I dizionari artistici che si pubblicheranno in pieno ‘700 non faranno altro che
rimarcare questo tratto illusionista e anticartesiano del Barocco, inteso come ciò che
confonde il vero con il falso, cioè proprio il contrario della ragione cartesiana.
Più che pensare ad un generico ribellismo, che pure – nell’orizzonte della costituzione
dello stato assoluto e accentrato e del conseguente disciplinamento sociale – è
elemento decisivo nella storia del XVII secolo, affermerei che siamo di fronte ad una
prima relativizzazione del punto di vista sul reale, che viene reso valido e fondato
proprio sull’attività artistica dell’autore. Leibniz ne trarrà, in campo metafisico-
gnoseologico le più chiare conseguenze. Monadologia come universo mentale chiuso.
Anche qui, credo, la lettura può essere ambivalente. Se la metafora del teatro apre
innumerevoli spazi alla narratività artistica, poiché elimina – nella fondamentale
ambiguità dei piani narrativi – un qualsiasi stabile riferimento al concreto, è però
altrettanto vero che depotenzia la possibilità di dare corpo a questa narratività. Il
soggetto è sì libero, ma nello stesso tempo passivo, a meno di non accettare
pienamente la vacua relatività delle cose e delle relazioni, ma con quale risultato? Il
tema della morte ne simboleggia l’impotenza e il ridimensionamento; la passività
potrebbe trovare espressione nell’Estati di S. Teresa, dove il vero soggetto chi è?
L’angelo, Teresa, o i committenti che altro non sono se non spettatori di uno spettacolo
che, posto al centro, idealmente si trova su un piano metafisicamente inattingibile?
Credo che ancora una volta la risposta sia in Leibniz.
In secondo luogo, sembra che qui il mondo e la sua realtà si stiano trasferendo
all’interno del soggetto e delle sue facoltà; soggetto che, se da una parte coglie il
valore della libera affermazione di sé (dal razionalismo cartesiano alla monade
leibniziana, come anche il significato dell’empirismo lockeano fino al soggetto
portatore di diritti dello stato contrattualista), dall’altra parte fatica ancora a trovare
punti di riferimento altrettanto validi come quelli del passato. Nei secoli successivi
questi punti di riferimento saranno cercati nella ragione illuminista – fino
all’idealismo – e nella scienza positivista. La crisi delle certezze di fine Ottocento ha
aperto un abisso che oggi mi sembra sia ben lontano dall’essere colmato (es.
economia).
Due degli artisti principali del Barocco, Rubens e Bernini, evidenziano chiaramente
quali sono le poetiche di fondo del periodo. Per Rubens il fine della pittura è illuminare
l’intelletto e ingannare gli occhi (es???). qui si comprende bene come il pittore si
muova nella stessa dimensione cartesiana della separazione tra sensi e intelletto; se è
l’intelletto che deve essere illuminato, è proprio perché, come in Descartes, è
nell’intelletto che si costruisce la verità, che perciò non passa attraverso i sensi. Ad
essi è perciò riservata la prerogativa della percezione estetica, che si fonda appunto
sull’illusione.
Per Bernini il pregiudizio classicista della regola rigida deve cadere; l’opera d’arte è
un prodotto di ispirazione e non di ragione. La bellezza va cercata nella natura, che
infonde nei suoi prodotti tale bellezza, che va cercata, ovvero va visto con l’opera ciò
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che nella natura ci deve essere ma non si vede.
§ 2 . L’ e s t e t i c a b a r o c c a
chiamiamo bello o brutto ciò che ci è rappresentato così dai nostri sensi esterni, soprattutto da
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quello della vista, che da solo è apprezzato più di tutti gli altri.
queste passioni del gradimento e dell’orrore sono di solito molto più violente delle altre specie
di amore o di odio, perché ciò che giunge all’anima per mezzo dei sensi, la tocca più in
profondità di ciò che le è rappresentato dalla sua ragione; e tuttavia esse hanno solitamente
minore verità: di modo che tra tutte le passioni, sono queste che ingannano di più, e da cui ci
dobbiamo difendere più accuratamente.
Mi sembra quindi che per Descartes il bello, e le passioni che sono ad esso connesse,
non sono in alcun modo portatrici di alcuna verità, sebbene la forza con cui queste
passioni si presentano ce lo faccia apparire – e giudicare – del tutto reale. Lasciando
poi da parte la questione se il bello sia in sé reale o meno, vale a dire se sia
effettivamente presente nelle cose, oppure sia soltanto un effetto messo in moto dalla
forza delle passioni. Emerge, comunque, da queste righe, una chiara condanna
gnoseologica sulla valenza conoscitiva delle percezioni estetiche; condanna che in
Malebranche diventa di tipo etico-religioso.
Legata a questa impostazione fortemente razionalista vi è poi la condanna di ogni
finalismo e antropomorfizzazione del mondo, messa in atto in particolare da Spinoza.
Dunque, l’impostazione razionalista sembra operare una netta svalutazione del
momento estetico nell’orizzonte dell’attività conoscitiva del soggetto. Se consideriamo
la sottovalutazione della morale cartesiana, definita per l’appunto “provvisoria”, e in
effetti mai sviluppata in una versione definitiva, e la riduzione dell’agire dell’uomo nel
suo rapporto con il mondo ad una pratica prudenziale per garantire la propria semplice
sopravvivenza fisica, si può ben capire come tutta la tematica dell’errore dei sensi
acquisti un grado di svalutazione che si manifesta chiaramente ne La ricerca della
verità di Malebranche.
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Malebranche l’opposizione tra mente e corpo presente in Descartes, dal momento che
in questo ordine rigoroso e divino la mente è molto più vicina a Dio, e perciò molto più
separata dai sensi. Ma con la caduta dell’uomo questo rapporto si rovescia, e
l’anima/mente si separa da Dio per avvicinarsi ai sensi. Questo incide anche sull’ordine
delle percezioni, e come visto prima in Descartes, quelle originate dai sensi diventano
più forti di quelle della ragione, con la conseguenza che il giudizio viene influenzato
dai sensi e non più dall’intelletto.
Dobbiamo allora pensare che, al momento della creazione, l’uomo non esistesse, in
termini sostanziali, come lo constatiamo dall’esperienza, ovvero una stretta unione di
anima e corpo. L’intelletto dovrebbe avere una sua specifica sostanzialità, in qualche
modo distinta da quella corporea, proprio perché non influenzabile dai sensi, o meglio
ancora perché capace di dominarli e subordinarli a sé. Si rifà avanti la relazione
anima-corpo di matrice platonica, che permetteva appunto la possibilità di una
conoscenza puramente intellettuale, una volta che si fosse, almeno virtualmente,
operata la distinzione dai sensi (caverna).
Ecco allora che, per Malebranche, l’intelletto diventa sottomesso alle passioni
originate dalle percezioni sensibili, pur potendo – per sua natura – volgere la propria
attività conoscitiva solo a ciò che è in sé spirituale, e quindi possedendo una visione
che, orientata appunto solo allo spirituale, è sempre chiara e distinta (visione in Dio).
ma da questo consegue ancora che non serve applicare l’intelletto alla conoscenza di
ciò che è semplicemente materiale, per la cui conoscenza basta l’istinto, ovvero
l’inclinazione sensibile.
Nel rivolgimento del peccato, ciò che viene rovesciato è, come detto, la posizione
dello spirito, sotto i sensi, i quali però operano come sempre, cioè come prima del
peccato (è chiaro allora che mente e corpo, prima del peccato, sono assolutamente
irrelati), e la loro funzione, come in Descartes, è rivolta alla conservazione del corpo.
In questa condizione, la conoscenza dell’intelligibile procede da un atto di libertà, cifra
della conoscenza chiara e distinta, proprio perché ottenuta indipendentemente dai sensi
e dall’istinto, e perciò anche dal gradevole e dal bello. In pratica, la conoscenza chiara
e distinta, cartesianamente, è il risultato di una liberazione, in un duplice senso. Non
solo perché ci permette di essere liberi non solo come semplice indifferenza, ma anche
perché ci permette di riconquistare quella condizione originaria nella quale il potere
della mente sopravanzava quello dei sensi, e quindi ci libera dalla loro schiavitù
(agostino).
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con lo sviluppo del razionalismo nel suo filone empirista – Malebranche fa intervenire
una riflessione di carattere teologico, sviluppata proprio a partire dal microscopio e
dalla divisibilità della materia.
Il microscopio, qui, funge da metafora dell’immaginazione e dei suoi limiti,
entrando in questo modo dentro la questione della sua rivalutazione in ambiente
estetico barocco. Il microscopio, infatti, mostra un’estensione della materia ben più
lontana dalle possibilità dei nostri sensi, e una sua virtualmente infinita divisibilità,
che da essi non può in alcun modo essere afferrata. Ma a questa deficienza non
sovviene neanche l’ausilio dell’immaginazione, proprio perché – come anche Descartes
aveva mostrato – essa deve essere considerata parte integrante della nostra conoscenza
sensibile, inferiore a quella dell’intelletto nell’ordine della creazione divina. I sensi,
quindi, e qui mi sembra la radicalità anche rispetto Descartes, non ci fanno conoscere
l’estensione come essa è in sé.
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per conoscere ciò che, per Malebranche, costituisce il campo proprio del pensiero,
determinato – tale campo – dall’ordine della creazione che solo contingentemente viene
stravolto dal peccato e dalla caduta, ma che, opportunamente emendato, può essere
recuperato nella sua interezza. L’errore è qui pretendere di invadere con i sensi ciò che
è proprio solo della ragione. La conclusione di Malebranche è ora chiara: affidarsi ai
sensi e all’immaginazione significa sminuire l’opera della creazione e precipitare
nell’errore. Si potrebbe aggiungere che qui viene messo in luce ancor più il carattere
distorcente della libertà dell’immaginazione, non solo perché – come in Descartes – la
volontà che giudica sulla base dei sensi sopravanza la capacità dell’intelletto di rendere
le idee chiare e distinte, ma molto più perché l’immaginazione o i sensi rovesciano
l’ordine che è garanzia – in Malebranche come in Descartes – di certezza e verità.
Pretendere quindi, in relazione ai principi dell’estetica barocca, di affidarsi
all’immaginazione nella creazione artistica significa persistere nel pervertimento
dell’ordine divino, allontanandosi sempre più dal ripristino del vero percorso verso la
verità.
Questo discorso si chiarisce ulteriormente facendo un breve cenno alla teoria
dell’immaginazione. Essa è legata ai sensi, e capace di mostrare – a differenza di questi
– cose che sono attualmente assenti (il che ci permette di richiamare proprio le idee di
Rubens e Bernini sul compito dell’arte). L’immaginazione è quindi la facoltà
dell’anima di imprimere immagini delle cose sul cervello, a prescindere dalla loro
presenza attuale o meno. Anzi, per meglio dire, la forza dell’immaginazione si dispiega
proprio con l’assenza dell’oggetto, che altrimenti questo imprimerebbe la sua forza
direttamente sui sensi, molto più forti dell’immaginazione e capaci di spegnere questa
sua facoltà. Ben si vede come il discorso ruoti su una considerazione puramente
meccanica, un gioco tra forze capaci di sopravanzarsi a vicenda in relazione alla misura
della loro potenza effettiva. Ne consegue che l’immagine che ci formiamo di un oggetto
non dipende dalla verità in sé dell’oggetto, ma solo dalla forza che l’oggetto è in grado
di operare rispetto a forze a lui contrarie; quindi, il risultato non sarebbe altro che la
composizione di queste forze, cioè un risultato basato solo sui sensi e sulla corporeità,
che riceve tali forze, e non sulla ragione, che è l’unica facoltà che è in grado di
cogliere la verità in sé.