dire
che tu<a la vita dell’uomo è schiava del peccato il salmista risale all’inizio della vita:
«Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre» (Sal 51,7). O
ancora: la continua infedeltà del popolo all’alleanza viene fa<a risalire alle falde del
Sinai, quando ancora l’alleanza non era nemmeno conclusa (cf. Es 32–34)73.
69
G. BORGONOVO, «La Tôrâ, ovvero il Pentateuco», 272.
70
Cf. A. WÉNIN, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. È sempre valido ciò che scrisse Galileo Ga-
lilei nella LeWera a Cristina di Lorena (1615): «Ciò è l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci
come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo».
71
Così definiti da Rahner in LThKi I, 1011 e precisata da Lohfink (cf. Mazzinghi 69).
72
G. BORGONOVO, «La grammatica dell’esistenza alla luce della storia di Israele (Gn 2,4b–3,24)», 463.
73
Cf. G. BORGONOVO, «La grammatica dell’esistenza alla luce della storia di Israele (Gn 2,4b–3,24)»,
270.464-465.
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74
Per la Bibbia non c’è un ‘prima’: la creazione è l’inizio del tempo. C’è un rapporto storico tra Dio
e il mondo, dove Dio è sia lontano che vicino, trascendente e immanente insieme; cf. A. NEHER, L’essen-
za del profetismo, 106-107.
75
L MAZZINGHI, «Quale fondamento biblico per il “peccato originale”?», 70.
76
G. BORGONOVO, «La Tôrâ, ovvero il Pentateuco», 272.
77
N. BERDIAEV, Spirito e libertà, 115.
34
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accessibile al conce<o logico. […] La vita divina in se stessa, nel suo inesauribile mistero,
non corrisponde alle affermazioni dei conce<i razionali. La logica non è il Logos, fra essi
si apre un abisso insuperabile, una soluzione di continuità. È impossibile imprigionare
l’infinito nel finito, il divino nel naturale.78
78
N. BERDIAEV, Spirito e libertà, 108-109.
79
Cf. N. BERDIAEV, Spirito e libertà, 110-111; cf. anche la citazione di M. Eliade in G. BORGONOVO, «La
Tôrâ, ovvero il Pentateuco», 26: «Le Immagini sono per loro stessa stru<ura polivalenti. Se lo Spirito
utilizza le Immagini per cogliere la realtà ultima delle cose è proprio perché questa realtà si manifesta
in modo contraddi<orio ed è quindi impossibile esprimerla tramite conce<i».
80
Cf. L. MAZZINGHI, «Quale fondamento biblico per il “peccato originale”?», 71-74.
81
Su questo però cf. G. BORGONOVO, «La Tôrâ, ovvero il Pentateuco», 268.
82
G. BORGONOVO, «La Tôrâ, ovvero il Pentateuco», 269. Cf. anche la sintesi di L. MANICARDI, Guida alla
conoscenza della Bibbia, 29.
83
Non entreremo nella questione della do<rina del peccato originale e della relazione tra il peccato
di Adamo e quello di tu<i gli uomini. E teniamo conto di una semplice constatazione: «[n]essuno dei
se<e Concili ecumenici ha promulgato decreti riguardanti la caduta, il peccato originale o ancestrale,
il libero arbitrio e la grazia» (K. WARE, Verso il compimento della salvezza nella tradizione ortodossa, 43).
Non va dimenticata una pluralità di approccio al tema: Occidente e Oriente hanno seguito interessi e
tradizioni teologiche diverse anche su questo tema.
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proprio, che ha la sua complicazione – dove comincia realmente l’azione – nella sce-
na della trasgressione del comando (Gen 3,1-7).
Ora, in che senso questo racconto è storico? Quello che Agostino chiama ‘peccato
originale’ è – così come lui ritiene – un fa<o avvenuto nella storia? Se teniamo conto
di quanto de<o fin qui, e se si vuole usare un linguaggio teologico latino, il peccato
di Gen 3 non è tanto quello originante (quello di Adamo ed Eva), quanto quello origi-
nato – cioè il peccato radicato nel cuore di tuWi gli uomini. Il testo non parla nemme-
no di un ipotetico ‘stato originario’, non è interessato a ciò che c’era prima del peccato
(Gen 2 è appunto solo l’esposizione del racconto): l’a<enzione è tu<a incentrata
sull’oggi dell’umanità.
Ma la domanda resta ancora senza risposta. Il testo esprime la radice metastorica
del peccato di ogni uomo: ma all’inizio vi fu una trasgressione singola, personale?
Cominciamo da una considerazione che può sembrare banale: l’uomo compare sulla
terra qualche milione di anni dopo i dinosauri, ma non è che i dinosauri si volessero
bene. Fuor di metafora: così come la conosciamo noi, la creazione è da sempre stata
segnata da una tragedia, porta in sé i segni del peccato, dell’abisso creatosi tra Dio e
la creazione. È dunque infantile e ingenuo pensare che il peccato entri nel mondo
quando il primo uomo (ma quale poi, l’homo sapiens o l’homo sapiens sapiens?) ha com-
messo una trasgressione. Restando su questa strada – quella della storia ‘empirica’ –
si arriva a due alternative opposte: o la scienza con la sua evoluzione (non c’è traccia
di uno stato originario dell’uomo, l’uomo è sempre stato così come lo conosciamo,
anzi, si sta evolvendo in modo sempre migliore – almeno a livello della sua natura),
o Gen 2–3 affermato apodi<icamente, contro tu<i i dati empirici: il racconto del para-
diso è avvenuto benché non vi sia traccia alcuna nella nostra realtà storica.
Eppure le due affermazioni possono coesistere, ma perché questo sia possibile
serve una riflessione più profonda. Quando noi diciamo ‘storia’ e ‘storico’, a cosa ci
riferiamo? Un esempio chiarirà84. Prendiamo due eventi storici: la creazione della
luce da parte di Dio e l’esilio in Babilonia. Sono storici entrambi? Non c’è alcun dub-
bio; ma, con altre<anta chiarezza, viene spontaneo aggiungere che si tra<a di una
storicità diversa, e che gli strumenti per tra<are la storicità del secondo siano diffe-
renti da quelli per il primo.
Da ciò segue che la realtà e gli eventi di un tale genere, quantunque appartenenti alla vita
del mondo e dell’umanità, ma oltrepassanti i confini di un dato eone o della sua “empi-
ria”, non possono essere descri<i nel suo linguaggio, allo stesso modo in cui sono espressi
eventi ad essa appartenenti.85
Per rispondere alla domanda potrebbe essere utile partire dall’estremo opposto
della storia, dall’eschaton, e chiederci: la risurrezione di Cristo, la sua seconda venuta
e il tempo futuro sono eventi storici? Dobbiamo rispondere di sì: è proprio il compi-
84
Per questa parte cf. sopra<u<o S. BULGAKOV, La Sposa dell’Agnello, 242-282.
85
S. BULGAKOV, La Sposa dell’Agnello, 251.
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mento della storia, il suo traguardo ultimo86, evento realissimo, incominciato con la
primizia del ma<ino di Pasqua, inizio della nuova creazione. Ma, allo stesso tempo,
dobbiamo rispondere di no: non sarà più un tempo e una storia come la conosciamo
noi. È, appunto, una «nuova creazione» (Mt 19,28), e dunque è anche una nuova sto-
ria – tant’è che Gesù non viene riconosciuto dai suoi, dopo la risurrezione, perché,
allo stesso tempo è uguale e diverso da prima87. Il compimento dei tempi è il giungere
di un nuovo ‘tipo’ di storia. Possono andare bene le categorie che usiamo per la no-
stra storia empirica, così come la conosciamo noi? Non più.
Qualcosa di simile possiamo dire anche della creazione così come è uscita dalle
mani di Dio. Noi conosciamo soltanto che in questo mondo il peccato «è entrato nel
mondo e, con il peccato, la morte» (Rm 5,12), e noi conosciamo la storia soltanto di
questo mondo. Ma la rivelazione, così come ci ha dato occhi per guardare al ‘dopo’, al
compimento, ci dà la possibilità di intuire anche il ‘prima’, l’origine. Prima della sto-
ria che noi possiamo conoscere, l’uomo è uscito dalle mani di Dio libero, con una li-
bertà e una fede ancora bambina che doveva crescere fino alla «misura della pienez-
za di Cristo» (cf. Ef 4,13), e che con questa libertà ha rifiutato l’offerta d’amore di
quel Dio che l’aveva creato. È reale, dunque, questo evento? Sì, ma non è raggiungibile
nella nostra storia, così che l’Adamo di Gen 3, una volta che il mondo ha preso la for-
ma a<uale e siamo entrati nella nostra storia, perde ormai il suo statuto di ‘progeni-
tore’ ed è ormai rintracciabile in ogni uomo88.
Uno simbolo splendido di questa realtà è proprio il testo di Gen 3,23-24. Dio caccia
l’uomo dal giardino. Come a dire: noi abbiamo un’oscura coscienza di essere usciti dal para-
diso, ma conosciamo soltanto il mondo fuori da quel paradiso: non c’è traccia del giardino
di Eden in questo mondo – eppure era (in) questo mondo il giardino. Noi conosciamo sol-
tanto una terra che produce «spine e cardi» (Gen 3,18), dove le donne soffrono per parto-
rire. Eppure in noi c’è una memoria confusa che la creazione, così com’era uscita dalle
mani di Dio, era molto bella e buona (cf. Gen 1,31), senza alcuna traccia di male89.
L’evento che farà passare questa nostra storia presente nel ‘tempo definitivo’ sarà
la seconda venuta di Cristo (cominciata dalla sua risurrezione), mentre quello che ha
fa<o da ponte tra il ‘tempo dell’origine’ e la nostra storia è stato il peccato di Adamo,
la tragedia che ha fa<o precipitare il mondo così come noi lo conosciamo.
Ancora, in altre parole:
86
ἔσχατον è appunto l’ultimo, e dunque riferito a un asse temporale precedente.
87
Per il Cristo risorto sembra che il rapporto con lo spazio non sia più lo stesso (e così eccolo venire
e stare in un luogo «a porte chiuse», Gv 20,26 – cf. anche v. 19 e Lc 24,36) e, in ugual modo, quello con
il tempo: tenendo conto di tu<i i racconti evangelici della risurrezione – e con un pizzico di ironia, s’in-
tende – ci si può stupire della fi<a agenda di incontri di Gesù nel suo primo giorno da risorto! Cf. J.
DUPONT, «Les disciples d’Emmaüs (Lc 24,13-35), 167.
88
[in fieri] In questa direzione sarebbe interessante comprendere il significato colle<ivo e indivi-
duale del sost. אָדם ָ in Gen 1–5 e il suo sviluppo.
89
Cf. S. BULGAKOV, La Sposa e l’Agnello, 262-265.
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E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi / e non vi sarà più la morte / né lu<o né lamento
né affanno, / perché le cose di prima sono passate (Ap 21,4).
La fine del nostro tempo e l’inizio del mondo futuro coincide con la viWoria sulla
morte (cf. Rm 6,9 per Cristo, nostra primizia); così, l’inizio del nostro tempo e la fine
di ciò che stava al di là della storia è coincisa con l’entrata di questa nemica nel mon-
do (cf. Gen 2,17; Rm 5,12; Sap 2,24).
In tal modo, la perfezione originaria dell’uomo, al pari della sua caduta, possono e devo-
no essere intese come veri e propri eventi della vita del mondo e dell’uomo, quantunque
esse appartengono alla metastoria; e tu<avia con le loro conseguenze determinano la sto-
ria, come un certo suo a priori.90
Il secondo blocco prende molto più spazio testuale e me<e in luce la presenza di
tre grandi blocchi, il primo, il terzo e il quinto, con due parti più brevi che potremmo
chiamare di ‘transizione’.
6. «E queste sono le generazioni di Teraḥ» (11,27) [Abramo] 11,27–25,11
90
S. BULGAKOV, La Sposa dell’Agnello, 267.
91
Ma questa è un’esperienza che si può soltanto fare, non è sufficiente leggerla soltanto sui libri!
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Allegando la seconda alla prima e la quarta alla terza, vengono a costituirsi tre
grandi cicli che occupano la seconda parte del libro di Gen:
11,27–25,18: ciclo di Abramo (VI-VII generazione)
25,19–37,1: ciclo di Giacobbe (VIII-IX generazione)
37,2–50,26: storia di Giuseppe (X generazione)
92
La sterilità è condivisa anche con le altre matriarche d’Israele, Rebecca (cf. 25,21) e Rachele (cf.
29,31); cos’ la moglie di Manoach (cf. Gdc 13,2.3), Anna, moglie di Elkana (cf. 1Sam 1,5.6), Elisabe<a,
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Terzo elemento di interesse, è il viaggio di Teraḥ. Di solito si dice che Abram, chia-
mato da Dio, inizia il viaggio verso la terra promessa; ma non è proprio così. Leg-
gendo questi vv. scopriamo che Dio si inserisce su un viaggio che ha già avuto in-
izio: quello di Teraḥ che prende suo figlio e la sua famiglia «per andare nella terra di
Canaan» (11,31). Dio lavora con gli slanci della storia umana. La chiamata di Dio si
inserisce in un viaggio già iniziato ma che, per un motivo sconosciuto, è rimasto
come sospeso, a Ḥaran.
Possiamo sapere ancora qualcosa di più su Teraḥ? Gs 24,2-3. «Terach è quindi il
“nonno dei credenti” senza avere creduto»93. Se leggiamo questo testo in continuità
con il c. 11, possiamo pensare che Teraḥ è un membro di quell’umanità che parte dal-
la torre di Babele e si disperde su tu<a la terra. La narrazione, una volta decretata la
fine del sogno imperialista di Babele, si concentra su un uomo, su una famiglia e se-
guirà quel filo, quella famiglia, nel corso delle sue generazioni. Il le<ore può chieder-
selo: perché questa operazione? Con quale criterio viene fa<a questa scelta? E
dunque, al cuore della questione: perché la «generazione di Teraḥ» (11,27) e non
un’altra? A questa domanda dovremo cercare di rispondere.
Prima di procedere, poi, una piccola curiosità. Se leggiamo 11,32 e 12,1 in serie,
cosa potremmo dedurne? Abram parte quando il padre è morto. Ma leggiamo ora
11,26 e 12,4: il padre di Abram era ancora vivo (e lo sarà per un bel po’!) quando il fi-
glio parte. Così Abram, prima di essere padre di molti popoli, è un figlio che abban-
dona il ‘padre altissimo’ che viene dalla carne e dal sangue per seguire una promes-
sa di quel Dio che lo chiama.
Così quello che diventerà אַבְ ָרהָ ם, ‘padre di molti popoli’, deve iniziare a lasciare
suo padre, vocazione comune a tu<i gli uomini (cf. 2,24).
• VàWene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io
ti farò vedere:
a. farò di te una grande nazione,
b. ti benedirò
a’. e renderò grande il tuo nome;
• e sii benedizione
b. benedirò coloro che ti benediranno
a. – ma chi ti disprezza, lo maledirò –
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• v. 1 Il Signore disse ad Abram: «VaWene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa
di tuo padre, verso la terra che io ti farò vedere:».
Dal nulla, senza preavviso, senza apparente ragione, il Signore irrompe nella vita
di questa famiglia, e rivolge la parola al primogenito di Teraḥ, l’unico con una mo-
glie sterile.
La prima parola del Signore ad Abram è il famoso F ְ־לNֶל. È un imperativo del ver-
bo Nַהָ ל, ‘andare’, più un complemento, un dativus commodi, che indica primariamente
un vantaggio del destinatario dell’imperativo: ‘vai per te’. Il viaggio personale che
Abram inizierà andrà dunque a suo vantaggio, benché, all’inizio, tu<e le condizioni
sembrino a lui sfavorevoli. Non solo, però: questo costru<o può indicare anche che il
viaggio, in un certo senso, ha come meta proprio il sogge<o stesso (si potrebbe tra-
durre anche ‘va’-verso-di-te’). Il viaggio che la persona è chiamata a fare è un viaggio
che in qualche modo lo riguarda nella sua identità94.
Ci sono due cose ben distinte, poi. Un viaggio è fa<o di due poli: la partenza – ciò
che ci si lascia alle spalle – e l’arrivo – ciò che sta davanti. Notiamo che Dio è molto
preciso riguardo alla partenza di Abram. Egli deve lasciare tre cose, messe ordinata-
mente, come in uno zoom progressivo, dalla più ‘anonima’ alla più personale: la ter-
ra, la parentela e la casa del padre.
In compenso a queste tre realtà che abbandonerà, Abram troverà una terra che il
Signore gli farà vedere. Quando si tra<a della meta, il Signore è molto più sfumato e
misterioso. A ben vedere, Abram scambia dunque tu<a la sua origine con una parola.
Se lascerà le cose sue (il suffisso di seconda persona singolare scandisce il primo v.),
Abram troverà qualcosa che Dio gli farà vedere. Lasciare le sue cose, lasciare il padre
sarà intraprendere una relazione con Dio. Ma senza abbandonare se stesso, anzi! Que-
sto distacco dalla casa del padre è per il ritrovamento di sé: Va’ verso te stesso!
Abramo può fidarsi di Dio; può rispondere, se vuole.
• v. 2abc «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome;».
Alla partenza di Abram sono legate tre azioni alle quali Dio si lega: Abram partirà
e Dio
– farà di Abramo una grande nazione
– lo benedirà
– renderà grande il suo nome
La prima promessa è dunque la promessa della discendenza, che non può che stu-
pire, data la sterilità di Sarai. Non è ancora esplicita, dovremo aspe<are il c. 15 per
Tornerà questo strano imperativo in Gen 22,1, sempre per Abramo. E poi, al singolare, lo ritrove-
94
remo in Ct 2,10.
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sentire Dio pronunciare la fatidica parola ‘figlio’; ma qui si guarda già alla conse-
guenza estrema: un’intera nazione nascerà da Abram!
La seconda è quella della benedizione. Come aveva benede<o l’Uomo appena crea-
to, Dio prome<e di riverberare su Abram quella benedizione. Torneremo a breve su
questo punto, annotiamolo appena.
«Renderò grande ( )וַ אֲ ג ְַדּלָהil tuo nome» (12,2), dice Dio ad Abram. Innanzitu<o ve-
diamo come Dio si impegni a fare qualcosa al nome di Abram, se questi lascerà la
casa del padre, dove il suo nome è soltanto celebrazione del Padre.
Il nome di una persona è la sua identità, e Dio prome<e ad Abramo di rendere
grande il suo nome. Possiamo dire che Dio mantiene quasi le<eralmente la sua pro-
messa: al c. 17, mentre stringe alleanza con Abramo, Dio cambia il nome ad Abram.
Dio si inserisce nel nome dato da Teraḥ al figlio, e lascia il segno del suo passaggio.
Quest’uomo non si chiamerà più אַבְ ָרם, non sarà più semplicemente un ‘padre alto’,
ma sarà אַבְ ָרהָ ם. Con l’aggiunta di una he, iniziale di הֲ מוֹן, ‘abbondanza’,Abramo viene
costituito lui padre, un «padre di una moltitudine di genti» (17,4).
Se alziamo un poco lo sguardo, poi, vedremo che questo è proprio l’opposto di
quanto voleva fare il proge<o massificante di Babele/Babilonia, che suonava così:
11,4. Qui si dice: «Venite, costruiamoci una ci<à e una torre ()וּמגְ ָדּל ִ – e la sua testa sia
nel cielo – e facciamoci un nome». Appare qui e là la stessa radice: tu<a l’umanità
vuole farsi un nome con una grande costruzione, mentre Abram vedrà ingrandirsi il
suo nome per opera di Dio.
• vv. 2d-3 «E sii benedizione, e io benedirò coloro che ti benediranno – ma chi ti disprez-
zerà lo maledirò – e in te saranno benedeWe tuWe le famiglie del suolo».
Il secondo imperativo – dopo quel F ְל- לֵךiniziale – è: «Sii benedizione». E questo
imperativo allarga il panorama della parola del Signore. Nel v. 2 Dio parla ad Abra-
mo e dell’effe<o che la sua partenza avrà su di lui – è in vista il suo bene, innanzi-
tu<o. Nell’immaginario comune, finisce qui la promessa di Dio. E invece, in questa
seconda parte, avviene qualcosa di sorprendente: il Signore lega alla vita di Abram, a
quella sua partenza e alla sua vita l’avvenire di «tu<e le famiglie del suolo», ovvero
di tu<a l’umanità.
In 2b Dio ha de<o: «ti benedirò». Ma qui scopriamo che questo non è soltanto per
Abramo. Se lui è benede<o, è per essere benedizione, ovvero diventare fonte di bene-
dizione, dono di vita per gli altri. A<raverso di lui, a<raverso il suo essere benede<o,
tu<o il mondo ne avrà benedizione95.
Dio benedice Abram. Ma come arriverà la benedizione a tu<i gli altri uomini della
terra? Dal rapporto che questi avranno con Abram. Dio dà delle specie di ‘regole del gio-
co’, in questo v.: se gli altri riconosceranno che Abram è stato benede<o, allora la be-
95
Cf. Is 19,24; Zc 8,13.
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Perché Dio sceglie Abramo, dunque? È la sua strategia per riportare la salvezza
all’umanità99. Ormai l’umanità è dispersa sulla faccia della terra e so<o la maledi-
zione di Gen 3–4: come far arrivare a tu<i la benedizione? Il Signore ha stabilito che
la salvezza di tu<i passi per uno solo e per il rapporto che tu<i avranno con questo
uno.
E fa pensare il rischio nel quale il Signore si pone, a<raverso questa proposta. Un
aspe<o che si me<e spesso in luce, infa<i, è la fede di Abram. Abram parte soltanto
sulla base di una parola: «verso la terra che ti farà vedere», gli dice Dio. Ma c’è da no-
tare che c’è anche un’altra fiducia, ovvero quella di Dio nei confronti di Abram. Dio
dice ad Abram che per mezzo suo la benedizione arriverà a tu<e le famiglie della ter-
ra, e questo non è poco!
96
Di difficile traduzione il nifal נִבְ ְרכוּdi 12,3. Cf. la discussione in F. GIUNTOLI, Gen 11,27–50,26,
18-19. L’autore dà al vb. una sfumatura riflessiva («si diranno benede<e»), ovvero: le famiglie della
terra si benediranno a vicenda come Abram è stato benede<o da Dio. Va de<o però che tu<e le versio-
ni antiche hanno recepito il significato passivo del vb.
97
In questo modo viene preservata la libertà di entrambi i sogge<i umani: la libertà di Abram, che
può accogliere o meno questa grande visione di Dio. E anche tu<i gli altri popoli restano liberi: acce-
deranno alla benedizione benedicendo Abram.
98
P. BEAUCHAMP, Cinquanta ritraWi biblici, 34-35.
99
Cf. A. WÈNIN, «Abraham: élection et salut», 5.
43
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• v. 4 Abram andò, secondo quanto gli aveva parlato il Signore; andò con lui Lot. Abram
aveva seWantacinque anni quando uscì da Ḥaran.
In un unico v. viene registrata l’obbedienza di Abram, che parte. Viene registrata
anche la presenza del nipote Lot, e bisognerà capire il perché. Una piccola curiosità:
per descrivere la partenza di Abram viene usato il verbo יצא, che è il verbo della na-
scita (viene usato anche per l’uscita dall’Egi<o).
Abram ha se<antacinque anni quando parte. Come abbiamo già ricordato, suo
padre è ancora in vita. Secondo la cronologia del libro della Genesi abbiamo questa
bella scansione: Abram vive se<antacinque anni con il padre, poi venticinque anni
senza padre né figlio, poi ancora se<antacinque anni con il figlio Isacco (cf. 25,7).
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100
En passant, notiamo il fa<o che Abramo se ne va dall’Egi<o pieno di ricchezze ricevute laggiù. In
questo modo, egli di certo prefigura la discesa del popolo in Egi<o e la sua paradossale risalita dopo
aver ‘spogliato gli Egiziani’ (cf. Es 12,36).
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dans le triangle de l’alliance, nul n’est le centre. Au contraire, chaque partenaire se dé-
centre vers la relation des deux autres: le Seigneur sert la paix entre humains, l’élu porte
le projet de salut de Dieu pour tous, tandis que le non-élu se réjouit de la chance que re-
présente pour lui le choix que Dieu fait de l’élu.101
Così, in uno ci stanno tuWi. Se gli altri riconosceranno l’ele<o e lo ascolteranno (cf.
Lc 9,35), anche loro parteciperanno dell’elezione. Se invece diranno: questo è l’ele<o,
è l’erede, è il Figlio, noi siamo invidiosi, uccidiamolo (cf. Mc 12,1-12), allora si autoe-
scluderanno dalla benedizione che, a<raverso l’ele<o, vuole passare a tu<i.
È in quest’o<ica che va compresa l’elezione di Abramo, del popolo d’Israele (il po-
polo eleWo) e l’unica discendenza dei figli di Dio, nel Figlio unigenito.
101
A. WÉNIN, «Abraham: élection et salut», 24.
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Dio, amante dei paradossi, sceglie un uomo con una donna sterile per prome<er-
gli che da lui sarebbe uscita una «grande nazione» (12,2). Anche questo filone occu-
perà tu<o il ciclo di Abramo, con questa domanda di fondo: chi sarà questo figlio
della promessa? Proseguendo nella le<ura, assistiamo a un continuo scarto di possi-
bili candidati:
– quando Abram parte, secondo la parola del Signore, il testo, per ben due volte,
dice che «prese la moglie Sarai e Lot, figlio di suo fratello» (12,5; cf. 12,4). Perché
Abramo prende anche Lot nel suo viaggio – e perché questo particolare viene so<oli-
neato? Forse perché pensa sia lui il suo erede? Il c. 13 però squalifica questo primo
candidato: Abramo e Lot si separano perché i loro beni sono così abbondanti che or-
mai non ci stanno entrambi in un unico posto, e così devono dividersi. Lot non è il fi-
glio della promessa;
– 15,1-2. Abramo ci riprova: forse sarà Eliezer, il suo servitore, il suo erede. Ma
Dio ribadisce la promessa e squalifica anche questo tentativo di Abramo di darsi lui
un erede, con le sue sole forze: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà
il tuo erede» (15,4);
– «uno nato da te», aveva de<o Dio. Allora nel c. 16 assistiamo a un altro tentativo
che me<e in a<o Abramo per fabbricarsi un erede: 16,1-4. Sara invita Abramo a unir-
si alla sua schiava, e Abramo acce<a. Ma anche questo candidato viene squalificato;
– al c. 17 veniamo a sapere che, dopo ventiqua<ro anni da quella promessa, Dio la
riformula, di nuovo. 17,1-2.6.20-21. Dopo un tempo così lungo, Dio dà finalmente un
termine all’a<esa di Abramo: l’anno prossimo avrai un figlio da Sara! Dopo tu<i i
tentativi di Abramo di auto-realizzare la promessa di Dio, è giunto il momento in cui
questa si realizza davvero, dopo venticinque anni.
Alla fine, Sara concepisce e partorisce un figlio: Isacco, il figlio della promessa, il
‘figlio del riso’.
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• vv. 2-3 Alzò i suoi occhi e vide: Ecco, tre uomini stavano (in piedi) di fronte a lui. Li
vide e corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò a terra, dicendo: «Mio signore,
se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo.
A questo punto comincia il racconto vero e proprio, con uno spostamento del
punto di vista (introdo<o dal famoso )וְ ִהנֵּה: la cinepresa si sposta dalla parte di Abra-
mo e ci riporta ciò che lui vede: tre uomini che stanno in piedi. Abramo non li vede
arrivare, ma li vede lì, in piedi, fermi di fronte a lui. Non si dice che arrivino: si dice
che lui li vede. E il le<ore deve me<ere insieme ciò che ha scoperto al v. 1 e ciò che
ora Abramo vede, al v. 2. Lui vede tre uomini; ma il le<ore sa che è il Signore che gli
sta apparendo.
A questo punto il racconto ha un fine: mostrare come Abramo accoglie questi tre
ospiti e tu<o il gran correre che farà per raggiungere il suo scopo. Qui abbiamo que-
sto prostrarsi di Abramo, che non è un gesto di adorazione nei confronti di Dio, ma è
un segno di accoglienza dell’ospite, comune nell’antico Vicino Oriente.
Abramo si sposta, dunque: lascia la tenda e si precipita so<o l’albero, so<o le
querce di Mamre. L’aver posto questi due elementi scenografici disegna un percorso,
che Abramo farà più volte.
Al v. 3, nella traduzione italiana, leggiamo: «Mio signore». Non ci tragga però in
inganno: Abramo non ha riconosciuto il Signore, ma usa un nome generico per acco-
gliere l’ospite. Ciò che è strano è che si rivolga a questi tre con il singolare, benché
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abbiamo visto al v. 2 che i suoi occhi hanno percepito tre uomini e non uno solo.
Agostino scriverà: «Abramo ne vide Tre, ma ne adorò Uno».
Accogliere Dio per Abramo significherà accogliere questi tre uomini.
• vv. 4-5 Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi soWo l’albero.
Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per
questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai deWo».
Abramo accoglie questi ospiti, usando di nuovo il plurale, e così il narratore, al
v. 5.
• vv. 6-7 Allora Abramo andò in freWa nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior
di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello
tenero e buono e lo diede al servo, che si affreWò a prepararlo.
Nei vv. precedenti Abramo aveva parlato di un po’ d’acqua e un boccone di pane;
diciamo però che l’a<uazione è decisamente più generosa: tre sea di farina102 (ovvero
45 litri!; cf. la stessa misura in Mt 13,33) e un vitello tenero e buono (dovevano avere
metodi di co<ura a noi ignoti, velocissimi). Tu<o è concitato, in questi vv. Abramo
aveva corso incontro ai tre uomini (lui, un vecchie<o, nell’ora della siesta!), ora va in
freWa da Sara e corre all’armento che il servo si affreWa a prepararlo. Qua<ro indizi di
concitazione, in un ritmo martellante. «Il le<ore fa fatica a seguire l’arzillo anziano
che corre da una parte all’altra della scena per imbandire al più presto il pasto che
vuol servire ai suoi ospiti»103.
En passant notiamo che Abramo entra nella tenda, dove c’è Sara. I tre visitatori si
saranno accorti della sua presenza? Per il momento, niente lo fa pensare; al v. 9 avre-
mo la stessa impressione. Il le<ore, a questo punto, può pensare di saperne più di
Abramo (perché conosce l’identità del visitatore) e (con un pizzico di ingenuità mista
ad orgoglio) più del Signore (perché sa che Sara è nella tenda). È proprio così?
Cominciamo a capire, dunque, qual è la funzione della tenda. Crea uno spazio se-
greto, dove il le<ore può entrare, ma non tu<i i personaggi – o almeno così potrem-
mo pensare.
• v. 8 Prese panna e laWe fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro.
Così, mentre egli stava in piedi presso di loro soWo l’albero, quelli mangiarono.
Alla fine di questo v. vediamo che Abramo è in piedi, mentre quelli mangiano. È
passato dalla posizione iniziale, quando era seduto all’ingresso della tenda e ha visto
quei tre in piedi, di fronte a lui, a questa posizione finale: lui è in piedi e i tre sono se-
102
Ma è «di farina – di fior di farina». È la farina di alta qualità, per le offerte cultuali: un piccolo in-
dizio che Abramo avesse colto l’identità dei visitatori? Cf. J.-L. SKA, Abramo e i suoi ospiti, 15-16.
103
J.-L. SKA, «L’ospite divino (Gen 18,1-8)», 29.
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duti, so<o l’albero. Ritorna un albero, dove un’altra coppia si era data da fare (cf.
Gen 3); ora sono i tre visitatori che mangiano, mentre Abramo è a digiuno.
Ma, a ben vedere, noi non sappiamo ancora nulla del perché il Signore sia apparso
ad Abramo: ancora non è successo nulla. Siamo infa<i soltanto a metà dell’episodio.
• v. 9 Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda».
Che sorpresa! Questi visitatori (plurale) sanno il nome della moglie di Abramo (il
nome ‘aggiornato’, tra l’altro, al c. 17). E qui Abramo può iniziare a intuire: questi
personaggi sanno cose che normalmente non si sanno (e non si chiedono).
• v. 10 Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà
un figlio». Intanto Sara stava ad ascoltare all’ingresso della tenda, ed essa [la tenda] era die-
tro di lui [il Signore].
Di nuovo appare il singolare, in occasione della promessa. Ora veniamo a sapere
che Sara sta ascoltando all’ingresso della tenda, «dietro di lui». Chi è questo ‘lui’ al
quale si riferisce il racconto? Probabilmente si intende che i tre visitatori – il Si-
gnore – diano le spalle alla tenda. I tre visitatori danno le spalle alla tenda e non ve-
dono Sara (a differenza di noi).
• v. 11 Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene
regolarmente alle donne.
Questo è un v. di commento, che fa come una digressione destinata a noi le<ori,
dicendoci ciò che noi potevamo ben presumere: Sara ha novant’anni. Sembra un’in-
trusione indebita, all’interno del racconto, ma non è così: non fa che aumentare la
tensione e prepara il v. successivo.
• v. 12 Allora Sara rise dentro di sé e disse: «Avvizzita come sono, dovrei provare il pia-
cere, mentre il mio signore è vecchio!».
Ecco che ci viene riportato il pensiero di Sara, ciò che avviene nel suo cuore: è un
monologo interiore. È qualcosa che conferma ciò che abbiamo appena le<o al v. pre-
cedente, ma ora lo sentiamo con la voce di Sara, che ride di un riso amaro. È da una
vita intera che aspe<a un figlio, e non è mai arrivato. Chissà quante lacrime, quante
delusioni, per anni e anni (non c’erano i test della fertilità, a quel tempo). La meno-
pausa aveva ucciso ciò che era rimasto della speranza. Ora non c’è più nulla, ormai è
sterile del tu<o.
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Dicevamo più sopra che noi sappiamo bene cosa si muove so<o l’albero e cosa
nella tenda; anzi, nel cuore stesso di Sara! Ma chi, fuori di noi, ha potuto vedere e
sentire Sara con i suoi pensieri? Nessuno, stando all’ambientazione precisa, con i tre
che danno pure le spalle alla tenda. Ma a<enzione: cosa succede al v. 13?
• vv. 13-14 Ma il Signore disse ad Abramo: «Perché Sara ha riso dicendo: “Potrò davvero
partorire, mentre sono vecchia”? C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore? Al tem-
po fissato tornerò da te tra un anno e Sara avrà un figlio».
Tu<’a d’un tra<o, il Signore apre la bocca e riconosce ciò che pensavamo di aver
visto solo noi: Sara ha riso, e lui lo sa! Soltanto a questo punto capiamo l’importanza
dell’ambientazione, creata ad hoc per sortire l’effe<o a questo punto del testo. Creare
questi due punti nevralgici – l’albero e la tenda – ha preparato questo colpo di scena.
Notiamo innanzitu<o la finezza: Dio ha conosciuto per filo e per segno il pensiero
di Sara che noi abbiamo appena le<o (pensiero espresso in termini piu<osto grevi),
ma non l’ha riportato ad alta voce, in modo da offendere Abramo con parole
(«mentre il mio signore è vecchio»)! Ecco il commento di Rashi:
La Scri<ura riporta qui queste parole in modo diverso per amore della pace, perché Sara
aveva de<o: Il mio signore è vecchio!104
Ma cosa vuol dire la frase: «C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore?».
Ha almeno due sensi. Il primo è: forse che il Signore non può dare un figlio a una no-
vantenne? Ma poi ce n’è un altro: è forse impossibile per il Signore sapere ciò che ac-
cade dietro alle sue spalle, dentro la tenda, nel cuore di Sara?
E noi possiamo pensare: se il Signore è capace di intuire i pensieri che si muovono
nel cuore di Sara, figurati se non è capace di aprire il grembo di una donna anziana e
sterile! Davvero c’è nulla di impossibile a Dio, come sentiremo più volte nella Scri<u-
ra. Notiamo però ancora un particolare: anche alla fine del brano, il personaggio di-
vino non si smaschera, non esce dall’incognito: parla del Signore alla terza persona,
non dice: “c’è forse qualche cosa d’impossibile per me?”.
• v. 15 Allora Sara negò: «Non ho riso!», perché aveva paura; ma egli disse: «Sì, hai pro-
prio riso».
Sara cerca di negare, ma il Signore lo ridice: sì, hai proprio riso. Ecco: è come se la
tenda e la distanza tra la tenda e l’albero fossero scomparse. È come se tu<o fosse di-
ventato trasparente: niente si nasconde alla conoscenza del Signore.
104
RASHI DI TROYES, Commento alla Genesi, 135.
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5.3. Conclusioni
Possiamo trarre qualche conclusione, che possa servire anche per la le<ura di altri
brani.
a) Due scene, un episodio. Questo episodio è composto da due scene, come abbiamo
già de<o: i vv. 1-8 e i vv. 9-16. La prima parte appartiene al genere le<erario della
teoxenia, della visita in incognito di un dio (cf. il viaggio che Tobia fa con Raffaele al
fianco, senza sapere che sia Raffaele); la seconda parte è invece un annuncio di nasci-
ta a una donna sterile, più diffuso nella Bibbia (cf. ad es. Gdc 13; 1Sam 1; cf anche
Lc 1,5-25, benché in questo caso l’annuncio sia all’uomo e non alla donna).
Abbiamo cercato di porre la nostra a<enzione al seWing di queste due scene, che
abbiamo visto non essere un elemento accessorio del testo. La prima scena ha come
elemento preponderante l’albero so<o il quale i tre vengono accolti. Questa prima
scena, abbiamo de<o, è più ‘maschile’ – il protagonista è Abramo: più concitata, ba-
sata più sull’azione che sul dialogo. L’ospite divino viene accolto da Abramo nel mi-
gliore dei modi. La seconda scena, invece, ha come elemento archite<onico la tenda:
è più femminile, abbiamo pochissima azione e movimento, ma quasi soltanto dialo-
go, dove il protagonista è Sara.
b) Dal ‘che cosa’ al ‘come’. Avevamo notato, iniziando la le<ura, che nel v. 1 era pre-
sente un sommario prole<ico. Tu<o il racconto era anticipato all’inizio, in un titolo. E
qualcuno potrebbe obie<are: ma allora, in questo modo, non c’è nessuna tensione,
nessun interesse nel leggere il racconto! Non è così, però. Alla le<ura di un somma-
rio, invece, c’è un cambio di domanda. Chi legge non si chiede più: che cosa succe-
derà? Questo, già lo sa. Ma la suspense non diminuisce per nulla, perché nasce una
domanda molto più interessante: come questo avverrà? Come il Signore apparve ad
Abramo? La trama che ne verrà non sarà dunque di risoluzione, ma di rivelazione: è un
gioco una conoscenza, un’ἀναγνώρισις, un riconoscimento. Riconoscerà Abramo la
visita del Signore?
Alla fine di questo testo possiamo notare che l’episodio è molto solenne, perché è
la scena dell’annuncio del figlio della promessa, che (anche) noi a<endiamo dall’in-
izio del ciclo di Abramo: bene, finalmente questa promessa ha una data davanti:
l’anno prossimo105! Ma questo annuncio solenne, questo fa<o che «il Signore apparve
a lui», questo incontro con Dio, come avviene? Ecco qual è il modus operandi di Dio:
durante una scena semplicissima, un semplice pasto quotidiano. La Scri<ura non
teme di parlare di formaggio, di piedi lavati, di un anziano che corre… Nessun gesto
è eccezionale, ma parla di come Dio apparve ad Abramo, della modalità con la quale
105
Questa notizia l’abbiamo anticipata anche al c. 17. La novità di questo c. è la presenza di Sara,
alla quale viene riservato un annuncio ad personam.
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Dio si fa vicino all’uomo per parlargli: Dio lo si incontra nel quotidiano. «Chi di-
rebbe che Dio si manifesta proprio così, durante una colazione sull’erba?»106.
c) Il rapporto tra le due scene. Tu<avia, la domanda è lecita: c’è un rapporto tra una
scena e l’altra o sono soltanto accostate? Abbiamo già de<o che, se il racconto finisse
al v. 8, non sarebbe successo ancora niente, ovvero Dio sarebbe apparso ad Abramo
soltanto per scroccare un pranzo – del quale d’altronde non ha alcun bisogno, secon-
do Sal 50,12.
Dopo l’ospitalità, in una teoxenia, ci dev’essere la ‘sanzione’, ovvero il premio o la
punizione per il fa<o che la divinità è stata accolta o meno. E qui abbiamo questa
sequenza: Abramo accoglie davvero tre uomini, e quindi abbiamo la scena dell’an-
nuncio di nascita alla moglie Sara. Una conferma di questo la possiamo leggere
nell’episodio dove Eliseo e il suo servo Giezi vengono accolti in casa di una Sunam-
mita. 2Re 4,12-16. Il vocabolario è simile, com’è simile la stru<ura della scena.
La prima scena, dunque, non sta senza la seconda, e la seconda non si regge senza
la prima. Qual è dunque il senso che scaturisce dalla loro unione? La prima scena,
quella di teoxenia, serve solitamente per me<ere alla prova una persona scelta da Dio.
E possiamo dire che il patriarca supera abbondantemente la prova. Il figlio che verrà,
dunque, viene solo da una decisione divina? Oppure non è questo anche fru<o della
disponibilità di Abramo? Se nel c. 17, in fondo, abbiamo lo stesso annuncio, con
anche lì il termine dell’anno (cf. 17,21), qui abbiamo una cosa molto simile. Questo
brano aggiunge di certo questa collaborazione a<iva di Abramo, che, accogliendo i
tre, accoglie l’unico.
La promessa giunge a compimento quando Abramo fa questo gesto di accoglienza,
che è un altro modo per dire la sua fede. «Il giusto per fede vivrà» (Rm 1,17; cf. Ab
2,4). Se una coppia so<o un albero aveva dubitato della bontà di Dio e si era nascosta
da lui, ora un’altra coppia, so<o un altro albero, comincia a ‘invertire la ro<a’ e ad ac-
cogliere questi tre uomini. Se io ti accolgo in casa è perché mi fido di te.
d) Una parabola aperta. Ma la domanda che resta so<esa è questa: Abramo ha rico-
nosciuto sì o no YHWH in quei tre uomini? Li serve così bene soltanto perché sono tre
pellegrini che passavano davanti alla sua tenda nell’ora più calda del giorno o per-
ché ha intuito che in loro si celava il Signore?
Il brano non si sbilancia, resta aperto. Di certo i due vecchie<i dispongono di tu<i
gli elementi per identificarli, ma il racconto non lo dice apertamente, come fa di soli-
to (cf. ad es. Es 3,6). Eb 13,2 dirà: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola,
senza saperlo hanno accolto degli angeli», riferendosi molto probabilmente a questo
episodio.
Chissà se invece la Scri<ura non vuol restare volutamente imprecisa: Abramo ha
accolto l’uomo e Dio insieme, perché non sono disgiungibili l’uno dall’altro. Dirà
106
J.-L. SKA, «L’ospite divino (Gen 18,1-8)», 30.
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1Gv 4,20: «Chi infa<i non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che
non vede». Che il comando dell’amore sia duplice, come risponde Gesù ai farisei (cf.
Mc 12,29-31), si può già intravedere qui.
e) L’annuncio di Isacco. 21,1-7. Un anno dopo, proprio come avevano annunciato i
tre viandanti, la promessa di Dio si compie, e Sara diventa madre. Ma come chia-
mare questo figlio? יִ ְצחָ ק, Isacco! Ma cosa significa Isacco? E qui abbiamo la sorpresa.
Perché Isacco significa: ‘Lui ride’! Chi ride?
– Abramo aveva riso, quando il Signore gli aveva promesso il figlio. 17,17. Ormai
non ci credeva più, aveva quasi cent’anni!
– Anche Sara aveva riso: è impossibile che una donna di novant’anni, sterile, in
menopausa da chissà quanto, con un marito di novantanove anni possa avere un fi-
glio! È una burla!
– Ma chi è che riderà, allora? Chi è che ride davvero, in questa storia? È Dio. È Dio
che sorride. Isacco è il figlio del riso. Al di là del riso incredulo di sua madre, Isacco è
il sorriso che Dio rivolge loro. Isacco è il primo vero figlio di Abramo, è il seme con il
quale Dio comincia a mantenere la sua promessa di una discendenza come le stelle
del cielo. E Isacco è il figlio del sorriso. È il figlio della gioia. Gioia di mamma e papà,
ma sopra<u<o è la gioia di Dio.
– Non sarà l’ultima volta nella Scri<ura che si parla di questo riso di Abramo:
«Abramo, vostro padre, si rallegrò (ἠγαλλιάσατο) nella speranza di vedere il mio
giorno; lo vide e fu pieno di gioia (ἐχάρη)» (Gv 8,56). Gesù, secondo il quarto evange-
lo, considera se stesso come vero figlio di Abramo (cf. Mt 1,1-2): è per lui che Abramo
rise quel giorno107! La Scri<ura continua a leggere e rileggere se stessa108.
107
«Per il Vangelo di Giovanni, Gesù è il figlio promesso ad Abramo, è lui l’Isacco tanto a<eso che
ha causato la contentezza di Abramo» (J.-L. SKA, Abramo e i suoi ospiti, 13 n. 6).
108
Non ultimo, il riso può essere quello di ogni credente, che riconosce all’opera un Dio che fa ri-
dere Sara, che scopre la sua risata e che fa di questa risata il nome del figlio. C’è un’ironia velata, nel
racconto. Tu<o serve a spiegare perché Isacco si chiama Isacco, e da dove viene il figlio della
promessa.
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narrazione. Il senso profondo di un racconto non è fuori o so<o o sopra di esso; invece è
inseparabile dal racconto, il quale non può mai essere rido<o a una «formula».109
La verità di un racconto, il suo ‘contenuto’, è uno con la sua forma: dalla forma
emerge il contenuto. Una cosa (il contenuto, il livello di verità più profondo) è conte-
nuta in un’altra (la forma, che è il primo livello di accesso al testo).
Per usare le parole di un precursore spesso dimenticato della nuova corrente esegetica,
H. Gunkel, diremo che «la forma appropriata è l’espressione necessaria del contenuto».
Questo significa che forma e contenuto o il significato da un sono una cosa sola. Non è
possibile estrapolare il contenuto o il significato da un racconto senza correre il rischio di
distruggerlo.110
Questo racconto, nella sua fine costruzione, rivela una fine teologia insieme a una
profonda antropologia. Fino a scoprire che nelle pagine della Genesi sono già nasco-
sti i semi della nuova generazione dell’umanità che si manifesterà nella pienezza dei
tempi. Così, il cielo tempestato di stelle promesso ad Abramo sarà tu<o custodito in
quella stella che nascerà a Betlemme (cf. Nm 24,17; Mt 2,2.7.9): sarà lui il figlio della
promessa, la sua «discendenza» (Gal 3,16).
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109
J.-L. SKA, «Gen 18,1-15 alla prova dell’esegesi classica e dell’esegesi narrativa», 280. Cf. anche la
citazione di Alter alla n. 4 della stessa pagina.
110
J.-L. SKA, «Gen 18,1-15 alla prova dell’esegesi classica e dell’esegesi narrativa», 282.
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