Vita. Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474 da una famiglia numerosa dalle
condizioni economiche spesso precarie. Il padre divenne tesoriere delle truppe degli Estensi,
e per questo la famiglia si trasferì a Ferrara. Nello Studio estense Ludovico sviluppò le
proprie passioni per gli studi letterari.
Negli anni Novanta il giovane Ludovico organizza spettacoli teatrali alla corte estense. Fu
poi accolto tra gli stipendiati di corte.
Morto il padre, Ariosto in qualità di primogenito dovette recare alla famiglia il suo soccorso
economico, e si fece funzionario presso la corte degli Estensi. Fu, come il padre, capitano
di guarnigione.
Nel 1503 entra nelle dipendenze del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso,
a Ferrara. Sono anni di disagi e amarezze dettati dall’indeterminatezza legata al suo lavoro
di cortigiano.
Ebbe incarichi diplomatici molto importanti: per esempio nel 1510 fu a Roma presso papa
Giulio II come paciere tra Estensi, filofrancesi, e il Papa, ostile a Luigi XII. La discordia tra
Estensi e papato era sorta anche per il possesso delle Valli di Comacchio, rivendicate
dalla Chiesa ma sfruttate dagli Estensi: per questo motivo il papa aveva scomunicato il duca
Alfonso. La missione non finì bene: Ariosto fu costretto a fuggire per evitare di venire
gettato in mare.
Dopo queste tremende peripezie riuscì a concludere nel 1516 (anno della prima edizione)
l’elaborazione dell’Orlando Furioso, la cui elaborazione era incominciata intorno al 1505. Un
celebre aneddoto racconta come il cardinale Ippolito reagì alla pubblicazione, dicendo:
“Messer Ludovico, dove mai avete trovato tante c orbellerie?”.
L’anno successivo alla pubblicazione, ovvero nel 1517, Ariosto fu costretto a rifiutare di
seguire Ippolito in Ungheria. Lo teneva a Ferrara l’amore per Alessandra Benucci, con cui
si sposò in età tarda (così entrambi poterono godere dei privilegi da scapolo e vedova).
Fortunatamente il duca Alfonso decise di assumere Ludovico tra i propri stipendiati,
esentandolo tuttavia da incarichi gravosi, permettendogli di coltivare i propri studi. Tra gli
incarichi di questo periodo si segnala quello di controllare alcuni territori selvaggi sotto il
dominio estense, compito poco gradito ma portato a termine con dignità e capacità.
Negli anni venti riesce a ritirarsi nell’amata “casetta” che divenne il simbolo della tranquilla
serenità conquistata con il proprio lavoro. In alcuni intervalli la vita pubblica lo richiamò,
nonostante avesse ormai raggiunto una condizione economica piuttosto stabile.
Tuttavia nel 1531 si manifestarono per la prima volta i sintomi di una devastante malattia allo
stomaco. Le cure degli ultimi anni furono per il suo orto e per la revisione dell’Orlando
Furioso, che nel 1532 approdò alla terza e definitiva edizione. Il figlio lo ricorda così gli
odo medesimo che nel far de’ versi, perché mai non lasciava cosa
ultimi anni: “Teneva il m
alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco, e se piantava anime di pesche o semente
d’alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano, che finalmente rompeva il
germoglio.” L’anno prima della morte riuscì ancora a rendere gli onori a Carlo V, ospite
presso i Gonzaga, ma la malattia peggiorò irrimediabilmente nel 1533, morì a Ferrara nella
sua modesta “casetta”.
Gli esordi: teatro e lirica latina.
La giovinezza di Ariosto venne definita “latina” da Giosue Carducci. In questa fase infatti
compose diverse poesie in latino, influenzate dal gusto della corte ferrarese, se non
dall’obbligo culturale dell’epoca. Si ricorda l’elegia De diversis amoribus, sul rifiuto verso la
carriera giuridica e quella delle armi e sulla conferma delle proprie scelte: la poesia e
l’amore.
La commedia più riuscita è La Lena, commedia in versi di caratteri che raccoglie spunti
plautini e che mostra la grande capacità di Ariosto di dar vita a singole individualità.
Trama. Lena si occupa dell’occupazione della giovane Licinia. Flavio, innamorato della
fanciulla, ottiene di vederla solo in cambio di denaro: all’arrivo del padre di lei, Fazio, amante
di Lena, il giovane deve nascondersi in una botte, che Fazio farà trasportare a casa sua,
dove i giovani potranno inaspettatamente esaudire i loro desideri. Scoperto il tutto, ai genitori
non resta che accettare il fatto compiuto.
La realtà è riproducibile grazie all’imprevedibilità dei “tipi” che la compongono. I personaggi
sono presentati con una cura nuovissima nel teatro: a partire da Lena, mezzana avida e
corrotta, e Fazio, vecchio amaro e innamorato. La loro caratterizzazione sposta l’attenzione
dai “veri” protagonisti, cioè i due innamorati, a loro, coppia matura e senza scrupoli.
Le Rime. In età matura, probabilmente spinto dall’amore per Alessandra Benucci, Ariosto
incominciò a comporre versi. Tuttavia già in gioventù compose testi lirici, come un epicedio
sulla morte di Eleonora d’Aragona, compagna di Ercole I d’Este. A questo genere si dedicò
in maniera varia per oltre trent’anni, tuttavia non volle mai raccogliere le proprie rime in un
canzoniere, come invece Bembo aveva codificato. Si dedicò a diversi metri: sonetti,
madrigali, canzoni, e inoltre “Capitoli” in terza rima di tema divertito. Sono molte le figure
retoriche soprattutto nei primi componimenti, sacrificate per uno stile più fermo in età matura.
In ogni caso presto Ariosto fu costretto ad accettare il petrarchismo bembesco. Lo stile è
permeato da realismo e sensualità, che vedono inserti danteschi e recuperi classici erotici.
Dal 1517 al 1524 Ariosto sarà impegnato con la redazione delle sette S atire in terzine, che
realizzano compiutamente la dimensione discorsiva e colloquiale della grande arte
ariostesca. Per via della lunga rielaborazione del Furioso, che richiese diversi anni, Ariosto
non portò mai a conclusione i lavori di revisione e “lima” che aveva in mente, motivo per cui
l’opera venne pubblicata postuma.
Il titolo rievoca le Satyrae di Orazio (o meglio dalle sue Epistulae) . Le Satire ariostesche
conservano il carattere colloquiale di quelle oraziane, così come il g usto mordace per la
descrizione. Si presentano come verosimili “lettere”, con un preciso destinatario. La loro
forma epistolare porta Ariosto a rivolgersi a personaggi reali, presenti in veste di effettivi
destinatari cui senza dubbio le satire furono inviate. Spesso vengono inserite
considerazioni, battute epigrammatiche o citazioni proverbiali attribuite a personaggi
marginali.
L’estrema mobilità della struttura dialogica si rivela un elemento decisivo per la costruzione
del testo articolandolo secondo una vera e propria “controversia interiore” (Segre).
Il fatto di identificare il “tu” con personaggi reali o plausibili aumenta enormemente la
concretezza dell’“io” parlante, per adeguare di volta in volta il proprio discorso alla domanda
o alla provocazione. In assenza di ogni idealizzazione ecco comparire il tono schietto di
piccole vicende quotidiane, l’indugio sulle circostanze concrete e immediate che hanno
determinato le scelte di una vita più faticoso ed eroica, scelte strenuamente difese nelle
proprie ragioni.
Il sentimento morale che anima la presenza del poeta non è, come credeva Orazio, frutto di
una saggezza prestabilita, ma si presenta come davvero plasmato sulla concreta e sofferta
esperienza dell’autore. Da qui deriva il valore eccezionale che questi testi assumono sul
piano biografico.
La scelta del modello oraziano è tutt’altro che banale: i più si concentravano solamente sulle
composizioni liriche di Orazio. Ariosto si riconosce in Orazio soprattutto dal punto di vista
formale: infatti utilizza un tono familiare e discorsivo, rivolto ad un interlocutore preciso. Il
metro è narrativo ma pur sempre “alto” (la terza rima dantesca). Questa novità segna la
nascita di un genere letterario destinato a godere di larga fortuna nell’età successiva: non a
caso le Satire ebbero una grande fortuna editoriale.
1) Al fratello Alessandro, espone le ragioni per cui Ariosto ha rifiutato di seguire Ippolito
in Ungheria: la sua povera libertà gli è troppo cara, più di qualunque dorata servitù.
2) Al fratello Galasso perché gli procuri a R
oma un alloggio comodo e dignitoso.
3) Ad Annibale Malaguzzi, spiega quale sia il suo i deale di vita: la quiete della
coscienza e la compagnia di una buona moglie, e non desiderio di ricchezze e onori.
Satira dell’apologo della gazza e del pastore, e dell’apologo della luna,
“dimostrazioni sceneggiate” (Segre) del suo pensiero.
4) Descrizione del paesaggio selvatico e molesto della Garfagnana, dove Ariosto è
costretto a vivere tra briganti litigiosi.
5) Opinioni sulle donne e sulla v ita matrimoniale.
6) A qPietro Bembo; gli richiede un precettore per il figlio quindicenne.
7) Al duca Alfonso dalla Garfagnana, in cui rifiuta l’offerta di impiego di ambasciatore
alla corte di papa Clemente VII.
La critica sulle Satire. Foscolo fu il primo a sottolineare l’importanza letteraria delle Satire
ariostesche, riconoscendo all’opera una funzionalità brillante e inattesa.
De Sanctis vi riconobbe un’ “andatura pedestre”, cioè volutamente dimessa,
ironicamente acuta e ricca di massime: tale da imprimere al testo ariostesche quel piglio
tutto particolare, tra un epigramma e un proverbio.
Fu determinante il rapporto tra le Satire e le commedie: infatti le prime vennero scritte tra le
commedie e i versi. Non rappresentano semplicemente un “ponte” tra le une e le altre: al
contrario l’equilibrio dei toni e di forme le porta a risultare “le migliori commedie
dell’Ariosto” (Segre).
Anche nelle Lettere Ariosto ha lasciato una testimonianza eccezionale delle sue qualità
morali, del suo talento umanissimo di osservatore e dell’attitudine alla descrizione
realistica. Sono numerose le lettere di corrispondenza d’ufficio intrattenuta con il governo
estense durante il periodo in Garfagnana. Non si tratta di un epistolario costruito in funzione
letteraria: Ariosto ci presenta immagini immediate e concrete, sottratte dalla minuta realtà
delle vicende quotidiane e perciò prive di preoccupazioni letterarie e stilistiche. Sorge così
un ritratto vero e incisivo dell’Ariosto. Spesso infatti è proprio l’uomo a prevalere sul
funzionario, sul cortigiano o sul poeta famoso: si confessa ingenuamente ai propri superiori,
capace di cogliere il lato umano delle cose e di presentarlo come un modello di
comportamento.