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Paolo Redi

ELISABETTA
CANORI MORA
un amore fedele
tra le mura di casa

città nuova

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PAOLO REDI

ELISABETTA CANORI MORA


un amore fedele tra le mura di casa

PREFAZIONE
«Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca
contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: Non ti dico
fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

(Mt 18, 21)


Una donna che viene da lontano
È vissuta due secoli fa, e questo sembra rendere lontana e
sbiadita la sua figura. Cosa può dire alle donne e alle spose
di oggi, la storia di una donna e sposa vissuta in Roma tra la
fine del '700 e gli inizi dell'800? Forse nulla, o quasi. È troppo
distante e lontana. È vissuta in un'epoca che aveva menta-
lità, cultura, abitudini troppo diverse dalle nostre. Per i gio-
vani di oggi, le persone che hanno superato i 40 anni sono
già dei «trapassati» o dei «dinosauri». Da questo punto di vista
Elisabetta è separata da noi da una distanza stellare!
Eppure Elisabetta parla con la sua vita, e la sua voce giunge
a noi limpida e chiara. Cambiano gli abbigliamenti, le
pettinature, le abitudini delle «ragazze di buona famiglia» e il
bon ton. Ma i sentimenti non cambiano. L'amore è sempre
uguale; e le storie d'amore si rassomigliano tutte. Sotto il pe-
plo, i cenci della mendicante, gli abiti dimessi della donna del
popolo, i vestiti sfarzosi della regina, gli abiti firmati o il prêt-
à-porter della ragazza di oggi, il cuore batte sempre allo
stesso modo, perché l'amore non ha data. E anche il tradi-
mento si ripercuote nella vita delle persone sempre allo stesso
modo: con le stesse amarezze e lo stesso senso di morte.

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La storia di Elisabetta Canori è la storia di una donna
tradita. Il suo uomo, Cristoforo Mora, l'aveva conosciuta
quando Elisabetta aveva 20 anni e lui 22. Il giovane e pro-
mettente avvocato se ne innamora a prima vista. Lei è bella,
elegante, fine, colta, di sentimenti profondi e di una religiosità
sincera senza bigottismi. La chiede subito in sposa, e pochi
mesi dopo, con il consenso delle due famiglie, sono marito e
moglie. Un vero matrimonio d'amore, anche se venato, da
parte di Cristoforo, da un senso di eccessiva possessività e di
accentuata gelosia. Giunge a impedirle di vedere i genitori
perché la vuole tutta per sé; le proibisce di lavorare d'ago per-
ché non rovini le sue belle mani; e al ritorno dalle feste spes-
so la rimprovera perché troppa gente le ronzava attorno. Eli-
sabetta deve essere tutta e solo sua. Dopo pochi mesi resta
incinta, e Cristoforo segue la gravidanza con tenerezza e
trepidazione. Nasce una bimba, ma nonostante le cure del
suocero, noto e affermato medico, la piccola vive solo pochi
giorni. È il primo grande lutto che si abbatte su quella coppia
felice. Ma da quel momento la sofferenza entra come ospite
sgradito e indesiderato nella loro casa e vi prenderà stabile
dimora: non la abbandonerà più.
L'idillio dura appena due anni. Elisabetta si accorge del
cambiamento di Cristoforo. Non è più quello di prima. Chiede
spiegazioni; e lui la rassicura: sono preoccupazioni, nervo-
sismi, assenze causate dalla professione. Ma il suo intuito di
donna - confermato da voci di persone che dimostrano di es-
sere bene informate su quello che sta avvenendo - le danno la
certezza: Cristoforo ha un'altra donna. La conferma viene nel
momento in cui è per la seconda volta incinta. Per lei è una
mazzata. Non sa cosa fare. Tiene per sé il segreto, pensando
che la cosa finisca. Cristoforo ha qualcosa di infantile.
La sua possessività e la sua gelosia ne sono una conferma.
Ed Elisabetta si illude che dopo questa sbandata le cose
ritorneranno come prima. Ma Cristoforo sembra letteralmente
stregato. Ha incontrato una donna del popolo che è riuscita a
legarlo a sé, e che lo sta portando alla rovina.
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Iniziano così i primi sette anni di tormenti, di speranze
deluse, di attese senza rientri. Continuano a vivere insieme; e
avranno ancora tre figlie, di cui solo due sopravvivranno. Eli-
sabetta non si arrende: ritorna sull'argomento, discute, rim-
provera, supplica, richiama il marito al senso di responsabi-
lità, moltiplica le sue attenzioni. Ma inutilmente. Solo una
volta, dopo una lunga malattia in cui Elisabetta ha dimostra-
to tutta la sua dedizione e il suo amore, Cristoforo sembra de-
ciso a ritornare alla sua famiglia. Ma è una promessa che non
ha seguito. Appena guarito riprende la relazione con quella
donna.
La donna fedele nel tradimento
Nonostante questa nuova delusione Elisabetta continua ad
essergli fedele e ad amarlo. Ha capito fino in fondo che cosa
significa «sposarsi nel Signore»: sa che Dio le ha affidato
Cristoforo e che lei ha la responsabilità di portarlo a salvezza.
Resiste anche al consiglio del confessore che le suggerisce di
separarsi. Non può abbandonarlo, perché Dio glielo ha affida-
to. Quando ha promesso di amarlo per tutta la vita, ha preso
sul serio queste parole. E quando le hanno detto che avrebbe
dovuto amare Cristoforo «come Cristo ama la Chiesa», ha ca-
pito che l'amore va oltre il gusto di stare insieme. È un impe-
gno che non finisce mai. neppure quando l'altro rifiuta di la-
sciarsi amare, neppure quando abbandona la casa e si
allontana alla ricerca di nuove avventure, e ama altre donne.
Il modello è quello del Padre celeste, che ama anche quando il
figlio decide di andarsene dalla casa paterna e sperpera tutto
il suo patrimonio. È quello che Cristoforo sta facendo.
Elisabetta sa che deve continuare a volergli bene e che deve
lavorare per riportarlo alla sua famiglia e a Dio. Non sa
ancora come. Ma è certa che questa è la missione che Dio le
ha affidato. E questa convinzione la accompagnerà per tutta
la vita.
Ma come può salvare la persona che ogni giorno si allontana
sempre di più e che respinge ogni sua offerta e ogni suo
intervento? Oggi sembrerebbe normale rivolgersi ad un
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consultorio, o a persone specializzate per chiedere consiglio o
per iniziare con esse una analisi o una terapia d'appoggio,
per essere aiutati a ricostruire un equilibrio interiore e una
propria identità nella situazione del tradimento.
Elisabetta seguirà un'altra via. O meglio. Sarà Dio stesso a
prenderla per mano e a condurla per una via assolutamente
nuova, che la porterà a ricostruire il rapporto d'amore con il
suo Cristoforo.
La logica degli uomini e la logica di Dio
I cristiani continuano a parlare di fedeltà; ma quando si
racconta loro il modo in cui Elisabetta ha vissuto la fedeltà,
molti di essi scuotono il capo. Perché anche tra di loro conti-
nua a resistere la mentalità del mondo che presenta l'uomo
infedele in modo simpatico o almeno tende a scusarlo. Si dice
che è un uomo che non si chiude nel ristretto mondo del ma-
trimonio, che sa conservare il gusto della conquista, che con-
serva la freschezza e lo slancio di chi non si lascia dominare
dalla noia e dalla routine quotidiana, che ha forza e fantasia
e si butta con entusiasmo in nuove relazioni affettive. È l'uo-
mo della novità, che sa rilanciare la sua vita quando si accor-
ge che si sta spegnendo, o che non si accontenta di quello che
ha, e va come un esploratore alla ricerca di prede e di terreni
umani nuovi.
E accanto a questa figura maschile aitante e intraprendente,
continua a resistere lo stereotipo della donna tradita che
piange, si dispera, si consuma nell'attesa: la donna che è
simile all'edera che vive finché si appoggia alla vita solida
dell'uomo; ma che si affloscia, si ripiega su di sé e muore ap-
pena da lui si distacca.
Elisabetta cancella e supera questi schemi. Il marito si
innamora di un'altra, e la tradisce per tutta la vita. Dopo il
primo inevitabile smarrimento non si ripiega su se stessa, e
non si abbandona al canto triste della «malmaritata»; ma si
rimbocca le maniche e costruisce una vita nuova per sé, per le
figlie e per lo stesso marito. Non si compiange, non elemosina
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compassione, non lotta contro chi le ha rubato il marito,
perché sa che a quel livello è ormai perdente. Mette in atto
una strategia nuova che è Dio stesso a suggerirle, e col Suo
aiuto apre una strada che la ricongiungerà al suo Cristoforo.
Si ritroveranno uniti in questo cammino anche se a livelli di
vita più alti e in tempi diversi. È un cammino nuovo, difficile,
faticoso, pieno di rinunce e di sofferenza; ma sereno, come è
sereno un mattino di primavera, quando il sole dà vita e ca-
lore e il cielo è terso e rende bella e luminosa la vita, anche se
è tutta in salita.
Elisabetta esce dagli scenari costruiti dall'uomo e accetta di
entrare in un orizzonte nuovo, con paesaggi costruiti secondo
la logica di Dio. Non le è stato facile, come non è stato facile
ad Abramo lasciare tutte le sue sicurezze e iniziare un
cammino verso terre sconosciute. Ma come Abramo, anche
Elisabetta è certa di giungere alla terra promessa e di ritro-
varsi col suo Cristoforo, perché in questo cammino ha Dio
stesso come guida. Si affida a Lui e si lascia condurre per
strade spesso incomprensibili. Sa che le vie e i pensieri di Dio
distano da quelli degli uomini quanto i cieli distano dalla
terra. Ha accettato di fare il salto di qualità che la fa entrare
nella «pazzia di Dio». Ma sa che accettando la proposta di Dio
costruirà una donna «nuova» e riconquisterà l'uomo che la tra-
disce. Potrà così ritessere con lui un rapporto nuovo, più
profondo, definitivo.
Una fedeltà nuova per un rapporto nuovo
Dopo sette anni di tradimento e di inutile attesa, avviene
qualcosa che cambia profondamente la vita di Elisabetta.
Giunge al termine della sua ultima gravidanza. È la quarta in
otto anni di matrimonio. Forse lo stress fisico, ma ancor più la
sofferenza morale la fanno cadere in una malattia che la
costringe a letto per nove mesi. I medici non sanno come cu-
rarla. All'improvviso sembra riprendersi e invece ricade in
una prostrazione fisica che la porta alle soglie della morte. Le
portano l'estrema unzione e il viatico, perché tutti sono ormai
convinti che non ci sia più nulla da fare se non prepararla al
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passo estremo. E invece questa è l'ora dell'appuntamento con
Dio.
Dio aspetta il momento in cui tutto sembra perduto per
ricominciare tutto da capo. Il punto di partenza è sempre il
deserto. Anche per Elisabetta. Non ha più nulla. Il marito la
tradisce; due figlie sono morte, e non è in grado di accudire
alle altre due; in casa non conta nulla, anzi le rimproverano
di essere la causa della vita dissoluta del marito; la stessa
servitù la deride. Sembra una donna ormai finita: svuotata e
senza futuro, ridotta ad una larva umana. E invece è il
deserto in cui incontra Dio. (La stessa cosa avverrà vent'anni
dopo a Cristoforo). La malattia che l'ha afflitta è misteriosa,
come misteriosa è la guarigione. Dio sta iniziando in lei la sua
opera. Elisabetta ha una visione. E in questa visione un
dardo infuocato la colpisce al cuore. Si sente pervasa dalla
presenza misteriosa del Dio amante che riempie totalmente la
sua vita. È una gioia che non ha mai provato: un riflesso
della beatitudine stessa di Dio nel suo piccolo cuore di donna.
Sente che Dio la chiama ad una missione particolare e che le
è vicino per aiutarla a portarla a termine. Si abbandona
totalmente a Lui, e con Lui inizia il cammino.
Le strade divergenti che si ricongiungono in Dio
Da questo momento le vie di Elisabetta e di Cristoforo
sembrano separarsi: l'uno infatuato della sua amante ed Eli-
sabetta proiettata tutta in Dio. Invece è l'inizio della ricostru-
zione del loro rapporto.
Cristoforo continua la relazione; e da questa storia raccoglie
frutti amari. La sua immagine pubblica viene offuscata dalla
relazione adulterina; la perdita di reputazione influisce
negativamente sulla sua affidabilità di professionista; inizia -
sotto la pressione dell'amante - speculazioni sbagliate che lo
riducono sul lastrico, con ripercussioni economiche pesanti
anche sulla sua famiglia; subisce un processo; viene escluso
dall'eredità dalle sorelle. E in tutte queste vicende Elisabetta

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continuerà a restargli vicina con il suo amore e anche con il
suo aiuto concreto.
Continua a vivere con lui, ma la sua vita percorre una via
tutta diversa. Ha accettato di camminare per la strada che
Dio ha preparato per lei. Non è la via della fedeltà che atten-
de con pazienza il ritorno del guerriero. Ma è una via di fe-
deltà nuova. Nessun consultorio o professionista sarebbe ca-
pace di proporla e soprattutto di sostenerla. Solo avendo Dio
come consulente e come terapeuta è possibile iniziarla e por-
tarla a termine. Vivrà giorno per giorno quello che Dio le
chiede. È un Dio esigente, ma che non si lascia vincere in ge-
nerosità. Passa ore e ore in preghiera; è arricchita di grazie
speciali e di doni straordinari; gode la gioia dell'estasi; parte-
cipa in visione a momenti della vita del Cristo; è dotata del
dono delle guarigioni, della preveggenza, del consiglio, della
bilocazione.
Una donna nuova per un rapporto nuovo
Ma tutto questo non la estranea dalla vita di ogni giorno. Dio
non ha la gelosia e la possessività dell'uomo. Al con trario,
quanto più è amato, tanto più dilata il cuore della creatura
che lo ama e lo rende capace di un amore ancor più generoso
e profondo. Elisabetta in questo rapporto con Dio acquista
uno straordinario equilibrio che le permette di vivere
intensamente l'estasi e la vita di famiglia, le visioni e il suo
lavoro di «camiciaia» per pagarsi l'affitto e mantenere le figlie,
il dono della guarigione e l'impegno faticoso con i poveri e gli
ammalati, il dono della preveggenza e del consiglio e
l'ubbidienza assoluta al confessore. Ma soprattutto vive con
più intensità l'amore per Cristoforo, e ha la forza di non ab-
bandonarlo anche quando continua a deluderla con promesse
che non mantiene. Anzi, si sente ancor più unita e responsa-
bile del suo destino. La casa è sempre aperta, per lui. E quan-
do lascia le due stanzette e la soffitta in cui viveva con le fi-
glie e riesce a trovare una sistemazione più dignitosa, la pri-
ma preoccupazione è di attrezzare uno studio dove Cristoforo
possa esercitare la sua professione. Cristoforo sembra vivere
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distrattamente con loro, come chi ha il cuore e la testa altrove;
ma lei non smette di metterlo al corrente e di chiedere il suo
parere per ogni decisione che prende per sé e per le figlie: è
sempre suo marito e deve sapere tutto. Così lo rende parte-
cipe della vita della famiglia.
In realtà Cristoforo è colpito da questa forza interiore e da
questa generosità; e osserva con stupore il cambiamento e i
fatti straordinari che avvengono nella vita di Elisabetta. Ma
non sa ancora decidersi a cambiare vita. Continua a
mantenere la posizione di chi sta alla finestra, e si accontenta
di guardare senza mai entrare nei fatti. È ancora legato alla
sua amante: ma Elisabetta lavora su di lui, irradiando su di
lui la bellezza che le viene dal contatto con Dio. Cristoforo la
vede sempre più trasfigurata nella luminosità di Dio, e nello
stesso tempo sempre più innamorata di lui e delle figlie.
Sente che la sua Elisabetta sta vivendo una vita
straordinaria. E poco alla volta ne resta affascinato. Quando
l'ha sposata era stato preso dalla sua bellezza; e ora si
accorge che c'è in lei una nuova bellezza che nasce e cresce e
si irradia diventando il punto di riferimento di tante persone
che si rivolgono a lei per consiglio, per conforto, per aiuto.
In una delle ultime misteriose malattie di Elisabetta,
Cristoforo passerà al suo capezzale ore ed ore. Parlano; ma
più frequenti sono i silenzi. Per Elisabetta sono silenzi pieni di
gioia per la presenza del suo Dio e del suo Cristoforo; per
Cristoforo sono momenti di riflessione e di pentimento, in cui
incomincia a risentire l'eco lontana della Sua voce. Elisabetta
lo sta trascinando insensibilmente nella direzione della mèta
a cui lei è ormai quasi giunta. Ma la distanza che li divide è
molto grande. Il problema ormai non è più la sua vicinanza
alla donna di cui si è innamorato e per la quale ha tradito
Elisabetta per tutta la vita; ma è la sua distanza da Dio. È là
che Cristoforo ritroverà la sua Elisabetta e si riunirà a lei per
sempre.
Sulla stessa strada, verso la stessa mèta

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Il cammino di Cristoforo incomincia dopo la morte di
Elisabetta. E come è avvenuto per Elisabetta, anche lui inco-
mincia dal deserto di cose e di persone; ma ha il vantaggio di
avere davanti a sé l'esempio della sua Elisabetta e dentro di
sé la sua presenza invisibile. Non si era lasciato prendere da
lei quando era viva. Ora invece Elisabetta può finalmente
prenderlo per mano e guidarlo per quella strada che lei per
prima ha percorso. Anche le figlie gli stanno vicino, quelle fi-
glie che nel passato aveva trascurato e che la madre aveva
continuato ad educare nel rispetto del padre. Una è sposa
felice con un bimbo; l'altra è entrata nella vita religiosa. Ad
una di esse che lo invitava a regolarizzare la sua situazione
con la donna per la quale aveva tradito la mamma per tutta
la vita, confida che anche lei è morta. Ora è solo. La decisione
di cambiar vita è sincera, anche se è duro cambiare mentalità
e abitudini. Si aggrappa col pensiero alla sua Elisabetta e da
lei trae forza per restare fedele al proposito di conversione.
Porta sempre con sé un suo ritratto e piange al pensiero delle
sofferenze che ha fatto patire alla donna che lo ha atteso per
tutta la sua vita.
Inizia una vita di preghiera e di penitenza. Accetta l'amarezza
della solitudine, il vuoto di affetti, l'umiliazione della povertà,
la durezza delle rinunce. Per unirsi ancor più alla sua
Elisabetta chiederà di essere accolto nel terz'ordine dei
Trinitari, per vivere la sua stessa spiritualità. Poco alla volta
matura l'idea di farsi religioso. Entra tra i Minori Conventuali.
Viene ordinato sacerdote. Vive nell'umiltà, nel na-
scondimento, nell'ubbidienza. Viene additato come esempio di
religioso perfetto e gli vengono affidati i giovani frati per la
loro educazione religiosa e teologica. Accetta tutto quello che
gli chiedono di fare. Ormai la sua vita non è più sua, ma di
Dio. È diventato come Elisabetta, e così diventa finalmente
«uno» con lei. Per sempre.
Morirà a 72 anni in concetto di santità. Il suo cammino di
conversione è durato quasi quanto il cammino di Elisabetta,
vent'anni.
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La storia di un matrimonio singolare
Si erano sposati nel gennaio 1796. Cristoforo inizia a tradirla
l'anno seguente. Sette anni dopo, nel 1803, Elisabetta viene
chiamata da Dio, e per 22 anni percorrerà il cammino da Lui
indicato, fino al 1825, anno della sua morte. È il cammino che
la trasforma e la rende donna «nuova» anche agli occhi di
Cristoforo. Cristoforo se ne innamora di nuovo, e si riunisce in
modo nuovo a lei percorrendo la sua stessa strada. Anche
per lui sarà un cammino che durerà 20 anni, fino alla morte,
avvenuta nel 1845. E al termine si ritroveranno insieme, in
Dio.
Possiamo dire che la loro è una storia in tre tempi. Il primo,
breve, in cui godono insieme un amore felice. Il secondo,
lungo 27 anni, in cui Cristoforo si abbandona al tradimento
ed Elisabetta invece inizia e porta a termine la fatica di una
ricostruzione della sua personalità, lasciandosi plasmare da
Dio. Il terzo, lungo 20 anni, in cui Cristoforo, dopo aver
riscoperto la nuova Elisabetta, se ne innamora per la seconda
volta e vive con lei la fatica della ricostruzione della sua vita e
della sua personalità. I tempi sono sfasati. Ma il risultato è
ottenuto. Elisabetta non avrà la consolazione di ri-
congiungersi al suo sposo in terra; ma avrà il conforto di aver
costruito con lui un rapporto molto più profondo e duraturo:
quello che due sposi raggiungono camminando sulla stessa
strada che porta a Dio, e vivendo nella gioia della contempla-
zione del suo Volto. Per l'eternità.
P. Giordano Muraro O.P.

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LA FAMIGLIA
Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774.
Tommaso Canori, il papà, è un importante proprietario
terriero, uno di quei mercanti di campagna che, nell'agro
romano, gestivano grandi tenute agricole con criteri
gestionali e commerciali avanzati. Un gentiluomo di vecchio
stampo che crede nell'onestà delle persone e nella giustizia
dei rapporti, amministra senza avidità, disdegnando il
sopruso e la sopraffazione. È persona di fede profonda e di
limpida moralità, probabilmente poco in sintonia con le
«novità» che in quegli anni si stavano diffondendo in Italia e
in Europa e stavano modificando radicalmente i rapporti
sociali ed economici.
Si sposa, giovanissimo, con Teresa Primoli, nobile, im-
parentata con i Bonaparte. La nuova famiglia, con casa di
proprietà in via Tor dei Conti presso Campo Carleo, è in
evidenza nella Roma che conta.
I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei
primi anni di vita: l'elevata percentuale di mortalità infantile
dell'epoca colpiva tutte le fasce sociali. Quando nasce,
Elisabetta trova cinque fratelli maschi e una sorella, Maria.
Due anni dopo di lei, nasce anche Benedetta, la sorella
minore cui Elisabetta riserverà molte cure e molto affetto.
Vita brillante, frequentazioni importanti, feste e balli
appartenevano allo stile di vita della famiglia Canori, nella
quale però era data grande importanza anche alla devozio-
ne, alla pratica religiosa, alla preghiera.
Elisabetta, per la sua prima educazione viene affidata alle
suore di S. Eufemia e si distingue per la vivacità della sua
intelligenza ma anche per una certa sensibilità religiosa e
per capacità di riflessione e maturità di giudizio. Apprende
in fretta a leggere e a scrivere. Le sue qualità e il suo felice
temperamento si impongono all'attenzione delle sue
educatrici, che le riservano qualche trattamento particolare.
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La superiora M. Geltrude Riggoli vorrà farle da madrina di
cresima (5 luglio 1782, in S. Pietro).
La fortuna economica della famiglia Canori si basava su un
difficile equilibrio tra agricoltura e commercio, che l'abilità e
l'onestà di Tommaso non riuscirono a salvaguardare a
lungo. Cattivi raccolti, moria del bestiame, insolvenza dei
creditori, avevano già compromesso la sua solidità
economica. I figli, cui affida le sue tenute, fanno il resto av-
venturandosi in una gestione inconsulta: puntano tutto sui
successi immediati e non cercano di salvaguardare il valore
reale della proprietà; badano ad assicurare alle loro rispetti-
ve famiglie redditi elevati ma dilapidano velocemente il pa-
trimonio paterno.
Tommaso Canori si trova, nel giro di pochi anni, in tali
ristrettezze da non avere i mezzi per assicurare alle figlie un
futuro adeguato. Deve ricorrere all'aiuto di un fratello,
residente a Spoleto, il quale accetta di farsi carico delle due
nipoti Elisabetta e Benedetta e decide di affidarle alle suore
Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia. Per i coniugi
Canori è una scelta dolorosa essere costretti a separarsi
dalle figlie per mancanza di mezzi, ma fanno di necessità
virtù e nel 1785 accompagnano le due ragazze a Cascia. Eli-
sabetta e la sorella restano nel monastero due anni e otto
mesi.
Il modello educativo di quei tempi prevedeva per le ragazze
soprattutto corsi di addestramento legati al loro futuro
destino di spose e di madri. Al cucito, al ricamo e ai lavori
femminili in definitiva veniva riservata maggior attenzione
che allo studio. Anche in queste attività Elisabetta, che
comunque nello studio riesce brillantemente, rivela una
particolare facilità di apprendimento.

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PRIME INTUIZIONI
A Cascia, Elisabetta intuisce che ci sono modelli di vita
alternativi a quelli da lei finora conosciuti. Con il tipico
slancio dell'adolescente, che vive di suggestioni, decide di
imitare lo stile di vita delle suore. Per pregare dorme poco ed
esagera nelle mortificazioni e nelle rinunce al punto da
risentirne fisicamente.
Il ricordo di Cascia l'accompagna per tutta la vita. «Quanto
stavo bene nell'età della mia puerizia in quel sacro chiostro
racchiusa - scriverà in seguito - ché ad altro non pensavo
che a Voi (Signore). Quanto lieto e tranquillo era il mio
cuore. Eppure allora non conoscevo il mio benessere». Vive
in maniera particolarmente intensa la sua prima
comunione. Da allora, l'Eucarestia sarà il fulcro della sua
vita spirituale e il centro della sua giornata: il permesso che
le verrà accordato, anni dopo, di fare la comunione quoti-
diana costituirà per lei un «privilegio» straordinario. Lo
trasformerà in quotidiano incontro d'amore, in dialogo
ininterrotto con l'«amato mio Bene», in impegno costante per
la salvezza e la redenzione del mondo e della Chiesa.
«Mi dedicai tutta al Signore - ricorda, sempre a proposito
degli anni trascorsi a Cascia - con continue orazioni e
mortificazioni e con esercizi di virtù, ma particolarmente col
raccoglimento interiore. Questo lo procuravo con la so-
litudine e con la mortificazione dei sentimenti del corpo. Ero
favorita da Dio bene spesso tanto nella santa Comunione,
quanto nelle orazioni». È evidente che da adulta Elisabetta
tende a considerare quell'esperienza giovanile come la prima
tappa del suo itinerario spirituale.
In occasione della prima comunione, senza chiedere il
parere di nessuno - il confessore del monastero pare non si
sia accorto della particolare ricchezza del suo spirito - Eli-
sabetta fa voto di castità.
A dodici anni, una scelta del genere esprime una grande
generosità di spirito: la piccola Elisabetta capisce in qualche
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modo che per essere tutta di Dio occorre donarsi a Lui
completamente. Ma il senso di un voto del genere le sfugge e
di fatto se ne dimenticherà per anni. In quel periodo sa
comunque elaborare le motivazioni di quel gesto: è perché
intende farsi suora che emette il voto di castità.
Anche sua sorella Benedetta coltiva, sia pure con minor
slancio e maggior equilibrio, la stessa idea. Timida e
riservata, piuttosto insicura e fragile, non lascia mai Elisa-
betta, vuole da lei protezione e attenzione. Le suore tentano
invano di separarla, ma alla fine devono rassegnarsi ad
accettare il dato di fatto: alle due sorelle Canori viene
concesso di dormire nella stessa stanza e di fare assieme
tutte le attività proprie della vita comunitaria. Per Elisabetta
è un peso tal quale questa dipendenza della sorella da lei,
ma fa di necessità virtù: la ascolta, l'aiuta, se la porta
sempre dietro.
Benedetta però, al di là delle apparenze, si rivela nel giro di
qualche mese ragazza piuttosto autonoma e inventiva.
Decisa a realizzare, assieme alla sorella, il sogno di farsi
suora, si informa sulle modalità di accettazione e viene a sa-
pere che per la giovane età non possono essere ancora ac-
colte nel monastero.
Alla ragazzina un divieto del genere risulta ingiusto. Ha
fretta e passa alle vie di fatto organizzando una straordi-
naria messa in scena. Non si sa come, riesce a mettersi in
contatto con la superiora del monastero di S. Chiara da
Montefalco e a strapparle la promessa di essere accolta tra
le sue suore, falsificando forse l'età. Di nascosto scrive poi a
casa, dicendo al padre che Elisabetta sta molto male e che
deve venirle a prendere.
Tommaso Canori si precipita a Cascia. Trova Elisabetta
pallida e dimagrita e decide immediatamente di riportarla a
Roma, assieme alla sorella. Benedetta tenta di far notare al
papà che l'aria di Roma forse non è adatta e che l'aría di
Montefalco è certamente più fine e poi c'è un monastero...
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Ma Tommaso Canori non accetta alcun consiglio e sotto gli
occhi esterrefatti delle buone suore, all'oscuro di tutto, si
porta via le figlie.

LE SCELTE IMPORTANTI
Ritornata a casa, Elisabetta in poco tempo riacquista la
salute e cambia stile di vita. Sollecitata dalla madre e dalla
famiglia, rientra nel giro della vita mondana romana, fa-
cendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Il cam-
biamento repentino costa ad Elisabetta: non è una ragazza
molto portata all'esteriorità. Convenienze e regole familiari
hanno però il sopravvento. La resistenza iniziale si attenua.
Balli, teatri, divertimenti, frequentazioni importanti, ammi-
ratori riempiono le sue giornate, senza escludere una certa
pratica religiosa, del resto consolidata nella sua famiglia.
Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita come un
«tradimento». In realtà, al di là di un certo raffreddamento
spirituale, la sua coerenza morale non viene meno e la sua
sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata. Vive
come una ragazza del suo tempo e del suo livello sociale,
rispondendo alle aspettative dei genitori e dell'ambiente con
una particolare raffinatezza, per cui si fa notare. Ha fascino,
grazie ad un insieme di equilibrio, di gradevolezza estetica,
di dolcezza, di squisita femminilità, di cui fa partecipi gli
altri con disinvoltura e con una certa innata spontaneità.
Calcolo ed esibizionismo le sono infatti estranei, il che la
rende agli occhi di molti coetanei ancor più interessante.
Al di là delle apparenze e delle convenienze, la situazione
economica di casa Canori continua però a peggiorare.
Tommaso vive assediato dai creditori e in balia dei figli.
L'atmosfera familiare diventa tesa: discussioni e liti sono
frequenti. Maria, la sorella maggiore, scarica su Elisabetta
tutta l'aggressività del suo infelice carattere: la tratta come
una serva, la insulta, acida e prepotente.
17
Questi rapporti familiari difficili sono il doloroso rovescio
della medaglia di questo periodo della sua vita. Elisabetta
sta scoprendo nuovi sentimenti e nuovi desideri, coltiva
nuovi sogni e aspettative. Si rende conto di perdere, a causa
dei dissesti economici della famiglia, interessanti
opportunità per il suo futuro. Soffre nel vedere i suoi geni-
tori preoccupati e umiliati. La disturba molto di non poter
intervenire direttamente per risolvere la situazione e nello
stesso tempo si sente coinvolta e responsabilizzata.
Comincia in questo periodo a rivelare, in maniera sempre
più incisiva, i tratti caratteristici della sua personalità:
senso pratico nell'affrontare i problemi e grande
partecipazione emotiva; concretezza e finezza di spirito;
equilibrio di giudizio e intuizione psicologica.
Provengono da questa dotazione personale certe scelte a
sorpresa che caratterizzano la sua vita, come quella, del
matrimonio.
Un generoso prelato, che ben conosce le qualità spirituali e i
problemi economici della famiglia Canori, propone di far
entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di
S. Filippo ai Quattro Cantoni. Avrebbe lui sostenuto tutte le
spese. Quella di avviare al chiostro i figli meno garantiti
delle nobili casate era una soluzione tipica di quei tempi.
Benedetta accetta e si fa suora (giugno 1795) con il nome di
Maria Serafina dello Spirito Santo. Elisabetta no.
Non se la sente di abbandonare i suoi genitori e di lasciare
la famiglia in difficoltà. Si rende conto, con grande realismo,
di avere delle responsabilità precise. E quindi comincia a
coltivare l'idea del matrimonio sia per rispondere al suo
profondo bisogno di amare sia per venire incontro al
desiderio e alle necessità dei suoi genitori. Un buon partito
avrebbe risolto molte cose, pensavano i coniugi Canori, ed
Elisabetta capiva bene le loro ragioni.
E così quando il medico Francesco Mora, ricco e noto
professionista, presenta in casa Canori il figlio Cristoforo
18
con chiare intenzioni di combinare il matrimonio, Elisabetta
prende in considerazione la proposta. Cristoforo, 23 anni, è
un ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato
nella carriera di avvocato. Piace ai suoi genitori e anche a
lei. Conscia dell'importanza del passo da compiere, dopo un
breve periodo di riflessione e di preparazione, dà il suo
assenso.
Il 10 gennaio 1796, nella chiesa di Santa Maria in Campo
Carleo, la stessa dove era stata battezzata, si celebra il
matrimonio: una cerimonia sontuosa, una festa in cui i
genitori degli sposi investono tutto il loro prestigio di ari-
stocratici. Elisabetta affascina tutti.

UN AMORE DIFFICILE
Cristoforo ha arredato un alloggio nel palazzetto dei
Vespignani, presso S. Eustachio, con grande gusto ed ele-
ganza. Profondamente innamorato della moglie, viene ri-
cambiato da Elisabetta con grande affetto e disponibilità.
Una coppia felice.
Elisabetta conosce bene i suoi doveri di moglie e di donna di
casa e anche se il marito le proibisce qualsiasi lavoro
manuale e, quando rientra a casa arriva a controllarle le
mani per vedere se ha adoperato ago e filo, lei di nascosto
lavora, legge e occupa attivamente il suo tempo. Cristoforo è
un marito squisito ma si rivela presto persona
affettivamente immatura: possessivo e geloso non consente
alla moglie nessuna scelta autonoma e la rimprovera
quando scopre che non obbedisce ai suoi ordini. Sopporta
persino a fatica che i genitori di Elisabetta la vadano a tro-
vare e si trattengano con lei mentre è fuori casa. Elisabetta
è a disagio e i suoi genitori capiscono: per evitare ogni mo-
tivo di discussione diradano e poi interrompono le visite alla
figlia. Si accontentano di passare ogni giorno sotto la casa di
lei, per guardarla dalla strada e scambiare un saluto a
distanza.
19
Giovane brillante e ben introdotto negli ambienti ari-
stocratici, Cristoforo ama il teatro e i divertimenti, ama so-
prattutto esibirsi accanto alla moglie, il cui fascino scatena
la curiosità e l'interesse di molti ammiratori. Elisabetta,
ingenuamente, non si accorge degli sguardi e non registra i
commenti.
Ma è Cristoforo che si rende conto del «successo» crescente
della moglie. La cosa lo infastidisce, lo irrita. Diventa
ombroso e sospettoso. Le scenate di gelosia sono all'ordine
del giorno.
Durante la prima gravidanza, uno strano episodio viene a
segnare la vita della giovane coppia. Cristoforo aveva
ricevuto in regalo una pistola e la stava mostrando, una
mattina, alla moglie nella camera da letto. Elisabetta, spa-
ventata, lo prega di scaricarla. Cristoforo l'accontenta ed,
eseguita l'operazione, punta per scherzo l'arma contro la
moglie. Una strana voce grida di mirare altrove e, mentre
Cristoforo automaticamente cambia la mira, parte un colpo
che raggiunge il quadro di un crocifisso, a pochi centimetri
dalla testa di Elisabetta, mandandolo in frantumi. Paura,
fumo, puzza. Un effetto strano che impressiona Elisabetta.
Nel suo diario annoterà questo «segno» particolare, scor-
gendovi una misteriosa indicazione divina.
Nasce una bella bambina che riporta l'armonia in casa. Per
pochissimi giorni. La piccola non riesce a deglutire e muore.
È un dolore terribile per Elisabetta e per tutti.
Anche una seconda gravidanza si conclude drammati-
camente. Ma ad aggravare il dolore di Elisabetta è il com-
portamento sempre più strano del marito. Assente, chiuso
in se stesso, teso più del solito, Cristoforo rispetta le appa-
renze ma si vede che non è più lo stesso. Elisabetta non
vuole sospettare niente di particolare e si accontenta delle
spiegazioni che riceve, unicamente preoccupata di non fargli
mancare l'affetto e la tenerezza.

20
In realtà Cristoforo aveva avviato una relazione con una
donna di modeste condizioni, che lo legherà a sé in una
maniera fortissima, costringendolo non solo a tradire siste-
maticamente la moglie ma a dilapidare il patrimonio, ridu-
cendo sul lastrico la famiglia.
Quando Elisabetta viene a conoscere la verità e tenta di
discuterne con il marito, viene aggredita da un Cristoforo
infuriato che nega tutto, accusandola di sfiducia nei suoi
confronti.
La nascita nel 1799 di Marianna non migliora le cose.
Cristoforo è ormai in balia dell'amante, per raggiungere la
quale è capace di lasciare la moglie sola a teatro o nel bel
mezzo di un ricevimento con scuse penose.
In casa Mora gli animi sono agitati. Il fatto diventa, come
succede sempre in questi casi, di dominio pubblico. Il
prestigio della famiglia è, in qualche modo, compromesso.
Ma Cristoforo non recede e continua a chiedere soldi ai suoi
genitori, con i pretesti più strani. Si fa di tutto perché il
vecchio dottor Mora non venga a conoscere la vera natura di
certi ammanchi di cassa.
Una situazione insostenibile. Per allentare la tensione, come
succede, qualcuno vuole trovare un capro espiatorio, su cui
scaricare la responsabilità della vicenda. E così si comincia
ad accusare Elisabetta di poca attenzione per il marito, di
poca capacità di tenerlo legato alla famiglia, di in-
competenza nell'amministrazione della casa.
Elisabetta è frastornata e umiliata. Non si rassegna al
fallimento del suo matrimonio, fa di tutto per tenere unita la
famiglia e, senza contestare direttamente le accuse che le
vengono rivolte, dimostra il massimo di disponibilità verso
suoceri e cognati.
In occasione di una grave malattia, che tiene Cristoforo a
letto per alcuni mesi, Elisabetta passa giorno e notte
accanto al marito dandogli una straordinaria prova di amore
21
e di dedizione. I parenti si riavvicinano e l'aiutano, aveva
infatti da badare anche alla figlia. Per un momento spera
che quella malattia possa essere una buona soluzione e che
Cristoforo rinsavisca.
Il marito infatti non può non registrare l'eccezionale risposta
di Elisabetta al suo tradimento. Si commuove, ringrazia.
Sembra voler recuperare il suo ruolo e la sua dignità.
I signori Mora decidono di mettersi in casa figlio, nuora e
nipote, un po' per ridurre le spese, un po' per meglio seguire
la convalescenza di Cristoforo o forse per controllarlo
meglio. Elisabetta accetta, anche se è a disagio per non
poter disporre di una casa propria.
Pur essendo trattata dai suoceri alla pari delle altre figlie, in
casa Mora non fa certo la parte dell'ospite: è attivissima, si
accolla i lavori domestici, si rende disponibile a suoceri e
cognate, è affabile con la servitù, partecipa con disinvoltura
a feste e ricevimenti. Non può evidentemente sottrarsi alla
curiosità, spesso cattiva, di parenti e conoscenti che
vogliono sapere del suo matrimonio e dei rapporti con il
marito. Soffre e nasconde il suo stato d'animo con grande
dignità.
Il 5 luglio 1801 dà alla luce Maria Lucina ed è una gioia per
tutti. Un'altra occasione per sperare in un ravvedimento,
perché Cristoforo sembra felice di essere nuovamente padre.
In realtà è solo più cauto e più bravo nel nascondere la sua
seconda vita: è sempre meno presente in casa, con la scusa
degli impegni di lavoro, e comincia a passare più di qualche
notte fuori.
La quarta gravidanza e il disagio psicologico di un rapporto
matrimoniale insostenibile piegano la resistenza di
Elisabetta che si ammala. È giocoforza affidare ad altri la
neonata e, per evitare conflitti tra i parenti, si decide per
una balia di Trastevere. Elisabetta, non appena le forze glie-
lo consentono, va a trovare la bambina e la trova in condi-
zioni pietose, sporca, dimagrita e «piena di sfogo». Si cambia
22
immediatamente balia, ma Elisabetta ricade ammalata e,
questa volta, si teme addirittura per la sua vita. Le viene
impartita l'Estrema Unzione.
Nel diario essa parla di «febbre putrida maligna», riferendosi
probabilmente ad una grave malattia infettiva. «Diciannove
giorni stetti priva di ogni umano pensiero, ma il pensiero
dell'eternità in cui sicuramente credevo di dover passare,
teneva tutte impiegate le potenze della povera anima mia.
Non cercavo rimedio al mio male, né di sostentare le mie
deboli forze, ma solo rivolto il mio cuore al Signore, Gli
domandavo misericordia e perdono; prevenuta dalla grazia,
eccessivo era il dolore dei miei peccati».
Il verdetto dei medici non consente illusioni: Elisabetta è
condannata. E invece guarisce, al di là di ogni ragionevole
spiegazione medica. Cinque mesi di convalescenza
convincono Elisabetta che «la vita miracolosa che il Signore
mi aveva restituita non doveva essere più mia». È la scelta
radicale: «mi offrii tutta al mio Signore». A caratterizzare
questa scelta è subito una vita sacramentale molto intensa:
confessione e comunione settimanali e poi, per una felice
intuizione del suo confessore, la comunione tre volte alla
settimana. «Di questa grazia ringraziai affettuosamente Ge-
sù e Maria: qual profitto mi portò la frequenza della Ss.ma
comunione non posso esprimere».
Non appena le forze glielo consentono, Elisabetta si fa
riportare la figlia e la trova pelle e ossa, incapace persino di
lamentarsi. La balia si giustifica dicendo che la bambina ri-
fiutava il suo latte, ma Elisabetta capisce come sono andate
le cose. «Si reca la bimba in seno, chiede un uovo fresco, lo
dà a bere alla figlia che lo sorbisce, e si calma dal suo
malinconico lagno». Determinazione materna e saggezza
pediatrica del tempo.

23
LA NORMALITA’ DELLA FEDE
Nel raccontare la vita di Elisabetta, stiamo cercando, nel
rispetto dei fatti, di evitare il troppo facile effetto della
santità anticipata.
Nel caso di Elisabetta Canori Mora questa avvertenza ci
pare particolarmente importante, trattandosi di una donna
che ha raggiunto la santità attraverso una straordinaria
esperienza umana e una eccezionale esperienza mistica. La
sua vita potrebbe far pensare al caso atipico, all'evento fuori
dal comune, al «fenomeno» ricco di effetti speciali - mol-
tissimi, come vedremo - ma privo di collegamenti concreti
con la nostra esperienza e con la nostra sensibilità di oggi.
E invece nella vicenda di Elisabetta Canori Mora non c'è
niente che si presti ad una forzatura del genere, tantomeno
la sua esperienza mistica.
Elisabetta è una donna del suo tempo e della sua classe
sociale. È intelligente ma poco colta (non finisce nemmeno
gli studi), il che non mette in discussione le sue notevoli doti
letterarie: è una scrittrice incisiva ed efficace anche se poco
esperta della grammatica e della sintassi. La sua ricchezza
interiore può tradursi in componimenti lirici di notevole
suggestione, tanto più significativi in quanto accompagnati
da una incontestabile povertà formale.
Come donna, Elisabetta accetta il modello corrente, che la
vuole ragazza riservata, moglie fedele, madre, custode della
famiglia, educatrice, cristiana devota. Difficile trovare nel
suo diario - da lei scritto per ordine del confessore - altro
fatto storicamente datato - una qualche critica a questo
tradizionale ruolo femminile, allora socialmente e
religiosamente riconosciuto. Impossibile quindi leggere la
sua personalità con la diversa consapevolezza che la donna
di oggi ha maturato circa il proprio ruolo e la propria iden-
tità. Più interessante invece osservare come a partire da un
modello così psicologicamente e culturalmente condizionato,
Elisabetta sia riuscita a inventare un progetto di vita
24
straordinario e, come avremo modo di dimostrare, quanto
mai attuale.
La sua fede, assorbita spontaneamente dall'ambiente
familiare e sociale, diventa progressivamente una scelta
consapevole che si traduce nella preghiera quotidiana, nella
frequenza dei sacramenti, nella scelta di un'obbedienza as-
soluta al direttore spirituale. È una fede che pervade tutta
la sua esistenza, alla luce della quale Elisabetta legge la sto-
ria e ritiene che quanto avviene sia sempre espressione della
volontà e dell'amore di Dio, in sintonia ancora una volta con
la teologia e la spiritualità dominanti nel suo tempo. Il fatto
che lei da queste certezze sappia dedurre conclusioni
pratiche e scelte di vita «eroiche» amplia il significato della
sua esperienza: l'eroismo di Elisabetta non sta nella testa
ma nel cuore e nelle mani. Alla «verità» essa arriva «cammi-
nando» non teorizzando.
È questa concretezza,
accompagnata da una
straordinaria sensibilità
etica e religiosa, che
consiglia la suocera di
affidarle le due figlie più
giovani, nella convinzione di
aver trovato in lei una guida
e una maestra credibile. Ed
Elisabetta soddisfa
puntualmente le aspettative
della suocera e delle giovani
cognate. Il che conferma che
Elisabetta rientrava nei Figura 1 – Di Anonimo, Ritratto di
canoni della normalità allora Elisabetta con la sorella minore Benedetta
riconosciuti: le si attribuiva (Roma, San Carlino alle Quattro Fontane)
al massimo una particolare
capacità di rispettarli. Sarà quando la sua coerenza la
porterà a rifiutare radicalmente il modello di donna
corrente, quando i suoi parenti la vedranno «affatto
25
slontanata dalli divertimenti del mondo, abbandonare li
adornamenti donneschi, contenta di vestire un abito
triviale» che le rinfacceranno la sua «sconveniente» diversità.
Ciò nonostante,
Elisabetta continuerà
a vivere di fede e di
pratica religiosa, di
fedeltà ai suoi doveri
di madre e di sposa, di
lavoro e di impegno
per gli altri nella
convinzione di
rispettare la più ovvia
Figura 2 – Roma, Chiesa di Santa Maria in Campo normalità. La sua
Carleo, dove Elisabetta fu battezzata e si sposò. religiosità, pur
essendo
profondamente segnata da espressioni e pratiche di
provenienza monastica, non la estrania dai suoi compiti
familiari: Elisabetta non è una madre che per andare in
chiesa abbandona il marito o le figlie o che per pregare si
dimentica di preparare il pranzo. Al massimo si alza più
presto al mattino e prega quando gli altri dormono. Co-
stretta alla povertà da un marito incosciente e infedele, si
guadagnerà da vivere facendo la sarta. Da quando non si
può più permettere cameriere e maggiordomi sbriga da sola
i lavori più pesanti, incurante del freddo, del caldo, della
stanchezza e, per anni, anche della fame.
È una donna forte, concreta, decisa, oculata con le figlie.
Sempre, anche quando l'esperienza mistica raggiunge i
massimi livelli. Mentre è in estasi, può continuare a cucire.
Il che è meno eccezionale di quanto si possa pensare a pri-
ma vista. E lei è la prima a voler sottrarre alla curiosità o
all'ammirazione altrui quanto di straordinario vive.

26
In questa difesa gelosa della sua
«normalità» possiamo leggere
correttamente una lucida
adesione di Elisabetta alla sua
vocazione squisitamente laica. Se
la riveste di «sacro» è perché è
convinta che tutto è grazia.
Elisabetta non è una donna
costernata davanti alle prove
della vita e non si rifugia quindi
nella fede per cercare protezione,
ma è una donna «prosternata»
davanti al mistero dell'amore di
Figura 3 – Crocifisso di Elisabetta Dio. Il suo Dio non è la Ragione
che le fece da baluardo contro i Suprema che tutto spiega ma è
colpi di pistola che dovevano comunione d'amore - Trinità
ucciderla (Roma, San Carlino alle appunto - che tutto salva e
Quattro Fontane)
redime.

UNA FEDELTA’ IRRIDUCIBILE


Questa concretezza, che non ammette soluzioni di
continuità tra vita quotidiana e fede, si rivela particolar-
mente creativa nell'atteggiamento che Elisabetta assume ri-
spetto al marito che la tradisce.
Quando è chiaro a lei e a tutti che Cristoforo non cambierà
vita, l'idea di una separazione la può anche sfiorare, non
fosse che per recuperare un minimo di tranquillità per sé e
per le figlie. Ma a prevalere saranno altre considerazioni.
Obbedisce, con comprensibile disagio, all'ordine di un
confessore piuttosto rozzo che le impone di riprendere i
rapporti intimi con il marito. Il rifiuto di questi, violento e
sarcastico, la umilia come donna, ma quando Cristoforo le
chiede il consenso di continuare la relazione extraconiugale,
con la squallida motivazione di restituire l'onore all'amante,
il suo «no» è categorico.
27
La famiglia Mora si spacca:
da una parte il padre e le
figlie vogliono che Cristoforo
paghi con la galera la vergo-
gna loro inflitta; dall'altra la
madre lo difende
strenuamente e cerca una
soluzione di compromesso.
Cedendo alle insistenze del
suocero, Elisabetta si limita
verbalmente a consentire che
si faccia ricorso al tribunale
ecclesiastico. Il cardinale
Vicario di Roma, appena
ricevuto il ricorso, spicca
l'ordine di «custodia Figura 4 – Miniatura di Gesù Nazareno. A
cautelare». Cristoforo è questa immagine la Venerabile si
rinchiuso nel convento dei rivolgeva per chiedere le grazie. (Roma,
Passionisti ai SS. Giovanni e Convento Oblate di San Filippo)
Paolo, impegnato in «spirituali esercizi» fino a nuovo ordine.
Viene avviato il processo. A quei tempi il potere ecclesiastico
aveva i mezzi non solo per processare e condannare gli
adulteri ma anche per applicare pene detentive. Siamo nel
1807.
L'avvocato deve sottomettersi al provvedimento. I religiosi
che lo prendono in consegna sono molto zelanti e non gli
lesinano ore e ore di cappella, di prediche e di silenzio,
concedendogli solo lo svago di qualche momento d'aria
nell'orto del convento. Costretto a ripensare ai suoi casi,
Cristoforo è quasi sul punto di riconoscere il suo torto e di
chiedere perdono. Ma la rabbia di essere stato svergognato
dalla moglie - come credeva - davanti a tutta Roma, lo trat-
tiene. Riesce a farle pervenire una lettera ricattatoria, carica
di minacce, che Elisabetta consegna ai suoceri. I due si spa-
ventano e sollecitano la conclusione del processo. Il Tribu-
nale emette la sentenza: divieto assoluto di incontrare e di
28
parlare all'amante; in caso di non emendamento cinque an-
ni di reclusione per lui a Castel Sant'Angelo ad arbitrio del
cardinale Vicario e altrettanti per la donna nel carcere fem-
minile di S. Michele presso Ripa Grande.
L'avvocato capisce che gli conviene cambiare tattica. Scrive
una lettera ai genitori promettendo loro di interrompere
definitivamente la relazione adulterina e di mettere la testa
a partito. Troppo e troppo in fretta per essere credibile.
Padre e sorelle non gli credono, infatti. Lo vogliono rinchiuso
a Castel Sant'Angelo. La madre invece lo difende. Elisabetta
si dimostra indifferente. Mentre il tribunale prende atto
della «conversione» di Cristoforo, le due cognate, un po' per
realismo un po' per interesse, le propongono di cambiare
casa, inde evitare la prevedibile reazione di Cristoforo. Non
se ne fa niente. Cristoforo, dopo ventotto giorni di «spirituali
esercizi», torna in famiglia.
Gentile, sottomesso, suadente con i genitori, sfoggia tutta la
sua arte consumata di avvocato per convincerli a far
rientrare il divieto di incontrare l'amante: ritiene suo dovere
di gentiluomo restituirle l'onore. Con Elisabetta è invece
duro, minaccioso, strafottente, un «leone infierito - scrive lei
- per vedersi privo della sua amica. La privazione di questa
amicizia non ad altro servì che inferocirlo contro di me,
sicché molto dovetti soffrire da questo omo forsennato».
Cristoforo pretende da lei un consenso scritto per «tornare
liberamente a trattare la sua amica». Elisabetta, per
guadagnare tempo chiede di consigliarsi con il confessore. È
un diversivo inutile: il suo confessore le può dare solo la
risposta che lei conosce già. Cristoforo si imbestialisce e
passa alla violenza fisica. Una sera, al colmo della rabbia,
estrae un pugnale e le si avventa contro. La suocera arriva
appena in tempo per inframmettersi tra i due e impedire il
peggio. Cristoforo, davanti alla calma irremovibile della
moglie, ha un attimo di mancamento: Elisabetta lo soccorre.
L'avvocato si riprende e ricomincia con gli insulti. Poi si alza
ed esce di casa, minacciando di andarsi ad ammazzare.
29
La suocera, disperata e spaventata, accusa Elisabetta di
essere la causa di tutto. A rincarare la dose arrivano le
cognate. Le bambine, svegliate dal grande baccano, sono
spaventate. Una notte d'inferno. Ricordandola, Elisabetta si
meraviglia di non aver mai perso la calma interiore e di aver
saputo affrontare la prova con una straordinaria serenità di
spirito.
Il giorno dopo, Cristoforo ritorna, più cupo che mai. In casa
tutti sono del parere che occorra trovare una soluzione. Si
teme per l'incolumità di Elisabetta. «Ai miei parenti - scrive -
recava molta meraviglia come io avessi tanto spirito di
restare sola di notte in camera con un uomo tanto
imbestialito, senza paura di restar morta per le sue mani».
Non si piega davanti alle minacce, agli insulti e alle
percosse. Tre mesi drammatici. Qualcuno dei parenti la
consiglia di ritirarsi in convento, sua madre vuole che torni
a casa, il suo confessore la consiglia di sciogliere il ma-
trimonio.
«In mezzo a tutta questa disparità di pareri, il mio spirito
riposava dolcemente nelle braccia del suo Signore». Alla fine
è Elisabetta a decidere, su indicazione divina. Dice al suo
confessore: «Deponga ogni pensiero riguardo a questa
separazione di matrimonio, perché io antepongo la salvezza
di queste tre anime al mio profitto spirituale perché lì è
maggior gloria di Dio».
In questa scelta di Elisabetta, al di là delle motivazioni
etiche e religiose da essa espresse, c'è un significativo modo
di affrontare il problema. Tutte le ipotesi che le vengono
proposte, di fatto invece di risolvere il conflitto lo negano:
accettano di fatto l'adulterio. Lei invece punta ad una solu-
zione vera e lo fa ristrutturando i termini del problema: non
considera più marito e figlie come congiunti cui è legata da
un vincolo contratto con il matrimonio ma come «anime» da
amare «per pura carità e cercare per questi tutti i vantaggi
della loro eterna salvezza». Rinunciando «ad ogni affetto
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sensibile che possa mai avere il mio cuore verso di loro», in
realtà li lega a sé con un amore molto più grande.
Non riuscendo a produrre il cambiamento in quanto sposa e
madre, assume un altro ruolo: quello di salvatrice. Invece di
porsi l'obiettivo, ormai impraticabile, del recupero dell'amore
del marito, si pone quello della sua salvezza.
In questo modo, scende a sorpresa sullo stesso terreno di
Cristoforo e si confronta con la sua stessa logica: come lui si
sente in obbligo di «salvare» la sua amante, restituendole
l'onore compromesso senza pretendere vantaggi affettivi, ma
per puro senso di giustizia; così Elisabetta non gli concede
la separazione, per puro senso di «carità», rinunciando agli
affetti sensibili per la sua salvezza eterna. Per restituire
l'onore all'amante, a questo punto, Cristoforo non può far
altro che riconoscere l'amore della moglie.
Sarà questa «trappola» della fedeltà che assicurerà ad
Elisabetta il successo finale. Ed è significativo che Cristoforo
non sia mai riuscito a liberarsene, anche quando poteva
presumere che la giustizia non si interessasse più al suo
caso. La sua fissazione gli creerà attorno il vuoto, ma la
fedeltà di Elisabetta gli impedirà di andare alla deriva. Se ne
renderà drammaticamente conto dopo la morte della moglie.
Della fedeltà, Elisabetta fa una questione di principio, ma
ne difende coscientemente anche la funzione pratica: evitare
alle figlie la scomparsa definitiva della figura paterna
(coraggiosa e intelligente scelta pedagogica); imporre al
marito almeno il rispetto dei suoi impegni di sostentamento
economico della famiglia (difesa tenace di un diritto acqui-
sito, condotta da una donna che non accetta di essere mes-
sa da parte come un oggetto consumato e rivendica pari re-
sponsabilità familiari, a tutti i livelli).
Elisabetta chiede con insistenza a Cristoforo di ricordarsi
dei suoi obblighi e di pensare alle necessità della famiglia. È
umile ma non succube. Non baratta se stessa e il ma-
trimonio con gli alimenti. Esige solo quello che le spetta.
31
Nella sua fedeltà riscontriamo quindi anche una com-
ponente lucidamente ed eroicamente «laica». Elisabetta non
accetta di cambiare di segno la sua esperienza familiare: per
quanto ella viva immersa nel divino, tiene mani, piedi, cuore
e cervello ben fissati alla terra. Come qualsiasi madre, sa
che il pane prima di diventare simbolo di amore e di
comunione deve arrivare concretamente sulla tavola: ai figli
che hanno fame non si imbandiscono buoni sentimenti.
A controprova di questa irriducibile concretezza nei rapporti
umani e familiari sta anche l'atteggiamento assunto da
Elisabetta in quella particolare esperienza che sono state le
«nozze mistiche». Una volta che essa cede alla «seduzione» di
Cristo che la vuole sua sposa, la sua fedeltà non conosce
incrinature. Anche in questo caso le prove non mancano e
sono durissime, per lei. Pur non venendo meno al patto
mistico, il suo «amatissimo Gesù» le si sottrae, si nasconde.
In un certo senso la «tradisce» trattandola come una vittima
sacrificale della sua giustizia. Ma neanche il «silenzio di Dio»
piega Elisabetta. Essa esige che parli, rivendica il «diritto» di
ascoltare la sua voce, vuole veder soddisfatto ampiamente il
suo appassionato desiderio. Sarebbe errato pensare alle
«nozze mistiche» come ad un surrogato consolatorio del
matrimonio fallito di Elisabetta, come se essa, tradita dal
marito terreno, avesse trovato nello sposo celeste
l'alternativa al suo bisogno di amare o quantomeno una
sublimazione dello stesso. La testimonianza diretta di
Elisabetta e di quelli che l'hanno conosciuta esclude
un'ipotesi del genere.
Elisabetta risponde positivamente alla nuova proposta
nuziale come ad un ulteriore impegno, come ad una nuova
vocazione. Agli inizi è reticente, non si sente degna, lo ritie-
ne un compito superiore alle sue forze, fa resistenza anche
perché teme si tratti di un inganno del suo spirito. Ma
quando sceglie non vuole contropartite consolatorie, si me-
raviglia anzi che le vengano date.

32
Nelle diverse celebrazioni delle «nozze místiche» cede alle
esigenze di Dio nella piena consapevolezza di perdersi: il
«piacere di Dio» ha la stessa violenza del dolore che le viene
imposto. Non chiede e non si lamenta, ringrazia. Ma esige
una reciprocità totale. E Dio, che non bara, deve cederle.
In questo modo, Elisabetta ci svela una dimensione
importante del rapporto matrimoniale: quella «mistica». Gli
aspetti biologici, economici, giuridici, etici e religiosi che,
presso tutte le culture, si intrecciano nel matrimonio
quando sono vissuti dalle persone come funzioni dell'amore
danno una risultante «mistica» inequivocabile: intensità
delle emozioni, calore, coinvolgimento e soprattutto il su-
peramento delle distinzioni, dei ruoli, l'annullamento della
distanza tra soggetto e oggetto che si fondono in «un cuore
solo e un'anima sola».
Perdersi nell'altro - sia esso la moglie, il marito o Dio -
accettare che l'altro ti perda, è l'unico modo per salvarsi. Per
questo il Vangelo considera l'amore come il comandamento
centrale: perché il paradosso su cui si fonda - perdersi per
l'altro nel dono d'amore - produce salvezza.
Di qui la continuità tra amore umano e amore divino: hanno
entrambi una funzione salvifica. Nella liberazione della
potenza creatrice di Dio (fecondità) e nella liberazione della
libertà umana, sta il senso di ogni comunione d'amore. Per
questo il Dio di Elisabetta è la Trinità, misterioso rapporto
interpersonale nel quale l'amore è fonte, nello stesso tempo,
di diversità e di unità. La «comunione» - esperienza
sacramentale e mistica fondamentale per Elisabetta Canori
Mora - è la prospettiva più elevata e liberante del nostro
destino di creature.

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ESPERIENZE MISTICHE
7 settembre 1803. Colpita da «prezioso dardo», scoccato
dalla «divina colomba», Elisabetta Canori Mora vive la sua
prima esperienza mistica. Il fatto provoca un profondo
cambiamento nella sua vita.
In uno stato di leggero dormiveglia, ha una visione in cui un
misterioso personaggio - da lei poi riconosciuto come
sant'Ignazio di Loyola - la conduce alla presenza di una
«leggiadra Signora ammantata di candide vesti» che «teneva
nelle sue mani bella e risplendente colomba», sotto le ali
della quale essa vede impressi i chiodi della crocifissione, da
cui partono «dardi di fuoco». Invitata da un «brutto mostro»
a fuggire, Elisabetta vince la paura e ascolta l'invito della
guida che le dice di restare. «Ed ecco che quella divina
colomba mi scocca prezioso dardo: di sacro fuoco restò
colpito il mio cuore intimamente: il prezioso colpo mi
cagionò deliquio mortale».
Rapimenti ed estasi si susseguono poi con una tale forza
«che il mio corpo, come morto, restava disteso per terra».
Sono «fenomeni» difficili da nascondere agli estranei. I suoi
battiti cardiaci assumono un andamento così irregolare che
«scuotevo la sedia in cui sedevo, il letto in cui riposavo». I
medici ordinano alcuni salassi, senza nessun risultato. Sarà
lei a chiedere alla Madonna di liberarla da «quel palpito
tanto sensibile». E viene esaudita.
Elisabetta si rende conto di essere travolta da una
straordinaria passione amorosa, superiore alla sua volontà.
Il fuoco nel quale brucia, come il biblico roveto ardente, non
la consuma.
Gli effetti di questa esposizione diretta al divino sono
incontrollabili: le basta fare la comunione per ritrovarsi in
altri universi dominati da montagne misteriose, percorsi da
sentieri pericolosi, popolati di strane presenze; dopo pochi
istanti di preghiera, può entrare in contatto con personaggi
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celesti (Angeli), con i protagonisti del Vangelo (la Madonna,
gli Apostoli), con Gesù in persona o con la stessa Trinità.
Sono forme di estraniamento che fisicamente si possono
esprimere con levitazioni da terra, con svenimenti
prolungati, con la cessazione di ogni sensibilità, con pianti
incontrollabili o con estasi e rapimenti per lei indescrivibili.
Per raccontarli in qualche modo ricorre alle tipiche
immagini dell'innamoramento: parla di «passione», di
«brama», di «ardore», di «pazzia amorosa», di «desiderio», con
uno stile, tra l'altro, che va oltre la sua modesta competenza
letteraria.
Tutto questo, per anni, la mette a disagio. È una donna
concreta, attiva, spiritualmente raffinata ma non certo
incline ad eccessi e tantomeno a esibizionismi. Pur dovendo
ammettere i fatti, ë la prima a chiedersi che cosa significano
e perché succedono proprio a lei. È la prima a pensare
subito a una qualche distorsione interiore, a una qualche
sofferenza psicologica.
Il dubbio si impossessa di lei, la rende insicura e questo
spalanca le porte all'azione del «nemico». All'estasi seguono
così frequenti «attacchi diabolici» - anche fisicamente deva-
stanti - durante i quali si sente dolorosamente divisa tra
paura e amore, tra illusione e realtà. Per superare queste
prove, oltre a ricorrere alla competenza dei suoi direttori
spirituali, Elisabetta adopera due mezzi: la preghiera, che
diventa sempre più un confidenziale dialogo amoroso con
Dio, e la penitenza, che si trasforma in un annullamento
sempre più marcato dei suoi bisogni fisici. Per anni si
nutrirà una volta sola al giorno e poi una volta ogni 48 ore;
dormirà sempre pochissimo e lavorerà tutta la vita
duramente.
Come in ogni esperienza mistica, anche in quella di
Elisabetta è centrale la funzione del dolore: essa lo assume,
lo domina, lo controlla e ne annulla gli effetti distruttivi di-
ventando sempre più leggera e trasparente, riducendo le sue
esigenze, i suoi bisogni fisici e psichici. La sua resistenza al
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dolore aumenta in proporzione al suo annullamento che le
permette di dare sempre maggior spazio alla potenza divina.
Una volta che arriva a identificarsi con il suo amato Signore,
il dolore non può più nulla contro di lei. Avremo modo di
raccontarlo.
All'inizio del suo cammino mistico, Elisabetta si identifica
con il Cristo sofferente del Getsemani («Tre volte nello stesso
anno fui condotta dallo spirito del Signore al Getsemani»).
Farà poi l'esperienza del baratro - vuoto assoluto, perdizione
eterna - da cui il Signore la salverà e quella del Cenacolo
durante la quale verrà «condotta a viva forza» a partecipare
al banchetto eucaristico in cui «il buon Gesù di propria
mano mi comunicò». In seguito, dopo le ripetute celebrazioni
delle nozze mistiche, il contatto diretto con Dio si svilupperà
in maniera sempre più coinvolgente e «paritaria», al punto
che sarà lei - in più di qualche occasione - a imporre la sua
volontà all'amato, trasformando il di lui furore per il Male
del mondo in misericordia.
Tipica della vicenda mistica di Elisabetta Canori Mora -
vicenda che si colloca tra quelle classiche della spiritualità
cristiana, note agli studiosi e alla devozione popolare, da
santa Teresa d'Avila a san Giovanni della Croce - è una cer-
ta dimensione «materna» del rapporto con il divino. In nu-
merose «apparizioni» le viene dato in braccio il Bambino
Gesù. C'è inoltre una presenza costante della Madonna nelle
sue visioni, quasi a sottolineare una sintonia spirituale tra
donne e tra mamme. Anche davanti alle sofferenze del Cri-
sto è il suo «amore materno» che viene attivato e che si
esprime in gesti di grande tenerezza: l'abbraccio, il riposo
sul petto del suo amato bene. È insomma la «donna» che
fornisce alla «mistica» i gesti dell'amore.

I CREDITORI
L'inizio dell'esperienza mistica coincide con una fase
drammaticamente travagliata della esistenza di Elisabetta.
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Suo marito fallisce e i creditori si avventano sulle restanti
risorse di casa Mora per rifarsi. Elisabetta vende tutto
quello che ha per far fronte alle richieste, camera matrimo-
niale compresa. Non basta.
Per evitare a Cristoforo la galera, decide di affrontare i
creditori, mettendo da parte il suo orgoglio di nobildonna.
Passa dall'uno all'altro, spiega la sua situazione, li convince
che non possono ottenere più di quello che hanno ricavato e
di risparmiare il carcere al marito.
Tutti cedono alla sincerità dolorosa e al fascino della sua
straordinaria dignità. Solo uno squallido personaggio tenta
di approfittare della situazione proponendo a Elisabetta un
ignobile baratto: il condono dei debiti contro la sua dignità
di donna e la sua fedeltà di sposa. La reazione ferma di
Elisabetta lo disarma. Firma anche lui la quietanza a saldo
delle sue spettanze.
Cristoforo registra questa generosa azione della moglie, ma,
stimolato - pare - dall'amante, continua a impegnarsi in.
avventate imprese economiche oltre che a darsi alla bella
vita. Sua madre lo copre ostinatamente e giunge ad
ingannare il marito per assecondare il figlio, nella vana spe-
ranza di ripianarne le finanze. Il povero dottor Mora, ormai
avanti negli anni, continua la sua professione fornendo in-
volontariamente i mezzi perché si continui a ingannarlo. Si
limita soltanto a interdire alla moglie la gestione economica
della casa, che viene assunta dalla figlia Maria.
Maria è una donna dura e prepotente, per niente disposta
ad accollarsi il carico economico della cognata e delle nipoti.
Non perde occasione per far loro notare che sono un peso
tal quale e che devono trovarsi qualche altra sistemazione.
Elisabetta cerca in qualche modo di compensare l'aggravio
economico della famiglia e si accolla tutti i lavori più
pesanti. Ormai è ridotta a fare da «cantiniera» e da «galli-
nara», meno considerata dei servi.

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Le bambine, adorate dal nonno, sono sistematicamente
maltrattate dalle zie, persino picchiate. Quando il nonno
regala loro qualche moneta d'oro, le zie sono capaci di far-
sela consegnare, come vile risarcimento delle spese che so-
stengono per esse. Elisabetta trova tutto ciò insopportabile,
ma non può far altro che aiutarle a reggere la difficile situa-
zione. Se esse minacciano di andare a riferire tutto al non-
no, le convince a non farlo.
Cristoforo è del tutto assente, unicamente preoccupato di
salvaguardare il rapporto con genitori e sorelle per estorcere
continuamente denaro. Il che non gli impedisce di esigere
dalla moglie abiti in ordine e servizio accurato. Con le figlie
tenta qualche improbabile gesto paterno, ma ormai le
ragazze hanno capito che su di lui non possono contare.
Chiedono spiegazioni alla mamma, ed Elisabetta ha il suo
bel da fare per non squalificare ai loro occhi l'immagine del
padre. Le sue spiegazioni allentano per un momento la
tensione, ma i fatti parlano troppo chiaro perché le sue figlie
si lascino convincere.
Un giorno, Maria entra nella stanza della bambine e getta
sul letto un paio di scarpette appena rattoppate, dicendo
loro che si tratta degli ultimi soldi che è disposta a
spendere. Umiliate, le ragazze vogliono ribellarsi. Elisabetta
deve ricorrere a tutte le sue risorse dialettiche e al suo
grande affetto per assicurarle che le cose cambieranno e per
convincerle ad avere ancora un po' di pazienza. Il che
comincia a sollevare nelle ragazze qualche dubbio nei suoi
confronti. Che cosa pretende da esse? Perché subire tanti
soprusi e ingiustizie quando si potrebbe vivere bene? Perché
la zia Maria si è comprata un abito bellissimo - pagato una
cifra da capogiro - e se ne va in giro a farsi ammirare
quando loro non hanno un vestito decente da indossare?
E’ dura convincere delle ragazzine che non è poi così
importante vestirsi bene e avere tanti soldi da spendere, so-
prattutto quando attorno a loro parenti e conoscenti non
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fanno e non pensano ad altro. Elisabetta accetta la sfida,
anche sul piano educativo e oppone la sua visione del mon-
do, i suoi valori, mettendo in gioco con coraggio la sua stes-
sa credibilità di madre.
Questo comportamento può risultare inspiegabile. In realtà
Elisabetta si trova in una condizione che non le offre
alternative. La dura legge della realtà si impone a lei e alle
figlie. Ritiene corretto non nasconderla ai loro occhi, tenta
solo di ristrutturarla in positivo, di evitare che distrugga il
rapporto tra le persone. Il che non significa che l'accetti
passivamente: pratica e concreta come sempre, cercherà e
troverà una soluzione nel giro di qualche mese.

L'ESTASI PROIBITA
In questa drammatica situazione, Elisabetta ha un unico
rifugio: una specie di stanzino ricavato da un sottoscala,
che essa, con il permesso della suocera, ha scelto e attrezza-
to come luogo di preghiera. Nelle rare pause della sua pe-
sante giornata e soprattutto durante la notte - comincia a
dormire pochissimo - prega, tentando di nascondere a tutti
quanto di straordinario le succede durante i suoi colloqui
con Dio.
«Il più delle volte ero sorpresa dallo Spirito del Signore, che
violentemente mi rapiva, e non era in mio potere resistere
alla sua forza; sicché ora mi tratteneva distesa al suolo, ora
dalla violenza balzava senza ritegno». Saranno le figlie, per
prime e dopo qualche tempo, a scoprire il suo segreto.
E certamente significativa questa capacità di Elisabetta di
affrontare la sua difficile condizione mantenendo una
sostanziale integrità psichica, in modo da salvaguardare le
energie necessarie per svolgere i suoi compiti di madre e di
sposa e per dedicarsi alla preghiera e alla contemplazione. È
però chiaro a tutti che Elisabetta sta profondamente
cambiando. Il suo modo di fare e di vestire, il suo continuo
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pregare, la sua messa e la sua comunione quotidiane, la
sua indifferenza per le apparenze creano disagio. È sempre
una donna molto bella e il suo stile nell'affrontare le
difficoltà della vita ne aumenta sottilmente il fascino. Ma le
convenienze sociali impongono comportamenti più consoni
al nome della famiglia ed Elisabetta non le rispetta.
Glielo fanno notare in tanti: parenti, ecclesiastici, amici di
famiglia, direttori spirituali, uno dei quali arriva a proibirle
di andare in estasi. Elisabetta entra in conflitto con se
stessa, rendendosi conto che le osservazioni hanno un certo
fondamento. Non è certo persona disposta a «esibire» ad
ogni costo la propria diversità. Nello stesso tempo è
profondamente convinta che lo stile di vita che si pretende
da lei non è economicamente e psicologicamente praticabile:
è una donna povera, tradita, e, per mantenere le figlie, ha
ben altro cui pensare che ai balli e ai divertimenti. E poi la
superficialità della vita mondana non la interessa: non le
serve per resistere, infatti. Si preoccupa comunque di non
irritare la gente.
Per uscire dall'incertezza si rivolge all'unico interlocutore
«sbagliato», a quel suo Signore con cui intrattiene ormai un
rapporto d'amore costante. La risposta che ne ricava non
ammette alternative: Dio non è affatto disposto a rinunciare
a lei, ma la assicura che incomprensioni, disagi, sofferenze
finiranno.

LA CAMICIAIA, I POVERI E I CARBONARI


Il «piacere» che Elisabetta ricava dal fuoco della sua
passione amorosa non le serve come fuga dalla realtà. La le-
ga anzi ancor più alle sue figlie, alla sua famiglia, ai parenti
e moltiplica le sue energie per far fronte agli eventi, allo
scopo di provocare un cambiamento radicale della situazio-
ne e delle persone. Non solo. L'irruzione del divino nella sua
vita la immerge sempre più profondamente nel mondo, la
responsabilizza del dolore altrui. Per questo si fa carico dei
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problemi, delle sofferenze, della povertà di tutti quelli che le
stanno attorno, con uno straordinario attivismo.
Fin dai primi anni di vita, Elisabetta rivela una particolare
sensibilità per le persone: è attenta, premurosa, disponibile,
attiva soprattutto nei confronti della gente più modesta, dei
poveri e degli ammalati. Questa cortesia dello spirito diventa
scelta di vita, con una coincidenza significativa: nel
momento in cui Elisabetta comincia a sperimentare sulla
sua pelle la povertà, a causa della disgraziata relazione del
marito, il suo interesse per i poveri diventa un impegno
costante della sua giornata.
Le figlie le fanno notare che nel suo comportamento c'è un
qualche cosa di strano: come si fa a dare agli altri quando
non si ha, spesso, nemmeno il necessario? Ma Elisabetta
vede la realtà in maniera diversa: sono il dono e la gratuità
a moltiplicare le risorse, non il possesso e il consumo. E lo
dimostra concretamente alle figlie, cui non farà mai
mancare il necessario.
Eccola allora passare per il centro di Roma con pentole e
tegami, diretta alla casa di qualche infermo solo o di
qualche famiglia indigente. Eccola entrare e uscire dagli
ospedali per prestare ai degenti i più umili servizi. Povera
tra i poveri, veste in maniera sempre più modesta, al punto
che qualcuno pensa sia uscita di senno e tenta di
internarla.
Alla cognata Maria, la terribile amministratrice di casa
Mora, Elisabetta chiede cortesemente di darle una mano a
procurarsi del lavoro. Ha pensato infatti di mettere a frutto
le sue competenze di sarta per confezionare camicie. Maria
si sente quasi costretta ad aiutarla: era stata proprio lei a
insistere che trovasse i mezzi per mantenersi.
Arrivano i primi clienti, viene organizzato un modesto
laboratorio casalingo. La giornata di Elisabetta diventa an-
cora più pesante: ma è un prezzo necessario per difendere
un minimo di autonomia.
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In casa Mora l'atmosfera è sempre meno respirabile.
Cristoforo continua nelle sue spese folli e nelle sue folli ini-
ziative commerciali. Le sue sorelle sono furenti. C'è il rischio
che i creditori si rifacciano su di loro. E poi non sopportano
più di avere tra i piedi un fratello del genere, una cognata
che sembra una stracciona e fa la sarta e due nipoti da
mantenere.
Senza dire niente al padre, mettono alla porta fratello,
cognata e nipoti. Costretta a cercar casa, Elisabetta trova
un modestissimo appartamento in via delle Muratte, nel
quale sistema la famiglia. Cristoforo deve subire l'onta, ma è
suo interesse non ribellarsi. Per volere dei suoceri, però, per
alcuni mesi cena e pranzo si faranno ancora in casa Mora:
nella nuova abitazione, del resto, non c'era modo di
cucinare. Le due famiglie si ritrovano all'ora dei pasti. Ma
quando diventa disagevole per le cognate spostare l'orario
della cena per rispettare gli impegni di lavoro di Elisabetta e
i ritardi di Cristoforo, il programma viene cambiato: ai poco
graditi ospiti viene dato il necessario per la cena da
consumarsi nella loro nuova abitazione. E così la loro
presenza in casa viene dimezzata.
Elisabetta ritiene di aver comunque ottenuto due «vantaggi»:
un modesto alloggio tutto per sé e la possibilità di
allontanare le figlie da un ambiente diseducativo oltre che
umiliante. Adesso può organizzare la sua giornata, tra
lavoro, assistenza ai poveri, preghiera, come meglio crede.
Gli impegni con i clienti non le lasciano molto spazio: sono
tre, quattro camicie al giorno che deve confezionare per far
quadrare in qualche modo il bilancio. Per quanto coinvolga
le figlie, il loro apporto produttivo è scarso: l'unico vantaggio
è che in questo modo non possono stare in ozio, a curiosare
dalla finestra come avrebbero la tendenza di fare. Sono
ormai in un’età - siamo nel 1812 - in cui si fanno sentire
nuove sensazioni e nuovi desideri e in cui un discreto
controllo è necessario.

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Nessun povero che si presenti alla porta della nuova casa se
ne va a mani vuote. Nella dispensa, testimoniano le figlie,
spesso compare del pane che nessuno ha acquistato.
La morte del suocero - 28 agosto 1813 - significa per
Elisabetta la fine di ogni protezione. Le cognate le fanno
immediatamente comprendere che non intendono conti-
nuare ad aiutarla. Grazie all'amicizia e alla stima di un bra-
vo signore, Giovanni Cherubini, da lei conosciuto nelle sue
visite agli ospedali, riesce a trovare un nuovo alloggio in via
Rasella, angolo via Quattro Fontane. Il contratto di locazio-
ne è abbordabile ed Elisabetta si presenta alle cognate per
riavere la sua dote di mille scudi, versata a suo tempo al
dottor Mora.
Quelle non fanno alcuna obiezione di principio, ma
sostengono di non disporre dell'intera somma, per cui la li-
quidano in parte con soldi e in parte con suppellettili, mobili
e altre cianfrusaglie. Il sopruso è evidente e le figlie pro-
testano.
Elisabetta non vuole discussioni. Accetta quello che le viene
dato, convince Cristoforo a chiudere la partita, arreda la
nuova casa persino con una certa raffinatezza - sia pure
nella massima semplicità - e lascia cognate e suocera.
Chiede scusa, anzi, per il disturbo loro arrecato. La suocera
capisce fin troppo bene il senso di queste scuse e non sa
darsi pace. Farà di tutto per mantenere i rapporti con nuora
e nipoti, ricevendone sempre in cambio cortesia e massima
attenzione.
Cristoforo lascia mano libera alla moglie. Sembra quasi
deciso a interessarsi un po' di più della famiglia. A volte
riesce persino a dare qualche cosa in casa, ma sono contri-
buti irrisori. È un bravo avvocato, noto per la competenza
giuridica; potrebbe assicurare a se stesso e alla famiglia il
meglio. Ma non è uomo da assumersi responsabilità del ge-
nere.

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Gli riesce meglio inguaiarsi in un'altra impresa degna di lui.
Sono tempi di turbolenza politica. Massoneria e Carboneria
si diffondono anche nello Stato Pontificio. Si formano cellule
e ritrovi segreti in cui si parla di libertà, di abbattimento del
potere costituito, di nuove prospettive politiche. Cristoforo si
entusiasma, partecipa, discute, si espone e rischia.
Elisabetta lo mette in guardia, gli raccomanda prudenza, gli
ricorda le sue pendenze con la giustizia, gli contesta le
posizioni anticlericali e atee dei cospiratori. Non serve.
Cristoforo respira a pieni polmoni le nuove idee libertarie e
si attarda, fino a notte inoltrata, in riunioni interminabili.
Una sera la discussione degenera. Il contrasto di opinioni
diventa violento. Cristoforo viene affrontato da un
energumeno che lo vuole ridurre al silenzio. Reagisce da av-
vocato par suo mettendolo a tacere. La riunione finisce ma-
le. Se ne vanno tutti nella notte con gli animi agitati.
Camminando per le buie stradine Cristoforo avverte
un'incomprensibile sensazione di pericolo. Accelera il passo.
All'improvviso gli si para di fronte un uomo con il pugnale
sguainato. È l'avversario da lui offeso.
La scena è «seguita» a distanza da Elisabetta, che, in casa,
sta trepidando per il marito. Nel momento in cui
l'aggressore sta per vibrare il colpo, Elisabetta... è sul posto
e lo devia. Cristoforo riesce a fuggire.
La realtà si ricompone. Elisabetta sveglia le figlie perché
ringrazino Dio per lo scampato pericolo del padre. Quelle
non capiscono: quale pericolo, ringraziare per che cosa,
dov'è il papà? Minuti lunghi un'eternità. Finalmente
Cristoforo apre la porta di casa. Pallido come un cadavere si
butta su una sedia. Le figlie gli sono attorno, vogliono
rincuorarlo, chiedono spiegazioni ma è solo Elisabetta che
sa come sono andate realmente le cose. Lui è in stato con-
fusionale.
Lo choc piega Cristoforo: una febbre violentissima,
accompagnata da complicazioni di ogni genere, lo porta
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sull'orlo della tomba. Un ammalato in più da accudire per
Elisabetta, che passa giorni e notti al capezzale del marito.
Arrivano anche le cognate. E sono nuovamente critiche e
recriminazioni contro di lei, come se Cristoforo si fosse dato
alla cospirazione politica per causa sua. La cattiveria è
sempre stupida.
Elisabetta non reagisce, perché l'occasione che le si è
presentata è troppo importante per perderla. Fa ragionare il
malato, lo aiuta a riflettere su stesso, gli sottolinea l'im-
portanza di quel «segno» che gli ha risparmiato la vita. In
questa azione di recupero coinvolge il signor Cherubini e
altri amici di famiglia. In casa viene fatto entrare un sacer-
dote che si conquista la fiducia e la simpatia dell'infermo.
Cristoforo capitola, decide di confessarsi e di comunicarsi.
Un giorno indimenticabile per Elisabetta

IL «NUOVO» DIFFICILE
Al di là della sua eccezionalità, l'episodio rappresenta bene il
profondo coinvolgimento di Elisabetta nei problemi del suo
tempo. La sua condizione di donna e la sua oggettiva
emarginazione di povera non le impediscono di avere della
realtà che la circonda una visione molto precisa. Mentre si
interessa dei suoi poveri e delle loro individuali sofferenze,
vede e valuta il contesto da cui esse sono originate.
La piaga drammatica del pauperismo, prodotta da un
intreccio inestricabile di motivazioni politiche ed economi-
che, era stata assunta dalle élites rivoluzionarie come un
pretesto per sovvertire l'ordine costituito. Di fatto i tentativi
di riforma economica e sociale, progettati e avviati dai
riformisti nei vari Stati italiani, tra la fine del Settecento e i
primi decenni dell'Ottocento, fallivano sistematicamente:
non si fondavano infatti su una corretta analisi della com-
plessità della situazione (quando l'analisi veniva fatta) e
passavano sopra la testa della gente che non li comprendeva

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e, soprattutto, non aveva i mezzi economici, politici e
culturali per farli propri.
Significativi, a questo proposito, gli effetti provocati dalla
generalizzata soppressione delle opere caritative con cui la
Chiesa da secoli aveva cercato di sostenere le classi sociali
più deboli. Sembrava una decisione necessaria per liberare
il popolo da una mentalità assistenzialista, oltre che un
mezzo per ridurre il potere della Chiesa. Ma, una volta
aboliti gli Ordini religiosi, che dell'assistenza ai poveri erano
i principali operatori e trasformate le istituzioni ecclesia-
stiche di assistenza in istituzioni pubbliche, il problema del
pauperismo si aggravò al punto da divenire una mina va-
gante per la stabilità di quasi tutti i governi.
Sommosse di piazza, banditismo, violenza diventarono così
le espressioni correnti della disperazione delle classi più
povere della società, soprattutto in Italia.
Come tutte le rivoluzioni, anche quella francese (1789 -
1795), che alimentava quei progetti di rinnovamento in
Francia e in Europa, produceva così gli amari frutti dell'in-
certezza, della confusione, dell'epidemia di quegli stessi va-
lori da essa propugnati. Le strutture sociali, investite da ra-
dicali cambiamenti, non reggevano e diventavano un terreno
ideale per l'avvento dell'uomo forte.
Napoleone, che si era assunto il compito di esportare la
rivoluzione in tutta Europa, ne diventerà il liquidatore
definitivo. I suoi successi militari fulminei stravolgono per
qualche decennio la geografia politica del Continente, so-
prattutto dell'Italia, nella quale vengono instaurate la Re-
pubblica Cispadana, quella Cisalpina e la Repubblica Ro-
mana (1798). Pio VI, fatto prigioniero, verrà condotto in
Francia e morirà l'anno successivo.
Inevitabile che tra la Francia di Napoleone e l'Europa sia
guerra totale. Chi ha salutato in lui il liberatore deve ben
presto fare i conti con l'usurpatore. Invano Napoleone cerca
di trovare una legittimità politica al suo espansionismo:
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anche in Francia trova un'opposizione decisa alle sue
ambizioni e deve ricorrere al colpo di Stato per imporsi.
Lo Stato Pontificio viene coinvolto nella bufera: pur essendo
militarmente fragile, l'autorità politica e morale del Pontefice
è un ostacolo non indifferente per Napoleone, che aveva
sostenuto in Francia la costituzione civile del clero e
intendeva imporre il suo potere anche sulla Chiesa. Pio VII,
divenuto papa nel 1800, nel tentativo di allentare la
tensione, firma l'anno dopo il concordato con la Francia.
Napoleone pensa di averlo come alleato e da lui si fa inco-
ronare imperatore (1804).
Ma Pio VII non può avallare la sua politica di conquista
forzata del continente, non può accettare le sue continue
prevaricazioni sui diritti e sulle proprietà della Chiesa. Non
può soprattutto subire passivamente un rapporto di
dipendenza della Chiesa e del clero dal potere statale. Que-
sta opposizione gli costa l'arresto (1809) e la prigionia a
Fontainebleau. Ritornerà a Roma nel 1814, ma avrà vita
molto difficile fino alla morte (1823).

IL PESO DEL MONDO


Elisabetta Canori Mora non è spettatrice passiva di tutti
questi eventi. Vive le disavventure del pontificato di Pio VII
con molta apprensione, lei che per parte di madre può
rivendicare ascendenze «napoleoniche». Saluterà il rientro di
Pio VII a Roma con molta gioia, coinvolgendo con il suo
entusiasmo molte persone.
Ha modo, in più riprese, di far conoscere a Pio VII la sua
devozione ma anche il suo parere. Lo consiglierà di non
abbandonare Roma quando Ferdinando VII di Napoli ten-
terà di conquistare lo Stato Pontificio, per punire il papa che
aveva scelto la neutralità nella guerra tra Regno di Napoli ed
Austria. Ma pare che anche Pio VII, probabilmente
attraverso alcuni alti prelati della Curia - Elisabetta nei suoi
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diari è piuttosto reticente in proposito - la consulti, l'ascolti
e accetti che si ricorra ai suoi «poteri» in diverse occasioni,
riguardanti sia lo Stato della Chiesa che la sua salute perso-
nale.
Ma al di là degli eventi politici e militari, sui quali Elisabetta
interviene indirettamente, il suo contributo specifico sta
nella lettura partecipata che essa è in grado di fare dei mali
del suo tempo.
Nella descrizione delle sue numerose «visioni» sullo stato
della Chiesa e della società è possibile cogliere, sia pure in
filigrana, una puntuale analisi della situazione culturale,
religiosa ed etica di quel periodo, caratterizzata da uno
scontro violento tra i «valori» della tradizione religiosa e
politica e le nuove tendenze promosse dall'Illuminismo. È
l'insorgere di una nuova cultura atea, sostanzialmente an-
tiumanistica oltre che antireligiosa, che essa denuncia e te-
me.
L'anticlericalismo diventa una bandiera.
Nello scontro, condotto senza esclusione di colpi, si
distinguono, per tenace difesa delle ragioni dell'ortodossía e
del papa, i Gesuiti, che diventano il bersaglio preferito degli
intellettuali anticlericali e dei governi innovatori. E così gli
attacchi contro «il canchero del genere umano» (così sono
definiti i Gesuiti), contro la «canaglia fratesca, la tirannia
della Curia romana» (Caracciolo) sembrano rappresentare il
metodo giusto per liberare le popolazioni dall'oppressione
del potere religioso e instaurare l'epoca dei lumi.
Anche nel clero si creano confusione, incertezza, moti di
ribellione contro l'autorità pontificia, cedimenti alle
pressioni del potere politico, che, in alcuni casi, esige espli-
citi impegni di sottomissione e quindi un ufficiale rifiuto
dell'autorità ecclesiastica. Le nuove idee illuministe e il fa-
scino della nuova metodologia scientifica riscuotono nel
clero culturalmente più preparato una certa attenzione. Non

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mancano le adesioni entusiaste, cui il magistero ovviamente
si oppone.
Elisabetta ha di questa situazione complessa una «visione»
precisa: vede in essa l'azione oscura del Male, il rifiuto della
legge di Dio sostituita dalla legge dell'uomo, la violenza del
forte sul debole, la negazione dell'amore come modello di
rapporto tra persone e istituzioni. Davanti ai suoi occhi si
spalancano, a più riprese, rappresentazioni drammatiche
del degrado politico e religioso, da essa descritto con tipica
simbologia apocalittica (mostri, foreste inestricabili, la
Chiesa come una vecchia matrona, il fuoco devastatore, la
nave nella tempesta, demoni e catene). Il suo sguardo
penetra molto avanti nel futuro, tanto da far pensare abbia
anticipato alcuni degli eventi più drammatici dei decenni
successivi.
Elisabetta si dà molto da fare soprattutto per il clero, non
solo per il grande concetto che ha dei sacerdoti e dei
religiosi, ma anche per sostenere nuove vocazioni e per re-
cuperare religiosi e sacerdoti devianti. Nella sua vita entra
anche un ex-diacono, condannato a morte per l'omícidio di
tre persone: ne ottiene la conversione pochi istanti prima
dell'esecuzione capitale.
Ma ciò che più conta è la chiara consapevolezza di
Elisabetta della missione salvífica e redentrice della Chiesa
nel mondo. Di questa missione di sente partecipe e ad essa
consacrerà la sua vita.

LA VITTIMA
Elisabetta non ha potere economico, politico, culturale o
religioso: è e resta una povera donna, costretta a lavorare
duramente, priva di mezzi e lontana dagli ambienti che
contano, anche se cardinali e principi in numero crescente
si rivolgono a lei per avere consigli, per ottenere grazie, per
raccomandarsi alle sue preghiere.
49
La conoscenza di un problema non la lascia mai indif-
ferente. Elisabetta è una donna d'azione. Se incontra per la
strada una povera ragazza non si limita a fare l'elemosina.
Valuta la situazione, si informa, capisce il rischio fisico e
morale cui la povertà espone la giovane e interviene. Si trat-
ta della figlia di un funzionario pontificio che, a suo tempo,
non aveva voluto prestare giuramento alle autorità francesi
insediatesi a Roma, ed era stato condannato all'esilio. Ritor-
nato in città e colpito da apoplessia, viveva assieme alla fi-
glia nella più squallida miseria. Elisabetta va a cercare que-
st'uomo, prende atto della situazione e se ne fa carico. In-
terviene presso l'autorità competente perché risolva il pro-
blema dell'ex funzionario, perorando il suo diritto all'assi-
stenza. Ottiene quanto chiede e proibisce alla ragazza di
scendere in strada per chiedere l'elemosina.
Non solo è incapace di essere spettatrice passiva degli eventi
ma non s'accontenta nemmeno dei gesti della sua carità. Sa
che le radici del male sono più profonde. E così, davanti allo
sfascio morale e politico della società in cui vive, accetta
una sfida tremenda: quella di addossarsi la colpa degli
uomini, accettando di farsi «vittima di espiazione» per il
peccato del mondo.
Travolta dalla passione divina non esita a sottomettersi
all'oscuro volere del suo amato che la vuole sacrificare per
soddisfare la propria giustizia. Allenata ad affrontare il
dolore, ne abbraccia fino in fondo lo scopo salvifico e re-
dentivo.
In una serie di esperienze fisicamente e psicologicamente
durissime, essa sperimenta la violenza dello scontro tra il
Bene e il Male, fino al punto - come essa stessa afferma - di
temere di rimanerne distrutta. Sono malattie misteriose,
ossessioni e possessioni diaboliche, spaventose visioni che
si susseguono negli anni, durante le quali Elisabetta è
coinvolta in una lotta terribile con Dio.

50
Davanti al male, il furore di Dio si gonfia, la sua collera
esplode, la sua ira arriva al cinismo, al punto da invitare,
una volta, Elisabetta a godersi lo spettacolo della sua ven-
detta sugli uomini. Ma essa si rifiuta e «impartisce» al suo
amorosissimo Signore una specie di lezione etica e politica:
sostiene che non è con la vendetta che si vince il Male ma
con la misericordia. E giudice inflessibile deve cederle. Le
ragioni dell'amore sono superiori a quelle della giustizia;
non le aveva forse insegnato questo invitandola ad essere la
sua sposa?
Ai poveri che continuano ad andare e venire dalla sua casa,
si aggiungono ora i «peccatori», gente alla deriva, delinquenti
comuni, cristiani poco praticanti, sacerdoti in crisi.
Elisabetta ha del male una percezione così precisa che non
può rifiutarsi di aiutare tutti a liberarsene. Identificandosi
con il suo Gesù, essa si colloca inevitabilmente sul Calvario,
ma sarà pure testimone del sepolcro vuoto.
E il suo sposo le anticipa sensibilmente l'esperienza della
«risurrezione»: alle prove durissime seguono infatti momenti
inenarrabili di gioia, di pace, di straordinaria efficienza
fisica, di rinnovate celebrazioni delle nozze mistiche, di
estasi pacificatrici. Dal buio profondo del dolore alla luce
radiosa dell'amore trinitario: Elisabetta ne è travolta. Siamo
nella prospettiva di quella spiritualità trinitaria, da
Elisabetta abbracciata, che nel rapporto d'amore con Dio
privilegia la dimensione redentiva. Amore come salvezza e
liberazione da ogni forma di «cattività», soprattutto dalla
schiavitù del peccato e della morte.

L'EDUCATRICE
Elisabetta è una madre molto dolce e molto forte. Obbligata
a supplire alla totale assenza del marito, è lei che cura
direttamente la prima istruzione delle figlie, con delle
curiose intuizioni didattiche e pedagogiche. Convinta che i
bambini sono in grado di apprendere molte cose fin dai
51
primi anni di vita, sovverte la
tradizione scolastica dell'epoca. A
tre anni, sua figlia Lucina sapeva
già leggere speditamente e subito
dopo, assieme alla sorella,
imparerà dalla madre a scrivere,
a cucire, a far di conto.
Le bambine crescono. Elisabetta,
esaurita la sua competenza di
maestra domestica, le affida alle
Maestre Pie presso il «Gesù», per
un'istruzione più sistematica
(1806). Convinta dell'importanza
della scuola, è altrettanto convin-
Figura 5 – La figlia Lucina, divenuta ta che la responsabilità primaria
poi Suor Giuseppina della SS. Trinità dell'educazione rimane comunque
delle Oblate di San Filippo (Roma, della famiglia. Non è una mamma
Convento delle Oblate di San
Filippo)
che deleghi ad altri i suoi compiti
educativi, magari con la scusa del
lavoro e delle preoccupazioni economiche. E quante ne
aveva.
Dalle testimonianze della figlia Lucina e dal suo diario è
facile ricavare il
progetto educativo
cui Elisabetta si
ispira. Esso si
basa su una
precisa gerarchia
di valori, al vertice
della quale sta la
fede: istruzione
religiosa, preghiera
quotidiana, messa
domenicale, Figura 6 – Biografia di Elisabetta, scritta dalla figlia
partecipazione alla Lucina (Roma, Archivio di San Carlino alle Quattro
vita ecclesiale sono Fontane)

52
i mezzi con cui Elisabetta
inculca nelle figlie quell'amore
di Dio, che è la ragione della
sua vita. Per Elisabetta non si
dà educazione che non sia
educazione religiosa, perché il
senso ultimo dell'uomo è Dio.
Donna del suo tempo,
impegnata ad educare delle
donne, propone alle figlie uno
stile di vita improntato alla
semplicità, alla finezza del
tratto, alla modestia, alla
riservatezza, senza facili
concessioni alla frivolezza e agli
Figura 7 – Chiesa di San Carlino alle interessi superficiali
Quattro Fontane, in Roma, dove si (divertimenti, teatri, balli,
conservano le spoglie di Elisabetta vestiti). Sa farle giocare e
inventa per loro occasioni di svago e di allegria. Nei giorni di
festa e di vacanza - giorni che riserva interamente a loro - le
impegna nel lavoro, nella lettura di qualche libro
interessante, in qualche passeggiata, oltre che nelle pratiche
religiose.
E una mamma «creativa». Quando a Carnevale maschere,
sfilate, festini e divertimenti attirano la curiosità delle
bambine, che tendono a passare troppo tempo alla finestra
per godersi lo spettacolo, inventa visite di cortesia a qualche
amica, organizza giochi con le bambine di famiglie affidabili,
visite alla città, vincendo la inevitabile resistenza delle figlie
con la sua serenità e il suo entusiasmo.
E una madre «diversa», per niente in sintonia con la
mentalità e lo stile di vita allora dominanti, di cui dà un giu-
dizio tagliente: «Vivevo in mezzo ad una ciurmaglia mal co-
stumata e immersa nel vizio». Decisa a impedire che le figlie
ne facciano parte, ha la forza e il coraggio di proporre loro

53
un progetto di vita alternativo, giocandosi in prima persona
come mamma e come donna. Una scelta, la sua, che,
inevitabilmente, scatena conflitti in famiglia e nel
parentado.
Alle sorelle Mora lo stile educativo di Elisabetta ovviamente
non piace: quelle ragazzine stanno crescendo come delle
monache, sono tristi, non sanno stare in società, hanno
bisogno di conoscere il mondo, che figura ci facciamo?
Come se non ne avessimo abbastanza della madre che fa la
santa e veste come una matta e passa il tempo a pregare e a
vuotare i pitali negli ospedali, anche quelle povere creature
vuole rovinare, non le basta avere sfasciato la famiglia?
Come questa... finezza di spirito si conciliasse con le
devozioni, le preghiere e il rosario quotidiano di casa Mora è
difficile dirlo. Di fatto le sorelle Mora riuscivano a mettere
d'accordo preghiere e pettegolezzi, Messe e divertimenti, vita
brillante e confessioni, vanità e genuflessioni. Elisabetta
non si permette di giudicare. Pur non pretendendo che le
figlie facciano le sue scelte - è sempre molto attenta a non
condizionarle con le sue esperienze mistiche e le sue attività
caritative, con le sue penitenze e la sua vita di preghiera -
insegna loro a vivere con una coerenza e un impegno
diversi.
Per una di
quelle strane
distorsioni che
l'arroganza del
denaro crea, le
cognate
cominciano
allora a
rivendicare
una specie di
diritto di farsi
Figura 8 – Scritti autografi di Elisabetta (Roma, Archivio
carico
San Carlino alle Quattro Fontane)
dell'educazione
54
delle nipoti. Puntando sull'assenza di Cristoforo, sulla
«diversità» di Elisabetta, manovrano per farsi affidare le
bambine. Elisabetta si oppone decisamente, per naturale
istinto materno e per ragioni di carattere educativo: non
intende affatto che le figlie imparino da certi esempi. Ma è
sola a reggere il confronto e le critiche che la investono
hanno tanto maggior peso in quanto sono espresse da chi,
alla fine dei conti, mantiene lei e le bambine.
Non riuscendo a piegarla, le cognate, decise a imporre la
loro volontà ad ogni costo, circuiscono la signora Teresa, la
mamma di Elisabetta, ben conoscendo la grande autorità
che essa esercita ancora sulla figlia. La povera donna trova
che le preoccupazioni educative delle cognate per le bam-
bine meritano attenzione: mandarle a scuola, d'inverno, po-
co coperte, con i pericoli che ci sono per le strade quando
possono disporre di due zie che di loro si curano, che per
loro darebbero tutto, anzi danno già tutto e sanno come
devono crescere due ragazzine di buona famiglia, come
prepararle alla vita e fornire loro utili opportunità per il fu-
turo e possono permettere ad Elisabetta di lavorare in pace
sono certamente cose da tener presenti. Perché non valoriz-
zare la loro generosa proposta?
Nonna Teresa, fragile e isolata, non conosce più di tanto le
motivazioni di fondo e i calcoli delle due zitelle e fa una certa
pressione presso Elisabetta perché affidi loro le bambine.
Preoccupata di sottrarre alle figlie una opportunità, pur non
essendo affatto convinta delle capacità educative delle
cognate, di fronte al parere della madre, Elisabetta, ancora
una volta ingenua e obbediente, accetta. Un cedimento di
cui si pentirà subito.
Le bambine vivono oltre un anno da incubo: balli, teatri,
divertimenti, ceffoni, insulti, umiliazioni, rosario serale,
castighi, sangue dal naso e quel continuo ritornello
sull'incapacità e la stupidità della loro mamma, sulla loro
condizione di «trovatelle» che se non ci fossero le zie do-
vrebbero chiedere l'elemosina e imparare come si vive.
55
Abituate da Elisabetta a non lamentarsi, psicologicamente
più forti della loro età, le ragazzine reggono come possono.
Ma è un'esperienza disastrosa.
Elisabetta vive nell'angoscia. Necessità economiche e regole
familiari l'hanno condotta in un vicolo cieco: teme per
l'integrità morale e fisica delle figlie e non ha mezzi per far
valere le sue ragioni.
Ne uscirà, come abbiamo detto, decidendo di mettersi a fare
la camiciaia. L'avvio della nuova attività le offre il pretesto
per avere nuovamente le figlie: la loro collaborazione le è
necessaria per soddisfare le esigenze dei clienti. Le zie, del
resto, si sono già stancate dell'impegno preso: il loro zelo
educativo si era esaurito da tempo e il loro orgoglio era stato
abbondantemente soddisfatto.
Riavute le figlie, Elisabetta ha il suo bel da fare per eli-
minare gli effetti negativi di quella esperienza educativa as-
surda. Le ragazze, ormai nel periodo dell'adolescenza, han-
no elaborato, sia pur dolorosamente, una certa visione del
mondo in sintonia con quella delle zie e sono critiche nei
confronti della mamma. Pretendono autonomia, vogliono
essere come le altre, vogliono divertirsi, uscire, conoscere
gente. Elisabetta assiste al cambiamento con trepidazione.
Consiglia, propone, corregge, ma i risultati che ottiene sono,
per un certo periodo di tempo, deludenti. Persino suo marito
si rende conto che le ragazze stanno assumendo at-
teggiamenti discutibili e la prega di vigilare.
A movimentare la situazione entrano ad un certo punto in
scena due ufficialetti. Hanno adocchiato le due ragazze e da
esse hanno ricevuto messaggi fin troppo facili da capire. La
divisa, la giovinezza, la scaltrezza e l'interesse dei due
militari seducono Marianna e Lucina: sono eccitate, felici,
scoprono quello straordinario universo dei sentimenti che fa
sognare ogni adolescente.

56
Vola dalla finestra qualche biglietto. Poi una cameriera viene
coinvolta come postina segreta. La corrispondenza diventa
intrigante. È innamoramento.
Elisabetta non si rende chiaramente conto di ciò che sta
avvenendo, lontana com'è dal pensare che le sue figlie
possano imbarcarsi in qualche strana avventura. Le due,
del resto, anche per l'appoggio delle zie, riescono a nascon-
dere tutto alla mamma. La relazione diventa sempre più
coinvolgente e i controlli di Elisabetta, che non concede fa-
cili uscite, diventano sempre più insopportabili. Occorre
trovare una soluzione radicale.
I due ufficialetti sanno strategicamente cogliere il momento
e propongono la manovra vincente: se non proprio il
rapimento, la fuga d'amore. Le due ragazze ormai non si
rendono più conto di quello che fanno: l'idea di scappare da
casa sembra loro la soluzione ideale per coronare il sogno
d'amore.
Una notte, nei primi mesi del 1815, i pretendenti scavalcano
il muro di cinta, si avvicinano alle finestre dietro le quali
stanno aspettando le ragazze, pronte a lanciarsi tra le loro
braccia e a fuggire.
- Chi è? Che cosa cercate, delinquenti? - la voce di
Elisabetta rompe il silenzio della notte. La «truppa», colta di
sorpresa, si dà ad una fuga ignominiosa, mentre le sorelle si
infilano sotto le coperte con il cuore in gola.
Rabbia, delusione, paura del castigo. Ma la mamma non
entra nella camera. Marianna e Lucina, anche se
disorientate per la mancanza di una reazione immediata, si
preparano a resisterle.
Solo il mattino dopo Elisabetta commenterà il fatto con
molta calma e con molta chiarezza. Tutti i segreti e le bugie
delle due ragazze sono svelati: la mamma sa più cose di
quante esse non intendano ammettere. Questo le sorprende,

57
le irrita e le irrigidisce. Come ha fatto la mamma a scoprire
il loro piano?
Elisabetta sviene, arriva il dottore, in casa c'è confusione.
Passa qualche giorno e quella mamma a letto che non si
decide a guarire è una grossa scocciatura, chissà dove
saranno e cosa penseranno i due ufficiali, era un piano
perfetto, come avrà fatto? Marianna e Lucina sono furenti,
intrattabili.
Saranno la costanza di Elisabetta, la sua attenzione
premurosa, la sua forza interiore a farle rientrare un po' alla
volta in se stesse. Marianna avrà un'altra sbandata per un
vicino di casa e ancora una volta sarà guidata con ferma de-
licatezza a superare la crisi. Si sposerà, dopo la morte della
mamma, con Salvatore Brandi, presentato ad Elisabetta
qualche tempo prima da un amico di famiglia. Prima di
morire, Elisabetta le preparerà con straordinaria finezza e
materna concretezza il corredo.
Lucina, invece, deciderà di farsi suora: dopo le incertezze e
le resistenze dell'adolescenza, si avvicinerà sempre più alla
madre, il cui esempio le farà comprendere il valore
dell'amore verginale.

IL SANTUARIO IN CASA
Nell'alloggio di via Rasella la vita è sempre dura. Per non
dipendere dalla famiglia del marito, Elisabetta deve lavorare
notte e giorno, con risultati economici non sempre
soddisfacenti. Pur senza nascondere la realtà, cerca di non
far pesare sulle figlie la situazione. Preoccupata che non re-
stino con le mani in mano, invita in casa una signora per
insegnare loro a ricamare e a confezionare fiori finti. Per
qualche ora di svago, non avendo tempo di seguirle, le affida
a due gentili signore di sua fiducia.

58
Guarito dalla grave malattia che lo aveva colpito, dopo
l'attentato, Cristoforo riprende la sua attività legale e
sembra deciso a mantenere la promessa di cambiar vita.
Mentre in casa, moglie e figlie non sanno come sbarcare il
lunario e sono alla miseria, tra l'aprile e il luglio del 1816
Cristoforo è a Napoli per ragioni di lavoro. I creditori, che gli
stavano sempre alle calcagna, pensano ad una fuga e
cercano di rifarsi su Elisabetta che non sa più che cosa
vendere per ammansirli. In uno scambio di lettere con il
marito, lo mette al corrente della situazione disperata. Arri-
va qualche piccola somma, ma è insufficiente a far fronte
alle urgenze.
Finalmente il 7 luglio, l'avvocato rientra senza preavviso a
Roma e si presenta a casa. Per la prima volta in vita sua
porta in regalo alle figlie due tagli di abito e consegna alla
moglie cento scudi. Una bella cifra, per quei tempi. Si fa
festa.
La tranquillità però dura poco. Cristoforo è un debole e la
sua amante riprende su di lui il sopravvento. Elisabetta si
rende subito conto che l'apparente normalità dei com-
portamenti familiari del marito nasconde nuovamente il
tradimento.
È in questi giorni che si presenta in casa Canori-Mora il
sacerdote Andrea Felici di Imola che, rispondendo ad un
misterioso imperativo, regala ad Elisabetta una miniatura
raffigurante Gesù Nazareno. Il quadretto appartiene ad un
gruppo di tre opere commissionate per obbedienza ad un
giovane penitente, del tutto ignaro di pittura, dal sacerdote
di Imola.
E modo «eccezionale» con cui le viene fatto questo regalo, la
finezza spirituale del sacerdote che glielo consegna e
soprattutto il soggetto della miniatura - il «Gesù Nazareno» -
che rappresenta felicemente uno degli elementi fon-
damentali della spiritualità e della devozione di Elisabetta

59
caricano il dono di molti significati: la sacra immagine di-
venta immediatamente il nuovo protagonista della sua vita.
L'alloggio di via Rasella - due camere e uno stanzino al
primo piano con cucina, due camere e cantina al pianter-
reno - era già sfruttato al meglio: Elisabetta aveva ricavato
da una delle due stanze più grandi lo studio e la camera di
Cristoforo, l'altra l'aveva adibita a camera da letto per le ra-
gazze e aveva riservato a sé lo stanzino. Un vano troppo
piccolo per una persona, ma sufficiente per Elisabetta e per
il suo «Gesù Nazareno»: lei sa come far posto all'amore.
Modestamente incorniciata ed esposta in una specie di
altarino, con qualche «lampadina» e dei candelieri, quella
miniatura è una presenza che la rende felice. Il suo amato è
venuto da lei. Non se ne staccherà mai più.
Pare che già il giorno successivo la sacra immagine abbia
manifestato la sua potenza taumaturgica. Viene a trovare
Elisabetta un'amica e le racconta di un pover'uomo in fin di
vita per una cancrena. Una famiglia sul lastrico. Elisabetta,
con una sicurezza e una disinvoltura straordinarie, la invita
a pregare davanti al quadretto, prende alcune ciambellette e
le mette davanti a Gesù, pregandolo di benedirle. Le
consegna poi all'amica con l'incarico di portarle all'am-
malato e di fargliele mangiare. E così avviene. Quando i
medici tornano per controllare il decorso dell'infezione,
trovano il paziente guarito e persino in carne, dopo quaran-
ta giorni di degenza. Si dichiarano disponibili ad attestare il
miracolo.
Inizia così il nuovo rapporto tra Elisabetta e il «Gesù
Nazareno». È fatto di preghiera, di filiale confidenza, di una
disinvolta fiducia: un vero e proprio rapporto d'amore, con
un continuo scambio di sentimenti e di parole. Elisabetta
ascolta, chiede consigli, affida al suo Amato Bene anime in
pena, peccatori incalliti, persone ammalate, poveri e tutta
quell'umanità che viene a contatto con lei, attirata dalle

60
ricorrenti notizie di eventi miracolosi ma anche dalla sua
straordinaria personalità.
La casa di Elisabetta si trasforma, in breve tempo, in una
insolita meta di pellegrinaggio. È gente del popolo, ma sono
anche alti prelati della Curia e noti esponenti della nobiltà
romana. Persino Pio VII ritroverà la salute grazie all'acqua
che Elisabetta gli farà recapitare, dopo averla messa a
contatto con la sacra immagine. Anche Pio IX affermerà in
seguito che, da giovane prete, era stato guarito, per le
preghiere di Elisabetta, da una strana malattia che lo faceva
cadere a terra «come un materasso».
E però importante osservare come Elisabetta non dia peso
più di tanto a quelli che tutti chiamano «miracoli», travolta
com'è dalla sua passione amorosa che le fa pensare come
sia del tutto normale che il suo Gesù dispensi salvezza e
redenzione. Lei stessa non è stata da lui salvata e redenta?
Intanto sul piano economico le cose migliorano, grazie
all'intervento del gentiluomo Giovanni Sala, fratello di un
cardinale, che si impegna a passare a Elisabetta e alle figlie
un assegno mensile e si assume una specie di ruolo di
padre putativo, di promotore della devozione a «Gesù Na-
zareno» e della santità di Elisabetta.
La miniatura del «Gesù Nazareno» seguirà Elisabetta nei
suoi spostamenti a Marino e ad Albano e sarà ovunque
oggetto di una straordinaria devozione popolare. E quando,
nel 1822, la famiglia Canori Mora traslocherà in un altro
alloggio in via Quattro Fontane, vicino alla chiesa di S.
Carlo, la sacra immagine troverà in casa una sistemazione
più preziosa in un vero e proprio oratorio, con altare per la
celebrazione della Messa.
Nella piccola cappella domestica si succederanno sacerdoti
e prelati, gente del popolo e funzionari pubblici fino alla
morte di Elisabetta. Dopo di allora la potenza taumaturgica
della sacra immagine cesserà.

61
TERZIARIA TRINITARIA
Dal 1816 alla fine della vita, Elisabetta Canori Mora è
travagliata da ricorrenti e misteriose malattie. I medici ten-
tano varie diagnosi e varie terapie con risultati deludenti.
Pare che fisicamente Elisabetta reagisca al di fuori di ogni
norma: si ammala e guarisce senza alcuna spiegazione
plausibile e, al di là di un generale stato di debolezza, che
cresce progressivamente, niente riesce a riequilibrare la sua
salute.
Accetta il consiglio dei medici di cambiare aria e si reca più
volte, per periodi più o meno lunghi, ad Albano e a Marino.
La situazione non migliora.
Chi capisce come stanno realmente le cose è il suo direttore
spirituale, quel P. Ferdinando di S. Luigi dei Trinitari Scalzi
che ormai la segue da vari anni e che conosce bene l'origine
delle sue sofferenze. P. Ferdinando si rende subito conto che
gli è stata affidata una persona particolarmente ricca di doti
umane e di doni soprannaturali. È un uomo equilibrato,
non apprezza gli eccessi e fa in modo che lo slancio mistico
di Elisabetta non diventi distruttivo: controlla il suo
desiderio di penitenza, il suo bisogno di annientamento per
far posto all'amore di Dio, la sua passione «amorosa». Con
intelligenza e delicatezza la segue nelle sue scelte e nelle sue
esperienze, assumendo il ruolo di guida spirituale e di
consigliere pratico. A lui Elisabetta riserva la massima
fiducia e una totale obbedienza. Il fatto è che tutti e due non
possono modificare le scelte di un altro protagonista di tutta
la vicenda, quello Spirito di Dio che progressivamente
prende totale possesso dell'anima di Elisabetta.
Quando P. Ferdinando deve prendere atto che a guidare
Elisabetta non è più lui ma Dio, si limita ad aiutare la sua
penitente a riconoscere l'autenticità dei gesti e dei voleri
divini, umile e riconoscente spettatore degli eventi straor-
dinari che ne derivano. Il che non sposta l'attenzione dei
62
due dalla realtà: a P. Ferdinando è chiaro infatti che nessu-
na esperienza eccezionale può dispensare Elisabetta dai
suoi compiti di sposa e di madre, dai suoi concreti impegni
familiari, sociali, ecclesiali e trova in lei lo stesso convinto
realismo.
È da far risalire a P. Ferdinando il rapporto particolare che
Elisabetta Canori Mora ha instaurato con l'Ordine
Trinitario, fondato da san Giovanni de Matha (1154 ca. -
1213) per la gloria della Ss.ma Trinità e per la redenzione
degli schiavi. Nella spiritualità trinitaria, Elisabetta ha tro-
vato una particolare sintonia con la sua sensibilità religiosa:
l'immagine di un Dio «comunità d'amore», la storia della
salvezza come progetto di redenzione dell'uomo, l'attenzione
ai poveri e ai lontani da Dio, la preghiera e la penitenza
come strumenti di crescita spirituale e di servizio, l'impor-
tanza della parola di Dio e della frequenza ai sacramenti,
soprattutto la centralità dell'Eucarestia.
Fin dal luglio 1807, Elisabetta viene a conoscere con
sicurezza che è volontà di Dio che essa diventi terziaria
trinitaria. Il 13 dicembre dello stesso anno riceve l'«abitino»,
prendendo il nome di Giovanna Felice del Cuore di Gesù,
poi da lei modificato in Giovanna Felice della Ss.ma Trinità.
È un impegno a vivere nella sua condizione di sposa e di
madre secondo il carisma misericordioso-redentore
dell'Ordine Trinitario, nel quale è sempre stato dato uno
spazio significativo ai laici, chiamati assieme ai religiosi e
alle religiose ad alimentare il carisma del fondatore.
Elisabetta comprende che la sua partecipazione all'Ordine
Trinitario deve essere perfezionata e questo richiede
preparazione, maturità e testimonianza radicale.
Ma è ad una scelta più definitiva e radicale, ad una
consacrazione più precisa alla Trinità che essa si sente
destinata, pur ritenendo di non essere degna di un simile
privilegio: «La Venerabile mia madre - scrive Lucina - fin
dall'anno mille ottocento sette prese l'abitino dei Trinitari
63
Scalzi, e mi ricordo, che lo fece prendere anche a noi, sue
figlie; nell'anno 1820, professò ella nella Cappella domestica
la regola dei Terziari dell'Ordine Trinitario Scalzo, ed emise i
voti soliti dell'Istituto a professarsi dalle persone, che vivono
nel secolo».
Esternamente questa scelta non modificò particolarmente il
modo di vivere di Elisabetta, che era già fortemente
improntato alla regola trinitaria, ma ebbe grande influenza
sulla sua vita interiore. Sarà soprattutto la frequentazione
con il mistero trinitario a caratterizzare sia le sue esperienze
mistiche che il suo impegno quotidiano: «Io non ho termini
di poter spiegare quale magnificenza, quale sublimità porta
questo altissimo e profondissimo mistero. Dico altissimo e
profondissimo perché la sua triplicità immensa contiene
tutto l'infinito suo essere: e tutte le sue infinite perfezioni
sono racchiuse in esso». Dio le si manifesta con una
simbologia particolarmente efficace - un monte formato da
tre monti, una struttura triangolare, una fonte di acqua viva
con tre zampilli, un altare d'oro e d'argento di forma
rettangolare, una nube da cui partono tre raggi di luce - ma
Elisabetta si rende conto che non è possibile descrivere
adeguatamente il mistero nel quale si trova immersa. Non
può far altro che adorare.
I riflessi mistici, storicamente documentati, della
«consacrazione» di Elisabetta e del suo ingresso nella Fami-
glia Trinitaria non distolgano l'attenzione del lettore dal si-
gnificato che assume la scelta di Elisabetta di diventare una
«laica consacrata». Essa non cessa mai di considerarsi a tut-
ti gli effetti moglie e madre: per questo vive e in questi ruoli
si esprime. L'irruzione di Dio nella sua vita, comunque si
esprima e qualsiasi scelta le imponga, non mette mai in
discussione il suo matrimonio: Elisabetta non considera il
suo sposo mistico come un antagonista del suo sposo
infedele. Il giorno in cui, per un banale incidente, mentre
lava i piatti le si sfila l'anello nuziale che scompare nello
scarico del lavandino, essa coglie brillantemente il senso
64
della sua condizione di donna non legata ad un rapporto
fisso, non destinata ad un unico ruolo di sposa e di madre,
ma radicalmente libera di vivere d'amore, in tutte le forme
che esso comporta.
Come donna si sente protagonista della vita, il che la porta
a immedesimarsi in tutti i ruoli della fecondità. È diventata
mamma quattro volte: un'esperienza sufficiente per capire
come la maternità, in tutte le sue profonde accezioni,
costituisca la ragion d'essere della donna, il senso della sua
presenza nel mondo. Dal momento che tutti nasciamo da
donna, la maternità ha un valore universale. Di qui la «ma-
terna» attenzione di Elisabetta per l'uomo, chiunque esso
sia, da qualunque contrada o esperienza provenga: la sua
«carità» per i poveri deriva direttamente dalla sua profonda
concezione della maternità, oltre che dal dettato evangelico.
In questa prospettiva non c'è alcuna esperienza di fecondità
che risulti estranea a Elisabetta, da quella fisica a quella
spirituale, da quella religiosa ed etica a quella educativa e
«politica». Se leggiamo la sua esperienza mistica come una
immersione sempre più in profondità nella vita (e quindi in
Colui che essa credeva fortemente essere la fonte della vita)
scopriamo una stimolante chiave di lettura del suo
messaggio. E capiamo come essa abbia potuto immaginare e
vivere il legame profondo tra la maternità fisica e quella
spirituale. È, il suo, un incontenibile bisogno di fecondità
che le apre le porte del mistero della vita e che le consente
di realizzare un progetto straordinario di donna.
Elisabetta non rinuncia a nulla di ciò che appartiene, di
fatto e di diritto, alla femminilità. Essa difende strenua-
mente il «potere» della donna, rivendicando la libertà di es-
sere tutto quello che può essere, persino l'«amante di Dio».
Di questo potere essa non ha esaltato soltanto gli aspetti
emotivi, economici, culturali, politici ma ne ha rivendicato la
«sacralità». Dire che quello della donna sia un potere «sacro»
significa dire che è intangibile, separato, diverso dal potere
65
maschile, esclusivo, non negoziabile perché direttamente
collegato al mistero della vita e quindi di diritto divino. È
sempre e comunque una donna che ha «messo al mondo»
Dio, che lo ha allevato, che lo ha seguito, che gli ha chiesto
il «miracolo» e ne ha raccolto il grido finale.
Questa interpretazione della femminilità proietta la figura di
Elisabetta al di là del suo tempo e costituisce anche per noi
uno spunto di riflessione.

LA SCELTA FINALE
Gli ultimi anni della vita di Elisabetta sono caratterizzati da
una relativa tranquillità. Pur defilato dalla famiglia,
Cristoforo non può nascondere a se stesso l'evidenza: le
persone che sempre più numerose si rivolgono a sua moglie,
l'eco dei fatti straordinari che avvengono in casa sua,
quell'atmosfera di forte spiritualità che in essa si respira gli
danno la dimensione della sua penosa estraneità. Sua ma-
dre muore il 12 dicembre 1824. Con essa perde l'ultima
persona disposta a giustificarlo. I suoi successi professionali
sanno di amaro: la sua immagine è definitivamente compro-
messa e non basta certo l'approvazione di qualche combric-
cola di libertini per rinnovarla. Conduce del resto una vita
più appartata: un cambiamento di cui non fornisce alcuna
spiegazione ma che sembra indicare un certo ravvedimento.
Alle figlie riserva qualche attenzione in più e rispetta le
scelte della moglie, evitando commenti e richieste di spiega-
zione.
Elisabetta è periodicamente travagliata da misteriose
malattie, di fronte alle quali i medici regolarmente falliscono:
svenimenti inspiegabili, patologie a sorpresa come una
«idropisia pessima» di origine sconosciuta, guarigioni im-
provvise, ingiustificate, istantanee, che le consentono di ri-
prendere le sue faccende quotidiane dal punto in cui le ha
abbandonate, ricadute che fanno temere per la sua vita.

66
Solo P. Ferdinando sa esattamente che cosa succede: la
«vittima» che si è votata al bene del mondo e della Chiesa sta
vivendo il suo sacrificio con totale dedizione e generosità.
Elisabetta, dal canto suo, avverte: «Non sono più io che vivo,
ma è Dio che vive in me e mi dà la vita». Il suo dolore
appartiene ad un'altra dimensione: è un modo di
partecipare all'azione redentiva del suo Gesù. È un dono,
una scelta.
In effetti, sembra che Elisabetta si ammali e guarisca a
comando. Essa dimostra di esercitare un controllo
particolare sulla sua salute: si espone alla malattia
quando... i suoi impegni glielo consentono e guarisce
quando ha altro da fare.
Consigliata di cambiare aria, tra il 1820 e il 1824, trascorre
annualmente qualche mese, come abbiamo accennato, a
Marino, ospite della famiglia Armati. Il suo arrivo in paese
movimenta ogni volta la popolazione, per cui il periodo di
riposo si trasforma in un pesante e quotidiano ricevere
gente, dare consigli, assicurare preghiere, risolvere conflitti.
Con il suo «Gesù Nazareno» Elisabetta costituisce un
irresistibile punto di attrazione. Si difende dagli assalti come
può, a volte ammalandosi.
Ciò che colpisce la gente, al di là della «santità» di Eli-
sabetta, è la grande sicurezza con cui affronta i problemi
che le vengono sottoposti: si tratti di valutare le nuove ten-
denze politiche o di dare consigli sulla gestione di un'azien-
da agricola, si tratti di illuminare un giovane sulla sua vita
futura o di consolare un ammalato, di mettere pace in una
famiglia o di valutare una proposta di matrimonio, Elisa-
betta sa sempre qual è la soluzione giusta.
A fare notizia sono ovviamente le numerose guarigioni. Ma
anche in questo caso sembra che Elisabetta amministri le
«grazie» secondo criteri particolari. Non c'è nessun
automatismo, nessuna concessione al magico. La guarigione

67
dipende infatti dalla volontà di Dio: Elisabetta si limita a
rivelarla.
Le persone per lei non hanno segreti. Quando Marianna si
incapriccia di un vicino di casa, Elisabetta sa che quello non
è l'uomo adatto. Ma quando il signor Cherubini le parla di
un certo giovanotto, figlio di un suo amico, che cerca
seriamente moglie, Elisabetta assicura alla figlia che si
tratta della persona giusta e Marianna deve prenderne atto
e convincersi che la promessa fattale a suo tempo dalla
mamma si avverava: Salvatore Brandi, questo il nome del
promesso sposo, è proprio l'uomo della sua vita. Si
fidanzano.
Elisabetta è molto contenta e condivide la gioia, i sogni e le
emozioni della figlia. Questa è un'occasione importante per
una mamma: Elisabetta si mette in salute e si dà un gran
da fare per preparare il corredo e quanto serve per un
matrimonio degno di sua figlia. Una fortunata congiuntura
economica le semplifica le cose: riesce ad assicurare a
Marianna il meglio che può desiderare. La ragazza, dopo le
critiche, le resistenze, le ribellioni scopre finalmente chi è
veramente sua madre. Elisabetta cancella il disagio e vuole
che sia felice.
È tutto pronto, si fanno le pubblicazioni. Ma Elisabetta si
ammala. Il matrimonio viene rinviato.
Elisabetta sa che questa è l'ultima prova: le viene infatti
fatta conoscere la data esatta della sua morte. Concludendo
la descrizione di un'ennesima estasi scrive: «Se tanto è il
gaudio che provò il mio cuore in quell'unione felice, che sarà
mai quando sciolti i legami di questo misero corpo potrà il
mio povero spirito liberamente slanciarsi verso il suo Dio?
Questo desiderio mi ha fatto perdere ogni altro diletto».
Il che non le fa assolutamente dimenticare i suoi doveri di
donna di casa e di madre. Con il suo solito senso pratico,
organizza tutto, in modo da non lasciare niente in sospeso.
Dalla sua stanza impartisce ordini, dà spiegazioni, controlla.
68
Persino Cristoforo intuisce che sta capitando qualche cosa
di importante e le sta vicino, inutile come sempre ma
almeno presente.
Elisabetta decide di preparare Marianna e Lucina al grande
evento. Le chiama nella sua stanza e annuncia loro con
delicatezza che deve morire. La reazione delle ragazze è
scontata: non accettano, protestano, la invitano a lasciar
perdere discorsi del genere. Ma Elisabetta le richiama al
principio di realtà, le prepara spiritualmente e psicologica-
mente ad affrontare la prova.
C'è una particolare finezza in questo gesto materno, di
staccare definitivamente da sé le proprie figlie. Chi ha dato
loro la vita deve assicurare loro anche la speranza.
E’ quello che fa Elisabetta, scegliendo di essere mamma fino
all'ultimo. Le sue raccomandazioni, nella loro semplicità,
rappresentano con straordinaria efficacia ciò che essa
ritiene essere la famiglia: «Vi inculco il rispetto, l'ossequio
che dovete a vostro padre. Compatitelo, sopportatelo,
compiacetelo più che vi sarà possibile, ricordandovi sempre
che vi è padre. Io non vi lascio orfane: ho già pensato a tut-
to». Ha infatti pensato di chiedere al signor Giovanni Che-
rubini di fare l'esecutore testamentario e al signor Sala di
fare da tutore alle ragazze e ha ottenuto le più ampie assi-
curazioni che alle sue figlie non sarà fatto mancare nulla.
Loro unico impegno sarà quello di eseguire nella vita la vo-
lontà di Dio.
Marianna e Lucina non reggono. La forza, la sicurezza e la
delicatezza della mamma, ancora una volta, le sconvolgono.
Scoppiano a piangere. Elisabetta ricorda che vuole essere
rivestita da loro dopo la morte e le congeda. Dopo le parole,
a una madre non tocca far altro che attendere. Elisabetta
segue le prescrizioni dei medici, nonostante abbia ormai
una lunga esperienza dell'inutilità delle terapie. C'è una
certa «ironia» in questo atteggiamento, come se essa volesse
far toccare con mano a tutti che non ci sono medicine o
69
tecniche che possano tenere la morte in scacco. Per non
viverla come una condanna o come una dolorosa sorpresa,
tanto vale sceglierla coscientemente, prepararla, farla
diventare un gesto di liberazione.
P. Ferdinando viene ormai a farle visita ogni giorno.
Curiosamente Marianna e Lucina gli chiedono di imporre
alla mamma di non morire. Il buon frate sa benissimo che
cosa esse intendono dire. Anche a lui è chiaro che è Elisa-
betta ad aver scelto di andarsene, rispondendo ai suggeri-
menti di un'altra guida. Ed è in effetti così che sono andate
le cose: messa dal suo «diletto» davanti all'alternativa di vi-
vere o di raggiungerlo, essa sceglie la seconda possibilità.
Eppure anche P. Ferdinando pensa per un momento che
quella donna non dovrebbe morire. Cerca di far valere la
sua autorità ma scopre che ormai Elisabetta gli si è defi-
nitivamente sottratta e segue le indicazioni di un Altro.
Il vecchio frate deve accettare. Elisabetta lo ha esposto sia
pure indirettamente ad un'esperienza che lo ha segnato
profondamente. Egli conosce un «segreto» difficile da
portare. Ormai ha ottant'anni e quella figlia spirituale che
soffre e vuole andarsene da questo mondo lo angoscia. Ma
sa che ormai le decisioni sono prese. Cerca solo di starle il
più possibile vicino, di continuare a fare la sentinella muta
del suo dolore e del suo amore.
In casa Canori Mora il ritmo della giornata non subisce
variazioni. Nell'oratorio del «Gesù Nazareno» si celebra quasi
ogni giorno la S. Messa. Elisabetta vive tra questo e la sua
camera, sempre più frequentemente rapita dalla sua
passione. È soprattutto nel momento della comunione che il
suo spirito gode del più sensibile contatto con Dio. Chi può
assistere ne rimane molto impressionato. Le prove dia-
boliche sono cessate. Elisabetta ormai da qualche mese non
riporta più niente sul suo diario.
Dobbiamo a P. Ferdinando il ricordo di uno degli ultimi
episodi della sua vita, che ne sintetizza il significato.
70
Mentre, un giorno, sta intrattenendosi in conversazione con
Elisabetta, viene introdotta una povera donna. Ai poveri in
casa Canori Mora era vietato far fare anticamera. Siamo in
pieno inverno, la donna trema dal freddo, è poco vestita.
Elisabetta le indica un cassetto e la invita ad aprirlo e a pre-
levare quattro scudi. Le dice di acquistarsi un vestito, le
consiglia il tipo di stoffa e la sarta cui rivolgersi. La donna
ringrazia e promette di tornare.
Qualche giorno dopo si ripresenta. È felice, vestita a nuovo,
tenta persino un'aria civettuola. Ed eccole le due donne che
parlano di abiti, che valutano il taglio e le rifiniture e la
vestibilità e come le sta bene, è stata un buona idea, è una
bella stoffa e però guardi mia cara che per un lavoro del
genere i soldi che lei mi dice non sono bastati, poco poco le
mancano ancora cinque paoli, apra il cassetto e li prenda,
ma no, non è un disturbo, guardi come le sta bene e poi tra
noi che cosa sono queste storie, sono proprio contenta di
averle consigliato quella sarta...
È l'ultimo gesto a sorpresa di Elisabetta Canori Mora. Un
leggero miglioramento inganna tutti. Elisabetta però ha
scelto e non alimenta illusioni in nessuno. Dobbiamo alla
testimonianza della figlia Lucina il racconto della sua ultima
giornata di vita, il 5 febbraio 1825. Il medico che in
primissima mattinata la visita non riscontra niente di
anormale. Elisabetta lo ringrazia con un sorrisino ironico.
Passa qualche ora. Lucina è nella sua camera che le tiene
compagnia. Elisabetta le dice che un giorno sarebbe
diventata suora e avrebbe dovuto affrontare numerose prove
di spirito. Le dà alcuni consigli per superarle adeguata-
mente. La prega poi di incaricarsi di consegnare, dopo la
sua morte, tutti i suoi scritti e la «borsa degli stromenti di
penitenza» al suo confessore.
Lucina tenta di interrompere questi discorsi, ma sua madre
le racconta di aver ricevuto, dopo la santa comunione, una
ulteriore conferma che dopo poche ore il Signore «mi
avrebbe condotto con sé al trionfo della gloria».
71
Pratica come sempre, per evitare di disturbare troppo i
familiari, dice alla figlia: «Presto, non si può perdere tempo.
Fammi la carità di farmi lavare le mani e il viso. Dammi la
mia camicia di lana, la veste e il fazzoletto di spalle». Riesce
a fare quasi tutto da sola, si lava e indossa finalmente la
sua divisa da terziaria trinitaria e si stende sul letto.
Fuori piove a dirotto. Ormai è scesa la notte. Marianna e
Lucina si avvicinano al letto per sistemarle meglio i cuscini.
Elisabetta si lascia scivolare, come se intendesse dormire,
tra le braccia di Lucina, dopo averle intensamente fissate
entrambe. Credendo di assistere ad una ennesima estasi,
ma non essendone sicure, le due giovani donne mandano a
chiamare P. Ferdinando. Il buon vecchio corre come meglio
può verso la casa di Elisabetta. Si avvicina al suo letto, la
chiama, avvicina una candela alla sua bocca. Nessun
indizio di respiro. Marianna e Lucina capiscono. Elisabetta
aveva 49 anni.

UNA CONVERSIONE PREANNUNCIATA


Cristoforo rientra alle quattro del mattino. Per la prima volta
Elisabetta non è li, sveglia, ad attenderlo. Ha risposto ad un
altro appuntamento. L'avvocato crolla. Conoscenti, vicini di
casa, figlie cercano di consolarlo, di sorreggerlo: adesso è
solo un povero uomo.
Tutto si svolge secondo le indicazioni di Elisabetta: il signor
Cherubini si interessa a espletare le pratiche per il funerale;
il signor Sala si prende in carico le figlie e organizza il flusso
dei visitatori, degli inquilini prima, della gente di Roma poi.
La notizia si diffonde in città ed è subito una interminabile
processione in via Quattro Fontane. La salma resta esposta
alla devozione dei fedeli per ben quattro giorni.
Al funerale, secondo la tradizione del tempo, marito e figlie
non sono presenti. Ma sacerdoti, religiosi, fedeli, nobili e

72
gente comune sono numerosissimi. Le esequie si svolgono
secondo la regola delle terziarie trinitarie.
Già durante la veglia funebre sono diverse le persone che
rivolgendosi a Elisabetta ricevono grazie. Testimonianze
attendibili parlano di diverse «apparizioni». Elisabetta, che si
era premurata, negli ultimi mesi di vita, di dare l'addio a
parenti e amici diversi annunciando loro la sua morte,
sembra aver voluto confermare la verità di quanto predetto.
Si diffonde rapidamente la credenza che ad essa ci si debba
rivolgere come ad una «santa». A questa intuizione popolare
aderiscono, senza riserve, anche molte autorità religiose. Il
Card. Benedetto Barberini, invitato da P. Ferdinando a
chiedere l'intercessione di Elisabetta, dichiara di essere
guarito improvvisamente da una malattia ritenuta in-
curabile dai medici.
La salma di Elisabetta viene tumulata nella chiesa di S.
Carlino e sarà riesumata nel 1834. La sua causa di beati-
ficazione verrà introdotta il 22 febbraio 1874, ancora vivente
la figlia Lucina.
Dopo la morte di Elisabetta, i suoi familiari prendono strade
diverse. Marianna si sposa con Salvatore Brandi. Lucina
invece entra nel convento delle Oblate di S. Filippo, dove è
superiora la zia Benedetta - la sorella di Elisabetta di cui
abbiamo parlato - e prenderà il nome di suor Maria
Giuseppa. Assieme a P. Ferdinando diventa la testimone
privilegiata della vita e della santità della madre.
Cristoforo sembra l'ombra di se stesso: svolge ancora
qualche attività forense ma è chiaro che la morte di Elisa-
betta lo ha drammaticamente provato. Qualche giorno dopo
i funerali, Lucina lo prende da parte e con grande tenerezza
lo consiglia di regolarizzare il suo rapporto con l'amante.
- Sposate quella donna - sono parole dure da accettare da
parte di una figlia che conosce la vita di tradimenti di suo
padre. Cristoforo ne è quasi fulminato.
73
- Non posso - risponde. - Perché?
- È morta.
Nessuno ne sapeva niente. Lucina, generosa e tenera, lo
aveva costretto a svelare il segreto. Ora vorrebbe non aver
parlato, ma è chiaro a lei e a tutti in casa che la vita ha
riservato a suo padre un ben tragico appuntamento.
Solo, piegato dagli eventi, Cristoforo si estrania pro-
gressivamente dal lavoro. Lo si vede sempre più spesso
vagare per le strade di Roma, entrare e uscire dalle chiese, a
volte scalzo. Chi conosce la sua vicenda trova difficile dargli
una mano. Lui non la chiede. Si permette solo, di tanto in
tanto, di andare a casa di Marianna per trascorrere qualche
ora con lei e con il nipotino. Ma nel 1833 Marianna muore.
Ormai attorno a Cristoforo si è creato il vuoto: la sua
famiglia è un ben triste rifugio e delle antiche amicizie nes-
suna traccia. Si fa vedere sporadicamente in casa di Maria
Rosa Righetti, grande amica di sua moglie, ma non fa altro
che piangere e mostrare a tutti un'«immagine» di Elisabetta
che si porta sempre «nel fondo del cappello».
Cristoforo, ormai convinto di aver fallito la vita, decide di
impiegare il tempo che gli rimane per tentare un recupero
estremo. Si presenta alla figlia Lucina, e la prega di interes-
sarsi per farlo entrare in qualche convento come fratello lai-
co. Già dal 1825, anno della morte di Elisabetta, era stato
accolto tra i terziari dell'Ordine Trinitario. Ma ciò che voleva
ora era sparire definitivamente dalla scena del mondo.
Lucina non può far niente di più che informare delle
intenzioni di suo padre un gesuita, già suo confessore. Ma è
sufficiente. Questi infatti riesce a trovare le persone giuste
per venire incontro al desiderio di Cristoforo.
Nel 1834 l'avvocato indossa il saio dei Frati Minori
Conventuali e prende il nome di Fra Antonio Mora. Sono
presenti alla cerimonia Lucina, che ha preparato al papà «la
tunica e tutto il corredo che gli serviva»; Francesco, fratello
74
di Elisabetta e due sorelle di Cristoforo. Adesso è proprio
chiaro a tutti che cosa intendeva Elisabetta per fedeltà.
Fra Antonio Mora, già durante il noviziato, dà ai superiori le
più ampie garanzie di una radicale conversione. Il suo
peccato è la ragione della sua vita di penitenza e di pre-
ghiera. Uno strano frate che si porta sempre «nel fondo del
cappello» l'immagine di una donna bellissima che non può
cancellare dalla memoria.
I superiori ritengono che possa accedere al sacerdozio. La
sua istruzione gli permette di abbreviare i tempi degli studi
teologici.
Viene ordinato, ha la facoltà di confessare e insegna teologia
in vari conventi. I suoi confratelli gli riconoscono grande
umiltà, spirito di obbedienza e totale distacco dalle cose
terrene. Lucina potrà più di qualche volta assistere alla
Messa celebrata da lui e ricevere dalle sue mani la comunio-
ne: quel pane che le aveva fatto mancare per tutta la vita,
suo padre glielo dava ora, carico di un significato molto più
grande.
Padre Antonio Mora, dei Minori Conventuali, muore l'8
settembre 1845.

IPOTESI SU UNA DONNA


Il profilo biografico di Elisabetta Canori Mora ha tutti gli
ingredienti della provocazione. Basta penetrare poco oltre la
scorza dei fatti, che inevitabilmente giungono a noi rivestiti
della mentalità del tempo, per scoprire che il personaggio
non si adatta ad alcuno schema precostituito: una
personalità molteplice, complessa, che, nella gara della vita,
va «oltre» non «contro».
1. Elisabetta Canori Mora è una donna libera.
Non si esaurisce nei ruoli di sposa e di madre, pur
svolgendoli in maniera egregia. Lavora, interviene nella vita
75
della sua città, prende posizione davanti all'autorità, si con-
fronta.
Senza esasperazioni, sa essere anticonformista. È in-
differente alla moda e alle convenienze: se ritiene opportuno
rispettarle, non se ne fa condizionare. Non si adegua allo
stile di vita del suo tempo per una valutazione chiara e
disincantata del vuoto di significati che lo caratterizza. È
tranquillamente «diversa». Può anche adattarsi alla «nor-
malità» corrente, per non mettere a disagio nessuno, ma è
evidente che una norma in contrasto con le sue scelte di
fondo per lei è priva di senso.
È critica verso tutto ciò che sa di apparenza e di
conformismo. È indipendente senza aver bisogno di ricor-
rere alla ribellione. Subisce la violenza altrui, sopporta
l'emarginazione, la delazione e il tradimento con una strate-
gia che finisce sempre per spiazzare tutti: quando si pensa
di averla dominata, lei è già da un'altra parte. E bisogna in-
seguirla. Una donna imprendibile, che sceglie a chi darsi e
non si fa scegliere se non da Dio. Dio è l'unica persona cui
concede, per amore, di limitare la sua libertà.
Bella e affascinante, della sua femminilità ha una con-
cezione seria e della sua diversità di donna una interpreta-
zione creativa, il che la rende estranea alle arti della sedu-
zione. Nei rapporti interpersonali fa valere le sue ragioni, le
sue convinzioni, la sua visione del mondo. Una donna-sog-
getto, protagonista della sua vita e del suo tempo.
È casalinga, sarta, cantiniera e «gallinara», infermiera di
basso livello, serva di tutti e in questo modo si conquista
una straordinaria autorità. Un'intuizione originale: chi serve
è più forte di chi viene servito, perché ha meno bisogni. Il
che lo rende anche più libero. Il potere rende prigionieri, il
servizio libera.
2. Elisabetta Canori Mora è donna del cambiamento.

76
Vissuta in un periodo in cui «cambiare tutto perché tutto
rimanga come prima» è norma universalmente accettata
anche se universalmente non riconosciuta, Elisabetta
persegue un cambiamento reale. Rifiuta il «nuovo» perché è
apparente, dal momento che nasce da una serie di nega-
zioni: negazione di Dio, negazione della fede, negazione della
Chiesa, negazione dei poveri, negazione della morale,
negazione dell'amore. Il «nuovo» che nasce da un no può
essere solo fittizio e deve ricorrere ad artifici economici,
politici, ideologici o tecnici per imporsi. Non libera quindi.
Per Elisabetta, il cambiamento reale (la conversione) ri-
guarda invece il cuore e le intelligenze e può essere ottenuto
solo grazie ad un amore «redentivo». Elisabetta dà tutta se
stessa all'uomo, al mondo e alla Chiesa. Si tratti del marito,
delle figlie, dei parenti o dei poveri, essa si rapporta con loro
non per quello che sono o che fanno ma per quello che
possono diventare. Essa li invita, li aiuta e li stimola a svela-
re il «mistero» nascosto in ciascuno.
Se avesse attribuito a suo marito il ruolo fisso del «traditore»
non avrebbe potuto far altro che rifiutarlo. Le basta invece
pensare che Cristoforo non è i suoi errori, ma una persona
in cambiamento, per non lasciarlo perdere. Cristoforo pensa
di non aver alternative, di essere quello che è. Lui e tutti gli
altri ritengono che il suo segreto nascosto sia il suo peccato.
Elisabetta no. Essa ritiene che Cristoforo possa e debba
andar oltre la sua colpa. Per questo non gli permette di
negarla.
Se avesse considerato le figlie come ragazze vuote e
sfortunate non ne avrebbe potuto fare delle donne respon-
sabili e solide. Se i poveri le fossero risultati come frutti ne-
cessari del progresso o come degli incapaci non avrebbe
impiegato tempo e risorse per loro. Le basta guardarli e
amarli come «figli di Dio» per capire che la loro condizione
non è immutabile.
Anche nei riguardi di se stessa, Elisabetta è una donna che
sa cambiare. Non accetta schemi rigidi: sa reinventarsi
77
come madre quando le figlie cambiano; sa reinterpretare il
suo ruolo di sposa quando il marito la tradisce; sa trasfor-
marsi in continuazione come «amante del suo Signore» per
far crescere il rapporto d'amore.
La vita la costringe anche a cambiare da nobildonna a
lavoratrice, da padrona a serva, da ricca a povera. Ma que-
ste mutazione esteriori non la preoccupano, dal momento
che non incidono sul senso profondo della sua vita. È infatti
convinta che non c'è alcun assoluto terrestre che possa
salvare l'uomo. Fissarsi sul potere, sul piacere, sul suc-
cesso, sulla ricchezza non porta da nessuna parte: ognuno
di noi è in cammino e quindi il nostro orizzonte cambia in
continuazione. Resta immutabile la nostra meta ultima, ma
quella è oltre il tempo e costituisce il cambiamento defini-
tivo: l'uomo nuovo, il cielo e la terra nuovi (temi ricorrenti
delle sue «visioni») hanno le radici nel tempo ma si realiz-
zano nell'eternità. Elisabetta tiene i piedi ben saldi sulla
terra, il che le permette di fissare il suo cuore e la sua men-
te in cielo.
3. Elisabetta Canori Mora è donna di fede.
La sua religiosità è datata, legata a pratiche tipiche del suo
tempo e di una certa tradizione monastica. Ciò che invece
non è datato è il senso che essa attribuisce al rapporto con
Dio.
La sua scelta di fede si rifà alla teologia dell'amore. L'amore
è il modo di essere di Dio - inscindibile comunione di
persone (Trinità) - e quindi il modo di essere dell'uomo,
creato a immagine di Dio. L'amore salda il destino dell'uomo
a quello di Dio, che non può perdere la sua creatura per
non perdere se stesso.
Elisabetta sa cogliere nel suo diario con straordinaria
finezza questo paradosso di un uomo che ha bisogno di Dio
per salvarsi e di un Dio che ha bisogno dell'uomo per

78
realizzare il suo progetto d'amore. La storia come rapporto
di reciprocità tra l'uomo e Dio.
Deriva di qui il suo straordinario attivismo. La sua fede si
traduce in azione e ogni azione obbedisce alla logica
dell'amore: è gratuita, sgombra da interessi, intelligente,
mirata a risolvere problemi concreti, proiettata verso il fu-
turo. Ogni azione è «segno» - sacramento d'amore - che ri-
manda alla salvezza delle persone, alla redenzione del male
del mondo.
Ogni azione inoltre è preghiera e la preghiera è il
comportamento più innovativo, creativo e pratico che un
uomo può assumere. Quando Elisabetta prega sembra che
cancelli dalla sua percezione il mondo. E invece è in quel
momento che essa stabilisce con il mondo un rapporto pri-
vilegiato: marito, figlie, parenti, poveri, ammalati, Chiesa,
società, tutto è proiettato nel cuore di Dio. E se Dio esprime
il suo dissenso e la sua ira, Elisabetta gli contrappone la
sua irriducibile volontà di misericordia, perché è lei per pri-
ma che ritiene di aver bisogno di misericordia. La miseri-
cordia è la tenerezza dell'amore, la sua forza salvifica.
Elisabetta impiega la fede per semplificare la sua vita,
eliminando tutto ciò che è superfluo. Si può avere
l'impressione che la fede le imponga un supplemento di
eroismo e che la sua adesione radicale al Cristo comporti un
eccesso di sofferenza e di annullamento.
Ma non è in questo modo che Elisabetta legge la sua vita.
L'evangelica rinuncia a tutto per seguire Gesù, nella logica
dell'amore, a lei risulta ovvia e utile: per camminare dietro
al passo possente del suo Amato Bene deve essere leggera,
non si può caricare di pesi eccessivi, dal momento che deve
riservare le sue energie per portare la croce.
La croce è il dolore del mondo provocato dal Male. Nella vita
di Elisabetta, il dolore svolge un ruolo fondamentale.
Elisabetta «ama» soffrire. Chiede al suo amorosissimo
Signore di soffrire. Un atteggiamento del genere può
79
risultare «anormale». Ed è invece il paradosso del Golgotha
che ha cambiato la nostra storia. Per liberarci dal dolore,
Dio ha dovuto assumerlo e portarlo alle estreme con-
seguenze: morendo ha distrutto la morte e ci ha dato la vita.
Elisabetta sperimenta persino sensibilmente questa verità.
Ma quello che più conta è la sua convinta consapevolezza
che il dolore ha un unico e irriducibile avversario: l'amore.
«Amare» il dolore significa distruggerlo.
In questa prospettiva assumono particolare rilevanza la sua
intensa vita sacramentale e la sua devozione alla Madonna.
La vita di Elisabetta è fatta di confessione e di comunione:
nella confessione esplora i suoi limiti, nella comunione li
supera. Nella Madonna si identifica come madre/amante del
suo Signore. Si procura in questo modo i mezzi per
affrontare la sfida del Male.
Ci pare questo, in sintesi, il forte messaggio di Elisabetta
Canori Mora.
C'è una certa ironia della storia nel fatto che ci si sia
dimenticati per molto tempo della «santità» di questa donna
e che solo oggi ci venga proposta ufficialmente dalla Chiesa.
«Diversa» ieri, più che mai «diversa» oggi, Elisabetta mette in
discussione le nostre scontate categorie di giudizio e le
comode scuse con cui giustifichiamo la nostra deludente
incapacità di vivere.
E lo fa da donna, alla conclusione di un secolo che vede le
donne protagoniste di un cambiamento radicale nei rapporti
familiari e sociali. Di questo cambiamento, Elisabetta ha in
qualche modo anticipato il senso: il segreto della donna non
è racchiuso nel suo grembo ma nel suo cuore. Per questo
una Donna può permettersi di mettere al mondo anche Dio.

©1994, Città Nuova Editrice Via degli Scipioni, 265 - 00192


Roma
80
Con approvazione ecclesiastica

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