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CORSO DI ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE 2010-2011

Appunti sommari – Dispensa n. 1

Appunti sommari sulla evoluzione del cantiere

Il cantiere, nella sua più semplicistica accezione, nasce con la necessità dell’uomo di crearsi un riparo.
L’approvvigionamento, l’accumulo e la lavorazione di materiali prelevati dalla natura per costruire un rifugio sono
i primi passaggi della formazione di un “cantiere”. Da allora, una continua evoluzione ha caratterizzato questa
attività: il periodo neolitico vedeva l’impiego di una utensileria di pietra secondo il quale pietre dure, come la
dolerite - una pietra più dura del granito - , servivano a scolpire pietre più tenere e la polvere di quarzo, che ha
proprietà abrasive, veniva utilizzata per levigare. Il passaggio ad attrezzi metallici segna una tappa fondamentale e
una semplificazione delle lavorazioni. E’ con la civiltà egizia e con le grandi opere che ha prodotto che sono
documentati, attraverso gli studi condotti su documenti storici e su rappresentazioni di monumenti in costruzione, i
primi spettacolari esempi di organizzazione del cantiere. Di quella civiltà ci rimangono le opere faraoniche, quelle
costruite in pietra, che stupiscono ancora oggi non solo per la maestosità, ma perché sono esempi di calcoli
matematici, di precisione e straordinaria tecnica costruttiva. La piramide di Keope, a Giza, vicino al Cairo, è la più
grande piramide mai costruita e la più alta opera realizzata dall’uomo fino alla rivoluzione industriale. E’ l’unica
delle sette meraviglie del mondo antico arrivata ai giorni nostri. Già il tracciamento della base, con i lati
esattamente perpendicolari, richiedeva conoscenze matematiche elevatissime e il mantenimento della geometria
durante la crescita richiedeva una precisione altrettanto elevata. Ora priva di rivestimento, la piramide venne
costruita in 20 anni (dal 2551 a.C.); la base misura 137x230 m e l’altezza, sul piano inclinato, misura 186 m. Gli
strumenti di cui disponevano gli operai erano le macchine semplici come la leva e il piano inclinato, oltre le corde,
i picchetti, le leve e altri strumenti primitivi per l’estrazione della pietra (scalpelli di rame o bronzo, molto legno e
una enorme forza lavoro). I 2.300.000 blocchi di calcare furono prelevati da una cava posta nei pressi del luogo
scelto per la piramide. Il granito della camera sepolcrale dalla lontana Assuan. Il trasporto dalla cava al cantiere
avveniva con slitte di legno trainate a mano; i materiali leggeri venivano portati a spalla o con il giogo. Gli ultimi
studi mettono in luce l’esistenza di lunghe rampe (oltre 300 metri) appositamente costruite su cui erano posti dei
tronchi che servivano a far scivolare le slitte per portare i blocchi di pietra (del peso di oltre 2 tonnellate) alle
diverse quote. Ma anche si ipotizza l’esistenza di una rampa a spirale che si sviluppava intorno alla piramide. Per
far scivolare un blocco sull’altro e giustapporlo senza uso di malta o di incastri si utilizzavano le stesse slitte. Gli
studiosi hanno stabilito che il cantiere della piramide non utilizzava schiavi ma uomini liberi assoldati da tutto
l’Egitto, che accettavano di lavorare nel cantiere perché obbligati a pagare le tasse e il lavoro (faticoso e
pericoloso) per il faraone era un modo di pagare le tasse. Si è calcolato che per la costruzione erano necessari 2000
uomini al giorno da sfamare, alloggiare e organizzare. Gli operai erano infatti alloggiati in villaggi ben strutturati
ubicati nei pressi del cantiere, dove si provvedeva anche a preparare utensili e materiali. Il cantiere era
necessariamente coordinato e ben organizzato: migliaia di operai non potevano non essere ben diretti. Gli operai
erano organizzati in squadre a loro volta divise in gruppi, con centinaia di “controllori” che annotavano su ogni
blocco lapideo la provenienza, la destinazione, la squadra addetta al traino; una netta separazione di funzioni
garantiva il corretto svolgimento del lavoro. La contabilità, il controllo, l’approvvigionamento dei materiali erano
gestiti con la massima attenzione. Le opere provvisorie, oltre le rampe, erano realizzate con pali di legno legati con
funi. Oltre la piramide di Keope, vi sono i grandiosi templi di Karnak e di Luxor (c.a. 1380 a.C.). Il primo in
particolare è denso di colonne per sostenere il peso delle lastre del soffitto: qui si hanno architravi che arrivano
sino a 9 m di luce, con una sezione di 4x1,70 m ed un peso di 170 t; ancora, il più grande obelisco di Egitto è
quello della regina Hatshepsut, a Karnak: 29,5 m di altezza e 374 t di peso; l'obelisco non compiuto della cava di
Assuan misura 41,75 m per un peso di 1200 t. Il sistema costruttivo è analogo a quella della piramide: piani
inclinati, leve corde, slitte, pali di legno e forza lavoro. Anche le imbarcazioni che solcavano i fiumi, in particolare
il Nilo, erano impiegate per il trasposto dei materiali. I tempi erano necessariamente lunghi.
Oltre le opere faraoniche vi erano i palazzi, le costruzioni ordinarie, i villaggi (non solo prossimi ai cantieri delle
piramidi) costruiti con mattoni crudi. Alcune immagini tratte dall’iconografia egizia ci mostrano la fabbricazione
di questi mattoni, fatti di argilla cruda mescolata a paglia per evitare il ritiro, formati a mano e messi in stampi di
legno di dimensioni normalizzate, e seccati al sole.

Anche in Grecia furono utilizzati a lungo i mattoni crudi insieme a ossature di legno (l’argilla cruda verrà
utilizzata in Europa fino all’Ottocento). In seguito questi materiali vennero sostituiti gradualmente dalla pietra: ad
iniziare dalla sostituzione di colonne degradate o distruttedagli incendi. Le colonne di pietra erano monolitiche o,
più facilmente a tamburo, più trasportabili e lavorabili. Ma l’impiego di queste colonne, di peso considerevole (un
tamburo può pesare 4-5 t, un architrave arriva anche a 30 t) presupponeva la presenza di apparecchi di
sollevamento adeguati, basati su pulegge e argani. Il trasporto dei blocchi avveniva sempre con slitte, rulli,
intelaiature di legno.

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Piramide di Giza (2850-2052 a.c.)

Tempio di Luxor (c. 1380 a.c.) Tempio di Karnak (c. 1380 a.c.)

Fabbricazione di mattoni di argilla in età egizia

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

Vitruvio ci illustra i sistemi utilizzati da Ctesifonte e Metagene, incaricati della costruzione del tempio di Eleusi,
per il trasporto e il sollevamento dei blocchi. La rete stradale non era sviluppata; le strade più agevoli, fatte con
lastre di pietra, erano brevi e poche, le altre erano viottoli scomodi. Il carro greco era a due ruote; quello a quattro
ruote era senza avantreno mobile ed era difficile da manovrare; veniva usato forse solo come carro funebre per
brevi tragitti.
Le murature dei templi erano realizzate con blocchi di pietra a secco e disposti con ricorsi regolari. La stabilità era
assicurata da grappe metalliche a coda di rondine, a doppia T o P, poste sui letti e nei giunti; i rocchi delle colonne
erano solidarizzati da perni di legno di cedro introdotti in una cavità praticata nel centro del tamburo e saldati con
un bagno di piombo
Per il sollevamento dei blocchi di pietra erano utilizzati corde, pinze, ulivelle e sistemi di sollevamento che
utilizzeranno anche i Romani.

Banco per la formatura a mano dei mattoni e stampi (epoca romana) (da Adam, L’arte di costruire presso i romani)

Impasto di argilla e paglia Lavorazione del pisé

Trasporto blocchi di Baalbeeck (Libano) Macchine di Ctesifonte e di Metagene (Adam)


altezza 4 m, larghezza 4 m, distanza dalla cava 25 km

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I Romani rinnovano radicalmente i sistemi costruttivi e l’organizzazione dei cantieri precedenti, sviluppando i
sistemi già in uso. L’utensileria romana si specializza e si amplia. Sembrano di invenzione romana:
- le forbici a perno al posto delle cesoie, che risultano senza dubbio note da epoca remota;
- la sega a telaio mentre le civiltà precedenti conoscevano il saracco. Sono state trovate seghe da pietra, senza
denti, che si usavano certamente con la sabbia;
- il girabacchino;
- vari tipi di lima;
- la pialla
- il sollevamento con la noria

Girabacchino Noria Cesoia


Saracco

Elenco di specializzazioni del cantiere romano

I Romani introducono su larga scala i mattoni cotti e il conglomerato cementizio, e si perfeziona l’impiego di macchine
per razionalizzare il lavoro. Testimonianza dell’elevato grado di organizzazione è la costruzione del Colosseo alla quale
presero parte 4 cantieri operanti ognuno in un quadrante dell’arena per l’esecuzione simultanea e indipendente
dell’edificio in piani sovrapposti, con una ricettività totale di 75.000-80.000 operai.
La tecnica edilizia, basata sull’uso del calcestruzzo, a realizzare l’opus caementicium (da caementa, frammenti di
pietra), e delle pietre artificiali, i laterizi, doveva essere sostenuta da una organizzazione del lavoro assai complessa e da
maestranze specializzate. Era quindi necessaria una organizzazione funzionale e flessibile, che rendesse il cantiere
economico e sicuro. In linea generale, come accade ancora oggi, un impianto ottimale aveva bisogno delle seguenti aree
di lavorazione:
• delimitazione e recinzione dell’area
• ingressi in relazione alla viabilità esterna divisi in principali (per i carri) e secondari (per i pedoni)
• distribuzione razionale di tutti i servizi inerenti la fabbrica al fine di avere un certo grado di sicurezza sul lavoro, di
avere i trasporti più brevi possibile, ed evitare false manovre e ingombri inutili.
• pesa per i carri
• baracca per l’impresa con abitazione (minima) per il guardiano
• tettoia per il deposito delle calci di dimensioni convenienti alla fabbrica da eseguire
• palchetti in legno sollevati da terra per evitare l’umidità

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

• bagnamento per la calce (bagnoli o truogoli o fosse da calce) adiacente alla tettoia di deposito della calce
• deposito dei materiali (pozzolana, sabbia, laterizi, pietrame ecc.)
• deposito dei ferri
• fucina adiacente al deposito per la lavorazione dei ferri e la riparazione degli attrezzi
• deposito del legname da cantiere
• laboratorio da falegname per la riparazione degli attrezzi e i lavori attinenti alla carpenteria
• deposito degli attrezzi
• latrine.
I depositi dei materiali dovevano trovarsi nei luoghi più convenienti per l’impiego e la conservazione: così la calce e la
pozzolana andavano presso i bagnoli, le pietre e i laterizi vicino alle andatoie, dove passavano gli operai per salire sui
ponti o i castelli, o comunque nelle vicinanze delle macchine elevatorie. Laddove non vi fosse spazio sufficiente ad
organizzare le diverse aree di lavoro venivano utilizzati gli stessi vani della fabbrica che si andava erigendo.
Tra i principali strumenti di misura utilizzati dai romani si ricordano:
riga graduata (regula o canone) che poteva essere di legno con le estremità di ferro o in bronzo; la misura corrisponde
ad un piede graduato (cm 29,57) con multipli e sottomultipli;
le squadre (normae o canone) sono di bronzo e di dimensioni variabili; sono formate da due bracci ad L e sono dette a L
o a spalla;
le false squadre o calandrini hanno i bracci articolati e consentono di riportare qualsiasi tipo di angolo nei tagli dei
conci;
l’archipendolo è un altro tipo di squadra utilizzato per verificare l’orizzontalità dei corsi (assise); è una squadra a forma
di A, in genere in legno, dall’apice della quale pendeva un filo a piombo; una tacca verticale al centro era una linea di
fede;
il filo a piombo (perpendiculum) in bronzo;
il compasso sia per segnare circonferenze ma anche per riportare le misure con estrema precisione; alcuni hanno una
chiavetta di fissaggio dei bracci, altri una forma ricurva per facilitare la presa.

Archipendolo Vari tipi di utensili

Per quanto riguarda le prime e semplici operazioni necessarie a consentire l’impianto di un’opera (sia essa un edificio,
acquedotto, strada), gli strumenti adoperati dagli agrimensori non si differenziano molto da quelli usati sino all’inizio di
questo secolo: la riga graduata, la funicella, la squadra, la funicella con due picchetti; tutti strumenti che permettono di
tracciare al suolo cerchi e archi di cerchio. Tra gli strumenti, di cui ci arriva testimonianza attraverso i reperti
archeologici e rappresentazioni, vi sono la groma e il corobate, le cui applicazioni sono complementari e costituiscono,
come si è detto, gli strumenti essenziali per l’avvio dei lavori.
Questi iniziano con l’allineamento o picchettatura, cioè il tracciamento della linea tramite funicelle e picchetti. Si
procede attraverso una successione di mire che consente di tenere i picchetti sul piano verticale. L’altra operazione è il
traguardo secondo assi ortogonali, indispensabile per tracciare le centuriazioni. Tali operazioni consentono di risolvere
la maggior parte dei problemi topografici.
La groma è uno strumento dotato di una croce a quattro bracci uguali e ortogonali da cui pendono dei fili a piombo,
formanti a due a due dei piani di traguardo. I bracci devono ruotare liberamente e per evitare l’ostacolo del piede la
groma è fissata su un braccio mobile che sormonta il piede. Una volta posizionata in prossimità di un punto prescelto,
veniva messa a piombo facendo girare i bracci. L’orizzontalità della squadra risulta comprovata se uno dei piombi
risulta parallelo all’asse del piede. Fissato lo strumento, si procede alle operazioni di traguardo, posizionando la squadra
in funzione dell’asse principale (cardo o decumano) o della direzione da seguire.
Complementare alla groma è il corobate, noto solo attraverso le descrizioni di Vitruvio. E’ destinato ai lavori di
livellamento ed è realizzato da un cavalletto (circa 6 m) dai piedi verticali. E’ provvisto in superficie di un
alloggiamento e due mirini e, lateralmente, di linee di riferimento perpendicolari alla riga e coincidenti con i fili a
piombo quando lo strumento è in posizione orizzontale. L’alloggiamento è una livella ad acqua, utile in caso di vento

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che fa oscillare i fili a piombo. La cavità veniva riempita fino all’affiorare dell’acqua. Attraverso i due mirini si
traguarda un picchetto. La differenza di quota sarà sempre uguale all’altezza conosciuta del picchetto meno quella del
corobate.

Groma Corobate

La lavorazione dei materiali:l’estrazione della pietra e la posa in opera


La pietra veniva estratta da cave appositamente aperte attraverso le seguenti fasi:
- eliminazione dello strato esterno e messa a nudo della pietra;
- estrazione, che avveniva mediante scalzamento dei blocchi utilizzando fessure naturali, ma era raro; più frequente si
operava una incisione di solchi nella roccia e si scavava a destra e sinistra dei solchi sino alla profondità voluta per il
blocco.
- si faceva poi leva con cunei di ferro, battuti con martello, o di legno molto secco e successivamente bagnato per fargli
aumentava il volume.
La capacità tecnica consentiva di estrarre non solo blocchi ma anche colonne. Le cave erano preferibilmente in
prossimità degli edifici da erigere, ma la padronanza dei sistemi di spostamento consentiva di aprire cave ovunque e di
spostare le pietre per lunghi percorsi fino al cantiere di costruzione. A parte i casi eccezionali, il trasporto avveniva su
carri trainati da buoi. Sul monte Pentelico è stata individuata una via utilizzata a questo scopo: il tracciato era pressoché
rettilineo e la pavimentazione in marmo costituiva un vero e proprio scivolo; grossi fori scavati ai lati della strada erano
gli alloggiamenti per resistenti perni di legno su cui si avvolgevano le funi che frenavano lo scivolamento della slitta.

Diversi tipi di cava e modalità di distacco dei blocchi

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

Planimetria delle cave di Cusa

Il sistema si è tramandato sino al Novecento: a Carrara, nel 1928, il monolito di Mussolini fu trasportato in modo simile.
Le colonne venivano fatte rotolare dopo aver fissato dei perni alle estremità.
L’impiego di argani e paranchi manovrati dagli uomini assicurava una forza di trazione che era moltiplicate dalle
pulegge. In cantiere i blocchi, di oltre 500 kg di peso, subivano una prima sbozzatura utilizzando cunei, seghe, scalpelli,
mazzette, ecc. Una volta squadrato il tagliapietre gli dava la forma voluta utilizzando diversi strumenti in relazione al
grado di finezza della finitura. Tra questi vi è la scalpellina, l’odierno male e peggio, attrezzo in cui i due taglienti sono
ortogonali, molto usato ancora oggi dal tagliapietre per le pietre tenere, come i tufi vulcanici.
Secondo Vitruvio gli architetti romani ripresero le invenzioni dei greci che avevano già inventato le machinae tractorie
(per lo spostamento) ed elevatorie (per il sollevamento).
Per il sollevamento veniva impiegata la ruota calcatoria, una ruota cava all’interno della quale salivano gli operai, il cui
peso, che variava in funzione del carico, metteva in movimento la ruota; potrebbe invece essere invenzione romana.
Le macchine erano principalmente finalizzate al sollevamento dei pesi ed erano basate su principi elementari.
Attraverso l’impiego della leva, del cuneo, della vite, della puleggia o carrucola (riunite anche in bozzelli), del
verricello (burbera) o argano, dei paranchi semplici e differenziali si realizzavano macchine lignee complesse,
denominate genericamente varae, che venivano impiegate da sole o ingegnosamente aggregate insieme per sviluppare
notevole energia e sollevare pesi considerevoli a notevoli altezze.
Il settore destinato alle macchine elevatorie era la parte più robusta di tutto il ponteggio ed era sistemato strategicamente
in modo da servire la maggiore area possibile.
L’energia necessaria al movimento era prevalentemente muscolare, umana (squadre di operai) più spesso che animale,
volontaria o involontaria. Quella volontaria implicava uno sforzo da parte dell’uomo, la seconda, come nel caso della
ruota calcatoria, comportava che l’energia fosse fornita solo dallo spostamento degli operai che camminavano
all’interno della ruota.
Il sollevamento avveniva con la puleggia, il sistema più semplice utilizzato probabilmente già dai greci nelle navi. La
puleggia offre una posizione di trazione molto efficace ma per contro può sollevare un carico non superiore al peso
dell’operaio.

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Macchina elevatoria con ruota calcatoria

La prima demoltiplicazione dello sforzo appare con il verricello, (tamburo ad asse orizzontale) in cui la manovella,
grazie alla lunghezza del suo braccio, o leva, che è superiore al raggio del tamburo attorno a cui si avvolge la fune,
alleggerisce lo sforzo del sollevamento richiedendo un giro ampio.
Secondo la formula
P = F (L/r) k
dove
P = carico da sollevare
L = lunghezza della manovella
r = raggio del tamburo
F = la forza esercitata
k = un coefficiente di attrito = c.a. 0,8
si ha ad esempio:
15 kg (40 cm/10 cm) 0,8 = 48 kg
cioè un carico tre volte superiore alla forza impiegata.
Per aumentare la potenza del sollevamento si ricorreva ai paranchi, un sistema costituito da più pulegge, anche riunite
in bozzelli, per mezzo dei quali la fune che solleva il masso gira con una potenza proporzionale al numero delle
pulegge.
Il tipo di paranco più semplice è costituito da due pulegge: una fissa e una mobile e ha la formula: F = (P/2) k
Moltiplicando il numero n delle pulegge si avrà F = (P/n) k

In antichità la manovella non era molto usata, ma il verricello veniva manovrato mediante sbarre sporgenti da una o da
entrambe le estremità del tamburo (il movimento in questo caso è discontinuo). La potenza della macchina veniva
aumentata sostituendo la leva con la grande ruota calcatoria, raggiungendo una potenza di decine di tonnellate.
L’abbinamento di puleggia e verricello costituisce la macchina sollevatrice ancora oggi in uso, la capra o biga, due
travi di legno sono legati in cima e divaricati in basso; vengono rizzati e tenuti in questa posizione da tiranti fissati in
sommità. Al vertice viene messo una puleggia o un bozzello. In basso è montato un piccolo argano manovrato tramite
leve che vengono alternativamente inserite nei fori del tamburo: sistema questo molto sicuro perché in caso si mollasse
la presa le leve si bloccavano contro i piedi della capra o contro la traversina. L’altezza delle capre dipende dal carico:
quelle di bassa e media potenza, essendo smontabili e maneggevoli, potevano essere installate a diversi livelli mano a
mano che si procedeva con il lavoro. L’unica accortezza era assicurare il fissaggio dei tiranti.
Vitruvio descrive chiaramente la capra: "Si prendano due pezzi di legno di misura adeguata alla grandezza dei pesi da
sollevare. Essi vengono rizzati, legati in cima e divaricati in basso. Vengono mantenuti in questa posizione per mezzo di
tiranti fissati alla sommità e disposti intorno ad essi; al vertice viene appeso un bozzello".
Nelle macchine più grandi, per le quali occorreva provvedere allo spostamento della sommità della capra, i tiranti,
che potevano essere numerosi, erano a loro volta muniti di paranchi che permettevano di accorciare o allungare i
tiranti così da abbassare o alzare la testa della capra.

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La capra Spostamento di colonne

Naturalmente la resistenza del paranco dipende da quella degli assi delle pulegge e da quella delle funi. Una corda
di canapa di 2 cm di diametro consente di sollevare un peso di 500 kg; con 4 cm si arriva a 2000 kg. Ma
quest’ultima richiede pulegge ingombranti ed è quindi preferibile usare corde più sottili e aumentare le pulegge.
Ma la capra e i suoi derivati avevano uno sbraccio ridotto ed è quindi ammissibile pensare che vi fossero delle vere
e proprie gru a braccio. Queste, a differenza di quelle moderne, avevano solo il movimento elevatorio e rotatorio
mentre quello traslatorio è attestato per la prima volta come invenzione di Brunelleschi per la realizzazione della
cupola di S. Maria del Fiore.
Per sollevare le colonne di grandi dimensioni senza il rischio di spezzarle, si può pensare, in base a quanto si
faceva nel Rinascimento, che dovessero essere usati altri sistemi. Uno era quello di imbracare la colonna entro un
telaio rigido di legno che ruotasse al piede attorno ad un asse orizzontale: un braccio verticale (a 90° rispetto al
fusto della colonna) veniva portato in posizione orizzontale da funi tese da argani cosicché la colonna assumesse la
posizione verticale.
Per sollevare i blocchi, il sistema più semplice era quello a imbraco con funi. Questo sistema non richiede la
preparazione della pietra ma richiede l’uso di leve per recuperare le corde dopo la posa del blocco. Questo limita il
peso del blocco tranne che per gli architravi che hanno il lato inferiore libero. Già i Greci, per aggirare l'ostacolo
avevano messo a punto quattro sistemi:
- i dadi esterni (tenoni), sporgenze sul blocco, sulla faccia vista e su quella posteriore, simmetrici e posti lungo
l’asse, a cui venivano legate le funi. Tali sporgenze venivano eliminate nella fase di finitura della superficie;
- le olivelle, elementi metallici inseriti ad incastro nel blocco. Erano costituite da tre barrette dal profilo
complessivo a coda di rondine, una staffa che permetteva di fissare il tutto al gancio di tiro e un asse che fungeva
da collegamento tra le barrette e la staffa. L'olivella veniva inserita in una cavità preparata dal tagliapietre dello
stesso profilo della coda di rondine. Venivano introdotte prima le barrette laterali, poi quella centrale. I fori erano
in genere cm 10x2x10 cm di profondità. Non contava tanto la dimensione della olivella quanto la resistenza della
pietra coinvolta nella presa. L’uso delle olivelle era molto diffuso per la praticità e velocità. Tra i fori per olivelle
più grandi si ricordano quelli sui blocchi di travertino del Colosseo: 22 cm di lunghezza, 26 di larghezza, 6 di
spessore;
- gli orecchioni incavati lateralmente, che non richiedevano finiture sulla pietra poiché erano nascosti dai giunti;
- gli orecchioni incavati superiormente (rari): erano canali a forma di V.
I romani ripresero i primi due sistemi e ne inventarono un altro, le tenaglie. Le tenaglie non richiedevano
l’esecuzione di tagli precisi, ma si adattavano a fori anche ridotti, purché simmetrici. Le tenaglie erano limitate a
blocchi di dimensioni modeste a causa della limitata apertura delle barre e quindi dei rischi di scivolamento. Un
primo tipo di tenaglie era a forma di X con due aste di forma arcuata incernierate al centro: le due estremità
inferiori venivano inserite in un foro della pietra; le estremità superiori erano collegate alla fune. Tirando la fune le
estremità inferiori si divaricavano aderendo per attrito alle pareti del foro (olivelle a chiusura automatica, usate
fino ai nostri giorni).
Un secondo tipo di tenaglie prevedeva di praticare due fori simmetrici sulle facce del blocco e, tirando le barre
superiori delle tenaglie, i bracci inferiori si stringevano assicurando la presa. Quando i fori venivano praticati sulle

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facce accostate dei blocchi, il sistema non lasciava tracce. Se i buchi delle tenaglie interessavano i paramenti,
questi venivano effettuati su escrescenze che, come i tenoni, venivano poi scalpellati.

Sistemi per sollevare i blocchi di pietra

I Romani utilizzarono, soprattutto per le fondazioni, il sistema costruttivo denominato opus quadratum, costituito
da blocchi tagliati a forma di parallelepipedo e disposti in filari orizzontali. I blocchi erano resi solidali sui lati
verticali e orizzontali con grappe di ferro, del tipo già visto, ma in particolare quelle a P, fissate con una colata di
piombo. I blocchi venivano collocati nella posizione esatta usando le leve per farli scivolare. Le leve si
imperniavano su fori eseguiti sulle pietre già in opera. Talvolta l'accostamento veniva effettuato dalle impalcature
con l'aiuto di fori sugli spigoli del blocco inferiore. Il furto degli elementi metallici effettuato nei secoli successivi
non ha comunque compromesso la stabilità delle murature.
Anche i fusti di colonne, come si è visto già per i Greci, erano collegati con uno o quattro perni, in relazione al
diametro e fissati con il piombo fuso..
Una rigorosa suddivisione del lavoro e una adeguata preparazione delle maestranze guidate dal capomastro
consentì ai Romani di sviluppare la tecnica costruttiva.

Sistemazione dei blocchi

Calci e malte
La malta era già stata usata dai Greci. La malta romana era costituita da sabbie più o meno fini, calce con polvere
di carbone di legna, argilla e talvolta ghiaia e mattoni pestati. Le proporzioni sono generalmente le medesime da
un capo all'altro dell'impero e da un secolo all'altro. Fu per queste malte che i romani inventarono la cazzuola, in
una forma molto vicina a quella odierna. Per ottenere la necessaria compattezza, evacuando le bolle d'aria, si usava
un pestello. Le malte per legare i mattoni sono fatte con le calci.
La calce si ottiene dalla cottura di pietre calcaree a circa 1000°C (calcinazione). Dalla cottura che prosegue
ininterrotta per diverse ore, si ottengono delle pietre polverulente in superficie, molto leggere, le quali vengono
idratate (spegnimento) per ottenere un legante.
La reazione chimica è:
CO3Ca (carbonato di calcio) + calcinazione (cottura) CO2 + CaO (anidride carbonica + ossido di calcio)
Il composto perde il gas carbonico e il prodotto che resta è un ossido di calcio, la calce viva.
L’immersione in acqua fa sciogliere le pietre liberando un forte calore e produce una pasta chiamata calce spenta.
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La reazione chimica è: CaO (ossido di calcio) + H2O da cui si produce Ca(OH)2 (idrossido di calcio o calce
spenta).
Per comodità di trasporto il fornaciaio vendeva al costruttore la calce viva. Il costruttore installava in cantiere la
fossa di spegnimento. I calcari puri erano a presa estremamente lenta e questa era una qualità molto apprezzata
perché consentiva dei lenti assestamenti della costruzione e una omogenea distribuzione delle spinte.
La presenza di argilla nel calcare ne comprometteva la qualità. L’argilla deve essere contenuta nel 20% altrimenti
il calcare non è utilizzabile per fare la calce. In relazione alla percentuale di argilla si hanno calci aeree e
idrauliche (tra l’8% e il 22% di argilla); i romani usavano solo calci aeree.
Le calci aeree che fanno presa solo in presenza di aria, hanno presa lenta e la calce spenta può essere conservata a
lungo. Le calci idrauliche fanno presa anche in presenza di acqua.
Le calci vengono utilizzate per la produzione delle malte.
Il mescolamento della malta viene fatto in cantiere su uno spiazzo di terra battuta dove viene disposta la sabbia a
cratere (diametro da 1 a 3 m) al centro del quale viene posto il grassello di calce o calce grassa (sospensione in
acqua di calce spenta) proveniente dalla fossa di spegnimento. Aggiungendo acqua e mescolando accuratamente
con la marra, una zappa con il manico lungo, si ottiene un impasto omogeneo e privo di grumi. Dopo l’impasto la
malta viene portata sul luogo di messa in opera dove verrà utilizzata per legare i giunti di pietre o mattoni, ovvero
sarà mischiata a frammenti lapidei per formare il nucleo dell’opus caementicium, oppure serviva come
rivestimento (intonaco). A questo punto inizia il lento fenomeno di cristallizzazione e presa, che consiste nella
concrezione dell’insieme, da cui il nome di muratura concreta, sotto forma di una crosta di carbonato di calcio che
fissa i granelli di sabbia e i cocci e aderisce alle pietre.

Preparazione della malta

La costruzione in muratura di mattoni


I romani inventarono nuovi tipi di costruzione, o meglio, li portarono a grande sviluppo: l'acquedotto (già noto ai
Greci), il ponte, l'anfiteatro, l'arco di trionfo, la villa. Nel campo della pietra da taglio, come si è visto, non
apportano grandi innovazioni. Di contro impiegano la muratura costituita da materiale di piccole dimensioni e
malta.
Il materiale base dei mattoni è l’argilla, un materiale eccellente poiché è plastico e malleabile imbevuto d’acqua e
conserva la forma data dall’uomo essiccando. Il suo campo di applicazioni non ha conosciuto limiti. Inizialmente,
come si è visto, formata ed essiccata al sole, ha poi rivelato l’impermeabilità dopo la cottura.
L’argilla veniva mischiata a sabbia, con funzione sgrassante, risultava meno plastica ma si riduceva il fenomeno
delle fessurazioni. Veniva formata e cotta al forno producendo i mattoni e altri prodotti laterizi.
Con l’affermazione dell’opera concreta, anche le fondazioni si fecero in opus caementicium, meno voluminose
dell’opera quadrata.
Per quanto riguarda l’alzato, tutti i muri, indipendentemente dal tipo di paramento erano realizzati in opus
caementicium: la parte interna della costruzione, quella che doveva essere il nucleo portante, era formata da scarti
o frammenti di tegole, mattoni o pietre legati con malta di calce, e costipata per renderla coerente, contenuti tra
due paramenti accuratamente realizzati. I paramenti costituivano quindi una cassaforma a perdere. Nelle
costruzioni di mediocre qualità (preimperiali come Pompei) il nucleo centrale era un miscuglio sommariamente
legato all’argilla e quindi non poteva costituire il supporto essenziale.
Talvolta uno strato di calce pura sigillava ogni strato di posa (monumenti funerari della Via Appia), talvolta era
uno strato di bipedali. Il muratore distribuiva omogeneamente a mano le pietre nel legante, ovvero, per spessori
maggiori, inseriva alternativamente malta e pietre costipando poi il tutto. E' ragionevole pensare che nel corso
della costipazione i muratori avessero l'accortezza di far uso anche di casseforme per contenere i paramenti la cui
presa non era ancora ultimata. Siccome l'uso delle casseforme era molto oneroso, sembra che la tecnica della
pestatura fosse fatta solo per i monumenti molto spessi contenuti entro paramenti molto spessi.

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La diversità tra le diverse murature quindi riguarda il paramento che poteva essere apparecchiato in modo diverso.
In termini generali il cuore delle murature rimarrà un riempimento qualsiasi, privo di rapporto con il paramento; i
muri solo di mattoni saranno, per molti secoli, un fatto del tutto eccezionale. Inoltre tutti questi paramenti, erano
destinati ad avere un rivestimento in marmo o intonaco, che copriva la ricchezza formale dell’apparecchiatura
costruttiva.
L’opus incertum, che riveste l’opus caementicium, mette in opera pietre piuttosto piccole, talvolta lavorate per il
facciavista. Raggiunge la sua più alta espressione tra il II e I sec. a.c., scomparendo progressivamente sino all’età
repubblicana, ma rimanendo per gli edifici rurali e rustici. L’abbandono della tecnica dipese in gran parte dalla
“standardizzazione” delle pietre, cosicché l’abilità manuale si ridurrà alla preparazione della malta e al corretto
accostamento delle pietre. (Santuario Fortuna Primigenia a Tivoli, fine II sec. a.c.)
L’opus reticolatum segue, (ultimo quarto del II sec. a.c.) attraverso il passaggio intermedio dell’opus quasi
reticolatum. Le pietre del paramento sono dapprima di forma poligonale variabile, e poi si regolarizzano ad avere
un paramento regolare. Le pietre quadrate sono poste in diagonale a 45°. L’uso di questa tecnica dipese dalla
disponibilità di manodopera poco qualificata utilizzata per il taglio che semplificherà il lavoro del muratore. La
posa era complicata perché le pietre non seguivano assise orizzontali; veniva comunque integrata da catene
angolari di mattoni disposti a dente di sega o in opera mista e per ricostituire un piano orizzontale venivano
utilizzati alcuni filari di mattoni; ma i muratori sapevano che l’impiego di malte di ottima qualità rendeva
indifferente la disposizione delle pietre. L’impiego di questa tecnica (limitata all’area centromeridionale) si inizia a
diradare e scomparire verso la metà del II secolo d.c., con il crescente uso del mattone (Ostia, Villa Adriana a
Tivoli).

Opera incerta e opera reticolata

L’opus vittatum, è un paramento composto di blocchetti quadrangolari di uguale altezza (circa 10-12 cm,
lunghezza 10-20 cm), spesso di tufo, detti tufelli. Nonostante la semplicità non è una tecnica molto diffusa prima
dell’età augustea (dopo il I secolo). I filari sono regolari ed orizzontali disposti su assise orizzontali. Le estremità
venivano ammorsate con grandi blocchi disposti di testa o di taglio. I giunti possono essere sottolineati a
posteriori.
L’opus mixtum, si riferisce a quei paramenti nei quali sono impiegati insieme pietre e mattoni. Le fasce alterne di
pietre e mattoni possono avere rapporti diversi sino a 1 o 2 filari di mattoni per 1 di pietra. Se in Italia i ricorsi di
mattoni interessano solo il paramento, nella Gallia attraversavano l’intera muratura costituendo vere catene
orizzontali e collegando i paramenti con il nucleo interno. Nella maggior parte dei casi queste fasce
corrispondevano ad una giornata di lavoro e lo spazio compreso tra una fascia e l’altra corrispondeva allo spazio
tra i piani dell’impalcatura, come dimostrano i fori dei travetti.
L’opus spicatum ha le pietre alternate disposte a spiga. Invece di essere disposte su filari orizzontali e poggianti sul
lato maggiore vengono messe in opera a 45°, cambiando la direzione dell’inclinazione ad ogni filare. Impiegata in
quelle regioni (vallate fluviali) dove si trovano in natura pietre piatte. La posa era molto agevole.
L’opus testaceum impiega il mattone. Fu la tecnica preponderante dell’architettura romana, soprattutto in età
imperiale, con una massiccia produzione di materiali edilizi. I mattoni, vengono prodotti più velocemente dei
precedenti materiali da costruzione e vengono messi in opera con maggiore facilità per la loro forma regolare e
l’ampia superficie portante. I mattoni erano chiamati bessales, sesquipedales e bipedales a secondo delle
dimensioni e le misure erano definite e unificate, anche se si trovano usanze diverse. Potevano essere messi in
opera direttamente o tagliati in elementi rettangolari o triangolari, adattandosi a tutte le necessità della costruzione.
Questi mattoni e i loro sottomultipli si ritrovano in tutte le parti della costruzione. Alcuni mattoni hanno sporgenze

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

che servivano a facilitare l’adesione con la malta; lo spessore variava da 3 a 4,2 cm. L’apparecchiatura aveva a
volte funzione decorativa (mattoni policromi) e non doveva essere rivestita di intonaco.

I mattoni romani

Le tecniche costruttive romane si trasferirono a grandi costruttori, quali furono i bizantini, che non introdussero
sostanziali innovazioni. Tra gli sviluppi costruttivi dell’età romana troviamo la volta, già conosciuta come
principio costruttivo, ma alla quale i Romani hanno dato un'ampiezza che non possedeva nelle civiltà anteriori.
Invece è ben possibile che i romani abbiano inventato la cupola; e ben presto ci si accorse che poteva essere
montata anche senza l'utilizzazione di impalcature.

I ponteggi o impalcature
I romani fecero progressi anche nella carpenteria. Si pensa che sia stato l'uso di immensi ponteggi, richiesti dalle
grandi costruzioni quello che permise di risolvere problemi fino ad allora risolti in modo mediocre. Il grande titolo
di gloria a questo proposito è l’invenzione della capriata e dell'impalcatura a struttura triangolare che sostituisce
vantaggiosamente gli impilamenti conosciuti prima: era la nascita della carpenteria moderna. La capriata trasmette
solo compressione nelle murature, perché tutte le spinte sono contenute dagli elementi stessi.
Analogamente a quanto avviene in epoca moderna, con il termine di ponteggi si intendono quelle strutture di
servizio (ponti) connessi al cantiere per l’elevazione dei muri. Si trattava di impalcature provvisorie necessarie agli
operai per lavorare alle altezze necessarie e ai materiali di essere deposti in attesa dell’impiego. Il termine ponte
indica solo il tavolato su cui lavorano i muratori ma il significato è spesso esteso all’intera struttura (ponteggi).
I muratori non potevano lavorare sul muro, come nelle costruzioni di pietra, ma avevano necessità di costruire
lateralmente una struttura di legno provvisoria, parallela alla costruzione e munita di piani di lavoro.
L’impiego del mattone ha molto semplificato i trasporti e le operazioni di sollevamento sino al livello di posa. Per
un edificio a due piani è inutile l’uso di macchine sollevatrici poiché i muratori possono caricare sulle spalle le
ceste con il materiale: è sufficiente una puleggia per sollevare agevolmente pesi di 10-30 kg. Qualunque sia la
costruzione, l’impalcatura è una struttura leggera destinata a sostenere il peso degli operai, degli attrezzi e dei
materiali di piccole dimensioni. E’ opportune distinguere le impalcature dai puntelli e centine, destinati invece a
reggere il peso della costruzione e che sono pertanto realizzati con legni più spessi. I ponteggi esterni erano posti
lungo il perimetro della fabbrica e si elevavano per l’intera altezza di essa, su uno o su due lati del muro. Quelli
interni erano limitati ai singoli piani. Per i muri bassi veniva utilizzato una impalcatura mobile costituita da una
tavola su cavalletti.
Quando la muratura era più alta si allestiva un ponteggio a più piani che poteva essere isolato o appoggiato
all’edificio. Al primo caso appartengono le impalcature indipendenti che devono poggiare a terra e essere stabili.
La costruzione dei ponti esterni era molto impegnativa. Essi erano composti da antenne verticali dette pertica o
candela, correnti longitudinali o traversoni, travetti trasversali e tavole o palanche.
Le antenne, che potevano essere allungate con altre antenne, in relazione all’altezza necessaria, erano composte di
due o più (max 4) abetelle unite insieme e infisse nel terreno, poggiate su una tavola di legno o masso di pietra per
allargarne il piede ed evitarne l’affondamento. L’abetella (da abete, ma in antico era il castagno, più forte e
resistente) era un palo grossolanamente squadrato giuntato ad altri con le ganasce, poste a distanza di circa 50 cm.
La distanza tra le antenne dipendeva dall’impegno della costruzione, ma in genere era intorno ai 3 m. Per la
tendenza delle antenne a conficcarsi nel terreno e per gli assestamenti del suolo il ponteggio tende a distaccarsi
dalla parete, uscendo fuori piombo. Per tale motivo si poteva dare una inclinazione verso l’interno alle antenne del
3%. Questo comportava una riduzione dei ponteggi superiori, specie per altezze elevate (il Colosseo, alto 40 m,
aveva un ponteggio a 2 m da terra largo 3 m che arrivava al coronamento a 1,80 m).

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Ad altezze regolari, corrispondenti ai piani di lavoro vengono posti elementi orizzontali che collegano le antenne
in senso longitudinale, i traversoni, e trasversale, i travicelli, che sorreggono il tavolato. Controventature diagonali
e puntelli obliqui poggianti a terra assicuravano la stabilità dell’insieme.
I ponteggi a incastro erano sostenuti dal muro stesso. Erano messi a sbalzo e i travetti che reggevano il tavolato
potevano attraversare l’intero spessore murario, costituendo un efficace ancoraggio e sostenevano il tavolato anche
dall’altra parte. I fori in cui passavano erano detti fori da ponte. I travetti potevano anche essere inseriti nel muro
in fori non passanti che venivano praticati durante la costruzione. Un’antenna poteva collaborare alla stabilità.
Veniva anche utilizzato un palo verticale con una saetta obliqua. I travetti potevano essere recuperati, oppure
venivano segati e restavano nel muro svolgendo il ruolo di catene interne al muro di collegamento tra le due
cortine e il nucleo di riempimento svolgendo una funzione simile a quella svolta nella muratura laterizia dai
diatoni e dai ricorsi di bipedali (0,60x0,60 m), che venivano messi in opera interi, incatenavano le cortine al nucleo
e ripartivano i carichi con maggiore efficacia.
Non tutti i fori da ponte che si riscontrano negli edifici antichi erano utilizzati a questo scopo (a volte sono troppo
ravvicinati, troppo piccoli e iniziano troppo in basso); alcuni si pensa fossero utilizzati per casseforme mobili per
evitare lo spanciamento dei muri in costruzione rapida.
E’ probabile che per risparmiare legname il tavolato di un piano fosse smontato e trasferito al ponte successivo col
crescere del muro, almeno fino ad una certa altezza, oltre la quale i ponti conservati dovevano essere due per
sicurezza (come è obbligatorio fare oggi, cfr. ponte di sicurezza), così un eventuale crollo del ponte superiore
veniva arrestato da quello inferiore. Le andatoie erano piani inclinati necessari all’accesso ai vari piani, in
corrispondenza delle quali si raddoppiava il ritmo delle antenne. Il castello era il settore destinato alle macchine
elevatorie, quindi la parte più robusta di tutta l’impalcatura e sistemata strategicamente in modo da servire la
maggiore area possibile.

I ponteggi

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

Le centine
Per costruire la volta il tagliapietre e i muratori avevano bisogno di un robusto supporto che avesse esattamente il
profilo della curva da realizzare: la centina. La centina è composta da almeno due archi di cerchio e da una
superficie semicilindrica detta sottostruttura, che ha la forma della volta. La centina può essere appoggiata sia
direttamente a terra, per mezzo di pali, sia nel punto di innesto della volta, risparmiando così il legno. Per
quest’ultima soluzione era necessario preparare delle sporgenze, che assumevano funzione decorativa, su cui
poggiavano le centine. Le volte di mattoni erano montate per file parallele, senza incrocio di mattoni, facendo
quindi scorrere le centine. Un altro sistema era la volta in concreto che prevedeva uno strato di mattoni quadrati
sopra la centina, che costituivano una seconda cassaforma, sul quale a intervalli regolari si montavano degli archi
di mattoni collegati tra loro da file di mattoni disposte a raggiera. Si creavano una serie di cassoni nei quali si
gettava l’opus caementicium. Si otteneva una struttura elastica e resistente. Poteva anche essere gettata
direttamente sulla centina.

Le centine

Le finiture
Gli intonaci erano di buona qualità e generalmente si componevano di tre strati sovrapposti. Il primo strato,
applicato direttamente alla struttura muraria aderisce senza difficoltà su murature di pietra o laterizie; su quelle di
argilla si devono fare dei solchi. E’ composto di calce e sabbia non vagliata, in modo che sia granuloso e con
spessore di circa 3-5 cm. Un sistema poteva anche prevedere l’inclusione di frammenti ceramici o di marmo, per
dargli solidità durante la presa, evitare la formazione di crepe e fornire aderenza al secondo strato. La seconda
applicazione, 2-4 cm, era con malta di sabbia più fine e vagliata, lisciata con il frattazzo, così da preparare per uno
strato di finitura molto accurato. L’ultimo strato, 1-2 cm, era frequentemente costituito da calce pura
accuratamente lisciata. Se al posto della calce si usava la malta, la sabbia era molto fine o sostituita con calcare,
gesso o marmo polverizzato. Su questo strato potevano essere applicati i pigmenti per la decorazione.
Lo stucco: con il termine di stucchi si intendono tutte le decorazioni a rilievo fatte con malta. Quello bianco, con
una miscela di calcare e polvere di marmo, era più nobile perché evocava il marmo. Se i rilievi erano molto
accentuati, la maggior parte di volume era realizzata con malta di sabbia o tegole fratte e solo lo strato più
superficiale era fine. A volte era necessario una struttura di supporto formata da chiodi di diversa lunghezza o
cavicchi di legno, inseriti in profondità nella muratura. Le lastre di marmo erano molto spesse e quindi
autoportanti anche se lo strato di lastre era comunque legato alla muratura con grappe. La solidità dipendeva dal
peso della lastra.

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Il cantiere della cupola del Pantheon (cfr. F. Lucchini, Il Pantheon, Carocci, Roma 2000)
La cupola del Pantheon, capolavoro dell’architettura romana (costruito da Agrippa nel 27 a.c., commissionato da
Adriano, diametro 43,30 m) è formata da un’opera cementizia che si alleggerisce via via che si sale. La centina di
legno era probabilmente poggiata a livello del piano d’imposta dell’emisfera. La centina funzionava
essenzialmente come una cassaforma e aveva le sagome dei cassettoni predisposte. La tecnica di costruire per
anelli sovrapposti lascia supporre che la volta fosse autoportante. Quindi fosse sufficiente una struttura leggera.
Dopo il montaggio degli archi meridiani in legno la superficie fu chiusa gradualmente con le sagome dei
cassettoni, secondo la cadenza d’esecuzione dei lavori. Ogni strato veniva deposto quando il precedente iniziava
ad indurire e quindi offriva una certa capacità di resistenza. Appena il calcestruzzo faceva presa la cassaforma
veniva smontata e gli operai lavoravano alla finitura della superficie.
Alla quota di circa m 30 la costruzione della cupola proseguiva arretrando di 3 m il filo verso l’interno. Fu elevato
il doppio anello di muratura piena, senza più archi o volte di scarico all’interno della muratura, presentando
all’estradosso un primo risalto verticale. Successivamente si fecero i gradoni anulari che consentivano la riduzione
dello spessore. Questa parte della cupola gravava sul muro sottostante e la compattezza del conglomerato
assicurava la resistenza della muratura in aggetto.
L’esecuzione prosegue con altri due anelli realizzati con calcestruzzo di mattoni e frammenti di tufo leggero. Poi
gli anelli furono realizzati con calcestruzzo di tufo e lava, con cavità e aspetto spugnoso. La lava è prodotta dal
rapido raffreddamento del magma di superficie, è resistente come la malta e le asperità superficiali garantiscono
l’adesione. Tali strati, alternati a tufo leggero arrivarono sino ad un angolo di circa 43°, poco prima dell’ultimo
gradone, oltre il quale la calotta si riduce al minimo spessore di 1,50 m.
Da questo punto la cupola, ormai in forte aggetto fu eseguita deponendo strati orizzontali tra le due superfici
dell’intradosso e dell’estradosso. Sull’ultimo strato venne posto uno strato di mattoni semilateres (triangolari)
disposti a squame, ricoperto da uno strato di opus signinum (malta formata da un impasto di calce e sabbia)
costipato con battitura. La costruzione fu completata sino all’oculo dove il cerchio fatto di mattoni bipedali legati
(alto 1,40 m) conclude al costruzione. L’anello è una sorta di arco orizzontale resistente alle forze di
compressione. In sintesi, gli strati di cui è composta la cupola sono i seguenti:
1, uno strato di opera cementizia per il massiccio di fondazione
2, una gettata di opera cementizia a scaglie di tufo e travertino fino alla sommità dell’ordine
3, una seconda gettata in opera cementizia con tufo e mattoni sino all’innesto della volta
4, il primo anello della cupola realizzato con opera cementizia e frammenti laterizi
5, un secondo anello in cui ai frammenti di laterizi si sostituiscono mattoni e frammenti tufacei
6, la calotta terminale con blocchetti di tufo e lava alveolare.

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

Il cantiere medievale era un luogo di apprendistato non solo delle maestranze ma anche dei giovani tecnici. Erano
ignoti i concetti di tensione e resistenza dei materiali, mentre, si conosceva, oltre il principio della leva e del piano
inclinato, il principio della composizione delle forze. Una testimonianza eccezionale delle tecniche di cantiere, di
misure e costruzione delle antiche cattedrali si trova nelle 33 tavole del taccuino di Villard de Honnecurt redatto a
partire dal 1235.
Il cantiere medievale evidenzia un’ulteriore distinzione di funzioni, rispetto al cantiere romano, con separate
competenze amministrative, tecniche e decorative. In questo periodo il cantiere è organizzato in maestranze più o
meno specializzate (muratori, scultori, carpentieri) la cui origine risale all’organizzazione del lavoro presso i
Romani. Ogni maestranza era guidata da un capomastro, che poteva assumere funzioni direttive più vaste
all’interno del cantiere. I cantieri medievali più significativi sono quelli delle grandi cattedrali.
Al cantiere della cattedrale erano chiamate tutte le forze economiche, intellettuali e lavorative del territorio. La
produzione medievale aveva tempi lunghissimi: passavano decenni, talvolta secoli, tra il momento in cui si
decideva di erigere una cattedrale e il suo compimento. Si ingaggiava, infatti, molta manodopera non specializzata
reclutata tra gli abitanti i quali prestavano la loro opera, distratti dalle attività lavorative ordinarie.
Di fronte alla realtà organizzativa medievale, la committenza, realisticamente, gestiva i lavori appaltandoli per fasi
della durata di diversi anni (tracciamento, scavo e fondazioni; elevazione di muri e pilastri; costruzione delle volte;
realizzazione della facciata) e dando di volta in volta incarico ai tecnici considerati adeguati per quella particolare
opera (muratore, lapicida, carpentiere, scultore, scalpellino). Questo, anche in assenza di un piano complessivo
chiaro dei lavori al momento dell'inizio dell'opera: nel caso del duomo di Milano, solo dopo la conclusione dei
lavori di fondazione si cominciarono a concepire gli alzati e il dimensionamento dei pilastri.
Si fa stretto il rapporto tra il progettista e il cantiere; egli diviene anche costruttore, poiché lavorava sul posto dove
veniva realizzata la sua opera.
I tempi di costruzione erano lunghi, spesso si protraevano oltre la morte dell'architetto. Spesso si lavorava senza o
con pochi disegni tecnici e ciò non consentiva ad altri di proseguire i lavori secondo un'idea prestabilita.
L'architetto realizzava disegni o modelli (di contenuto non necessariamente tecnico), essenzialmente per
comunicare le proprie idee alla committenza ed averne il gradimento; i disegni avevano perciò una funzione
propagandistica più che tecnica. Ai modelli veniva demandato il delicato compito di fermare un'idea originaria,
seppure vaga, e di provare a servire da testimone che, probabilmente, architetti diversi si sarebbero passato. Essi
mostravano piuttosto "l'edificio che si aveva in mente di costruire, piuttosto che l'edificio che sarà costruito”; non
erano perciò diretti alle maestranze. Il disegno architettonico è una traccia da seguire nella realizzazione e non, in
senso moderno, la prefigurazione del costruito. La costruzione per addizione e l'assenza di un'idea globale iniziale,
portava con sé la possibilità di realizzare la parte che si stava costruendo prendendo a modello la stessa parte di un
edificio già costruito e che aveva dato buona prova di sé, sia per il gradimento da parte del popolo sia per il
comportamento statico. Quando vi erano disegni d'insieme si trattava quasi solo piante, mentre le sezioni erano
rare; perciò il disegno in pianta dominava il cantiere medievale così come dominerà quello rinascimentale, nel
corso del quale la decisione sugli alzati evolveva durante il processo di costruzione. La produzione di disegni
diventa notevole quando occorreva rappresentare elementi decorativi: si realizzavano spesso disegni in scala al
vero, dai quali lo scalpellino poteva ricavare sagome.
Le unità di misura erano variabili da regione a regione e ciò creava problemi sulla trasmissibilità di informazioni
sotto forma di misure assolute dell'edificio. Non venivano usate nemmeno le scale di rappresentazione, ossia il
rapporto che lega dimensionalmente l'oggetto disegnato all'oggetto reale. Almeno apparentemente, in quanto la
maggior parte dei disegni architettonici gotici si è scoperto basarsi su rapporti duodecimali (1:24, 1:36, 1:48).

Il cantiere della cupola di Santa Maria del fiore (cfr. Ippolito, La cupola di Santa Maria del Fiore, Nis,
Roma 1998)
La cupola (1420-1436, diagonale ottagono di base 44,93 m) concluse il lungo iter di costruzione della chiesa
fondata nel 1296 su disegno di Arnolfo di Cambio. Era un cantiere di grande importanza e dimensione tanto da
richiedere la carica di Ufficiale della cupola, titolo che veniva assegnato a quattro membri della corporazione
dell’Arte della Lana, con durata semestrale, e con il compito di redigere rapporti periodici sullo stato di
avanzamento dei lavori e sul proseguimento, sorvegliare l’operato dei provveditori della cupola con i quali a volte
collaboravano e accompagnare i consulenti sul cantiere. I provveditori della cupola (Brunelleschi, Ghiberti e
Battista D’Antonio) sovrintendevanono l’andamento dei lavori accertandosi che le maestranze si attenessero
scrupolosamente alle indicazioni di progetto di cui loro stessi erano autori, mentre l’attività costruttiva vera e
propria era affidata a 8 maestri muratori eletti. D’Antonio, che aveva grande pratica di cantiere, si occupò di
vendita e acquisto di materiale e macchine, e di controllo di alcune maestranze.
Un cantiere di tali dimensioni sollevava molti problemi sul trasporto e messa in opera dei materiali. Su entrambe
le questioni Brunelleschi inventò nuovi sistemi. Dal 1433 egli divenne il solo responsabile del progetto. Il ruolo
assunto segnava una rottura con l’organizzazione corporativa del lavoro e si affermava una nuova figura
professionale, quella dell’architetto con ingegno, tecnica, pratica di cantiere oltre che competenze teoriche e
progettuali.

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La cupola venne realizzata senza armature; a motivare la scelta contribuirono il peso delle future vele che
avrebbero reso le centine difficilmente stabili, i problemi di reperimento di legname, il costo e l’ingombro
eccessivo delle centine per la movimentazione di uomini e macchine. La costruzione senza centine avvenne a
condizione che ogni piano di posa formasse un anello chiuso (è una cupola a padiglione ma, per evitare le centine,
viene costruita come una cupola di rotazione), in grado di sostenersi al momento della chiusura e tutt’al più
vincolato da sostegni parziali nelle fasi intermedie. Il tamburo è alto 13 m e spesso 5 m. La cupola è concepita
come struttura pesante e non spingente (a sesto di quinto acuto). A partire da 3,50 m la cupola è a doppio guscio,
divisa cioè in due calotte di diverso spessore distanziate da una intercapedine che accoglie le scale e, a diversi
livelli, tre camminamenti anulari. E’ innervata da 8 sproni angolari e 16 mediani, a cui le due calotte sono
strutturalmente collegate in una coesione strutturale tra settori (h dell’imposta della cupola da terra m 54,60
distanza tra gli spigoli opposti m 55, peso della cupola c. tonn 37.000, n. di mattoni impiegati c. 4.000.000).

E’ un cantiere difficile per il movimento di maestranze e macchine e per la realizzazione dell’autoportanza della
cupola. Elementi realizzati fuori opera e assemblati sul posto, unificati per tipo e dimensione, come i macigni di
rinforzo, dimostrano la razionalità del metodo costruttivo. L’insieme delle lavorazioni faceva capo ad un cantiere
grande ai piedi della cattedrale e altri microcantieri vicini per le specifiche esigenze. Per la cupola vi erano
probabilmente 8 cantieri, autonomi anche nelle macchine. Questo consentiva anche di non avere un peso eccessivo
su un unico punto dell’impalcatura. L’altezza crescente dei ponteggi metteva a rischio la vita degli operai e, oltre
una paga maggiore, erano state predisposte alcune minimali misure di sicurezza quali la realizzazione di parapetti
o il divieto di bere vino.

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

Incerti oggi sulle opere provvisionali, si concorda sulla presenza di un ponteggio interno a sbalzo, a circa 54 m di
altezza, che costituisce il cantiere base della fabbrica, realizzato in legno e sostenuto da grandi travi inserite in
buche pontaie. L’aggetto era di circa 6-8 m, ed era rinforzato da puntoni a sostegno di travicelli e tavole
d’impalcato. Per i piani superiori è probabile che gli anelli di ferro murati e ritrovati servissero a sostenere
impalcati superiori sempre a sbalzo. Anche all’esterno i ponteggi erano a sbalzo e fissati con anelli di ferro.
Tra le macchine individuate nella costruzione della cupola vi è una gru, attestata per la prima volta come
invenzione di Brunelleschi, che aggiunge al movimento elevatorio e rotatorio quello traslatorio. Gli unici disegni
tecnici di questa invenzione, che hanno consentito la realizzazione del modello, sono di Bonaiuto Ghiberti e
Leonardo da Vinci. Questo tipo di gru con i tre movimenti fu poi dimenticato e reinventato verso la metà del XIX
secolo. Tutti i congegni di Brunelleschi sfruttano i principi conosciuti già dagli antichi: il verricello, il piano
inclinato e la leva. L’argano a tre velocità sfrutta la capacità di autofrenamento della vite di manovra: azionata da
una coppia di buoi ha un meccanismo tale che consente di invertire il movimento senza cambiamento di direzione
dei buoi.
Gru girevole della lanterna: la lanterna fu costruita dopo la morte di Brunelleschi (1446) con l’impiego di
macchine da lui concepite. La gru girevole era disposta al centro dell’occhio della cupola, con la circonferenza di
base interna al perimetro ottagonale sul quale si elevano le pareti della lanterna. La gru presentava un braccio
girevole di 360°, con un sistema a vite che consentiva oltre alla rotazione l’escursione trasversale del carico. La
piattaforma di appoggia veniva sollevata tramite viti. La gru alzava e posizionava con precisione i blocchi di
marmo che formano la parte inferiore della lanterna.
Argano a tre velocità: inventato da Brunelleschi è formato da una robusta struttura saldamente ancorata a terra.
Mediante due ruote orizzontali solidali, che operano in alternativa ognuna dotata di ingranaggi cilindrici ruotanti
(per ridurre gli effetti di attrito), un albero verticale aziona un albero orizzontale cilindrico che presenta due diversi
spessori e trascina, mediante un sistema rocchetto-ruota dentata, un altro albero cilindrico orizzontale di spessore
ancora diverso. Gli alberi cilindrici orizzontali, attorno ai quali sono avvolti i canapi di sollevamento girano con tre
diverse velocità (corrispondenti a tre diverse potenze) che vengono selezionate in relazione al carico da sollevare.
La macchina, fornita di un dispositivo di sicurezza per impedire l’inversione della rotazione degli alberi, è azionata
da una coppia di buoi. Alla base dell’albero motore si osserva un dispositivo senza fine che consente di alzarlo e di
abbassarlo con la conseguenza di ingranare l’una o l’altra delle ruote orizzontali con i pioli del tamburo. Questa
operazione consente di invertire il senso di rotazione degli alberi cilindrici orizzontali (passare alla salita e discesa
del carico) senza bisogno di staccare gli animali dal giogo e riattaccarli in senso contrario.

Gru girevole della lanterna e argano a tre velocità

Gru girevole brunelleschiana con albero: utilizzata sui ponteggi allestiti sulle murature. E’ dotta di una ruota
verticale a pioli che aziona un verricello che solleva piccoli pesi e di una slitta vite per spostare lateralmente il
peso sollevato.
Gru girevole: misurava almeno 20 m di altezza. Probabilmente fu utilizzata nella fase di chiusura dell’occhio
della cupola. L’albero verticale della gru, manovrato da un lungo timone, poteva ruotare di 360°. Il carico e il
contrappeso venivano spostati simultaneamente in modo da mantenere sempre l’equilibrio sulla verticale.
La ruota la piede serviva a ridurre l’attrito provocato dalla rotazione sulla piattaforma di base. Il carico veniva
sollevato e abbassato mediante una vite verticale dotata di tre tenditori per mantenere in piano il carico. Per il
funzionamento della gru erano necessarie quattro squadre di operai: una faceva ruotare la gru, due azionavano le
viti per lo spostamento radiale del carico e del contrappeso, una azionava la vite verticale.

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Gru girevole brunelleschiana e gru girevole

Tracciamento: sul tracciamento dei profili angolari si fanno solo delle ipotesi. E’ probabile che vi fossero delle
“centine” non come struttura di sostegno ma come guida nella costruzione, relativamente ai profili angolari, a
misura di quinto acuto. Anche la modalità del controllo geometrico della curvatura mano a mano che andava
avanti il cantiere è solo una ipotesi. E’ accertato l’uso del calandrino e dell’archipenzolo insieme, come strumenti
di controllo locale per le maestranze, probabilmente per determinare la direzione dello spinapesce: appoggiando la
base del triangolo alla corda blanda e imponendo al filo a piombo di passare per la linea di fede in mezzeria, esso
disegnava le linee meridiane che i mattoni verticali avrebbero rispettato, così come le corde blande disegnavano
sulla superficie delle vele i paralleli. Il controllo geometrico doveva ancora prevedere, con frequenza costante, per
gli otto settori della cupola il controllo della curvatura della volta, della convergenza al centro dei giunti laterali
dell’apparato murario e dei piani verticali degli sproni, dell’inclinazione costante per ogni letto di posa che si
conformava secondo una superficie conica. Nei documenti il termine "centina" non assume significato di struttura
di sostegno, come nella consueta accezione, ma di guida della costruzione entro limiti geometrici e dimensionali
prefissati, di riferimento provvisorio per lo sviluppo delle superfici e degli spigoli della muratura. All’avvio dei
lavori sono messe in opera otto centine a materializzare i profili angolari della prima sezione della volta. Non resta
testimonianza del modo di sostenere le centine e di posizionarle correttamente rispetto ai riferimenti di quota e di
orientamento; non è escluso che esse fossero vincolate a una struttura centrale avente funzione di coordinamento
strutturale e geometrico. In ogni caso è evidente che a guidare la curvatura delle vele dovessero esserci negli
angoli elementi conformati secondo criteri di geometria elementare, disposti su piani verticali orientati radialmente
e incidenti su un comune asse centrale. Per le modalità di tracciamento dei profili d'angolo, le ipotesi sulle
procedure di controllo geometrico attivate in corso d'opera riconoscono sia l'adozione di sistemi di riferimento
assoluto che locale. L’impiego di fili di ferro nel modello dimostrativo comporta nella realtà, in ogni caso,
problemi non irrilevanti per l’accessibilità allo spazio interno, per il movimento dei fili a causa dell'ostacolo di
macchine e impalcature. Per un'interpretazione realistica della prassi esecutiva appare più immediato far
riferimento a sistemi di controllo locale, gestiti dalle maestranze sul piano di avanzamento del cantiere, ai vari
livelli. Vi è però, tra i documenti dell’epoca, una disposizione che fissa nuove modalità nella guida del
tracciamento attraverso l'uso del “gualandrino con tre corde”. Il termine "gualandrino" corrisponde con buona
probabilità a quello di calandrino, lo squadro per scalpellini e falegnami utilizzato come misuratore o rapportatore
di valori angolari tra direzioni prefissate che, evidentemente secondo la prescrizione, erano da materializzare “con
tre corde per ognuna delle otto vele”. Più plausibile invece risulta una più agile e diretta utilizzazione del
gualandrino da parte delle maestranze come strumento di guida locale, come metodo di allineamento, oltretutto
funzionale ad un avanzamento del cantiere in otto settori distinti, seppure contemporanei e coordinati. In ogni caso
le operazioni di tracciamento, precedendo la messa in opera dei materiali, richiedevano un attento coordinamento
nell'imposizione di riferimenti su diversi settori della struttura; controllo di curvatura della volta con centine-guida
angolari, controllo della convergenza al centro dei giunti laterali dell'apparato murario e dei piani verticali degli
sproni, controllo dell'inclinazione costante per ogni letto di posa, dovevano essere effettuati con frequenza per
evitare discontinuità strutturali e per compensare eventuali irregolarità. L'uso del gualandrino, per i profili interno
ed esterno della cupola, può aver avuto come riferimento sia le stesse centine angolari, opportunamente
presegnalizzate secondo intervalli angolari costanti riferiti al teorico centro di “quinto acuto”, sia le direttrici
orizzontali delle vele evidenziate da fili tesi tra punti posti ad uguale altezza in corrispondenza degli spigoli, sia le
direzioni radiali di convergenza al centro dell'ottagono. In particolare, l'inclinazione della superficie di posa di

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

ogni strato murario doveva essere misurata in corrispondenza delle centine d'angolo secondo la normale alla curva.
Mantenuta costante nel procedere lungo le vele, essa poteva consentire di conformare il letto di posa secondo una
superficie conica, di cui è manifestazione evidente l'andamento a ''corda blanda" assunto dai filari dei mattoni.
Letti conici e corda blanda: se i letti di posa fossero stati piani, data l’inclinazione della curvatura della cupola, i
mattoni si sarebbero intersecati negli spigoli dell’ottagono secondo angoli minori di 180° determinando un
raccordo di non facile esecuzione. I letti di posa sono continui anche negli angoli, cioè non vi sono interruzioni o
discontinuità nei raccordi tra le vele; questo ha comportato un andamento dei filari a corda blanda, non previsto
inizialmente: ogni letto di posa determina una superficie conica con il vertice giacente sull’asse verticale
dell’ottagono. La corda blanda ha quindi motivazione per la continuità strutturale degli sproni d’angolo ed inizia a
circa 1/3 dell’imposta della cupola. Si presenta con chiarezza dopo il secondo camminamento e si tratta quindi di
un provvedimento mirato a risolvere un inconveniente. Nell’ultimo settore l’inclinazione dei letti di posa
raggiunge un valore critico per la tendenza allo scorrimento degli strati murari. Gli ultimi strati di posa arrivano a
una inclinazione di 60°. Fino al livello degli architravi dei passaggi nel primo camminamento, la costruzione è di
muratura di pietra. Dopo ha inizio una muratura regolare di mattoni con letto di posa inclinato di 10°. Si ha quindi
un cambio sul tipo di cantiere: più vincolante e di lenta attuazione il primo, flessibile e agile il secondo, che sfrutta
la modularità e organizza meglio il lavoro. I primi mattoni hanno spessore di 6 cm - poi 4,5 cm, con giunti
orizzontali di 2-2,5 cm, poi 1,5-2 cm, lunghezza 35-36 cm.
La costruzione della scala interna doveva avvenire insieme a quelle delle calotte anche per offrire una salita alle
maestranze e ai materiali di piccole dimensioni. Le due calotte sono progressivamente rastremate verso l’alto,
riducendone la sezione con riseghe. Dopo il secondo camminamento viene avviata una sostanziale revisione della
tipologia costruttiva. L’inclinazione del letto di posa era diventata pericolosa (20°) e ha richiesto l’adozione di un
particolare accorgimento costruttivo: lo spinapesce. L’inclinazione del letto di posa infatti comporta un aumento
dell’azione del peso dei materiali, portando ad un valore critico il grado di resistenza a trazione della malta. Ogni
settore di filare orizzontale suddiviso da mattoni di spina di ampiezza costante corrisponde a cantieri di lavoro
indipendenti, serrati tra spalle verticali già stabilizzate. Altrimenti non sarebbe stato possibile chiudere l’intero
perimetro di un filare tra i costoloni in una giornata. Solo il primo filare aveva bisogno di un supporto provvisorio.
I mattoni verticali sono orientati secondo piani meridiani convergenti al centro dell’ottagono. La tecnica dello
spinapesce si infittisce sino ad avere distanze di 75 cm. Per la presa rapida era usato un grasselllo di calce o malta
contenente sabbia finemente vagliata.

Sezione della calotta e spaccato prospettico del settore sud tra primo e secondo camminamento

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La cupola di S. Maria del Fiore: corda blanda, spinapesce, costruzione.

Il cantiere del Rinascimento si avvale di una maggiore meccanizzazione. Le macchine avevano ancora ingranaggi
di legno, che dovevano essere mantenuti con frequenza e ne limitava la velocità e la potenza. La scoperta del
sistema biella-manovella ( meccanismo che trasmette il moto e lo modifica da circolare ad alternativo e viceversa)
migliorava i sistemi di trasmissione ma comportava numerosi inconvenienti: gli assemblaggi mobili erano poco
agevoli e grandi gli attriti; era noto il problema dei 'punti morti' alle due estremità del diametro situato sul
prolungamento della biella. Fa quindi la sua comparsa il volano, al fine di mantenere il movimento annullando i
punti morti. La pratica di cantiere ha comunque continui perfezionamenti, anche se sono impiegati gli stessi
principi dei secoli precedenti, che – con i dovuti sviluppi - resteranno immutati sino ad oggi
Gli eventi eccezionali del cantiere rinascimentale: Dopo tre secoli ancora si parlava del trasporto ed
innalzamento dell’Obelisco Vaticano, avvenuto il 10 settembre 1586. E’ il primo architetto della Rev. Fabbrica di
San Pietro Andrea Busiri a pubblicare nel 1886, in occasione del centenario, un testo in cui narra la grandezza e le
difficoltà della vicenda.
Fu Sisto V a volere l’impresa e affidò l’incarico al quarantaduenne Domenico Fontana.
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Appunti sommari – Dispensa n. 1

La Basilica vaticana è esempio di ottima organizzazione tecnica, lavori straordinari, opere meccaniche.
Un altro nome di rilievo, quaranta anni dopo è del maestro Nicola Zabaglia, che riporta l’evento; egli è stato
l’inventore dei ponti di servizio della Basilica; al suo ingegno sono dovuti i difficili sistemi di legatura, gli innesti,
i nodi nei canapi e delle funi alle quali era affidata la vita degli operai. I suoi successori sono stati altrettanto
capaci. Egli inventò anche le giunzione e innesti delle travi armate, e ideò molte macchine (l’antenna mobile per
innalzare le statue dei colonnati senza ponte, il carriolo scorrevole e molte altre attrezzature)
L’obelisco era alto 24 metri, a forma piramidale con la base di m 2,67 e la sommità di m 1,78, sopra uno zoccolo
di m 8,87, peso circa 350 tonnellate. Molti si presentarono per l’impresa con molte invenzioni ma Fontana si
presentò con un modello di legno con dentro una guglia di piombo e altri congegni. Il suo metodo fu ritenuto più
facile e sicuro. L’obelisco giaceva poco distante dalla basilica a cira 257 m di distanza..
Fontana calcolò che fossero necessari 40 argani e cinque leve per il primo distacco, mosse ciascuna da quindici
uomini. Per avere una uniformità di trazione fu costruito un castello di legno (simile a quello utilizzato per
l’innalzamento), fu cerchiato l’obelisco da cerchi di ferro (peso totale 381 tonnellate).
L’impresa si svolge tra aprile e settembre ed è documentata da opere a stampa e incisioni. Fontana coordina le fasi
esecutive, l’impiego di apparati efficienti e attua una sequenza di operazioni flessibile. I materiali vengono
approvvigionati da fonti diverse. Il castello di Fontana, costruito presso la sagrestia di S. Pietro, dove vi è anche
una lapide a ricordo, è una grande struttura di legno. L’obelisco viene fasciato con stuoie e tavole per limitare i
danni dovuti alle manovre. La guglia viene isolata dalla base e sostenuta da un tavolato sospeso al castello. L’area
di lavoro era isolata da una grande steccato per evitare il disturbo da parte dei curiosi. Fontana, dalla sommità del
castello, dirige il lavoro di 907 uomini, 150 cavalli, 40 macchine. La prima fase prevede di rimuovere la guglia dal
sito originale, sollevarla dal piedistallo, inclinarla e adagiarla sulla slitta. Questa viene poi trascinata fuori dal
castello e condotta alla piazza. Viene poi smontato l’impalcato per ricostruirlo sulla piazza. Agendo poi in senso
inverso l’obelisco viene riportato in verticale.
Ma prima fu necessario eseguire una fondazione su pali di castagno lunghi 6 m per la presenza di acqua nel
sottosuolo

Traslazione dell’obelisco vaticano

L’introduzione dell’alimentazione a vapore prima e l’impiego del c.a. poi, segnano il radicale e definitivo
mutamento del cantiere edilizio, decretando la sparizione di alcune attrezzature e il declino di alcune figure
professionali comuni. Molte delle macchine edili oggi utilizzate sono impiegate in modo sperimentale già dalla
seconda metà dell’Ottocento.
Nell’età moderna si moltiplicarono, ad opera degli stessi architetti progettisti, macchinari e mezzi d’opera atti a
conferire maggiore snellezza alle operazioni. Sino alla seconda metà dell’800 però, nonostante lo sviluppo delle
macchine, il cantiere non si discostava molto, nei metodi di lavoro, da quello romano e medievale. La costruzione
delle grandi opere infrastrutturali, l’avvio della produzione industriale delle materie prime, lo sviluppo delle
tecnologie hanno promosso la meccanizzazione del cantiere a cui ha molto contribuito l’introduzione della
macchina a vapore, poi dei motori a combustione interna e dell’energia elettrica.
Da questo periodo ha inizio una trasformazione del cantiere, a livello europeo, in particolare per le grandi opere
infrastrutturali. Il continuo miglioramento delle tecnologie produttive, delle caratteristiche del ferro e la
produzione dell’acciaio (1840: ferro pudellato, e poi il ferro laminato quale miglioramento del ferro pudellato per

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ragione fisica, 1856: acciaio mediante convertitore Bessemer, 1864: acciaio con forno Martin Siemens, 1878:
forno Thomas) inducono una importante trasformazione dei sistemi costruttivi che incidono sulla organizzazione
del cantiere.
Un esempio di tale trasformazione fu il Crystal Palace (J. Paxton, 1851), che è portato come primo esempio di
completa prefabbricazione, di concezione modulare dell’edificio, di rapidità di montaggio, di recupero del
materiale. Dopo il concorso del 1850 che non diede esiti soddisfacenti, la giuria indisse un nuovo concorso tra le
imprese. Fox, della Fox & Anderson, fece i calcoli del progetto di Paxton, un costruttore di serre. L’edificio era
composto di 3300 colonne di ghisa di altezza variabile tra 4,40 e 6 m, di diametro costante, variava solo la sezione
in relazione ai carichi. La modularità era fondata sulla dimensione delle lastre di vetro delle tamponature (1,24 m),
le più grandi mai realizzate sino ad allora.
Sono di questo periodo le grandi opere infrastrutturali (ponti in acciaio: Clifton Bridge, 1856-65, ponte sul Firth of
Forth, 1878, ponte di Brooklyn, 1883), canali navigabili (Canale di Suez, 1869) grandi dighe e gallerie (diga di
Assuan, 1898-1902, traforo del Sempione, 1888-1906) che rivoluzionano completamente i sistemi cantieristici
grazie anche all’impiego di complessi macchinari per il sollevamento e martinetti idraulici.
La trasformazione è quindi dovuta anche all’introduzione nella seconda metà del XIX secolo di nuovi materiali: il
c.a. e l’acciaio divengono di uso corrente dal 1900.
La gru idraulica Armstrong, Mitchell & Co, di cui rimane un esemplare nell’arsenale di Venezia, rappresenta una
notevole espressione tecnologica nell’ambito delle macchine di sollevamento ottocentesche. Commissionata dalla
Marina Militare alla ditta inglese nel 1883 è una gru di grande portata che nasce dalla esigenza di movimentazione
di grandi carichi nella cantieristica navale. Di tali gru ne furono prodotte altre otto, istallate nei più importanti
arsenali del mondo. La gru nell’arsenale veneziano sembra essere l’unica rimasta.
La gru Armstrong è caratterizzata da due elementi: la struttura di base fissa e quella in elevazione mobile; la prima
è un basamento in muratura di mattoni e pietra d’Istria nel quale sono collocati i macchinari per il movimento e la
ralla di brandeggio. La parte in elevazione comprende la piattaforma girevole, il braccio reticolare in ferro, il
contrappeso e i sistemi di sollevamento principale - a sollevamento idraulico, portata 160 tonn., sbraccio di 12 m e
altezza di sollevamento di 15 m - e secondario – a funzionamento meccanico con un paranco, portata 40 tonn.,
sbraccio di 15 m e altezza di sollevamento di 30 m.

Gru Armstrong

La costruzione della torre Eiffel (Cfr. B. Lemoin, G. Eiffel, La Tour de 300 métres, Taschen, 2006)
“La costruzione della torre avviene a velocità record, tanto più che il numero di operai presenti sul cantiere non
supera ma le 200 unità. Le fondamenta vengono realizzate in soli sei mesi; mentre altri 21 sono sufficienti per
realizzare il montaggio degli elementi metallici. La fiducia razionale che Eiffel nutre nelle leggi della fisica, unita
alla sua vastissima esperienza di costruttore, danno al cantiere una connotazione di tranquillità spassionata che
ricorda assai da vicino i cantieri dei grandi viadotti metallici.

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CORSO DI ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE 2010-2011
Appunti sommari – Dispensa n. 1

Il 26 gennaio 1887, data di inizio dei lavori, l'ingegnere può contare su una fabbrica di comprovata qualità: la fabbrica
di Levallois-Perret,sede dell'azienda, in cui si svolgerà gran parte del lavoro sugli elementi di ferro forniti dalle
acciaierie Dupont e Fould di Pompey, a Meurthe-et-Moselle. I componenti vengono tutti approntati in officina dai
«ragazzi addetti ai lavori a terra»: vengono calcolati, smistati, tagliati, perforati con precisione millimetrica prima di
essere portati sul cantiere già assemblati in elementi che misurano pochi metri di lunghezza. In caso di difetti, seppure
minimi, gli elementi non vengono ritoccati sul posto ma rinviati immediatamente in fabbrica. Una quarantina
d'ingegneri e disegnatori preparano i 700 disegni d'insieme e i 3.600 disegni dettagliati necessari per fabbricare i 18.000
pezzi che compongono la torre. Due terzi dei 2.500.000 rivetti che fissano gli elementi vengono installati a Levallois da
una squadra di 150 operai.
Per due anni e mezzo il cantiere è un vero e proprio spettacolo per il pubblico e la sua perfezione anticipa quella del
colosso che si sta creando. Prima vengono gettate le solide fondamenta: i pilastri poggiano su blocchi massicci sostenuti
da uno strato compatto di ghiaia, alcuni metri sotto il livello del suolo. Ad ogni spigolo metallico corrisponde un blocco,
collegato agli altri mediante dei muri. Le 7.341 tonnellate della torre esercitano, pertanto, una pressione al suolo di 3- 4
chilogrammi per centimetro quadrato. Sul lato della Senna le fondamenta si spingono oltre il letto del fiume; per
costruirle vengono adoperati dei cassoni metallici a tenuta stagna, iniettati con aria compressa, che consentono agli
operai di lavorare sotto il livello dell'acqua. Eiffel aveva già avuto occasione di ricorrere a tale espediente nel
1857,durante la costruzione del ponte di Bordeaux.
Inizialmente i piloni vengono montati a sbalzo e poi saranno sostenuti da dodici impalcature provvisorie di legno, alte
30 metri.
Al livello del primo piano, vengono costruite delle nuove impalcature alte 45metri che sorreggono ognuna una delle
quattro grandi putrelle orizzontali. Oltre il primo piano, i montanti si sostengono autonomamente.
Gli elementi vengono sollevati con speciali gru a vapore che crescono contemporaneamente alla torre, utilizzando le
guide destinate agli ascensori.
La parte più delicata dalla costruzione è il collegamento delle quattro putrelle grandi del primo piano. Eiffel ha previsto
delle «cassette di sabbia» per regolare con approssimazione millimetrica la posizione della carpenteria metallica,
facendo discendere progressivamente gli angoli. Due dei pilastri sono regolabili anche in altezza grazie a martinetti
idraulici.
In ogni basamento viene ricavato un alloggiamento in cui installare un martinetto con corsa di 9,5 centimetri e una forza
di 800 tonnellate, azionato da una pompa a mano mobile. Con questo accorgimento è possibile variare leggermente la
sede degli angoli e regolare con estrema precisione la coincidenza tra i quattro pilastri e la piattaforma del primo piano.
I martinetti svolgono un ruolo temporaneo: una volta collegati i quattro pilastri, saranno sostituiti da cunei fissi in
acciaio. Contrariamente a quanto vuole la leggenda, perciò, la torre non è montata su martinetti.
Le putrelle, preforate, vengono fissate utilizzando dei rivetti. Le coppie di elementi vengono fermate con spine coniche
conficcate con la mazza, che le forza nella posizione definitiva. In seguito vengono installati dei bulloni provvisori che,
a mano a mano che procedono i lavori, sono sostituiti da rivetti inchiodati a caldo. Raffreddandosi, i rivetti si
contraggono garantendo così il fissaggio degli elementi. La posa di ogni rivetto richiede l'intervento di una squadra di
quattro operai: il «garzone» riscalda il rivetto in una piccola forgia fino a renderlo incandescente; il «reggichiodi» lo
spinge nel foro tenendolo per la testa già formata; l'addetto alla chiodatura ne colpisce l'estremità opposta per formare
l'altra testa e il «punzonatore» schiaccia il rivetto a colpi di mazza. Per ogni pilastro sono al lavoro sei squadre, più altre
due oltre il secondo piano.
Bene inquadrati da un'equipe di veterani agli ordini dei tecnici Compagnon e Milon, i 117 addetti alla chiodatura e gli
«spazzacamini» reclutati tra i carpentieri riescono rapidamente a controllare le vertigini, nonostante le acrobazie
necessarie e i rigori dell'inverno 1888-1889. Lavorano nove ore al giorno e, in estate, arrivano fino a 12. Convinti di
essere sottopagati, gli operai entrano in sciopero nel settembre 1888 e poi di nuovo tre mesi più tardi. Eiffel negozia, ma
si preoccupa anche di migliorare le condizioni di lavoro degli operai per i quali installa una mensa al primo piano. Un
solo incidente mortale funesta il cantiere: un operaio italiano precipita fuori orario di lavoro e alla vedova viene
discretamente corrisposta una indennità.
Il montaggio dei quattro pilastri comincia il l° luglio 1887 e il 7 dicembre 1887 vengono installate le putrelle grandi del
primo piano. Il secondo piano viene raggiunto il 14 agosto 1888 e il 31marzo 1889 la torre è completa.
Il successo non è soltanto tecnico, ma anche popolare. La torre diventa immediatamente oggetto di ammirazione in
quanto straordinario successo, opera degna di fare da ingresso monumentale all'esposizione, ma anche ammirata come
capolavoro assoluto di ingegneria. Nel corso dell'esposizione la torre riceve due milioni di visitatori. Eiffel viene
insignito della Legione d'onore: a 57 anni è multimilionario e può permettersi un sontuoso palazzo privato a Parigi,
dove regnerà da patriarca su una numerosa famiglia, e svariate abitazioni a Sèvres, a Beaulieu sulla Costa azzurra e a
Vevey in Svizzera.Viene anche eletto presidente della Società degli ingegneri civili”.

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La torre in costruzione e gli elaborati grafici

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CORSO DI ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE 2010-2011
Appunti sommari – Dispensa n. 1

Castello a ruote Ponte su cavalletti Carrucola di ghisa con staffa di


ferro

Gru capra americana

Alcune attrezzature e strumenti del cantiere ottocentesco

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L’uso del cemento armato, anche se non cambia radicalmente il cantiere che rimane con una connotazione
artigianale, costituisce comunque una svolta radicale nei sistemi costruttivi. Importato alla fine del 1800, dopo le
prime reticenze finalizzate a non indebolire l’industria marmifera e quella di produzione dei laterizi, il cemento
armato si diffonde perché è una materia prima nazionale a basso costo, è di semplice e veloce esecuzione e
richiede anche molta mano d’opera, quindi non modifica troppo l’organizzazione dei lavori, infine, è sicuro contro
il fuoco e terremoti.
Dopo i primi brevetti depositati (di Coignet, di Monier, di Cottancin, che sperimentano diverse composizioni,
diverso rapporto acqua cemento, diverse modalità di messa in opera e di armatura) l’ingegnere Hennebique,
brevetta nel 1892 una tecnica, perfezionata successivamente, che apre verso il sistema a scheletro. Egli introduce
le staffe e la sagomatura dei ferri agli appoggi. Il motto della sua impresa (plus d'incendies desastreux) è un
evidente riconoscimento di immunità dal fuoco del materiale La sua capacità imprenditoriale gli consentì di
estendere il suo metodo su gran parte del territorio nazionale: egli diffuse il suo metodo attraverso una rivista,
congressi e una organizzazione incentrata sulla presenza di agenti e concessionari, anche se il calcolo dipese per
molto tempo dalla casa madre. L’impresa Porcheddu era la concessionaria del sistema Hennebique per l'Alta Italia.
In contemporanea si andava sviluppando una teoria scientifica sul c.a. e dai primi del ‘900 anche una qualche
elementare normativa che acquisiva alcuni regolamenti comunali (sia per i parametri da adottare che per il
confezionamento ed esecuzione). Inizialmente l’impiego del cemento armato era limitato ai solai su murature
portanti; le strutture complete si utilizzavano solo per stabilimenti industriali. (il mercato orientale e la struttura
ardita dei silos granari Genova, 1900-1901, manteneva il primato dell'opera in c.a. più grande del mondo realizzata
dalla impresa Porcheddu). L’Esposizione universale di Parigi del 1900 decreta il riconoscimento ufficiale del c.a.
anche perché le opere demolite vengono sottoposte a indagini. Grande impulso alla diffusione di questo materiale
in Italia è data dal terremoto di Messina del 1908, soprattutto nell'edilizia civile (struttura antisismica = telai in c.a.
tamponati con murature piene).
Cenni su alcuni esempi singolari:
• Ponte Risorgimento (1911) 100 m di luce e 10 di freccia per molto tempo fu il più lungo del mondo. Concepito
da Hennebique, realizzato da Porcheddu. Spessore del ponte 50 cm all'imposta e 20 alla chiave. La struttura
cellulare del ponte era rigida e leggera, con spalle anche cellulari fondate su fondazioni tipo Compressol. Vennero
impiegati ferri semitondi, brevetto Porcheddu. Per accelerare l’opera furono utilizzati due sole sezioni di tondini di
ferro e si adottarono varie travi prefabbricate a piè d’opera che sorreggevano la soletta stradale. La centinatura
provvisoria, per cautelarsi rispetto alle piene del Tevere e a possibili cedimenti in fase di getto, era costituita da
una struttura in c.a. poggiante su 16 pali in c.a. infissi nell’alveo del Tevere e tra loro collegati da un telaio di travi
che superiormente realizzava una poligonale su cui si dispose la casseratura lignea per il getto. Hennebique
disarma la volta prima del tempo previsto.

Hangar di Orly, (Fressynet 1921-23)


Struttura coperta da una volta parabolica nervata: 40 onde di m 7,50 di larghezza e 86 m di portata per ciascun
hangar; profondità dell’onda m 5,40 che si riduceva a 3 m in chiave. Le onde erano contrastate da tiranti
(longitudinali) di 14x14 cm messi in opera ogni 10 m.
Le onde poggiavano su una piastra di fondazione spessa 1 m e posta a 2 m di profondità. La disponibilità dei
mezzi d’opera ha determinato la forma e la possibilità realizzativa.

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CORSO DI ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE 2010-2011
Appunti sommari – Dispensa n. 1

Fu scelto un calcestruzzo molto compatto, fluido per poter riempire le pareti della cassaforma molto ravvicinate e
a rapido indurimento per poter riutilizzare presto la cassaforma. La cassaforma era costituita da tavole di abete di
35 mm di spessore, montate su telai con interasse di 90 cm.
L’arco della centina funzionava come un arco incernierato, ma prima del getto era incastrato agli appoggi formati
da una struttura mista di legno e cls e tirantati con fasci di cavi. Gli elementi di legno erano assemblati con i
chiodi. Quindi si otteneva una struttura pratica ed economica. Il peso della cassaforma era di 130 t. Essa si
spostava di 7,50 m su binari e, scorrendo su binari verticali, si abbassava di 11 m; così si poteva svincolare dal
getto e riposizionare nella nuova posizione.
La costruzione di un’onda era fatta in 5 fasi: su piedritti di 2 m di altezza erano costruiti elementi di 17 m in
aggetto sui quali si costruiva la volta di 75 m di luce e lunga 144 m, con moduli di 7,50 m.
Il lunedì mattina si scasserava un’onda; nel pomeriggio la cassaforma era pulita e allestita per l’onda successiva. Il
martedì si metteva in opera l’armatura, il manto esterno e si cominciava il getto che durava sino a giovedì. Durante
la presa si eliminava il manto esterno, si puliva e si sistemavano i telai per le aperture laterali della base. Si
ricominciava il lunedì mattina.
Al concorso parteciparono molte imprese, ma la scelta fu fatta in ragione del budget di spesa e dei tempi di
realizzazione.
Il complesso stabilì un record mondiale per le dimensioni, per il poco volume di cls in rapporto alla superficie
coperta, per la ridotta mano d’opera e la rapidità d’esecuzione. Furono sperimentati i cementi a rapida presa e
l’impiego industriale di casseforme.
Furono distrutti dall’aviazione americana nel 1944.

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Oltre il cemento armato, sono la prefabbricazione in officina, i getti meccanizzati e il sistema lift-slab che
contribuiscono alla trasformazione del cantiere del Novecento. Dal 1935 i primi grandi cantieri che utilizzano la
prefabbricazione sono essenzialmente francesi; ma dopo la 2° guerra mondiale si avrà uno sviluppo a scala maggiore
anche in URSS e in altri paesi europei; dal 1950 si diffonde l’uso di casseforme tunnel e del sistema lift-slab. Una delle
prime applicazioni di quest’ultimo sistema fu per l’edificio delle missioni russe a New York di Skidmore, Owings &
Merril. I tempi di esecuzione di un piano completo furono di tre giorni per la costruzione a terra e di 1 giorno per il
posizionamento mediante sollevamento con martinetti idraulici lungo i due nuclei centrali degli elementi di
comunicazione verticale e di servizio realizzati in c.a. realizzati con casseforme marcianti. I procedimenti
industrializzati per la produzione edilizia riguardarono prima gli elementi costruttivi e, in seguito, coinvolsero l’intero
organismo.
Ma nonostante queste grandi trasformazioni, fino alla metà del ‘900 il cantiere edile in Italia era poco meccanizzato e
basato prevalentemente sulla forza lavoro, nonostante che nello stesso periodo altri settori industriali e i cantieri di
opere civili già usufruissero di mezzi e tecniche rinnovate sotto il profilo industriale. I fattori di questa lenta
trasformazione sono legati, in Italia, al tipo di conduzione e all’ampiezza delle imprese, al basso costo della
manodopera e al ritardato sviluppo sociale ed economico del paese.
Dopo l'interruzione del secondo conflitto mondiale il cemento armato diviene il principale protagonista dei cantieri: la
rapidità esecutiva che abbassava i costi di produzione e il contenuto sviluppo della industria siderurgica italiana lo
rendeva il materiale più utilizzato, anche se prevalentemente nei solai in abbinamento ai laterizi. D’altronde i solai
laterocementizi sono stati un importante campo di sperimentazione, insieme ad altre linee di ricerca finalizzate a rendere
spedita la costruzione in c.a.; tra queste di particolare interesse sono le ricerche che riguardano le casseforme, la
prefabbricazione a piè d'opera o in officina.
La trasformazione strutturale che ha subito il settore edilizio dal 1800 ad oggi ha costituito comunque la premessa per lo
sviluppo di una edilizia con maggiori livelli di industrializzazione.
L’opportunità di produrre in officina un organismo edilizio si rintraccia, in verità, sin dal 1727 quando da New Orleans
furono inviate nelle Indie occidentali case smontabili in legno. Il procedimento divenne realtà concreta nella seconda
metà dell’800, anche se la produzione industriale era volta a organismi con carattere provvisorio o con destinazioni
particolari. Nello stesso periodo iniziò il rinnovamento delle attrezzature domestiche con i primi blocchi-cucina in
ghisa, antesignani dei moderni “blocchi funzionali”. Anche il procedimento a “ballon frame” (S.W. Snow, 1833) ha
contribuito, in particolare per la costruzione in legno, allo sviluppo della industrializzazione e di conseguenza della
normalizzazione ed unificazione.
I massicci interventi per l’edilizia residenziale promossi in tutti i paesi industriali nella seconda metà del Novecento,
nonché la realizzazione di grandi opere infrastrutturali hanno condotto prima le grandi imprese, poi le medie e le piccole
al lento superamento di una organizzazione artigianale per avviarsi verso una nuova struttura più vicina al modello
industriale. In ciò spinta anche dall’organizzazione industriale che è stata più veloce nelle imprese produttrici di
elementi costruttivi (laterizi, blocchi di cls, profilati metallici, profili per serramenti e serramenti monoblocco,
carpenterie di legno e metalliche, pannelli solaio, pannelli tramezzo, pilastri i travi in acciaio o in c.a. ecc).
L’industrializzazione edilizia ha dapprima interessato i grandi cantieri infrastrutturali e poi la costruzione di edifici.
Attualmente il cantiere è basato essenzialmente sulla meccanizzazione, ma utilizza ancora in larga misura il lavoro
manuale specializzato; si utilizzano lavorazioni in opera, a piè d’opera, fuori opera e, un carattere prevalentemente
artigianale permane nelle piccole e medie imprese italiane.

Gli anni cinquanta e il grande cantiere dell’INA Casa

L’edilizia dell’INA Casa, esito della legge promossa da Fanfani “Provvedimenti per incrementare l’occupazione
operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori” ed approvata nel febbraio del 1949, oggi appare come il più
organico intervento di edilizia pubblica che l’Italia abbia prodotto.
Ripercorriamo gli aspetti principali. Il lento riprendersi dell’Italia dalla guerra evidenziava una condizione sociale,
economica ed abitativa particolarmente grave, che veniva più tardi confermata dal censimento del 1951: la carenza di
abitazioni, avvertita già prima del conflitto, si aggiungeva agli alloggi distrutti o danneggiati; ma vi era anche era uno
stato di povertà diffusa e di precarie condizioni igieniche, con abitazioni prive di acqua potabile e insalubri, con alti
indici di sovraffollamento in molta parte del territorio nazionale, in particolare nel Mezzogiorno, con una
disoccupazione che si aggravava ogni giorno di più e una forte tendenza all’emigrazione. Attraverso un programma di
“solidarietà umana e giustizia sociale”, che prevedeva un meccanismo di finanziamento, principalmente a carico di
lavoratori dipendenti,1 datori di lavoro e Stato, ci si proponeva di contrastare la disoccupazione creando occasioni di
lavoro nella realizzazione di case per gli stessi lavoratori; si sarebbe con ciò avviato un processo di sviluppo dell’intero
comparto edilizio, sfruttandone la sua peculiarità di essere, fra le attività produttive, quella che in maggior misura
genera produzione anche nei settori affini, coinvolgendo numerose categorie di lavoro - dalla manovalanza generica, ai


Estratto da «L’Industria delle Costruzioni», n. 368, 2002 pp. 106-113. Il lavoro è stato svolto all’interno di un gruppo di ricerca coordinato dal prof.
S. Poretti e composto da R. Capomolla, T. Iori, S. Mornati, R. Vittorini.
1
“La tassa per il lavoratore non arriva a pareggiare la spesa per l’acquisto di una sigaretta al giorno”, cfr. l’INA-CASA al IV Congresso Nazionale di
Urbanistica, Editore Società Grafica Romana, Roma 1953, p. 26.

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CORSO DI ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE 2010-2011
Appunti sommari – Dispensa n. 1

fabbricanti di oggetti di arredo, ai dipendenti degli enti pubblici -, e contribuito in larga parte ad alleviare la grande crisi
delle industrie. Occorreva “smuovere il sistema economico italiano, ridargli tono, un po’ di energia e di fiducia”.2
Nei primi tre anni di attività e dopo circa trenta concorsi saranno 1300 i professionisti coinvolti nella progettazione; ma
alla fine dei due settenni di attività, molti di più - e molti saranno giovani - parteciperanno all’attuazione del Piano,
occupandosi non solo della progettazione, ma della direzione lavori, delle ispezioni e dei collaudi. 3
Alcuni dati sono significativi dell’entità del piano Fanfani: nei due settenni sono stati aperti 20.000 cantieri, che hanno
offerto lavoro stabile a 40.000 lavoratori edili all’anno, corrispondente al 10% dell’occupazione nell’intero settore delle
costruzioni. Su 7995 comuni italiani, oltre 5036 sono stati interessati dall’iniziativa. L’attività dell’INA Casa che, nel
1950-51 rappresentava circa il 54% dell’edilizia economica a partecipazione statale, si assesterà, nel decennio
successivo, al 10% delle abitazioni complessivamente realizzate nel Paese. 4 Nel Mezzogiorno, dove l’obiettivo, e unica
regola del piano, era quello di attribuirgli un terzo del contingente totale delle somme disponibili, si registrerà una
maggiore incidenza, arrivando sino al 18,5% in Calabria.

Il versante circoscritto dell’industrializzazione


Nei primi anni del dopoguerra la ricostruzione edilizia sembra soffrire non solo per gli ingorghi burocratici
dell’iniziativa pubblica, ma anche per la difficoltà degli organi statali a coordinare gli sforzi, pubblici e privati, e
renderli operativi; si sente, insomma, la “necessità di un piano” che eviti gli sprechi delle risorse e dia impulso alle
realizzazioni. Gli esiti di questo ‘stato confusionale’ si riflettono sui livelli occupazionali, che si mantengono bassi, e i
sistemi per contrastare il fenomeno registrano infelici espedienti: a Milano, vengono demoliti vecchi tratti dei bastioni e,
solo dopo qualche mese, la stessa mano d’opera è utilizzata per lo sgombero delle macerie; a Roma, rivela
«L’Europeo», si dà lavoro ai disoccupati impiegandoli in inutili movimenti di terra.5
La Ricostruzione potrebbe rappresentare occasione di progresso dell’industria edile, ma i primi segnali sono declinati
verso i metodi costruttivi cosiddetti ‘tradizionali’: strutture portanti di mattoni o telai di cemento armato. 6 La
prefabbricazione è ancora molto lontana da sviluppi significativi e poco si conosce delle più avanzate esperienze
straniere. In questo contesto si colloca un settore di ricerca - fertile ma, per la verità, circoscritto, anche geograficamente
al nord Italia, dove è Milano ad assumere un ruolo trainante - che, in linea con quanto avveniva in Europa, affronta
l’emergenza della ricostruzione incentrando l’interesse verso l’industrializzazione dell’edilizia e coagulando gli studi
intorno ai concetti di unificazione, coordinamento dimensionale modulare, prefabbricazione e produzione di serie.
La sperimentazione di nuovi sistemi costruttivi si abbina, in quel torno di tempo, all’allestimento di mostre, alla
formazione di commissioni di ricerca e di associazioni con l’unanime finalità di modernizzare la realtà costruttiva
italiana ed accrescerne i livelli di produttività. Molte sono le iniziative che aprono ai temi della industrializzazione:
concorsi, convegni, costruzioni dimostrative.7 Nella formazione universitaria si avviano i corsi di Organizzazione del
Cantiere - il primo corso di Organizzazione del Cantiere si accende nel 1955 alla Facoltà di Ingegneria del Politecnico
di Milano - incentrati sulla razionalizzazione dei procedimenti costruttivi e sul trasferimento in edilizia di metodologie
industriali più spesso applicate in altri settori produttivi.
Sul piano della pubblicistica, dal 1946 fino ai primi anni cinquanta, vedono la luce numerosi periodici dedicati al tema,
tra i quali spicca la rivista “Cantieri”, e rivolti anche alle esperienze straniere. Il periodico cesserà le pubblicazioni nel
1950, segnando l’inizio di un ripensamento del mondo accademico e professionale sui pionieristici e vivaci tentativi di
promuovere in Italia una reale cultura dell’industrializzazione.
Nel ridimensionamento della prospettiva si approfondiscono comunque gli studi mirati a perseguire maggiori economie,
migliorando l’attività cantieristica e la gestione del progetto: quindi sull’istruzione della manodopera, la
razionalizzazione del cantiere, lo sviluppo della meccanizzazione nell’ambito dei tradizionali metodi costruttivi, su una
più adeguata preparazione degli elaborati e gestione degli appalti.

2
Cfr. R. Purpura, Le case per i lavoratori. Il Piano Fanfani, Jandi Sapi Editori, Roma 1950, p. 10.
3
Poco dopo l’avvio del piano, risultano essere 6200 i professionisti italiani, su 17.000, che lavorano per l’INA Casa: Cfr. l’INA-CASA al IV
Congresso, cit., p. 29.
4
Cfr. P. Di Biagi, La città pubblica e l’INA Casa, in P. Di Biagi (a cura di), op. cit., pp. 17-18.
5
M. Mazzocchi, Un primo bilancio della ricostruzione, in «Cantieri» 1946, n. 4, pp. 2-4.
6
Ivi.
7
Nel 1953 a Milano si assemblano i 1100 pezzi della prima costruzione industrializzata italiana (sistema Bigontina), portati in cantiere con 82 tragitti
di un rimorchio. Per una più ampia ricostruzione della situazione edilizia in Italia nel dopoguerra cfr. S. Poretti, La costruzione, in F. Dal Co (a cura
di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento, Electa, Milano 1997, pp. 268-293.

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Studio di movimenti: traccia di mani che portano un
fazzoletto al naso

Movimenti di un muratore e di un manovale poco pratico del


lavoro. I movimenti del primo sono visibilmente essenziali,
confusi quelli dell’apprendista

Sulla base delle previsioni programmatiche, il milione e duecentomila vani che intende costruire l’INA Casa farebbero
ipotizzare uno slancio verso una vasta prefabbricazione e, comunque, l’incoraggiamento alla modernizzazione dei
procedimenti costruttivi: “Senza dare la quantità di milioni di metri cubi di sabbia, ghiaietto e pietrisco, delle centinaia
di migliaia di tonnellate di calce viva, cemento e gesso, dei milioni di mattoni sia pieni che forati, delle migliaia di
tonnellate di ferro per cemento armato ed usi vari, delle migliaia di metri cubi di legname, ecc. ecc. dobbiamo però
mettere in evidenza che i due milioni di gradini per scale, il milione e mezzo di serramenti esterni, e le quattromila unità
servizi, se unificati, possono far risparmiare ingenti cifre nella produzione di serie”.8 Al professionismo del settentrione
che reclama sostanziali innovazioni, si affiancano voci autorevoli, spesso isolate, della cultura architettonica che, più
prudentemente, invocano la razionalizzazione di alcuni prodotti edilizi, sia per offrire un esempio di buona
amministrazione del pubblico denaro,9 sia per incoraggiare quel moderato percorso di innovazione che l’INA Casa
sembra aver affrontato; infatti “ha già unificato, nelle sue prescrizioni, l’altezza dei piani, da pavimento a pavimento: in
rapporto a questa determinazione e in relazione ad essa ha unificato le dimensioni delle finestre. Ma da queste si
derivino unificazioni di davanzali, di balconi (lastre e balaustre) di avvolgibili, ecc. ecc. Eppoi, unificate le altezze, si
unifichino finalmente le scale, balaustre, strutture, ecc. ecc.”.10
Agli appelli volti a promuovere l’industrializzazione dell’edilizia, che rientreranno nell’arco di pochi anni, e a quelli per
la modernizzazione del cantiere, che invece gradualmente troveranno maggiore applicazione, soprattutto
nell’incremento dei livelli di meccanizzazione, fa riscontro la realtà italiana che presenta caratteri completamente
difformi da quelli necessari a rinnovare l’organizzazione produttiva del comparto edile.
“All’Ina-Casa abbiamo scelto di continuare a lavorare in modo tradizionale, di mantenere il cantiere tradizionale” ha
dichiarato di recente Guala,11 riconfermando non solo l’originaria vocazione occupazionale del Piano Fanfani e la
necessità di utilizzare immediatamente le risorse disponibili, ma manifestando la continuità con i criteri che avevano
ispirato i primi passi della ricostruzione.
Al congresso dell’U.I.A., che si svolge solo pochi mesi prima della approvazione della legge Fanfani,12 incentrato sul
tema del rapporto tra architetti e industrializzazione, la delegazione italiana afferma che l’esuberanza di mano d’opera,
oltreché di materiali tradizionali, aveva fortemente orientato le linee strategiche della ricostruzione, consentendo una
risposta immediata e concreta, anche se tale scelta aveva contenuto la sperimentazione sull’industrializzazione in ambiti
molto ristretti. Ma questa, affermano i fautori del ‘progresso tecnico’ è “la voce di Roma” e non quella del Nord Italia
“che certo ha qualcosa da dire in campo di industria edile”.13

La realtà italiana e il Piano Fanfani


Ma qual’era la situazione della maggior parte dei cantieri italiani che affrontava la ricostruzione? La ripresa dell’attività
edilizia, interrotta durante il conflitto, richiedeva impegno e tempestività, ma poteva contare su una manovalanza
generica e numerosa. Inoltre, la struttura economica delle imprese, già prima della guerra, era molto frammentaria:
quelle iscritte ai Sindacati costruttori erano più di 40.000, pari a circa un’impresa ogni 1000 abitanti; di queste, un
ingente numero era rappresentato da imprese a dimensione familiare, sparse per il territorio, le quali possedevano

8
M. Mazzocchi, La legge Fanfani per l’industrializzazione edilizia, in «Cantieri», 13, 1948, pp. 1-2.
9
Cfr. G. Ponti, Finestre tutte uguali nelle case del piano Fanfani, in «Corriere della sera», 25 agosto 1948
10
Cfr. Id., Efficienza architettonica del Piano Fanfani e i suoi sviluppi sul piano della produzione industriale, fasc. allegato alla rivista
«Domus», 1950, n. 248-249.
11
Cfr. P. Di Biagi, P. Nicoloso (a cura di), Intervista a Filiberto Guala, in P. Di Biagi (a cura di), op. cit., pp. 135-139.
12
Il congresso si svolge a Losanna dal 28 giugno al 1 luglio 1948.
13
M. Mazzocchi, L’architetto e la industrializzazione della costruzione, in «Cantieri», n. 11, 1948, pp. 2-4.

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CORSO DI ORGANIZZAZIONE DEL CANTIERE 2010-2011
Appunti sommari – Dispensa n. 1

attrezzature estremamente modeste e adottavano metodi costruttivi e gestionali tradizionali. Una rilevante quantità era
anche costituita da imprese di medie dimensioni, in grado cioè di gestire contemporaneamente due o tre cantieri, ma
anche queste con scarsità di macchinari, peraltro poco specializzati e poco aggiornati. Infine, le poche grandi imprese
erano impegnate essenzialmente nel laborioso programma di realizzazione delle infrastrutture, che avrà un più corposo
sviluppo nella seconda metà degli anni cinquanta.14
Il panorama tecnologico più consueto che offrivano i cantieri italiani in quegli anni era costituito quindi da qualche gru,
molti montacarichi, qualche impastratrice, semplici macchine per lo scavo e per il trasporto, molti uomini; inoltre, era
completamente assente qualsiasi tentativo per pianificare le lavorazioni e migliorare l’organizzazione del cantiere. I
metodi costruttivi proseguivano con le tecniche più usuali, che implicavano, dunque, murature di mattoni o strutture di
cemento armato, prevedendo l’adozione di alcuni elementi prefabbricati, ma confermando sostanzialmente il carattere
artigianale e preindustriale del cantiere.
Il Piano Fanfani, consapevole dello “stato di infantilismo dell’industria italiana nel produrre elementi prefabbricati di
caratteristiche accettabili”,15 intende affrontare il problema della casa puntando sul coordinamento tra i diversi soggetti
del cantiere: dai progettisti alle stazioni appaltanti, dalla direzione lavori ai collaudatori, cercando di ottenere il massimo
dall’effettiva condizione del sistema edilizio italiano.
In pochi mesi viene messa a punto una complessa macchina organizzativa che mobilita quella gran parte delle risorse
produttive del Paese, operando una scelta ben precisa, in assoluta continuità con i primi anni del dopoguerra: avviare il
vasto programma di costruzione di nuove abitazioni impiegando le energie direttamente utilizzabili, per le quali non è
necessaria alcuna specifica formazione.
Al primo cantiere, che il 7 luglio del 1949 inaugura la stagione INA Casa a Colleferro, in provincia di Roma, seguono
altri cantieri in Piemonte e poi, in rapida progressione, nel resto del Paese, innescando un sistema economico che
coinvolge un vasto indotto e genera “nuova occupazione e maggiore benessere”.
Quale è la singolarità del cantiere delle “case Fanfani”? Essenzialmente è la continuità con una solida tradizione
costruttiva, incentrata sull’abbinamento di muratura portante e cemento armato, che si era andata consolidando negli
anni tra le due guerre. Scartati, quindi, i velleitari tentativi di innovazione tecnologica, la complessa macchina dell’INA
Casa si appella alla capacità professionale dei progettisti, alla abilità esecutiva delle maestranze locali, all’esperienza
delle stazioni appaltanti.
Ai primi chiede una progettazione accurata, attenta allo studio dei particolari costruttivi, e generosità di disegni
esecutivi, per fornire al cantiere riferimenti chiari sulle modalità di esecuzione delle opere. L’esigenza scaturiva dal
sistema di appalto adottato: l’appalto a forfait, infatti, se aveva il pregio di contenere i costi di costruzione entro le
previsioni, conservava alcune indeterminatezze nella stima che le imprese avrebbero potuto recuperare facendo
economia sui materiali o sulla realizzazione.
Alle imprese chiede scrupolosità nell’esecuzione; alle stazioni appaltanti, delegate alla gestione degli appalti, chiede
snellezza nelle procedure, responsabilità, iniziativa e controllo delle lavorazioni. Quest’ultimo compito è svolto anche
da tecnici dell’Ina Casa che, attraverso periodiche ispezioni ai cantieri, stendono rapporti finalizzati a migliorare la
conduzione dei lavori, a verificare la rispondenza dei capitolati alle prescrizioni dell’ente, ad accertare la congruità
economica delle varianti, infine, a vigilare sull’organizzazione e direzione del cantiere.
Gli obiettivi di quantità e qualità del costruito saranno perseguiti adottando quindi metodi tradizionali, utilizzando
materiali locali, occupando le molte, piccole e scarsamente meccanizzate imprese italiane. Peraltro, la capillare
diffusione di queste ultime avrebbe consentito di affrontare piani edilizi delle più svariate dimensioni (da pochi
appartamenti a centinaia) ed estendere il programma di solidarietà sociale alle zone più periferiche.
Gli sporadici episodi di modernizzazione dei processi produttivi osservati nell’ambito dell’INA Casa, se sul piano
economico non hanno dato esiti particolarmente significativi,16 hanno comunque costituito un efficace tentativo di
razionalizzare alcuni ‘possibili’ ambiti della costruzione. L’unificazione, così come indicato dall’ente, riguarderà
essenzialmente alcune parti funzionali: tra questi i serramenti saranno l’elemento costruttivo maggiormente replicato;
ma anche interi pannelli di facciata inseriti nelle intelaiature di cemento armato17 o elementi decorativi, come i grigliati
dei parapetti in cemento gettato fuori opera (Harrar, Milano). In via Cavedone a Bologna, che sembra essere
“l’esperienza più avanzata di razionalizzazione costruttiva”,18 oltre l’impiego esteso della prefabbricazione e di servizi
igienici unificati, viene sperimentato il frazionamento degli appalti in grandi classi (strutture, finiture, impianti),
indicato dall’Ina Casa, ma non solo, come uno dei fattori che concorrono ad economie di spesa e al miglioramento del
sistema edilizio.
Dall’impostazione del Piano scaturisce, dunque, il “carattere uniforme” delle realizzazioni INA Casa. L’ibrida
combinazione di muratura e cemento armato, sistema tipico della costruzione italiana del Novecento, si mantiene,
articolandosi in relazione all’altezza degli edifici: la struttura portante in muratura, di pietra locale o mattoni, con solai

14
Nel 1956 iniziano i lavori dell’Autostrada del Sole; tra il 1959 e il 1964 i trasporti, in particolare stradali e autostradali, assorbiranno il 40% dei
finanziamenti per opere pubbliche; cfr. G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta,
Donzelli, Roma 2001, p. 111.
15
Cfr.G. Milone (a cura di), Quattordici anni di libera professione con il Piano Ina Casa, Roma 1963, p. 39.
16
Cfr. S. Pace, Oltre Falchera. L’Ina-Casa a Torino e dintorni, in P. Di Biagi (a cura di), op. cit., p. 284.
17
Nel complesso La Palma a Cagliari sono stati utilizzati solo sette tipi diversi di pannelli di tamponamento all’interno di un impianto modulare di
cemento armato.
18
Cfr. S. Poretti e al., op. cit., p. 21

33
laterocementizi è giustificata nelle case basse, mentre l’impiego dell’ossatura a telaio mostra la maggiore convenienza
negli edifici alti dove però, abbinata alle spesse murature di tamponamento, conferma il carattere esplicitamente
murario della costruzione. E se la prima, nella sua ordinarietà, viene declinata con intonazioni evolutive, passando dallo
schema strutturale a maglia chiusa a quello con setti portanti, la seconda è più spesso celata all’interno
dell’apparecchiatura muraria (Valco San Paolo, Roma), seguendone le irregolarità, adottando sbalzi contenuti e luci
ridotte (via della Barca, Bologna) e lasciando ad isolati ed eclatanti esempi di espressionismo strutturale il compito di
svelarne la modernità (edificio degli scapoli all’Unità di abitazione orizzontale, Roma, Forte Quezzi, Genova).
A Roma ad esempio, la tradizionale struttura portante in muratura, denominata ‘alla romana’, costituita da spessi
blocchi di tufo e ricorsi di mattoni pieni, non è impiegata solo per le case di Ridolfi al Tiburtino, impostate sulla tecnica
della maglia chiusa, ma anche in quelle costruzioni che rinviano alle più aggiornate tipologie abitative scandinave, alle
quali l’INA Casa guardava con un certo interesse, come le case a schiera di tre piani dell’unità residenziale Colle di
Mezzo dove, più modernamente, sono impiegati i setti portanti per consentire ampie finestrature, rivestiti però
all’esterno da uno strato a vista di mattoni pieni.
Ma è nella “reinvenzione del dettaglio costruttivo”, 19 nell’uso del colore, nella riproposizione di alcune ‘familiari’ parti
della casa (logge, balconi), nella celebrazione della naturale eloquenza dei materiali costruttivi che si incentra, in
particolare, l’attenzione dei progettisti. Le singole parti che compongono la facciata, mentre assumono un ruolo
evocativo del carattere domestico dell’abitazione, si flettono ad un lessico profondamente espressivo in cui l’autonomia
degli elementi funzionali da un lato, e l’abbinamento di materiali tradizionali e locali al telaio di cemento armato
lasciato a vista dall’altro, determinano un’identità compositiva in cui “con studiata spontaneità” sono “esaltati il
carattere organico della costruzione e la natura artigianale del cantiere”,20 specificità che rendono le case Fanfani uno
dei più interessanti documenti della costruzione moderna.

Cantieri INA Casa

19
Ivi, p.12.
20
Ivi, l’introduzione di S. Poretti.

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Appunti sommari – Dispensa n. 1

Cantieri INA Casa

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