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Un Santo
SENSAZIONI D'ITALIA
TOSCANA, UMBRIA, MAGNA GRECIA
PERINETTI CASONI .
EDITORE MILANO
Presentazione
Forse i lettori d'oggi non conoscono Per nulla il Bourget, morto già vecchio nel 1935:
perché i romanzieri sono sopra tutto fornitori di amene letture ai contemporanei, e
finiscono con l'essere dimenticati. E poi i migliori, con esumazioni opportune, tornano
alla ribalta: non sempre senza stupore da parte di chi se li vede sotto gli occhi; perché
pare sempre che il mondo cominci a essere intelligente con noi, o, più modestamente, coi
nostri contemporanei.
Il fatto è che questo Santo di Bourget, che presenta un tipo davvero mirabile di frate
italiano, si può dire una novella esemplare (e altre ne ha il Bourget, degne d'essere
conosciute). Una penetrazione psicologica tutt'altro che fredda, malgrado un evidente
sforzo di psicologo-chirurgo, fa di questo scritto una cosa da ghiottoni. I tipi e il
paesaggio, interpretati con sagace misura e con un brio a volte impreveduto, dànno un
clima sereno al dramma. Il quale si svolge in un ambiente Italianissimo, a Pisa e in un
monastero, tra begli affreschi, in un'aria di gratissima pace.
Comprendere pare possa essere il motto del Bourget; nelle sue cose meno riuscite, una
mania, addirittura. Ma in queste Sensazioni d'Italia è assolutamente al suo meglio.
Della Toscana minore, dell'Umbria e della Magna Grecia, è impossibile dire cose più
esatte: sentimentalmente e dal punto di vista dell'arte e da quello umano. Il Bourget
avrebbe potuto far stampare sul frontespizio di questo suo volume: “Io amo l'Italia”. E
chi l'ama e la capisce può davvero chiedere a lui interpretazioni e suggerimenti; e certo
senso della storia, rivissuta non da pedante, ma da artista, che fanno di questo libro per
nulla invecchiato un manuale d'amore e di intelligenza che molti odiernissimi vorrebbero
saper imitare.
***
Nel mese d'ottobre 188.., mi trovavo a viaggiare in Italia, senz'altro scopo che quello di
far passare qualche settimana rivedendo a mio agio parecchi dei capolavori che amo.
Questo piacere della seconda impressione è sempre stato, per me, più vivo di quello della
prima, senza dubbio perché ho sempre sentito la bellezza delle arti da letterato, vale a dire
da uomo che prima di tutto domanda a un quadro o a una statua un pretesto per pensare.
Questa è una ragione ben poco estetica, e della quale ogni pittore veramente pittore
sorriderebbe. Pure, era stata la sola a indurmi a passare a Pisa parecchi giorni del mese di
ottobre del quale sto parlando. Volevo rivivere a mio agio il sogno di Benozzo Gozzoli e
dell'Orcagna. Tra parentesi, e per non parere troppo ignorante agli intenditori di storia
della pittura, chiamo col nome d'Orcagna l'autore del Trionfo della Morte nel Campo
Santo della vecchia Pisa anche se so benissimo che la critica moderna contesta al maestro
la paternità di quell'opera. Ma per me e per tutti quelli che conservano nella memoria gli
ammirevoli versi del Pianto a proposito di quel tragico affresco, l'Orcagna ne è e ne
resterà il solo autore. - E poi Benozzo non ha perduto, davanti a quella dubitosa e
pedantesca critica di sbattezzatori, il suo titolo alla decorazione del muro occidentale di
quel cimitero. Mio Dio! che sensazioni intense avrò provato in quell'angoletto di mondo,
nel ricordare che Byron e Shelley hanno abitato la vecchia città toscana; che il mio
maestro, il Taine, ha descritto la piazza vicina nella sua pagina più eloquente; che il
grande lirico del Pianto è venuto qui; e, infine, che Benozzo Gozzoli, il laborioso artefice
di poesia dipinta, riposa sepolto ai piedi del muro sul quale si vanno dolcemente
cancellando i suoi affreschi.
Ho veduto, nel recinto del Campo Santo pisano, e sulla terra portata dalla Palestina in
secoli più devoti dei nostri, la nuova primavera far sbocciare narcisi così pallidi, ai piedi
dei neri cipressi; ho veduto gli inverni seminarvi fiocchi tanto leggeri di neve sùbito
disciolta; ho veduto il cielo torrido d'una estate italiana pesare su quel recinto senz' ombra
con così duro peso!... E non ne sono stanco, tant'è vero che vi ritornavo in quell' autunno,
senza aspettarmi il dramma morale al quale quella visita doveva associarmi, se non come
attore, almeno come spettatore molto commosso, e quasi mio malgrado.
Il primo episodio di questo dramma fu, come quello di molti altri, un fatterello piuttosto
volgare. Pure, lo racconto con piacere, sebbene non sia legato al resto della storia che da
un tenuissimo filo. Ma evoca per me due piacevoli figure di vecchie inglesi. Durante le
mie visite al Campo Santo, avevo notato quella coppia, che con la sua strana bruttezza e
la singolarità utilitaria degli abiti, pareva una vivente illustrazione caricaturale del verso
commovente d'un poeta a una morta:
Quella delle due che aveva i capelli più rossi l'altra, a rigore, poteva passare per una
bionda un po' ardente, - s'accaniva a dipingere un acquerello, copiando la donna del
Trionfo della Morte: quella che, nella cavalcata di sinistra, si mostra di faccia coi suoi
occhi candidi e la bocca fine, occhi e bocca che non hanno mai potuto mentire. Non è
possibile dimenticarli, dopo averli amati. La povera inglese non aveva ombra d'ingegno,
ma là scelta di quel modello e la coscienziosità della sua fatica m'avevano interessato.
Poi, siccome. le due signorine abitavano il mio stesso albergo, dando prova d'una certa
indiscrezione avevo ceduto alla mia curiosità, e avevo cercato i loro nomi nel registro
degli stranieri. Una delle due si chiamava miss Mary Dobson, l'altra, miss Clara Roberts.
Erano due zitelle di circa cinquant'anni, che s'accingevano a quel giro “abroad”, com' esse
dicono, che migliaia delle loro coraggiose colleghe in celibato obbligatorio o volontario
intraprendono, ogni anno, lasciando la Grande Isola. Si mettono insieme in due, in tre, a
volte in quattro, ed eccole partite sole per quindici o venti mesi. S'installano in pensioni
clandestine delle quali tutta una frammassoneria d'eccentriche viaggiatrici come loro si
trasmette l'indirizzo, imparano lingue ad esse sconosciute, malgrado le ciocche grigie,
cercano con tutte le loro forze di comprendere le arti, con eroica perseveranza;
attraversano i peggiori ambienti con purezza angelica; e dappertutto trovano una chiesa
inglese, un cimitero inglese, una farmacia inglese, senza contare che non hanno smesso
per un sol giorno, fosse pure in fondo alla Calabria o sul Nilo, di prepararsi il loro tè
all'inglese, e alle ore alle quali erano abitua.te a degustarlo nel loro salotto del Devonshire
o del Kent.
Ho una tale ammirazione per l'energia morale che si nasconde dietro il ridicolo aspetto di
queste creature, che nel corso dei miei troppo numerosi vagabondaggi ho sempre cercato
di conversare con esse; e, d'altronde, sapevo per prova che 1'amore del fatto preciso il
quale domina la loro razza le rende spesso preziose a consultare. Hanno sempre verificato
tutte le asserzioni della guida; e chiunque abbia errato, con un Baedeker in mano, in una
provincia sperduta d'Italia, confesserà che quelle verifiche sono utili. Perciò, la terza sera
del mio soggiorno a Pisa, trovandomi più vicino alle due zitelle, a tavola, per la partenza
di alcuni ospiti, cominciai a parlare con loro, certo fin da prima che non avrebbero voluto
perdere quell'occasione di far pratica di francese.
Vi par di vedere gli ornamenti e la scena, non è vero?.. La stanza d'un antico palazzo
trasformata in sala da pranzo d'albergo e più o meno ammobiliata alla moderna, il soffitto
dipinto a colori vivaci, una lunga tavola con pochi coperti, perché la stagione invernale
non è ancora incominciata. Sulla tavola dondolano sui loro supporti di rame i fiaschi,
quelle deliziose bottiglie dal collo lungo e dalla pancia ricoperta di paglia nei quali
mettono il vino chiamato Chianti. Se la piccola montagna che porta questo nome fornisse
di che riempire tutte le bottiglie etichettate con la sua insegna, dovrebbe dare una
vendemmia per settimana! Ma questo falso chianti è tuttavia del vin pretto, il cui sapore
un po' aspro è sapore d'uva, e il suo calore colorisce il viso delle sette o otto persone che
son venute a finire in quest'albergo: una coppia tedesca che viene a fare da questa parte
delle Alpi il classico viaggio di nozze; un commerciante milanese, dal volto allo stesso
tempo sensuale e smunto; due borghesi liguri venuti in visita nei dintorni e che si sono
fermati qui ad abbracciare un nipote, ufficiale di cavalleria. È a tavola con noi, questo
nipote, con la sua uniforme di capitano, elegante, gioviale. Parla ad alta voce con
l'accento un po' gutturale della Riviera. I suoi discorsi, interrotti da grandi risate,
m'informano dell'odissea dei suoi genitori, alla quale mi interesserei di più se miss Mary
Dobson non avesse cominciato una conversazione che interessa in me il quattrocentista,
l'innamorato degli affreschi e dei quadri su tavola di prima del 1500. È, delle due insulari,
quella che ha i capelli più rossicci, quella il cui pennello d'acquarellista rendeva scipito
con tanta goffaggine il vigoroso disegno del maestro primitivo; e, dopo una lunga
dissertazione per decidere se il famoso Trionfo debba essere attribuito a Buonamico
Buffalmacco o a Nardo Daddi, ecco che mi domanda:
“Siete stato al convento di Monte Chiaro?”
“Quello che è tra Pisa e Lucca, tra i monti, dall'altra parte della Verruca?” le risposi.
“No. Ho veduto nella guida che ci vogliono sei ore di vettura; e, per due povere terrecotte
di Luca della Robbia che ci sono, e alcuni dipinti di scuola bolognese...”
“Di quando è la vostra guida?” mi domandò seccamente miss Clara.
“Non lo so davvero”, feci io, un po' interdetto davanti all'ironia con la quale quella bocca
dai lunghi denti m'interrogava. “Ho la superstizione di conservare sempre la stessa da
quando sono sceso in Italia per la prima volta. È vero che è già passato un po' di
tempo...”.
“Ecco una cosa tipicamente francese...” riprese miss Clara. Il preraffaellismo di questa,
lo compresi sùbito, non era che una forma della sua vanità. Ma non raccolsi quest'
epigramma nazionale, come avrei potuto, ribattendola sùbito, sottolineando
semplicemente la troppo britannica benevolenza della sua osservazione. Davanti agli
inglesi del tipo aggressivo, il silenzio è l'arma migliore, che li ferisce nel vivo del loro
difetto. Hanno fame e sete di contraddizione, per quell'istinto di combattività proprio
alloro sangue, e che fa precipitare quella razza a tutte le conquiste e a tutti i proselitismi.
Subii dunque con la magnanimità d'un saggio lo sguardo acuto degli occhi azzurri di miss
Clara, che sfidava in campo chiuso l'intero popolo gallo-romano, tanto più che miss Mary
continuava:
“Il fatto è che hanno scoperto, due anni or sono, degli affreschi così belli del vostro caro
Benozzo; tanto freschi e brillanti di colore quanto quelli della cappella Riccardi, a
Firenze... Si sapeva bene che aveva lavorato nel convento e che vi aveva dipinto, tra
l'altro, la leggenda di san Tommaso. Quel calunniatore del Vasari lo racconta. Ma di
quest'opera, che il maestro eseguì pressappoco nella stessa epoca di quello di Pisa, non v'
era traccia, e sentite il caso... Il Padre Griffi, il vecchio benedettino che custodisce il
monumento da quando il chiostro è stato nazionalizzato, ordina un giorno al domestico di
togliere una ragnatela, tesa in un angolo d'una delle celle che servono, adesso, d'alloggio,
per gli ospiti... Un pezzo d'intonaco si stacca sotto il primo colpo di scopa, dato troppo
forte. L'abate si fa dare una scala. S'arrampica, in alto, malgrado i suoi settant'anni
passati... Bisogna che vi dica che quel convento è il suo amore, la sua passione. Lo ha
visto popolato di duecento frati, e ha accettato là missione di restarvi come guardiano, al
tempo del decreto, con la certezza di rivederlo com' era ai bei tempi. La sua sola idea è
che, il giorno del loro ingresso, i Padri devono trovare l'antico edificio salvato da ogni
contaminazione. Per questo ha acconsentito, e s'è preso il penoso incarico di tenere a
pensione i turisti di passaggio. Ha avuto paura che gli aprissero accanto un albergo, come
a Monte Cassino; e non ha potuto sopportare l'idea di quell'albergo, vicino al suo
convento, con le americane che, la sera, si sarebbero messe a ballare, suonando il
pianoforte!...”
“Ma, e quando fu in cima alla scala?..” dissi per tagliar corto a questo panegirico di don
Griffi. Temevo che, per reazione, terminasse con un attacco d'un protestantesimo
intollerante, e miss Clara, non si lasciò sfuggire l'occasione:
“Il fatto è”, disse, approfittando di questa interruzione, “che non avrei mai creduto, prima
di conoscerlo, che si potesse essere tanto intelligenti e tanto attivi portando il suo abito.”
“Quando fu in cima alla scala”, riprese miss Mary, “grattò con molta cura un po'
d'intonaco, all'intorno. Poté distinguere una fronte e degli occhi, poi una bocca, e
finalmente tutto il viso d'un Cristo. Tutti gli italiani sono artisti. Hanno l'arte nel sangue.
L'abate si rese conto che c'era un affresco di grande valore sotto quella mano
d'intonaco...”.
“I frati,” interruppe di nuovo miss Clara, “non sono riusciti a trovare nulla di più urgente
che scialbare con la calce tutti i capolavori del quindicesimo secolo, o sostituire con
ornamenti di stile barocco e affreschi della decadenza le decorazioni degli antichi
maestri...”
“Eppure erano stati loro a volerle, quelle decorazioni,” dissi, “il che prova che il buon
gusto e il cattivo gusto non hanno proprio niente a che fare con le convinzioni che uno
professa...”
“Naturalmente,” riprese la terribile inglese, “poiché siete parigino, siete scettico...”
“Lasciatemi finire la mia storia fece miss Mary. E m'accorsi che non era semplicemente
preraffaellita: era anche buona; cosa che in questi nostri tempi d'istrionismo estetico è più
rara. Era evidente ch'essa soffriva delle disposizioni troppo combattive della sua
compagna verso di me.
“Cara miss Roberts, discuterete poi... Come fare, dunque, si domandò quel bravo abate,
per liberare quel muro del suo rivestimento di calce, senza rovinare l'affresco?.. Ecco un
suo procedimento: incollare un asciugamano sull'intonaco, e lasciarlo asciugare fin che la
tela aderisca fortemente; allora, strappar via ogni cosa, e poi grattare, grattare centimetro
per centimetro... Gli ci son voluti dei mesi, a quel bravo vecchio, per scoprire così un
primo pezzo di muro nel quale è proprio rappresentato san Tommaso che mette il dito
nella piaga del Salvatore, e poi un secondo, nel quale l'apostolo è ricevuto in udienza dal
re delle Indie, Gondòforo...”
“Ma conoscete la leggenda?” - mi domandò bruscamente miss Clara. Questa volta non le
lasciai la soddisfazione di constatare di nuovo la superficialità francese. Avevo letto
questo racconto - davvero per caso, nel libro di Jacopo da Voragine, un giorno che vi
cercavo un argomento di novella, e per un giornale mondano, se devo confessarlo! - Me
ne ricordavo per il suo simbolismo, mentre, allo stesso tempo, un suo carattere esotico gli
dà un certo fascino pittoresco.
Quando san Tommaso era a Cesarea, Nostro Signore gli apparve, Gli comandò di andare
da Gondòforo, poiché questo re cercava un architetto per farsi costruire una dimora più
bella del palazzo dell'imperatore di Roma. Tommaso obbedì. Arriva alla corte del
principe; offre i suoi servigi; è accettato. Gondòforo, che sta per partire per una lontana
guerra, gli dà un' enorme quantità d'oro e d'argento destinata alla costruzione del palazzo.
Al suo ritorno, domanda al Santo a che punto sono i lavori. Tommaso aveva distribuito ai
poveri i tesori a lui stati affidati, fino all'ultimo soldo, e per il palazzo promesso non era
stata tagliata neppure una pietra. Il re, furibondo, fa imprigionare lo strano architetto e
comincia a meditare ai supplizi raffinati che riserverà al traditore. Ma ecco che in quella
stessa notte vede levarsi ai piedi del suo letto lo spettro di suo fratello, morto da quattro
giorni, che gli dice: “L'uomo che vuoi torturare è un servo di Dio. Gli angeli m'hanno
mostrato una meravigliosa dimora d'oro, d'argento e di pietre preziose che ha costruito
per te in Paradiso...” Costernato da questa apparizione e da questo discorso, Gondòforo
corre a gettarsi ai piedi del prigioniero, che lo fa alzare, e gli dice: “Non sapevi dunque, o
re, che le sole case che durino sono quelle innalzate in cielo per noi dalla nostra Fede e
dalla nostra Carità?”
“È certo, - dissi, dopo aver ricordato la leggenda non senza una maligna compiacenza, -
che questo è un argomento molto interessante per un pittore innamorato, come Benozzo,
dei costumi suntuosi, delle architetture complicate, dei paesaggi dalla flora smisurata,
degli animali chimerici...”
“Ah! - esclamò miss Dobson, rifiutando, nella sua esaltazione, il piatto di fichi neri e
verdi che le offriva il cameriere, un tipo con le guance ispide per una barba di sei giorni, e
la cui marsina, tutta lisa apriva su certi stupefacenti bottoni di corallo infilati nel petto
inamidato della camicia tutta sfilacciata. Non potete immaginare la magnificenza di
Gondòforo: una specie di Moro, con un vestito di seta verde ricamata in oro, a rilievo,
con gli stivaloni gialli dagli sproni anch'essi d'oro; e un colorito fluido e d'una
freschezza!... Pensate dunque, quella mano d'intonaco dev'essere stata data su quel muro
verso la fine del sedicesimo secolo. Non un guasto, non un ritocco. E in quella cella, che
pare fosse l'oratorio dei vescovi in visita pastorale, rimane ancora tutta una parete da
scoprire, e anche tutta la parte sopra una finestra...”
Eravamo a questo punto del nostro colloquio, e domandavo a miss Mary alcuni
particolari sulle vie di comunicazione tra Pisa e quel convento - mi attraeva già al punto
che non avrei più saputo resistere, dopo quella rivelazione sulle opere inedite d'un pittore
pieno d'incantevole facilità felice - quando la porta s'aprì, ed entrò una coppia senza
dubbio già nota alle inglesi, poiché vidi miss Mary arrossire e abbassare gli occhi, mentre
miss Clara diceva in inglese all' amica:
“Ma è quel francese che abbiamo incontrato a Firenze in trattoria, con quella donna.
Come è possibile che un albergo che si rispetta riceva persone simili?...”
Guardai anch'io, e vidi, seduta a una delle piccole tavole poste ai lati della grande, una
coppia la cui irregolarità era troppo evidente perché potessi accusare di calunnia la mia
terribile vicina. Negare la nazionalità del giovane m'era altrettanto impossibile. Poteva
avere un venticinque anni, ma il viso scarno, le spalle esili, la nervosità visibile di tutta la
persona, gli davano un aspetto più attempato, corretto dagli occhi neri molto vivi e molto
belli. Era vestito con una mezza eleganza che sapeva ad un tempo di pretesa e, un tantino,
di scapigliatura... Come? Non saprei rendere questa sfumatura con le parole. E neppure
saprei spiegare l'insieme delle caratteristiche le quali facevano di quello sconosciuto un
tipo esclusivamente, inevitabilmente francese. Il taglio d'un abito e un gesto, il modo di
sedere a tavola e di prendere la lista dei cibi per ordinare il pranzo: cose da nulla, ma siete
certi di avere, lì a due passi, un compatriota. Avrò il coraggio di confessarlo, dovessi
anche offendere quello che un umorista chiama in modo faceto il patriottismo
d'anticamera: un simile incontro deve piuttosto spaventare che rallegrare. Pare che il
francese in viaggio esponga i suoi peggiori difetti, come, del resto l'inglese e il tedesco.
Soltanto, quelli dell'inglese mi sono indifferenti, quelli del tedesco mi divertono, e quelli
del francese mi hanno soffrire. So quanto calunniano, e quanto gratuitamente, il nostro
paese. Non ho mai sentito, in un caffè italiano, un parigino di passaggio parlare ad alta
voce e farsi beffe della città nella quale si trovava e di quella dalla quale veniva, con frasi
maliziosamente sprezzanti, senza pensare che intorno a lui c'erano venti orecchi a
comprendere i suoi scherzi; o, almeno, la lettera di quegli scherzi. Poiché cinque stranieri
su dieci conoscono la nostra lingua; ma quanti conoscono il suo spirito, vale a dire la
fondamentale innocenza delle sue impertinenze? Uno su cento, forse. Quanti assurdi
malintesi nazionali vengono così mantenuti e resi più velenosi da queste chiacchiere fatte
in pubblico, sconsideratamente, come dagli articoli scribacchiati, Senza cattiva
intenzione, da qualche giornalista, a un tavolino di caffè? Il mio sconosciuto apparteneva,
fortunatamente per i miei nervi, alla specie rara dei francesi silenziosi: rara, ma non
introvabile. Del resto, la sua compagna di quella sera assorbiva la sua attenzione in modo
che quasi giustificava la frase violenta di miss Roberts.
Poteva avere, quell'amica misteriosa, circa trentacinque anni; e se lui, per il suo aspetto,
non poteva essere altro che un borghese di Francia, lei era italiana dalla piccola testa ai
piedini, dal viso un po' troppo segnato ai fronzoli della veste, e dall'estremità delle
braccia cariche di braccialetti alla. punta degli scarpini dai tacchi un po' alti. I suoi occhi
nerissimi mostravano, da parte loro, nel guardare il giovane, una passione che non doveva
essere finta. Né l'uno né l'altro pareva dubitare di poter essere l'oggetto di una qualsiasi
osservazione; e sebbene un certo non so che desse al giovane una vaga espressione di
diffidenza sorniona, quell' aria che veniva loro da un sentimento condiviso me li rese
subito abbastanza simpatici perché cercassi di difenderli contro miss Roberts, la quale
insisteva:
“E oltre a tutto, lei ha almeno vent'anni più di lui...”
“Mettiamo dieci,” l'interruppi ridendo; “ed è molto graziosa...”
“Da noi, non si vedrà mai un gentleman mettersi così in mostra con una donna che sia
tanto poco una lady...”
Le fui grato d'aver pronunciato questa frase in inglese, lingua che il mio giovane
compatriota forse non capiva, tanto più che l'aveva lanciata con voce molto chiara. Ma
non potei fare a meno di risponderle nello stesso idioma; un pochino, ne convengo, per
vanità.
“Ma come lo sapete, che non è una lady?..”
“Come lo so?” Ah! la mia piccola vanità, con la quale avevo voluto provarle che parlavo
la sua lingua, fu subito punita, poiché essa rettificò ironicamente la mia pronuncia,
ripetendo le mie stesse parole: “Ma guardate come mangia...”
Debbo confessare che in quel momento i due esemplari della razza latina offrivano uno
spettacolo il quale non rispondeva ad alcuno dei precetti insegnati dalle governanti d'oltre
Manica. Aspettando che gli servissero la minestra, il giovane s'era attaccato al fiasco di
Chianti e al pane che era sulla tavola. Si divertiva a intingere il pane nel vino, mentre la
sua compagna masticava una fetta di limone, presa da uno dei piatti! Il contrasto tra la
figlia d'Albione - come dicevano i romanzi del 1830 - e quei figli della natura era un po'
troppo forte. Ebbi paura di mettermi a ridere; e, poiché il pranzo era finito, mi alzai di
tavola allo stesso tempo dei tedeschi, del milanese, dei parenti dell'ufficiale e
dell'ufficiale stesso. Pensai che le mie due vicine ben presto mi avrebbero seguito - e così
fecero, lasciando soli i due innamorati, sotto la protezione indulgente del cameriere dai
bottoni di corallo. Forse quell'uscita precipitata fu un po' merito mio, poiché nell'incontro
paradossale di quel giovane francese e di quella italiana avevo presentito un romanzetto.
Ma morrò, prima di riuscire a esercitare senza rimorso la parte di spia per amore di quella
che gli scrittori moderni chiamano ricerca del documento; e della quale taluni si vantano
come di una virtù professionale.
Avevo dunque quasi dimenticato quei due convitati più o meno morganatici, per non
pensare che agli affreschi scoperti da don Griffi e al modo d'andare al convento di Monte
Chiaro. Ero nell'ufficio dell'albergo, a discutere del piccolo viaggio col segretario, un ex
garibaldino tanto orgoglioso d'aver portato la camicia rossa dei Mille da far la figura dello
sciocco a furia di manie rivoluzionarie ad oltranza, pur occupandosi con la più lodevole
attività dell' acqua calda da mandare al “6” o del tè ordinato dall' “11”.
“Sono troppo indulgenti con quei cospiratori, diceva parlandomi dei poveri frati, invece
di rispondermi a proposito, indicandomi la strada da seguire, il veicolo da prendere e il
prezzo da offrire. Le mie amiche inglesi avevano approfittato d'una diligenza, e poi
avevano fatto una parte del cammino a piedi. Tuttavia, riuscii a strappare al cavalier
Dante Annibale Cornacchini - così si chiamava l'antico compagno dell'Eroe - la promessa
che un cocchiere mi avrebbe aspettato con una vettura leggera, al tocco. (Che bella
espressione è mai questa, e degna di un
popolo tutto sensazioni!) Quale non fu il mio stupore, nel lasciare l'ufficio nel quale le
statuette bronzate del Generale in camicia rossa e di Mazzini in soprabito troneggiavano
sopra alcuni annunzi alberghieri, nel trovarmi davanti l'uomo della sera prima. Pareva
m'aspettasse, e mi si avvicinò non senza garbo. Del resto, quale scrittore non sarebbe
indulgente verso uno sconosciuto che gli si presenti con una frase come questa:
“Signore, ho veduto il vostro nome nel registro degli stranieri, e, siccome conosco tutte
le vostre opere, mi permetto...”
Basta essere conosciuto, per una ragione qualsiasi, per sapere quello che valgono simili
complimenti. Ma l'amor proprio infantile del letterato è tale che ci si lascia sempre
prendere, e si fa come feci io; dopo essermi giurato di non sciupare le sensazioni che
m'avrebbe dato Pisa, antica e triste, con chiacchiere oziose e con nuove conoscenze, dieci
minuti dopo passeggiavo sui lungarni con quel giovane; mezz'ora dopo girellavo, sempre
con lui, sotto il porticato del Campo Santo; e al tocco l'avevo deciso ad accompagnarmi
fino al convento, e salivamo insieme sulla carrozzella a un cavallo che doveva condurci a
Monte Chiaro. Quell'improvvisa intimità di viaggio era nata senza che avessi, almeno, la
scusa d'avvicinare l'italiana, graziosa e piena di naturalezza, la quale aveva cenato col
mio compagno la sera prima. Una delle sue prime cure, naturalmente, era stata quella di
parlarmene. Seppi così che la sconosciuta dal volto tanto espressivo, dal pallore tanto
appassionato, dai gesti quasi di popolana, era un'attrice che faceva parte d'una compagnia
la quale recitava a Firenze, che aveva dovuto ripartire la mattina, per recitare la
commedia la sera stessa, e ch'egli non aveva potuto seguirla. Non me ne disse la ragione.
La indovinai da tutto il resto della sua storia, che mi raccontò fin dalla prima mezz'ora.
Anche senza l'attrattiva romantica di quella piccola avventura, il personaggio m'avrebbe
colpito, come un tipo assai nettamente disegnato di tutta una classe di giovani che pure
credo di conoscere piuttosto bene. Ma non si frequentano mai troppo, i rappresentanti
delle nuove generazioni. Come mantenersi vivo e rinnovarsi - ed è questo il problema
d'ogni sviluppo senza parlare, e molto, con essi? Ahimè! non ero venuto a cercare le
impressioni di quest'ordine sulle rive del glauco e malinconico Arno. Dovrò dunque
ritrovare così un po' di quello che mi piace meno di Parigi, sempre e dappertutto, senza
poter fare a meno di interessarmici come se mi piacesse? e la mia curiosità per quello che
è l'animo umano non cesserà mai d'essere più forte dei miei savi progetti di esistenza
ideale e inefficace tra le belle opere d'arte?
Quel giovane aveva il nome semplice e poco aristocratico di Philippe Dubois. Era il
quarto figlio di un universitario abbastanza in vista, ma con pochi beni di fortuna. Dopo
brillanti studi in un liceo di provincia, era venuto a Parigi, fruendo d'una borsa di
studio.Aveva fatto i suoi esami, e poi la protezione d'un amico di suo padre gli aveva
fatto ottenere una missione in Italia, per certe ricerche archeologiche. La missione era
terminata proprio in quel mese, e stava per ritornare in Francia. Durante la mia gioventù
ho vissuto troppo a lungo in un ambiente analogo per non essermi subito reso conto che
le condizioni fatte a Philippe dalla sua famiglia non potevano dargli il modo di condurre
se non un'esistenza assai mediocre. Non gli doveva rimanere se non il denaro necessario
al ritorno. Ecco perché l'attrice era partita senza che, egli la seguisse. Nel riassumere qui
l'insieme di queste confidenze riconosco, una volta di più, che i fatti sono ben poca cosa,
e che tutto dipende dall' animo di chi li subisce. Quest'avventura di un giovane studioso
innamorato di quel mondo antico dove tutto è bellezza, e di una brava ragazza, un'attrice
appassionata e disinteressata, prende già l'aspetto di un grazioso idillio sentimentale, non
è vero? Hanno dovuto lasciarsi. Hanno molto pianto. Poi, ognuno dei due ha accettato
d'andare dove il destino lo chiama. Questo è tutto quello che vi può essere di romantico in
un capriccio, ed è tutta la sua poesia. Non dovetti far fatica per constatare che Philippe
Dubois non provava nessuna delle emozioni tristi e commoventi che il suo piccolo
romanzo avrebbe comportato. Non c'era la minima sfumatura di tenerezza nelle frasi con
le quali mi iniziò a quel facile intrigo. Non lasciava vedere che la vanità d'essere stato
amato da una donna che seppi poi piuttosto in vista. Ma come! Se fosse stato l'innamorato
ingenuo che credevo avrebbe richiamato la mia attenzione come fece quando scopersi che
tutta quella disciplina della sua gioventù studiosa non era se non un di più, così come
quell' avventura non era per lui se non un caso? Quello che costituiva il fondo stesso
dell'animo del giovane, era una delle più violente ambizioni letterarie che io abbia
conosciuto da quando frequento gli esordienti; e un'ambizione tanto più avida, perché il
suo orgoglio, unito a una specie di orgogliosa timidezza gli aveva impedito, sino ad
allora, d'esordire. Durante i quattro o cinque anni d'aridi studi che aveva dovuto
sopportare, una volta uscito dal collegio, aveva così coltivato in sé il morbo letterario,
con tutto il crudele candore che questa malattia rappresenta. C'erano in lui, ben distinte,
due persone: una ufficiale e sottomessa, il figlio dell'universitario in missione; l'altra, il
romanziere e poeta inedito, con le virulente rabbie e i rancori precoci derivanti da una
vocazione non potuta seguire. Questa dualità provava un carattere volontario, o, meglio,
superiore, per l'agilità e per la capacità di dominio su se stesso. Ma la sua acredine
rivelava, insieme, un'anima senza amore, e che sognava sopra tutto, nella carriera di
letterato le soddisfazioni brutali della fama e del denaro.
“Comprenderete,” mi diceva, dopo avermi raccontato varie scene delle sue relazioni con
la povera attrice, nelle quali la sua parte era abbastanza da dongiovanni perché si potesse
compiacere a ricordarle, “comprenderete che non ho lasciato perdere queste emozioni...
Ho quasi finito un volumetto di versi che vi mostrerò... Ah! Ne ho abbastanza delle
tombe etrusche, delle epigrafi greche e di questo lavoro da pedante che non ho accettato
se non per guadagnarmi da vivere... Ma, non appena sarò dottore, domanderò un
congedo, e voglio esordire. Ho in testa una serie d' articoli... Ne ho già mandato qualcuno
a parecchi giornali, firmando con uno pseudonimo... Non li hanno pubblicati... Lo so,
quelli che li leggono, sono degli invidiosi...”
“Quei poveri diavoli di direttori impazzirebbero, se dovessero esaminare tutto loro!” gli
dissi. “E hanno degli impegni; e poi, bisogna pur ammettere chi s'è fatto un nome, gli
ingegni conosciuti...”
“Parliamone,” fece, ridendo d'un riso amaro, nel quale finii di riconoscere la collera sorda
dello scrittore inedito, già avvelenato dall'invidia, ancor prima di misurarsi coi suoi rivali;
e cominciò a enumerare, a uno a uno, gli scrittori più famosi dei nostri giorni. Questo non
era che un aneddotista senza idee; quello, un tipo adatto tutt' al più a raccontar delle storie
agli operai; quest'altro, un Paul de Kock aggiornato; il quarto, un intrigante da salotto,
abile nell'inzuccherare Stendhal e Balzac per lo stomaco indebolito delle donne del gran
mondo... A tutti affibbiava quei volgari aneddoti che girano a migliaia per Parigi, di
bocca in bocca, nel piccolo mondo infantilmente crudele dei letterati esordienti... e anche
dei veterani; Lo lasciavo dire, preso da una profonda tristezza; non che io dia la minima
importanza alla severità dei nuovi venuti verso gli anziani, dei quali già faccio parte. È
esistita in ogni tempo; e ha un suo valore benefico: è il sarcasmo di Mefistofele ingiusto e
lucido a costringere Faust a lavorare. Ma indovinavo, sotto quella specie di durezza, con
la quale senza dubbio credeva di piacermi, una vera sofferenza. Vi ritrovavo sopra tutto
quell' eccessivo furore dell' orgoglio prematuro che è tipico dell'età nostra; voglio dire,
nel mondo di quelli che pensano. Poiché, un tempo, la severità delle ambizioni era
eguale, soltanto infieriva meno tra i letterati. Oggidì che il livellamento universale dà
all'artista conosciuto una situazione più brillante, per lo meno in apparenza, la Letteratura
pare a molti un modo di far fortuna rapidamente. E ci si provano, allora, come altri
entrano alla Borsa, esattamente per gli stessi motivi. Eppure c'è una differenza. Il
“feroce” che gioca al rialzo o al ribasso sa di essere un uomo attaccato al denaro. Il
“feroce” della letteratura, prende volentieri la sua febbre d'arrivare per desiderio
d'apostolato. E allora, verso i quarant' anni, se il succèsso non è venuto, ecco degli animi
terribili, nei quali le passioni più dolorose e le più vili sanguinano ad un tempo. È cosa
che s'è veduta fin troppo spesso tra gli scrittori della Comune. Mentre ascoltavo il
giovane parlare, sentivo che si mostrava in lui l'ostinato smanioso e povero; ma era un
ostinato del suo tempo, aggiornato non soltanto al giorno, ma anche all'ora. Aveva preso
le sue precauzioni, guidato da un fondo di prudenza borghese e anche da un amore per
l'alta cultura che avrebbe dovuto salvarlo;che l'avrebbe, forse, salvato. Non aveva forse
avuto l'intelligenza e la pazienza di imparare, malgrado i suoi cupi di desideri d'artista,
una scienza, un mestiere? E questo mi faceva pensare che vi dovesse essere stata una
lotta, che in lui vi dovesse essere ancora un'intima lotta.
“Siete ben severo con gli anziani,” gli dissi, per fargli smettere la sua nomenclatura di
calunnie parigine. “Le conosco tutte. Sono miserabili fino alla monotonia, e così false, o
così falsate!” .
“Vedrete quando scriverò io!” fece, con una fatuità ingenua e scellerata ad un tempo;
“eh! bisogna trattare chi ci ha preceduto come trattano i vecchi in Oceania. Li fanno salire
su di un albero, che scrollano. Fin che hanno la forza di tener duro, tutto va bene. Se
cadono, li accoppano e li mangiano...”
Non diedi importanza alla giovanile ferocia di quel paradosso. Philippe Dubois faceva su
di me le sue prime prove: era così chiaro! Gli risposi interrogandolo sui suoi lavori
d'archeologia, e questo lo mise subito di cattivo umore; e poi gli consigliai chiaramente di
non cominciare col giornalismo, una volta tornato in Francia, ma di accettare un posto in
provincia, dove potesse essere utile, e di dove avrebbe potuto esordire con un libro
importante. Hanno dato anche a me consigli simili a questi quando avevo la sua età, e non
li ho seguiti. E questo prova che la lotteria di miseria e di gloria che chiamano la
professione del letterato tenterà sempre allo stesso modo l'animo di certi giovani. Debbo
confessarlo? Sentii una certa ironia, quasi un'ipocrisia, nella parte di moralista che
recitavo accanto a lui. Me ne venne un po' di rimorso, e poi, siccome, malgrado tutto, il
fondo di intima scontentezza sul quale Philippe pareva vivesse mi faceva compassione,
finii col proporgli quell' escursione al convento. E doveva nascerne il rapido dramma a
spiegare il quale questi troppo lunghi preparativi erano tuttavia necessari. Non si trattava,
per il futuro dottore, che di ritardare la sua partenza di due giorni; accettò, e partimmo
allo scoccare del tocco, secondo la promessa dell' ex garibaldino, del quale non so fare a
meno di citare un' altra frase deliziosa. Mentre aspettavamo il cocchiere, colse l'occasione
per comunicarmi le sue idee sul Parlamento francese d'oggi. “Hanno perduto le tradizioni
rivoluzionarie”, mi disse; e, dopo un discorso grottescamente terrorista, che non trascrivo,
concluse, con la più comica malinconia: “Insomma, credo che siano anche capitalisti!...”
Grazie a questa frase, che divertì Philippe quanto me, partimmo in high spirits, come
avrebbe detto miss Mary Dobson; tutti e due ben disposti a godere la gita. La strada che
conduce da Pisa a Monte Chiaro corre dapprima in un graziosissimo paesaggio di vigne
allacciate a gelsi. Canne gigantesche fremono al vento, ville circondate da cipressi
mostrano leoni di marmo sulle colonne dell'ingresso; e sempre, in fondo, s'aprono le gole
di quella montagna della quale parla Dante, e che impedisce ai pisani di vedere Lucca:
. . . Cacciando 'l lupo e i lupicini al monte, Per che i pisan veder Lucca non panno. . .
“Ecco una cosa che manca a noi francesi,” dissi al mio compagno dopo avergli citato
questi due versi. “Un poeta che abbia consacrato parole gloriose agli angoli più
insignificanti della terra natìa.”
“Vi pare?” mi rispose; “in quanto a me, questa specie di somiglianza con le guide
Joanne, mi ha sempre fatto rifuggire la Divina Commedia.”
A questa risposta, e vedendo che la sua allegria di poco prima era già passata, cominciai
a dolermi di averlo portato con me. Prevedevo che, se si metteva a giocare di paradossi,
non l'avrebbe più fatta finita; e un giovane di quella specie, una volta abbandonatosi a un
atteggiamento vanitoso, difficilmente se ne allontana, dovesse pur fare del male a se
stesso. Rimasi quindi in silenzio e cercai di occuparmi sempre di più della natura, che già
si faceva selvaggia. Adesso la leggera vettura andava al passo. Entravamo in un
paesaggio quasi privo di vegetazione. Collinette ignude s'alzavano da tutte le parti,
enormi gonfiori della terra, d'argilla grigia, devastati dalle piogge. Non c'erano più
ruscelli, né vigne, né olivi, né ville; pareva d'avvicinarsi a un deserto. Il cocchiere era
disceso da cassetta. Era un ometto dal volto quadrato e fine il quale si rivolgeva alla sua
cavalla grigia, che si chiamava Zara, e trasformava, come tutti i toscani, la c dura
all'inizio delle parole in h aspirata: cavalla, diceva parlando della sua bestia.
“L'ho comperata a Livorno, caro signore,” mi raccontava, “e m'è costata duecento
franchi, perché la credevano zoppa... Vedete se zoppica! Hè, Zara, coraggio! Caro
signore, mi segue come un cagnolino. E le voglio bene, le voglio bene!... Mia moglie ne è
gelosa, ma io le rispondo: “La Zara mi fa guadagnare il pane, e tu me lo mangi...”
Guardate, caro signore, guardate quelle rocce: fu là che per poco non assassinarono
Lorenzo de' Medici dopo il massacro dei Pazzi...”
“Non è cosa piuttosto bizzarra?” dissi al mio compagno.”Quest'uomo non è che un
cocchiere; e, nella stessa frase, ci parla della sua cavalla Zara e di Lorenzo de' Medici...
Ah! questi italiani!... Come sanno la storia del loro paese, e come ne sono orgogliosi !”
“Sì, lo so,” disse Philippe alzando le spalle.
“Ci dev' essere una frase dell' Alfieri su di essi: “La pianta umana nasce qui più
rigogliosa che altrove...” o qualche cosa di simile. La verità è che imparano fin da
bambini a sfruttare gli stranieri... Li ammaestrano alla caccia alle mance. Ancora lattanti,
sono già ciceroni... Ah! voglio scrivere un romanzo sull'Italia moderna e sulla sua
colossale mistificazione!... Ho già tutte le note pronte... Mostrerò che cos'è questo
popolo...”
E cominciò una violenta diatriba contro “il bel paese là dove il sì suona”, che continuerò,
per parte mia, a vedere sempre come m'è apparso nel 1874 per la prima volta: la patria
unica della bellezza. Quest'uscita mi ricordò ancor di più le conversazioni che sentivo nei
miei primi anni di vita letteraria, quando frequentavo i cenacoli dei poeti e dei romanzieri
avvenire. Quasi tutti impiegati di Ministero e crudelmente furiosi per la loro vita
mediocre, passavano delle ore a iniettarsi il fiele nell'animo, inondando col loro disprezzo
cose e persone, con una specie d'acre eloquenza che, a quei tempi, mi faceva dubitare di
tutto e di me stesso. Ignoravo, allora, quello che ho constatato fin troppo frequentandoli:
che la loro eloquenza è una forma d'invidia impotente, e che sa già d'essere tale. Ogni
grande ingegno comincia e finisce con l'indulgenza e l'entusiasmo. Gli svogliati precoci
sono dei disgraziati che s'accorgono fin dal principio della loro sterilità futura, e già se ne
vendicano. Come avrei voluto che quel ragazzo mi parlasse, fosse pure con un'
esaltazione un po' ridicola, di quella Firenze dove aveva lavorato, dov' era stato amato;
che mi parlasse, sopra tutto, di quell'amore!... E invece aveva tutta l'aria di dimenticarlo;
e, a proposito del suo libro sull'Italia si metteva a discorrere dei guadagni dei principali
autori.
“ È vero che Jacques Melan dànno un franco e cinquanta per volume?.. Mi hanno detto
che a Vincy pagano dieci franchi ogni verso... Ah! che miserabile!...” Quello che
scoprivo, adesso, dietro quella critica acuta e l'eccessiva durezza delle delusioni, era il
furibondo desiderio di denaro; e, con un'incoerenza che si può bene spiegare, gli
perdonavo questo sentimento più che non gli perdonassi la sua ironia. È dura e pesante, la
mano ferrea della necessità, su di un capo nel quale fermentano le energie della gioventù,
e che vede in un poco d'oro la liberazione della parte migliore di sé!
“ E dire,” concluse con infinita amarezza, “che mio padre non mi darà neppure i primi
tremila franchi me mi occorrerebbero per passare sei mesi a Parigi, prima di esordire. Sì,
mi basterebbero per imparare a conoscere il terreno e per dare la mia prima battaglia.
Tremila franchi! quello che rendono a un mediocre come *** (e qui, di nuovo, il nome di
un autore in voga) cinquanta pagine appena!”
Ho dimenticato di dire che, frattanto, m'aveva schizzato un ritratto poco lusinghiero di
suo padre e di sua madre. Come spiegare che, con tutto questo, continuasse a
interessarmi? Enunciava esattamente le idee che detesto. Mi mostrava i sentimenti che mi
paiono i più opposti a quelli che un artista giovane deve provare. Ma sentivo che soffriva
e contavo sul ritorno, una volta ch' egli avesse prodotto su di me il suo primo effetto, per
riprendere i miei consigli e rettificare, se era possibile, due o tre dei suoi punti di vista
ingenui e brutali tanto più che il suo modo d'esprimersi e le sue citazioni avevano finito
col rivelarmi una vera cultura e un'intelligenza più che fine: forte e originale.
Intanto l'orizzonte s'era fatto ancora più selvaggio. C'eravamo lasciati dietro, molto
lontana, l'immensa pianura sulla quale è Pisa. II duomo e la torre pendente ricomparivano
ogni tanto, tra due picchi, come scolpiti su di una carta a rilievo. Livorno si profilava
laggiù, col suo mare azzurro, mentre intorno a noi s'aprivano come abissi le grandi buche
scavate in quel terreno friabile e che chiamano balze. Sopra di noi stavano cime a
strapiombo, nude e minacciose. I buoi che passavano, rari, adesso, non erano più le belle
bestie bianche della Maremma, dalle lunghe corna. Le corna di questi erano corte e volte
all'indietro, e il loro pelame era grigiastro, come la terra. Per la prima volta dopo la nostra
partenza, Philippe Dubois disse alcune parole che rivelarono un abbandono alla
sensazione del momento:
“ Non vi pare che questo sia davvero un paesaggio color bigello, e fatto apposta perchè
vi costruissero un convento?”
Quasi nello stesso istante il cocchiere, che era risalito in serpa, mi chiamava per
gridarmi:
“Signore, ecco Monte Chiaro.”
E con la frusta ci indicava, a una svolta della montagna, una vallata anche più devastata
delle altre, in mezzo alla quale si levava su di un poggetto fiorito di cipressi un lungo
fabbricato di mattoni rossi. In quella luce azzurra, il colore dei muri contrastava tanto
vivamente col nero del fogliame da giustificare subito quel soprannome di Monte Chiaro.
Non ho veduto se non a Monte Oliveto, presso Siena, un santuario tanto selvaggiamente
lontano da ogni vicinanza di vita umana. Dalle informazioni del garibaldino, che avevano
completato quelle delle inglesi, sapevo che 1'abate aveva accettato, nei suoi più umili
particolari, l'incarico di albergare gli ospiti venuti a visitare il convento, secolarizzato fin
dal 1867.
Mezz' ora dopo avere scorto così dall' alto della strada quell'antico asilo di benedettini,
un tempo celebre in tutta la Toscana e oggidì tanto tristemente solitario, la bianca cavalla
Zara cominciava a salire la collina folta di cipressi. Eravamo discesi per vedere meglio le
cappellette costruite a distanza di cinquanta passi l'una dall'altra al margine del viale;
presi, il mio compagno ed io, dalla malinconica maestà di quell' avvicinarsi al chiostro.
Rivedevo col pensiero le innumerevoli tonache di lana bianca che avevano sfilato in quei
cupi viali; poiché i benedettini di Monte Chiaro, come quelli di Monte Oliveto, s'erano
votati alla Vergine: la mia inglese m'aveva informato anche su questo piccolo particolare.
Pensavo alle anime semplici per le quali quel severo orizzonte aveva segnato la fine del
mondo, alle anime stanche e che vi avevano trovato riposo, alle anime violente, e rose,
qui come altrove, dall'invidia, dall'ambizione, da tutti gli appetiti dell' orgoglio che
1'apostolo mette così giustamente tra le opere di carne. Ero tanto assorto in questo sogno
a occhi aperti, che mi parve di destarmi di soprassalto quando il cocchiere, che in
quell'ultimo tratto di salita camminava tenendo Zara per le briglie e parlando con lei, per
incoraggiarla, mi si rivolse di nuovo:
“Caro signore, ecco il Padre abate che ci viene incontro. Avrà sentito arrivare la vettura.”
“Ma è il povero Hyacinthe del Palais-Roy !...” esclamò Philippe; e in verità a vederlo
così, sulla soglia del convento e in fondo al viale, il povero frate aveva un aspetto ben
miserabile. Portava una sottana assai mal ridotta, un tempo nera, adesso divenuta
verdastra. Seppi poi da lui stesso che era stato riconosciuto dallo Stato come
amministratore del convento confiscato a condizione che rinunciasse al bell'abito del suo
ordine. Il suo corpo, grande e alto, un po' curvo per l'età, s'appoggiava ad un bastone, e il
suo cappello mostrava la corda. Il suo viso, che si tendeva in quel momento verso i nuovi
venuti, e completamente glabro, somigliava vagamente, in realtà, a quello d'un attor
comico; adorno d'un naso infinito, vero naso da tabaccone, reso ancor più lungo dalla
magrezza delle guance e dalla piega della bocca alla quale mancavano i denti davanti. Lo
sguardo del vecchio correggeva subito questa prima impressione. Sebbene i suoi occhi
non fossero grandi, e il colore, d'un verde screziato, ne fosse impreciso, vi bruciava una
fiamma che avrebbe fatto abbandonare ogni scherzo al mio giovane compatriota, se
avesse avuto la minima esperienza di quello che vale una fisionomia umana. La sua frase
impertinente di freddurista mi urtò tanto di più perchè l'aveva pronunciata con voce molto
chiara nel grande silenzio di quel tardo pomeriggio d'autunno. Ma don Gabriele Griffi
sapeva il francese? e se lo sapeva, che cosa poteva voler dire per lui il nome del povero
attore che recitava in modo tanto brillante la parte di Marasquin nel Marito deU'e
sorrdiente? In un lampo, a causa di quel maledetto scherzo, le scene di quella commedia
deliziosamente faceta mi tornarono alla memoria - che contrasto! - con le quattro
giovaJ;li che dicevano con tanta allegria sotto il naso disperato dello stesso Hyacinthe,
alzando tutte insieme i loro graziosi piedini: . “.. Sua moglie l'ha lasciato... per andarsi a
divertire... e andiamo dunque...” E intanto l'eremita del quale stavamo per essere gli ospiti
ci diceva, in un italiano elegantissimo e puro:
“Venite a visitare il convento, signori?... Perché non m'avete avvertito? Non hai detto a
questi signori, Pasquale, che bisogna scrivere prima?...” soggiunse rivolgendosi al
cocchiere.
“Io? Ho creduto che questi signori avessero scritto, Padre abate, quando il segretario del
loro albergo me li ha affidati, perché li conducessi qui.”
“Insomma, mangeranno quello che ci sarà.”E, rivolgendosi a noi con un buon sorriso e
mostrandoci il cielo: “Quando le cose vanno male, bisogna chiudere gli occhi e
raccomandarsi lassù...”
Balbettai una scusa in un italiano mediocremente corretto, ma il Padre m'interruppe con
un gesto:
“Venite prima a vedere le vostre stanze. Per consolarvi del pasto che dovrete fare, vi
nominerò abati generali.”
“Rideva ancora, nel pronunciare questo scherzo innocente, che, al momento, non riuscii
ad afferrare. Del resto, ero preso troppo completamente dallo spettacolo che offriva, alla
luce del sole già basso, quel vasto edificio rosso, del quale potevo misurare la grandezza
al tempo stesso che ne constatavo la solitudine. Monte Chiaro è stato costruito in varie
epoche dal giorno nel quale il capo della famiglia della Gherardesca, lo zio del tragico
Ugolino, si ritirò in quella vallata sperduta, per farvi penitenza, con nove compagni, nel
1259.
Nel secolo scorso, vi abitavano più di trecento frati, a loro agio, e l'abbazia bastava a se
stessa col suo forno per il pane, il suo vivaio, i suoi frantoi, le sue scuderie. Le
innumerevoli finestre di quella grande fattoria devota erano adesso tutte chiuse, e il
colore biancastro delle imposte, un tempo dipinte di verde, era una prova d'abbandono,
come l'erba cresciuta sulla terrazza, davanti alla chiesa, come il velo di polvere teso sulle
pareti dei corridoi nei quali entrammo, seguendo don Griffi. Anche i più piccoli
particolari ornamentali dicevano la potenza dell'abbazia, dal vasto lavabo di marmo
adorno di teste di leone, posto all'ingresso del refettorio, all'architettura dei tre chiostri
che si succedevano, tutti e tre decorati con affreschi. Quella prima occhiata bastava a far
riconoscere in quelle pitture il gusto pedantesco del diciassettesimo secolo italiano; e
forse quelle accademiche coloriture nascondevano altri capolavori spontanei d'un Gozzoli
o d'un Orcagna.
Salimmo i gradini d'una scala lungo la quale erano appese delle tele annerite dal tempo,
tra le altre un delizioso cavaliere di Timoteo della Vite, il vero maestro di Raffaello, finito
là chissà come. Poi infilammo un altro corridoio, al primo piano, questa volta, sul quale
s'aprivano le porte delle celle, con le scritte :Vìsitator prìmus, Vìsìtator secundus, e così
via, per fermarci davanti all'ultima, sopra la quale si vedevano una mitra e un pastorale. Il
Padre, che non aveva più pronunciato una parola dalla soglia, se non per indicarci il
Timoteo, ci disse, in francese, questa volta, con un lieve italianismo, e con pochissimo
accento forestiero:
“Questo è uno dei quartieri che do agli ospiti;” e, facendoci entrare: “Ecco le stanze che
tutti i superiori hanno occupato, per cinquecento anni.”
Guardai con la coda dell'occhio messer Philippe, che era rimasto piuttosto confuso nel
sentire che la nostra guida conosceva tanto perfettamente la nostra lingua. Forse l'abate se
n'era accorto, e voleva farei comprendere che avrebbe capito tutto quanto avessimo detto?
Oppure voleva, con una semplice cortesia d'ospite, evitarci la fatica di cercare le parole?
Mi fu impossibile indovinarlo dalle grandi fattezze immobili del suo viso. Pareva
interamente assorto dai ricordi che l'aspetto di quella vasta stanza a volta ridestavano in
lui. Alcune sedie moderne, un tavolo quadrato e un canapè la mobiliavano poveramente.
una porta semiaperta a uno degli angoli mostrava un altare con delle tele fumose: senza
dubbio quello al quale il superiore diceva le sue preghiere. Un'altra porta, di fronte, e
spalancata, mostrava una fuga di due stanze, ciascuna con un letto di ferro, delle sedie, e
delle catinelle posate su miseri cassettoni. Il pavimento non era nemmeno passato al
cinabrese. Il legno delle porte e quello delle finestre era pieno di fessure. Ma si vedeva un
paesaggio veramente sublime. Su di un'altura, di fronte, un villaggio dalle case strette
l'una all'altra; e, da quel villaggio fino al monastero, scendeva una vegetazione
meravigliosa. I cupi cipressi s'alternavano con delle querce, il cui verde fogliame qua e là
rosseggiava. Altre tracce di cultura si scoprivano in fondo alla vallata, posta a
mezzogiorno, nella quale brillava l'argenteo fogliame degli olivi. Là, evidentemente,
s'erano diretti tutti gli sforzi dei monaci esiliati in quella tebaide. Fuori di quell'oasi,
ricominciava la solitudine, ancor più severa, e dominata dal picco più alto di quelle
montagne pisane,da quell’Verruca sulla quale cade in rovina un antico castello rifugio
d'un signore contro il quale doveva essere stato costruito il bastione quadrato che
difendeva il convento da quella parte. Il piccolo fortino quadrato profilava anche dietro
quella finestra i suoi merli di pietra ossiceia, stagliato sul chiarore del cielo seminato di
nuvole rosa. Il mio compagno non pensava più a scherzare, colpito quanto me nel vivo
della sua natura d'artista dalla severità graziosa dell' orizzonte che certo avevano
contemplato, in ore simili a quella, gli occhi oggi chiusi per sempre di tanti frati; gli uni
occupati unicamente del mondo di là, i quali scorgevano, nei cieli rosati di quel dolce
color di rosa, i miraggi dei rosei paradisi, mentre altri, frenetici e dominatori, sognavano,
in quel luogo e tra quel silenzio, il cappello di cardinale, la tiara, forse.
Questo verso delle Contemplazioni mi ritornò in mente, come ad ogni incontro col
passato, quando subisco la sensazione quasi dolorosa che dà un contatto troppo
immediato con quello che è stato e non sarà mai più. Durò un minuto appena, e, durante
quel minuto, l'antica vita del monastero mi passò davanti, intera, incarnata nei sogni umili
o superbi di coloro i quali ne erano stati i principi. Adesso avevano per unico successore
il vecchio abate, dalla. sottana consunta, dalle scarpe non lucidate; il quale ruppe per
primo il silenzio, e ci disse:
“Non è meraviglioso questo panorama? Sono quarant'anni che abito questo convento,
senza mai uscirne, e non ne sono stanco...”
“Quarant'anni?” esclamai, quasi mio malgrado. “E senza mai uscirne?.. Ma avrete
viaggiato, qualche volta?” . .
“Sì, è vero, due volte in tutto,” mi rispose; “due viaggi di sei giorni l'uno... Sono
ritornato a Milano, la mia patria, alla morte di mia sorella che ha voluto fossi io a portarle
i sacramenti. Povera, santa anima d'angelo! E sono andato a Roma, quando hanno dato il
cappello al mio vecchio maestro, il cardinale Peloro... Sì,” continuò, fissando un punto
immaginario nello spazio, “sono arrivato qui nel 1845. Com' era bello, allora, Monte
Chiaro; e che messe cantate! Aver veduto questo convento come l'ho veduto e vederlo
come lo vedo, vuol dire ritrovare un corpo senz' anima laddove s'è conosciuta la gioventù
e la vita... Ma pazienza, pazienza!
Multa renascentur quae jam cecidere, cadentque .
Quae nunc sunt in honore vocabula.
“Orsù, signori,. vi lascio per andar a ordinare il vostro pranzo... Luigi vi porterà le
valige. Con lui, pazienza, pazienza... Chiudere gli occhi, sapete, chiudere gli occhi, e
raccomandarsi a Dio!...”
Don Gabriele Griffi uscì, dopo questo consiglio e questa citazione. Appena ebbe varcata
la soglia Philippe si lasciò cadere su una poltrona, ridendo del suo eterno tristo riso:
“Per la fede del corpo mio,” fece, “come bestemmiava il buon re Carlo VIII, valeva la
pena di fare il viaggio per questo grottesco...”
“Non so che cosa troviate di grottesco in quello che ha detto questo prete,” gli risposi;
“vi ha raccontato con molta semplicità la storia del suo convento, che non può non essere
un grande dolore per lui, e la sopporta con la speranza fiduciosa d'un vero credente. Ho
quasi quindici anni più di voi, ho girato il mondo, come senza dubbio lo girerete anche
voi, inseguendo molte chimere, e so che non v'è nulla i più savio e bello quaggiù d'un
uomo che lavora a stessa opera, con lo stesso ideale, in uno stesso angol di terra...”
“Amen,” concluse il mio giovan compagno, ridendo più forte. “Che volete? Le sue belle
messe cantate, il suo maestro, il cardinale, l'anima angelica di sua sorella, e, sopra tutto,
quelle citazioni da Orazio e queste sue funzioni da direttore d'albergo!... Poiché, dopo
tutto, la paghiamo, questa ospitalità, e val bene una lira la notte questo tugurio,” continuò
prendendomi per mano per portarmi nella prima delle due camere da letto. “Ma,”
concluse ironico, “poiché ciò vi dispiace, caro maestro..”
Strano ragazzo! Non posso trovare miglior paragone con la sensazione che mi faceva
provare di quella che dà un'imposta la quale strida a tutti i venti. A ogni nuova
impressione della vita, pareva che i suoi nervi dessero un suono falso. Quello che c'era in
lui di sconcertante, e che credo di non avere abbastanza lodato, era la fiamma
d'intelligenza che correva nei suoi motti di spirito, degni d'un ragazzo di cattivo umore e
maleducato. Ho tralasciato di dire che durante il viaggio m'aveva stupito con due o tre
osservazioni sulla composizione geologica del terreno che percorrevamo; e, affacciatosi a
un balcone che serviva tanto alla sua camera che alla mia, cominciò, davanti al piccolo
fortino che difendeva l'abbazia, a parlarmi dell'architettura fiorentina da uomo che aveva
ben letto e ben guardato: cose davvero assai rare. Queste conoscenze, estranee a quelle
rivelate dai suoi diplomi, finivano di provarmi una stupefacente agilità d'intelligenza,
dopo che avevo constatato la sua enorme erudizione in fatto d'alta e bassa letteratura
contemporanea. Ma quell'intelligenza pareva gli appartenesse come un gioiello, o meglio
come una macchina. Era per lui una cosa esteriore. Non era lui stesso. La possedeva ed
essa non lo possedeva. Non gli serviva né a credere né ad amare. Lo paragonai
involontariamente a quel don Gabriele Griffi che aveva schernito. Certo, il povero frate
non pareva brillare per la sottigliezza dell'intelletto, ma lo avevo subito sentito così vero,
così sinceramente devoto alla sua missione, alla sorveglianza, del suo convento, fino allo
sperato ritorno dei suoi confratelli. Dei due, qual' era il giovane e quale era il vecchio, se
la gioventù consiste nell'abbracciare il proprio Ideale con una stretta forte e invincibile?
Eppure, consunto dall'ironia e dal nichilismo precoce, il mio giovane compagno aveva
per lo meno delle opinioni ben chiare. Se era in antitesi col venerabile prete preposto a
guardia del monastero vuoto, lo era francamente; si trattava dell' opposizione della nostra
metà del secolo allo spirito semplice e pio dei tempi antichi. Non ero forse ancor più
infelice io, che avrei passato la vita a comprende ugualmente la colpevole attrattiva della
negazione e lo splendore della fede profonda, senza mai fermarmi né all'uno né all'altro di
questi due poli dell' anima umana?
Queste riflessioni mi si imposero ancor più quando, verso le sette, mi trovai seduto a
tavola, per il pranzo che l'abate aveva fatto preparare per noi, in una grande sala che in
altri tempi serviva, come ci disse, di refettorio ai novizi. Una lampada di ottone a quattro
becchi e d'antica fattura, con gli smoccolatoi, gli aghi e gli spegnitoi appesi a catenelle
dello stesso metallo, rischiarava con la sua luce fumosa un angolo dell'enorme tavola,
sulla quale stavano le caraffe con lo stemma del convento. Ognuno di noi ne aveva due
accanto, una piena di vino e l'altra piena d'acqua. Erano le bottiglie che misuravano
affranti la parsimoniosa quantità di liquido accordata alla loro sete. Un piatto di fichi
freschi e un piatto d'uva erano già in tavola. Delle scodelle già piene di zuppa ci
aspettavano; e in un piatto c'era del formaggio di capra. In un altro piatto vidi del
prosciutto crudo, in un terzo, del pane raffermo; e delle castagne lesse completavano la
cena, la cui frugalità provocò una citazione-tatrn.a dello stesso ordine della precedente da
parte del dotto frate. Aveva detto il Benedicite mettendosi a sedere con noi.
“Ancora Dante!” mi sussurrò all'orecchio Philippe. “Questi animali non sono capaci di
far nulla, nemmeno di mangiare un pezzo di gorgonzola, quel loro infame formaggio
verde, senza citare un verso di quel bietolone fiorentino che si chiamava Durante, vale a
dire Durand. Lo sapevate? È stato Vallès a trovare questo scherzetto. La Divina
Commedia firmata Durand!... Mi vien voglia di servire al nostro ospite questa
mistificazione.”
“Cascate male,” ripresi. “Vi ho già detto la mia ammirazione per il grande poeta.”
“Lo so,” fece, “è la vostra manìa idolatra, devota e sacrificale. Ma io, vedete, sono d'una
generazione d'iconoclasti: ecco tutta la differenza tra noi...”
Mentre scambiavamo sottovoce queste parole, la sottana della nostra guida,
fantasticamente illuminata dalla lampada, le cui fiamme non riparate tremavano all'aria,
si sprofondava in interminabili corridoi. Salimmo una scala. Ne scendemmo un' altra.
Passavamo accanto alle arcate d'un chiostro. Talvolta un uccello notturno volava via al
nostro avvicinarsi; oppure un gatto si metteva a correre, silenzioso e spaventato. Se ci
fosse stato un po' di chiaro di luna, ci sarebbe sembrato di vivere in un paesaggio
romantico, tale da doverne subire l'incubo, nell' attraversare l'enorme convento. Evocavo
col pensiero i religiosi dei secoli passati che avevano percorso il nostro stesso cammino,
nell' ore tenebrose, per l'uffizio notturno a nostra stessa guida mi appariva com'era stata
quant'anni avanti, quando seguiva gli stessi corridoi, in fila, coi confratelli, giovane,
pieno di fede, innamorato dell' ordine al quale apparteneva. Quali malinconici ricordi
s'agitavano in lui, adesso che sopravviveva quasi solo nell' edificio abbandonato? Ebbene,
no! Era allegro, in quel disastro, quasi gioviale, retto dalla sicurezza che gli veniva dalla
fede. Quale potenza in quel fenomeno tanto misterioso che costituisce la credenza
assoluta, intera, inattaccabile!... Ma già don Griffi s'era fermato davanti a una porta. Di
nuovo cercava una chiave nel mazzo da carceriere che aveva nella mano libera. La
vecchia serratura stridette, ed entrammo in una stanza alta, dove la luce tremolante dei
quattro becchi della lampada illuminò vagamente due pareti dipinte a fresco, e una quarta
che, al primo sguardo, mi parve ancora tutta bianca di calce.
“Ragazzo mio,” diceva l'abate a Luigi, “dammi il cerino, ch'io l'accenda. Tu mi faresti di
nuovo cadere della cera sulla sottana, che non ne ha bisogno”
Infatti, aveva posato la lampada per terra, e verificava con cura che il moccoletto fosse
bene attaccato in cima alla pertica. Poi, acceso il piccolo lucignolo, cominciò a muovere
su e giù, lungo il muro, la fiammella; e come per magia i vari pezzi della pittura del
maestro toscano rivissero a quel chiarore. II vecchio frate mosse la fiammella su di una
parete, e vedemmo la piaga d'un Cristo, la mano dell'apostolo che benediceva ancora
quella ferita, lo sguardo doloroso del Salvatore, e, sul volto di san Tommaso,
un'espressione mista di rimorso e di curiosità; e gli angeli portavano su in cielo gli
strumenti della Passione, e avevano le belle guance bagnate di lacrime. Vedemmo, su un'
altra parete, un particolare dopo l'altro, i ricami d'oro e la tunica verde di Gondòforo; le
pietre preziose traboccavano dai vasi offerti all' apostolo, mentre i pavoni aprivano le loro
code occhiute sui" balconi, i pappagalli variopinti s'appollaiavano sui rami degli alberi e i
signori cacciavano, portando seco i leopardi alla catena nelle strade montane. E la
fiammella continuava a muoversi, come un fuoco fatuo. Quando era passata, l'angolo, che
aveva sottratto all' ombra, vi ritornava d'un tratto. Era impossibile giudicare dell'insieme
dell' opera. Così lntravveduta, aveva un fascino fantastico stranamente appropriato al
luogo e all' ora, tanto più che don Griffi, mostrandoci i due affreschi, obbediva
infantilmente al gran piacere che gli davano. Godeva, nel rivederli, come un avaro che
tocchi i diamanti del suo tesoro. Non era forse una sua creazione, il prezioso gioiello del
quale aveva arricchito il suo caro convento? E parlava, accompagnando le frasi con le
rughe del suo vecchio volto espressivo:
“Vedete il dito dell' apostolo, come esita, e il gesto di Nostro Signore, e la sua bocca... Si
fa così, quando si ha un dolore e il medico ci tocca... E il paesaggio, nello sfondo; non
riconoscete la Verruca e la collina di Monte Chiaro?... Guardate, là, a destra, le vostre
stanze; e quegli angeli, come i loro occhi si son fatti più piccini!... Piangono, ma non
vogliono piangere, e arricciano un pochino il naso, così... E il re moro?... Guardate sugli
orecchini. Uno dei nostri Padri, che è morto qui, dopo la soppressione, - Dio l'abbia in
gloria! aveva fatto degli scavi nei pressi di uno dei nostri conventi, vicino a Volterra.
Aveva trovato una tomba etrusca e degli orecchini simili a questi, accanto al cranio d'uno
scheletro. C’ho conservati, ve li mostrerò... E questo?...”
In quel momento si voltò, e vidi che dirigeva la luce verso un angolo, a destra, sulla
parete che dapprima m'era sembrata tutta bianca. La fiamma magica rischiarò su quel
biancore un pezzo dipinto, grande la metà d'una mano. II caso aveva voluto che nel
cominciare la ripulitura, subito interrotta, il frate scoprisse esattamente la metà d'un volto
di Madonna: la linea del mento, la bocca, il naso e gli occhi. Quel sorriso e quello
sguardo della Vergine così svelati, sulla grande parete dipinta a calce, colpivano.come
un'apparizione soprannaturale. La fiammella vacillava un poco, attaccata com' era a un
bastone tenuto dalle mani del vecchio, e pareva che le labbra della Madonna si
movessero, che le sue guance respirassero, che le sue pupille tremassero. Si sarebbe detto
che vi fosse davanti a noi una donna viva, la quale stava per allontanare da sé quel
sudario d'intonaco e per rivelarcisi nella libera grazia della sua giovinezza. Adesso il
nostro ospite taceva, ma la sua fisionomia esprimeva una devota ammirazione tanto
profonda che compresi perchè non s'affrettasse a liberare dalla mano di calce il resto dell'
affresco. Il suo sentimento d'artista ingenuo e il fervore della sua fede gli facevano sentire
la poesia di quel divino sorriso e di quegli occhi divini, come imprigionati in quel brutale
rivestimento. Tacevamo. Philippe, adesso, era vinto dalla forza dell'impressione, e lo
sentii mormorare:
“Ma è dell'Edgar Poe, è dello Shelley...”
Il Padre abate, che certo non conosceva nemmeno di nome questi due autori, rispose
ingenuamente, senza dubitare di pronunciare una troppo giusta critica della frase e della
sensazione del suo giovane vicino:
“No. No. È del Benozzo Gozzoli...Vi mostrerò la prova nel Vasari; e sapete che cosa c'è
lì dietro? Certo il miracolo della cintura...”
“Quale miracolo?” gli domandai.
“Come,” fece, mostrandosi stupito, “non avete veduto, nel duomo di Pistoia, la cintura
della Santa Vergine, ch'essa gettò a san Tommaso dopo 1'ascensione?.. Era assente,
quand'ella salì in cielo alla presenza degli altri apostoli. Ritornò tre giorni dopo, e, poiché
dubitava ancora della verità di quello che non aveva veduto, la Madonna ebbe la bontà di
lasciar cadere davanti a lui quella cintura, perchè non dubitasse mai più.”
Ci raccontava questa leggenda - la quale prova, tra parentesi, che 1'antica religione
cattolica aveva preveduto anche gli analisti e la possibile salvezza dell'anima loro -
mentre spegneva il cerino con un soffio, rendendolo a Luigi e chiudendo di nuovo a
chiave la porta. La semplicità della convinzione con la quale parlava di quel miracolo finì
di provarmi ch'egli viveva nel soprannaturale come noi, figli del secolo, viviamo
nell'inquietudine e nell'assurdità. Non seppi fare a meno di paragonarlo, con la fantasia, al
piccolo frammento d'affresco che ci aveva mostrato sulla terza parete. Quel pezzetto di
pittura bastava ad animare tutto il gran muro bianco, e lui solo, don Gabriele, con la sua
sola presenza bastava ad animare il gran convento deserto. Ne era veramente l'anima, lo
sentivo, ora; e un' anima che rappresentava, nel vero senso della parola, tutte le anime dei
suoi fratelli assenti. Ho veduto, nella mia infanzia, un ufficiale della Grande Armata
passare su uno dei marciapiedi della città nella quale sono cresciuto. Quel vecchio
Soldato zoppicava un poco, perché era stato ferito a Lipsia; era povero, e la rosetta della
Legion d'onore ornava un vestito liso. Eppure, per me, era tutta l'epopea dell'Impero,
perché sapevo che l'Imperatore l'aveva decorato con la sua mano! Adesso, nel seguire
don Griffi, provavo un'impressione analoga. Egli portava tutto il suo ordine nelle pieghe
della vecchia sottana che Luigi curava tanto poco. Tale è la grandezza che ci danno le
abdicazioni assolute della nostra personalità a vantaggio di un' opera molto grande e
molto alta. Rinunciamo a noi stessi, e, ad un tempo, diventiamo più grandi; per una legge
che le società moderne, innamorate d'un individualismo grossolano, disconoscono
stranamente. L'uomo non vale che per la sua capacità di immolarsi a un'ideale; e che cos'è
un esercito, che cos'è un ordine, se non un'idea organizzata e che in tal modo s'è
assimilate migliaia d'esistenze? Ognuna di queste esistenze partecipa a sua volta alle
forze riunite di tutte le altre. Che cosa sarebbe stato don Griffi senza il suo convento?
Senza dubbio uno studioso dell'antichità, dallo spirito ristretto, che sarebbe vissuto
catalogando un piccolo museo. Poiché, appena fu passata la sua esaltazione, e mentre
risalivamo verso il nostro appartamento, anche lui ci fece di quei discorsi da collezionista
che dimentica il fondo dell'opera d'arte per discuterne soltanto l'ambiente, le
rassomiglianze e l'autenticità.
“È stato trattato spesso,” diceva, “quest'argomento della Madonna dalla cintura e di San
Tommaso. All'Accademia di Firenze troverete un grazioso bassorilievo di Luca della
Robbia, nel quale la Madonna circondata dagli angeli dà la sua cintura all'apostolo...
Francesco Granacci ha trattato lo stesso motivo due volte, e Fra Paolino di Pistoia, e
Taddeo Gaddi, e Giovanni Antonio Sogliani, e Bastiano Mainardi; quest'ultimo, a Santa
Croce... Le trigliette mi hanno già mandato delle fotografie di tutti questi dipinti. Anche
se non ho veduto altro che la testa della Vergine, sono sicuro che quello del nostro
Benozzino sarà la migliore... Ma se entrerete nella mia cella, vi mostrerò gli orecchini e la
piccola collezione di don Pio Schedone...”