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CAPITOLO 1 : IL PUNTO DI AVVIO, L'ECONOMIA DELLO

SPAZIO

Fino alla seconda metà dell'ottocento la funzione svolta dalla


geografia è essenzialmente quella di osservare e descrivere la
varietà dei sistemi naturali e umani presenti sulla Terra. Prima di
quell'epoca le Terre incognite erano ancora numerose per la
scienza e la cultura dell'Occidente, per la cui espansione coloniale
è fondamentale. La descrizione geografica appare in particolare
caratterizzata da stretti legami con l'esplorazione e con la raccolta
di informazioni su quanto non ancora conosciuto. Con gli ultimi
decenni del secolo XIX, la pura conoscenza dei luoghi e la raccolta
delle informazioni non appaiono più sufficienti. Osservazione e
descrizione divengono così metodi di indagine scientifica di cui la
geografia si dota, secondo cui l'osservazione costituisce l'unico
procedimento scientifico affidabile e il fondamento di ogni
conoscenza. La descrizione dettagliata è quindi alla base della
ricerca delle correlazioni tra i fenomeni, in particolare dei rapporti di
causa-effetto che li legano.

1.1Geografia, economia e il rinnovamento del metodo


scientifico

Questa evoluzione della geografia si inquadra nel più geniale


processo di trasformazione che interessò il campo delle idee
relative alla dimensione e alla funzione delle scienze. Intorno alla
metà del XIX secolo la scienza occidentale superò la semplice
funzione classificatoria per far propria una logica esplicativa. Ciò
coincise con l'affermarsi delle rigida filosofia positiva, già
formalizzata da Comte. Nella scienza dell'800, alle prese con i
problemi di un'emergente industrializzazione, si manifestava la
necessità di sostituire al caos dei vecchi valori una nuova base
morale, attraverso la quale la società fosse trasformabile «
scientificamente ». Il nuovo ordine avrebbe dovuto assicurare un
progresso che conciliasse gli antagonismi soggettivi racchiudendoli
in una nuova etica avente i caratteri dell'ineluttabilità, per cui la
funzione delle scienze è quella di assicurare che la nuova società
industriale in formazione sia accettata e divenga prevedibile nelle
sue trasformazioni. Nella ricerca del reale la scienza avrebbe
abbandonato qualsivoglia spiegazione sovrannaturale. Partendo
dall'assunzione secondo cui tra i fatti osservabili esistono relazioni
rigidamente invarianti, lo scienziato avrebbe sostituito la
formulazione di leggi scientifiche in grado di spiegare tali relazioni e
regolarità. Il mondo sarà come una realtà trasparente, la cui
organizzazione è solo da ricomporre dal momento che già esiste;
dovrà quindi abbandonare ogni riferimento di ordine metafisico, per
privilegiare i fenomeni osservabili. La scienza in questi ultimi secoli
si formò dunque nel clima di caldo positivismo che caratterizzò il
pensiero ottocentesco. Il più semplice e immediato schema di
ragionamento fu quello di stabilire un rapporto di casualità
unidirezionale tra ambiente naturale e attività umane, che venne
considerato dalle riflessioni di Darwin sull'evoluzione della specie.
L'idea darwiniana rivoluzionò allora l'utopia del sovrannaturale e
gettò le basi per una spiegazione unitaria dei fenomeni umani e
organici. Presupporre una sorta di continuità tra essere umani e
altre forme viventi consentiva di applicare la conoscenza
delle regolarità biologiche alla totalità dei componenti umani, da cui
discende che i gruppi sociali, soggetti anch'essi alla selezione
naturale, esprimono un'etica, secondo un elementare relazione
causa-effetto.

[Scheda 1.1 Sulla rivoluzione scientifica ottocentesca: nella nuova


scienza proposta da Comte si evidenzia la figura di uno scienziato
consapevole sia dei fenomeni della natura che di quella della
società, il cui interesse è diretto alla definizione di leggi universali in
grado di spiegare un ordine comunque esistente nel libro aperto di
un mondo obbiettiva ente conoscibile. In quella nuova scienza non
trova posto alcuna idea di soggettivismo] Dai primi decenni del 900,
in geografia l'approccio positivistico ridusse considerevolmente la
sua influenza, in relazione al prepotente affermarsi di
un'impostazione relativista. Ciò portò a trascurare la ricerca dei le
bici generali per guardare con rinnovata attenzione al suo originario
metodo descrittivo, a interessarsi in modo crescente allo studio
dell'illimitata varietà dei fenomeni che si manifestano sulla
superficie terrestre. Ne consegue che la geografia fu soprattutto
questo: una scienza-metodo che non tendeva alla produzione di
leggi generali, bensì una scienza idiografica, cioè diretta alla
descrizione dell'infinita varietà dei fenomeni e delle relazioni che si
pongono in essere in ogni regione in cui venisse scomposta la
superficie terrestre. L'analisi avrebbe quindi assunto caratteri di
specificità e di non replicabilità: ci saranno soltanto casi a sé, unici
e differenti, per cui fondamentale sarà l'unità del visivo, il
contingente, il singolare. La geografia appare in particolare, in
questo periodo, sempre più divergente dall'economia politica, che a
partire da David Ricardo era andata definendo un metodo di lavoro
finalizzato alla formulazione di leggi applicabili in ogni luogo. La
geografia, non fu quindi coinvolta nel processo di progressiva
evoluzione che caratterizzò l'economia politica dell'epoca, la quale
privilegiò in maniera sempre più netta un metodo di ricerca
finalizzato alla costruzione di teorie pure (teorie pure= teorie
astratte).

[Scheda 1.2- La scienza idiografica: ha a che fare con l'unico, il


singolare. Mentre nomotetica è una scienza tesa alla ricerca di
regolarità al fine di pervenire alla formulazione di leggi aventi
validità generale. Netta separazione dell'arte geografica dalle altre
scienze sociali in formazione. La geografia economica
contemporanea affonda le sue radici più profonde nell'economia
neoclassica.]

[Scheda 1.3- Dal determinismo al possibilismo: Compito della


geografia era la descrizione delle regioni dell'ecumene e la
distribuzione dei generi umani; la la conoscenza del popolamento
della Terra deriva dallo studio dei fenomeni migratori, i quali
dipendevano dalle caratteristiche dei suoli.]

1.2 L'equilibrio economico ricardiano

Per capire meglio è necessario ritornare ai prima decenni dell'800


con l'affermazione dell'economia ricardiana. Il modello ricardiano è
quello di un'economia di mercato organizzata nei termini di un
equilibrio economico ideale. Le leggi formulate dall'economia
politica sono quelle proprie di un sistema economico «non
dimensionato», e la variabile spazio viene considerata in termini
astratti e provata dei suoi contenuti umanistici. Il mondo di Ricardo
è prevalentemente agricolo, per cui il proprietario terriero
rappresenta il principale beneficiario di uno sviluppo economico che
si realizza in un regime di concorrenza perfetta e mediante la
combinazione ottima dei 3 fattori di produzione: 1) Terra, 2)
Capitale, 3) Lavoro. Il raggiungimento di questo obiettivo è reso
possibile dalla razionalità dei comportamenti individuali che dipende
dalla perfetta conoscenza del mercato e del suo funzionamento.
Affinché la produzione possa espandersi e contrarsi in rapporto alle
modificazioni della domanda è necessario che le risorse siano
completamente mobili da un luogo all'altro. Non è la posizione di un
appezzamento a determinare l'utilizzo agricolo e la destinazione
colturale, ma unicamente le differenze di fertilità. Il guadagno netto
che il coltivatore ricava dalla produzione su una data sezione di
suolo in un dato periodo di tempo (rendita) dipenderà infine dal
grado di sviluppo economico raggiunto da una nazione e dalla
densità del suo popolamento. Poiché nelle prime fasi di sviluppo di
una nazione la popolazione è relativamente scarsa, soltanto i
terreni più fertili verranno messi a coltura, la rendita perciò dei
coltivatori sarà relativamente bassa in rapporto al reddito nazionale.
Espandendosi l'economia e accrescendosi la popolazione, saranno
messi a coltura anche i terreni meno fertili, con la conseguenza che
i più elevati costi di produzione faranno lievitare i prezzi dei prodotti
agricoli e consentiranno ai proprietari di accrescere la rendita da
loro percepita. I più alti costi dei prodotti agricoli costringeranno gli
stessi imprenditori industriali a erogare salari più elevati (per
mantenere il livello di sussistenza), con la conseguenza che si
ridurranno i loro profitti e una minore quantità di capitale sarà
disponibile per successivi investimenti nella manifattura.
L'accumulazione di capitale tenderà progressivamente a ridursi
finché, dopo un certo periodo di espansione, il sistema perverrà a
una fase di equilibrio instabile caratterizzata dall'arresto della
crescita complessiva. (Fig. 1.1) Nel modello ricardiano la domanda
e l'offerta raggiungono una condizione di equilibrio. Lo schema
ricardiano della rendita differenziale segna il passaggio a uno stadio
dell'economia politica caratterizzato dalla mancata considerazione
della dimensione spaziale dei fenomeni. Da allora è per tutto l'800,
la dottrina economica ortodossa nega virtualmente ogni riferimento
geografico ed asfalta l'estrazione e la semplificazione.
1.3 Il modello di von Thünen e le origini dell'economia spaziale

Il punto di avvio della separazione fra teoria economica pura e


teoria spaziale pura può essere fatto risalire al pensiero di un
economista tedesco Thünen, fondatore dell'economia dello spazio.
L'opera di Thünen può senz'altro essere considerata come
pionieristica della logica e del linguaggio introdotti. Utilizza la stessa
impalcatura teorica di Ricardo e si pone l'obiettivo di formulare delle
leggi “pure”, caratterizzate da un elevato livello di astrazione. Se
per Riccardo l'entità della rendita dipende dalle differenze di fertilità
dei terreni, a prescindere dalla posizione geografica da questi
occupata, per Thünen l'elemento di differenziazione è la distanza
delle terre dal mercato, la quale determina l'ammontare dei costi di
trasporto che gli imprenditori agricoli devono sostenere e l'entità dei
loro costi totali. La finalità è quella di definire la configurazione dello
spazio agricolo derivante dell'opera re delle forze economiche in un
contesto spaziale astratto e semplificato. Il concetto chiave è la
rendita di posizione , ovvero la distanza tra il luogo di produzione e
il mercato di sbocco dei prodotti. Il fattore distanza è quindi il costo
di trasporto ed è considerato l'unica variabile esplicativa. Con
riferimento a quest'ultimo aspetto, si presuppone che esista un
unico mezzo di trasporto per trasferire i prodotti da un luogo di
produzione al mercato di sbocco, e che esso abbia un costo per
unità di prodotto uguale in tutte le parti del territorio. Esso sarà
variabile, secondo una funzione lineare, a seconda della distanza
da percorre e ai diversi tipi di prodotti (volume, peso, deperibilità).
Si assume inoltre, che la produzione agricola costruisca l'unica
attività economica svolta nella pianura e che si operi in un regime di
concorrenza perfetta nel quale i singoli agricoltori non possono
influire sui prezzi di vendita dei prodotti. I costi di trasporto dal luogo
di produzione al mercato di sbocco sono a carico degli stessi
agricoltori, che li dovranno sommare ai costi di produzione. Si
assume, infine, che gli imprenditori agricoli abbiano come obiettivo
la massimizzazione del profitto (differenza fra ricavi e costi) questa
potrà essere definita nel modo seguente: R = Q(p-c)-Qtd

Q= quantità di un bene prodotta e venduta (costante in quanto


il territorio possiede le stesse caratteristiche in tutte le sue
parti)
p= prezzo unitario di vendita (costante)

c= costo unitario di produzione (costante)

t= costo di trasporto (costante in quanto esiste un unico mezzo


di trasporto con costi uguali e dipendenti in modo lineare dalla
distanza)

d= distanza dal luogo di produzione dal mercato di sbocco


(variabile)

Se l'unica variabile (da cui dipende il valore della rendita


dell'agricolture) è data dalla distanza d, la rendita può essere
espressa come una funzione lineare con andamento decrescente.
Se d=0 la rendita sarà massima (Fig. 1.2)

Questi concetti sono alla base della formalizzazione sistematica


delle modalità di organizzazione spaziale di un sistema agricolo.
L'economista tedesco cercò di spiegare come lo spazio agricolo si
organizzasse intorno ai centri di mercato: il suo ragionamento portò
a concludere che i sistemi colturali sono costituiti da una serie di
anelli concentrici, adibiti alla coltivazione di prodotti il cui peso,
volume e gradi deperibilità diminuiscono all'aumentare della
distanza dal centro di mercato. Nello stesso periodo si affermò
lo Stato isolato, il più avanzato stadio di sviluppo della
società borghese in cui si realizzava finalmente il pieno e razionale
sfruttamento dei fattori produttivi (questo modello è presente nelle
tesi espresse da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni). A
conclusione delle teorie di Thünen vi sono 2 punti essenziali:

1. Thünen definì un nuovo tipo di spazio, lo Spazio Economico


2. Thünen si pose l'obiettivo di comprendere l'influenza di un solo
fattore, la Distanza. I fatti da osservare devono essere
preventivamente selezionati.
1.4 La teoria classica della localizzazione industriale

1.4.1 Costi di trasporto e localizzazione industriale secondo Weber

Se il mondo di Thünen era l'Europa rurale, quello di Weber aveva


già vissuto le trasformazioni profonde seguite dallo sviluppo e alla
diffusione della manifattura. La sua teoria pura della localizzazione
industriale può essere considerata parallela all'opera di Rostow,
sebbene l'oggetto dall'osservazione siano diversi: in questo caso
protagonista è l'industria manifatturiera mossa dalla macchina a
vapore, le cui ,materie prime e i cui prodotti sono soggetti a
trasporto lento e costoso. L'obiettivo di Weber è quello di giungere a
una spiegazione rigorosa della localizzazione della manifattura: il
modello ha per oggetto la scelta della localizzazione che consente
di minimizzare i costi di trasporto che sono una funzione lineare
della distanza. Weber come Thünen cerca di mantenere costanti i
fattori che non siano dati dalla distanza. Le sue leggi pure sono
delle leggi generali in quanto applicabili ad ogni tipo di industria. Il
problema consiste nell'individuare il punto in corrispondenza del
quale l'impresa deve localizzarsi al fine di minimizzare i costi di
trasporto totali. La rifocalizzazione avverrà soltanto nel caso in cui
lo spostamento verso il mercato del lavoro consente un risparmio
tale da compensare i maggiori costi di trasporto che devono essere
sostenuti. Anche le economie esterne, o di
agglomerazione, possono essere viste come un elemento in grado
di modificare la localizzazione ottima originaria (esempio Fig. 1.5b)
Il modello di Weber ha posto per la prima volta un problema di
grande rilevanza pur rappresentando un fondamentale punto di
riferimento per le elaborazioni successive, esso contiene una serie
di ipotesi restrittive che appaiono in realtà eccessivamente
vincolanti. In particolare:

 la minimizzazione dei costi di trasporto è un elemento di


scarso interesse se considerato senza un esame più accurato
della struttura dei costi di trasporto stessi, la quale può
dipendere, fra l'altro, dai diversi tipi di vettori impiegati
 lo schema di ragionamento utilizzato presuppone una
irrealistica rigidità delle fonti di materie prime e dei mercati
 non si tiene conto della variazione spaziale della domanda,
con la conseguenza di non considerare il fondamentale
rapporto fra localizzazione (offerta) di un prodotto e domanda
dello stesso prodotto.

Sono 3 aspetti che definiscono alcuni limiti dell'analisi weberiana ed


introducono la discussione sugli apporti teorici successivi.

1.4.2 La struttura dei costi di trasporto

E. Hoover (1948) iniziò ad elaborare un modello di minor livello di


astrazione rispetto a quello di Weber: il costo di trasporto non varia
soltanto in rapporto alla distanza da coprire, ma in ragione del
mezzo di trasporto utilizzato. I costi di trasporto rappresentano sia
una componente fissa, indipendente dalla distanza, sia una
componente variabile, la cui entità tende a crescere all'aumentare
della distanza da percorrere: la prima riguarda gli investimenti che
sono connessi al trasporto in sé (per es. gli impianti di carico e
scarico delle merci); la seconda è costituita da fattori di costo la cui
entità cresce proporzionalmente in rapporto alla distanza da coprire
(per es. tariffe e carburanti). Il rapporto tra costi fissi e variabili
cambia sia in relazione alla distanza da coprire, sia in ragione del
mezzo di trasporto impiegato.

 Il trasporto stradale sarà più adatto per i trasporti brevi. È


caratterizzato da un elasticità dei percorsi decisamente
superiore rispetto a quella degli altri due mezzi di trasporto
considerati
 Nel caso di distanze maggiori, il mezzo ferroviario diventa più
conveniente, in quanto gli elevati costi fissi vengono ripartiti in
base alla distanza da coprire, determinando un costo di
transito inferiore per unità di peso
 Infine, gli elevati costi fissi connessi al trasporto su vie
navigabili (canali, porti, navi da carico) fanno sì che questo
sistema di trasporto risulti conveniente soltanto su distanze
ancora maggiori
1.4.3 Sostituzione dei fattori

Weber prese in considerazioni una combinazione dei fattori


indipendente dal prezzo relativo di questi ultimi. Predöhl modificò lo
schema weberiano introducendo la possibilità di considerare la
variabilità della combinazione dei fattori produttivi (Terra, Lavoro,
Capitale) in relazione alla variazione del loro prezzo relativo. Così,
la manodopera (fattore lavoro) potrà, entro certi limiti, essere
sostituita con il capitale (per es. attraverso l'investimento in
macchinari). Inoltre, dato che il prezzo dei fattori è variabile ogni
scelta localizzativa costituirà una loro possibile combinazione. La
scelta localizzativa avverrà nel luogo in cui il lavoro è relativamente
più a buon mercato, quindi la combinazione è tale per cui l'impresa
impiega un maggior numero di unità di manodopera è un minor
numero di unità di capitale sociale ( o di un altro fattore). Da questo
punto di vista, la localizzazione d'impresa appare come una
generalizzazione della teoria neoclassica, nel senso che il problema
della localizzazione altro non è che una variante del problema
economico generale. Produzione e localizzazione costituiscono
infatti due aspetti complementari di un unico problema: oggetto
dell'osservazione è il comportamento localizzativo della singola
unità economica.

1.5 Localizzazione ed equilibrio economico

1.5.1 Un padre nobile dell'equilibrio spaziale

Concentrare l'attenzione sul singolo comportamento localizzativo


porta a prescindere delle complesse relazioni che si consumano tra
i diversi soggetti economici. Perciò il problema viene spostato sul
piano dell'equilibrio generale, ovvero del funzionamento del sistema
economico complessivo. In questo modo si evidenzia l'ultimo nodo
problematico, ovvero il rapporto tra localizzazione dell'offerta e
localizzazione della domanda. Il più importante tentativo volto a
ricondurre in seno una struttura concettuale unitaria la teoria della
localizzazione e la teoria dell'equilibrio economico generale, sarà
fornito da Walter Christaller, che elaborò il suo modello nello anni
trenta del XX secolo. Basandosi sui principali modelli di economia
spaziale precedenti (il principio della libera concorrenza è quello
dell'isotropia dello spazio), questi elaborò un modello volto a fornire
un interpretazione generale della configurazione delle aree di
mercato dei centri di un determinato territorio a partire dalla
struttura dei movimenti dei consumatori (di servizi in questo caso).

1.5.2 Il modello delle località centrali secondo Christaller

Oggetto di studio è la localizzazione delle attività terziarie rivolte


alle famiglie e anche in questo caso vengono poste delle assunzioni
iniziali: beni e servizi sono prodotti in determinati centri ed offerti in
cambio di un corrispettivo stabilito sulla base della domanda e
dell'offerta. I consumatori sono distribuiti uniformemente sul
territorio, la cui ampiezza dipende dalla convenienza dei
consumatori a spostarsi verso il mercato localizzato in
corrispondenza del centro stesso. Aumentando la distanza, il
consumatore dovrà destinare una quota maggiore del proprio
reddito al pagamento delle spese di trasporto, per cui al domanda
del bene diminuirà sino ad annullarsi, allorché il costo di trasporto
assorbirà l'intera cifra destinata all'acquisto del bene p servizio.

Il modello si fonda su concetti che vengono introdotti tramite alcune


definizioni:

1. la località centrale è definita come un centro di offerta di


servizi
2. il prezzo effettivo di un servizio centrale è dato dalla somma
del suo prezzo di mercato e del costo di trasporto che il
consumatore deve sostenere per trasferirsi dal luogo di
residenza al centro di offerta
3. La portata del servizio centrale è la distanza massima che il
consumatore è disposto a percorre
4. L'area di mercato di un servizio centrale è delimitata dalla
circonferenza ottenuta facendo ruotate di 360º intorno alla
località centrale
5. La soglia di servizio centrale è data dalla distanza che
delimita un'area circolare nel quale è compresa la quantità di
popolazione minima sufficiente a garantire una ammontare di
domanda tale per cui sia conveniente fornire il servizio
6. Un servizio centrale caratterizzato da un'area di mercato molto
ampia, avrà un rango elevato; mentre un servizio
caratterizzato da un'area di mercato di ampiezza limitata e
quindi molto diffuso sul territorio (per es. un punto di vendita al
dettaglio) avrà un rango alquanto basso
7. L'ordine di una località centrale è il livello gerarchico della
stessa, definito dal servizio di rango più elevato che da essa
viene fornito.

Si suppone inoltre che i costi di trasferimento dal luogo di residenza


al centro di offerta del servizio siano a carico del consumatore, e
che la quantità domandata di un determinato servizio sia funzione
lineare inversa del suo prezzo effettivo. Da questi postulati
Christaller derivò alcuni teoremi:

 Teorema 1: dato che il costo per il trasferimento del


consumatore dal luogo di residenza al centro di offerta è
funzione diretta della distanza da percorrere è che il prezzo
effettivo è dato dalla somma del prezzo di mercato del servizio
e dello stesso costo di trasferimento, il prezzo effettivo di un
servizio é funzione lineare diretta della distanza:

pe= prezzo effettivo del servizio

pm= prezzo di mercato

t= costo di trasporto per unità di distanza

d= distanza (Fig. 1.8)

 Teorema 2: dal momento che la quantità domandata di un


servizio è funzione lineare inversa del suo prezzo effettivo, e
che quest'ultimo è funzione lineare diretta della distanza
(teorema 1) la quantità domandata è funzione inversa della
distanza: q= a-bd
 Teorema 3: Cono di domanda => il volume corrisponde alla
quantità complessiva di domanda del servizio in questione
espressa dai consumatori compresi nell'area di mercato
circolare che sta alla base del cono
Estendendo il ragionamento a più servizi di rango diverso,
Christaller pone un ulteriore postulato: ogni località centrale di un
determinato ordine n offre necessariamente anche tutti i servizi dei
ranghi inferiori (n-1, n-2, ..., 1). La configurazione dello spazio sarà
quindi data dalla sovrapposizione di una serie di reticoli esagonali di
dimensione diversa a seconda del rango dei servizi, organizzati
intorno alle località centrali dei diversi ordini associati.

Lo schema di Christaller è da considerarsi una pietra miliare nello


sviluppo del pensiero delle scienze dello spazio. Christaller
trasformò lo spazio geografico in una pianura astratta e geometrica,
la cui organizzazione elementare è fatta da una logica economica.
(Introduzione del fattore domanda)

1.6 Economia dello spazio, teoria economica neoclassica e


logica normativa

I modelli fin qui analizzati si fondano sul presupposto di agenti


economici omogenei nei confronti del mercato. Produttori e
consumatori rispondono a un identico modello decisionale, a
identici obiettivi di massimizzazione ed esprimono identica capacità
di definire in modo razionale i propri comportamenti organizzativi. In
questo modo si ha la perfetta conoscenza delle condizioni
dell'ambiente economico e quindi l'assenza di ostacoli alla perfetta
e omogenea diffusione dell'informazione.

Scopo dell'economia neoclassica è quello di elaborare schemi di


interpretazione interamente coerenti, in grado di pervenire a una
dimostrazione a partire da un certo numero di assunzioni poste alla
base del ragionamento.

CAPITOLO 2: UNA RIVOLUZIONE PARADIGMATICA: LA


SCIENZA DELLE RELAZIONI SPAZIALI

La teoria della localizzazione affrontata nel capitolo precedente,


appartiene al bagaglio teorico e culturale della scienza geografica. I
modelli di Thünen, Weber e Christaller volevano dimostrare come lo
spazio si differenziasse e si organizzasse secondo regole che
prescindono dalle condizioni climatiche e morfologiche, oltre che
dai comportamenti motivazionali dei soggetti economici.

2.1 Spiegazione e metodo scientifico

2.1.1 Induzione e deduzione nella logica delle scienze e in


geografia

La geografia tradizionale aveva in realtà privilegiato uno schema di


ragionamento opposto. Sviluppatasi sul convincimento
dell’impossibilita di avere una conoscenza totale della realtà, il suo
metodo si fondava sull’individuazione di regolarità e concordanze
ricavate dall'osservazione dettagliata del mondo, ovvero sulla
ricerca di legami e delle relazioni causali che si rivelano allorché i
fenomeni osservati vengono classificati.

Le informazioni ricavate dall'osservazione rappresentavano il


contesto fattuale (cioè pertinente a una data realtà di fatti) cui lo
scienziato avrebbe in seguito fatto costante riferimento.
Aggiungendo nuove osservazioni si sarebbero così evidenziate
delle regolarità fra due o più classi di eventi empiricamente
osservati. Si tratta di un modo di procedure induttivo in cui la
spiegazione dei fatti discende dall'osservazione diretta.

Un ruolo determinante veniva assegnato all'intuizione del


ricercatore: era lui a trarre dai fatti empirici osservati le leggi
esplicative di altri fenomeni empirici. La deduzione prevede un
percorso logico opposto: lo scienziato si trasforma in un
osservatore neutrale; l'osservazione viene limitata e soltanto nel
successivo confronto con la realtà empirica può trasformarsi in una
legge scientifica accettata dalla comunità degli studiosi. La scelta
dei fatti da osservare non è casuale o dipendente dall’intuizione del
ricercatore.
2.1.2 La concezione positivistica della scienza

Nella Vienna dei primi decenni del 900 si posero i fondamenti di un


mondo teorico radicalmente nuovo. Al mondo nuovo che andava
costruendosi nella capitale austriaca è legata soprattutto la
pubblicazione, avvenuta nel 1921, del tratto logico-filosofico di
Wittgenstein in cui si sperimenta la morte delle vecchie forme di
pensiero e la creazione di nuove: la spiegazione degli eventi
passati e la predizione di quelli futuri non potrà fondarsi se non su
condizioni e leggi generali e oggettive.

Queste affermazioni decretarono l'affermazione definitiva del


positivismo logico (un insieme di argomentazioni filosofiche che
segnano una distratta rottura con la morale, l’arte e la metafisica.
Non si ammettono più molteplici teorie della conoscenza): se il
mondo è quello che è, esso potrà essere spiegato rigorosamente
attraverso fenomeni e processi oggettivamente prevedibili e
controllabili.

Il metodo scientifico inteso è ciò che Keat definì concezione


positivistica della scienza, esso è alla base del ragionamento
dell'economia politica convenzionale. Secondo questo modo di
procedere la spiegazione del mondo reale è contenuta in larga
misura nella legge speculativa, per cui la deduzione altro non prova
se non quanto già in essa contenuto.

Assumendo questo modo di procedere, la geografia si dota


pertanto di un quadro sistematico e astratto. Il suo obiettivo non è
più la ricerca della specificità e dell'unicità delle diverse regioni in
cui può essere suddivisa la superficie terrestre, ma l'individuazione
dei caratteri comuni, delle regolarità, la ricerca di leggi generali che
spieghino eventi e processi ripetitivi. Le leggi della geografia
saranno leggi che «governano la distribuzione spaziale dei
fenomeni», metodo per cui si assume la libera trasferibilità di
concetti e strumenti fra i diversi campi del sapere. La geografia
positivistica, analizzerà i fenomeni umani, economici e sociali nella
loro dimensione spaziale.

2.1.3 Rivoluzione scientifica e geografica

Alla tradizione descrittiva e classificatoria del passato si sostituì una


scienza orientata alla spiegazione dei processi, fondata sulla
costruzione di leggi scientifiche. La scienza delle relazioni spaziali
(o nuova geografia) sviluppatasi nel dopoguerra, ha quindi un
proprio esclusivo oggetto di studio che produsse due fondamentali
rivoluzioni metodologiche:

 L'assunzione di modelli propri delle scienze naturali;


 L'utilizzo di tecniche quantitative (matematiche e statistiche)

2.2 L’interazione spaziale

2.2.1 I processi elementari

La distanza è dunque la categoria decisiva per la costruzione di una


geografica intesa come scienza delle relazioni spaziali.
L’interazione spaziale è quindi il modo più semplice di concepire le
relazioni che si instaurano fra località diverse: è sufficiente la non
disponibilità di un prodotto che si intende acquistare perché ci si
sposti per appropriarsene, o ancora la presenza di due o più località
specializzate nella produzione di beni diversi, favorirà
un’interazione fra di esse. Il banale concetto di distanza fisica viene
sostituito in tale modo dalla fondamentale nozione di distanza
funzionale. Ullman individuò l'esistenza di tre condizioni: la
complementarietà, la trasferibilità e l'opportunità.
 La complementarietà è la condizione per cui, se la domanda
di un bene non può essere soddisfatta localmente, ci si rivolge
ad altre località che ne dispongono.
 Soltanto nel caso in cui i costi di trasferimento ripaghino l'utilità
espressa in termini economici, si realizza la seconda
condizione, la trasferibilità, che incide in misura diversa in
rapporto ai prodotti che si intendono trasferire.
 L’opportunità dell'interazione, è riferita quei fattori, non soltanto
economici, che possono incentivare il trasferimento di beni e
persone da un luogo all'altro, scelti fra diverse alternative
virtualmente complementari. Così, per esempio, i vantaggi
offerti da un’agglomerazione urbana possono indurre attività
economiche e popolazione a spostamenti di lungo raggio.

Queste esempi dimostrano l'esistenza di condizioni di vantaggio


relativo che incidono sugli scambi e i flussi nello spazio. A questo
punto diventa agevole formulare un'ipotesi astratta e intuitiva: la
città, l’agglomerazione, la centralità costituisce in termini generali
l'elemento che meglio soddisfa le condizioni sopra indicate.

2.3 Nodi e reti di trasporto

I flussi di interazione non si realizzano liberamente in qualsiasi


direzione, ma richiedono la presenza di strutture fisiche (strade,
ferrovie, corsi d'acqua, reti di telecomunicazione). Le strutture
aeree, che apparentemente non necessitano di una specifica
infrastrutture, sono in realtà stabilite e rispettate. La rete su cui si
realizzano le interazioni dovrà rispondere ad almeno due
fondamentali esigenze: assicurare, da un lato, la connettività del
maggior numero di centri e, dall'altro, l’accessibilità a partire del
maggior numero di direzioni.

Una rete è costituita da segmenti, tratte, che congiungono un


numero più o meno ampio di nodi, cioè località di origine e di
destinazione dei flussi e dei movimenti nello spazio. Sviluppandosi,
la rete dei trasporti accresce le possibilità di reciproca connessione
tra i centri, mentre la presenza e lo sviluppo di questi ultimi produce
la continua modificazione ed estensione delle tratte. Se in termini
generali la struttura della rete viaria rinvia alla distribuzione degli
insediamenti, il suo sviluppo è comunque difficilmente
rappresentabile mediante un unico modello comprensibile.

(Fig. 2.2, Fig. 2.3)

2.4 Reti urbane gerarchiche e policentriche

I principali concetti sinora introdotti( interazione, accessibilità,


connettività ecc.) stanno alla base della definizione delle relazioni,
di intensità e forma molteplice, che si instaurano tra i diversi nodi
(d'ora in poi centri urbani) che svolgono un ruolo cardine
nell'organizzazione dello spazio geografico. L'insieme delle
relazioni instaurate tra i centri di rango elevato e gli altri definisce in
tal modo una rete gerarchica degli insediamenti.

Come si ricorderà, nel modello delle località centrali la presenza di


un centro urbano do rango elevato, unitamente ad altri centri di
ordine via via inferiore, costituisce l’armatura funzionale di una
regione. La struttura gerarchica degli insediamenti si configura
come «una rete di punti e di linee»: i primi rappresentano i luoghi
centrali, le seconde le connessioni funzionali tra i centri di diverso
livello gerarchico-funzionale (dominanti e dominati) [Fig. 2.4]

Muoviamo ora l'attenzione ai processi evolutivi della trama delle


relazioni che sfruttano lo spazio geografico. Si è visto come lo
schema Christalleriano non tenesse conto delle trasformazioni nel
tempo di una rete di centri. Esso assumeva unicamente le funzioni
di servizio rivolte a una popolazione insediata in un'area
complementare: in tal modo non poteva considerare l'esistenza di
più complessi meccanismi evolutivi operanti nei singoli centri i quali
modificano necessariamente l'ordine del modello.
In altre parole, l'evoluzione della città è tributaria non tanto (e
soltanto) dell’ampiezza e della varietà dei beni e servizi offerti dalla
popolazione residente nella città stessa e nel suo hinterland, ma di
un meccanismo di interdipendenza tra attività diverse.

Un modo per esprimere questo fenomeno elementare è dato dal


modello della base economica che divide la popolazione
occupata presente in un centro in due distinti settori:

 Le attività di base (o esportatrici), il cui prodotto è volto


al,soddisfacimento della domanda di origine esterna al centro
stesso. La localizzazione urbana di queste attività non dipende
da altre attività presenti nella città. L'esportazione di bene e
servizi apporta alla città nuove fonti di reddito e quindi le
condizioni per ulteriori processi evolutivi;
 Le attività non di base (o di servizio) comprendono quei
comparti che producono beni e servizi volti al soddisfacimento
della domanda suscitata internamente alla città.

Il rapporto tra l'occupazione nei due tipi di attività (di base e non di
base) ci informerà sulla prevedibile crescita dell'occupazione totale
per ogni incremento dell'occupazione nelle attività di base.
L'occupazione totale si accresce in conseguenza dell’espansione
delle attività di base, e quindi della popolazione in essa occupata
(moltiplicatore della popolazione urbana). Il meccanismo della
crescita urbana così esemplificato (occupazione di base ->
occupazione nei servizi -> popolazione -> occupazione totale)
vuole essere esplicativo r predittivo insieme.

Molte attività (industriali o di servizio) seguono una localizzazione


determinata dalla dimensione urbana, ma si distribuiscono in modo
quanto mai variabile tra i diversi centri. Ciò significa che non
soltanto la centralità o la dimensione, ma anche la specializzazione
costituisce un principio fondativi dell'organizzazione di una rete di
centri.

Le forme di rete assumono i seguenti caratteri:


 Sono costituite da nodi il cui il numero, dimensione e
localizzazione non è dato a priori secondo un modello
determinato
 Le relazioni tra i centri non sono asimmetriche o gerarchiche,
ma tendenzialmente simmetriche
 La rete nel suo complesso trarrà vantaggio non già dallo
sfruttamento di forti economie di agglomerazioni coinvolgenti
l'intera trama delle relazioni tra i nodi, bensì dalla
valorizzazione delle economie di specializzazione e dalla
divisione di lavoro tra i centri
 Un'organizzazione a rete policentrica presenta relazioni tra
nodi che nel modello Christalleriano potevano non risultare
connessi fra loro, ma relazionati soltanto con centri di rango
superiore e inferiore
 Di regola le strutture policentriche non sono incompatibili con
le reti di natura gerarchica.

La rete si articola su tre livelli non determinanti a priori:

 A un primo livello appartengono i centri superiori, in cui si


concentrano le funzioni di direzione e controllo economico,
tecnologico, politico, culturale
 Il secondo livello è quello dell’organizzazione policentrica,
composto di centri che esercitano funzioni specializzate
 Il livello delle dipendenze gerarchiche, infine, comprende un
insieme di nodi quanto mai eterogeneo, la cui appartenenza
alla rete ribadisce i principi ispiratori della strutturazione
gerarchica-funzionale dello spazio.

2.5 Processi di diffusione

I centri di più elevato livello gerarchico si configurano dunque come


la chiave dell'organizzazione dello spazio geografico. Definendo
inoltre un processo di diffusione spaziale come un fenomeno per
cui un evento «si propaga nel tempo a partire da uno o più punti
nell'ambito di una data area», lo studio può proseguire spiegando
alcuni fondamentali meccanismi capaci di modificare
l'organizzazione complessiva del sistema.

A questo riguardo, la tradizione del,a scienza spaziale divide i


processi diffusivi in due tipi distinti: diffusione per rilocalizzazione e
diffusione per espansione. La prima si realizza con il trasferimento
del soggetto economico (un individuo o impresa) e quindi delle sue
conoscenze da un luogo all'altro. La seconda non si accompagna
invece allo spostamento fisico del portatore; in questo caso sarà il
contatto personale tra portatori di informazioni e potenziali recettori
a far sì che l'innovazione si diffonda nel tempo presso un numero
crescente di individui distribuiti nello spazio geografico.

2.6 Coerenze e incertezze

Secondo lo schema proposto, un processo diffusivo (gerarchico,


epidermico o ancora la combinazione di entrambi) può verificarsi a
qualsiasi scala geografica. Ponendo al centro dello schema
esplicativo il fattore distanza, la direzione e la velocità della
diffusione sono ricondotte alle forme dell’organizzazione spaziale.
Saranno queste ultime a spiegare la diffusine dell'innovazione, così
come sarà il processo di diffusione a spiegare l'evoluzione di un
dato ordine spaziale.

Questo modo di guardare la realtà può, in conclusione, essere


ricondotto a quattro fondamentali criteri:

 La generalizzazione è propria di una logica che semplifica il


reale e non va alle radici delle forze profonde che scatenano
un processo di trasformazione. Come abbiamo visto il concetto
di innovazione non è che un indicatore simbolico di cui non
viene spiegato il contenuto
 La spiegazione di come si trasforma un dato ordine spaziale
da uno stato all'altro si basa su un rigido processo per cui
eventi di un certo tipo sono regolarmente seguiti da eventi di
un altro tipo
 Un processo diffusivo si fonda su sistematiche regolarità
spaziali
 Un processo diffusivo è in sostanza assimilabile ai processi
fisici e biologici operanti in natura e sistematicamente
prevedibili nelle sue regolarità

CAPITOLO 3: LE REGIONI E LO SVILUPPO ECONOMICO

Nella storia del pensiero economico, gli anni cinquanta del 900
segnalano il superamento della tradizione dell'equilibrio do mercato
e dalla concorrenza perfetta. In quegli anni si costruì un mondo
teorico radicalmente nuovo, quello dello sviluppo regionale, i cui
fondamenti risiedono in due presupposti:

 Lo sviluppo economico NON inteso nei termini di un un


processo lineare nell'ambito del quale si realizza
spontaneamente la coincidenza dell'interesse economico dei
singoli operatori con l'obiettivo dell'allocazione ottimale delle
risorse nell'intero sistema ma, al contrario, come processo
discontinuo che produce e riproduce disuguaglianze
 Dando protagonismo all'analisi delle differenze nei livelli di
sviluppo tre le regioni, si realizza altresì il passaggio dalla
micro analisi tradizionale a schemi teorici che descrivono e
interpretano la configurazione spaziale dei più ampi sistemi
economici nazionali e regionali.

3.1 Sviluppo economico e squilibri regionali

3.1.1 Oltre lo schema neoclassico

Partendo dall'ipotesi che i fattori di produzione siano perfettamente


mobili e i beni relativamente immobili, la teoria neoclassica assume
che i meccanismi di mercato siano in grado di ristabilire
progressivamente l'equilibrio compromesso dal verificarsi di
fenomeni accidentali (come un’innovazione).

La teoria dello squilibrio che si afferma nell'ultimo dopoguerra nasce


in modo anomalo, non sistematico, come somma più o meno
casuale di contributi diversi che all'inizio sembravano avere obiettivi
limitati alla riflessione teorica. Due sembrano i fattori principali che
influiscono in modo determinante, ma con peso differente, sullo
sviluppo di queste idee.

Il primo può essere identificato nella rivoluzione keynesiana, la


quale riassume un insieme di criteri : si tratta del riconoscimento di
condizioni di squilibrio nella struttura dell'occupazione,
dell'esistenza dei cicli e fluttuazioni economiche di lunga durata,
dell'idea dell'intervento diretto dello Stato nell'economia.

Il secondo fattore, non divisibile dal precedente, sta nella


consapevolezza dei crescenti divari (in termini di reddito,
investimenti, occupazione) tra aree di rapido sviluppo industriale e
le regioni a queste esterne ( fenomeno presente in Occidente). Il
ruolo dell'intervento statale nel promuovere politiche di sviluppo
regionale nelle aree ai margini dei processi di crescita fu visto allora
come l'unica ricetta possibile per spezzare una spirale perversa che
porta ad ampliare le distanze tra le regioni.

La politica regionale si affermò così nel dopoguerra in coerenza con


i presupposti di tipo keynesiano e si espresse:

 In forma diretta, ovvero nell'intervento dello Stato in quelle


regioni in cui l'iniziativa privata, da sola, non avrebbe trovato
né l'incentivo né la convenienza a coinvolgersi
 In forma indiretta, intesa come sfera pubblica nel campo delle
infrastrutture, e più in generale nella politica fiscale e
finanziaria

Tutti i paesi dell'Europa occidentale hanno così elaborato nel


dopoguerra proprie strategie di sviluppo regionale, volte a dar
soluzione a specifici problemi. Il mezzogiorno italiano ha assorbito
le quote maggiori di finanziamenti erogati dal Fondo europeo di
sviluppo regionale, creato in ambito europeo per la realizzazione di
una comune politica regionale.

3.1.2 Il concetto di polarizzazione nell’inquadramento teorico di


Perroux

La teoria dei poli di sviluppo è stata ideata da François Perroux. Si


basa sull'idea che un'agglomerazione industriale in cui ci siano
delle attività che fungano da poli di sviluppo possa trainare un'intera
economia e determinare il rilancio economico di un'area depressa
con tanto maggiore rapidità quanto più questo è fondato su impianti
industriali di grosse dimensioni (economie di scala). Tali attività,
chiamate propulsive o industrie motrici, hanno un effetto detto
moltiplicatore nei confronti delle altre attività. Il territorio descritto da
Perroux è però astratto e topologico, quindi non reale.

Gli stadi del processo prevedono:

 una crescita produttiva iniziale data dalle industrie motrici;


 un processo di polarizzazione attorno all'attività iniziale, sia dal
punto di vista sociale che demografico;
 la formazione di economie esterne;
 una crescita demografica a cui segue un aumento della
domanda e anche degli investimenti.

La teoria dei poli di sviluppo, tuttavia, non tiene conto di una serie di
fattori. Ovvero del fatto che non sempre lo sviluppo polarizzato può
dar luogo a economie esterne; che il rilancio economico di una
regione può essere fondato anche su attività terziarie; che i profitti
prodotti in situ possono anche non alimentare processi di
reinvestimento nell'area della localizzazione del polo industriale.

3.1.3 Il dualismo economico e lo schema interpretativo di


Hirschman
Alcuni anni dopo, Hirschman portò a supporto delle tesi di sviluppo
inteso come catena di squilibri, la teoria della polarizzazione. Nello
sviluppo più o meno spontaneo del sistema capitalistico, la ricerca
di maggior profitti genera, nelle prime fasi, una naturale
concentrazione geografica degli investimenti nelle regioni urbano-
industriali. Di conseguenza si accentuano, inizialmente, le
differenze tra le regioni. Una volta decisa la localizzazione di una
certa impresa in un punto preciso, si avvia un processo
moltiplicatore che genera nuova domanda: da un lato la
popolazione immigrata richiede nuove abitazioni e nuovi servizi;
dall'altro lato, la stessa impresa attrae nuove unità produttive
fornitrici e acquirenti di semilavorati da sottoporre a successiva
trasformazione. L'intero processo è cumulativo, una volta
completato il primo ciclo si avviano nuove fasi di sviluppo che
generano a loro volta altre forme di concentrazione: questi
fenomeni riproducono finché la comparsa di diseconomie di
agglomerazione non interrompe il processo, oppure quando si
affermano altri punti di crescita che offrono vantaggi
comparativamente superiori.

3.1.4 Il modello della causazione circolare e cumulativa di Myrdal

Il funzionamento del meccanismo della causazione circolare e


cumulativa poggia sull’operare congiunto degli effetti di riflusso e di
diffusione. I primi si riferiscono ai trasferimenti di capitale e di altri
fattori produttivi verso i centri o poli in rapido sviluppo. I paesi e le
regioni sottosviluppate saranno quindi privati non soltanto della
ricchezza generata localmente ma anche della mano d'opera più
qualificata e delle migliori forze imprenditoriali. A questi fattori di
natura economica se ne aggiungono altri, non economici, come le
differenze nella dotazione di servizi (sanitari, educativi, ecc.) i quali
concorrono a far sì che alcune aree risultino maggiormente
attrattive ed a comprimere le potenzialità di sviluppo delle rimanenti
regioni.
Dell'interazione tra queste tipologie di regioni si attivano altresì
forze centrifughe che possono tradursi in processi di diffusione dello
sviluppo: l'economia centrale in espansione può infatti stimolare la
domanda nell'economia periferica (di prodotti agricoli e materie
prime, per es.) e permettere l’innesco di processi di crescita
cumulativi. Il processo di differenziazione fra le economie regionali
segue 3 fasi successive:

 Una prima fase, preindustriale, durante la quale sintetizzano


modeste differenze di sviluppo economico fra le regioni
 Una successiva fase in cui il pieno operare della causazione
circolare e cumulativa origina consistenti tassi di crescita in
uno o più poli, e non nelle altre regioni, con il conseguente
ampliamento degli squilibri tra livelli di sviluppo
 Una terza fase in cui l'innesco di eventuali effetti di diffusione
riduce le differenze createsi nella fase precedente.

Secondo Myradal, in nessun caso, gli effetti di diffusione sarebbero


infatti capaci di ripristinare una condizione di equilibrio. In questo
senso, lo schema myrdaliano rappresenta più che altro un punto di
partenza per la formulazione di una teoria generale dello sviluppo
avente una dimensione territoriale.

3.2 Funzionalismo e sistemi funzionali

3.2.1 Scienza analitica e normativa

Della teoria Perrousiana è possibile cogliere due fondamentali


dimensioni, analitica e normativa. La prima è volta a descrivere il
processo di sviluppo economico in termini contrapposti a quelli
lineari dell'equilibrio. La dimensione normativa si riferisce invece
all'utilizzo più o meno consapevole che è stato fatto della teoria
della polarizzazione per la definizione di possibili strategie di
sviluppo, sia su scala nazionale che regionale.
È possibile rilevare che:

 Il polo di crescita (l'impresa o il settore industriale) è assimilato


a un insieme spaziale di unità economiche tra loro in relazione
 Quest’insieme spaziale coincide con un'area urbana in
crescita
 La trasformazione dell'organizzazione economica e sociale (lo
sviluppo) è consequenziale agli effetti di induzione che si
propagano a partire dal polo (o dalle città)

In questo modo l'idea di polarizzazione assume un significato


alquanto diverso da quello originario, presentandosi come un
precetto meccanicistico e lineare: lo spazio è visto tendere verso
una condizione finale in cui le disparità saranno scomparse. Mentre
l'idea originaria si limitava a porre l'accento sul carattere
asimmetrico dei processi di sviluppo, il polo ora viene assimilato a
un motore capace di indurre una propagazione automatica dei
meccanismi di crescita, contrastando nei fatti l'insegnamento della
proposta originaria.

Se a questo punto aggiungiamo la seguente proposizione:

 La crescita negli intorni del polo può essere incoraggiata da


politiche volte a intensificare la propagazione degli effetti
stimolo
 Per favorire la crescita delle regioni sottosviluppate ci si
baserà sulla creazione artificiale di poli che favoriranno
processi di industrializzazione-modernizzazione
precedentemente concentrati nei poli crescita naturali

Questa operazione ha trovato espressione piena nel funzionalismo.

3.2.2 Il ragionamento funzionalistico


Con l’affermarsi della teoria della regione polarizzata si affermò
altresì il metodo o meglio il ragionamento funzionalista. Il metodo
funzionalista considera il “tutto” come qualcosa di ben distinto dalla
somma degli elementi (delle parti) che lo compongono. La realtà è
piuttosto rappresentata come un organismo vivente, prendendo a
modello la fisiologia e la biologia. L’idea del funzionalismo è dunque
abbastanza semplice: “ogni elemento produce certi effetti e subisce
certe conseguenze, da tutto ciò emerge il campo delle sue funzioni
(…)” In virtù delle funzioni (o dei ruoli) che esercitano, i vari
elementi del sistema (o della struttura) entrano in relazione.

Ecco una definizione di spazio funzionale in cui si identifica la


matrice di tipo neopositivista (E. Juillard):

 L’armatura urbana, che esprime diversi gradi di centralità, da


cui traggono origine gli impulsi al funzionamento del sistema
 I corridoi di gravitazione (e di comunicazione) sui cui si svolge
il gioco combinato dei fattori di mercato e dell’accessibilità
 I processi di diffusione della modernizzazione, con un
carattere gerarchico pur prevedendo degli effetti di diffusione
verso le vicinanze immediate dei centri coinvolti.

Il funzionalismo si adatta dunque molto bene alla teoria della


regione polarizzata. Vediamo ora lo sviluppo di quest’idea negli
anni ’60.

3.3 Sviluppo e integrazione funzionale

3.3.1 Il modello elementare

Un personaggio importante, a questo punto, deve essere chiamato


in causa. Si tratta di John Friedmann. Friedmann concepisce un
mondo nel quale gli scambi tra paesi industrializzati e regioni
sottosviluppate sono scambi ineguali, tramite i quali il centro
preleva dalla periferia materie prime, forze di lavoro e derrate
alimentari. Tuttavia la strutturazione del sistema economico nello
spazio dipende anche in grande misura dal tipo di organizzazione
spaziale, ossia nella struttura degli insediamenti e in quella dei
trasporti, dei flussi di beni e di persone, correlata all’influenza del
moltiplicatore di sviluppo nei centri urbani. Così facendo Fredmann
permette di superare la concezione astratta dello spazio economico
del Perroux. Il problema dello sviluppo viene messo in relazione
con l’evoluzione dei rapporti tra i centri che compongono l’armatura
urbana di un paese e fra questi e le aree circostanti. Ad ogni stadio
dello sviluppo economico corrisponderà uno specifico modello di
organizzazione spaziale, il quale a sua volta si trasformerà con il
procedere dello sviluppo. Il sistema economico viene così
presentato come un tutto strutturato: i maggiori centri urbani
(delimitati abitualmente dai flussi pendolari della forza lavoro che
convergono sul centro quotidianamente), rappresentano gli
elementi trainanti del sistema, ad essi si contrappongono la
“dipendenza” di un’ampia periferia che muta nel tempo le proprie
funzioni, pur rimanendo subordinata al centro.

In estrema sintesi, si possono individuare 4 tipi di sottoinsiemi


funzionali, con cui Friedmann ed Alonso “dividono il mondo”:

 Un centro urbano-industriale, caratterizzato da elevate


concentrazioni di tecnologia, di capitale e di lavoro, sistemi
infrastrutturali ed elevati tassi di crescita
 Aree transnazionali a tendenza ascendente, periferiche
rispetto al centro e da questo economicamente dipendenti,
caratterizzate da un intenso utilizzo delle risorse, da fenomeni
di immigrazione e da una sostenuta crescita economica (ad
esempio, sempre a scala globale i paesi di recente
industrializzazione, come parte dell'America del sud Argentina,
Brasile, Cile, ecc., o del sud-est asiatico come l'Indonesia,
Taiwan, ecc.);
 Regioni di frontiera, dove l’immigrazione è strettamente
correlata con lo sfruttamento recente delle risorse (la foresta
amazzonica, il centro dell'Australia, ecc.);
 Aree transnazionali a tendenza discendente, collocate in
posizione funzionale ancor più periferica delle precedenti,
coinvolte in processi di declino economico, emigrazione e
devalorizzazione delle potenzialità regionali (molte aree
dell'Africa, ma anche parti dell'Europa meridionale,
dell'America centrale, dell'Asia centrale…)

3.3.2 Verso una teoria generale dello sviluppo polarizzato

"I principali centri di innovazione saranno definiti come regioni


centrali: tutte le altre aree all'interno di un dato sistema spaziale
saranno definite come periferiche. Più precisamente, le regioni
centrali sono sottoinsiemi sociali territorialmente organizzati che
presentano un'elevata capacità di trasformarsi in senso innovativo;
le regioni periferiche sono sottoinsiemi il cui ritmo di sviluppo è
determinato principalmente dalle istituzioni presenti nella regione
centrale rispetto alle quali esse si pongono in una posizione di
sostanziale dipendenza".

Friedmann introduce così una "dimensione sociale" che era ancora


assente nelle precedenti teorie della polarizzazione, interessandosi
in particolare al ruolo delle élites (dei gruppi sociali dominanti nei
centri e nelle periferie), utilizzando non le categorie del marxismo,
che vedremo brevemente nella seconda parte di questa lezione, ma
piuttosto la teoria della conflittualità sociale elaborata da Ralph
Darendorf. Il rapporto centro - periferia appare così definibile nei
termini di una dinamica variegata e complessa, riconducibili ad
alcuni meccanismi fondamentali:

 Effetto di dominio del centro sulla periferia


 Effetto informativo: l'aumento delle interazioni nel centro
permette più facilmente di sviluppare delle innovazioni
 Effetto psicologico, riferito alla creazione nel centro di
condizioni favorevoli all'innovazione (imitazione ideologia del
successo)
 Effetto di modernizzazione: la creazione nel centro di strutture
che stimolano l'attività
 effetto di produzione: la creazione, nel centro, di strutture che
sostengono l'attività manifatturiera sta ad indicare la
formazione di economia di scala nell’innovazione e nella
stessa attività produttiva

3.4 Teorie neomarxiste dello sviluppo ed equilibri regionali

3.4.1 Lineamenti e concetti generali

Il concetto di sviluppo e quello di sottosviluppo è inteso come una


generalizzazione dei rapporti tra i sistemi economici a livello
internazionale. Il problema delle diseguaglianze nei livelli di
sviluppo economico non è posto in termini di relazioni spaziali ma di
articolazione dei rapporti sociali, considerati come la reale forza
strutturante l'economia e la società. Il centro organizza, domina e
preleva risorse dalla periferia, ma affinché ciò possa avvenire è
necessaria l'azione di gruppi sociali che si pongono in relazione tra
loro. Non si tratta tuttavia di un processo lineare, ma segnato da
periodi di crescita accelerata seguiti da altri di rallentamento o di
aperta recessione economica spiegabili a partire dalla legge della
caduta tendenziale del saggio di profitto.
3.4.2 Crisi di accumulazione ed estensione spaziale delle relazioni
di produzione

Sono individuabili altre tre ampie condizioni che avrebbero reso


possibile l'estensione (anche internazionale) del sistema produttivo:

 Mutamenti tecnologici, che hanno permesso la scomposizione


dei cicli produttivi in unità geograficamente separate
 Lo sviluppo dei sistemi di trasporto e di comunicazione e il
connesso abbattimento dei costi, per cui le imprese sono
maggiormente libere nelle proprie scelte localizzative
 La presenza di ampi bacini di mano d'opera in aree non
industrializzate (sia nel Terzo Mondo che nelle regioni
periferiche dei paesi sviluppati)

Queste sono le principali condizioni tecnologiche e sociali che


definiscono un crescente processo di internazionalizzazione
produttiva e finanziaria, producendo di continuo nuovi rapporti tra le
regioni e nuovi modelli di ineguaglianza nel tempo e nello spazio.

Lo schema logico del metodo marxista classico ha dunque un


carattere regressivo. Il sistema capitalistico è concepito a un
elevato livello di astrazione, costituendo in tal modo in riferimento
teorico generale applicabile a ogni concreto fenomeno sociale.

3.4.3 Surplus economico e articolazione dello sviluppo su scala


mondiale

Volgiamo ora l’attenzione ad alcuni apporti che si contrappongono


agli schemi affrontati in precedenza e all'idea di uno sviluppo
evolutivo, lineare e funzionale. A questo riguardo Paul Baran è una
figura emblematica, soprattutto per l'introduzione del concetto di
surplus economico che l'autore definì in due diverse accezioni:

 Surplus economico effettivo costituito dalla differenza tra la


produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente
della società. Si identifica con il risparmio o con
l'accumulazione di capitale, che danno origine a nuovi
investimenti
 Surplus economico potenziale dato dalla differenza tra la
produzione che si potrebbe ottenere in un dato ambiente
naturale e tecnologico con l'ausilio delle risorse produttive
impiegabili e ciò che si potrebbe invece considerare come
consumo indispensabile. Costituisce in pratica l'eccedenza di
consumo oppure quella parte della capacità produttiva non
sfruttata a causa della presenza di lavoratori con produttività
inferiore o dalla insufficiente domanda.

Il sottosviluppo NON sarebbe quindi una naturale condizione


originaria caratterizzata da arretratezza e tradizionalismo, al
contrario la formazione di una periferia sottosviluppata è la
necessaria conseguenza del funzionamento del sistema
capitalistico mondiale per cui il centro si appropria della ricchezza
prodotta in periferia.

3.4.4 Il meccanismo della dipendenza e l’estensione orizzontale dei


rapporti di produzione

La relazione tra centro e periferia si fonda sull'operare di un


meccanismo di dipendenza. I paesi sviluppati dominano le periferie
del Terzo Mondo tramite l’appropriazione del surplus qui prodotto,
attivandovi un inevitabile sviluppo del sottosviluppo.

La decolonizzazione condusse alla definizione delle prime strategie


di industrializzazione, le quali ebbero l’effetto di aggravare
ulteriormente gli squilibri territoriali all'interno di questi paesi. Venne
favorita la formazione di reti urbane dominate da una «città
primate». Le «città primate»divennero fattori di depauperamento del
resto del territorio, di aggravamento delle ineguaglianze fra centro e
periferia all'interno delle varie nazioni e di disgregazione dei valori
culturali che nel passato avevano consentito la produzione di forme
di coesione sociale è un relativo equilibrio demografico ed
economico.
3.5 L’evoluzione spazio-temporale dell’Economia-Mondo

Il Sistema-Mondo nella sua espressione contemporanea si


differenzierebbe dai precedenti minisistemi locali chiusi nel loro
autoconsumo e dagli imperi-mondo affermatisi successivamente,
che erano fondati non già sulla produzione, ma sull'imposizione di
un tributo da parte dell'autorità centrale. Il sistema capitalistico si
identifica invece con un “Economia-Mondo”, dal momento che
rappresenta un’unità dotata di una propria divisione dal lavoro e di
molteplici sistemi culturali che possono essere o meno
politicamente omogenei. L'unità politica non costituisce più un
prerequisito essenziale al funzionamento del sistema, dal momento
che il surplus è prelevato e ridistribuito tramite il mercato e non
attraverso una struttura meramente autoritaria.

Lo scambio in condizioni di dipendenza dà origine a un sistema


gerarchizzato scomposto in tre parti:

 Il centro, nel quale prevalgono intense relazioni fra i vari


elementi che lo compongono, per cui vi si realizza più
efficacemente che altrove la circolazione e lo scambio di idee,
di servizi, di informazioni, nonché la trasformazione della
struttura produttiva. Sono inoltre le maggiori aree di mercato e
di consumo per la produzione mondiale
 La semiperiferia comprende le aree di più recente
industrializzazione e altresì regioni agricole saldamente legate
ai circuiti internazionali. Ha una dipendenza tecnologica,
finanziaria e decisionale nei confronti del centro e presenta
sistemi di relazioni meno complessi
 La periferia, nel quale le relazioni sono a volte sporadiche e
spesso limitate a funzioni specifiche. La povertà diffusa,
l'instabilità politica, l'arretratezza tecnologica sono i tratti
salienti di economie che si situano in una posizione di netta
dipendenza e subordinazione.
3.6 Osservazioni conclusive

Con l’introduzione del concetto di polarizzazione, la scienza


regionale del dopoguerra non si è limitata a consumare una
significativa rottura con l’idea ortodossa dell’equilibrio, ma si è
spinta assai oltre. Nello schema proposto, la diffusione dello
sviluppo è connessa, come abbiamo visto, a una forma di
organizzazione dello spazio intesa come un sistema di centri
strutturato e gerarchizzato, per cui sarà il centro principale a
trasmettere gli impulsi verso i centri posti a livelli gerarchici via via
inferiori.

La teoria della polarizzazione incorporò in tal modo molti elementi


della teoria della modernizzazione, riassunse i concetti portanti
della «scienza spaziale» moderna ( gerarchia e interazione) e i
principali modelli da questa proposti, quello gravitazionale e quello
diffusivo. Il carattere funzionalistico, evoluzionistico ed
etnocentristico di un tale modo di procedere è evidenziato
dall’assunto dell’opposizione fra moderno e tradizionale, da cui
consegue come soltanto fattori esogeni possano innescare lo
sviluppo nella società tradizionale. Dal momento che la diffusione
dello sviluppo utilizza le strutture spaziali esistenti, sarà
l’organizzazione spaziale a orientare i processi di diffusione
geografica dello sviluppo in un rapporto di causa-effetto: le strutture
spaziali e quelle sociali sono quindi viste deterministicamente come
il risultato di cause spaziali.

CAPITOLO 4 : VISIONI E PROBLEMI DI UN ALTRO SVILUPPO

La concezione di sviluppo inteso come processo di diffusione che


ha origine in determinati settori economici si riflette nei contenuti
delle politiche regionali, affermatesi a partire dal secondo
dopoguerra nei paesi dell’Occidente. Le strategie di sviluppo
regionale si basavano sull’obiettivo di far crescere la mobilità dei
fattori produttivi (lavoro, capitale e tecnologia). Lo sviluppo
regionale era identificato come l’unico modello di crescita che si era
rilevato vincente nelle aree maggiormente industrializzate. Per
superare le disparità tra le economie regionali e nazionali venne
istituita una politica di intervento volta ad estendere verso le regioni
sottosviluppate le strutture produttive già esistenti nelle aree
sviluppate. Il successo di una strategia era valutato in termini
quantitativi ed estensivi (valore degli investimenti industriali, tasso
di crescita dell’occupazione e del prodotto lordo regionale ecc.).

4.1 Un nuovo scenario

4.1.1 Sul divenire dell’economia mondiale: frammenti discorsivi

Per globalizzazione si intendono tutti quei processi di


internazionalizzazione che hanno caratterizzato l’evoluzione delle
grandi imprese industriali nel corso del XX secolo. Essa si è
manifestata nell’intensificazione di scambi di beni e servizi
coinvolgendo i paesi in via di sviluppo. E’ dunque significativo il
fatto che il commercio sia cresciuto a ritmi ben più sostenuti della
produzione, risultando un fondamentale indicatore della
internazionalizzazione delle attività economiche. Una conferma di
questa affermazione si ricava osservando che nel 1995 il volume
delle esportazioni mondiali era aumentato di ben 14 volte rispetto al
1950, mentre la produzione era cresciuta solo di 5 volte. È da
notare come l’attività manifatturiera sia tuttora concentrata in un
numero ristretto di paesi. I primi dieci paesi industralizzati del
mondo forniscono da soli quasi l’80% del prodotto mondiale
complessivo, e tre soli di questi (Stati Uniti, Giappone e Germania)
il 60% circa. Con l’inizio degli anni novanta gli investimenti esteri
hanno registrato una riduzione ma allo stesso tempo si è fatta più
marcata la tendenza all’integrazione regionale e alla formazione di
reti inter-impresa (nelle attività finanziarie, nella ricerca, nella
produzione e nella commercializzazione). Ciò porta a definire la
globalizzazione nei termini di una produzione internazionalizzata: a
differenza della internazionalizzazione che ha caratterizzato i primi
tre decenni del dopoguerra, le nuove forme di relazione non si
basano sull’espansione internazionale della singola impresa ma
nello sviluppo di catene del valore fondate sulla cooperazione di
soggetti diversi. Il processo di globalizzazione quindi non appare
solo come il rafforzamento della grande impresa ford-taylorista
protesa verso la “soppressione delle differenze”, ma
(accompagnandosi allo sviluppo delle varietà nazionali e alla
complessità dei prodotti e dei mercati) fa delle specificità nazionali il
fondamento di una concorrenza tra diversi, dove le differenze sono
all’origine della produzione di ricchezza. Ne consegue che, per
internazionalizzazione si intendono processi quantitativi che
portano a un modello economico sempre più esteso, mentre la
globalizzazione non guarda solamente all’estensione geografica
delle attività economiche ma specialmente alla mobilità del capitale
finanziario e all’integrazione funzionale delle attività distribuite a
livello internazionale. Internazionalizzazione e globalizzazione sono
due fenomeni che coesistono.

4.1.2 Realtà e retorica

Il processo di globalizzazione include alcuni processi tra loro


associati: la mobilità del capitale, delle persone e delle idee, la
crescita di alternative possibili e la diffusione dei centri di
dominanza e di expertise. Non esiste però una definizione accettata
di globalizzazione: per alcuni costituisce un punto di arrivo, per altri
un processo. Un’intensa discussione è stata innescata dalla
pubblicazione di un volume di Hirst e Thompson nel 1996, in cui si
sosteneva che l’economia contemporanea è meno aperta di quella
che precedeva il primo conflitto mondiale. La globalizzazione quindi
non sarebbe un fenomeno così recente, e soltanto alla fine del XX
secolo gli investimenti esteri diretti avrebbero recuperato l’intensità
di ottant’anni prima, quando sembrava realizzarsi ciò che sosteneva
Cournot (uno tra i più nobili economisti dell’Ottocento) che definiva
l’economia quel territorio in cui le parti sono così unite da relazioni
commerciali che i prezzi raggiungono facilmente lo stesso livello
ovunque. Ciò che appare nuovo è una accelerazione di molteplici
processi che si influenzano a vicenda:
 Fenomeno relazionale: il commercio internazionale è cresciuto
a tassi doppi rispetto al prodotto interno lordo mondiale;

 Centralità del soggetto d’impresa: gli investimenti esteri sono


cresciuti a tassi doppi rispetto alla crescita del commercio
internazionale;

 Mutamento della natura del commercio internazionale: passa


dal puro scambio di beni finali fra economie nazionali al
prevalente scambio di beni intermedi all’interno di reti di
impresa organizzate su scala mondiale (catene del valore)

 Crescita della mobilità del capitale finanziario.

4.2 Il mondo della tradizione e la scoperta delle novità

Le conseguenze di quel modo di concepire lo sviluppo iniziarono a


manifestarsi all’inizio degli anni settanta in tutti i paesi occidentali
industrializzati. La crisi che si protrasse per gran parte di quel
decennio ridusse l’efficacia degli incentivi finanziari e fiscali quali
strumenti di attivazione di una nuova capacità produttiva nelle aree
assistite. Dopo il 1973 gli investimenti industriali del Mezzogiorno
italiano si contrassero rapidamente (del 40% in tre anni). In Francia
i tassi di disoccupazione raggiunsero livelli elevati. Problemi
analoghi ci furono in Gran Bretagna e in Germania. Gli anni
settanta inaugurarono nel contempo nuovi processi di diffusione
delle strutture produttive e riconcentrazioni funzionali. Questi
fenomeni di diffusione verso regioni periferiche, fu la conseguenza
di tre fattori convergenti:

1. Applicazione di nuove tecnologie e modelli organizzativi della


produzione;

2. La ricerca di fattori produttivi a minor costo;

3. La crescente congestione dei centri di maggiore dimensione,


soprattutto per le residenze.
In tutte le economie industralizzate di determinò un progressivo
passaggio da una fase di concentrazione territoriale della
produzione a un modello di diffusione delle attività manifatturiere
che ha via via ha coinvolto regioni precedentemente periferiche
(come l’Italia centrale e Nord orientale, vaste aree della Spagna,
della Francia, della Danimarca e della Germania). Si affermarono
dunque, oltre a nuovi fenomeni di industrializzazione diffusa,
fenomeni significativi sul fronte della lettura e dell’interpretazione
dei processi di sviluppo:

a. La progressiva concentrazione del potere decisionale in


campo economico e nei servizi di livello superiore in centri
urbani dominanti, in opposizione alla diffusione delle attività
intermedie e banali: le cosiddette città globali (Londra, Parigi,
New York ecc.)

b. La crescente concentrazione dei processi innovativi e delle


funzioni industriali maggiormente qualificate.

4.3 Un nuovo concetto di sviliuppo

4.3.1 Forme funzionali e forme territoriali di organizzazione e


sviluppo regionale

J. Friedman e C. weaver (1979) proposero una distinzione tra due


accezioni contrapposte del concetto di sviluppo regionale:

 Funzionale, relativo cioè alle logiche di programmazione della


distribuzione delle attività economiche in un sistema di centri e
di reticoli. Sul piano operativo, la definizione di una politica
regionale avrebbe assunto gli strumenti concettuali della
scienza spaziale di matrice positivistica.;

 Territoriale, privilegiando una strategia di attivazione dei fattori


di sviluppo endogeni, per cui l’attenzione viene posta sulle
forme di organizzazione economica e sociale delle diverse
realtà regionali.
La prima è alla base delle politiche regionali realizzate nei primi tre
decenni del dopoguerra ed è una sorta di sviluppo dall’alto, fondato
cioè sull’estensione alle regioni destinatarie dei progetti di sviluppo
e sull’integrazione funzionale delle varie regioni da attuarsi
mediante la soppressione delle barriere (economiche, politiche,
sociali, culturali e istituzionali). Questa concezione si basava
sull’ipotesi di un processo di trasformazione dell’economia e della
società generato da pochi soggetti selezionati, poiché il resto della
popolazione era considerato incapace di iniziative proprie. Il
concetto di sviluppo regionale in termini territoriali si basa invece su
processi di sviluppo dal basso, che presuppongono la massima
valorizzazione e mobilizzazione delle risorse regionali, oltre che il
controllo locale dei meccanismi di generazione dello sviluppo. Se la
crescita in termini funzionali privilegiava l’integrazione fra regioni
aperte a impulsi di provenienza esterna, viene contrapposta ora
una sorta di chiusura spaziale selettiva dell’economia e della
società regionale: si tratta di una forma di sviluppo come strumento
per il perseguimento di una effettiva equità spaziale intesa in termini
di benessere sociale e qualità della vita. Quest’ultimo ha per
oggetto un modello di sviluppo autocentrato, che raggruppa un
vasto insieme di ipotesi e precetti operativi:

1. Ogni comunità organizzata territorialmente possiede proprie


risorse (umane, istituzionali, socio-culturali) che costituiscono
un potenziale endogeno per l’attivazione di forme di sviluppo
integrato.

2. L’insieme di questi fattori (economici, sociali, culturali,


istituzionali, ambientali ecc.) definisce un’identità regionale
qualitativamente irripetibile, necessaria per il controllo delle
forme di influenza esterna e la prevenzione degli effetti
negativi sull’economia e l’organizzazione sociale della regione.

3. Le strategie di sviluppo autocentrato, basate sulla massima


valorizzazione dei potenziali endogeni, dovranno essere
selettive cioè incentrate su alcune variabili chiave: saranno
privilegiati i settori orientali al soddisfacimento dei bisogni
fondamentali della popolazione, quelli caratterizzati da
un’elevata intensità di lavoro e dalla prevalenza di unità
produttive di piccola dimensione.

4. Questi concetti saranno applicati alle diverse scale


geografiche, cioè a ogni livello territoriale in cui si ritrovano le
condizioni naturali, umane e istituzionali capaci di attivare un
processo di sviluppo autonomo.

Ci troviamo quindi di fronte a un insieme di precetti che si


oppongono alla rigidità delle vecchie forme organizzative per far
propria l’idea di un’economia complessa e flessibile, capace di
adattarsi ai cambiamenti sopravvenuti. Agli esiti fallimentari della
politica regionale di matrice funzionalistica si contrappongono idee
e programmi d’azione fondati sul concetto di territorio: non più uno
spazio le cui relazioni sono programmate e pianificate
esternamente ma un insieme che si organizza partendo da
complessi sistemi di relazioni che si instaurano fra gruppi localizzati
in un certo territorio avente proprie caratteristiche fisiche, storiche e
socio-culturali. Ogni unità di integrazione territoriale esprimerebbe
una propria domanda di autonomia e proprie potenzialità di
intraprendere percorsi autonomi di sviluppo. Sarà quindi necessaria
una pluralità di strategie e di strumenti mirati ad ogni singola realtà.

4.3.2 La dimensione territoriale dello sviluppo

Il concetto di territorio sta dunque a rappresentare un ispessimento


e una sedimentazione locale di relazioni sociali. È un concetto ben
diverso da quello di spazio, tramite il quale si rappresentavano
fenomeni e processi oggettivi validi in ogni tempo e in ogni luogo.
Dalle diverse osservazioni si arrivò ad un duplice insegnamento:

a. Si riconosce, innanzitutto, che un processo di sviluppo


(regionale, locale) non è un processo meccanico dettato da
forze e tendenze, ma qualcosa di più complesso e
problematico. Da qui la scansione di due termini che per lungo
tempo vennero ritenuti sinonimi, ma che apparirono sempre
meno conciliabili: quello di crescita e quello di sviluppo. Il
primo è inteso come un semplice incremento della grandezza
delle variabili utilizzate (es prodotto lordo pro capite e
occupazione), il secondo esprime invece un processo sociale
che identifica come fondamentali le condizioni e i fattori
qualitativi.

b. Ne consegue che il panorama delle scienze economico-sociali


inizia a mutare radicalmente. Il punto di avvio per
comprendere e rappresentare la realtà non è più alla base di
un metodo conoscitivo volto a ricondurre la complessità dei
fenomeni economici, sociali e culturali, a criteri astratti, come
sugeriva la scienza positivistica.

Nel formulare un progetto che cambi i criteri di interpretazione, è


utile soffermarsi sulle tre determinanti dello sviluppo regionale
che Garofali (1991) aveva estratto da un dibattito:

a. Fattori locali in grado di promuovere la trasformazione del


sistema (la nascita di nuovi soggetti imprenditoriali ad
esempio) e quindi stimolare le potenzialità regionali, attraverso
le dinamiche di mercato;

b. Reazioni a mutamenti esterni (tecnologigi, organizzativi ecc.)


fondate sulla capacità organizzativa del sistema (ad esempio,
attraverso la promozione di forme di collaborazione e
cooperazione fra una pluralità di imprese e altri soggetti
localizzati);

c. Fattori esterni che intervengono modificando alla radice la


struttura produttiva e sociale (per esempio, tramite la
localizzazione di grandi impianti produttivi appartenenti a
imprese operanti esternalmente alla regione).

Nel primo e nel secondo caso ci troviamo di fronte a espliciti


processi di sviluppo autocentrato, mentre il terzo caso esprime una
forma di sviluppo extravertito, in cui si assume la plasmabilità
dell’ambiente secondo il buon senso del linguaggio scientifico. Per
illustrare la differenza sostanziale che esiste tra queste due diverse
fenomenologie, appare utile la proposta di Dematteis (1994) di
separare l’accezione di sviluppo regionale o locale, da quella di
valorizzazione. In quest’ultimo caso il sistema regionale è inteso
come supporto passivo di forze e processi generali più o meno
pervasivi.

4.4 Un nuovo regionalismo

4.4.1 Le carte in gioco

A partire dagli anni novanta si sono sviluppati, a livello


internazionale, un dibattito e una ricerca volti a definire l’idea di
regione, ma ponendo l’attenzione sulle istanze e sui problemi
politici. Di fronte alla globalizzazione, le differenze economiche tra
paesi e regioni hanno teso a rafforzarsi, incidendo
significativamente sulla vita sociale ed economica. È in questo
quadro che si è fato strada il concetto di neoregionalismo.più in
generale, l’idea di neoregionalismo trova ispirazione in alcune
considerazioni:

 Il rafforzamento della competitività e della prosperità


economica di alcuni territori (Silicon Valley in California, le
Route 128 nel Massachussets, l’Italia del Nord-est);

 Il fatto che molte regioni, soprattutto europee, abbiano attivato


forme di governo e politiche economiche di ambito sovra-
regionale, ponendo come strategiche le relazioni multilivello;

 Altre regioni hanno teso a ridefinirsi come entità storico-


culturali, accompagnate a scelte politiche volte a valorizzare i
fondamenti culturali identitari.

Definito da molti come una “nuova ideologia”, il neoregionalismo


identifica la regione come soggetto e non come oggetto dei
processi di sviluppo, come depositaria di potenziali che, se
valorizzati, renderebbero l’economia e la società regionale coerente
con le logiche del mercato. L’enfasi è posta dunque sui concetti di
efficienza e innovatività. La regione viene così presentata, da un
lato, come nodo di una rete globale, in ragione della creatività e
della capacità di mobilizzazione del potenziale endogeno, dall’altro
è presentata come governata da una rete interna di partner.
4.4.2 Triangolazioni, e oltre

Concetti di coesione, capitale sociale e radicamento.

1. Le proprietà sistemiche che sorreggono il concetto di coesione


fanno riferimento a due componenti: quella della soggettività,
che ha per oggetto la fiducia, i valori, il senso di appartenenza
e la disponibilità a condividere la conoscenza. In secondo
luogo entrano in campo i caratteri oggettivi: tessuto associativo
forte, partecipazione politica, reti amicali. Ci troviamo di fronte
a un concetto caratterizzato da ambiguità concettuali e
politiche. È comunque un fatto che la coesione territoriale
costituisce un quadro di riferimento con dirette implicazioni di
politica territoriale, nelle sue tre componenti essenziali:

 La qualità territoriale: mette in gioco le caratteristiche


dell’ambiente di vita e di lavoro, il benessere collettivo e la
disponibilità di servizi collettivi locali; essa sottolinea il ruolo
delle politiche territoriali come fattori di produzione.

 L’efficienza territoriale: in questo caso entrano in campo le


modalità d’uso delle risorse naturali, ma anche la capacità di
attrarre capitali e persone.

 L’identità territoriale: salvaguardia delle specificità e delle


vocazioni produttive, ciò che induce in rafforzamento del
vantaggio competitivo di ciascun territorio. La cultura locale, le
competenze, il capitale sociale e il paesaggio sono alla base
dell’apprendimento collettivo e del rafforzamento dinamico del
tessuto produttivo locale.

Efficienza, qualità e identità territoriale rappresentano obiettivi e


valori di una società avanzata e sono alla base del benessere
collettivo.
1. Il concetto di coesione non è scindibile da quello di capitale
sociale, che costituisce un valore essenziale per il sostegno di
un’economia della conoscenza: innovazione e imprenditoria
sono prodotte da regioni ricche di capitale sociale. Esso non è
una risorsa data, ma un insieme di regole, istituzioni, prassi,
attraverso le quali una dotazione relazionale, fiduciaria e
comunitaria si attiva, si rende disponibile.

2. Veniamo infine al concetto di radicamento, che da un lato


significa interdipendenza tra scelte fatte nel corso del tempo,
una sorta di sequenza storica di eventi, dall’altro sottende il
fatto che in un determinato contesto territoriale eventi non
prevedibili attivano meccanismi che finiscono per possedere
proprietà difficili da cambiare.

CAPITOLO 5 : IL LINGUAGGIO DEI SISTEMI

I profondi cambiamenti che hanno coinvolto l’economia mondiale


negli ultimi decenni hanno portato alla ribalta nuove
rappresentazioni geografiche, sia nei paesi in via di sviluppo sia
nelle periferie dell’Europa e dell’America settentrionale. Il mondo
sviluppato è stato caratterizzato dall’affermazione di nuovi spazi
produttivi dotati di una avanzata tecnologia (ad esempio la Silicon
Valley e la Route 128 negli Stati Uniti), dalla rivitalizzazione di aree
a tradizione manifatturiera antica (lo Jutland danese, il Baden
Wuttenberg in Germania), dall’affermazione di nuove regioni
industriali (l’Italia del Nord-est) e dall’affermazione delle cosiddette
città globali. In altre parole, le profonde modifiche che stanno
coinvolgendo l’economia mondiale hanno portato alla ribalta nuove
geografie e con esse nuovi modi in cui guardare il mondo: questi
cambiamenti sono riconducibili da un lato alla mobilità del capitale
finanziario e alla diffusione dei sistemi informatici e tecnologici,
dall’altro al rafforzamento di nuove concentrazioni territoriali di
imprese, servizi centri di ricerca scientifica e tecnologica.

5.1 Un nuovo scenario

Deterritorializzazione e territorializzazione sono due concetti


contrastanti, attorno ai quali le scienze economico-sociali hanno
discusso negli ultimi cinque anni. Questo dibattito ha contrapposto
due principali tesi che hanno per oggetto il processo di
globalizzazione. La prima sostiene che i processi di sviluppo
economico tendono a superare progressivamente i soggetti e le
istituzioni territorializzate (come ad esempio le reti internazionali
d’impresa). La seconda insiste sul fatto che lo sviluppo economico
continui invece a relazionarsi con i sistemi territoriali esistenti. In
questo quadro la spinta principale a dar vita a nuove riflessioni
parte dalla considerazione che si debbano ritrovare le ragioni per
spiegare processi e configurazioni emergenti per poter dare
significato ai cambiamenti economici in un mondo caratterizzato da
flussi di capitale, prodotti e informazioni.

5.2 Sul pensiero sistemico: concetti generali

Come sosteneva Joel de Rosnay, uno dei maggiori divulgatori


dell’epistemologia contemporanea, quella sistemica è una nuova
metodologia che permette di organizzare le conoscenze in vista di
una superiore efficacia d’azione. Quest’ultimo fonda una strategia
basata sulla riduzione della realtà in elementi semplici. Quella
sistemica è una procedura volta a organizzare le conoscenze e lo
stesso oggetto della conoscenza: parlando del sistema ci si riferisce
dunque sia al modo in cui si osserva il fenomeno indagato, sia al
fenomeno stesso. Una definizione generale di sistema è: un
insieme di elementi legati fra loro tramite un insieme di relazioni che
gli conferiscono una certa coerenza. Definiamo ora alcuni concetti:

a. La struttura. È l’insieme degli elementi e delle relazioni fra gli


elementi, le quali presentano un aspetto caratteristico, la
retroazione, volta a descrivere la situazione in cui un elemento
(o un sistema) influenza se stesso. La struttura di un insieme è
soggetta a subire continue modifiche. Essa non è tuttavia
sufficiente a descrivere un sistema.

b. È l’organizzazione a definire l’insieme di processi prima


descritti. Sostenere che l’insieme dei processi è organizzato
significa assumere che le relazioni tra questi dipendono le une
dalle altre e che l’insieme costituisce un tutto coerente.
c. L’ambiente è rappresentato da altri sistemi, rispetto ai quali un
sistema è più o meno aperto o più o meno chiuso. È ovvio che
un sistema interamente chiuso o aperto non rappresenta che
un concetto limite: nel primo caso non può rappresentare un
oggetto della conoscenza, sarebbe una scatola in cui nulla
esce e nulla entra; nel secondo caso non sarebbe isolabile dal
proprio ambiente. L’interazione tra sistemi diversi si
concretizza in flussi di materia, energia e informazione.

d. L’autonomia. Nei suoi rapporti con l’ambiente un sistema è


quindi rappresentabile come un tutto che accoglie flussi in
entrata e da cui partono flussi in uscita. Con il concetto di
autonomia si fa riferimento al fatto che i processi interni a un
sistema non producono solo flussi in uscita verso l’ambiente
ma anche dei flussi rivolti verso il sistema stesso, alla propria
organizzazione. Ciò significa che un sistema è al tempo stesso
aperto e chiuso.

Scandiremo ora lo sviluppo sistemico in tre grandi tappe:

1. La prima tappa ha per oggetto sistemi chiusi rispetto al loro


ambiente. Coerentemente con i principi della termodinamica
classica sviluppatasi nel diciannovesimo secolo, un sistema
chiuso non prevede scambi con l’esterno, né di energia né di
materia. Ciò significa che evolve da stasti di organizzazione
più o meno complessi verso stati sempre più semplici, al limite
verso l’equilibrio. Lo stato isolato di Von thunen è un sistema
spaziale immaginato nei termini di un sistema chiuso rispetto
all’ambiente.

2. La seconda tappa è rivoluzionaria e prende avvio con un


biologo austriaco, Ludwig von Bertalanffy. L’ipotesi è quella di
un sistema aperto che si evolve lungo una traiettoria temporale
e che si trasforma nella loro costante relazione con l’ambiente.
La “Teoria del Sistema Generale” aveva per oggetto una realtà
descritta e pensata in termini di sistemi olistici, ovvero
concepita nelle sue relazioni con l’esterno. Ne consegue che
l’oggetto del discorso è la struttura, ovvero le relazioni fra gli
elementi che producono dei comportamenti, ovvero
l’evoluzione del sistema. Sia data, ad esempio, la presenza di
un’attività industriale. Questa genera l’attivazione di flussi
migratori, per cui parte della popolazione è indotta a trasferirsi
nell’area che offre nuove opportunità di lavoro. La crescita
industriale e la popolazione insediata inducono lo sviluppo di
servizi (trasporti, scuole e istruzione professionale, servizi
finanziari e tutte quelle infrastrutture che si assicurano il
funzionamento dei processi di agglomerazione). La crescita e
il miglioramento funzionale dei servizi si traducono in un
incentivo per la localizzazione di nuove iniziative
imprenditoriali nel campo manifatturiero e nel terziario. Questo
processo si autoalimenta fino a quando l’eccessiva
concentrazione non si traduce in costi crescenti o diseconomie
(traffico, aumento del costo dei terreni e dei salari ecc.), a
causa dei quali le imprese si decentrano verso altre zone dove
i costi sono minori, attivando un processo di retroazione
negativa.

3. Il pensiero sistemico degli ultimi decenni del XX secolo aspira


a eliminare la dualità fra sistemi chiusi e sistemi aperti.
L’attenzione si sposta sulla capacità del sistema , soggetto a
incessanti scambi di informazione e di energia con l’esterno, di
conservare o sviluppare la propria organizzazione. Non è solo
l’apertura a far sì che un sistema si possa evolvere ma il fatto
che lo stesso sistema presenti un carattere “attivo” (cioè sia
capace di organizzazione). Il sistema dunque non sarà
distrutto o disorganizzato ma reagirà agli stimoli di
provenienza ambientale: il sistema è auto-referenziale e auto-
organizzato. In tal modo, uno dei concetti fondamentali prima
definiti diventa intellegibile: l’autonomia si riferisce alla
chiusura del sistema in senso organizzazionale, ovvero a un
sistema capace di comportamenti propri. Ciò mette a fuoco
definitivamente l’idea di un sistema aperto e chiuso nel
medesimo tempo: la sua apertura nei confronti dell’esterno
definisce la dipendenza del sistema da perturbazioni
ambientali che possono innescare il corso della sua
trasformazione. Il sistema è infatti anche chiuso in senso
organizzazionale, ciò che gli assicura il mantenimento
dell’autonomia e la produzione dell’identità.

5.3 Autopoiesi e sistemi complessi

Humberto Maturana (1980) e Francisco Varela (1985) sono due


neurobiologi cileni ai quali viene riconosciuto il merito di aver
introdotto il concetto di autopoiesi, con cui si indica la capacità da
parte del sistema di progettare e riprodurre se stesso attraverso la
riproduzione dei suoi componenti. L’avvio è dato dalla differenza tra
sistemi eteronomi e sistemi autonomi: i primi sono caratterizzati da
un’evoluzione indotta del mondo esterno, i secondi sono dotati di
chiusura organizzazionale, per cui il mondo esterno agisce su di
essi unicamente come fattore di perturbazione. Gli input ai quali il
sistema viene sottoposto costituiscono delle perturbazioni che
inducono modificazioni nella struttura del sistema senza modificare
la logica e la dinamica della sua organizzazione. Il sistema è quindi
visto in continuo stato dinamico, e i rapporti di interazione con
l’ambiente sono definiti nei termini di accoppiamento strutturale, che
si realizza quando il sistema seleziona le perturbazioni di
provenienza esterna, modificando continuamente la propria
struttura. L’autopoiesi esprime dunque un processo circolare che
riproduce, modificandoli, gli elementi e le relazioni fra gli elementi.
Selezionando le perturbazioni e adattando la propria
organizzazione, il sistema amplierà il campo delle sue possibili
interazioni ambientali, che producono una crescente
diversificazione e differenziazione della struttura
(complessificazione). È con riferimento al concetto dell’autopoiesi
che si caratterizza un sistema tramite tre concetti, l’organizzazione,
l’identità e i confini.

5.4 La regione : un sistema complesso

5.4.1 L’organizzazione regionale

Un sistema auto-organizzato è dunque un sistema aperto attivo:


esso dialoga con l’esterno, ma utilizza le perturbazioni di
provenienza ambientale per riprodurre la propria autonomia e
accrescere la propria complessità. Trasferendo questi concetti sul
piano dei fenomeni territoriali, è possibile affermare che oggetto di
osservazione è un sistema parziale, cioè un’entità intermedia
(regionale, locale). La teoria dell’autopoiesi introduce la possibilità
di definire il sistema in termini di organizzazione e di identità,
inducendo l’osservatore ad adottare un punto di vista interno al
sistema stesso. Il sistema locale sarà distinto in base alle proprie
regole di funzionamento che rappresentano delle varianti attraverso
le quali il sistema riproduce la propria autonomia. Il concetto di
sviluppo (regionale o locale) cessa di essere concepito mediante
variabili puramente quantitative come il prodotto lordo per abitante,
il valore aggiunto industruale o come processo lineare per la
produzione di ricchezza, ma è ora identificabile in termini ben più
complessi. L’idea di sviluppo è connessa alla dimensione
territoriale, intesa come un insieme di relazioni concrete e
simboliche che si produce e riproduce come reazioni del sistema a
processi economici e sociali più generali. Nell’interpretazione
funzionalistica la regione era assunta come un sistema aperto; i
rapporti tra le regioni si traducevano in una forma di sviluppo
finalizzata alla loro integrazione. Assumiamo ora la teoria della
polarizzazione: il polo era assunto come un motore capace di
propagare effetti di stimolo sul proprio ambiente, e quest’ultimo era
concepito come passivo e incapace di auto-organizzarsi. Non è
dunque casuale che le politiche di sviluppo regionale, perseguite
durante i primi decenni del dopoguerra, privilegiassero l’apertura
delle regioni destinatarie dei programmi di sviluppo alle correnti di
scambio con l’esterno. Come sistema autopoietico la regione
ribadisce la sua apertura nei confronti dell’ambiente in quanto non
potrebbe sopravvivere senza correnti di scambio di energia, materia
e informazione: flussi di prodotti, capitale, informazioni, movimenti
di popolazione ecc. L’insieme di queste relazioni interferisce con le
costituenti regionali, ovvero un sistema organizzato che detta le
regole di funzionamento interno proprie del sistema. Il sistema,
dunque, si comporterà come una macchina non banale dove, in
presenza di uno stesso input, si produrranno reazione non
determinate né prevedibili. L’autonomia del sistema sarà data dalla
capacità di comportamenti propri, riferendosi quindi alla propria
capacità organizzativa: in quanto organizzato, un sistema possiede
la capacità di riprodursi e trasformarsi.
5.4.2 Sviluppo e complessità

Come si trasforma il sistema-regione? Si è visto che


l’organizzazione interna detta le regole di interazione con altri
sistemi, ma perché questo accada è necessario che il sistema sia in
grado di creare nuovi o superiori stati di complessità. In questo
caso il sistema può evolvere, in caso contrario esso può andare
incontro a processi di rapida disgregazione.

Identità

Sviluppo endogeno Stabilità relativa

relazioni locali (territoriali)


Specializzazione Plurispecializzazione

Relazioni sovralocali (transterritoriali)

Dipendenza Instabilità relativa

Destrutturazione

1. Relazioni locali (o territoriali): relazioni costitutive del sistema


che ne definiscono la sua coesione. Quest’ultima è collocata
su un asse continuo che va da un minimo, al di sotto del quale
il sistema non esiste, a un massimo:

a. L’identità del sistema, espressione di una elevata chiusura


organizzativa e quindi della capacità di selezionare le relazioni
con l’esterno e fornire le risposte agli stimoli provenienti
dall’ambiente (fattori di disturbo);
b. La destrutturazione, espressione di bassa capacità
organizzativa e suscettibilità alla disgregazione di fronte a
fattori di disturbo provenienti dall’esterno.
1. Relazioni sovralocali (o transterritoriali): definiscono il campo
delle possibilirelazioni con l’esterno, ovvero la capacità del
sistema di dialogare e interagire a livello sovraregionale. Esse
sono quindi un indicatore della dotazione funzionale del
sistema che andrà da un massimo a un minimo:

a. La plurispecializzazione implica la presenza di molteplici


funzioni, interconnesse sia dal punto di vista funzionale che
territoriale.
b. La specializzazione si verifica quando le funzioni e le
componenti del sistema sono scarsamente differenziate.

I quadranti riportati in figura rappresentano le due dimensioni ora


descritte, consentendoci di identificare i differenti tipi di sistemi
locali complessi.

a. Stabilità relativa, in cui si combinano il massimo di coesione


interna e di apertura funzionale, ovvero un’elevata capacità di
dialogo con l’esterno. Questa tipologia ha per oggetto quei
sistemi locali in cui è presente un elevato livello di interazioni
con l’esterno. Questa capacità può svilupparsi a livello di
relazioni finanziarie, decisionali o tecnologiche, sulla base
della capacità di questi sistemi di produrre funzioni
tecnologiche, manifatturiere e di leadership.
b. Instabilità relativa, che caratterizza quei sistemi aperti in senso
funzionale. La capacità di dialogo con l’esterno è soprattutto
occasionale, in ragione della debolezza dell’organizzazione
interna. L’instabilità di questi sistemi giace sull’incertezza delle
possibili reazioni nei confronti di cambiamenti strutturali non
prevedibili.
c. Sviluppo endogeno, in cui la forte e radicata identità si
accompagna a poche specializzazioni funzionali. Il dialogo con
l’esterno è scarsamente pluralistico, limitandosi a poche
interazioni funzionali (come l’esportazione di prodotti,
l’introduzione di innovazioni tecnologiche realizzate altrove).
d. La condizione di dipendenza è caratterizzata da una limitata e
non ancora sviluppata capacità endogena; la loro capacità di
relazionarsi con altri sistemi è casuale, cioè legata a
contingenze specifiche.

5.5 Due livelli del sistema

Due espressioni metaforiche su cui conviene riflettere sono:

a. Il concetto di globale: non ha un carattere dimensionale, non


deve essere pensato come “esteso” e “generale”, ma in
rapporto a entità che si distrubuiscono e interagiscono fra loro.
Il sistema globale è quindi da intendersi in senso relazionale,
per cui la sua estensione dipende dal gioco delle relazioni che
si consumano fra sistemi di livello inferiore.
b. Il locale ha un significato simile a quello di regione, quando
questa viene concepita come un costrutto teorico e non come
un’entità delimitata da confini fisici o politico-amministrativi.
Esso non è un segmento in cui può essere suddiviso il mondo
ma una totalità complessa capace di comportamenti autonomi
e dotata di propria identità. Si tratta cioè di un sistema che
interagisce con l’esterno secondo regole proprie che ne
garantiscono la riproduzione del tempo.

Per descrivere e rappresentare le relazioni fra il tutto e le parti,


bisogna affermare il concetto di rete. La rete viene assunta come
strumento per la rappresentazione di interazioni sociali fra attori.
Assumiamo quindi i due possibili livelli in cui può essere scomposto
il sistema.

a. Con il concetto di reti globali si vogliono rappresentare soggetti


non più interpretabili come isole autosufficienti. Una strategia
di globalizzazione si caratterizza per scambi incrociati
all’interno di un sistema policentrico dove ciascun centro
apporta capacità produttive sviluppate localmente.
b. Con il concetto di reti locali si rappresenta un insieme di
relazioni fra soggetti contenuti in uno spazio dato.

Ne consegue che il sistema globale è da intendersi in senso


relazionale, per cui la sua estensione non è definibile a priori, ma in
rapporto al sistema di relazioni che si consumano fra i sistemi di
livello locale. Il locale non è un segmento in cui può essere
suddiviso il mondo, ma una totalità complessa. Esso costituisce un
aggregato di oggetti che può comportarsi come un soggetto
collettivo. Il territorio, da questo punto di vista, favorisce la
costruzione di relazioni fra attori socialmente vicini.

5.6 Storie “verosimili” : nodi e reti

5.6.1 Lo sviluppo al plurale

Le diverse dimensioni di un sistema sono rappresentate tramite:

a. Relazioni sovralocali, che interpretano le reti di soggetti che


intrattengono relazioni tanto con l’esterno quanto con l’interno
del sistema. Il ruolo strategico di questi soggetti è evidente: a
essi compete l’apertura del sistema verso l’esterno, attraverso
l’emissione di input e reciprocamente l’emissione di output.
b. Relazioni collaborative, le quali si instaurano sia fra soggetti
locali “puri”, ovvero quegli attori che destinano la loro attività
all’esclusiva riproduzione del sistema locale, sia fra i soggetti
locali trasversali.
c. Relazioni verticali, interpretate da entrambi i soggetti prima
richiamati e specifiche del luogo nel quale sono localizzati, al
quale essi ricorrono sia per alimentare, sia per depositare i
contenuti della produzione e dello scambio.

CAPITOLO 6 : TERRITORIO E DINAMICHE TECNOLOGICHE

Nel pensiero economico moderno l’innovazione tecnologica, ovvero


la creazione, lo sviluppo e la diffusione di un nuovo prodotto e di un
nuovo processo produttivo è piuttosto recente, risale agli anni trenta
del Novecento. Divenne allora chiaro che il futuro di ogni economia
dipendesse significativamente dalla capacità di produrre
conoscenza e non soltanto manufatti, e per questo motivo la ricerca
economico-sociale si trovò a dover tener conto dell’inscindibile
nesso tra tecnologia e società, ovvero due dimensioni che la teoria
tradizionale aveva tenuto rigorosamente separate.

6.1 Le illusioni della modernità

Il problema dell’innovazione tecnologica è stato notevolmente


trascurato nella tradizione neoclassica: la disponibilità di tecnologia
veniva assunta come data e l’innovazione rappresentava una
componente esogena nei confronti dell’impresa e del sistema
economico. La dimensione tecnologica e la dimensione economico-
sociale erano considerate come evolventesi indipendentemente
l’una dall’altra. La tradizione marxista ortodossa, invece,
contrappone all’approccio statico dei neoclassici una visione
tecnologica della storia inscindibile dalla dimensione economica.
Fondando l’analisi del rapporto su queste due linee di pensiero si
finisce per eliminare ogni riferimento al processo di costruzione
della tecnologia nel tempo. Essa, come sappiamo, si realizza
attraverso il costante rapporto tra la struttura scientifica e uno
specifico ambiente sociale e economico, popolato da imprese e da
numerosi altri soggetti portatori di proprie strategie tecnologiche e
competitive. L’introduzione di nuovi prodotti e nuovi processi
produttivi è stat la risposta a problemi, condizioni e opportunità che
si sono presentate in situazioni concrete.

6.2 Il modello innovativo lineare

Fino a molti anni fa era generalmente accettata l’idea secondo cui


l’innovazione seguisse un processo lineare suddiviso in una
sequenza di fasi: l’invenzione, la sua applicazione in prodotti
commercializzabili sul mercato da parte di un soggetto innovatore e
infine la sua diffusione ad altre imprese operanti. Lo schema
interpretativo maggiormente noto è quello del ciclo di vita del
prodotto, introdotto inizialmente per spiegare i flussi commerciali
internazionali e poi utilizzato per illustrare le condizioni che
inducono una grande impresa a intraprendere una strategia di
investimento estero. Lo schema di ragionamento individua tre fasi
successive nell’evoluzione della vita di un prodotto.
1. L’introduzione, o sviluppo di un nuovo prodotto e/o processo
necessita di condizioni innovative particolari, risultando
decisiva la conoscenza tecnologica e l’elevata capacità
imprenditoriale e manageriale. Le imprese e gli impianti
destinati all’introduzione di un nuovo prodotto perseguirebbero
dunque una localizzazione nei paesi e nelle aree centrali del
sistema economico mondiale dove il reddito è elevato e si
ritrovano le condizioni richieste.
2. La crescita richiede condizioni per avviare la produzione in
serie mentre cresce la necessità di disporre di capacità
finanziarie e commerciali. In queste condizioni, l’impresa
proseguirà la ricerca tecnologica e la messa a punto del
prodotto.
3. La maturità, o standardizzazione, si raggiunge quando il
prodotto risulta assestato e non è più possibile o conveniente
apportarvi innovazioni significative.

6.3 Innovazione e cicli economici

Molte delle premesse che portarono alle fondamenta gli schemi


teorici convenzionali erano già state poste, nei primi decenni del XX
secolo, da un economista austrico, Joseph Schumpeter, il quale
dovette aspettare la fine degli anni settanta affinché il suo apporto
venisse riscoperto e si formasse un gruppo di ricercatori interessati
alle sue proposte. Nel primo dei suoi scritti maggiori, “La teoria dello
sviluppo capitalistico” del 1911, Schumpeter, ragionando intorno ai
caratteri dell’imprenditore innovatore, pone uno spartiacque rispetto
all’ipotesi di razionalità che caratterizzava il pensiero neoclassico e
al determinismo economico caratterizzante la tradizione marxista.
L’imprenditore shumpeteriano agisce spinto da una pluralità di
motivazioni che trascendono la razionalità e le forze imminenti, per
cui l’innovazione sarà un evento di natura casuale: essa risponde al
sogno e alla volontà della realizzazione individuale, alla
gratificazione di produrre e creare delle cose e alla ricerca del
successo. L’imprenditore esercita una funzione di distruzione
creatrice che trasforma la vita economica e promuove lo sviluppo
capitalistico e lo sviluppo tecnologico. Inoltre, in quell’epoca, ebbe
grande successo in Occidente, l’opera di N.K. Kondrat’ev, un
economista sovietico che ipotizzò la presenza di fluttuazioni di
lungo periodo, della durata di 45-60 anni, l'innovazione tecnologica,
le guerre, la scoperta di nuovi giacimenti minerari o ancora
l'estensione dei rapporti di produzione capitalistici verso nuove
regioni geografiche. Le sue ricerche ebbero una certa fortuna negli
ambienti accademici di allora e si deve proprio Schumpeter la
definizione di “cicli di Kondrat’ev” e l'integrazione dell’opera di
quest’ultimo nella sua teoria generale dello sviluppo capitalistico. Si
avranno così onde lunghe del processo di sviluppo componibili a
loro volta in quattro fasi caratterizzate ciascuna da una certa
struttura della domanda e da un certo tipo di attività innovativa:
prosperità, recessione, depressione e ripresa. Affermandosi
un'innovazione il sistema economico abbandona la condizione di
equilibrio per entrare in una fase espansiva: grazie all'applicazione
commerciale dell'invenzione, l’imprenditore innovatore ottiene
profitti superiori che gli consentono di realizzare nuovi investimenti.
Il suo comportamento sarà seguito da altri imprenditori con il
risultato di produrre un generale espansione del sistema e
diffondere l'innovazione da poco introdotta. Non tutte le innovazioni
però possiedono la stessa importanza e capacità di incidere sull'
evoluzione del sistema. Così, mentre alcune esauriscono i loro
effetti espansivi in un periodo assai breve, per altre sono necessari
vari decenni perché si consumi nei loro effetti sull'economia. Lo
sviluppo economico sarà contrassegnato allora dalla
sovrapposizione di cicli di durata differente. Ogni ciclo di lunga
durata prevede cioè la presenza simultanea di cicli di durata
inferiore, conseguenti a innovazioni di minore incisività, ma tuttavia
fondamentali nel determinare lo sviluppo dell'economia. In questo
senso, l'affermazione di una certa innovazione epocale modifica il
corso dello sviluppo, per cui ogni ciclo economico porta alla
formazione di nuove industrie o processi produttivi e dunque
trasforma nel profondo l'organizzazione dell'economia e della
società. Il primo ciclo, fra gli ultimi decenni del Settecento e la metà
del secolo successivo, prese le mosse dalle grandi innovazioni che
segnarono all'avvio della rivoluzione industriale come ad esempio la
macchina a vapore e il telaio tessile, le quali determinarono lo
sviluppo della produzione cotoniera e metallurgica. Nel secondo
ciclo, che comprende la seconda metà dell'Ottocento, si diffuse la
macchina a vapore e nel contempo venne introdotto il trasporto
ferroviario. Verso la fine del secolo, una nuova serie di innovazioni
(motore a scoppio e generatore elettrico, nuovi processi chimici e il
telefono) posero le condizioni per l'affermazione di un terzo ciclo
che coprì la prima metà del Novecento. È stato poi individuato un
quarto ciclo, che prende avvio con l'ultimo dopoguerra, in cui fattore
chiave è dato dalla ampia disponibilità di energia, soprattutto di
fronte petrolifera, che prevede molte applicazioni sia nella
produzione sia nel consumo di beni a elevata intensità energetica. Il
ragionamento segue poi così. Il quinto ciclo, basato sulla
rivoluzione informatica o l'alta tecnologia, si fonda su di un unico
oggetto, l'informazione, di cui si riducono progressivamente i costi
di elaborazione e di distribuzione.

6.4 Innovazione tecnologica e capitalismo evolutivo

L'impronta lasciata da Schumpeter nell'analisi del processo


innovativo è stata rilevante: l'economista austriaco ha introdotto la
distinzione tra tipi diversi di innovazione e ha sistematizzato il
concetto di processo innovativo nelle sue diverse fasi. Negli anni
Settanta del XX secolo comparve infatti all'orizzonte un insieme di
innovazioni in grado di costituire il cuore tecnologico di una vasta
gamma di prodotti e trovare applicazione in settori industriali diversi
l'uno dall'altro. Per un nutrito gruppo di economisti lo schema
schumpeteriano delle onde lunghe dello sviluppo capitalistico
apparve allora di grande utilità per poter fornire una spiegazione del
cambiamento avvenuto nel clima economico di questi anni, ma il
dibattito non è pervenuto a una conclusione unitaria. Fra gli apporti
più rigorosi ritroviamo quelli di Richard Nelson e Sidney Winter
(1982). Coerentemente con la tradizione schumpeteriana, il
processo innovativo è inteso come portatore di squilibrio nel
sistema, dato che le imprese capaci di introdurre innovazioni
migliori o quelle in grado di realizzare una più efficace ricerca
scientifica, si espanderanno più rapidamente delle altre: è
l'imprenditore o il gruppo dirigente dell'impresa a determinare quali
investimenti destinare alla ricerca, a conciliare quest'ultima con
l’attività produttiva e ancora, a individuare la tecnica già esistente
sul mercato che meglio si adatta agli obiettivi strategici dell'impresa.
Le condizioni di scelta non sono illimitate e la strategia innovativa
sarà coronata da successo soltanto se i progetti e le risorse
investite nella ricerca sono indirizzati verso una determinata
traiettoria naturale con cui si intende la direzione lungo la quale
un'innovazione tecnologica può liberamente svilupparsi, sia perché
esistono particolari condizioni di mercato tra cui una domanda
potenzialmente elevata, sia perché il progresso tecnico che
coinvolge un determinato comparto dell'economia si sta realizzando
in quella specifica direzione. Una traiettoria naturale è inoltre
associata ad un dato regime tecnologico: in ogni periodo storico
esistono particolari traiettorie che definiscono tanto il successo di
una politica innovativa quanto la più ampia trasformazione
tecnologica nel sistema. Negli anni Cinquanta, per esempio, il jet
Boeing 707 definì un certo regime tecnologico e per almeno tre
decenni da allora diverse imprese, continuarono a introdurre
successive innovazioni volte a sfruttare sempre più intensamente il
potenziale di quell'aeromobile. A sua volta il concetto di ambiente
determina il modo in cui l'utilizzo delle diverse tecnologie muta nel
tempo: l'universo economico comprende una vasta pluralità di
imprese ma soltanto quelle che riescono ad accedere alle migliori
innovazioni tecnologiche, oppure quelle che utilizzano appieno la
propria capacità di ricerca, hanno la possibilità di espandersi
mentre le altre escono dal sistema. È nell'ambiente, infatti, che si
ritrovano le condizioni che consentono di determinare le possibili
direzioni e la progressione della conoscenza tecnica e scientifica.
Distingueremo quindi fra:

 innovazioni radicali, cioè eventi discontinui, la cui diffusione nel


sistema economico può contribuire a dare avvio a cicli di lunga
durata;
 innovazioni incrementali, che consistono nel normale
miglioramento di prodotti o processi produttivi già
precedentemente introdotti;
 rivoluzioni tecnologiche, che portano alla destrutturazione delle
regole di organizzazione economica e sociale e inaugurano un
nuovo ciclo di lunga durata. Una rivoluzione tecnologica non è
soltanto all'origine di nuovi prodotti e processi, ma investe una
pluralità di settori economici: l'introduzione della ferrovia e
della macchina a vapore nei secoli scorsi oppure del
microprocessore negli ultimi decenni, sono chiari esempi di
innovazione che spiegherebbero la successiva affermazione di
altre innovazioni.

In sostanza il termine rivoluzione tecnologica si giustifica quando


l'introduzione di un insieme di soluzioni tecniche produce delle
conseguenze:

a. la drastica riduzione dei costi di produzione di un gran numero


di prodotti e servizi, aprendo opportunità per nuovi
investimenti;
b. Un miglioramento delle caratteristiche tecniche di numerosi
prodotti e servizi;
c. un insieme di cambiamenti istituzionali e comportamentali sia
dal lato delle imprese, sia da quello della popolazione.

Un processo innovativo è un processo attraverso cui una nuova


tecnologia viene sviluppata a partire da un impulso iniziale
proveniente da uno specifico ambiente economico sociale. Nella
prima fase, cioè quella che culmina con la produzione commerciale
di un prodotto nuovo, è impegnato un numero esiguo di imprese
che disporranno della capacità o dello spirito imprenditoriale
necessario per trasformare un invenzione in un nuovo prodotto
commerciale. Innovazione radicale e innovazione incrementale
sono quindi parte di un unico processo: la prima apre la via a
successivi miglioramenti, la seconda consiste in successive
innovazioni sul prodotto o sul processo già esistente e prevede
ricadute in molteplici altri campi dell'economia e della società.

6.5 Fattori discreti di localizzazione

La generazione e la diffusione di produzioni altamente tecnologiche


non dipende direttamente dai comportamenti di un'impresa ma dalla
presenza di particolari condizioni localizzate o fattori discreti di
localizzazione. Questa nuova analisi localizzativa giace su due
presupposti. In primo luogo la prossimità geografica tra ricerca e
produzione facilità l'introduzione di nuove soluzioni tecniche: la
presenza di servizi di consulenza, la disponibilità di personale
specializzato, i contatti informali tra dirigenti, imprenditori e
ricercatori agevole il trasferimento di tecnologia. In secondo luogo
la vicinanza fisica favorisce i necessari fenomeni di collaborazione
tecnologica. Schematicamente sono riassunti i principali fattori di
area:

1. la presenza di strutture universitarie e centri di ricerca


tecnologica di livello elevato;
2. la disponibilità di capitale di rischio da investire in attività
innovative;
3. un efficiente sistema di infrastrutture (autostradali,
aeroportuali, di telecomunicazione)
4. un diffuso atteggiamento antisindacale nell’ambito delle
comunità locali interessate;
5. la vicinanza al centro di ricerca e sperimentazione militari;
6. un insieme ricco e diversificato di qualificati servizi di
consulenza e informazione;
7. una solida base economica urbana;
8. favorevoli condizioni climatiche ambientali.

6.6 Sistemi, reti e ambiente

6.6.1 La dinamica dell’apprendimento

Il processo innovativo è un processo di produzione o creazione di


tecnologia che si realizza all'interno della struttura economica e
sociale. Prima di tutto è necessario riconoscere due concezioni
essenziali:

 una nuova tecnologia si crea nell’ambiente in cui essa si


sviluppa. Sarà quest’ultimo a determinare la natura,
l’estensione e il profitto temporale di sviluppo;
 la struttura economica non si adatta passivamente a una
nuova tecnologia, ma evolve con questa: è la struttura
economica, infatti, a suscitare nuove soluzioni tecniche e
valorizzare l'innovazione prodotta.
6.6.2 Reti di innovazione e sinergie territoriali

Come abbiamo già visto, l'organizzazione è all'origine di un


processo innovativo. Non si ha innovazione tecnologica senza che
sia stata definita una innovazione organizzativa, ovvero un
processo collettivo di apprendimento fondato sulla combinazione di
capacità e conoscenze richieste sia interne, sia esterne ai soggetti
coinvolti. Sintetizziamo le fondamentali dimensioni che
costituiscono una rete di innovazione:

 la dimensione economica. È una modalità di organizzare i


rapporti tra la gerarchia d'impresa e il mercato;
 la dimensione storica. Una rete presuppone un sistema di
relazioni di lungo termine trattori fondato sullo scambio
reciproco di conoscenze;
 la dimensione cognitiva. la rete e deposi Italia di una capacità
produttiva superiore alla somma delle capacità individuali;
 la dimensione normativa. La rete si caratterizza per un proprio
sistema di regole che delimitano e definiscono i rapporti fra i
partner.

L'insieme di questi concetti segna una scansione netta con la logica


consueta in cui veniva inteso un processo innovativo. In particolare,
la rete, è necessariamente aperta sull'ambiente nel quale si
concretizzano le pratiche economiche e istituzionali.

L'organizzazione di una rete di innovazione assume una


dimensione funzionale e una dimensione istituzionale. Sotto il primo
aspetto, si fa riferimento alla strategia innovativa messa in atto dai
soggetti, che conviene dividere in due forme diverse: la prima è una
strategia di adattamento a tecnologie già esistenti, ovvero di
sfruttamento di una traiettoria tecnologica che ha avuto origine
esternamente alla rete. La seconda è una strategia di creazione di
tecnologia, la quale sottende un processo innovativo che non può
essere perseguito da una singola impresa, ma richiede molteplici e
complesse relazioni. Dal punto di vista istituzionale,
l'organizzazione della rete esplicita le possibili modalità di governo
delle relazioni tra i partner coinvolti nel processo innovativo. Ora,
nel caso di una rete volta allo sfruttamento di tecnologia, le relazioni
sono asimmetriche, nel caso di reti volte alla creazione di
tecnologia, le relazioni simmetriche.

6.6.3 Risorse specifiche e milieu innovateurs

Con il concetto di campo comunicativo si rappresentano delle


risorse specifiche, le quali fanno del territorio un fattore strategico
nel processo innovativo. Le condizioni ambientali su cui si fonda un
processo innovativo sono:

a. una cultura tecnica industriale condivisa dagli attori;


b. comportamenti e pratiche collettive storicamente consolidate;
c. un'atmosfera imprenditoriale e tecnologica;
d. un'organizzazione spesso informale e non mercantile delle
relazioni fra gli stessi attori.

Quest’insieme di condizioni territorialmente non riproducibili


(economiche, sociali, culturali e ambientali) sono definite con il
termine di milieu. I caratteri principali del milieu innovateur sono:

a. una dimensione territoriale. Il milieu è uno spazio geografico


non delimitabile a priori;
b. una dimensione organizzativa. È la cooperazione fra gli attori
aperti gli uni nei confronti degli altri all'origine della produzione
di innovazione;
c. una dinamica di apprendimento. Nel gioco dell'interazione gli
attori modificano i propri comportamenti per produrre nuove
combinazioni produttive e organizzative;
d. una cultura industriale, esprime la memoria storica,
conoscenze e basi tecniche consolidate che si concretizzano
in pratiche professionali, un'etica del lavoro e valori condivisi.
6.6.4 Conoscenza, comunicazione, apprendimento

Nelle teorie dell’agire comunicativo introdotte da J. Habermas


(1986) e K. Apel (1989) le azioni di un soggetto vengono
differenziate in ragione di due prospettive: l’agire strategico,
involgente un atteggiamento conflittuale, e l’agire comunicativo,
presupponente invece un ideale di volontà d’intesa nelle relazioni
interpersonali. La seconda, in particolare, è assunta come la
dimensione in cui si realizzano:

a. la riproduzione culturale;
b. l’integrazione sociale;
c. la socializzazione

le quali sono all’origine di un processo di generazione e produzione


di conoscenza. I. Nonaka, uno studioso giapponese di
management, ha divulgato con grande lucidità i fondamenti
dell’agire comunicativo e della comunicazione locale. Nonaka fa
propria la tesi sulla natura duale della conoscenza, dividendola in
due sfere distinte dal punto di vista dei contenuti e dei linguaggi:

a. conoscenza codificata, trasferibile ed esplicita abile tramite un


codice. Essa viene cioè scambiata mediante un linguaggio
scientifico e tecnico, sistematico e universale;
b. conoscenza contestuale, quale espressione dello specifico
ambiente socio-culturale che la esprime. Essa conserva il suo
significato e la sua validità unicamente nell'ambiente che l'ha
originata.

L'organizzazione (territoriale, globale) diventa quindi protagonista e


con essa le reti. I sistemi capaci di esercitare una superiore
capacità innovativa saranno quelli il cui interno si realizza una
continua interazione tra le due sfere della conoscenza, cioè quelli in
grado di attivare, valorizzandolo, il proprio strato di valori,
conoscenza e istituzioni. Un sistema territoriale appare dunque
come un sistema organizzato dotato di un'identità specifica.

6.7 Tipologie di conoscenza, regioni che apprendono


Una società basata sulla conoscenza interpreta un modello diverso
rispetto a quello tradizionale, fondato sul concetto di trasferimento
tecnologico. La competitività si basa ora sulla capacità di assicurare
un flusso continuo di innovazioni, che discendono dalle capacità di
lavoratori e imprenditori. È necessario quindi un nuovo modello di
creazione della conoscenza che discende dei due caratteri
essenziali del cambiamento tecnologico attualmente in corso: prima
di tutto la relazione fra competenze diverse; in secondo luogo,
l'interattività fra centri di ricerca, imprese, associazioni professionali,
istituzioni pubbliche. Ciò sottende l'attivazione di due processi
congiunti. Da un lato, la concentrazione territoriale delle funzioni di
eccellenza (le cosiddette learnig regions, le regioni che
apprendono); Dall'altro lato, l'apertura di questi sistemi territoriali
verso l'esterno allo scopo di apprendere le informazioni scientifiche
e tecnologiche prodotte in altri contesti. C'è dunque la
consapevolezza che nella società contemporanea la creazione di
conoscenza è sempre più importante in tutti i comparti
dell'economia, inclusi i servizi, i settori tradizionali e la stessa
industria creativa. Per questa ragione è utile scomporla in tre
distinte tipologie, ciascuna delle quali è supportata da specifiche
competenze:

 la conoscenza analitica è decisiva per quelle attività in cui la


produzione fondata su modelli codificati, dove l'input cognitivo
si fonda di regola sull' applicazione sistematica di principi e
metodi scientifici per cui i processi innovativi sono organizzati.
Si tratta di attività che richiedono una elevata qualificazione del
personale impiegato, dal momento che la creazione di nuova
conoscenza sottende spesso delle scoperte scientifiche;
 la conoscenza sintetica riguarda quelle attività nelle quali
l'innovazione si realizza tramite l'applicazione di conoscenze
già esistenti. Ciò si verifica quando si tratta di dare soluzione a
specifici problemi, come nella produzione di macchinari e
nell'impiantistica industriale, dove si sviluppa di regola la
ricerca applicata e non si realizzano ovviamente prodotti in
serie;
 la conoscenza simbolica tende ad assumere nella società
contemporanea un ruolo crescente, in relazione all'esigenza di
apportare al prodotto un design che lo sappia differenziare e,
quindi, valorizzare.

Sintetica

Autoveicoli

Alimentari Filmografia

Farmaceutica Pubblicità

Biotecnologie

Analitica Simbolica

6.8 Dinamiche comunicative: conoscenza e apprendimento

È possibile scomporre un processo comunicativo in tre diversi livelli:


informazione, conoscenza e creatività. [Vedi figura 6.8]

a. al livello più generale, l'informazione, che è facilmente


trasmessa e il suo trasferimento presenta costi relativamente
bassi. È quindi facilmente trasferibili da un luogo all'altro e
l'ambito di diffusione e tendenzialmente globale;
b. la conoscenza prodotta endogenamente a determinati contesti
presenta invece maggiori vincoli alla diffusione in quanto la
sua trasmissione necessità di strutture specifiche comportando
per questo una certa selettività nei rapporti comunicativi;
c. la creatività, infine, è la funzione di ordine più elevato in quanto
si afferma da un processo sinergico che implica la stretta
relazione tra sfere molteplici. Essa sottende un'evidente
dimensione territoriale.

CAPITOLO 7: ORGANIZZAZIONI D’IMPRESA: GERARCHIE,


RETI E AMBIENTI COMPETITIVI

Rivolgiamo ora l’attenzione all’impresa. Chiamata a svolgere la


funzione di controllo e di coordinamento dei fattori di produzione,
l’impresa industriale, si distingue dalle altre forme storiche di
organizzazione per il modo formale di regolazione delle relazioni
produttive e di potere che sviluppa al proprio interno nei confronti di
altre imprese e soggetti operanti nell’universo competitivo.

7.1 L’organizzazione gerarchica

I caratteri distintivi della grande impresa sono facilmente


individuabili in base a criteri quantitativi: capitale, fatturato, addetti
ecc. In realtà nel dibattito economico vengono proposti
prevalentemente dei criteri qualitativi. La realizzazione di un
processo si tratta di un profitto normalizzato di lungo periodo, che
deve confrontarsi con una strategia in costante evoluzione, che
comprende diversificazione produttiva, riorganizzazione interna e
ridefinizione delle relazioni con altri soggetti competitivi.

7.1.1 Gerarchie d’impresa e gerarchie spaziali

Il sistema economico ha vissuto per oltre un secolo un processo


non ancora concluso di concentrazione, per cui un aumento sempre
più limitato di imprese si è dotato di una capacità produttiva e
finanziaria crescente. Il fondamentale assioma degli economisti
neoclassici, l'interdipendenza fra uguali in un mercato competitivo,
crolla inesorabilmente per essere sostituito dall'idea della
centralizzazione gerarchica. In questo quadro, i soggetti minori
appaiono dipendenti nelle proprie scelte economiche, tecnologiche,
e finanziarie nell'ambiente entro il quale si trovano ad operare. Al
contrario, la grande impresa appare come fattore di trasformazione
e di sviluppo dell’economia e della società. Il contesto in cui ci si
muove e quello dell'impresa multilocalizzata che realizza una
divisione funzionale del lavoro per cui attività differenti sono
assegnate a impianti localizzati in uno spazio relativamente ampio.
Nell'impresa moderna tutte le funzioni sono localizzate in luoghi
diversi per cui alla divisione funzionale del lavoro si sovrappone una
contemporanea divisione spaziale del lavoro. L'immagine è
sostanzialmente quella di una gerarchia localizzata che rispecchia
la divisione delle funzioni all'interno dell'impresa la quale
internalizzazione sia economie di scala sia economie di varietà. È
possibile dare una rappresentazione gerarchica che può essere
così sintetizzata:

 Le funzioni di decisione, pianificazione strategica, Ricerca e


sviluppo, sono concentrate di regola in un numero ristretto di
grandi centri metropolitani dei paesi industriali avanzati, più
agevole è il contatto reciproco fra i soggetti decisori e dove
l’impresa interagisce con gli altri centri di ricerca
 Altre fonti funzioni produttive che richiedono lavoro qualificato
e la presenza di infrastrutture specifica (trasporti, energia,
scuole professionali) saranno localizzati in aree già dotate di
una base industria consolidata
 Al terzo livello si situeranno le produzioni standardizzate e a
basso contenuto tecnologico che necessitano solitamente di
mano d’opera abbondante ma di qualificazione inferiore, la
localizzazione di impianti decentralizzati può discendere da
una strategia volta il controllo delle fonti di materie prime o a
imporre la presenza dell'impresa sui mercati finali.

Le differenze fra le regioni sono ricondotte alle funzioni manageriali


e organizzative, e la divisione del lavoro sullo spazio è analizzata
nei termini di divisione del lavoro all’interno dell’impresa.

7.1.2 Strategie e modalità di crescita

Alla fine della prima guerra mondiale la grande impresa si era già
impostata come l’istituzione di governo dell’economia
maggiormente influente in tutti paesi industrializzati avanzati.
L’imprenditore della tradizione classica era ormai sostituito da
gruppi di individui preposti Al coordinamento dei crescenti flussi di
beni e informazioni fra le unità produttive che componevano
l’impresa. È essenziale porre immediatamente la distinzione fra
strategie modalità di crescita. Il primo termine sta a indicare la
fissazione degli obiettivi a lungo termine, la scelta delle linee
d’azione e l’allocazione delle risorse necessarie per il loro
conseguimento. Con il secondo si fa invece riferimento ai
meccanismi attraverso i quali l’impresa integra nuove attività e
funzioni, esprimendo così scelte strategiche. Le scelte strategiche
di un’impresa sono: l’integrazione, cioè una traiettoria di sviluppo
volta estendere la dimensione dell’impresa e la diversificazione,
tesa ad ampliare progressivamente l’iniziale campo di attività e di
specializzazione. Le imprese tesero in sostanza a internalizzare le
transazioni che in precedenza venivano regolata dal mercato.
L’affermazione della grande impresa rappresenta, dunque, una
formidabile innovazione organizzativa.

Le modalità di crescita si distinguono in [Fig.7.1]:

 Crescita interna, realizzata sia mediante l’ampliamento degli


impianti esistenti, sia tramite la predisposizione di nuovo unità
o impianti produttivi.
 Crescita esterna, implica l’acquisizione di altre imprese già
operanti sul mercato, impegnate nello stesso oppure in altri
settori di attività.

7.1.3 Strategie d’impresa e strutture organizzative

Struttura organizzativa, comportamento strategico e manifestazioni


spaziali sono dei concetti strettamente legati tra loro.

Relazione fra strategia e struttura organizzativa: Un'adeguata ed


efficiente organizzazione è determinante per il perseguimento di un
efficace strategia estensiva: infatti, un’adeguata ed efficiente
organizzazione è determinante per il perseguimento di un efficace
strategia estensiva: infatti, un ampliamento della scala produttiva
può essere più facilmente perseguibile da parte di un’impresa che
dispone di una solida realizzazione interna; allo stesso modo, la
conquista di un nuovo mercato sarà più agevole per quell’impresa
che già vi disponi di un impianto produttivo.

Nel complesso una struttura organizzativa è composta da una


configurazione gerarchica scomponibile, come scrisse Simon, in
almeno tre piani distinti: il livello superiore è costituito dalla
formulazione degli obiettivi strategici di impresa; in un livello
intermedio a cui sono assegnate funzioni di coordinamento; infine
un livello inferiore che comprende le attività manifatturiere.

Anche fra struttura organizzativa e comportamenti spaziali c’è un


fortissimo legame descritta da due grandi processi: la crescita
spaziale, che consiste nell’aumento della dimensione e del numero
degli impianti di cui l’impresa si compone; gli aggiustamenti
localizzativi, che comportano la modificazione funzionale di nuove
attività produttive o la loro cancellazione.

7.2 L’impresa galbraithiana: un sistema aperto

Lo spazio rientra nel modello in ragione della dinamica delle


relazioni funzionali che si manifestano nell’ambito
dell’organizzazione. Sarà infatti la corporation a definire
direttamente i rapporti tecnici e di potere con gli altri soggetti.

Non è dunque casuale che la teoria dei sistemi aperti si sia rivelata
un formidabile strumento concettuale per presentare questo tipo di
impresa. Essa infatti assume, una chiara demarcazione fra il
sistema e l’ambiente che appare di fatto esogeno rispetto
all’impresa e che questa appare comunque in grado di controllare.

L’adattamento e l’evoluzione della struttura di impresa non sono più


viste come l’espressione di un’astratta razionalità, ma vengono fatte
discendere da un conflitto senza soste nei confronti delle forze che
mettono costantemente in discussione l’equilibrio stesso del
sistema. Rapporti fra sistema e ambiente: un sistema organizzato
sarà analizzabile a partire da tre differenti prospettive: la struttura, il
funzionamento e infine l’evoluzione.

 La struttura del sistema. L’impresa è rappresentata come un


sistema di attività indipendenti. E infatti mediante la struttura
delle interazioni fra i suoi elementi (o delle comunicazioni) che
un sistema può ricevere ed elaborare informazioni che
vengono poi trasformate in azioni e comportamenti strategici. Il
sistema-impresa presente sia una struttura interna,
caratterizzata da un’organizzazione gerarchica nel cui seno si
materializzano flussi di prodotti, persone, informazioni, sia una
struttura esterna, identificabile tramite le relazioni con
l’ambiente che si contestualizzano nel processo localizzativo.
 Il funzionamento del sistema. Per funzionamento del sistema
si intende il modo in cui l’organizzazione risponde agli stimoli
ambientali, utilizzando le informazioni recepite. Si ripartisce in
tal modo che una parte rilevante dei flussi fra impresa e
ambiente riguarda lo scambio di informazioni, per cui l'impresa
non soltanto riceve e trasforma energia in termini di materiali e
lavoro, ma altresì sotto forma di elementi immateriali.
Organizzazione di impresa, incertezza e obiettivi motivazionali
sono quindi ricomposti in un quadro in cui l'impresa, in quanto
sistema in quanto sistema adattivo, si pone in costante
interazione con l’ambiente, ove l’intensità dello scambio
informativo varia in rapporto alla struttura organizzativa.
 L’evoluzione del sistema. Dilatandosi la vita
dell’organizzazione, aumenta contestualmente la sua
dimensione, ciò che determina la crescita e la
complessificazione della divisione interna del lavoro, della
differenziazione spaziale e della quantità di risorse e
informazioni che devono essere ottenute dall’ambiente.

È in questo senso che la strumentazione sistematica non


rappresenta di per sé un “modello”, bensì uno schema integratore e
unificatore della conoscenza analitica, una teoria concettuale
capace di riformulare, tramite un linguaggio specifico, frammenti
disparati allo studio di un fenomeno intimamente complesso.

Il trasferimento di questi concetti all’impresa porta a interpretarne


L’ordine complessivo e indicare, nel contempo, la soluzione ai
problemi posti dal suo funzionamento.

Dal punto di vista dell’analisi territoriale non sarà solo la


dimensione, il livello tecnologico, la disponibilità dei fattori produttivi
a determinare il comportamento dell’impresa sul territorio e quindi a
definire la struttura spaziale dell’organizzazione. Geograficamente
la società e l’economia sono altamente segmentate, per cui
l’ambiente non rappresenta un contesto neutro al cui interno
l’impresa evolve e si espande.

7.3 Regolazione sociale e organizzazione flessibile della


produzione

7.3.1 La proposta teorica

A questo proposito un concetto decisivo è quello di specializzazione


flessibile, ovvero la fabbricazione di beni specializzati a partire da
tecnologie e forme organizzative flessibili, affermatosi
parallelamente al complesso insieme di innovazioni tecnologiche
venute alla ribalta nel mondo industrializzato nei decenni a noi più
vicini. La tesi della specializzazione flessibile, si afferma come un
nuovo paradigma sociale, contrapposto alla logica della produzione
di massa e standardizzata.

I fondamenti si trovano nella storiografia della lunga durata di


ispirazione francese e in particolare nell’idea secondo cui
l’evoluzione storica dell’economia capitalistica è da intendersi come
una serie di periodizzazioni nel corso delle quali si realizzano
definite forme istituzionali che determinano la modalità di
organizzazione della produzione e dei sottesi rapporti sociali. Da
questo punto di vista l’approccio trova ispirazione nella teoria
Marxiana, la quale viene tuttavia integrata da solidi riferimenti
all’economia Keynesiana e soprattutto alla teoria istituzionalistica,
rappresentando per questo una sintesi originale di apporti teorici
molteplici

In sostanza, come sostiene Robert Boyer, uno degli ispiratori


dell’approccio regolazionista, ogni fase storica presenterebbe alcuni
caratteri che danno coerenza a regime di accumulazione:

 Un certo tipo di organizzazione della produzione e dei rapporti


fra salariati e detentori dei mezzi di produzione
 Un orizzonte temporale sufficientemente ampio da permettere
l’effettiva valorizzazione del capitale investito
 Una modalità di distribuzione del valore prodotto tale da
consentire la riproduzione delle diverse classi o gruppi sociali
 Una domanda sufficientemente ampia e dinamica da garantire
l’espansione della capacità produttiva

Questi parametri assicurerebbero congiuntamente l’evoluzione del


sistema, permettendogli di assorbire le distorsioni e gli squilibri che
si creano nel corso del processo di accumulazione (come
recessioni, conflitti di classe, guerre commerciali ecc.). Nel
contempo, esse ci suggeriscono come la coerenza e la capacità di
un regime di accumulazione di riprodursi nel tempo dipenda dal
consolidamento di un definito insieme di rapporti sociali, ovvero
strutture di governo e di stabilizzazione del sistema sia di natura
formale, sia informale: Dalle forme di intervento dello Stato
nell’economia, ai modelli di socializzazione e di comportamento
individuale e collettivo, che si compendiano nel secondo termine
prima introdotto, modo di regolazione sociale.

Così, il regime estensivo di accumulazione si accompagnò a un


modo di regolazione di tipo competitivo: nel quadro di un sistema di
relazioni economiche e politiche regolate a livello mondiale
dall’egemonia britannica, le politiche nazionali erano fortemente
improntate all’etica liberistica e al non interventismo (i salari, per
esempio, erano negoziati direttamente all’interno delle imprese).

Un esempio consueto può chiarire queste affermazioni. Alla


depressione del 1929 che sconvolse l’economie Dell’Occidente
fece seguito l’introduzione di una serie di meccanismi di
aggiustamento (o di regolazione) che potessero assicurare la
sopravvivenza di un regime di accumulazione messo allora a dura
prova. Essi presero forma in politiche salariali aggiustate alla
dinamica dei prezzi e vennero accompagnati a diffusi interventi di
Welfare che, assicurando un certo qual controllo dei rapporti sociali
e lavorativi, garantirono nei decenni successivi una crescita senza
precedenti della produttività del sistema.
7.3.2 Nuovi scenari organizzativi

Pensate per spiegare l’evoluzione, la riproduzione e la crisi dei


regimi di accumulazione succedutisi nel XX secolo la teoria della
regolazione fa proprio un ventaglio di concetti grazie ai quali è
possibile dar ragione di un nuovo regime in formazione. Alle rigidità
della produzione di massa, quest’ultimo sostituisce una crescente
flessibilità del mercato del lavoro, dell’organizzazione dei processi
di produzione, dei mercati di consumo e delle relazioni fra i soggetti
operanti nell’universo competitivo.

Nel contempo, la diversità dei punti di partenza e delle concezioni


che caratterizzano lo schema teorico della regolazione non
preclude numerose aree di sovrapposizione con la teoria delle onde
lunghe dello sviluppo. Come reazione al «determinismo
tecnologico» di matrice Schumpeteriana, si accoglie in questo caso
la tesi secondo cui le nuove forme di organizzazione dei rapporti
sociali di produzione stanno all’origine dell’interrogazione di
tecnologia, e come tali assumono il carattere di forza strutturante
del cambiamento. L’intima relazione fra tecnologia e società si
afferma inesorabilmente come carattere distintivo di un nuovo modo
di rappresentare l’evoluzione e la trasformazione del mondo. Su
questa base comune e ora più agevole ricomporre i tratti distintivi
della rivoluzione tecnologica attualmente in corso, la quale,
modifica nel lungo periodo “ le basi materiali dell’intera
organizzazione sociale”.

Le tecnologie dell’informazione sono alla base dell’affermazione di


nuove forme organizzative e della società che, in estrema sintesi,
sono sintetizzabili nelle tre seguenti categorie:

 La strutturale flessibilità del sistema economico e sociale


 La crescente instabilità delle strutture di impresa
 I nuovi complessi comportamenti e processi spaziali
 La crescente flessibilità organizzativa del sistema è dunque
una categoria concettuale discriminante. Essa è espressione
della rivoluzione indotta dalle nuove tecnologie
dell’informazione e, nel contempo, non sopporto
imprescindibile per il funzionamento stesso del sistema. La
flessibilità agirebbe sulla trasformazione del sistema
economico-sociale in forme diverse e specifiche:
 Si modifica radicalmente la struttura occupazionale. Le nuove
forme organizzative contrappongono incertezze mobilita, per
cui si riduce la stabilità occupazionale e si affermano nuove
configurazioni dei rapporti lavorativi: lavoro temporaneo,
orari flessibili, segmentazione delle mansioni
 Mutano i tradizionali rapporti fra sistema delle imprese e
sistema istituzionale. Il disimpegno dello Stato dall’intervenire
in molte sfere dell’economia e delle società si accompagna al
sostegno crescente delle attività generatrici di innovazione
 Per rispondere alle complessità di un ambiente che non è più
semplicemente economico, ma anche tecnologico e
istituzionale, l’impresa deve mutare i propri criteri di gestione e
di organizzazione. Perciò si ha l’adozione di tecniche modulari
di organizzazione della produzione (come per esempio, il just-
in-time). La loro caratteristica distintiva e la minimizzazione
delle scorte immagazzinate sia di prodotti che di componenti,
per cui le imprese, anziché produrre grandi volumi di manufatti
in anticipo rispetto alla domanda, procedono alla loro
produzione solo su richiesta del mercato
 Con la ridefinizione della dinamica competitiva di impresa, le
forme organizzative di tipo oligopolistico e collusivo appaiono
sempre meno efficienti, mentre si affermano nuove strutture
capaci di sfruttare le potenzialità delle relazioni fra imprese e
fra imprese e altre istituzioni. L’organizzazione, diventa così un
pre requisito dello sviluppo economico stesso.
 I comportamenti localizzativi acquistano una complessità
improbabile secondo gli schemi consueti. La diffusione delle
nuove tecnologie produce fenomeni molteplici (diversificazione
produttiva, ristrutturazione organizzativa, mercati del lavoro
flessibile) che non sono necessariamente connessi tra loro,
ma si riverberano in processi territoriali diversi ed a volte
contrapposti.

7.4 Comportamenti strategici e ambiti competitivi

7.4.1 Il modello strategico di Porter

Lo scenario dei cambiamenti sopravvenuti nell'economia è in parte


tracciato. In questo quadro un contributo essenziale è venuto
recuperando la dimensione strategica dell’azione d’impresa. I
confini tra impresa e ambiente non sono più determinati a priori, le
regole della competizione tra i soggetti sono esplicitamente
rivalutate: a un ambiente competitivo programmabile e calcolabile
da parte di un’impresa che esce comunque vincente sui propri
concorrenti, si contrappone l’idea di un sistema di relazioni fra
impresa e ambiente ben più complesso, che prevede una dinamica
non soltanto competitiva, ma anche non competitiva (o
collaborativa).

In questa prospettiva non si può prescindere dall’apporto teorico di


Michael Porter il cui successo si spiega alla luce del quadro di
interpretazione cui questi perviene. Questi, ha contribuito ad
affrancare l’analisi strategica delle secche dei costi e della
produzione di massa, proponendo soluzioni strategiche generiche
corrispondenti a logiche concorrenziali differenti (strategie di
differenziazione, di nicchia ecc.).

L’osservazione si sposta dalle relazioni interne all’impresa alle


relazioni impresa/ambiente, evidenziando un allargamento
dell’orizzonte strategico e operativo e un incremento delle
alternative possibili. Porter adotta una visione disaggregata
dell’impresa, definendo i due concetti chiave: la catena del valore e
l’ambito competitivo
 La catena del valore è lo strumento che consente di descrivere
l’intreccio delle relazioni competitive e cooperative che
concorrono a generare il vantaggio competitivo dell’impresa.
Viene così rappresentata come un complesso sistema di
attività e funzioni che congiuntamente e consentono di
realizzare il valore del prodotto servizio. Esso comprende
attività primarie (produzione, logistica in entrata in uscita,
marketing, servizi connessi alle vendite); queste sono
necessariamente accompagnate da varie attività di supporto
che concorrono alla realizzazione delle prime:
approvvigionamento, sviluppo tecnologico, gestione delle
risorse umane, amministrazione, finanza, pianificazione.
 Ne discende che l’ambito competitivo non è limitato ai soli
concorrenti nei confronti dei quali l’impresa avrebbe dovuto
contrapporsi. Esso si estende a una pluralità di soggetti che si
situano lungo la catena del valore e che definiscono
l’estensione dell’attività che l’impresa svolge al fine di
competere in un determinato settore. L’impresa deve generare
continuamente nuove capacità di controllo e di coordinamento.
Geograficamente, l’ambito competitivo presente a sua volta la
tendenza storica a estendersi: ne consegue che la strategia
localizzativa è parte integrante dell’azione competitiva delle
imprese.

Il vantaggio competitivo è indifferente per le diverse imprese. Per


cui la ricerca del vantaggio competitivo da parte di un’impresa
votata a esprimere una strategia virtualmente globale non può
essere perseguita se non attivando una vivace dialettica con i
soggetti e sistemi localizzati (o locali)

Sei un vantaggio competitivo si consegue e si mantiene grazie un


processo fortemente localizzato, ovvero se le differenze nelle
strutture economiche, nei valori, nelle culture, nelle istituzioni e
nella storia economica contribuiscono profondamente al successo
competitivo, ci sarebbero tutte le condizioni per ampliare l’orizzonte
di indagine del sistema-impresa a sistemi economici più ampli, e
spiegare così la dinamica dei meccanismi concorrenziali fra paesi.
Implicitamente, le stesse condizioni sarebbero alla base del
successo di certi competitori globali che in dati contesti localizzati
(nazioni, regioni) trova una. Le ragioni del proprio successo.

7.4.2 Competizione, soggetti e ambiente

Sei il vantaggio competitivo, in ogni segmento e insieme di


segmenti della catena, si fonda su processi fortemente localizzati
che valorizzano le specifiche condizioni tecnologiche, culturali, e di
mercato, si rivaluta conseguentemente la dimensione strategica
dell’impresa in quanto soggetto che, evolvendo, deve
necessariamente progettare nuovi strumenti per governare
l’accresciuta complessità ambientale: le strategie vincenti implicano
quindi l’apertura verso una globalizzazione della competizione
geografica che metta le imprese in rapporto con una pluralità di
ambienti competitivi e socio-economici. In questo modo l’impresa
sarà in grado di scegliere la miglior fonte finanziaria e tecnologica,
di accedere alle più favorevoli condizioni dei fattori, di fronteggiare
la crescente diversificazione e autonomia dei mercati di sbocco dei
prodotti: in altre parole, l’impresa deve coinvolgere nella propria
strategia una varietà crescente di forze esterne, estendendo la
propria catena del valore a una gamma sempre più varia di fornitori
clienti.

In sintesi, l’estensione geografica e la complessità dell’ambito


competitivo e tecnologico impongono all’impresa il perseguimento
di una crescente flessibilità organizzativa, intesa come capacità di
adattamento, apertura ed esternalizzazione dell’organizzazione
stessa. Ciò porta a sostenere come l’impianto teorico ora
ricostruito, assegnando un significato forte alla capacità relazionale
dell’impresa verso l’esterno, contribuisca al superamento della
tradizionale logica sistematica, fondata, come ribadito più volte,
sull’idea di relazioni relativamente stabili fra l’impresa e un
ambiente controllabile con gli strumenti di previsione e di controllo
interni all’organizzazione.
7.5 Dalle gerarchie alle reti

Lo schema di Porter contribuisce a rompere i pilastri interpretativi,


fornendo una esplicitazione rigorosa di nuovi comportamenti
strategici, sia sul fronte interno, sia sul fronte esterno dell’impresa.
Se nelle nuove condizioni competitive la razionalità e la
programmazione vengono meno, ne consegue che le nuove forme
di interazione con l’ambiente competitivo ed economico-sociale
richiedono ora nuove soluzioni comportamentali.
7.5.1 Il divenire dell’impresa globale

Alla fine della prima guerra mondiale la grande impresa


multinazionale si era già imposta come l’istituzione di governo
dell’economia maggiormente influente in tutti i paesi industrializzati.
Quei primi passi di sviluppo della grande impresa risposero a una
chiara scelta strategica: il reperimento e il controllo delle fonti di
risorse primarie. All’inizio del seconda guerra mondiale la geografia
degli investimenti esteri diretti non era mutata di molto rispetto
all’inizio del secolo, la situazione sarebbe poi cambiata
radicalmente nei primi tre decenni del dopoguerra, quando la
conquista e il controllo di nuovi mercati s’imposero quale obiettivo
prioritario da parte delle maggiori imprese multinazionali. Lo
sviluppo delle tecnologie informatiche e la maggior efficienza dei
trasporti e delle comunicazioni hanno consentito l’organizzazione di
un sistema produttivo a elevata flessibilità, il quale appare sempre
più ramificato in impianti separati fra loro da notevole distanza. In
secondo luogo, l’introduzione delle tecnologie agricole legate alla
rivoluzione verde avrebbe spinto masse ingenti di popolazione ad
abbandonare l’agricoltura di sussistenza. A partire dagli anni 80,
inoltre, la strategia di queste imprese subì una nuova profonda
trasformazione. I sempre più elevati investimenti nella ricerca,
l’integrazione crescente fra le stesse tecnologie e fra settori
economici e ancora l’accorciamento della vita tecnologica dei
prodotti hanno posto le imprese di fronte a nuove emergenti
esigenze. Alla strategia tradizionale tesa a internalizzare
nell’impresa gran parte delle funzioni è andata sostituendosi a una
nuova forma di comportamento, fondata sul perseguimento di
alleanze e stipulazione di accordi di cooperazione con altri soggetti
spesso concorrenti in svariate parti del globo, con la conseguenza
di condurre alla formazione di reti più o meno complesse che si
modificano costantemente in ragione del mutevole scenario
internazionale.

7.5.2 Manovre e relazioni non competitive

Lo sviluppo di relazioni non competitive di diversa natura


modificano alla radice le strutture organizzative del passato:

 acquisizioni, in cui le unità acquisite conservano una propria


individualità giuridico-formale. Gli obiettivi riguardano il
raggiungimento di un miglior posizionamento sui mercati
internazionali;
 Joint ventures e accordi di cooperazione fra imprese
autonome in funzione di specifici progetti. Gli obiettivi sono la
distribuzione dei rischi, la ricerca di sinergie nella produzione
di conoscenza e l’aggiramento di barriere politico-culturali.
 Alleanze strategiche, che hanno rappresentato la novità più
diffusa e radicale rispetto ai comportamenti tipici delle imprese
multinazionali. Gli accordi collaborativi tendono a favorire la
ricerca di complementarietà e quindi di vantaggi competitivi fra
imprese radicate in aree continentali e culturali differenti, e più
in particolare, nelle tre grandi aree del mondo industrializzato:
la Triade Stati Uniti, Europa, Asia orientale.

7.5.3 Nuove frontiere organizzative

Le relazioni fra centro e periferia del sistema impresa sono


rappresentate come relazioni di potere. All’impresa si impone di
rendere economica la crescente complessità ambientale. Ciò segna
un definitivo spartiacque fra la logica accentratrice della vecchia
corporation e una logica interattiva fondata sulla condivisione della
conoscenza e la divisione del lavoro fra soggetti cooperativi.
Possedendo confini indistinti e trasformabili, l’impresa globale
tenderà a penetrare e sfruttare lo spazio in cooperazione con altre
imprese, anziché isolatamente. La rete è il concetto unificante che
costituisce l’idea della grande impresa e della struttura
organizzativa autosufficiente con una visione che accoglie poli
molteplici fra i quali collocare un più o meno ampio spettro di
interazioni cooperative.

7.6 Reti di impresa

Nel quadro di un organizzazione d’impresa intesa come sistema


aperto, si assumeva che questa ricevesse dal proprio ambiente
materiali e informazioni che trasformava e restituiva sotto forma di
output. Nella flessibilità dell’organizzazione vi sono due punti
centrali:

 L’articolazione crescente che tende ad assumere


l’organizzazione in rapporto ai mercati di destinazione dei
prodotti;
 l’attivazione di esternalità nei confronti di altre imprese e
soggetti con i quali si persegue una strategia comune di
concezione e di realizzazione del prodotto.

Il primo punto chiarisce la transizione da un sistema in cui l’offerta


del prodotto era dominante sulla domanda a un altro, in cui la
dinamica delle forze concorrenziali, la globalizzazione e le
fluttuazioni congiunturali determinano la crescente segmentazione
dei prodotti richiesti dai mercati. Sotto il secondo aspetto, la messa
in comune di conoscenze specifiche valorizza come già sappiamo
le potenzialità dei singoli membri del sistema, determinando la
generazione di sinergia di rete. Il concetto di coevoluzione tra
impresa e ambiente definisce il passaggio dal organizzazione
integrata e gerarchica a un’organizzazione fondata sullo sviluppo di
una capacità relazionale che consenta all’impresa stessa di
individuare, accendere e sfruttare risorse situate all’esterno di essa.

CAPITOLO 8: L’ECONOMIA AL PLURALE


La geografia dell’impresa possedeva una precisa dimensione
storica. La tendenza verso la crescita della grande impresa
multinazionale è la conseguenza della crescente influenza
nell’economia mondiale. Questo modello determinava l’ideologia di
uno sviluppo capace di assimilare l’ambiente esterno ad essa,
integrare e controllare lo spazio nella sua struttura ed esportare la
propria “razionalità”. Le economie regionali/nazionali erano le sole
capaci di strutturare la produzione, presiedere alla diffusione della
tecnologia e attivare relazioni sociali e spaziali. I caratteri e le
specificità territoriali rientravano nello schema teorico come
ostacolo alla diffusione del modello “migliore”. Con la fine degli anni
settanta si chiudevano gli anni segnati dall’ideologia di uno sviluppo
legato all’impresa di grandi dimensioni.

8.1 Il divenire della storia

L’accresciuta centralità della piccola e media impresa sembrò


annunciare il sorgere di una nuova era nel processo di sviluppo del
capitalismo industriale. Infatti, l’instabilità dei mercati aveva messo
in evidenza la debolezza del modello della grande impresa,
caratterizzata dall’aumento dell’instabilità nei mercati, dalla
sospensione della convertibilità del dollaro in oro, dalla sospensione
dei cambi fissi e dalla crisi petrolifera. In alcune regioni i sistemi di
piccola impresa erano stati i soli a creare nuove opportunità
lavorative e si affermarono sistemi regionali di successo
(orologi,arredamento,meccanica..) Con gli anni ottanta,
parallelamente alla nuova fase espansiva, si avvertì un ritorno al
passato dando vitalità al modello della corporation. Allo stesso
tempo però il modello fordista (linearità, prevedibilità e immutabilità)
venne sostituito da un universo complesso, non prevedibile, fatto di
intrecci e sovrapposizioni.

8.2 Soggetti e luoghi

Si è cercato di capire le ragioni per cui differenti segmenti delle


produzione possono assumere assetti organizzativi differenti,
concorrendo in modi e tempi diversi dalla realizzazione del
capitalismo stesso. Nel nuovo contesto, la spiegazione dei
fenomeni economici emergenti non era più soddisfacente, infatti,
ogni sistema economico possiede innumerevoli scomposizioni e
discontinuità che non sono riconducibili al dualismo tra grande e
piccola impresa, tra settori avanzati e settori obsoleti.
8.2.1 Oltre il dualismo industriale: l’economia segmentata

Secondo Berger e Piore, dualismo non significa che una società


debba necessariamente essere divisa in due comparti autonomi e
discontinui, ma che è divisa in segmenti e non è organizzata in
modo continuo. A loro volta, Taylor e Thrift, propongono
un’alternativa con lo scopo di pervenire a nuovo schema di
riferimento nel quale l’articolazione del sistema industriale si spiega
in ragione dei suoi caratteri storici. I fatti che irruppero allora sulla
scena non possono essere spiegati con eventi limitati a singoli
paesi o settori produttivi ma assumono un significato più generale:

 La crescente segmentazione e variabilità della domanda di


mercato, mette in discussione i criteri di efficienza dell’impresa
della seconda rivoluzione industriale e pone la piccola impresa
in posizione di vantaggio relativo;
 Lo sviluppo tecnologico: si modifica radicalmente il nesso fra
dimensione e produttività. I processi innovativi sempre più
complessi assegnano una funzione centrale alla piccola
impresa;
 La nuova dinamica del mercato del lavoro costituisce
l’aumento dei livelli salariali e la crescente rigidità nella
gestione del lavoro incentivano strategie di decentramento
produttivo e territoriale. La segmentazione del mercato del
lavoro rappresenta l’ingresso sul mercato lavorativo di
popolazione giovane e femminile.
I caratteri della piccola impresa si deducono sovrapponendo alcune
connotazioni qualitative come le relazioni con l’ambiente in cui
essa si trova ad operare. Tutto questo ha rappresentato un
fondamentale punto di svolta, dove la piccola impresa era un
aspetto fondativo del modo in cui una società si organizza e
produce.

8.2.2 Decentramento produttivo ed economia “periferica”

Secondo le tesi del decentramento produttivo i sistemi di piccola e


media impresa erano l’effetto al conseguente decentramento di
parte della produzione in aree periferiche legate alla saturazione
delle aree di più antica industrializzazione. Al contrario di quanto si
verificò in altri paesi (Francia, Giappone) crebbe la competitività dei
settori dell’economia periferica, sia tradizionali che moderni
(macchine utensili, carpenteria metallica, ceramica, abbigliamento).
È stata evidenziata la specificità del rapporto capitale-lavoro. I due
poli sono rappresentati da una piccola e media borghesia
imprenditrice e da una classe operaia dispersa in una miriade di
unità di piccola dimensione con la presenza di attività lavorative a
domicilio. Un’altra fondamentale caratterizzazione del modello:
organizzazione territoriale peculiare fondata su un fitto reticolo di
piccoli e medi centri che hanno favorito la diffusione delle funzioni e
dei valori urbani sul territorio (artigianato, commercio, attività
creditizie,culturali) e innescato un rapporto fra città e campagna
caratterizzato da fitti interscambi di conoscenze e popolazione
(concetto di campagna urbanizzata 1989). Nella cultura positiva del
lavoro l’azienda familiare sviluppa al suo interno proprie capacità
imprenditoriali. La famiglia allargata rimane il centro di decisioni e
funzioni economiche e sociali, è di origine familiare lo stesso
capitale investito nelle nuove attività manifatturiere emergenti.
8.2.3 La lezione della storia: l’emergenza di nuovi paradigmi
organizzativi
L’affermazione della piccola impresa costituisce una e vera e
propria rottura nel processo di sviluppo delle economie occidentali,
la quale inaugura l’affermazione di un nuovo regime di produzione
flessibile. Le ragioni del successo della piccola impresa non sono
colte in una dimensione congiunturale o contingente, ma come
l’affermazione di un nuovo paradigma economico che si sostituisce
alle logiche industria liste che avevano assicurato, in passato, la
formazione e il consolidamento dell’impresa di grandi dimensioni. Il
regime di specializzazione flessibile restituisce competitività alla
produzione di beni non standardizzati e all’organizzazione della
produzione basata su piccole e piccolissime unità produttive. Lo
sviluppo tecnologico costituisce un’attività continuativa, realizzabile
mediante la cooperazione fra diversi soggetti. Il nuovo regime si
concretizzerebbe in alcune configurazioni ideali:

 Distretti industriali, caratterizzati dalla compresenza di una


moltitudine di piccole imprese legate fra loro da un complesso
sistema di competizione e cooperazione, specializzate nella
produzione di beni di consumo per la casa e la persona,
insieme ai relativi macchinari per produrli
 Complessi produttivi di eccellenza tecnologica fondati
sull’interazione sinergica fra molteplici imprese e altri soggetti
votati alla produzione di tecnologia e conoscenza applicabile a
un sistema produttivo strutturalmente flessibile.
 Fenomeni di scomposizione di grandi imprese in unità di
dimensione più modesta, in cui la vecchia impresa conserva la
funzione organizzativa, pur delegando ad altri soggetti, spesso
finanziariamente autonomi, ruoli che in precedenza venivano
mantenuti accentrati.

Ciò che caratterizza il nuovo regime di specializzazione flessibile è


un sistema produttivo costituito da piccole e medie imprese,
altamente specializzate e legate fra loro da una più o meno fitta rete
di relazioni mercantili contrapponendosi per questo ai sistemi
d’impresa di tipo gerarchico. La nuova via dello sviluppo industriale
riaffermerebbe il primato delle economie locali che già
rappresentavano la forma organizzativa della produzione industriale
prima di venire scompaginate dalla produzione di massa e da una
cultura industriale omologante. I nuovi spazi industriali flessibili
condividerebbero tre caratteristiche di fondo: la continua
modificazione del prodotto, la flessibilità tecnologica, la presenza di
strutture istituzionali a diretto sostegno dell’attività innovativa e di
regolazione delle relazioni lavorative. Proponendo la
specializzazione flessibile come un modello generale alternativo al
vecchio modello di organizzazione della produzione, destinato a
diffondersi e a pervadere il sistema, si finisce per celarne la
superiore articolazione, dove più modelli possono coesistere senza
escludersi vicendevolmente. Infatti non è ricorrendo a
un’interpretazione deterministica che si può rispondere alle
domande poste dall’incalzare dei problemi pratici e ideali.
8.3 Interpretazioni a confronto

Il paradigma dello sviluppo locale è capace di modificare alla radice


la lettura del rapporto tra fatti economici e territoriali. Le teorie (e le
ideologie) dello sviluppo locale sono sempre state intrappolate tra
l’aspirazione a delineare nuovi mo(n)di di produzione alternativi al
predominio del grande capitale internazionalizzato e il giocare un
ruolo ancillare e strumentale ai grandi discorsi sul neo-liberismo
globalizzato. Gli strumenti teorici cui geografi ed economisti non
ortodossi fecero inizialmente ricorso per spiegare il nuovo ordine
spaziale della produzione erano di matrice neoclassica e quindi
economicamente ortodosse.

8.3.1 Costi di transazione e industrializzazione geografica

Il meccanismo dei costi di transazione è lo strumento per valutare il


vantaggio derivante dall’adozione di quella forma organizzativa che
consente una gestione economicamente più efficiente della
produzione. L’impresa viene intesa come un sistema di transazioni
economiche (a) interne, ovvero governate da una logica
manageriale e riferite alla divisione del lavoro fra gruppi funzionali
diversi, e (b) esterne, relative allo scambio con altre imprese e rette
da una logica di mercato. Fra le due alternative, l’impresa, opterà
per quella che incide in misura inferiore sui costi, essendo alla
ricerca della massimizzazione dei profitti. La produzione del bene
addizionale implica un ampliamento relativo delle proprie strutture,
l’espansione proseguirà sin quando i costi sostenuti per organizzare
una transazione interna uguaglieranno quelli necessari per
realizzare la stessa transazione sul mercato.

L’organizzazione della produzione si articolerà fra due concetti:

 Integrazione verticale, un’organizzazione del processo


produttivo realizzato da più unità operanti all’interno di una
stessa impresa.
 Disintegrazione verticale, riferita ad un processo produttivo
realizzato da più impianti separati e indipendenti.

Allo scopo di ridurre il rischio e l’incertezza, le imprese sviluppano


molteplici reti relazionali e favoriscono la formazione di un tessuto
di cooperazione (o divisione sociale del lavoro) fra unità sempre più
specializzate. Per far fronte ai rischi connessi con la variabilità della
domanda, le stesse imprese, tendono a sviluppare intense relazioni
orizzontali, ovvero acquistare da altre imprese quei prodotti o parti
di prodotti per i quali il livello di produzione non può essere
stabilizzato nel medio e nel lungo periodo. Il complesso produttivo
verticalmente disintegrato è la forma organizzativa territoriale
elementare attorno cui ruota la dinamica di un sistema industriale
flessibile. Agglomerazione geografica delle imprese e divisione
sociale del lavoro si rafforzano vicendevolmente: la prima,
riducendo i costi di transazione esterna fra le imprese, favorisce la
divisione del lavoro; la moltiplicazione delle relazioni fra imprese, è
all’origine dell’addensarsi dell’agglomerazione. In questo circolo
virtuoso si ritroverebbero i fondamenti di un’organizzazione
produttiva alternativa rispetto a quella caratterizzante la rigidità dei
sistemi di produzione di massa. L’industrializzazione delle tecniche
di produzione flessibile, la tendenziale globalizzazione dei processi
economici, le nuove condizioni di competitività dei mercati,
sarebbero all’origine di una riorganizzazione profonda delle forme di
produzione e circolazione che riconsegnano ai sistemi produttivi
localizzati funzioni e vitalità che apparivano scomparse nell’era
della corporation fordista.

8.3.2 Le economie esterne marshalliane: il distretto industriale fra


modernità e tradizione

Una via diversa verso la comprensione dei processi di formazione


dei nuovi sistemi produttivi locali ha le sue radici nella nell’opera
dell’economista inglese Marshall. In tutti i paesi industrializzati lo
sviluppo della piccola impresa non avviene unicamente in seguito a
una dinamica dettata da meccanismi di costo e mercantili, bensì in
ragione di una precisa logica territoriale. A fondamento di questa
prospettiva sta il concetto di economie esterne locali la cui scoperta
va a Marshall. Questi non trascura le economie nella produzione
che derivano dalle risorse, dall’organizzazione interna e
dall’efficienza nella gestione dell’impresa, e che perciò ricadono
sotto il suo diretto controllo. Egli introduce una seconda fonte di
economie, le quali dipendono dalle relazioni sociali di produzione
che si formano al di fuori dello stabilimento, all’interno del territorio
che lo comprende (economie esterne). La formazione di grappoli di
piccole imprese si realizza in stretta relazione con il contesto socio
economico caratterizzato da condizioni storiche che spiegano e
descrivono una organizzazione sociale, un mercato del lavoro, un
sistema di relazioni tecniche e produttive fra gli attori locali. Alla
base del concetto marshalliano di economie esterne di
localizzazione si trovano i vantaggi derivanti dalla concentrazione
territoriale e dalla specializzazione che promuovono:

 La riproduzione delle competenze (dei saper fare)


 La diffusione della conoscenza
 Lo sviluppo di attività sussidiarie, sia nella manifattura che nei
servizi
 La formazione di un mercato del lavoro specializzato
 Lo sviluppo di industrie complementari

L’insieme delle caratteristiche sociali e produttive che costituiscono


il sistema locale Marshalliano si compendiano nell’espressione di
atmosfera industriale, che lo qualifica come sistema sociale
cognitivo. Il distretto industriale si configura come un sistema
caratterizzato da compresenza attiva di una comunità di persone è
un’industria costituita da un insieme di piccole imprese indipendenti
specializzate nelle diverse fasi dello stesso processo produttivo: da
un lato, la comunità esercita una funzione sull’organizzazione della
produzione che discende dalla sua cultura sociale; dall’altro lato
l’organizzazione della produzione si contestualizza in piccole e
medie imprese indipendenti connesse fra loro da reti di transazione.
Il riferimento non è più l’impresa quale organizzazione di governo
dell’economia, ma i processi formativi delle imprese stesse, i quali
derivano da comportamenti collettivi che si esprimono sia
internamente, sia esternamente al mercato. Lo schema teorico del
distretto industriale, introdotto da Marshall all’inizio del 900
spiegava la possibilità che la produzione possa prevedere forme
alternative di organizzazione, ritrovando un riscontro empirico nei
raggruppamenti manifatturieri il quale resistevano e coesistevano
alla produzione su larga scala delle grandi imprese. La formazione
dei distretti industriali prevede un processo di lunga durata fondata
su apprendimento collettivo. Nell’ipotesi marshalliana si pongono
quindi due punti centrali:

 A fondamento dell’evoluzione del sistema risiede la


conoscenza
 in secondo luogo, la concentrazione delle imprese in una
particolare area consente di sviluppare un effettiva
organizzazione, data da un intreccio di relazioni tra gli attori
della produzione
La prossimità geografica consentirebbe di combinare insieme le
esternalità economiche e le esternalità socioculturali. L’introduzione
del concetto di sistema locale pone come centrale la
consapevolezza fra i membri della comunità di persone che
condividono uno stesso sistema di valori e di consuetudine,
consentendo l’apprendimento collettivo di conoscenze e
organizzazione.

8.4 La sintesi locale

Trascendendo la singolarità dei diversi schemi di interpretazione


era possibile mettere a fuoco argomentazioni teoriche ed empiriche
più ampie:

 il sistema territoriale (regionale, locale) in quanto fondamento


dell’organizzazione produttiva che era assente nella tradizione
dell’economia e delle scienze locali in genere;
 l’ampio dibattito sui sistemi locali ha contribuito a gettare le
basi per una profonda revisione dei criteri dell’analisi
economica e sociale, contribuendo a incrinare molte certezze
su cui giaceva la teoria economica convenzionale;
 questo modo di concepire i rapporti tra impresa e ambiente
locale porta a ridefinire il problema della dinamica competitiva
sia della grande sia della piccola impresa. Il vantaggio
competitivo si acquisisce mediante una gestione più efficace
delle risorse locali, per cui quella che va affermandosi è
un’organizzazione d’impresa in grado di interagire e co-
evolvere con l’ambiente locale.

Due dimensioni ricorrenti di sviluppo locale: la dimensione


patrimoniale: i processi di sviluppo locale attingono a una
sedimentazione di fattori materiali (ambiente naturale, beni culturali,
risorse fisiche) e immateriali (patrimonio culturale, valori, istituzioni,
competenze, tradizioni) che viene attivata, trasformata e utilizzata
quale insieme di risorse per l’innesco e il mantenimento dei
processi di sviluppo. La seconda è la dimensione relazionale:
ovvero la capacità degli attori locali di costruire collettivamente
rappresentazioni, scenari, obiettivi e azioni che, a partire dal
patrimonio sedimentato, definiscono i modi, storicamente e
geograficamente dati, dello sviluppo.

8.5 Lo sviluppo locale alla prova dei fatti

Le teorie e le fasi dello sviluppo locale vengono sottoposte a una


duplice critica: la prima di natura naturale, la seconda politica e
sociale.

Alcune componenti dello scenario economico e produttivo che è


andato emergendo negli ultimi lustri:

 La concentrazione della capacità produttiva ha teso a


rafforzarsi, nel senso che la grande impresa (multinazionale,
globale) è andata riorganizzandosi sistematicamente;
 molte esperienze considerate paradigmatiche di sviluppo
locale hanno vissuto un prolungato periodo di crisi;
 si sono affermati casi di successo.

Si è aperta un’epoca nuova nello sviluppo del capitalismo,


caratterizzata dalla creazione di conoscenza e da un continuo
apprendimento. È possibile individuare alcune profonde
trasformazioni che hanno coinvolto il sistema delle imprese,
modificando significativamente il quadro con cui ci si confrontava:

 L’affermarsi di un elevato livello di integrazione verticale, con


la conseguenza di ridurre significativamente le relazioni inter-
impresa all’interno del territorio locale;
 in numerosi casi, all’integrazione verticale si accompagna la
forte personalizzazione delle imprese leader nel soggetto
imprenditore, carismatico e innovativo, che concentra in sé
conoscenze e competenze che difficilmente possono essere
diffuse e riprodotte nel territorio;
 l’elevato grado di specializzazione delle imprese leader finisce
spesso con l’indebolire i legami di filiera con le altre imprese
dell’agglomerazione;
 mentre le imprese di successo sono sempre più specializzate,
i contesti territoriali sono per controverso plurispecializzati e
quindi non più identificabili con la sola protezione che li
caratterizzava;
 la delocalizzazione di numerosi fasi del processo produttivo ha
prodotto la riduzione del numero delle imprese operanti nei
sistemi distrettuali.

I modelli consolidati di sistemi produttivi locali assistono oggi


all’affermarsi di una forbice tra le imprese leader e i loro fornitori.
Nel momento in cui si indeboliscono questi legami incentrati sulla
fornitura si allenta anche l’insieme di valori che legano il sistema
produttivo al suo ristretto territorio di appartenenza. Il quadro è
dunque quello di una crescente apertura dei sistemi locali.

CAPITOLO 9: NUOVE ECONOMIE, NUOVE GEOGRAFIE

I cambiamenti visti fino ad ora hanno aperto nuove modalità di


interpretare lo sviluppo, che rispondono, a razionalità interne ai
territori e non a sollecitazioni e impulsi esterni. È utile recuperare
l’approccio sistemico cioè basato non sull’azione della singola
impresa, ma sul loro comportamento collettivo.

9.1 Sistemi, reti e relazioni evolutive

Le relazioni di socializzazione non sono rappresentabili in termini


puramente funzionali, ma richiedono strumenti che consentano di
interpretare l’organizzazione del sistema nei termini di un processo
di strutturazione dinamica. Per questo è stato introdotto il concetto
di rete. Il quadro in cui ci si muove è esplicitamente sistemico: la
rete interpreta una pluralità di relazioni tra soggetti e il singolo attore
non si annulla nella rete, ma co-evolve con essa in un ambiente
abitato da molteplici soggetti. Tramite la propria organizzazione il
sistema locale si presenta come dotato di una propria identità e
autonomia funzionale. L’insieme delle relazioni ne determina
l’organizzazione e l’autonomia relativa nei confronti delle
perturbazioni ambientali. I fattori che costituiscono l’organizzazione
sono:

 Scambio di informazioni (finanziarie, fiscali, commerciali,


scientifiche e tecnologiche), che si realizzano sia nell’ambito
delle regole del mercato (mercantili), sia al di fuori di esse (non
mercantili);
 Lo sviluppo di una cultura tecnica, è ciò che moltiplica il
numero dei soggetti orientati all’innovazione tecnologica e
organizzativa. La relazione a rete agevola la condivisione di
informazioni e quindi è a fondamento dell’apprendimento
collettivo.

L’impresa costituisce essa stessa un sistema la cui rete connette


tra loro i vari stabilimenti, i centri direzionali, i laboratori di ricerca
ecc. la prossimità territoriale fra i soggetti può non rappresentare
una dimensione esplicativa. La rete sarà trans territoriale,
involgente cioè relazioni cooperative fra unità della stessa impresa
o fra imprese diverse ma fra loro interagenti. Nell’impresa
multinazionale, ogni sua unità produttiva opera in condizioni
localizzate, generando relazioni più o meno fitte con altri soggetti
presenti nel sistema locale. I due livelli di rappresentazione del
sistema globale e locale non sono scindibili, sebbene diversi tra
loro. Una rete globale è un’interazione fra sistemi locali. Si afferma
una logica relazionale fra imprese e contesto, fondata su interazioni
tecniche, organizzative e comunicative.

9.2 Il tempo dei territori


9.2.1 Economia e cultura

L’importanza della cultura in seno all’attività economica si


esprime in termini di attitudini e comportamenti contenuti nelle
istituzioni e nelle forme di mediazione dei processi politici. La
dimensione culturale dell’attività economica ha superato i simboli
e i valori tradizionali più o meno estranei alle fenomenologie
economiche. La dimensione culturale sta alla base dei concetti
fondamentali di fiducia, cooperazione e relazioni a rete tra
soggetti diversi.
In contrasto con l’idea tradizionale, oggi il territorio è considerato
come un soggetto collettivo interpretato nei termini di una
costruzione volontaristica. La scala locale non è determinata a
priori, ma tra le relazioni soggetto e luogo: da un lato, il sistema
territoriale (locale) contribuisce la base della presenza simultanea
dei soggetti e, dall’altro, acquista autonomia e una specificità
proprie nel corso dell’azione. Con la transizione post- fordista si
sono iniziate a privilegiare le relazioni di collaborazione,
riconoscendo la dimensione culturale dell’attività economica nelle
sue tre fondamentali componenti della fiducia, della cooperazione
e delle relazioni sociali e di scambio a rete. Il dibattito sulle
componenti non economiche dello sviluppo (territoriale) ha
consentito di sminuire molte certezze sulle quali si fondava la
spiegazione nelle scienze sociali, così come la separazione
positivistica tra le discipline. La prossimità geografica ha
importanza se costituisce una condizione per la creazione di una
comunità di attori economici e sociali, fondata sulla condivisione
di valori e norme, sulla comunità delle relazioni interpersonali,
sulla conoscenza e la fiducia.

9.2.2 La svolta relazionale: cambiamenti nelle realtà produttive e di


consumo

La relazione che lega economia e cultura ha portato una svolta


relazionale che ha coinvolto la geografia anglo- americana. I
caratteri essenziali sono:
 Il decentramento produttivo, la disintegrazione verticale dei
cicli produttivi, la realizzazione di una pluralità di accordi non
concorrenziali fra imprese diverse vengono descritto come i
segni di un cambiamento profondo e irreversibile
nell’organizzazione industriale e contemporanea. I quadri di
riferimento economico sono dati da una serie varia (nello
spazio) e variabile (nel tempo) di risorse, mercati e
conoscenze tecnologiche, che trascende le ristrette
delimitazioni nazionali o continentali.

 Il problema della competitività assume connotati nuovi e


significati, con effetti particolari sulla dimensione territoriale. Il
problema della competitività dipende dalla capacità di creare,
accumulare e impiegare la conoscenza più rapidamente dei
loro concorrenti. È la creazione di conoscenza che
rappresenta il grande fattore di localizzazione, la fonte del
vantaggio competitivo nell’economia globalizzata
contemporanea.

 La formazione di reti globali di impresa indebolisce la sovranità


economica degli stati- nazione e rafforza la specializzazione
regionale nelle attività concorrenziali. Per le economie
regionali, se una soluzione esiste, deve essere ricercata nella
capacità di coordinamento tra produttori, consumatori,
istituzioni e altri attori locali.

Distinzione tra informazione e conoscenza: la prima può essere


codificata e possiede significati e interpretazioni molto precisi; la
conoscenza, invece, è difficilmente codificabile, dipendendo dai
fattori che facilitano il contatto interpersonale fra gli attori. All’interno
delle reti locali la conoscenza tacita diventa una risorsa collettiva
per il tramite di un processo di socializzazione.
9.2.3 Evoluzione e sistemi di apprendimento

Con il termine innovazione intendiamo l’introduzione e la diffusione


di nuovi prodotti e nuove soluzioni tecnologiche e la comparsa e il
consolidamento di nuove forme organizzative. La prospettiva è
esplicitamente sistematica. L’impresa non opera solamente, ma
interagisce più o meno strettamente con gli altri organismi (imprese
e organizzazioni); ne discende che l’innovazione e il cambiamento
non sono solo determinanti dagli elementi presenti nel sistema, ma
soprattutto all’attivarsi di relazioni fra questi. L’innovazione appare
come un processo territorialmente radicato. Un sistema innovativo
è inteso in termini di processo di apprendimento collettivo. Il
cambiamento tecnologico non può essere assunto come un fattore
esogeno che emerge al di fuori della sua sfera sociale e non tiene
conto della relazione causale tra tecnologia e crescita economica.
L’equilibrio del sistema viene sostituito da un meccanismo di
selezione che accresce l’importanza di certi elementi e ne riduce
quella di altri. Su queste basi si è sviluppato un significativo corpo di
lettura avente per oggetto la scala ideale di individuazione di un
sistema tecnologico, dal livello nazionale a quello regionale e
locale. L’approccio in termini evolutivi possiede un valore
metodologico presentandosi come una sorta di riferimento
concettuale e non già come una teoria formale, all’approccio stesso
possiamo trattenere due considerazioni di metodo:

 La prima fa riferimento alla tesi secondo cui non è possibile


identificare un unico modello innovativo, dal momento che
ciascuno di essi risulta, al contrario, essenzialmente sui
generis;
 La seconda introduce sistematicamente nel pensiero
economico un’etica secondo la quale non è possibile pervenire
a una rappresentazione compiuta della realtà osservata.

9.2.4 La prospettiva istituzionalista


Il pensiero ortodosso non necessitava del concetto di istituzione. Le
regole del gioco venivano descritte in termini di utilità e di
massimizzazione del profitto. La sola istituzione economica e
sociale esistente era il mercato di tipo competitivo, all’interno del
quale tutti gli agenti erano parametricamente isolati.
L’istituzionalismo economico offre una versione evolutiva
dell’economia, nella quale le relazioni non sono organizzate
secondo i principi universali del marginalismo e del neoclassicismo,
ma in modi e forme storicamente e geograficamente definiti. Proprio
perché interattivo e cumulativo, un processo di sviluppo economico
non può realizzarsi al di fuori delle istituzioni.

Le istituzioni sono forme di organizzazione delle relazioni attorno


alle quali c’è una certa forma di consenso sociale e la cui validità
non si consuma in ognuna delle relazioni (nel mercato), ma queste
sono strumento per organizzarne di ulteriori. Le istituzioni possono
avere forme e contenuti diversi. Possono essere formali (contratto)
o informali (abitudini, costumi). Gli organismi concreti sono
considerati come delle istituzioni, così come nello stesso concetto
vengono spesso inclusi i costumi, le routine, le leggi formali ecc. Gli
economisti istituzionali adottano un significato sociologico di
istituzioni, che comprendono le routine, il senso morale, le attese
condivise ecc., le quali agevolano il coordinamento fra i soggetti,
ma non lo influenzano direttamente. In generale, si tratta di
elementi che forniscono le regole del gioco, guidando i
comportamenti degli agenti individuali nel quadro di un contesto
determinato. Le istituzioni sono diverse dalle organizzazioni:
agiscono upstream in rapporto al coordinamento che si produce fra
gli attori di un sistema, rappresentano uno spazio comune di
rappresentazione, di modalità di comportamento e modelli di
pensiero ed azione ai quali gli agenti aderiscono. Se svariate
istituzioni agiscono a livello trans- territoriale, danno origine a un
insieme di norme, forme di comportamento e tradizioni che
influenzano la comunità stessa, e fanno riferimento a fattori latenti.
Apportano al sistema una stabilità nel tempo e una flessività la
quale permette di riprodursi e reagire, senza disgregarsi, nei
confronti di perturbazioni provenienti dall’esterno; il concetto di
flessività conferisce al sistema la capacità di apprendere
apprendendo, differenziandolo dagli altri sistemi. La competitività di
un sistema territoriale è riconducibile al modo in cui una
organizzazione è capace di far meglio di altre, includendovi la
capacità di rinnovarsi, crescere e adattare le proprie competenze
nel tempo. La prossimità spaziale da sola non è quindi una
condizione sufficiente poiché si gioca sulla capacità di un contesto
territoriale di riprodurre fattori produzione specifici non disponibili o
maggiormente costosi se dovessero passare attraverso il mercato.
L’importanza del coordinamento attraverso il mercato afferma che il
territorio costituisce un’entità che coniuga la prossimità
organizzativa con la prossimità spaziale. La competitività territoriale
è riconducibile alla presenza di attivi e risorse specifiche le quali
non possono rivaleggiare direttamente sul mercato. Dunque sono le
istituzioni a operare una specificazione delle risorse organizzative
locali, conferendo identità al sistema.
9.2.5 Territorialità emergenti

Bisogna tenere conto dei processi di concentrazione territoriale in


un’economia caratterizzata dalla liberalizzazione dei mercati
finanziari e dalla tendenza alla globalizzazione del campo d’azione
delle imprese. Il modello fordista che pur approfondì ulteriormente
la differenziazione regionale, si accompagnò a una certa qual
libertà ubicazionale. Ne consegue che le economie funzionali di
localizzazione (di polarizzazione), generate della forza catalizzatrice
della grande fabbrica fossero relativamente indipendenti
dall’ambiente socio culturale e istituzionale nel quale si consumava
il processo produttivo. Il razionale stava nella riscoperta delle
relazioni esterne che si sviluppano territorialmente, in quanto fattore
di cooperazione e di apprendimento collettivo. Lo sviluppo
territoriale, quindi, risponde ad un processo di mobilitazione di un
insieme di attori che definiscono una strategia coerente nei
confronti del contesto storico e culturale all’interno del quale
operano. Questa si fonda su un processo di specificazione, la
ricerca e la valorizzazione di risorse che permettono al sistema di
differenziarsi valorizzando condizioni umane, tecnologiche,
organizzative non agevolmente rinvenibili altrove. Quanto detto ,
porta alla distinzione fra due accezioni diverse di intendere il
territorio:

 Territorio dato: porzione di spazio assunta aprioristicamente e


avente caratteri oggettivi (un’area metropolitana, una regione
amministrativa ecc.) la quale costituisce un supporto all’azione
dei soggetti economici e istituzionali;
 Territorio costruito: l’esito di un processo attivato grazie
all’azione degli attori coinvolti

si tratta di concezioni diverse non escludibili l’una dall’altra, dal


momento che il territorio è a un tempo il contenuto e l’espressione
di un processo di trasformazione dei contenuti stessi, che possono
diventare risorse valorizzabili nel gioco economico e competitivo.

L’insieme di queste risorse viene definito nei termini di capitale


territoriale, con il quale si intende un insieme localizzato di beni
comuni, comprendendovi

 Condizioni e risorse dell’ambiente naturale, inclusa la


posizione geografica;
 Patrimonio storico- culturale, sia materiale (come i paesaggi, i
beni monumentali) che immateriale (la cultura, i saper fare);
 Capitale fisso accumulato (infrastrutture, impianti ecc.)
 Beni relazionali (capitale cognitivo, capitale sociale, capacità
istituzionale ecc.)

Le cui caratteristiche sono l’immobilità e la patrimonialità. Ne


consegue che il sistema territoriale non è un dato pezzo di territorio,
ma una serie di attitudini, esperienze pregresse e di precondizioni
soggettive o oggettive che rendono possibile e altamente probabile
la costruzione, in una certa area geografica, di un sistema
territoriale capace di contribuire autonomamente a obiettivi di
sviluppo. Si tratta di condizioni decisive di fronte alla crescente
competizione fra territori, che si accompagna a strategie sempre più
aggressive da parte delle stesse istituzioni.

9.3 Sistemi territoriali di creazione del valore


Il territorio appare come una precondizione allo sviluppo delle
attività economiche e nel contempo un fattore di riproduzione delle
diversità dei singoli sistemi. I soggetti economici non sono più
concepibili come dei sistemi autosufficienti dal punto di vista
economico e organizzativo.
Nella competizione globale, la diversità delle soluzioni strategiche
diventano il fondamento del vantaggio competitivo e lo strumento
per la produzione di valore economico.
La crescente espansione dell’impresa transnazionale si fonda su
una strategia volta alla scomposizione dell’impresa stessa in centri
flessibili e relativamente autonomi, ai quali sono spesso assegnate
funzioni produttive, cognitive e organizzative essenziali. Quindi, il
vantaggio competitivo si acquisisce mediante un’organizzazione
d’impresa culturalmente decentrata ed attraverso una gestione
delle risorse territoriali.
Un concetto significativo volto a dare sintesi alle tematiche emerse
sinora è quello di sistema territoriale di creazione del valore: con
questo concetto viene definito il rapporto tra territorio e processi
produttivi in esso insediati. Nella prospettiva dei sistemi territoriali di
creazione del valore la specializzazione settoriale, la propensione
all’export, la dimensione d’impresa ecc. sono semplicemente
elementi strutturali e in quanto tali contingenti. I processi di
apprendimento che identificano e contraddistinguono i diversi
sistemi territoriali: è questo elemento cognitivo che garantisce al
sistema una continuità nel tempo. La specializzazione è un
elemento della struttura in cui si concretizza nel tempo e nello
spazio un particolare processo di apprendimento.

9.4 Territori in competizione


L’occupazione di un ruolo decisivo è quello della competitività
territoriale, il quale dibattito ha portato alla conseguenza di
suscitare una varietà di interpretazioni e valutazioni difficili da
condensare coerentemente.
Ecco alcuni elementi chiave i quali sono in grado di gettare uno
squarcio di intelligibilità su altri fenomeni e processi:
 Il primo è che con la crescente internazionalizzazione della
produzione sia andata a frammentarsi la capacità produttiva di
molti paesi e regioni a industrializzazione antica. Secondo
Edith Penrose (1959) una regione o un’economia nazionale
deve fondare il proprio successo su capacità che altre regioni
o paesi non possiedono o non sono in grado di valorizzarle nel
più ampio scenario concorrenziale. Il problema della
competitività giace sulla capacità di creare, accumulare e
utilizzare la conoscenza meglio e più rapidamente di altri.
Cioè, sono la conoscenza prodotta e la capacità di produrla
che costituiscono un fenomeno dipendente dalla routine e
dalle pratiche radicate nei contesti territoriali e nelle imprese. È
questo il nuovo grande fattore localizzato nell’economia
globalizzata contemporanea, fonte primaria del vantaggio
competitivo dei paesi e delle regioni a elevato costo dei
tradizionali fattori di produzione.
 In secondo luogo i recenti processi di globalizzazione
dell’economia sono stati affiancata da una crescita dei flussi
internazionali di investimenti e di prodotti. Le diverse regioni e
paesi producono beni e servizi differenti impiegando processi
produttivi diversi tra loro. Ciò significa che la specializzazione
internazionale per prodotto è andata crescendo
sistematicamente, coinvolgendo soprattutto le economie del
mondo industrializzato.
La crescente specializzazione delle economie nazionali e
regionali non discende più dalle tradizionali economie di scala
nella produzione, ma dalla natura del prodotto immesso sui
mercati, dalla conoscenza necessaria per la sua realizzazione,
dal tipo di bisogni suscitati e soddisfatti, dalla capacità di
realizzare prodotti sempre più evoluti senza negare i tratti di
originalità.
 In queste condizioni, la possibilità di una regione di proporsi
con successo sui mercati internazionali discende da due
condizioni essenziali: la prima giace sulla capacità di
imprimere un’identità ai prodotti che essa propone,
differenziandoli da quelli dei concorrenti; la seconda risponde
al fatto che la ricerca di una soluzione ai problemi posti
dall’incalzare della competizione non si ritrova più nella ricerca
esogena della tecnologia o dei metodi di produzione migliori.
La soluzione, se c’è, deve essere cercata all’interno della
regione stessa, nella capacità di coordinamento fra produttori,
istituzioni e altri attori locali.
 Il processo di globalizzazione rafforza la posizione delle
economie regionali specializzate in attività economicamente
competitive. Perciò molti sistemi territoriali dinamici hanno
risposto alla crescente globalizzazione economica
promuovendo strategie di valorizzazione del proprio capitale
territoriale incentrate sul rafforzamento della loro area di
specializzazione. Ciò spiega la diffusione di strategie e scelte
politiche volte a promuovere e sostenere i sistemi
maggiormente dinamici presenti, cioè insiemi di attività fra loro
connesse e generici di valore economico.

Capitolo 10 Per concludere: territorio, società, ambiente

Con il richiamo a una filosofia meccanicistica, secondo Bacone,


Cartesio e Newton, la società, come la natura, funziona con gli
stessi criteri della macchina, la scienza moderna ha fondato la
ricerca delle leggi universali che governano il mondo su relazioni di
causa-effetto quantificabili e prevedibili, come lo è il funzionamento
della macchina. Nei primi anni del Novecento, quella concezione
della scienza è stata duramente contestata.
La moltiplicazione dei concetti venuti alla ribalta negli ultimi decenni
nelle scienze economico territoriali (sviluppo dal basso, milieu
tecnologici, sistemi locali di creazione del valore ecc.) spiega
l'incapacità dei modelli ortodossi di dare ragione delle forme nuove
e complesse di articolazione dei fenomeni umani ed economici nel
mondo in cui viviamo.
I ripensamenti significativi della capacità esplicativa del metodo
tradizionale hanno coinvolto il sapere filosofico, quello sociologico, il
pensiero politico e il pensiero economico. La polemica è stata
suscitata da esponenti di comunità scientifiche schierati contro le
premesse metodologiche accettate dalla maggioranza ortodossa. Il
dibattito ha avuto due fondamentali esiti: il primo è dato dalla
riscoperta della territorialità. Il livello locale di interpretazione dei
fatti economici è inteso come un ambiente complesso e riducibile
alle tradizionali categorie del sapere. Il secondo è la constatazione
che una realtà complessa sfugge alle regole della quantificazione e
dell'economicismo. Alcune delle categorie come il radicamento
territoriale, hanno messo alle strette la vecchia convinzione
secondo cui fosse possibile ricondurre la varietà dei fenomeni
economici e umani ha una spiegazione in termini semplici e
universali. Il problema ambientale ha messo a nudo come il nostro
modo di guardare il mondo lasciasse nell'ombra vaste aree di
ignoranza. Per la rappresentazione del mondo bisogna perseguire
una complementarietà delle conoscenze.

10.1 Lo sviluppo sostenibile

10.1.1 Una storia istituzionale


Con lo "sviluppo sostenibile" si vogliono conciliare due esigenze tra
loro apparentemente incompatibili: quelle dell'economia, coi suoi
vincoli di continua crescita del prodotto lordo materiale, da un lato,
e dall'altro quelle della salvaguardia e della conservazione
dell'ambiente e delle sue risorse a livello dell'intero pianeta. Fu
soprattutto nell'ultimo dopoguerra che si impose con prepotenza il
problema della percezione e della salvaguardia dell'ambiente e
delle sue risorse. La tematica ambientalistica fu allora fondata
sull'idea di una crescita esponenziale della popolazione e su quella
di una parallela incapacità della Terra di nutrire queste nuove
masse. Nel 1972 ebbe luogo a Stoccolma, la prima grande
conferenza internazionale delle Nazioni Unite sull'ambiente.
Quell'iniziativa attesa per decenni si rivelò una delusione: le
raccomandazioni per l'azione contenute nel documento conclusivo
della Conferenza si limitarono infatti ad auspicare la minimizzazione
dei possibili costi per la protezione dell'ambiente. Ciò nonostante,
quella conferenza costituì una pietra miliare nella presa di
coscienza del problema ambientale. Cominciò così a farsi strada la
tesi di un sistema-mondo sottoposto a una serie di vincoli comuni.
Nel 1980 venne pubblicato il Rapporto World Conservation Strategy
in cui si raccoglieva il pensiero di due decenni di ricerca sul
problema della conservazione della natura su scala globale. Quel
documento non voleva riunire in un rapporto organico i risultati delle
ricerche sino a quel momento realizzate e porre i fondamenti di un
approccio nuovo su cui fondare le linee di gestione degli ecosistemi
alle diverse scale da quella globale sino al singolo ecosistema
localizzato.
In esso si ritrova la più accettata definizione di sviluppo sostenibile,
uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza
compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i
propri, e si rinvengono alcuni presupposti che lasciarono una
traccia profonda nel dibattito ambientalista degli anni successivi:
l'interdipendenza fra le nazioni nella gestione di un problema che
assume dimensioni globali, il termine non scindibile fra ambiente e
sviluppo (la povertà e il sottosviluppo siano fra le principali cause
dei danni ambientali) infine il riconoscimento della centralità della
tecnologia e dell'organizzazione sociale nella definizione dei limiti
ambientali.
Il passo che unisce ambiente ed economia nei processi decisionali
è breve: la crescita economica è intesa come l'unica via percorribile
per combattere la povertà, e quindi perseguire insieme l'obiettivo
dello sviluppo e della salvaguardia dell'ambiente. Ma deve trattarsi
di una nuova forma di crescita sostenibile, ambientalmente attenta,
che sappia integrare sviluppo sociale sviluppo economico (Adams
1990).
Si idealizzava inoltre uno scenario irraggiungibile: la cooperazione e
il dialogo fra le nazioni quale strumento per intervenire nei flussi
finanziari, nel commercio internazionale, sulle innumerevoli
contraddizioni di un modello di sviluppo consolidato da decenni.
Negli anni successivi si moltiplicarono i tentativi di trasporre quelle
distanze sul piano politico-diplomatico che culminarono nel Vertice
della terra di Rio de Janeiro (giugno 1992), la Conferenza Mondiale
delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo.
Si rappresentarono molti dilemmi e contraddizioni che
caratterizzarono la politica ambientale di fine millennio. La sfida che
si è cercato di lanciare è quella di tradurre sul piano politico
operativo l'esito di un dibattito ormai trentennale:
l'ecoristrutturazione (delle economie avanzate, dei processi di
produzione, consumo e spostamento, delle stesse relazioni
internazionali).

10.1.2 Linguaggi tecnocratici e utopie ecocentriche


Il legame fra conoscenza ambientale e strategie di sviluppo che
iniziò a essere intessuto con la conferenza di Stoccolma è stato
fondativo della tematica dello sviluppo sostenibile. Una consolidata
distinzione ancor valida ai giorni nostri è quella proposta da
O'Riordan (1989), che colloca le diverse posizioni rispetto allo
sviluppo sostenibile lungo il continuum che separa le interpretazioni
tecnocratiche da quelle ecocentriche: le prime sono ispiratrici di un
approccio alla gestione e all'utilizzo delle risorse ambientali, nella
fissazione di standard di emissione di sostanze inquinanti; le
seconde, invece, possiedono radicati fondamenti etici ed
epistemologici.
ll problema ambientale è riconosciuto e introdotto nella pratica
politica. Il problema sarà pertanto la ricerca di un compromesso tra
crescita economica e ambiente, di cui sono appunto depositari i
gestori del potere economico e politico: è questa una posizione
sostanzialmente ottimistica (la tecnologia e lo sviluppo, si sostiene,
forniranno gli strumenti per dare soluzione ai problemi ambientali),
la quale ritrova i propri fondamenti teorici nei canoni della scienza
convenzionale.
Ci troviamo in presenza della riaffermazione di una concezione di
equilibrio, cui tenderebbe naturalmente il sistema economico.
Secondo questo modello di concepire la sostenibilità, le generazioni
future disporranno certamente di meno capitale naturale, tuttavia
riceveranno in eredità un volume di capitale creato dall'uomo di
gran lunga superiore, che permetterà loro di mantenere un
adeguato livello di vita.
Nel pensiero economico invece, l'uomo e i meccanismi economici
sono intesi come parte integrante e non separabile dell'ecosistema
globale, quindi soggetti alle sue leggi. Nel concetto di sviluppo
sostenibile si coagula la tradizione della scienza moderna.

10.2 Economia neoclassicistica ed economica dell’ambiente


Secondo l'interpretazione convenzionale, non esiste differenza tra il
termine di crescita e quello di sviluppo, esaurendosi quest'ultimo nel
primo. Lo sviluppo era inteso come un processo di
modernizzazione capace di riprodurre i valori dell'industrialismo e
dell'urbanizzazione.
Nella comunità degli economisti ortodossi il problema ambientale
non aveva intaccato, per decenni, la purezza neoclassica. La
natura era considerata come fonte inesauribile di risorse fisiche e
depositaria di quantità illimitate di sottoprodotti derivanti dall'attività
di produzione e di consumo, vale a dire inquinamenti e degrado
ecologico. L'ambiente viene assunto al pari di ogni altro fattore di
produzione, e come tale trasformabile da parte di un sistema
produttivo proiettato verso una crescita virtualmente illimitata e
volta, appunto, al costante superamento della frontiera economica e
tecnologica che delimita le capacità esistenti di prelevare
trasformare le risorse presenti nell'ambiente. Il concetto di sviluppo
viene inteso in termini quantitativi e fatto coincidere con la crescita
economica e la modernizzazione industriale, attribuendo a esso un
esplicito significato simbolico e ideologico.
Il problema ambientale più pressante era quello dell'inquinamento,
che aveva causato danni irreversibili e investito ambiti molteplici: le
acque interne, le piogge acide e l'inquinamento dei mari.
Sappiamo che i fondamenti della teoria neoclassica riposano su un
insieme di criteri di allocazione ottimale delle risorse, le quali
diventano oggetto di appropriazione e di consumo individuale.
Questi riferimenti sono sufficienti a spiegare come nel pensiero
economico ortodosso la presa in carico delle relazioni tra soggetti e
ambiente non potesse dare luogo se non ha una branca
relativamente autonoma il seno alla disciplina e praticata, peraltro,
ai margini dell'insegnamento. L'economia dell'ambiente si dà
l'obiettivo di definire le regole per un'adeguata gestione di queste
risorse.
Sul piano politico normativo si diffuse la definizione dei così detti
livelli ottimi di emissione e la definizione di strumenti di politica
ambientale costruite in ragione di criteri politici ed economici di
breve termine, e non, in base alle soglie da rispettare per la
conservazione e la riproduzione degli ecosistemi.
In questo senso, l'economia dell'ambiente possiede una
determinazione storica: essa iniziò a essere praticata a partire dai
primi anni '70 come parziale risposta ai fallimenti del mercato,
allorché si iniziarono a paventare i limiti ecologici allo sviluppo e si
capì come i danni ambientali si traducessero effettivamente i costi
per il sistema economico. Nel contempo non ci si allontanò
significativamente dai criteri ortodossi di interpretazione della
fenomenologia economica.

10.3 I linguaggi dell’ecologia

10.3.1 La scienza ecologica


Si distinguono due significati al termine ecologia: il primo fa
riferimento all'ecologia in quanto disciplina ufficiale praticata da una
comunità scientifica che tratta i fenomeni ambientali in un modo non
molto diverso da come potrebbero farlo le scienze ingegneristiche.
La scienza ecologica ha per oggetto sistemi in condizioni di
equilibrio o tendenti verso l'equilibrio. Il secondo significato rifiuta le
categorie riduzionistiche: essa accoglie ed è nel contempo
ispiratrice dei concetti fondativi della scienza contemporanea.
Come disciplina ufficiale l'ecologia non possiede uno statuto
scientifico ben definito, ma essa si pone all'intersezione tra scienze
della natura e scienze dell'uomo.
Il concetto di ambiente non sta ad indicare semplicemente un luogo
nel senso fisico del termine, bensì un insieme di caratteristiche che
si influenzano reciprocamente. Quindi l'oggetto di studio
dell'ecologia sono le modalità di interazione e di flusso energetico
tra i sottoinsiemi di un sistema ecologico. La rappresentazione
dell'ecosistema, deve trarre ispirazione dei circuiti elettrici e
comprenderà un diagramma composto da:
a) Una fonte energetica;
b) Un certo numero di livelli rappresentanti gli anelli trofici della
catena che lo strutturano;
c) Una rete di flussi energetici che lega le diverse componenti
dell'ecosistema: un processo interamente quantificabile in
termini di contabilità energetica.

10.3.2 Sui fondamenti della scienza ecologica


L’ecologia è dunque in senso pieno un concetto sistemico:
comprendere i meccanismi e il funzionamento del mondo, fa proprio
il carattere fondamentale di un ecosistema, che è appunto il
carattere sistemico. Nata in seno alle scienze biologiche l'ecologia è
quindi una vera e propria cultura della complessità.
Quattro punti fermi della concezione ecologica del mondo appaiono
di particolare importanza:
1) la realtà è vista come un olismo, per cui l'oggetto osservato è
un tutto le cui proprietà sono qualcosa di più e di diverso della
somma delle sue parti: ogni componente è connessa a tutto il
resto. Ciò rivoluziona i dogmi della scienza tradizionale,
secondo cui la scomposizione, riducendo il tutto in parti
sempre più piccole, è lo strumento per pervenire alla
conoscenza.
2) Il secondo punto riguarda l'incertezza a proposito
dell'evoluzione storica di un sistema. Esso non sarà quindi
rappresentabile come una macchina banale, prevedibile e
determinabile analiticamente, ma come una macchina non
banale, cioè capace di fornire risposte diverse e non
prevedibili.
3) Il terzo aspetto riguarda la ricorsività, ovvero il circuito di
interazione reciproca fra il tutto e le parti, per cui un
ecosistema, e un sistema sociale, non potranno essere studiati
separatamente. Così come ogni sistema co-evolve con gli altri
all'interno di un insieme superiore, l'idea di sviluppo applicata
al sistema che ci interessa andrà sostituita da quella di co-
sviluppo fra sistemi di diverso livello: società e ambiente sono
in continua evoluzione, quindi non è possibile assumere il
primo tralasciando il secondo.
4) Il quarto aspetto riguarda il carattere autopoietico dei sistemi, i
quali, sono in grado di trasformare la propria organizzazione
ridefinendo i propri confini rispetto all'ambiente esterno.

10.4 L’economia ecologica come scienza della complessità


La nuova scienza, in sostanza, è dominata dalla generale tendenza
ad assumere come obiettivo della conoscenza scientifica la
complessità delle catene che legano il mondo vivente quello
inanimato.
La fondamentale ambiguità da chiarire riguarda i rapporti fra le
scienze: dal punto di vista dell'economia, si tratta di rovesciare la
tradizionale gerarchizzazione fra questa e le scienze della natura,
che portava l'economista a internalizzare la logica ecologica in
quella economica. Non si tratta dunque di integrare un sapere a un
altro o di prefigurare all'orizzonte la comparsa di una nuova
disciplina, ma di proporre una linea di pensiero alternativa, che
superi le divisioni tra i saperi disciplinari. Ciò comporta una
trasformazione piuttosto radicale nel mondo in cui le scienze della
natura e la scienza della società erano solite guardare il mondo:
l'evoluzione economica modifica irreversibilmente l'ambiente
naturale e quest'ultimo modifica irreversibilmente il primo. Non
siamo più in presenza di una relazione in cui l'ambiente, assunto
come separato dalla società, è ridotto a un fattore di disturbo che
deve essere controllato, ma di quel processo definito appunto dagli
ecologi come co-evoluzione.

10.5 una sfida geografica


L'idea di co-evoluzione fra società e ambiente: essi possono cioè
dare luogo a un numero non prevedibile e indefinito di reazioni,
liberando così l'impostazione sistemica da qualsivoglia fardello
meccanicistico.
La proprietà autopoietica non viene attribuita soltanto al sistema
sociale, ma allo stesso sistema ecologico, contribuendo così a
liberare anche la scienza ecologica del linguaggio energetico. ciò
significa che:
grazie a questa capacità, l'ecosistema non si comporta sempre allo
stesso modo di fronte allo stesso impulso generato delle comunità
umane, sicché non esiste la certezza che, mantenendo e alterazioni
al di sotto di soglie predeterminate, ecosistema resti salvaguardato.
Questi principi appaiono in grado di dar pertinenza all'idea della non
separazione fra economia e ambiente, tra fenomeni sociali e
dinamiche ecologico-ambientali. Ne consegue che ogni sistema
regionale non sarà riducibile a una singola strategia conoscitiva:
 L'ecosistema ambientale possiede capacità di carico
differenziate, sia in ragione dei caratteri fisico-chimici, sia in
rapporto alle pressioni storiche cui è sottoposto, le quali
incidono variamente sulla sua vulnerabilità.
 Le stesse forme di organizzazione politico sociale sono una
componente non eludibile della dinamica uomo-natura. Si
tratta di fenomeni di compromissione degli equilibri sociali e
ambientali locali che possiedono nel contempo una
dimensione globale.
La conoscenza delle relazioni tra società e ambiente si afferma
come un sapere multidimensionale, in quanto discende dalla
relazione tra componenti ecologiche, produttive, sociali e storico-
culturali che sono le categorie costitutive del territorio. Non esisterà
pertanto un'unica e astratta modalità di co-evoluzione fra società e
ambiente, ma una molteplicità di relazioni critiche territorializzate
non scindibili dalla manifestazione di processi economico-sociali ed
ambientali globali.

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