Il Costituzionalismo Moderno
Il percorso di formazione della Costituzione italiana inizia nel 1943 dopo la caduta di Mussolini. Dopo
la formazione del governo Badoglio e la fuga del re inizia a diminuire la fiducia nella monarchia e il
CLN si presenta come governo alternativo. Con la fine della guerra il governo Parri e poi quello
DeGasperi preparano il referendum istituzionale, in cui vince la repubblica e viene eletta l’Assemblea
costituente a suffragio universale. La Costituente termina i lavori nel Dicembre 1947 e la nuova
Costituzione entra in vigore nel 1948.
Il costituzionalismo occidentale moderno risale alla Glorious Revolution del 1688, considerata la prima
rivoluzione borghese. Seguirono poi la Rivoluzione americana, dove le idee erano fortemente
influenzate dalle opere di Locke, teorico del costituzionalismo, e la Rivoluzione francese. La parola
costituzione inizia ad acquisire un significato univoco e specifico con l’art.16 della Dichiarazione dei
Diritti dell’Uomo e del Cittadino dove si afferma che ogni società in cui la garanzia dei diritti non è
assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione. Il principio fondamentale
del costituzionalismo moderno è la limitazione del potere del governo. Con le rivoluzioni borghesi si
passa dalla sovranità del monarca assoluto a quella popolare, ma anche questa deve essere limitata
per evitare che una singola fazione, anche se ha la maggioranza, sopravvalga sul resto della
popolazione. Infatti anche l’organo rappresentante della maggioranza può essere influenzato dalle
passioni umane e per questo le costituzioni moderne vi pongono dei vincoli.
Ogni società regola i rapporti tra i propri individui attraverso le norme, la norma giuridica può essere
inserita nella categoria delle norme sociali, cioè ha ad oggetto gruppi sociali e relazioni
intersoggettive. La teoria ha individuato dei caratteri sostanziali per individuare e circoscrivere le
norme giuridiche rispetto ad altre formulazioni deontologiche, cioè che regolano come agire. I
principali criteri che individuano una norma giuridica sono la generalità, ovvero l’applicabilità della
norma ad un numero indeterminato di destinatari, e l’astrattezza, la suscettibilità della norma di
applicarsi ad un numero indefinito di casi. Tuttavia ritroviamo nell’ordinamento italiano norme che non
sono né generali né astratte e che si riferiscono invece a singole categorie di persone o a una serie
determinata di casi.
La dottrina presenta diverse definizioni di ordinamento giuridico. Secondo il giurista Santi Romano
con il termine ordinamento giuridico intendiamo qualsiasi aggregazione sociale di uomini, che si
danno delle regole (ordinamento in senso ampio). Diversamente, Kelsen dice che il termine
ordinamento giuridico indica l’insieme delle norme vigenti in una comunità, cioè riduce l’ordinamento
alla norma (ordinamento in senso stretto). Lo Stato è stato visto da secoli come l’ordinamento
giuridico per antonomasia ma la società moderna è caratterizzata da un pluralismo di ordinamenti
giuridici, tra cui i vari enti locali, regionali e anche statali che possono interagire tra loro. Lo Stato è un
ordinamento giuridico particolare, è quell’ordinamento giuridico che è riconosciuto ad affermare la
propria sovranità su un determinato territorio. Troviamo quindi un pluralismo che può essere sia
monotipo (vari ordinamenti dello stesso tipo come i vari stati), sia politipico (più ordinamenti di tipi
diversi). L’esistenza di più ordinamenti pone il problema del rapporto tra di essi. Per definire i rapporti
è necessario collocarsi nella prospettiva di un singolo ordinamento e valutare il modo in cui questo
considera gli ordinamenti interni o esterni ad esso. Un ordinamento, rispetto ad un altro ordinamento
può avere gli atteggiamenti di:
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● Indifferenza: quando l’ordinamento ignora del tutto l’altro disconoscendone il sistema di
norme e quindi considerando i suoi componenti nella loro individualità e non in un sistema.
● Illiceità: è una qualificazione negativa, l’ordinamento viene riconosciuto ma viene combattuto.
● Liceità: l’ordinamento è riconosciuto ed è considerato lecito, viene quindi protetto e tutelato.
Esiste un quarto atteggiamento che consiste, oltre che nel riconoscere la liceità, nella scelta di
ritenere rilevanti l’azione e le norme di quell’ordinamento. Lo stato offre i propri organi e mezzi per
assicurare l’osservanza delle norme di un altro ordinamento (ad esempio gli interessati potrebbero
ricorrere al giudice statale). Si parla di diritto nello Stato.
Si parla invece di diritto dello Stato quando questo valorizza al massimo un certo ordinamento
giuridico, appropriandosi del suo diritto e riconoscendolo come proprio diritto, il diritto prodotto dai
membri della comunità diventa diritto dello Stato ed entra a far parte dell’ordinamento giuridico
statale.
Lo Stato
La sovranità è l’elemento più originale e complesso, è un concetto che evoca il carattere di totalità,
esclusività, indipendenza e autofondazione dell’ordinamento al quale tale attributo è riconosciuto.
Rappresenta la natura politica dell’ordinamento. La sovranità si articola giuridicamente in due
momenti: il dover (o voler) essere sovrano, cioè la volontà e la pretesa di essere indipendente ed
assoluto, e l’esserlo realmente, cioè l’effettività di tale pretesa. L’effettività può essere perseguita
in vari modi, storicamente principalmente attraverso gli strumenti coercitivi.
La dottrina articola il concetto di sovranità in tre attribuiti: l’originarietà (lo Stato trova in sé stesso il
proprio fondamento normativo e la propria giustificazione), l’indipendenza verso l’esterno e la
supremazia verso l’interno.
Attraverso questo ragionamento possiamo definire lo Stato come un ente territoriale sovrano,
tuttavia il termine stato ha subito una pluralità di impieghi e questo si riferisce allo stato-istituzione.
Ad esempio si parla di stato-ordinamento quando si fa riferimento all’insieme delle norme
giuridiche, stato-governo quando si parla dell’insieme di soggetti e organi che rivestono una
posizione di supremazia in quanto esercitano funzioni pubbliche autoritative. Vi è inoltre una
nozione più ristretta dello stato-persona che vede una pluralità di persone fisiche che vanno a
formare una personalità giuridica per lo stato, questi organi sono il Governo, il Parlamento e il
Presidente della Repubblica.
Il diritto internazionale consiste in un ordinamento in cui i membri sono sovrani e in posizione paritaria
e non esiste un’istituzione governativa che li sovrasti. All’interno dell'ordinamento internazionale lo
stato è una persona giuridica ma gli Stati non sono gli unici soggetti. La comunità internazionale è
costituita da soggetti indipendenti e gli enti che non sono indipendenti non possono essere soggetti
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autonomi del diritto internazionale e la loro capacità di intrattenere rapporti internazionali è abilitata
dall’ente a cui appartengono, ad esempio gli stati delle federazioni, che non sono stati sovrani,
possono venire autorizzati dall'ordinamento federale per stringere accordi internazionali, ma lo stato
federale ha su di sé la responsabilità del firmatario. Il requisito di indipendenza e di soggettività
internazionale è riconosciuto anche alla Chiesa cattolica ed al Sovrano militare Ordine di Malta.
Anche le associazioni di stati, le organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, e che
perseguono interessi comuni rappresentano soggetti del diritto internazionale.
● La logica intergovernativa, in cui viene valorizzato il ruolo degli stati ed il loro interesse.
Ciascuno stato è in posizione paritaria rispetto agli altri. Sul piano organizzativo
l'intersoggettività trova espressione in quegli organi composti dai rappresentanti degli stati,
come il Consiglio ed il Consiglio europeo. Sul piano procedimentale le decisioni vengono
approvate in modo unanime.
● La logica sovranazionale o europea, che valorizza l'interesse generale del corpo politico che
costituisce l'Unione, esprime l'interesse generale della comunità in nome di principi
democratici di uguaglianza. Tale logica è rappresentata negli organi comunitari come il
Parlamento, legati alla cittadinanza europea e non ai singoli governi.
Le norme hanno origine dalle cosiddette fonti del diritto. Gli ordinamenti moderni sono caratterizzati
dal pluralismo delle fonti, coerentemente con la democrazia e la divisione dei poteri, in quanto si
assegna la produzione del diritto a vari soggetti autonomi garantendo le libertà personali. Sono fonti
del diritto tutti quegli atti o fatti che l’ordinamento riconosce idonei a produrre norme giuridiche valide.
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Nell’ordinamento italiano non è presente un testo che elenchi completamente gli atti o fatti idonei alla
produzione del diritto, l’unico elenco è quello nelle premesse al codice civile del 1942 ma risulta
incompleto ed antiquato. La forma dell’atto (ovvero il suo procedimento di formazione e le sue
modalità di esternazione) e il nomen iuris (la qualificazione onomastica dell’atto) concorrono
all’identificazione e alla classificazioni degli atti ma l’elemento privilegiato a stabilire se un atto è
normativo è la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Inoltre la disciplina delle fonti non è stata
integralmente costituzionalizzata infatti nel nostro testo solo la legge e gli atti con forza di legge sono
previsti e parzialmente disciplinati, il livello secondario costituisce un sistema aperto, nel quale ogni
fonte subcostituzionale può introdurre una fonte.
La fonti vengono poi distinte in fonti atto e fonti fatto e la loro principale differenza sta nel come
vengono riconosciute dall’ordinamento. Le fonti atto sono riconosciute preventivamente come idonee
dalle norme di riconoscimento che gli attribuiscono la qualifica di fonte del diritto e il potere di produrre
diritto, la volontà di produrre diritto è accompagnata da un potere normativo. Sono fonti
predeterminate e solitamente sono documenti scritti. Le fonti fatto sono riconosciute
successivamente alla loro produzione in quanto generano effetti non previsti e sono adottate
dall'ordinamento con nuove norme di riconoscimento. Le fonti fatto devono essere integrate
nell’ordinamento seguendo dei criteri molto stretti. Anche una fonte fatto quindi può essere scritta
oltre che essere originata dalla consuetudine. Un esempio di fonte fatto è il Decreto Legge, il quale è
uno strumento introdotto per velocizzare l'azione del governo nei confronti di emergenze.
La differenza tra fonti fatto e fonti atto non fa quindi leva sulla qualifica del diritto scritto ma fa
leva invece sui fenomeni di produzione giuridica. Le norme provenienti da fonti atto e fonti fatto
non hanno quindi necessariamente una differente forza normativa. Tutte le forme extra ordinem
sono categorizzate nelle fonti fatto.
Il sistema delle fonti può essere rappresentato da una gerarchia piramidale alla cui cima troviamo
la Costituzione. La piramide continua poi con un livello primario, nel quale troviamo tra le varie
fonti le leggi ordinarie e con un livello secondario, dove troviamo i regolamenti. Ad ogni livello
corrisponde un rango, che rappresenta la minore o maggiore forza di legge delle varie fonti.
Una distinzione rilevante è quella tra i principi e le norme. I principi si traggono per astrazione
generalizzatrice da una pluralità di norme e si distinguono da queste ultime per un’eccedenza di
contenuto deontologico, in quanto l’ambito di applicazione delle norme (che si riferiscono a
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determinate fattispecie giuridiche) viene esteso attraverso il principio, come nel caso dell’analogia
legis o dell’analogia juris. In questi casi non parliamo di principi “principianti” perché sono tratti da
norme preesistenti e non sono la premessa dell’attività interpretativa. I principi principianti sono
invece i principi espressi che sono previsti in disposizioni e sono norme giuridiche con una
maggiore specificità. I principi non vanno confusi con i valori, i quali non hanno carattere
deontologico e non esprimono un dover essere. Spesso questi vengono fatti coincidere con i
principi costituzionali come la libertà, l’uguaglianza e la democrazia.
Le norme molto generali, che spesso costituiscono i principi costituzionali solitamente non sono
spesso autoapplicative, nel senso che necessitano di una normativa di attuazione per produrre a
pieno i propri effetti. Si dice che hanno un carattere programmatico, cioè stabiliscono un
programma per gli organi con potestà normativa. Anche se necessitano di ulteriori norme per
essere attuate, queste norme programmatiche mantengono degli effetti all’interno
dell’ordinamento. Innanzitutto mantengono un vincolo giuridico a carico delle autorità
pubbliche,determinano l’invalidazione di norme contrastanti con esse provenienti da fonti
subordinate e valgono per l’interpretazione delle altre norme del sistema e concorrono alla
determinazione dei principi generali dell’ordinamento.
L’Interpretazione
L’attività interpretativa segue regole peculiari in relazione alla natura dell’atto. I criteri che regolano
l’interpretazione degli atti inquadrabili tra le fonti sono disciplinati nell’Art. 12 delle Preleggi, secondo
cui nell’applicare la legge non si può dare ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore. Questo articolo
rappresenta quindi il primo criterio di interpretazione, ovvero quello letterale o testuale, applicabile nei
casi in cui i termini abbiano un senso univoco.
Quando invece le parole possono avere una molteplicità di significati bisogna ricorrere
all’interpretazione sistematica, ovvero esaminando il contesto nel quale esse sono inserite. Vanno
analizzati gli altri termini nella stessa disposizione, poi quelli nelle altre disposizioni dello stesso atto e
infine quelle contenute nell'intero sistema normativo.
Quando ancora persiste l’incertezza l’interprete deve tenere conto dell’intenzione del legislatore,
attraverso l’interpretazione teleologica. Non si tiene conto della volontà storica dell’autore dell’atto ma
della sua finalità oggettiva, anche considerando che la norma subisce un’estraniazione dalle
disposizione originale e varia nel tempo conformandosi all’ordinamento.
Nel caso di lacune, o assenza di una norma giuridica specifica al caso concreto il giudice non può
astenersi dal decidere in quanto l’ordinamento giuridico dello Stato si caratterizza per la sua pretesa
di completezza. Il giudice deve quindi ricorrere all’attività interpretativa attraverso l’analogia legis o
l’analogia iuris. L’analogia legis prevede il ricorso ad una disposizione che regoli un caso simile e se
neanche queste sono disponibili si ricorre all’analogia iuris che consiste del decidere secondo i
principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Il divieto di analogia è previsto per le norme
penali e quelle eccezionali.
Le Antinomie
Le antinomie sono quelle situazioni in cui due norme si trovano in contrasto tra di loro. C’è la
possibilità di risolvere le antinomie preliminarmente attraverso l’interpretazione, a volte infatti
l’antinomia è solo apparente e può essere risolta basandosi sul testo della disposizione. Le
disposizioni possono essere univoche e chiare e quindi la loro interpretazione è semplice, ma
possono essere anche meno chiare con un più ampio margine di ’interpretazione. Con
l’interpretazione si possono ricavare da una disposizione norme diverse e si può evitare così che una
disposizione porti ad un’antinomia, optando per l’interpretazione alternativa che è maggiormente
compatibile con le altre norme e che quindi evita l'antinomia. La Corte Costituzionale interpreta le
norme costituzionali, quella di Cassazione da interpretazioni vincolanti alle norme dell’ordinamento.
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sistema gerarchico delle fonti del diritto. In questo sistema viene osservato il rapporto gerarchico che
c’è tra le due fonti e l’antinomia si risolve basandosi sul rango delle fonti. La norma proveniente dalla
fonte che sta più in basso nella gerarchia, e che quindi ha minor forza di legge, viene annullata. Le
antinomie possono essere generate anche da fattori esterni all’ordinamento come il mutamento dei
valori sociali e culturali quindi non sempre la norma con la fonte di rango superiore è precedente a
quella contrastante, per questo non bastano controlli preliminari per evitare le antinomie. Con
l’annullamento la norma viene considerata invalida e quindi viene rimossa dall’ordinamento in modo
generale e retroattivo. L’annullamento viene pronunciato da un giudice specifico per ogni tipo di
antinomia, ad esempio la Corte Costituzionale si occupa delle antinomie tra norme provenienti da
fonti costituzionali e leggi ordinarie, mentre le antinomie tra fonti di grado primario e secondario sono
risolte dai tribunali amministrativi, ovvero i TAR e il Consiglio di Stato. Nel caso in cui la norma
sovraordinata sia precedente, la norma subordinata nascente nasce già viziata fin dall’origine perché
vuol fare qualcosa che le norme sulla produzione non consentono (vincere la forza di resistenza di
una norma sovraordinata gerarchicamente), la norma è quindi invalida e viene annullata. Nel caso
contrario, la norma sovraordinata emanata dopo prevale su quella subordinata, è un caso di
illegittimità sopravvenuta e prima dell’emanazione della nuova norma la vecchia era perfettamente
valida ed efficace
Il criterio cronologico viene applicato nei casi in cui le fonti che producono due norme contrastanti
hanno lo stesso rango nel sistema delle fonti, e quindi la stessa forza di legge. Il criterio fa leva sul
tempo, ovvero sul momento della promulgazione della norma e della sua entrata in vigore. Visto che
l’ordinamento vuole che le norme cambino al passo coi tempi e i vari orientamenti politici, si preferisce
la norma prodotta più recentemente. La norma precedente non viene comunque considerata invalida
perché durante la sua durata era valida e legittima e quindi non viene annullata ma viene abrogata.
Mentre l’annullamento elimina tutti gli effetti di quella norma, l’abrogazione delimita gli effetti della
norma nel tempo cioè fino all’entrata in vigore della nuova norma tutti i fatti accaduti fino a quel
momento vengono giudicati rispetto alla norma precedente quindi la norma può essere applicata
anche dopo la sua abrogazione se riguarda un fatto avvenuto precedentemente. L’abrogazione è una
limitazione degli effetti nel tempo.
L'abrogazione è l'effetto di applicazione del criterio cronologico, essa non intacca la validità della
norma abrogata ma colpisce la sua efficacia, essa viene sostituita con una norma nuova. È la stessa
nuova norma a determinare l’abrogazione della precedente, non c’è bisogno di un intervento esterno
di un giudice come per l’annullamento. L'abrogazione è ex nunc (da ora in poi), ovvero determina la
fine dell’effetto della norma abrogata dall’istante dell'entrata in vigore della nuova norma,
l'annullamento invece è ex tunc o retroattivo perché la norma annullata viene dichiarata invalida e
quindi rimossa dall’ordinamento. Quando l’abrogazione è esplicita c’è però la possibilità che essa sia
retroattiva se esplicitamente espresso nella clausola abrogativa, in mancanza di tale clausola si
suppone che non sia retroattiva. Il divieto di retroattività vale solo per le norme penali. L’abrogazione
può essere sia esplicita che tacita:
L’ultimo criterio di risoluzione delle antinomie è quello di separazione delle competenze, applicato
quando le fonti che hanno prodotto due norme antinomiche non sono né in un rapporto gerarchico
né in uno di ugual forza di legge. Il criterio di competenza prevede che certi oggetti siano nella
potestà di una fonte e la loro disciplina è sottratta dalla potestà delle altre fonti. In questi casi
l'antinomia si risolve giudicando la validità delle fonti che hanno prodotto le norme, e viene
dichiarata valida la norma prodotta dalla fonte competente (che aveva la competenza a regolare
quella materia) mentre quella prodotta dalla fonte incompetente viene annullata, in quanto invalida
sin dal suo sorgere per il vizio di incompetenza. Nel caso in cui l'ordinamento consenta alla norma
incompetente di operare validamente finché non intervenga quella formalmente legittimata, tale
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norma viene chiamata suppletiva, in quanto supplisce alla carenza di disciplina da parte della fonte
competente e opera validamente finché il soggetto abilitato non esercita la propria competenza
intervenendo a disciplinare quel particolare oggetto. Da questo momento in poi le norme suppletive
perdono lo loro efficacia.
Nel caso di una norma con il carattere della specialità essa non viene abrogata dalla norma
successiva a carattere generale ma quest’ultima viene disapplicata nei casi speciali.
Le Fonti Atipiche
Le fonti atipiche e le fonti rinforzate sono atti normativi caratterizzati dell’essere varianti rispetto ad
una fonte tipica di riferimento. Le fonti atipiche sono sotto il punto di vista formale identiche alle
corrispettive fonti tipiche, ma hanno un regime o un trattamento da parte dell'ordinamento
sensibilmente diverso in ragione di una particolare competenza (ad esempio alcune leggi vengono
espressamente sottratte al referendum dalla costituzione). All’identità di forma non corrisponde quindi
la medesima forza. Le fonti rinforzate invece si caratterizzano per il fatto di essere identificabili, oltre
che per la peculiare competenza, anche per le differenze previste per il loro procedimento di
approvazione rispetto alla fonte tipica, tali sono quei provvedimenti come la legge di amnistia e di
indulto che richiedono una maggioranza qualificata.
La Costituzione
La parola costituzione, come la parola stato, ha assunto nel tempo una pluralità di accezioni. La prima
manifestazione moderna della costituzione si ebbe con la nascita del costituzionalismo moderno, che
ha portato all’affermarsi del significato politico-ideologico della costituzione. In questo senso si
intende la costituzione come un documento scritto , solennemente adottato, posto al vertice
dell’ordinamento con garanzia di certezza ed intangibilità.
Un terzo significato di costituzione è quello in senso formale, attraverso cui si intende l’esistenza di
uno o più documenti scritti, formalmente differenziati dalle altre leggi in genere approvati attraverso
procedure speciali in modo da essere fonte suprema dell’ordinamento. In questo senso la costituzione
è una fonte extra ordinem ed è una fonte fatto di diritto scritto. Attraverso la costituzione si verifica una
rottura del precedente ordinamento che fa partire un nuovo inizio, che non porta però all’abbattimento
dell’ordinamento precedente ma le vecchie norme subiscono una ricollocazione.
La Costituzione formale può essere flessibile o rigida. La differenza tra una costituzione flessibile e
una rigida si ritrova nella facilità del suo processo di revisione costituzionale. Le prime costituzioni
moderne avevano la pretesa di durare a lungo e rappresentare principi stabili, per questo motivo esse
non nascono esplicitamente flessibili, e non prevedono nessuna norma che regoli la loro revisione.
Tuttavia questa assenza di norme sulla modifica costituzionale ha determinato nella prassi che queste
costituzioni potessero essere modificate attraverso la legge ordinaria, in quanto erano incapaci di
porsi in un rapporto di superiorità gerarchica. Con una costituzione flessibile infatti non si ha un
sistema gerarchico piramidale con la costituzione al suo apice, perché non si ha la supremazia
gerarchica della costituzione sulle altre fonti, essa non ha alcuna priorità sulla legge ordinaria ed è
infatti una fonte del diritto di livello primario, come la legge.
La costituzione è posta su un livello gerarchico superiore dalla sua rigidità, cioè la caratteristica che fa
sì che la costituzione sia modificabile esclusivamente da un procedimento diverso dal procedimento
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della legge ordinaria, si tratta di un procedimento di tipo aggravato di revisione costituzionale, più
complesso del procedimento per l’adozione della legge ordinaria. È la costituzione stessa che lo
prevede nelle sue forme ed è questo che pone la costituzione in una posizione di supremazia sulla
legge ordinaria. Dalla rigidità della costituzione deriva la sua supremazia e dalla supremazia deriva il
fatto che la legge ordinaria debba essere conforme alla costituzione e da qui deriva il controllo di
costituzionalità della legge, con lo Statuto Albertino non c’era la possibilità di annullare una legge
anche se contro la costituzione perché a non aveva rigidità, mentre ad esempio negli Stati Uniti si è
affermato il controllo di costituzionalità sin da subito.
Lo Statuto Albertino e le altre costituzioni europee ad esso contemporanee sono definite flessibili
perché mancavano tali procedimenti ma allo stesso tempo nascevano le prime costituzioni rigide
come quella americana la quale prevedeva un complesso procedimento di revisione costituzionale.
La costituzione repubblicana del ‘48 è rigida e tendenzialmente lo sono anche le costituzioni moderne
degli altri stati europei. La disciplina del procedimento di revisione è contenuta all’interno dell’Art. 138.
La Revisione Costituzionale
L’Art. 138 contiene la disciplina del procedimento di revisione costituzionale. Esso afferma che le
leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna camera
con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella seconda votazione. Questo articolo
prevede quindi due elementi di aggravio rispetto al procedimento legislativo ordinario, ovvero le due
deliberazioni distanziate da almeno tre mesi e, mentre le legge ordinarie possono essere adottate con
una maggioranza semplice, le leggi di revisione devono ottenere la maggioranza assoluta (50%+1 dei
componenti totali) nella seconda deliberazione. Questo è lo svolgimento della fase parlamentare.
Le leggi sono poi sottoposte a referendum se sotto richiesta di: un quinto dei membri di una
Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali, entro tre mesi dalla pubblicazione in
gazzetta ufficiale, se nessuno richiede un referendum entro tre mesi la legge viene promulgata . Il
referendum è confermativo e se favorevole porta alla promulgazione, altrimenti la legge non è
approvata. Per il referendum costituzionale non è previsto un quorum strutturale. Non si passa per il
referendum se la legge è approvata nella seconda delibera con ⅔ dei voti e il procedimento si chiude
con la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, quindi questo elemento di aggravio è
opzionale e può essere scavalcato con l’ampio consenso parlamentare.
Questo procedimento viene utilizzato sia per le leggi di revisione della Costituzione sia per le altre
leggi costituzionali. La legge di revisione costituzionale è quella legge che incide sul testo della
Costituzione e può modificare un articolo aggiungendo o rimuovendo delle parti, può abrogare interi
articoli o anche aggiungerne altri. Ad esempio con la riforma del titolo 5 si è completamente abrogato
l’Art. 124 e molti altri che si riferivano agli enti locali. Le altre leggi costituzionali possono essere poste
al vertice della piramide delle fonti insieme alla Costituzione. Queste leggi infatti hanno la medesima
forza di legge e si affiancano parallele al testo della Costituzione. La Costituzione stessa prevede in
vari articoli il ricorso ad una legge costituzionale per approfondire una materia, senza che queste
modifichino il testo costituzionale. Queste leggi possono essere in rottura o in deroga. Esiste inoltre la
possibilità di adottare leggi costituzionali ulteriori a quelle previste da questi articoli per le quali si
adotta sempre il procedimento dell’Art. 138. Non tutte le norme costituzionali possono essere
modificate attraverso il procedimento del 138, esistono infatti norme di rango costituzionali che
richiedono procedimenti diversi (come ad esempio l’Art. 132 che regola la fusione o formazione di
nuove regioni che prima della legge costituzionale necessita dell’approvazione dei consigli comunali,
e dei consigli delle regioni coinvolte) o anche norme che sono immodificabili.
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Il testo dell’Art. 139 tutela diversi elementi istituzionali rispetto all’interpretazione che si da
all’espressione “forma repubblicana”. Una prima interpretazione identifica il concetto di repubblica con
l’elettività del capo dello stato e la durata limitata della sua carica, il che la pone come opposta alla
monarchia vitalizia ed ereditaria. C’è una seconda interpretazione più ampia che ingloba la prima e la
allarga, comprende l’aspetto dell’elettività e temporaneità della carica ma aggiunge anche altri principi
organizzativi come il principio democratico con il voto a suffragio universale, il principio di
rappresentanza e la separazione dei poteri, e quindi allarga la definizione di repubblica alla repubblica
democratica. La terza interpretazione è ancora più ampia, e oltre ai principi organizzativi aggiunge i
diritti fondamentali come parte integrante della Costituzione e quindi come non suscettibili alla
revisione, si parla perciò di repubblica liberal-democratica.
Anche non adottando quest’ultima interpretazione però si può riconoscere la non revisionabilità dei
diritti. Infatti la Corte Costituzionale ha affermato con una sua sentenza l’inviolabilità dei diritti
fondamentali e questi rappresentano quindi i cosiddetti limiti impliciti perché non compaiono nel testo
costituzionale ma derivano dalla sentenza della Corte.
La Legge
Il termine legge in senso stretto o formale fa riferimento ad un tipo di fonte atto deliberata dalle
Camere o dai Consigli regionali, è caratterizzata dalla sua forma ma anche dal contenuto in quanto
normalmente produce norme giuridiche che entrano a far parte dell’ordinamento giuridico. Tra le fonti
di rango primario la più importante è la legge ordinaria parlamentare, che è un po’ la regina delle fonti
del diritto, seppur gerarchicamente sottoposta alla Costituzione, per via della generalità dei suoi
contenuti e i numerosi rinvii della Costituzione alla legge. Con le rivoluzioni borghesi si afferma
l’importanza della legge e del principio di legalità. Il principio di legalità ha sostanzialmente tre grandi
implicazioni:
● Esso afferma la superiorità gerarchica della legge sulle fonti secondarie, in quanto tutte le
fonti di tipo regolamentare sono subordinate alla legge ordinaria del Parlamento.
● Esso riguarda il ruolo della legge nel conformare e vincolare le attività amministrative.
Secondo questo principio il potere esecutivo è regolato dalla legge. Trova fondamento
costituzionale nell’Art.97.
● Il principio di legalità ha influenza anche sulla giurisdizione. I giudici infatti sono soggetti solo
alla legge e quindi devono risolvere le controversie esclusivamente applicando la legge, non
possono creare diritto e applicare i loro principi. Inoltre non si può essere arrestati per un
reato non previsto da una legge preesistente. Il vincolo del giudice alla legge sottolinea il
ruolo della legge nella formazione dei rapporti sociali.
Nell’ordinamento vigente la legge non è più priva di limiti ma è presente una Costituzione
gerarchicamente superiore che crea ulteriori fonti di rango primario che competono con la legge
ordinaria. Nell’ambito amministrativo va sottolineata la crescente discrezionalità attraverso
l’autonomia regolamentativa ma la pubblica amministrazione rimane comunque sottoposta alla legge.
Infine i giudici hanno comunque una loro autonomia interpretativa nell’applicazione della legge in
quanto non è un’attività meccanica ma valutativa.
Con l’espressione legge meramente formale si intende una legge che non presenta un carattere
normativo, pur avendo seguito l’iter legislativo, essendo costituita da enunciati linguistici impossibili,
incomprensibili o contraddittori.
La Riserva di Legge
La riserva di legge è un istituto che si ha quando la Costituzione riserva una disciplina di una materia
alla legge ordinaria o agli atti aventi forza di legge, cioè prevede che la disciplina di una materia sia
contenuta esclusivamente in una legge e neanche la legge stessa può rinviare quella materia ad
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un’altra fonte subordinata. L’istituto nasce nell’epoca della monarchia costituzionale affinché il
parlamento potesse controllare l’imposizione dei tributi da parte del sovrano, quindi a garantire un
ruolo di controllo da parte del Parlamento. Oggi, dato che il nostro ordinamento prevede una
repubblica parlamentare, la ratio non è più la stessa ma rimane comunque di tipo garantistico e a va
individuata in 3 elementi:
1. Nel fatto che al processo politico ordinario partecipano sia la maggioranza che la minoranza e
che questo è un processo meditato, che prende tempo.
2. Nel controllo della legge da parte della Corte Costituzionale.
3. Nel controllo popolare attraverso il referendum.
Le riserve di legge possono essere distinte in due modi: riserve assolute o relative, e riserve semplici
o rinforzate. La riserva di legge assoluta si ha quando l’intera disciplina della materia è riservata alla
legge, ad esempio l’Art. 13 la prevede con l’espressione “nei soli casi e modi previsti dalla legge”
intendendo che solo la legge può disciplinare quei casi e modi e che nessun altro atto può
disciplinarli. La riserva di legge relativa si ha invece quando la Costituzione attribuisce alla legge
solo una parte della materia da disciplinare e alla legge è quindi riservata la disciplina dei soli principi
generali. Ad esempio l’Art. 97 della Costituzione dice che “i pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge”, questa è una riserva relativa perché la legge può dettare soltanto i principi
organizzativi ma la normativa di dettaglio può essere contenuta in altri atti di rango secondario
come un regolamento. Generalmente la riserva relativa è introdotta da espressione come “secondo
disposizioni di legge” o “in base alla legge”. Anche quando è relativa la legge può comunque decidere
di disciplinare l’intera materie. Esistono però casi in cui la riserva di legge è necessariamente
relativa, dove quindi il Parlamento può determinare solo i principi generali. Ad esempio nell’Art. 33 la
Costituzione riconosce il potere di darsi delle regole proprie alle istituzioni di alta cultura come le
università, quindi la legge può limitarsi soltanto ad una disciplina generale mentre il resto è deciso in
autonomia dalle università.
Nei casi di riserva di legge la dottrina prevalente afferma che anche le altre fonti con forza di legge
possono disciplinare una materia riservata alla legge dalla Costituzione se anche queste fonti
soddisfano la ratio della riserva. Le fonti adatte a questo sono il decreto legge e il decreto legislativo
che anche se non hanno origine nel dibattito parlamentare soddisfano la riserva di legge perché
subiscono la partecipazione e il controllo del Parlamento pur essendo un atto del governo. Infatti il
decreto legislativo può essere adottato solo se c’è stata una previa delega da parte del Parlamento,
cioè esso deve adottare una legge che delega al governo la disciplina di una materia attraverso un
decreto legislativo da adottare entro un anno e con determinati principi, quindi è un controllo ex ante
(prima dell’adozione), mentre nel caso del decreto legge questo deve essere convertito in legge dal
Parlamento, e quindi è un controllo ex post. Visto che il Parlamento partecipa il primo elemento della
ratio della riserva di legge è soddisfatto. Anche gli altri elementi della ratio riguardanti il controllo sono
soddisfatti e quindi anche i decreti legge e i decreti legislativi possono disciplinare una materia che la
Costituzione riserva alla legge.
Il Procedimento Legislativo
La legge come atto fonte si caratterizza per la sua forma, cioè per il suo procedimento di
approvazione. Il procedimento legislativo è quel processo che porta all’approvazione della legge
parlamentare, esso è regolato principalmente dalla Costituzione (articoli 70 e seguenti) e dai
regolamenti parlamentari ed è composto da tre grandi fasi. La prima fase è quella di iniziativa
legislativa e consiste nella presentazione di un testo legislativo ad una delle camere. La seconda fase
è quella perfettiva, nella quale si svolge un esame sul progetto di legge e le camere procedono
all’approvazione del testo cosiddetto perfetto (il testo è detto perfetto quando entrambe le camere lo
approvano). La terza ed ultima fase è quella integrativa dell’efficacia che conferisce al testo di legge
perfezionato l’efficacia legislativa come previsto dall’ordinamento, è composta dalla promulgazione,
dalla pubblicazione e dall’entrata in vigore della legge.
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Fase di Iniziativa
La fase di iniziativa legislativa è regolata dall’Art. 71 della Costituzione ed è definibile come una fase
preliminare. Essa può essere esercitata in entrambe le camere e consiste nella proposizione di un
testo di legge articolato in norme giuridiche e diviso in articoli. Il potere di iniziativa spetta a vari
soggetti, i quali sono previsti espressamente nell’Art. 71 ma questa lista può essere ampliata
attraverso legge costituzionale come scritto nello stesso articolo. I soggetti con tale potere previsti
dall’articolo sono:
● I singoli parlamentari
● Il governo
● Il corpo elettorale attraverso la sottoscrizione di 50000 firme
I soggetti che più di tutti esercitano il potere di iniziativa legislativa sono i parlamentari sia singoli che
in gruppo. Le iniziative dei parlamentari prendono il nome di proposte di legge per distinguerle dai
disegni di legge che invece sono le iniziative che provengono dal governo. Le proposte dei
parlamentari hanno però delle percentuali di approvazione molto basse particolarmente per i
parlamentari di minoranza. I disegni di legge di iniziativa governativa sono molti di meno ed hanno
percentuali di approvazioni più alte perché rappresentano il programma della maggioranza. Nella fase
di programmazione dei lavori il presidente della camera infatti si riunisce con i capigruppo e chiede ad
un rappresentante del governo quali sono i disegni di legge più importanti da inserire nell’agenda
dell’attività parlamentare.
Le proposte di legge di iniziativa popolare rappresentano uno strumento di democrazia diretta che si
manifesta attraverso la sottoscrizione da parte di 50000 cittadini di un testo di legge da presentare
alle camere. Queste proposte diventano rarissimamente leggi, infatti la maggior parte delle altre
proposte non vengono esaminate dalle camere che accantonano molti progetti di legge che hanno
poca possibilità di passare, e di questo ne fanno le spese soprattutto le proposte popolari. Questo ha
determinato anche una forte critica dell’opinione pubblica che ha portato ad una proposta di revisione
costituzionale che avrebbe obbligato le camere ad esaminare i progetti popolari e avrebbe previsto un
referendum in caso di mancata approvazione, questo progetto è stato approvato in prima lettura ma è
stato poi accantonato per le critiche riguardanti la difficoltà della sua applicazione.
Le iniziative governative possono essere riservate e/o vincolate. Un’iniziativa riservata è un’iniziativa
legislativa che spetta esclusivamente al governo, un esempio di iniziativa riservata è la legge per
l’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, in quanto questi vengono negoziati dal ministero
degli esteri e poi recepiti dall’ordinamento attraverso la ratifica dei trattati, approvata attraverso una
legge che implica il controllo da parte del Parlamento dell’attività del governo. Lo stesso vale per il
disegno di legge di bilancio, il quale però è anche un’azione vincolata. La differenza tra un’iniziativa
riservata e una vincolata è che quella riservata può essere anche non presentata se il governo
abbandona quell’iniziativa, una vincolata invece deve necessariamente essere presentata dal
governo al Parlamento, nel caso della legge di bilancio perché è un’attività annuale che deve essere
approvata entro dei limiti temporali.
Sono infine previste da legge costituzionale le iniziative legislative per il CNEL (Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro) e per i Consigli regionali per quelle materie riguardanti l’amministrazione
regionale.
Fase Perfettiva
La fase parlamentare ha inizio quando il progetto di legge viene presentato effettivamente alle
camere. Il presidente dell’assemblea assegna la proposta di legge ad una delle 14 commissioni
permanenti in base alla materia di rilievo del progetto di legge come previsto nell’Art.72. L’articolo
prevede la commissione come un organo che necessariamente deve effettuare un’azione istruttoria
nel procedimento legislativo. (Questa attività può anche essere intesa come una fase a sé stante
detta fase istruttoria)
Quando il progetto di legge si ritiene valido o di interesse, il presidente della commissione lo inserisce
nel calendario dei lavori e si nomina un relatore che ha il compito di illustrare il testo e si raccolgono le
proposte emendative. Il relatore può stabilire di tenere un ciclo di audizioni con esperti, docenti,
associazioni e in generale soggetti interessati. Sono poi i membri della commissioni ad avanzare
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proposte di emendamenti, modifiche del testo che poi vengono votate nella commissione. Spesso i
progetti sono abbinati tra loro se ci sono più proposte su temi coincidenti. Si arriva al termine dei
lavori con un testo diverso dall’originale frutto dei lavori della commissione.
Conclusosi questo processo il testo entra nel calendario dell’assemblea, il parlamentare relatore
illustra il testo e l’assemblea delibera le proposte emendative, vota articolo per articolo e infine vota il
testo finale. Questa fase può durare molto tempo perché ogni parlamentare può presentare un
emendamento e può illustrare gli emendamenti, è una tecnica che può essere usata per fare
ostruzionismo da parte della minoranza verso la maggioranza. Per limitare ciò e garantire l’efficienza
dei lavori pur mantenendo la libertà politica il presidente dell’assemblea può usare lo strumento del
contingentamento dei tempi dei lavori, ovvero può stabilire una durata massima per il dibattito su un
disegno di legge assegnando ai gruppi parlamentari tempi per i loro interventi. Si giunge al voto
conclusivo sul testo perfezionato e se questo è positivo il presidente della camera lo trasmette al
presidente dell’altra camera e qui viene duplicato lo stesso procedimento legislativo ripartendo
dall’esame in commissione. La seconda camera può apportare delle modifiche e quando questo
avviene si ha la necessità di far tornare il testo alla prima camera, in quanto il nostro bicameralismo è
paritario e quindi i testi approvati devono essere esattamente identici. Questo avvenimento è detto
procedimento di navetta e può essere anche molto lungo, infatti si cerca di non farlo accadere.
All’inizio della successiva legislatura le camere possono riprendere alcuni dei progetti di legge per
salvare tempo nei lavori.
Questo procedimento, definito come procedimento in sede referente perché la commissione riferisce
del progetto di legge all'assemblea, non è l’unico procedimento previsto dalla Costituzione la quale,
sempre nell’Art. 72, prevede anche procedimenti alternativi anche se questi sono usati molto
raramente. Sono due e sono il procedimento con commissione in sede legislativa o deliberante e
quello con commissione in sede redigente.
Il procedimento con la commissione in sede deliberante è quello che più si discosta dal modello
principale in quanto la commissione assume il potere di deliberare sul testo di legge per intero e
quindi esaurisce la procedura dell’assemblea in commissione principalmente per accelerare il
procedimento legislativo. Si tratta di un’eccezione che trova legittimazione sul fatto che le
commissioni sono composte in base ai numeri delle forze politiche dell’aula e inoltre si usa solo
quando c’è un ampio consenso, quindi è molto raro. Il presidente di assemblea infatti può decidere di
assegnare il processo in questo modo se riceve l’approvazione delle opposizioni. Si possono opporre
1/10 dei membri dell’assemblea, ⅕ dei membri della commissione o il governo.
La commissione redigente (previsto dai regolamenti parlamentari) rappresenta una una sorta di via
di mezzo tra gli altri due processi perché prevede che la commissione non esegua solo la fase
istruttoria ma anche il voto articolo per articolo lasciando all’assemblea il voto finale. Anche in questo
caso le minoranze possono bloccare questo procedimento. Esistono materie che in ragione della loro
importanza non possono essere mai sottoposte a questi procedimenti ma esclusivamente a quello
della commissione referente. Queste materie sono elencate nell’Art. 72, si tratta di una riserva di
assemblea e sono: la legge di delegazione legislativa, la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati
internazionali, la legge di bilancio, le leggi finanziarie e le leggi elettorali.
L’ultima fase del processo legislativo è la fase integrativa dell’efficacia e si distingue di tre fasi:
promulgazione, pubblicazione ed entrata in vigore. Una volta perfezionato, l’atto viene trasmesso al
Presidente della Repubblica che effettua la promulgazione. La legge perfetta non può essere
modificata e il Presidente conferisce alla legge il valore di atto volitivo dello Stato (e non più solo
volitivo delle camere). I poteri presidenziali possono esercitare controlli sull’atto legislativo e quindi la
promulgazione non è semplicemente un atto formale come in diversi ordinamenti. Il nostro
ordinamento prevede che il Presidente della Repubblica abbia un potere di rinvio delle leggi secondo
l’Art. 74. Quando la legge giunge al Presidente egli svolge un controllo del testo ed entro 30 giorni
può ritenere di rinviare la legge alle camere per una nuova deliberazione attraverso un messaggio
motivato. Il rinvio non è un veto, esso implica un riesame da parte del Parlamento ma non comporta
un aggravio della maggioranza. Il Presidente può rinviare il testo della legge una solo volta e quindi se
la legge viene riapprovata non può essere più rinviata. Il rinvio è un potere che in Italia si utilizza con
molta prudenza e quindi con poca frequenza. Seppur non comporti un aggravio, nella prassi il rinvio è
particolarmente efficace perché il Presidente ha una forte legittimazione e autorità morale anche nei
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confronti dell’opinione pubblica, il che implica solitamente un adeguamento all’opinione del Presidente
da parte delle camere.
Il controllo del testo da parte del Presidente può essere un controllo costituzionale preventivo o un
controllo discrezionale sul contenuto della legge in chiave politica. Infatti si è affermata l’idea che il
rinvio non sia solo esclusivamente legato ai vizi giuridici del testo ma anche a motivazioni di diverso
tipo. Egli esegue un controllo di merito costituzionale, cioè le sue osservazioni sono obiezioni che
competono la conformazione della legge ai valori costituzionali, e quindi può rinviare un testo sia in
caso di vizi e antinomie sia quando la Costituzione sembra prefigurare una più adeguata disciplina
della materia.
Con la promulgazione la legge viene pubblicata in gazzetta ufficiale dal ministro di grazia e giustizia e
dalla pubblicazione decorre il periodo di vacatio legis generalmente di 15 giorni per consentire a tutti
di venire a conoscenza della legge e passato questo periodo avviene l’entrata in vigore. Questa è
l’entrata in vigore ordinaria quando la legge non prevede una diversa tempistica di entrata in vigore, la
legge stessa può prevedere infatti un’entrata in vigore immediata o un’entrata in vigore posticipata.
Per alcune leggi la Costituzione prevede un procedimento diverso e aggravato (o rinforzato) dalla
previsione di una fase ulteriore o di una maggioranza diversa per l’approvazione dell’atto. Esempi di
queste leggi rinforzate sono le leggi che consentono a Province e Comuni di fare richiesta di essere
staccati da una Regione per essere aggregati ad un’altra.
Il decreto legislativo si inserisce nel più ampio processo di delegazione legislativa, attraverso il
quale il Parlamento delega al governo l’esercizio della funzione legislativa per una specifica materia.
La delegazione non porta alla limitazione della funzione legislativa delle camere, le quali possono
revocarla o approvare una legge sulla materia delegata per abrogare la legge di delegazione. Questa
delegazione avviene attraverso una legge ordinaria e formale la quale deve necessariamente
contenere tre elementi fondamentali, senza dei quali non è valida. Questi elementi sono:
● L’oggetto, ovvero la materia su cui il governo deve legiferare (possono essere previsti più
oggetti).
● Il termine entro cui il governo deve adottare il decreto, solitamente 1 o 2 anni.
● I principi e criteri direttivi, ovvero le linee guida che il Parlamento dà al Governo nell’affidargli
tale materia normativa.
La legge delega segue l’iter della legge ordinaria anche se non ha un vero e proprio valore
sostanziale, infatti ha solo il valore di abilitare il governo all’adozione dei decreti. Ricevuta la delega, il
governo avvia la scrittura del decreto attraverso i ministeri competenti sulla materia, i quali
comprendono uffici legislativi appositi. Viene prodotto il decreto legislativo o delegato, esito della
delega conferita, e viene approvato dal Consiglio dei ministri, in seguito viene solitamente presentato
alle camere in via preventiva, perché anche se non è un passaggio previsto dall’articolo solitamente è
presente nella legge di delega affinché le camere esprimano un parere che però non è vincolante.
Viene infine presentato al Presidente della Repubblica per l’emanazione, diversa dalla promulgazione
per distinguere gli atti del governo, e viene pubblicato in gazzetta entrando in vigore. Accade a volte
che il governo non proceda con la delega per varie ragioni ad esempio se non condivide l’obiettivo
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della delega, se l’approvazione della delega è solo per manifestazione della volontà politica senza un
vero interesse a legiferare, oppure quando cambia il governo. In questi casi il Parlamento approva la
legge di delega ma il governo non la esercita. Se il decreto legislativo viola uno dei limiti della legge
delega si parla di eccesso di delega, non è una violazione meramente politica ma è proprio
un’incostituzionalità anche se la legge delega è solo una legge ordinaria perché è la Costituzione
stessa a costruire questo rapporto con la legge delega nell’Art. 76.
Il decreto legge è uno strumento molto utilizzato nell’ordinamento odierno. Esso è regolato nell’Art.
77 il quale afferma che il governo può adottare atti con forza di legge di valore provvisorio, i decreti
legge, in casi straordinari di necessità ed emergenza. Il governo adotta immediatamente il decreto
legge e lo presenta al Presidente della Repubblica che lo emana, i decreti legge entrano in vigore il
giorno della loro pubblicazione in gazzetta e rimangono in vigore per un massimo di 60 giorni dopo di
che decadono a meno che non intervenga una legge di conversione. Per questo il Governo presenta
alle camere un disegno di legge di conversione del decreto legge il giorno stesso della sua adozione,
si apre il procedimento legislativo ordinario e quando la legge viene approvata si verifica il fenomeno
della conversione del decreto legge che non è più provvisorio ma prende il valore della legge
ordinaria. Al contrario, se le camere non convertono il decreto legge esso rimane provvisorio e
decade. Le camere emendano il testo del decreto legge e quindi i parlamentari possono introdurvi i
propri emendamenti.
L’adozione di un decreto legge può anche causare un rallentamento dei lavori parlamentari perché il
presidente dell’assemblea è costretto a calendarizzare la conversione del decreto legge, che ha la
priorità rispetto ai lavori ordinari della camera. In particolare negli anni ‘70 e ‘80 c’è stata una stagione
di ampio utilizzo dei decreti legge, la prassi governativa era diventata quella di usare il decreto legge
come strumento tipico di legislazione mentre in teoria sarebbe uno strumento di emergenza,
principalmente perché questi governi erano consapevoli della lentezza del procedimento di
legiferazione ordinario del Parlamento. Questa prassi era diventata così frequente che la Corte
Costituzionale intervenne con una sentenza vietando la reiterazione del decreto legge, ovvero quando
il governo, arrivato al termine del periodo di validità del decreto lo reinseriva in un nuovo decreto
legge, e inoltre affermò che i presupposti di necessità e urgenza possono essere verificati dalla Corte.
Se la legge converte un decreto carente dei presupposti ci sono secondo la dottrina due soluzioni, la
prima afferma che il decreto convertito viene sanato e quindi è valido, l’altra afferma l’opposto,
prevedendo che la Corte possa comunque esaminare i presupposti di emergenza e la legge di
conversione sarebbe essa stessa invalida. La Corte tra queste due soluzione ha scelto quest’ultima,
quindi la essa può controllare la sussistenza dei presupposti sia sul decreto legge, sia sulla legge di
conversione determinando l’annullamento del decreto legge e della legge di conversione. Nella
pratica però la Corte non sta effettivamente esercitando questo controllo.
Nel caso di decreto legislativo parliamo di una fonte atto perché il suo procedimento è già previsto
dall’Art. 76. Per i decreti legge invece la situazione è più complessa in quanto l’Art. 77 prevede che il
governo possa adottare i decreti legge e per questo potrebbe essere visto come la norma di
riconoscimento del decreto legge. Tuttavia l’articolo non prevede il decreto legge in sé ma prevede
l’ipotesi che il governo lo abbia adottato e disciplina il modo in cui le camere attraverso la legge di
conversione possono introdurre le norme del decreto legge all’interno dell’ordinamento. L’Art. 77
quindi non è la norma di riconoscimento del decreto legge ma di riconoscimento della legge di
conversione e quindi possiamo dire che il decreto legge è una fonte fatto.
Il Referendum Abrogativo
1. Fase di iniziativa
2. Fase dei controlli
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3. Fase dell’indizione e della votazione
4. Fase della dichiarazione dell’esito
Si tiene quindi la votazione e affinché il referendum sia approvato sono necessari due quorum:
Alla votazione deve quindi essere presente la maggioranza della popolazione avente diritto di voto e il
risultato deve avere un risultato valido (50%+1). Il referendum costituzionale invece non necessita del
quorum strutturale
Se l’esito è positivo è quindi dichiarata l’abrogazione della legge/norma dal Presidente della
Repubblica attraverso un decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e dal giorno dopo si produce
l’efficacia dell’abrogazione. Il Presidente della Repubblica può ritardare l’effetto, ma questo ritardo
non può superare i 60 giorni. Se invece il referendum ha esito negativo la notizia viene pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale dal Ministro della Giustizia.
Il referendum abrogativo è considerato una fonte del diritto. Le fonti del diritto in genere dovrebbero
essere generali, astratte e dovrebbero innovare o modificare l’ordinamento, si ha innovatività anche
eliminando un qualcosa dall’ordinamento e quindi il referendum viene considerato una fonte. Esso è
una fonte di rango primario, essendo previsto dalla Costituzione. Il referendum ha quindi la capacità di
abrogare una legge sullo stesso rango, non può quindi abrogare una fonte superiore come la
Costituzione, poiché essa ha altri metodi. Riguardo le leggi regionali, il referendum abrogativo non
può aver luogo poiché le regioni regolano i loro processi specifici di referendum negli statuti regionali.
I limiti del referendum abrogativo possono essere espressi, logici e taciti. I limiti espressi sono
previsti dalla Costituzione nell’Art. 75, la quale vieta che alcune leggi sono sottoposte a referendum
(leggi finanziarie, amnistia, ratifica trattati internazionali). I limiti taciti non sono ricavabili dalla
Costituzione ma dal sistema. Essi delineano che il referendum non si può svolgere su leggi regionali,
sulla Costituzione e sui Regolamenti parlamentari. I limiti logici sono invece individuati dalla Corte
costituzionale.
Sono sottratte a referendum le leggi costituzionalmente vincolate, cioè quelli leggi il cui contenuto
è imposto dalla Costituzione, le quali quindi sono leggi che riproducono l’unica attuazione della
Costituzione e quindi non possono essere sottoposte a referendum.
Le leggi costituzionalmente obbligatorie invece sono quelle leggi la cui presenza è necessaria
affinché la vita dell’ordinamento giuridico prosegua, come la legge elettorale. Tuttavia la Costituzione
non ne vincola il contenuto quindi possono essere modificate ma non totalmente abrogate. Il
referendum è quindi ammissibile, ma deve solo essere parziale e deve avere come effetto quello di
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mantenere una parte idonea a mantenere il regolare svolgimento delle elezioni (la cosiddetta
normativa di risulta).
Esistono inoltre dei limiti che riguardano la formulazione testuale del quesito referendario. La Corte
costituzionale ha infatti sentenziato che il quesito referendario deve essere chiaro, preciso ed
omogeneo. Deve avere un’alternativa secca tra SI o NO, e deve riguardare un atto formulato in modo
chiaro ed univoco, affinché la libertà dell’elettore non venga intaccata e il contenuto deve essere
preciso. Non è ammissibile un referendum abrogativo su una lunga serie di articoli perché non viene
lasciata libera scelta all’elettore tra i vari articoli da abrogare.
Un ultimo limite è quello che afferma che il quesito referendario deve essere completamente ablativo,
ossia deve solo eliminare. Attraverso il quesito referendario non è quindi possibile inserire una nuova
disposizione. A questo fine sono vietati i cosiddetti referendum manipolativi svolti attraverso la tecnica
del ritaglio, ovvero il rimuovere alcune parole per far sì che la normativa di risulta si trasformi in una
nuova disposizione.
A seguito dell’indizione del referendum il Parlamento non perde la sua funzione legislativa sulla
materia interessata, ma esso può comunque modificare la legge oggetto di referendum. La Corte ha
affermato che se tale modifica non è sostanziale allora il quesito referendario si sposta
semplicemente sulla nuova norma, ma se si tratta di una modifica sostanziale si parla di abrogazione
sufficiente e il referendum si blocca.
La norma costituzionale, nel contemplare il potere sostitutivo, non ha circoscritto l'oggetto, così che
l’atto illegittimo può consistere tanto in atti amministrativi quanto in atti normativi. Quanto alla forza
formale, l'atto può essere di rango primario qualora il governo si sostituisca agli organi legislativi.
L'Art. 120 stabilisce i presupposti sostanziali ed alcuni profili procedimentali per l'esercizio del potere
sostitutivo. Sotto il profilo dei presupposti sostanziali è da rilevare che le ipotesi elencate solo
apparentemente presentano un carattere tassativo, riguardando categorie così ampie da sottrarsi ad
una rigida predeterminazione. Relativamente al procedimento, invece, la Costituzione fissa l'organo
titolare del potere, ovvero il Governo, ed introduce per il resto una riserva di legge assoluta rinforzata,
richiedendo che la legge definisca procedure atte a garantire il rispetto dei principi di sussidiarietà e
leale collaborazione.
Per gli atti di carattere amministrativo, regolati dall’Art. 120 è previsto che il Governo si attenga ai
principi di leale collaborazione e di sussidiarietà, per questo è previsto che esso si confronti con le
regioni prima di attuare la normativa, in modo da collaborare.
I Regolamenti Parlamentari
La garanzia più importante per l’indipendenza delle camere è l’autonomia regolamentare, prevista
dall’Art. 64 della Costituzione, il quale afferma che ciascuna camera adotta il proprio regolamento a
maggioranza assoluta dei suoi componenti. L’Art. 64 è quindi la norma di riconoscimento di una fonte
del diritto, il regolamento parlamentare. Essendo che ciascuna camera adotta il proprio regolamento ,
questi sono diversi tra loro, seppur di poco. Il regolamento è definito come una fonte del diritto a
competenza riservata e specializzata. Specializzata nel senso che regola materie specifiche oltre cui
non può andare ed è riservata perché non vi possono intervenire altre fonti. I regolamenti contengono
norme che integrano il procedimento legislativo e quindi introducono norme sulla produzione del
diritto dello Stato. La legge ordinaria e i regolamenti non si trovano in un rapporto non gerarchico ma
di separazione di competenze. Sono gerarchicamente subordinati alla Costituzione e quindi ne
dovrebbe derivare che il regolamento debba essere controllato dalla Corte Costituzionale in caso di
antinomia tuttavia una sentenza della stessa Corte afferma che l’Art. 134 (che elenca le controversie
di competenza della Corte) non menziona i regolamenti che rimangono quindi indipendenti e non
sono oggetto di controllo di costituzionalità, inoltre un controllo della Corte andrebbe a minare
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l’autonomia del Parlamento. Quindi sono formalmente subordinati rispetto al sistema delle fonti ma
non sono sottoposti al controllo della Corte Costituzionale.
I Regolamenti Governativi
Il governo possiede un’ampia potestà normativa nel rango secondario delle fonti del diritto. Questa
impostazione è coerente con il principio di separazione dei poteri, in quanto le leggi di rango
secondario sono comunque vincolate dalla legge ordinaria e dalle fonti primarie anche in coerenza
con il principio di legalità. Inoltre le fonti governative di rango secondario servono proprio per facilitare
l’esecuzione delle leggi, le quali solitamente nascono come norme di carattere generale e astratto e
che perciò hanno bisogno di norme di attuazione esecutive. Il ruolo centrale nella normazione di
rango secondario è rivestito dai regolamenti governativi previsti dalla Costituzione (Art. 87), la quale
però contiene poche informazioni su di essi, il testo costituzionale ci dice solamente che i regolamenti
vengono emanati con un decreto del Presidente della Repubblica (come decreti legge e decreti
legislativi) e spiega quali sono i rapporti tra regolamenti governativi e regionali. In quanto atti del
Governo i regolamenti sono annullabili da parte dei giudici amministrativi (TAR).
La disciplina generale sui regolamenti governativi è contenuta nell'Art. 17 della legge 400 del 1988
nella quale si prevede il procedimento sulla loro adozione. I regolamenti governativi vengono emanati
dal Presidente della Repubblica con la previa approvazione del Consiglio dei Ministri, e dopo aver
sentito il parere del Consiglio di Stato, anche se questo non è un parere vincolante. Sono previste
diverse tipologie di regolamenti, che differiscono per il livello di dettaglio e concretezza. I regolamenti
possono essere:
Esiste poi una categoria di regolamenti, i cosiddetto regolamenti di delegificazione, che si utilizzano
quando si vuole ridurre il rango normativo di una disciplina di rango legislativo al rango secondario
regolamentare. Questo avviene attraverso una precedente legge di autorizzazione alla delegificazione
che prevede un regolamento autorizzato a regolare la materia abrogando le norme precedenti.
Tramite questo fenomeno si cerca di ridurre la quantità delle leggi soprattutto per quelle materie non
coperte da riserva di legge, inoltre i regolamenti sono più facilmente modificabili, quindi più adatti a
regolare una materia che cambia regolarmente nel tempo. La delegificazione determina una
declassamento del rango della normativa che passa da legislativo a regolamentare. La legge di
autorizzazione prevede determinati norme generali della materia che stabiliscono il perimetro della
materia. Prevede anche la clausola abrogativa della legge che si attiva quando entra in vigore il
regolamento. Per la delegificazione è necessario che: si individuino le norme da abrogare attraverso
la legge, che non esista una riserva di legge assoluta sulla materia, che la legge di autorizzazione
fissi delle norme generali sulla materia e infine che il regolamento sia di natura governativa.
I Contratti Collettivi
Tra le fonti del diritto sono da menzionare i contratti collettivi di diritto pubblico disciplinati nell’Art. 39
della Costituzione. Esso prevede che i sindacati registrati possano stipulare contratti collettivi con
efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce, anche se
non iscritti al sindacato. Tuttavia storicamente i sindacati hanno conservato la natura di associazioni
non riconosciute ed il loro potere contrattuale ha continuato a produrre effetti solo per i rispettivi
iscritti. In altri termini, nelle prassi si sono conclusi solo i contratti collettivi di diritto comune che non
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hanno efficacia erga omnes, ma vincolano, sulla base di un rapporto di mandato con rappresentanza
solo dei lavoratori aderenti al sindacato contraente.
Le Consuetudini
Le consuetudini sono riconducibili alla categoria delle fonti fatto. Le consuetudini secundum ordinem
sono previste nelle Preleggi le quali le configurano come subordinate alla legge ed ai regolamenti.
L'Art. 8 delle preleggi dispone che nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti, gli usi hanno
efficacia solo quando sono da essi richiamati. Da ciò consegue della consuetudine ha efficacia se la
legge o regolamento fanno adesso un rinvio oppure qualora ci si trovi in una fattispecie non regolata
da fonti costituzionali primarie o secondarie.
Le consuetudini contra o extra ordinem sono invece quelle che si impongono contro le regole sulla
produzione attraverso la forza normativa del fatto instaurativo di esse. Una fonte tale per definizione
non è e non può essere regolata in quanto extra ordinem e non è quindi possibile determinare in via
preventiva la posizione che assumerà nella scala gerarchica delle fonti. Dal punto di vista della forza
attiva si potrebbe parlare della consuetudine extra ordinem come di una fonte anche super
costituzionale, tale, cioè, da imporsi attraverso la forza del fatto nei confronti di qualsiasi altra forte
dell'ordinamento, legislativo e costituzionale che sia. La forza passiva, ovvero la capacità di resistere
all'abrogazione, dipende dalla stessa consuetudine, nel senso che si può affermare nei consociati la
convinzione che essa possa essere legittimamente abrogata o modificata da tutte, da nessuna o da
alcune norme.
Le consuetudini costituzionali sono così dette per un loro particolare contenuto, in quanto sono
consuetudini che incidono su norme o principi costituzionali. Ad esempio sono consuetudini
costituzionali quelle che integrano le lacune del diritto costituzionale vigente, come le consultazioni
per la formazione del Governo.
Sotto il profilo contenutistico si possono distinguere le consuetudini che introducono norme tese ad
imporre, guidare un comportamento (c. obbligatorie) e quelle produttive di norme che attribuiscono
poteri o facoltà (c. facoltizzanti).
Per il formarsi di una consuetudine devono ricorrere due elementi: la diuturnitas e l'opinio iuris. La
diuturnitas consiste nella ripetizione costante di un determinato comportamento senza un determinato
periodo di tempo, o una frequenza minima per il formarsi della consuetudine. L’opinio iuris
rappresenta invece l'elemento psicologico e può definirsi come il convincimento della rispondenza del
comportamento ad una norma giuridica.
Il venire a meno di uno dei due elementi provoca il fenomeno della desuetudine, pertanto la norma
consuetudinaria vige solo se e fino a quando ha effettività, ossia gode tra i consociati di una media
osservanza.
Le consuetudini sono fonti non scritte e la loro pubblicazione sui fogli legali costituisce un
adempimento eventuale, non obbligatorio e comunque successivo all'entrata in vigore della norma.
Queste situazioni soddisfano dunque soltanto un'esigenza probatoria, nel senso che il giudice
tendenzialmente presume l'esistenza della consuetudine pubblicata, salvo prova contraria.
Le Consuetudini Internazionali
Le fonti dell'ordinamento internazionali possono essere all'origine della produzione di diritto dello
Stato solo a condizione che siano da quest'ultimo richiamate attraverso la tecnica del rinvio. In
particolare, la Costituzione italiana prevede all’Art. 10 che l'ordinamento giuridico italiano si conforma
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Questa norma introduce un dispositivo
di adattamento automatico (rinvio mobile), nel senso che al nascere di una norma nell'ordinamento
internazionale, automaticamente sorge nell’ordinamento dello Stato una corrispondente norma.
L'oggetto del dispositivo automatico è rappresentato dal diritto internazionale generalmente
riconosciuto, vale a dire dalle consuetudini internazionali generali.
Quanto al rango gerarchico delle norme immesse attraverso il dispositivo di adattamento automatico,
esse prevalgono sulle norme di rango legislativo, mentre è nel dubbio la posizione nei confronti delle
norme costituzionali.
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Le Norme di Adattamento ai Trattati Internazionali
Le norme di adattamento ai trattati sono di solito introdotte nell’ordinamento utilizzando fonti già
esistenti, le quali piuttosto che riprodurre il contenuto delle norme internazionali, si limitano a
prevedere un ordine di esecuzione dell’accordo, il quale rinvia al trattato allegato. Conseguentemente,
la forza formale attiva delle norme di adattamento dipenderà dalla natura dell’atto contenente l'ordine
di esecuzione.
L’Art. 80 della Costituzione impone per alcuni trattati una legge di autorizzazione alla ratifica da parte
del Presidente della Repubblica, con il quale lo Stato assume l'impegno sul piano internazionale.
L'autorizzazione legislativa delle camere è richiesta in particolare per gli accordi aventi natura politica,
per quelli che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o che importino variazioni del territorio,
oneri alle finanze o modificazioni di legge.
Quanto alla forza passiva delle norme di adattamento ai trattati internazionali, va ricordato che l'Art.
117 afferma che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalla regione, nel rispetto dei vincoli
derivati dagli obblighi internazionali. Di conseguenza le norme di adattamento ai trattati internazionali
sono di rango subordinato alla Costituzione ma superiori alla legge ordinaria. Devono essere conformi
alla Costituzione ma non possono essere abrogate dalla legge ordinaria.
L’Art. 117 sembrerebbe riferirsi a tutti i trattati internazionali ma è corretto circoscrivere l’effetto
vincolante ai soli trattati ratificati con autorizzazione legislativa.
Le Fonti Regionali
Il titolo V della seconda parte della Costituzione dedica varie disposizioni alle fonti degli enti
infrastatuali e tali disposizioni sono divenute il crocevia della distribuzione delle potestà normative per
l’intero ordinamento nazionale. Nell’Art. 114 viene ribadita e rafforzata l'opzione costituzionale per
l’autonomia territoriale, che trova il suo punto più qualificante nella potestà normativa degli enti. A
seguito della riforma, l’Art. 117 non si occupa più solo di definire la potestà normativa delle Regioni,
ma riarticola complessivamente tale funzione con riferimento sia allo Stato che agli altri enti territoriali.
La nuova ripartizione di funzioni ruota intorno a due coordinate. La prima consiste nell’individuare gli
ambiti di competenza dei vari enti attraverso l'identificazione esplicita o implicita di materie assegnate
a ciascun ente. La seconda consiste nella scelta di ripartire tra gli enti non solo i settori di competenza
ma anche i tipi di funzione normativa. Il legislatore costituzionale infatti non si è solo preoccupato di
stabilire entro quali ambiti materiali e con quale intensità i vari enti possono intervenire, ma ha voluto
espressamente ripartire tra di essi che l’esercizio della potestà legislativa e di quella regolamentare,
quindi l’assegnazione all’ente del potere di porre norme non lo abilita ad esercitarlo con qualsiasi atto
normativo, ad esempio gli enti territoriali minori (Province, Comuni e Città metropolitane) sono titolari
di potestà statutaria e regolamentare, ma non di quella legislativa. Dell’Art. 117 i primi quattro commi
distribuiscono la potestà legislativa, mentre il sesto mira ad allocare quella regolamentare.
La disciplina statutaria delle Regioni ordinarie è invece affidata ad atti che sono deliberati e modificati
dal consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due
deliberazioni successive adottate ad un intervallo non minore di due mesi. Per le regioni ordinarie si
tratta quindi di un atto regionale adottato con una procedura aggravata, ma comunque privo della
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forza della legge costituzionale ed infatti il Governo può promuovere una questione di legittimità
costituzionale nei confronti degli Statuti. Inoltre, lo Statuto è posto ad un referendum approvativo
eventuale se entro tre mesi ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un
quinto dei componenti del Consiglio regionale.
Le differenze tra i due tipi di statuto ordinario e speciale riguardano anche i limiti e la relativa
competenza. Sotto il profilo dei limiti, gli statuti speciali, pur essendo approvati con legge
costituzionale, incontrano da un lato i limiti propri di tutte le leggi costituzionali e di revisione
costituzionale, dall'altro grava un vincolo particolare che è legato alla delimitata competenza ad essi
assegnata, e perciò non potrebbero intervenire oltre tale ambito di competenza. Gli statuti ordinari
invece sono sottoposti a limiti più penetranti. L’Art. 123 dispone che essi debbano essere in armonia
con la Costituzione. Inoltre, a differenza degli statuti speciali, la competenza degli statuti ordinari è
tassativamente definita dalla Costituzione stessa e non coincide con l’intera materia dell’autonomia
regionale. Gli statuti ordinari sono quindi subordinati alla Costituzione gerarchicamente e
orizzontalmente, in termini di competenza. La competenza statutaria è stabilita dall’Art.123 che
disciplina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della
regione. A ciò si aggiungono altri contenuti necessari che pur rientrando nell’ambito dei primi sono
stati automaticamente considerati dal legislatore costituzionale. Statuti speciali e ordinari differiscono
infine per la qualità del proprio oggetto. I primi oltre a contenere le norme fondamentali
dell’organizzazione regionale, costituiscono la fonte principale per l’assegnazione delle competenze
regionali attraverso le quali si realizza la relativa specialità. È infatti ciascuno statuto speciale che
contiene la ripartizione delle attribuzioni tra lo Stato e quella singola regione, ripartizioni che per le
altre regioni è fissato dall'Art. 117
Le Leggi Statutarie
A seguito della riforma del 2001, le regioni a statuto speciale possono disciplinare la forma di governo
il sistema elettorale regionale con proprie leggi adottate secondo peculiare procedimento. La legge
statutaria deve essere approvata dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta. Le leggi statutarie
sono tenute ad essere in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento ed a rispettare le
norme inderogabili degli Statuti speciali in tema di forme di governo. La legge statutaria può essere
sia impugnata dal Governo davanti alla Corte costituzionale sia sottoposta a referendum approvativo.
L’Art. 117 contiene due elenchi di materie per distribuire la potestà legislativa, uno contenente gli
ambiti di legislazione esclusiva dello Stato e un altro contenente quelli di legislazione concorrente. La
differenza tra i due tipi di potestà legislativa consiste nel fatto che nella legislazione concorrente la
ripartizione non si ispira solo ad una coordinata orizzontale (sulle singole materie) ma anche ad una
verticale, cioè in queste materie allo Stato spetta solo la fissazione con legge dei principi fondamentali
mentre alle Regioni è riservata la normativa di dettaglio. Le materie non espressamente riservate allo
Stato, infine, spettano alla competenza delle Regioni, detta residuale.
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La maggior parte delle voci contenute negli elenchi dell’Art. 117 si caratterizza la presenza di un
oggetto, sia esso un bene materiale o immateriale, un ente, un organo, o un istituto giuridico o
economico o in uno status, e sono dette perciò materie-oggetto. L’interpretazione delle materie-
oggetto avviene attraverso tre criteri: quello costituzionale, quello eurounitario e quello storico
normativo. In base al primo nell’interpretazione delle materie occorre muovere dal complesso delle
disposizioni costituzionali perché si deve presumere che i termini adoperati nelle diverse parti della
Costituzione nelle leggi costituzionali abbiano lo stesso significato. Allo stesso modo assumono
rilevanza gli elenchi degli statuti speciali e l’interpretazione che ne è stata fornita dal legislatore. se si
confrontano gli elenchi costituzionali con i titoli. Se si confrontano poi gli elenchi costituzionali con i
titoli competenziali previsti nei trattati europei possono riscontrarsi numerose corrispondenze.
Laddove tali criteri risultino insufficienti l’esigenza garantistica che è a fondamento delle materie-
oggetto impone all'interprete di avvalersi del criterio storico-normativo, in base al quale il contenuto
delle singole materie va ancorato al significato che esse avevano nel contesto dell’ordinamento
vigente al momento della loro approvazione.
Gli elenchi del secondo e terzo comma dell'Art. 117 della costituzione includono anche materie che
possono individuarsi solo in termini finalistici cioè riguardo, anziché alle classi che debbono costituirne
l'oggetto, agli scopi o agli obiettivi che sono chiamate a perseguire, come ad esempio la tutela
dell’ambiente. Queste materie sono dette materie-scopo o materie trasversali, nel senso che
“attraversano” tutti i commi dell’Art. 177 e che vanno ad abbracciare quelle competenze che in teoria
rientrerebbero nella categoria delle materie residuali. In queste materie lo Stato ha una competenza
trasversale attraverso la quale può incidere sulla disciplina di qualsiasi ambito materiale,
indipendentemente dall' attribuzione ad esso della competenza normativa sul singolo oggetto. Infatti,
si può giungere ad un obiettivo in vari modi che potrebbero attraversare diverse materie, tra cui quelle
di competenza regionale. La competenza che tali materie garantiscono non è predeterminata, ma è
fissata dagli atti che ne costituiscono concreto l'esercizio. Ciò implica che il sindacato della Corte
costituzionale si dovrebbe limitare ad accertare che la finalità dell’atto legislativo corrisponda ad una
di quelle indicate nell'Art.117, e che l'invasione delle competenze legislative regionali abbia il carattere
della necessità e della proporzionalità rispetto allo scopo fissato dalla costituzione e infine non venga
leso il principio di leale collaborazione. Attraverso queste materie trasversali la Corte costituzionale
infatti è andata a limitare la potestà legislativa residuale delle regioni interpretando le materie di
competenza esclusiva dello Stato in modo più generale e non in base al singolo oggetto, facendo sì
che queste si allargassero ad altre materie non elencate.
Per le materie a competenza legislativa concorrente, allo Stato spetta alla fissazione dei principi e alle
regioni la normativa di dettaglio. Per la fissazione dei principi fondamentali la costituzione prevede
una riserva di legge che è al tempo stesso assoluta nei confronti delle altre fonti statali, e
necessariamente relativa nei confronti delle fonti regionali. I principi fondamentali ai quali fa
riferimento l'Art. 117 sono principi stabiliti da leggi dello Stato sia nella forma di principi espressi che
di disposizioni di principio, tuttavia se lo Stato non approva tali principi, le Regioni possono esercitare
la propria funzione legislativa nelle materie di competenza concorrente, ispirando la propria
legislazione ai principi desumibili dalla legislazione statale.
Il sistema delineato dall’Art. 117 si applica solamente alle regioni a statuto ordinario, le regioni ad
autonomia speciale infatti hanno un diverso sistema di ripartizione delle competenze regolato dai
propri statuti, i quali hanno questa validità perché sono approvati attraverso legge costituzionale.
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funzioni normative. La potestà legislativa è distribuita tra Stato e regioni mentre la potestà
regolamentare è assegnata ad ogni ente territoriale.
Il procedimento ed il regime della legge regionale sono regolati in parte direttamente dalla
Costituzione e in parte dagli statuti regionali. Dalla prima si deduce che la funzione legislativa è
esercitata dal Consiglio regionale, che spetta al Presidente regionale l'atto di promulgazione e che le
leggi della regione sono sottoponibili al sindacato della Corte costituzionale e che contro di esse è
proponibile il referendum regionale. Le altre norme del procedimento legislativo sono invece oggetto
della disciplina statutaria. L’Art. 117 dispone che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto della
Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. A tali
limiti sono da aggiungere quelli che provengono dalla normativa subcostituzionale, ovvero quei limiti
derivanti dalla disciplina statutaria delle regioni ordinarie in base all'Art. 123 e dalle leggi dello Stato
nelle ipotesi costituzionalmente previste (come nel caso delle leggi cornice).
L'Art. 121 attribuisce al Presidente della Giunta il potere di emanare i regolamenti regionali e l'Art.
123 affida alla competenza statutaria la disciplina della pubblicazione dei regolamenti regionali.
Un'importante novità derivante dalla riforma è l'abrogazione della previgente riserva della potestà
regolamentare al Consiglio regionale ed ora l'attribuzione della potestà regolamentare regionale è di
competenza degli statuti. Implicitamente la Costituzione si limita soltanto ad escludere che tale
potestà sia attribuita al Presidente, riservandogli solo il potere di emanazione dei regolamenti
regionali. Come i regolamenti statali, anche i regolamenti regionali sono fonti secondarie nel senso
che sono subordinati alla legge e alle altre fonti primarie.
La disciplina delle fonti degli altri enti territoriali è interamente lasciata dalla Costituzione alla
legislazione ordinaria. Tale disciplina è oggi prevista in via generale nel Testo unico degli enti locali e
nella Legge Delrio. Tra le fonti degli enti locali possono annoverarsi gli statuti e i regolamenti. La
potestà statutaria delle Province, dei Comuni e delle Città metropolitane ha ad oggetto, in armonia
con la costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, gli organi di governo
e alle funzioni fondamentali di tali enti, i principi fondamentali di organizzazioni di funzionamento
dell’ente, le forme di controllo anche sostitutivo, le garanzie delle minoranze e le forme di
partecipazione popolare, le modalità di accesso dei cittadini alle informazioni ai procedimenti
amministrativi.
Agli statuti metropolitani spetta la scelta della modalità di elezione del sindaco e del Consiglio. Lo
statuto comunale è approvato e modificato dal Consiglio, col voto favorevole dei ⅔ dei consiglieri.
Laddove tale maggioranza non venga raggiunta, la votazione è ripetuta in successive sedute e lo
statuto o la proposta di modifica sono approvati se ottengono per due volte il voto favorevole della
maggioranza assoluta. Lo statuto delle province è invece approvato e modificato dall’assemblea dei
sindaci, su proposta del consiglio provinciale con i voti che rappresentino almeno ⅓ dei comuni
compresi nella provincia e la maggioranza della popolazione complessivamente residente. Infine, lo
statuto della città metropolitana e le relative modifiche sono presentate dal consiglio metropolitano
alla conferenza metropolitana, che approva o respinge la proposta con i voti che rappresenti in
almeno ⅓ dei comuni ricompresi nell’area metropolitana e la maggioranza della popolazione
complessiva residente.
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Con la riforma costituzionale si è aggiunta la competenza residuale. Quindi le regioni speciali godono
di una molteplicità di titoli competenziali alternativi: di una competenza residuale e di una competenza
concorrente ricavabili dalla Costituzione, di una competenza primaria, di una competenza concorrente
e di una competenza integrativa ricavabili dagli statuti. A ciò è da aggiungere la menzionata
competenza ad adottare leggi statutarie.
La Corte Costituzionale
Il sindacato di legittimità costituzionale, anche detto controllo di costituzionalità della legge e degli atti
con valore di legge, è una conseguenza del rapporto gerarchico tra Costituzione e fonti primarie. La
legge viene posta sotto la cosiddetta legalità costituzionale, generalmente controllata da un organo
specializzato che prende il nome di Corte costituzionale. L’Art. 134 elenca le funzioni della Corte
costituzionale, la quale tra le altre funzioni ha il potere di giudicare sulle antinomie normative.
Essendo una conseguenza della rigidità costituzionale, il controllo di costituzionalità si afferma per la
prima volta negli USA nel 1803. Nei vari stati del mondo a Costituzione rigida il controllo di
costituzionalità si manifesta in due modi:
● Controllo accentrato: in questo sistema, prevalente negli stati europei ed ideato da Hans
Kelsen, il controllo di costituzionalità è rimesso nelle mani di un singolo organo composto ad
hoc anche sulla base di criteri politici. Le decisioni di tale organo sono erga omnes.
In Italia con la Costituzione del 1948 venne introdotto un sistema accentrato, non interamente
conforme a quello austriaco di Kelsen. Infatti la nostra Corte Costituzionale esegue il controllo di
costituzionalità sia in modo diretto (per gli enti territoriali con potestà legislativa), sia in via incidentale,
cioè attraverso la sollevazione da parte di un giudice. Gli effetti sulle pronunce della Corte sono
astratti (non solo sulla fattispecie), costitutivi, assoluti (erga omnes) e retroattivi (decorrono da quando
sorge l’antinomia). Tuttavia fino al 1956 la Corte rimase inattiva per la mancanza di leggi sul suo
funzionamento e il sindacato era rimesso nelle mani dei giudici comuni che si pronunciavano inter
partes.
La Corte costituzionale è composta da 15 giudici, dei quali 5 nominati dal Presidente della
Repubblica, 5 dal Parlamento e 5 dal Consiglio di Stato, dalla Corte di cassazione e dei conti.
Abbiamo quindi un contatto tra la Corte e la sensibilità politica dello Stato, anche in base
all’esperienza dei singoli giudici, i quali tuttavia rimangono autonomi. I giudici della Corte
costituzionale rimangono in carica per 9 anni e si elegge tra di loro un presidente. Trascorsi i 9 anni i
giudici non possono essere rieletti, inoltre coloro che sono in carica non possono esercitare altre
professioni e sono insindacabili per le opinioni ed i voti espressi nell’esercizio della loro funzione.
Possono accedere alla carica magistrati, professori di materie giuridiche e avvocati con 20 anni di
esperienza. Le dimissioni devono essere rassegnate alla Corte stessa, un giudice va incontro alla
decadenza se si astiene volontariamente senza giustificazione dall’esercizio della carica per oltre sei
mesi, infine, la rimozione di un giudice è deliberata a maggioranza dei 2/3. La Corte è un organo
collegiale, le deliberazioni sono prese disponendo le motivazioni e tali atti sono adottati senza che
formalmente risultino le opinioni dissenzienti. Il Presidente della Corte organizza il lavoro del collegio
e la sua carica dura 3 anni, in caso di parità tra giudici il suo voto vale doppio. Il quorum strutturale
della Corte è di 11 membri, quello funzionale è invece la maggioranza dei votanti. La Corte non fa
parte dell’ordinamento giudiziario ma rappresenta un potere a sé.
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4. Il giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato
5. Il giudizio sui conflitti tra Stato e regioni
Sindacato di Costituzionalità
La questione di legittimità costituzionale giunge alla corte attraverso un percorso articolato. La Corte
costituzionale infatti non controlla automaticamente tutte le leggi che vengono promulgate, ma la
questione di costituzionalità gli deve essere esposta da altri soggetti attraverso due modalità. Si parla
infatti di via accidentale e via principale, la modalità prevalente è quella incidentale.
Il giudice che solleva la questione è detto giudice a quo, egli la trasmette tramite un atto introduttivo
chiamato ordinanza di remissione. La questione si solleva esclusivamente se la norma è rilevante al
processo, cioè solo se deve essere applicata, la rilevanza è un requisito fondamentale e il giudice
deve motivare in che modo è rilevante all’interno dell’ordinanza. La rilevanza indica la necessaria
applicazione della norma di legge. L’altro requisito indefettibile è la non manifesta infondatezza, la
quale viene sempre motivata nell’ordinanza. La Corte decide se una questione è fondata o meno ma
il giudice deve prima dimostrare che la questione non sia palesemente infondata (anche in base alle
precedenti sentenze della Corte), egli deve avere un ragionevole dubbio.
I requisiti indefettibili formano la maggior parte del testo dell’ordinanza, oltre a questi il giudice deve
specificare l'oggetto della questione, ovvero la norma di legge (ordinaria, regionale o atti con forza di
legge) sulla quale sorge la questione e il parametro, cioè la parte di testo costituzionale con la quale
la norma contrasta, si può trattare di una norma giuridica o di un principio fondamentale. Inoltre deve
essere presente la motivazione dell’ordinanza. Non è necessario che il parametro sia esclusivamente
nella Costituzione ma si individuano le cosiddette norme interposte, poste da atti non di rango
costituzionale ma che la Costituzione rispetta. L’ordinanza viene poi notificata alle parti, al Pubblico
Ministero e al Presidente del Consiglio o della Giunta regionale in base al tipo di legge.
Per essere un giudice a quo il soggetto che solleva la questione deve esercitare la funzione
giurisdizionale, la giurisdizione richiede due parti che hanno un contenzioso e che un giudice super
partes va a risolvere. Inoltre, i giudici veri e propri oltre ad esercitare la giurisdizione devono essere
autonomi nelle loro decisioni.
Il ricorso in via principale è disciplinato direttamente dalla Costituzione nell’Art. 127, parte del Titolo
V, oggetto di riforma nel 2001. Essendo parte del Titolo V l’Art. 127 di fatto riguarda i rapporti tra Stato
e regioni, in particolare riguarda i controlli sul rapporto di separazione di competenza tra leggi statali e
regionali. Quando il Governo ritiene che una legge di una regione ecceda la sua competenza, o al
contrario quando una Giunta regionale ritenga che una legge dello Stato leda la sua sfera di
competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale, entro sessanta giorni dalla pubblicazione di tale legge attraverso un atto introduttivo
firmato dal governo o dalla giunta regionale in base ai casi. Passati i 60 giorni la legge può essere
comunque oggetto di una questione in via incidentale. Il ricorso in via principale permette
un’impugnazione a prescindere dal fatto che la legge debba essere applicata, per questo è detto
controllo astratto perché non vediamo la legge nel momento in cui esplica i suoi effetti ma la stiamo
analizzando sulla base di una sua lettura e su un’ipotetica difformità con l’ordinamento.
Questo sistema prevede una parità di armi tra Stato e Regioni e proprio questa parte è esito della
riforma del 2001, prima della riforma infatti la Regione poteva impugnare la legge entro i 60 giorni ma
il Governo poteva impugnare la legge regionale prima della sua entrata in vigore, e poteva
sospenderne l’entrata in vigore preventivamente. Tuttavia permane ancora un elemento di asimmetria
tra Stato e regione, infatti il ricorso regionale verso la legge dello Stato può avere ad oggetto
solamente l’invasione da parte della legge statale delle competenze assegnate alla regione, è un
ricorso di protezione della propria sfera di competenza, mentre il ricorso del Governo può contestare
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alla legge regionale oltre che i vizi relativi alle competenze, ulteriori vizi di incostituzionalità a caratteri
generale nella violazione di precetti costituzionali come i diritti. Inoltre, lo Stato ha priorità sugli
obblighi internazionali, sulle questioni economiche e garanzia sull’unità territoriale e giuridica.
L’impugnazione di una legge regionale avviene da parte del Governo, ossia il Presidente del
Consiglio insieme al Consiglio dei Ministri, che la notifica al Presidente della regione; per
l’impugnazione delle leggi statali interviene la Giunta regionale che la notifica al Presidente del
Consiglio. Non è ammissibile l’intervento di regioni terze o dello Stato in controversie di cui non siano
parti.
Il processo di giudizio di legittimità costituzionale, dopo essere introdotto o per via accidentale o per
via principale, si distingue in due fasi: una fase preliminare composta di un giudizio di ammissibilità
della questione e una seconda fase che è invece un giudizio di merito. Non tutte le questioni di
legittimità costituzionale vengono esaminate nel merito perché si fermano allo scrutinio di
ammissibilità quando non sussistono i requisiti di base per l’ammissibilità della questione, in questo
caso la Corte elargisce un’ordinanza di inammissibilità. In media ben oltre il 50% delle questioni
vengono interrotte in questa fase.
Quando invece la Corte promuove una valutazione nel merito si organizza un’udienza pubblica alla
quale partecipano delle parti esterne alla Corte. Si presentano diverse parti in base a quale via del
giudizio si è utilizzata. Nel giudizio in via principale troviamo una parte promotrice del ricorso ed una
resistente, generalmente il Presidente della Regione o il Governo, sono dette parti necessarie perché
sono inevitabilmente presenti, si dice che il processo in via principale è disponibile per le parti, cioè se
le parti si accordano il giudizio cessa. Nel giudizio in via incidentale il giudice a quo non si può
costituire come parte pur essendo il principale promotore. Si possono invece costituire le parti del
giudizio a quo, le quali hanno interesse nella questione. A difendere la costituzionalità della legge si
può costituire come parte il Governo a tutela della solidità e della conservazione della norma di legge,
o anche la Giunta regionale quando si tratta di una norma della legge regionale. Mentre il giudizio in
via principale è a parti necessarie quello incidentale è a parti eventuali, cioè possono anche non
costituirsi in quanto l’ordinanza del giudice a quo è autosufficiente e può reggere il processo da sola.
Se c’è una terza parte interessata come un’associazione non si può costituire come parte del
processo ma ultimamente la Corte sta ammettendo interventi di soggetti esterni ma che rimangono
esterni al procedimento, sono detti amicus curiae e danno consigli.
C’è una corrispondenza tra chiesto e pronunciato cioè la Corte giudica nei limiti di ciò che è
impugnato. Vi sono però delle eccezioni a tale principio ad esempio quando la Corte nel corso di un
qualsiasi giudizio di fronte ad essa decida di sollevare una questione di costituzionalità. In questo
contesto la Corte costituzionale svolge il duplice ruolo di giudice a quo e giudice ad quem e può
quindi decidere con una sola sentenza su entrambi i giudizi. Un altro caso è quello dell’illegittimità
consequenziale, quando l’illegittimità di una norma deriva dalla decisione di giudizio illegittimo di
un’altra norma.
Le decisioni della Corte costituzionale possono essere processuali o sostanziali. Nel caso delle
prime la Corte si limita a constatare un vizio procedurale nel processo e la decisione consiste
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generalmente in una sentenza di inammissibilità o un’ordinanza di manifesta inammissibilità, quando
il vizio è sanabile la Corte utilizza l’ordinanza di restituzione degli atti al giudice a quo.
Sia le sentenze di rigetto che di accoglimento possono essere di tipo interpretativo, quando la Corte
perviene alla sua sentenza ricavando dalla disposizione oggetto di giudizio un’interpretazione
differente da quella prospettata dal giudice a quo o dalla parte ricorrente. Ad esempio con una
sentenza di rigetto può affermare che con un’interpretazione della disposizione differente si può
evitare l’incostituzionalità e di conseguenza rigetta la questione invitando i giudici ad usare la nuova
interpretazione compatibile con la Costituzione. Nel caso di una sentenza di accoglimento
interpretativa la Corte dichiara l’incostituzionalità non della norma ma solo dell'interpretazione della
disposizione oggetto della questione mantenendo le altre interpretazioni intatte, da quel momento i
giudici non potranno più applicare l’interpretazione annullata ed è una sentenza vincolante per tutti.
La decisione della Corte viene comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati affinché
provvedano nelle forme costituzionali.
Rientrano nell'oggetto del controllo di costituzionalità non sono solo le leggi approvate dal
Parlamento, ma anche gli atti aventi forza di legge dello Stato, le leggi rinforzate, gli Statuti regionali,
le leggi statutarie, le leggi costituzionali e quelle di revisione. Non sono compresi nella categoria degli
atti sottoponibili al giudizio della Corte i regolamenti, in quanto fonti secondarie, subordinati alla legge
(questo non vale per i regolamenti indipendenti, il cui contenuto è slegato da una normativa
precedente). Non rientrano tra gli atti sottoponibili al giudizio della Corte neppure i regolamenti
parlamentari e degli altri organi costituzionali. Anche il referendum abrogativo può produrre norme
giudicabili dalla Corte. Questo giudizio non coincide con quello di ammissibilità, limitato all’oggetto del
quesito referendario e precedente al sorgere dell’effetto normativo. Il controllo di costituzionalità
invece ha oggetto la normativa di risulta ed è successivo all’abrogazione.
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I Vizi Sindacabili
La Corte Costituzionale esclude ogni valutazione di natura politica, ed opera esclusivamente una
sindacabilità di legittimità costituzionale (diversa dal merito costituzionale). Il vizio di legittimità
costituzionale può essere differenziato riguardo al tempo o all’oggetto. Sotto il profilo tempo, i vizi
possono essere originari, che coincidono con l’entrata in vigore della norma legislativa, o
sopravvenuti, successivi al momento in cui la norma inizia a produrre effetti e solitamente sorgono a
seguito di un mutamento dei parametri. Riguardo all’oggetto i vizi sindacabili possono essere formali,
sostanziali o di incompetenza. Quelli formali e di incompetenza sono valutabili con riferimento al
procedimento per la formazione dell’atto e alla sua disciplina. I vizi formali e di incompetenza si
riscontrano quando non sono rispettate le norme sulla produzione. I vizi sostanziali riguardano il
contenuto dell’atto, nel caso in cui si hanno due fonti legittime che producono norme contrastanti.
Unione Europea
La partecipazione dell’Italia all’Unione Europea ha determinato numerosi cambiamenti radicali
nell’ordinamento interno, tuttavia non ha determinato una perdita di sovranità per gli stati membri. A
seguito della Seconda Guerra Mondiale le costituzioni moderne reagiscono con vari strumenti come
la rigidità, ma soprattutto si afferma l’idea di uno stato costituzionale aperto, che va a mettere in
discussione il principio di sovranità statuale, fondamentale sin dai tempi dell’assolutismo. Secondo il
principio di sovranità statuale gli Stati sono sovrani all'interno dei loro confini e all’esterno, dove gli
stati si riconoscono reciprocamente la medesima sovranità e così nasce il diritto internazionale basato
sui trattati. Questo sistema genera e legittima una politica di potenza e accrescimento degli stati che
si muovono attraverso la guerra. Questo principio verrà quindi messo in discussione a seguito delle
guerre mondiali, prima attraverso la Società delle Nazioni e poi con l’ONU per creare un equilibrio tra
gli stati. Nel secondo dopoguerra si rivaluta quindi l’assolutezza della sovranità, aprendo ai principi e
alle obbligazioni del diritto internazionale, la sovranità cede la sua assolutezza.
Nonostante la sua rigidità, la Costituzione italiana, nell’Art.10, dichiara che l'ordinamento italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, riconoscendo
automaticamente con valore costituzionale le norme consuetudinarie che sono generalmente
riconosciute a livello internazionale, questo sistema è anche conosciuto come clausola di
adattamento automatico. Inoltre, con il comma due dell'Art. 11 l'Italia accetta, in accordo con gli altri
stati, di limitare la propria sovranità, purché venga garantita la pace, questa norma nacque proprio per
consentire all’Italia di entrare nell’ONU, ma è servita anche a legittimare la partecipazione alle
comunità europee. La Costituzione quindi apre alla cooperazione internazionale accettando anche
alla limitazione della propria sovranità.
Con la formazione del Consiglio d’Europa e della CEE (Trattato di Roma 1957) i paesi europei fanno
un passo avanti creando uno spazio economico comune, poi seguito dalla libera circolazione dei
cittadini. A seguito di vari trattati e accordi internazionali riguardanti le varie comunità europee, il
trattato di Maastricht nel 1992 istituisce l’Unione Europea e con la riforma di Lisbona del 2006 si
sancisce che l’Unione Europea si basa su tre trattati fondamentali, che formano il diritto primario
dell’UE e dettano le regole sull’organizzazione e sulle competenze. Questi trattati sono:
Questi trattati insieme costituiscono il diritto primario dell’unione europea senza alcun rapporto
gerarchico tra di loro. Gli stati possono modificare i trattati in qualsiasi momento in unanimità, una
volta in vigore i trattati vincolano i paesi membri, perché gli stati si autolimitano per far parte di un
soggetto internazionale.
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Fonti dell’Unione Europea
In presenza di una molteplicità di atti dell'unione giuridicamente rilevanti, occorre preliminarmente
individuare quali tra essi costituiscono fonti del diritto europeo, ossia siano riconosciuti da
quell’ordinamento come comportamenti normativi aventi la capacità di costituire se stesso.
L'indagine rivolta all'identificazione delle fonti europee deve dunque tener conto soprattutto degli
elementi formali. Un primo fattore è rappresentato dal nomen juris, ciò è di particolare evidenza già
da un punto di vista lessicale, con riferimento all'atto denominato regolamento che chiaramente allude
all' introduzione di regole. Un secondo elemento è ravvisabile nel procedimento di formazione. Il
coinvolgimento degli organi apicali dell'Unione Europea, particolarmente se appartenenti al circuito
democratico-rappresentativo, può essere già un sintomo della natura normativa dell’atto. Infine, un
altro elemento rilevante è quello della pubblicazione dell’atto nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione
Europea. Infine, ha carattere sintomatico anche l'indicazione di una vacatio legis, ossia la previsione
di un termine decorrente dalla pubblicazione per l'entrata in vigore dell'atto.
L'individuazione delle fonti europee non ha una finalità esclusivamente speculativa, ma presenta una
notevolissima rilevanza pratica. I trattati non collegano espressamente o implicitamente uno specifico
regime giuridico alle proprie fonti e alle norme da essi poste. La Corte di giustizia ha individuato, in
relazione al diritto del proprio ordinamento, alcune peculiarità. La prima riguarda la competenza della
stessa Corte, consistente nell’assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione.
La violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto dell'unione costituisce di conseguenza vizio
degli atti e dei comportamenti degli organi europei , secondo il principio di legalità europeo. In
secondo luogo, con riferimento al diritto è stato affermato l'obbligo di interpretazione conforme cioè,
quando una norma di diritto derivato europeo ammette più di un’interpretazione, si deve dare
rilevanza e prevalenza a quella conforme al trattato o agli accordi internazionali conclusi dall’Unione
europea. Infine si riconosce la regola dell'uniforme interpretazione del diritto europeo che comporta
che si considerino con pari dignità tutte le versioni linguistiche dei trattati. Solo le norme del diritto
europeo concorrono alla formazione dei principi generali del medesimo ordinamento.
Le Competenze dell’UE
Le istituzioni dell'UE non hanno competenze generali, possono esercitare le competenze che sono
loro attribuite dai trattati. Questo principio è espressamente sancito dall’Art. 5 del TUE che afferma il
principio di attribuzione in virtù del quale l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze
che le sono state attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti.
Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri e gli atti
adottati al di fuori delle competenze attribuite sono illegittimi.
La rigidità di questo principio è attenuata da una parte, da un meccanismo di flessibilità previsto dal
TFUE e dalla teoria dei poteri impliciti e elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Secondo la clausola di flessibilità, se un'azione dell'UE appare necessaria per realizzare uno degli
obiettivi dei trattati, senza che questi abbiano previsto i poteri di azioni richiesti a tal fine, il Consiglio,
deliberando all'unanimità, su proposta della Commissione e previa approvazione da parte del
Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Inoltre, secondo la dottrina dei poteri impliciti,
quando una disposizione dei Trattati affida un compito preciso all’UE, si deve ritenere che essa le
attribuisca in modo implicito tutti i poteri necessari per il perseguimento dell’obiettivo.
Un altro principio alla base dell’esercizio delle competenze dell'Unione è il principio di sussidiarietà,
il quale riguarda le modalità attraverso le quali l'Unione deve esercitare le proprie competenze. In virtù
del principio di sussidiarietà nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l’Unione interviene
soltanto se gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli
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Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono essere conseguiti meglio
a livello dell'Unione. Il principio di proporzionalità è un altro principio che deve orientare l'esercizio
di competenze dell’Unione, in virtù di esso il contenuto e la forma dell'azione dell'Unione si limitano a
quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. Tale principio va quindi a
promuovere delle azioni meno invasive delle competenze statali.
Una delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona è rappresentata dall' indicazione delle tipologie di
competenza normativa attribuita all'Unione. Nel precedente sistema le competenze non erano
esplicitamente indicate, ma si ricavavano dagli obiettivi delle azioni. In base al TFUE, esistono tre tipi
di competenze: esclusive, concorrenti e competenze parallele o di coordinamento e completamento.
Negli ambiti delle competenze parallele le azioni dell'Unione e degli Stati membri si devono
integrare, coordinandosi per garantire la coerenza reciproca delle rispettive politiche. In taluni settori e
alle condizioni previste dai trattati, l'Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere,
coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in
tali settori. I settori oggetto di queste competenze sono espressamente indicati dall'Art. 6 TFUE.
I Trattati
Nell'ambito del diritto europeo le fonti sono classificate essenzialmente sulla base di una distinzione
principale tra fonti di diritto primario e fonti di diritto derivato, ovvero gli atti giuridici che le istituzioni
dell'Unione sono abilitate a porre in essere in base ai trattati. I trattati sono fonti del diritto
internazionale ed atti fondativi di un nuovo ordinamento giuridico, di cui, costituendone gli atti
fondanti, rappresentano le fonti più importanti. I 3 trattati principali sono il Trattato dell’UE, il Trattato
sul funzionamento dell’UE (TFUE) e la Carta dei diritti fondamentali.
Sono previste specifiche procedure per la revisione dei trattati, ma in quanto fonti del diritto
internazionale, essi non possono subire modifiche senza il consenso di tutti gli Stati membri. Le
procedure principali per modificare i trattati sono due, secondo la prima (ordinaria) spetta al Governo
di un qualsiasi stato membro, al Parlamento europeo o alla Commissione, l’iniziativa di proporre
modifiche dei trattati al Consiglio. I progetti di modifica sono poi trasmessi al Consiglio europeo e ai
Parlamenti nazionali. Il Consiglio europeo quindi convoca una convenzione composta dai
rappresentanti dei Parlamenti, dei capi di Stato o governo, del Parlamento europeo e della
Commissione e questa convenzione esamina i progetti di modifica. Le modifiche entrano in vigore
dopo essere state ratificate dagli Stati membri. Una seconda procedura (semplificata) si applica solo
alla parte III del TFUE e consente al Consiglio europeo di adottare una decisione che entra in vigore
solo previa approvazione degli Stati membri.
L'articolo 50 TUE prevede una procedura di recesso dall'unione europea. Ogni Stato membro può
decidere, in conformità con le proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione. La procedura può
essere avviata con una notifica al Consiglio europeo, a seguito della quale l'Unione negozia e
conclude con lo Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro
delle future relazioni con l'Unione. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a
decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, nel caso in cui tale accordo non sia
stato raggiunto due anni dopo la notifica con cui ha avuto inizio la procedura di recesso.
Le Fonti Derivate
I 3 trattati (TUE, TFUE e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) costituiscono il diritto
primario dell’Unione Europea, cioè il massimo grado gerarchico nell’ambito del diritto dell’Unione
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Europea. I trattati UE definiscono i valori dell’organizzazione Europea ed esibiscono tutte le procedure
del diritto derivato europeo, cioè quel diritto prodotto da organi europei in base alle competenze e alle
procedure disposte dai trattati dell’Unione. Il diritto derivato si colloca ad un livello subordinato nei
confronti dei trattati, e per questo li deve rispettare pena la sua invalidità e annullabilità. Il diritto
derivato si può dividere in 2 tipologie :
● Fonti non vincolanti: sono pareri e raccomandazioni che l’UE esprime su alcuni stati
membri, soprattutto in quelle materie dove esistono delle resistenze nazionali o peculiarità,
sono spesso il primo passo per una normazione vincolante se questi paesi non si adattano.
● Fonti vincolanti: si distinguono in regolamenti e direttive, sono grandi atti normativi
dell’Unione Europea e regolano le materie principali.
L’Unione Europea adotta gli atti di diritto derivato solo sulle materie in cui è competente in base ai
trattati che contengono elenchi di materie che l’unione può disciplinare.
I Regolamenti
I regolamenti sono fonti del diritto che presentano un contenuto dettagliato e in ragione di ciò hanno
effetto diretto, cioè sono direttamente applicabili negli Stati membri. I regolamenti vengono pubblicati
sulla Gazzetta dell’Unione e successivamente entrano in vigore. I regolamenti hanno portata generale
(si applicano cioè in tutti gli Stati membri), sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente
applicabili in ciascuno degli Stati membri. Essi sono classificabili in regolamenti attuativi dei trattati
e regolamenti di esecuzione di altre fonti derivate. La completa obbligatorietà allude al fatto che si
tratta di atti potenzialmente auto applicativi, nel senso che possono disciplinare per intero una materia
senza doversi limitare a norme generali per lasciare la disciplina di dettaglio alle fonti interne. Infine, i
regolamenti sono direttamente applicabili, cioè questi atti vincolano gli Stati senza necessitare un atto
interno di adattamento per produrre i propri effetti.
Le Direttive
Le direttive, al contrario dei regolamenti, costituiscono la forma di esercizio di una competenza
normativa più limitata rispetto ad essi ed infatti non contengono norme dettagliate ma una serie di
scopi ed obiettivi che in un certo termine devono essere raggiunti dagli Stati (solitamente entro 2
anni). Dunque gli stati membri devono recepire le direttive e adottare normative interne per
raggiungere quello scopo. Lo stato oltre a recepire deve farlo anche in un modo adeguato ed è
sottoposto a monitoraggio della Commissione Europea che controlla il corretto rispetto delle
disposizioni dopo il loro termine. In caso di inadempimento l’Unione dispone di uno strumento
sanzionatorio chiamato anche procedura di infrazione, innescata dalla Commissione Europea e
decisa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, queste sanzioni sono a carattere economico
finanziario e crescono finché non vengono pagate, in casi più gravi si sospendono i diritti di
partecipazione dello stato in questo.
L’uso delle direttive costituisce una tecnica di riparto verticale delle potestà normative tra fonti in
quanto gli Stati hanno la competenza di attuare le direttive in modi diversi. Le direttive possono
rivolgersi anche ad uno o ad alcuni degli Stati membri.
Secondo la Corte di giustizia, le direttive non attuate o imprecise fanno sorgere sul giudice nazionale
e sugli organi della pubblica amministrazione l'obbligo di interpretazione del diritto statale in
conformità ai principi desumibili da tali direttive. Nel caso di direttive inattuale, gli eventuali danni patiti
dai singoli per l'inadempimento dello Stato fanno sorgere un diritto al risarcimento nei confronti dello
Stato stesso per la violazione del principio di cooperazione. Infine, le direttive vincolano non solo lo
stato-persona, ma tutti i soggetti che sono titolari di potestà pubbliche e persino lo Stato quando
agisce non come autorità pubblica ma come datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.
Le Decisioni
La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa assegnati. Quest’atto si
caratterizza per la portata individuale ed in ciò si differenzia dai regolamenti. Le decisioni rivolte ai
singoli producono i loro effetti direttamente nei confronti dei medesimi e si rivolgono a soggetti diversi
dagli Stati costituiscono. Le decisioni, dunque, possono essere rivolte anche agli Stati membri e
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possono consistere in un divieto, in un’autorizzazione o in un atto di diniego. Da esse poi scaturisce la
necessità per lo Stato di introdurre modifiche normative.
Le decisioni rivolte ai singoli spettano solitamente alla Commissione, quelle indirizzate agli Stati
spettano al Consiglio.
Raccomandazioni e Pareri
I trattati prevedono numerosi atti dei quali è controversa l'appartenenza alle fonti del diritto europeo.
Limitandosi ad accennare quelli di maggior rilevanza possono anzitutto ricordarsi le raccomandazioni
e i pareri, rispetto a cui il TFUE si limita a stabilire che si tratta di atti non vincolati. Essi hanno
comunque un’efficacia sistematica, nel senso che vanno utilizzati nell’interpretazione delle altre
norme dell'ordinamento e producono nel destinatario un legittimo affidamento, impegnando al loro
rispetto l'organo che li adotta. A livello di forma, le raccomandazioni sono manifestazioni di volontà e
consistono in un invito al destinatario di tenere un comportamento, i pareri sono manifestazioni di
giudizio tese a rendere nota la posizione dell’organo di fronte ad una tematica.
Il TFUE prevede anche la possibilità che un atto legislativo deleghi alla Commissione il potere di
adottare atti non legislativi di portata generale che integrano, modificano determinati elementi non
essenziali dell’atto legislativo. È altresì previsto che in questi casi gli atti legislativi procedano a
delimitare esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere.
Qualsiasi sia la fonte, anche per l'adozione degli atti del diritto dell'Unione Europea si applica allo
schermo procedimentale suddiviso per fasi.
La prima fase è quella dell’iniziativa che configura una proposta in senso tecnico poiché attraverso di
essa si avvia la sequenza procedimentale, mediante essa si incide dunque sui tempi e sulle modalità
del rinnovo del diritto oggettivo europeo. Questo potere è attribuito in via generale alla Commissione,
la quale può essere sollecitata ad agire dal Consiglio.
La fase deliberativa degli atti normativi comporta un’attività consultiva e di proposta di emendamenti.
Sotto il profilo soggettivo, ai fini della deliberazione, si distingue tra:
1. Atti emanati dalla Commissione sulla base di una competenza delegata o di esecuzione
2. Gli atti del Consiglio con la partecipazione del Parlamento o viceversa.
3. Gli atti legislativi imputati pariteticamente al Consiglio e al Parlamento.
Infine, anche gli atti normativi dell'Unione Europea sono soggetti ad una pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dell'UE.
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La Gerarchia nel Sistema Europeo delle Fonti
Sul piano dell’articolazione gerarchica va anzitutto, rilevato che i regolamenti e le direttive sono
generalmente subordinati alla disciplina pattizia del diritto primario, infatti la potestà normativa degli
organi europei si esplica nell'ambito della competenza fissata dai trattati e nei limiti formali e
sostanziali stabiliti convenzionalmente. Ad una collocazione in termini di superiorità gerarchica
rispetto al diritto derivato sembrano da ricondurre, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia
anche le norme dei principi generali del diritto dell’Unione Europea. Il ricorso al criterio gerarchico non
risulta però sufficiente ai fini della determinazione della collocazione degli atti normativi europei nel
sistema delle fonti dell'Unione Europea ed è insufficiente a definire i rapporti tra i diversi tipi di fonte
secondaria. Si usa quindi maggiormente il criterio di competenza attraverso il quale le singole materie
e le diverse funzioni vengono distribuire tra gli atti derivati.
Una tra le questioni più controverse è rappresentata dal fondamento nell’ordinamento nazionale della
rilevanza interna delle norme prodotte dalle fonti dell’Unione Europea. L’ordinamento italiano
adattandosi ai trattati istitutivi ha fatto proprie anche le norme dell’UE sulla produzione del diritto in
essi contenute. L’ordinamento italiano è un sistema chiuso a livello di fonti primarie quindi l’istituzione
di fonti concorrenziali rispetto a quelle primarie, come le fonti europee, avrebbe richiesto l’adozione
del procedimento di revisione costituzionale, ma tale procedura non è mai stata attuata. La Corte
costituzionale ha riconosciuto nell’Art. 11 il fondamento positivo dell’adesione dell’Italia alle comunità
europee. In particolare tale disposizione costituzionale giustificherebbe la scelta di operare nelle
limitazioni di sovranità in favore di ordinamenti sovranazionali anche senza una revisione
costituzionale. Trovando fondamento nell’Art. 11 della Costituzione ossia in un principio supremo, per
la Corte costituzionale la normativa europea è abilitata derogare anche alle norme di rango
costituzionale.
L’altra tesi da prendere in considerazione è quella elaborata dalla nostra Corte costituzionale detta
tesi dell’irrilevanza dell’ordinamento interno. Secondo tale tesi il sistema europeo e quello interno
sarebbero “autonomi e distinti, ancorché coordinati”. Tale coordinazione si manifesterebbe nel fatto
che, al sorgere del diritto comunitario, le norme nazionali si “ritrarrebbero” lasciando uno spazio libero
alle norme europee. Anche tale tesi lascia perplessi in quanto i due ordinamenti non sono
impermeabili e si influenzano reciprocamente.
Un’ulteriore tesi è quella delle fonti comunitarie come fonti atto di diritto scritto per l’ordinamento
italiano. Tale tesi è quella da preferire in quanto è da escludere qualsiasi trasformazione sostanziale
delle norme necessaria invece nel caso del diritto internazionale. Inoltre, le norme comunitarie sono
strutturalmente destinate ad esistere nei territori degli Stati membri. Infine, si tratta di
un’interpretazione fedele alla disposizione dei Trattati sulla produzione normativa sovranazionale, la
quale configura le fonti comunitarie come fonti-atto in quanto il diritto nazionale ha espressamente
attribuito un potere normativo agli organi comunitari.
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procedimenti in cui viene operata e quindi rimane in capo allo Stato l’obbligo di rimuovere tali norme
contrastanti dall’ordinamento interno.
Secondo la Corte costituzionale italiana l’ordinamento europeo e quello italiano non sono due
ordinamenti unificati ma sono distinti, non parliamo quindi di una fusione ma neppure di una
separazione, parliamo invece di integrazione. Tale integrazione determina che il diritto europeo
prevale su quello interno e ciò avviene secondo il principio del primato, ricavato dalla sentenza del
1964 della Corte di giustizia. Il primato implica che gli atti di diritto derivato e il diritto primario dell’UE
che esibiscono effetto diretto vengono applicati automaticamente negli stati membri con prevalenza
rispetto al diritto interno anche rispetto alla legge interna e anche quando si trovano in contrasto con
essa. Nelle situazioni di antinomie il principio del primato implica la disapplicazione della norma
interna incompatibile e l’applicazione della nuova norma UE. Tale disapplicazione è affidata al
soggetto che riscontra l’antinomia e la competenza della Corte costituzionale è residuale in quanto
essa interviene solo nei casi in cui non vi sia un altro giudice che possa disapplicare la norma interna.
Le norme interne contrastanti con quelle europee risultano non solo invalide ma anche incostituzionali
per violazione indiretta dell’Art.11. Il principio del primato vale anche per le norme di rango
costituzionale a condizione che non vengano violati i principi supremi dell’ordinamento.
L’eccezione al principio del primato si verifica quando si incontrano principi supremi nelle leggi
costituzionali. I principi supremi rappresentano un vertice rafforzato e sono dei controlimiti, cioè vanno
a limitare anche la revisione costituzionale. Non sono elencati ma la Corte costituzionale li stabilisce
volta per volta. Rispetto al primato, quando il giudice deve andare a disapplicare la legge interna e
rileva che la norma europea è incompatibile con i principi, non deve disapplicare la norma interna ma
sospende il processo e rimette il proprio giudizio alla Corte costituzionale, allo stesso modo del
giudice a quo; in questo caso il parametro è rappresentato dal principio supremo, l’oggetto dalla legge
di ratifica del trattato europeo nella parte in cui consente agli organi europei di applicare la norma in
contrasto con il principio, perché in quanto i due ordinamenti rimangono separati la Corte ha la
necessità di risalire ad una norma interna all’ordinamento italiano.
Parte B
Forme di Stato dal Punto di Vista Storico
Lo studio delle forme di Stato riguarda le modalità con cui gli elementi costitutivi dello Stato (popolo,
territorio, sovranità) si combinano e interagiscono. Esso fotografa l'assetto complessivo della
comunità statale. Le forme di governo si concentrano invece sul modo in cui la comunità statale
distribuisce, nell'esercizio della proprio sovranità, i poteri di decisione pubblica al proprio interno.
L'esame riguarda gli aspetti dell'organizzazione statuale e le relazioni tra gli apparati governativi, al
fine di identificare il modo in cui viene elaborata e realizzata la direzione politica dello Stato, cioè
l'indirizzo politico. Lo studio delle forme di Stato e di Governo ha una funzione pratica per la
progettazione di una Costituzione o per riformare un ordinamento e rappresenta un criterio di
interpretazione del diritto vigente.
La teoria delle forme di Stato si può articolare a seconda di quali relazioni vengano prese in
considerazione, come ad esempio il rapporto territorio-governo (Stato accentrato o federale) o quello
popolo-governo (democrazia o monarchia). Inoltre si possono considerare complessivamente i tre
elementi analizzando l’evoluzione storica delle principali forme di Stato.
La monarchia assoluta costituisce la prima forma di Stato modernamente inteso. La sua genesi può
collocarsi nei secoli XV e XVI ed inizia il proprio definitivo declino con le rivoluzioni atlantiche.
Un'eccezione a questa parabola evolutiva si ritrova nell'ordinamento inglese dove la trasformazione in
senso liberale si verificò un secolo prima con la Declaration of Rights del 1688 e poi con il Bill of
Rights del 1689. Nella monarchia assoluta il potere viene esercitato in termini assoluti in quanto il suo
titolare, il re, detiene il monopolio delle decisioni ed è considerato legibus solutus. La sua autorità
trova una legittimazione di carattere trascendentale nella presunta origine divina del potere
monarchico. Lo Stato assoluto trova due fasi nella sua evoluzione. La prima fase è quella dello Stato
patrimoniale, fondato sull’idea che lo Stato (sia nel territorio che nei sudditi) costituisca il patrimonio
del re, senza una distinzione tra beni del sovrano e dello Stato. A questa fase succede lo Stato di
polizia (assolutismo illuminato), nel quale si concepisce il potere in modo propriamente politico. Il
33
monarca svolge una funzione pubblica generale considerando l'assunzione e la tutela dei destini dei
propri sudditi come sua fondamentale missione. Si sviluppa un sistema stabile di imposizione fiscale e
nasce la burocrazia professionale. Non vi sono veri e propri i diritti, ma una tutela indiretta (che può
essere differenziata in base alle classi) e notevolmente precaria qualora la situazione soggettiva dei
sottoposti coincida con l'interesse dello Stato. Il sovrano rimane l'unico interprete del bene comune, e
si distingue la persona fisica del monarca dal ruolo della “Corona”.
Lo Stato di diritto liberale assegna un ruolo centrale alla norma di diritto, cui tutte le autorità dello
Stato, compreso il monarca, sono assoggettate. Al primato della legge consegue l'affermazione del
principio di legalità che comprende l'idea dell'assoggettamento del potere a dei limiti e della necessità
di garantire i sottoposti dagli arbitri dell’autorità. Ciò è realizzato attraverso meccanismi di
arginamento del potere secondo la dottrina della separazione dei poteri e con una visione secondo la
quale i soggetti dell'ordinamento giuridico non sono più dei sudditi alla mercé del sovrano, ma veri e
propri cittadini e cioè godono di diritti politici. L'attribuzione, a ciascun titolare del diritto, del potere di
agire in giudizio anche contro la pubblica amministrazione rappresenta il coronamento di questa
evoluzione verso lo Stato di diritto (che in questa fase viene anche chiamato Stato legale). I diritti
riconosciuti risentono delle caratteristiche dello Stato, che è ideologicamente liberale,
economicamente liberista e socialmente borghese. Esso assicura la possibilità per ciascuno di
svolgere la propria attività secondo le capacità di cui dispone, non promuovendo il miglioramento
economico-sociale, ma proteggendo, cioè impedendo turbative da parte degli stessi organi dello Stato
e di terzi. L’eguaglianza è quindi di fatto solo formale e di fronte alla legge, perché vengono ignorate
le disuguaglianze economiche e sociali, l'accesso alle cariche pubbliche e all'elettorato attivo vengono
ristretti solo a coloro che siano in condizioni di esprimere gli interessi sociali su cui lo Stato liberale si
fonda, cioè i cittadini economicamente attivi, valutati in base al censo. Il suffragio è ristretto alle classi
più agiate.
Evoluzione dello Stato di diritto è quella che, in seguito alla nascita di movimenti sociali volti ad
estendere anche alle classi meno abbienti l'accesso alla vita pubblica, porta, tra la fine dell'800 e
l'inizio del ‘900, allo Stato sociale. Accanto alla lotta per il voto è da menzionare la lotta per la
realizzazione di una giustizia sociale e della realizzazione di una eguaglianza sostanziale, di
redistribuzione delle ricchezze e di pari opportunità di vita per tutti cittadini: vengono introdotti, al
fianco di quelli di libertà, i diritti sociali, che non soddisfano esigenze di protezione, ma di promozione.
Queste due concezioni rimasero in contrasto più o meno fino al secondo dopoguerra, infatti, con le
costituzioni postbelliche, si raggiunse una situazione di maggiore equilibrio, fondata su tentativi di
reciproca integrazione. L'espressione più ricorrente per definire lo Stato contemporaneo è infatti
quello di Stato sociale di diritto.
Le costituzioni contemporanee cercano di integrare valori alla base delle varie forme di Stato liberale
e si caratterizzano per la natura composita dei propri principi ispiratori, riconducibili alla dicotomia che
vede una matrice liberal-garantistica e una social-interventistica. Nella prospettiva liberal-garantista
l'ordinamento giuridico statale si propone l'obiettivo di assicurare ai propri membri uno spazio di
libertà nel quale svolgere le proprie iniziative e sviluppare la propria personalità. Giuridicamente il
problema è quello di proteggere tale ambito privato impedendo indebite intrusioni nella sfera dei
singoli ed evitare discriminazioni che alterino in senso positivo o negativo le condizioni della
coesistenza tra i consociati. Il mezzo fondamentale per svolgere questa protezione è il riconoscimento
dei diritti di libertà, i quali rappresentano istanze borghesi e si chiamano libertà negative perché
prevedono l'astensione da determinati comportamenti. Al contrario, secondo la matrice social-
interventistica gli sforzi dello Stato muovono nella direzione della realizzazione di interventi da parte
dei pubblici poteri finalizzati a ridurre le disuguaglianze materiali dei cittadini meno abbienti. L'obiettivo
dell'eguaglianza sostanziale trasforma funzionalmente il ruolo dello Stato chiamato a perseguire
finalità di promozione. Le istanze di diritti sociali volgono all’emancipazione delle masse. Obiettivi di
protezione e obiettivi di promozione tendono naturalmente ad entrare in tensione. Ne è un esempio
l’Art 3 che nel primo comma pone l'uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, mentre
nel secondo comma afferma che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Tali
conflitti non rimangono irrisolti ma per la natura degli ordinamenti giuridici queste norme interagiscono
e si condizionano. La forma quasi immodificabile e rigida delle varie costituzioni qualifica questi stati
come Stati costituzionali.
34
La Liberaldemocrazia
Il modello che attualmente si impone in Occidente è quello della cosiddetta liberal-democrazia, dove
l'istanza liberale accentua l'esigenza di una tutela da assicurare ai singoli individui, mentre l'istanza
promozional-interventistica accentua la necessità di assunzione di decisioni pubbliche che realizzano
le modificazioni della realtà necessarie per perseguire il valore dell'eguaglianza politica tra i membri
della collettività.
La democrazia rappresentativa si basa sui processi elettivi, che sono il processo che crea i rapporti
rappresentativi. Alla base di tali rapporti si trova il corpo elettorale, definito su base nazionale
dall’Art. 48 come l’insieme dei cittadini uomini e donne maggiorenni anche residenti all’estero. Il
requisito principale per appartenere al corpo elettorale è quindi la cittadinanza, il cui acquisto viene
regolato dalla legge.
Sul piano delle tecniche di decisione, corollario del principio democratico è il principio maggioritario, in
base al quale perché una decisione venga legittimamente assunta è necessario che su di essa
converga la maggior parte dei consensi. Possono distinguersi differenti formule maggioritarie ad
esempio si parla di maggioranza relativa quando, dovendo scegliere tra più proposte o persone, si
considera prevalente la proposta o la persona che ottiene, relativamente alle altre, un maggior
numero di consensi, opposta a quella relativa si trova la maggioranza assoluta in senso lato per cui
affinché una proposta risulti approvata, non è sufficiente che essa prenda più consensi rispetto alle
altre, ma questa deve raggiungere un numero di voti favorevoli, determinato come frazione
maggioritaria di un intero cioè almeno la metà più uno. A sua volta la maggioranza assoluta si
distingue in maggioranza semplice, per la quale le decisioni sono assunte con il consenso di almeno
50% + 1 dei partecipanti al voto, o in maggioranza qualificata, ovvero ogni maggioranza superiore a
quella semplice. Essa è a sua volta distinta in maggioranza assoluta in senso stretto, per cui una
decisione è adottata solo se essa riceve numero di consensi pari ad almeno il 50% + 1 degli aventi
diritto al voto (e non semplicemente dei votanti) e in altre maggioranze definite come frazione
superiore al 50% + 1 degli aventi diritto al voto. La maggioranza qualificata è finalizzata a dare
soddisfazione anche ad una minoranza ed anzi può consentire sacrificio parziale dell'opinione dei più
perché gli interessi dei meno trovino una qualche soddisfazione. Proprio perché per il raggiungimento
della maggioranza qualificata è necessario raggiungere un compromesso, si pensa che quella più
democratica sia quella semplice.
Corollari del sistema maggioritario sono la temporaneità delle cariche pubbliche, che implica la
possibilità di alternanza al potere, il ricambio della maggioranza stessa, che tutela le minoranze
politiche, le maggioranze pro tempore non possono irrigidire i procedimenti decisionali verso le
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maggioranze future e infine il principio democratico non è applicabile a sé stesso, cioè la regola
democratica non può essere eliminata dalla maggioranza.
Mentre il principio democratico si fonda sull'idea di un primato della maggioranza, il principio liberale
trova, nella sua forma più pura, il proprio centro di riferimento nella persona singola. La
manifestazione tipica del modello liberale è rappresentata dall'insieme dei diritti costituzionali
individualisticamente intesi, attribuiti al titolare per l'appagamento egoistico dei suoi bisogni.
Naturalmente questi due principi sono strutturalmente in tensione, ed è necessario stabilire un
equilibrio che consenta di preservare la coesistenza del sistema democratico. Per assicurare che le
eventuali limitazioni della libertà personale non si risolvano in atti arbitrari il potere viene scomposto in
diversi circuiti di decisione. Con riferimento al circuito in cui opera il principio democratico, la garanzia
contro il pericolo dell'arbitrio si realizza perseguendo l'obiettivo di spersonalizzare la decisione che
incide sulle situazioni individuali, rendendo così indeterminati ed indeterminabili i potenziali destinatari
della deliberazione stessa. Coloro che la assumono debbono agire sapendo che la decisione può
incidere sulla loro stessa condizione (o quella dei loro elettori). In tal modo i decisori sono incentivati
ad evitare le limitazioni ingiustificate ed arbitrarie dei diritti. Il principio di legalità rappresenta
l'applicazione di una versione aggiornata del principio della separazione dei poteri in quanto opera
anche una separazione funzionale. Esso si fonda sulla distinzione tra due funzioni: quella di disporre
in via generale ed astratta e quella di provvedere concretamente. La funzione del disporre, che
costituisce l’essenza della scelta politica, è assegnata agli organi che strutturalmente sono in grado di
selezionare gli interessi pubblici ovvero gli organi di estrazione politica. Essa consiste nel selezionare
gli interessi pubblici da perseguire attraverso decisioni impersonali, generali ed astratte. La funzione
del provvedere spetta invece ad organi tecnici che non appartengono al circuito politico ma alla
pubblica amministrazione o alla giurisdizione. Essi sono scelti in base alla capacità professionale
attraverso procedimenti di selezione che consentono di valutare tali capacità e prendono una
decisione di tipo esecutivo, vincolata dalla previa norma cui deve essere raffrontabile. In conclusione,
lo Stato liberal-democratico accoglie tendenzialmente l'idea di una separazione funzionale, adottando
meccanismi che tendono a spersonalizzare la decisione politica, da un lato, e a spoliticizzare la
decisione individuale dall'altro.
Non rientra nelle organizzazioni statuali la confederazione, la quale costituisce una particolare
unione tra Stati che mantengono la propria sovranità e indipendenza e si muovono insieme
nell'ambito del diritto internazionale. Nella confederazione le relazioni tra entità politiche non danno
luogo ad uno Stato vero e proprio.
Lo Stato accentrato è caratterizzato dall'essere del tutto privo di decentramento politico istituzionale
in quanto l'intero ordinamento prevede un unico centro di selezione di governo. Esso trova il proprio
archetipo nelle monarchie nazionali, in particolare in quella francese. Se ci sono strutture di
articolazione istituzionale esse hanno carattere soltanto amministrativo e non esprimono un indirizzo
politico locale.
Lo Stato composto (o decentrato) si basa al contrario sul pluralismo dei centri di potere politico,
regolati dall'ordinamento giuridico complessivo e legittimati dalle differenti comunità di riferimento,
riconducibili alle circoscrizioni territoriali nelle quali il territorio dello Stato è ripartito. In questi sistemi lo
Stato è la risultante di una serie di stratificazioni ordinamentali. La prima e più rilevante
manifestazione di questa tipologia è quella istituita dalla Costituzione Americana del 1787, la cui
forma istituzionale esprime l'evoluzione della breve esperienza confederale. Con questa Costituzione
le ex colonie si uniscono in uno stato di stati o Stato federale mantenendo la propria relativa
statualità. In Europa questa tipologia di Stato federale ha rappresentato la migliore soluzione per
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favorire processi di aggregazione in contesti di pluralismo politico, culturale, socioeconomico,
etnicoreligioso o linguistico. Generalmente quindi la federazione si sviluppa dall’iniziativa volontaria
delle comunità territoriali, solo recentemente si sono formate federazioni per disaggregazione (come
nel caso della Russia). Un altro tipo di stato composto è lo Stato regionale, il quale trova la propria
origine in Spagna con la Costituzione Repubblicana del 1931 dove si assicurava una cornice legale
alle pretese di certa autonomia avanzate da alcune nazionalità presenti nel territorio (Paesi Baschi,
Catalogna, Galizia). La soluzione a queste pretese consistette nella creazione di Regioni ad
autonomia differenziata l'una rispetto alle altre, la cui istituzione veniva affidata alla volontaria
iniziativa delle popolazioni interessate. A tale modello regionale si sono poi affiancate altre versioni,
sorte in contesti diversi. Una di queste è proprio quella italiana, la quale ha mescolato alcuni aspetti
del regionalismo spagnolo (con le Regioni differenziate) con altri propri del federalismo (definizione
tendenzialmente paritaria delle attribuzioni delle altre regioni). Federalismo e regionalismo presentano
analogie e differenze. Entrambi i sistemi prevedono enti territoriali sub-statali intermedi tra lo Stato e
gli enti locali, i quali godono di uno status giuridico che rappresenta una garanzia nei confronti del
legislatore statale e che tali enti sono titolari della funzione legislativa. Tra le varie differenze, la
provenienza storica delle federazioni comporta che i vari Stati abbiano mantenuto tracce della loro
statualità, attraverso un’autonomia costituzionale anche nel campo dei diritti, inoltre essi esercitano
tutte le funzioni, come quella legislativa, esecutiva e giurisdizionale. Gli Stati delle federazioni sono
solitamente titolari di competenze generali mentre quelle dello Stato centrale sono numerate e
limitate. Si può dire quindi che la differenza principale tra questi due sistemi si ritrova nell’elemento
della statualità che si traduce in completezza ed autosufficienza funzionale di tali organi. Inoltre nella
federazione le entità territoriali svolgono un ruolo istituzionale decisivo nella vita dello Stato centrale.
A conferma di ciò è presente in questi ordinamenti una seconda Camera del Parlamento che
rappresenta gli stati federati.
Le norme sulla competenza degli enti dello Stato composto mirano a distribuire le funzioni tra diversi
centri di potere e regolano l’esercizio di funzioni normative, individuando i presupposti sostanziali di
esercizio legale del potere. Il loro contenuto viene individuato sulla base di stipulazioni convenzionali,
classificazioni della realtà frutto di scelte politiche, gli ambiti di competenza. Storicamente, il primo
modello di ripartizione delle attribuzioni è quello del federalismo o regionalismo duale, basato sull’idea
che gli ambiti di competenza possano essere definiti in modo netto. Il modello si è però dimostrato
insufficiente, anche perché in molte Costituzioni sono previste clausole di flessibilità utilizzate per
attrarre competenze verso livelli di governo superiori. A questo modello si è andato a sostituire il
federalismo/regionalismo cooperativo basato invece sull’idea che le competenze vadano garantite
anche con dispositivi di tipo organizzativo volti a favorire la collaborazione e la partecipazione dei
diversi livelli di governo interessati all’interno dei processi decisionali nazionali (uno strumento del
genere è la seconda Camera). Alcuni ordinamenti si sono infine evoluti in un federalismo competitivo,
il quale cerca di contenere la spinta cooperativa per favorire una concorrenza tra enti alla
realizzazione della maggiore efficienza funzionale.
L’Italia è uno Stato composto e ciò si deduce già dai primi articoli della Costituzione laddove si
riconoscono e promuovono le autonomie locali e si attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più
ampio decentramento amministrativo, adeguando i principi i metodi della sua legislazione alle
esigenze dell'autonomia e del decentramento. La norma contempera il principio di decentramento con
quello di unità e indivisibilità della Repubblica e i diritti civili e sociali devono essere garantiti sull’intero
territorio, al fine di evitare le possibilità di uno sviluppo eccessivamente differenziato tra le varie parti
della Repubblica. Secondo il principio di sussidiarietà l’intervento pubblico spetta al livello di governo
più vicino ai cittadini, purché funzionalmente adeguato. Il sistema decentrato si caratterizza per la
presenza di una pluralità dei soggetti (pubblici e privati) che interagiscono in base al principio di leale
collaborazione.
L'Unione europea, definita come sistema di governo multilivello, pur non essendo qualificabile come
un ordinamento federale, presenta varie analogie con l'assetto degli Stati composti. Il discorso vale,
anzitutto, per le clausole definitorie delle competenze. La tecnica utilizzata per individuare le
competenze comunitarie è di tipo classicamente federale e regionale consentendo nell'identificazione
di ambiti di intervento secondo la distinzione tra competenze esclusive, competenze concorrenti e
competenze parallele. Queste ultime sono assegnate agli Stati, con la possibilità per l'Unione di
promuovere e sostenere l'azione statale finanziariamente. L’intervento del legislatore europeo deve
essere argomentato indicando le norme di competenza (c.d. base legale).
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Le Forme di Governo
Lo studio delle forme di governo riguarda il modo in cui viene effettuata la determinazione degli
obiettivi pubblici o del cosiddetto indirizzo politico. La direzione politica attiva di uno Stato è
influenzata sia dal potere legislativo che da quello esecutivo ma è influenzata anche da altri soggetti e
meccanismi. Un ruolo fondamentale è svolto dai partiti politici, che individuano gli interessi sociali da
soddisfare e realizzano accordi con le istituzioni pubbliche. Influiscono sull’indirizzo politico anche le
entità sub-statali, attraverso i loro organi di rappresentanza, la rigidità costituzionale e il conseguente
controllo di costituzionalità e anche le varie istituzioni di democrazia diretta. Esistono inoltre organi
che in modo indiretto influenzano l’indirizzo politico, ad esempio in Italia si elencano la Banca d’Italia,
la Corte dei conti, il CSM.
Un metodo di classificazione delle forme di governo si basa su come le istanze di rappresentanza del
corpo elettorale vengono tradotte e filtrate dai soggetti rappresentanti coinvolti nell’attività di direzione
dello Stato. Per capire ciò si esamina il sistema sotto due punti di vista, da un lato la catena di
legittimazione democratica, dall’altro come il sistema dei partiti si colloca rispetto alle preferenze
elettorali. Sotto il primo profilo la legittimazione istituzionale può essere monistica o
dualistica/pluralistica a seconda di quanti siano gli organi che godono di legittimazione democratica
diretta. In un sistema monistico il popolo sceglie l’organo rappresentativo che sostiene il Governo
attraverso un unico stesso canale di legittimazione, i sistemi pluralistici prevedono differenti catene di
legittimazione attraverso le quali si scelgono più organi con poteri differenziati. L’analisi del sistema
dei partiti distingue invece le democrazie in democrazie senza mediazione e democrazie con
mediazione. Nelle prime il popolo vota per partiti e maggioranze politiche specifiche per l’intera
legislatura, di regola quindi se l’indirizzo politico mutasse in modo significativo si dovrebbero
sciogliere anche le Camere. Nelle democrazie con mediazione invece i partiti hanno più libertà di
scegliere la propria maggioranza, la quale si forma in Parlamento dopo le elezioni. Generalmente, più
il sistema dei partiti è frammentato, più è facile che l’indirizzo politico possa essere definito solo in
Parlamento. In base alla combinazione di queste due coordinate si distinguono le democrazie
consensuali, caratterizzate dalla frammentazione delle legittimazioni e da una forte mediazione della
rappresentanza, e le democrazie maggioritarie, che accentuano l'elemento dell'efficienza decisionale
e sono caratterizzate da una competizione capace di creare una maggioranza stabile e senza
necessità di mediazione.
La monarchia costituzionale si può ritenere come un’evoluzione della monarchia assoluta. In questa
forma di governo troviamo un dualismo strutturale basato su due diverse fonti di legittimazione, da un
lato infatti si trovava il monarca con i suoi ministri, a cui spettano i poteri di amministrazione, dall'altro
il Parlamento composto da una camera elettiva rappresentativa degli interessi popolari e da una
camera alta rappresentativa degli interessi tradizionali della nobiltà e dell'alto clero, i cui componenti
erano di nomina regia o membri di diritto.
La sempre maggiore transizione di potere dal Re al Parlamento porta allo sviluppo della forma di
governo parlamentare, affermatasi consuetudinariamente in Inghilterra e basata sul principio di
responsabilità politica del Governo di fronte al Parlamento attraverso il rapporto di fiducia. La
permanenze in carica del Governo è cioè condizionata dall’appoggio del Parlamento e non è presente
quindi una distinta legittimazione per l’organo esecutivo. La seconda caratteristica peculiare del
governo parlamentare è la presenza di un terzo organo, oltre Governo e Parlamento, il Capo dello
Stato, decisivo nei momenti di crisi, ma non responsabile dell’indirizzo politico di governo. Tale forma
è di tipo monistico, la fiducia popolare risiede nel governo attraverso un’unica catena di legittimazione
che passa per il Parlamento ed i partiti assumono rilevanza di mediazione. In base all’assetto del
sistema dei partiti si ipotizzano nelle forme di governo parlamentari due estremi. Il modello
Westminster o di premierato rappresenta il modello più riuscito di democrazia maggioritaria.
Connotato di tale governo parlamentare è un sistema fondamentalmente bipartitico (anche in
presenza di partiti minori ve ne sono due più importanti), favorito dall'esistenza di una legge elettorale
uninominale maggioritaria. La scelta della rappresentanza per la Camera costituisce quindi anche una
scelta della maggioranza di governo e solitamente il leader del partito vincitore delle elezioni è
nominato Capo del Governo. La concentrazione nelle sue mani della direzione dell'esecutivo, della
maggioranza parlamentare e del partito rende il sistema estremamente stabile. Non è previsto un voto
espresso di fiducia iniziale e si ritiene spetti sostanzialmente al premier decidere lo scioglimento della
Camera dei Comuni. In Inghilterra (dove è usato questo modello) era sconosciuta fino a poco fa l’idea
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di un Governo di coalizione e nei casi di Hung Parliament (Parlamento senza maggioranza) si
formava un Governo di minoranza. La stabilità governativa così realizzata si protrae per l'intera
legislatura (Governo di legislatura) ed è solo con le successive elezioni che l'indirizzo politico può
essere modificato dagli elettori. L’opposizione è un Governo ombra che lavora per prendere la
maggioranza alle elezioni successive. L’altro estremo del governo parlamentare è rappresentato dal
sistema multipartitico, in cui il Governo è fortemente condizionato dalle alleanze mutevoli tra i vari
partiti. Si parla di Governo parlamentare a tendenza assembleare o di parlamentarismo assoluto
quando il Governo costituisce un "comitato esecutivo" della occasionale maggioranza, mentre il
Parlamento esercita un forte controllo sulla legislazione e sull'amministrazione dei singoli apparati
ministeriali. Il rapporto tra Governo e Parlamento non è disciplinato giuridicamente, il che indebolisce
ulteriormente il Governo, tanto da essere sufficiente il voto contrario su un qualsiasi provvedimento
per metterlo in crisi e determinarne le dimissioni. Con lo sviluppo di una razionalizzazione, il Governo
è stato messo al riparo da eccessiva instabilità, si è passati da crisi parlamentari ad
extraparlamentari, in cui il Governo non si scioglie per un voto di sfiducia, ma per un accordo non
mantenuto e sono stati introdotti meccanismi specifici per i processi di sfiducia. Nella Repubblica
federale tedesca troviamo un multipartitismo temperato. I vari gruppi rappresentati in Parlamento si
alleano in modo stabile e si comportano in modo particolarmente disciplinato, così da evitare gli esiti
tipici del parlamentarismo assoluto e vengono inoltre esclusi i partiti al di sotto di una soglia
percentuale per evitare la frammentazione. La stabilità del sistema di governo tedesco risiede nelle
convenzioni e consuetudini che regolano le relazioni tra i partiti (lealtà di coalizione, suggellata da un
dettagliatissimo accordo tra i partiti che sostengono il Governo, in cui vengono definiti
minuziosamente gli obiettivi politici da perseguire durante la legislatura). Il voto di fiducia si esprime
mediante l’elezione del solo cancelliere da parte della Camera Bassa e per revocarla è prevista la
cosiddetta sfiducia costruttiva (a maggioranza qualificata), poiché i presentatori della sfiducia devono
proporre un nuovo cancelliere.
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entrano in Parlamento attraverso il suffragio universale maschile e i partiti di massa. Inoltre si passa
ad elezioni di matrice proporzionale che valorizzavano l’identità ideologica del partito.
Dopo il referendum istituzionale e l’elezione per l’Assemblea costituente (2 Giugno 1946), venne
creata una commissione con 75 membri per redigere la Costituzione e sottoporla all’Assemblea. La
Costituzione fu approvata il 22 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1 Gennaio 1948. Essa prevede una
forma di governo parlamentare, in cui si prospettava una collaborazione tra le forze politiche, per
evitare forti scontri accesi e maggioranze di schiacciamento. Si instaurò quindi una democrazia
consensuale, nella quale anche le minoranze venivano coinvolte nelle scelte parlamentari e potevano
esercitare, o minacciare, un potere di blocco decisionale in modo da indurre la maggioranza a
ricercarne velocemente il consenso, contribuendo a determinare un'accentuata instabilità
governativa. La situazione cambiò con la trasformazione del sistema politico avvenuta all'inizio degli
anni ‘90 dovuta, da un lato, alla trasformazione dei modelli di partito e dal superamento delle
condizioni di aspra conflittualità ideologica, dall'altra, al diverso strutturarsi della competizione in forza
del mutamento della legge elettorale in senso maggioritario. La progressiva bipolarizzazione dello
scontro ed il declino dei pericoli di conflittualità extra istituzionale o dello sviluppo di forze antisistema,
ha condotto alla transizione dal modello di democrazia consensuale a quello di democrazia
competitiva, fondata cioè sulla concorrenza per il controllo dell'indirizzo politico di governo tra forze
reciprocamente alternative. Praticamente, dopo la riforma delle leggi elettorali, si è passati da un
parlamentarismo di tipo tendenzialmente assembleare consensuale, ad uno improntato, sempre in
via tendenziale, al modello competitivo.
Il Sistema Elettorale
I rapporti di rappresentanza politica tra il corpo elettorale e i parlamentari sono istituiti attraverso le
elezioni, procedure regolate dalla legge, in particolare dalle leggi elettorali. Le leggi elettorali
stabiliscono la formula elettorale, quella regola che trasforma i voti ricevuti in seggi da assegnare ai
parlamentari eletti. Generalmente possiamo raggruppare le varie leggi elettorali in due categorie in
base al sistema adottato dalla formula che può essere di tipo maggioritario o proporzionale.
Negli stati che adottano il sistema maggioritario il territorio statale viene diviso in circoscrizioni
elettorali uninominali (nelle quali cioè viene eletto un solo candidato), tante quanti sono i seggi da
assegnare. In ogni circoscrizione competono i candidati dei vari partiti e il candidato che vince ottiene
il seggio. Queste elezioni possono essere a turno unico, ovvero se si vota una sola volta senza la
necessità che il candidato vincitore abbia la maggioranza assoluta (modello inglese) oppure a doppio
turno, anche detto ballottaggio, se si torna a votare per consolidare la maggioranza del vincitore,
eliminando i partiti che hanno ricevuto meno voti (modello francese).
Con il sistema proporzionale si distribuiscono i seggi in proporzione ai voti ottenuti dalle liste, e quindi
non dai singoli candidati. Anche con questo sistema il territorio è diviso in circoscrizioni, ma sono
generalmente più ampie e sono plurinominali, ovvero eleggono molteplici parlamentari, in base alla
popolazione. Ci sono anche casi di stati che utilizzano una circoscrizione nazionale unica, come ad
esempio Israele.
L’Italia utilizza un sistema misto, ovvero la legge elettorale prevede che la maggior parte (circa ⅔) del
Parlamento vengano eletti attraverso un sistema proporzionale con circoscrizioni plurinominali
piccole, mentre il resto attraverso un sistema maggioritario con circoscrizione uninominali ampie.
Il Parlamento
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principalmente attraverso la riduzione di quegli atti normativi che il re poteva adottare
autonomamente (King in Council) e l'estensione degli atti che necessitavano l’approvazione del
Parlamento (King in Parliament). Inoltre si assiste alla progressiva parlamentarizzazione del
Governo, attraverso la fiducia e all’ampliamento del suffragio. Anche il principio bicamerale trova
la propria origine nella storia inglese.
Il principio bicamerale, uno dei principi fondamentali del Parlamento italiano insieme a quelli di
autonomia e di continuità, è alla base della maggior parte dei sistemi parlamentari nel mondo. In
generale, il bicameralismo ha la funzione di contenere i rischi derivanti dalla concentrazione dei
poteri legislativi in una sola Camera. In base a ciò che deve garantire, il bicameralismo ha
assunto diverse forme istituzionali nei vari paesi. Negli stati basati su un forte decentramento
territoriale, come gli stati federali, il principio della rappresentanza politica unitaria è
contemperato dalla rappresentanza politica degli interessi dei singoli territori. In questo sistema il
Parlamento è diviso in una Camera “nazionale” nella quale si rappresentano gli interessi politici
dei singoli cittadini, e in una Camera federale dove invece i rappresentanti sono chiamati ad
esprimere la volontà della propria collettività locale, anche andando contro al proprio partito.
Questi sistemi sono caratterizzati da alcuni dispositivi per evitare la nazionalizzazione della
seconda Camera quali: la distribuzione dei seggi ad ogni entità territoriale in modo generalmente
paritario, la presenza di vincoli di mandato, il voto unitario per ogni entità territoriale ed altri. Un
altro modello bicamerale è quello che punta a rappresentare i diversi interessi socioeconomici o i
vari ceti (come nel caso del Parlamento inglese), tuttavia si tratta di un modello ormai superato e
l’affermazione del principio democratico ha portato la seconda Camera ad essere ridimensionata
ad una camera con funzione di raffreddamento. Infine, un ulteriore modello è quello puro o
perfetto, in cui entrambe le camere sono legittimate su base nazionale e con natura politica, e la
seconda Camera ha la funzione di ponderare le decisioni della prima.
Il Parlamento italiano si avvicina ad un modello di bicameralismo perfetto o paritario, ovvero dal punto
di vista funzionale le due camere, Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, hanno le stesse
competenze, la stessa legittimazione e la stessa durata. Le uniche funzioni che differiscono
riguardano i Presidenti delle Camere, infatti mentre al Presidente del Senato è affidata la supplenza
del Presidente della Repubblica, al Presidente della Camera è assegnata la Presidenza del
Parlamento in seduta comune. Le due Camere differiscono invece sul punto di vista strutturale,
ovvero sulla loro composizione e formazione. Riguardo all’elettorato attivo, votano per la
composizione della Camera i cittadini di maggiore età, mentre votano per la composizione del Senato
coloro che hanno superato i 25 anni. Anche l’elettorato passivo è distinto dall’età infatti l’età minima
per essere eletto alla Camera è di 25 anni, mentre per il Senato 40. Inoltre, il numero dei membri delle
due Camere è differente, a seguito della nuova riforma 400 deputati e 200 senatori (630 e 315 in
precedenza), inoltre al Senato partecipano 5 Senatori a vita. La Costituzione stabilisce che i senatori
sono eletti su base regionale, mentre non è indicato un simile obbligo per la Camera.
I sistemi di elezione delle Camere hanno subito modifiche nel corso degli anni, si è passati da una
legge elettorale proporzionale ad un sistema misto maggioritario per il 75% dei seggi e proporzionale
per il restante 25% negli anni ‘90. I sistemi elettorali introdotti in seguito erano poi basati su una
formula proporzionale con la previsione di due correttivi ovvero le soglie di sbarramento e i premi di
maggioranza, le candidature erano presentati in collegi plurinominali attraverso delle liste bloccate.
Questa disciplina elettorale è stata stravolta dalla sentenza n.1/2014 della Corte costituzionale che ha
dichiarato illegittime le leggi elettorali di Camera e Senato per due motivi. Innanzitutto, la disciplina del
premio di maggioranza è stata ritenuta viziata in quanto in contraddizione con l’impianto
proporzionale, anche perché non era connessa ad una soglia minima di voti. Inoltre un’altra
illegittimità è stata riscontrata nel sistema delle lunghe liste bloccate, le quali impedivano all’elettore
una scelta sui propri rappresentanti. Un'ulteriore rimodulazione del sistema elettorale arriva nel 2015
attraverso una nuova legge elettorale per la sola Camera in quanto il Senato doveva essere
sottoposto ad una revisione costituzionale. Il nuovo sistema elettorale prevedeva un premio di
maggioranza tale da assegnare il 55% dei seggi alla lista che avesse raggiunto il 40% dei voti e se
nessuno avesse raggiunto tale soglia si sarebbe tenuto un secondo turno di ballottaggio tra le due
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liste più votate. Tuttavia anche questo sistema è stato criticato dalla Corte costituzionale specialmente
riguardo alla disciplina del ballottaggio, abrogando il secondo turno in quanto non era prevista una
soglia minima per l’accesso ad esso. Si è giunti infine all’approvazione definitiva del nuovo sistema
elettorale per Camera e Senato nel 2017 con il cosiddetto Rosatellum. Questa legge prevede un
sistema misto, con l’assegnazione del 36% dei seggi attraverso un sistema maggioritario e del 64%
con un sistema proporzionale, le liste sono bloccate ma brevi ed è prevista una soglia di sbarramento
del 3%. È inoltre prevista una soglia per i voti delle coalizioni, le quali possono aggregare solo i voti
dei partiti che ricevono più dell’1%.
Le distinzioni nella composizione delle due Camere appaiono poco rilevanti ma se si fossero attuate
alcune delle soluzioni previste in Assemblea Costituente il nostro piano istituzionale potrebbe essere
molto diverso. Inizialmente infatti le due Camere avevano durate diverse, infatti il Senato avrebbe
dovuto avere una durata di 6 anni a differenza dei 5 della Camera, e si prevedeva un modello
proporzionale per la Camera ed uno maggioritario per il Senato.
È invece un compito accusatorio quello della messa in stato di accusa del Presidente della
Repubblica.
Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal Presidente della Camera e all’attività di questo
organo si applica il regolamento della Camera. Il Parlamento in seduta comune è generalmente
considerato come un terzo organo e non una semplice forma di riunione delle due Camere.
Le Garanzie Parlamentari
Le costituzione contemporanee prevedono istituti di garanzia per la protezione degli organi
parlamentari. Alcuni di questi istituti appartengono alle stesse camere, dichiarando la propria
indipendenza, mentre molti altri sono a difesa dell’indipendenza dei singoli parlamentari, ma entrambi
i tipi assolvono alla stessa funzione di proteggere il Parlamento dagli altri poteri dello Stato. Secondo
il principio di autonomia ciascuna Camera autodetermina la propria organizzazione e attività senza
subire il condizionamento di altri organi, compresa l’altra camera e la precedente legislatura.
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Innanzitutto, l’Art. 66 dichiara l’autonomia della verifica dei poteri, cioè afferma che il giudizio sulla
validità sui titoli di ammissione (i requisiti di elezione) dei membri del Parlamento spetta
esclusivamente alla camera di appartenenza, si esclude quindi che gli organi amministrativi e
giurisdizionali possano affermare l’invalidità di candidature, elezioni o controversie. Tutte queste
problematiche vanno invece risolte esclusivamente dalla camera di appartenenza, e tale principio si
applica all’indomani delle elezioni con la formazione di una giunta per la verifica dei poteri, o giunta
delle elezioni, che svolge un controllo di regolarità del procedimento elettorale che porta poi alla
proclamazione degli eletti. L’origine di questo istituto deriva dalla volontà di evitare che la validità delle
elezioni e il loro annullamento competesse ad un organo di parte con interessi di ostacolo al
Parlamento. La maggior parte dei paesi europei ha trasferito questo potere agli organi giurisdizionali
ma l’Italia ha mantenuto l’autonomia della verifica parlamentare. L’attività di controllo della giunta non
si conclude all’indomani ma svolge una funzione permanente perché possono esserci successivi
ricorsi, rivolti alla camera di competenza e il presidente di quella camera li rivolge alla giunta. La
giunta apre un procedimento a carattere contraddittorio che può portare all’annullamento dell’elezione
di un parlamentare e all’elezione del contestatore. Tuttavia questo avvenimento è molto raro nella
prassi. Questo principio è un po’ problematico rispetto ai principi dello stato di diritto in quanto la
giunta è interna al Parlamento (ed è composta proporzionalmente ai gruppi parlamentari) e quindi non
è imparziale.
La garanzia più importante per l’indipendenza delle camere è l’autonomia regolamentare, prevista
dall’Art. 64 della Costituzione, il quale afferma che ciascuna camera adotta il proprio regolamento a
maggioranza assoluta dei suoi componenti. LArt. 64 è quindi la fonte sulla produzione di una fonte del
diritto, il regolamento parlamentare. Essendo che ciascuna camera adotta il proprio regolamento ,
questi sono diversi tra loro, seppur di poco. Il regolamento è definito come una fonte del diritto a
competenza riservata e specializzata. Specializzata nel senso che regola materie specifiche oltre cui
non può andare ed è riservata perché non possono intervenire altre fonti. La legge ordinaria e i
regolamenti non si trovano in un rapporto gerarchico ma di separazione di competenze. Sono
gerarchicamente subordinati alla Costituzione ma la Corte costituzionale afferma che l’Art. 134 (che
elenca le controversie di competenza della Corte) non menziona i regolamenti che rimangono quindi
indipendenti e non sono oggetto di controllo di costituzionalità.
Dai regolamenti rampollano le altre garanzie. Una terza garanzia è l’autodichia, ovvero la capacità
delle camere di giudicare loro stesse. Tutto ciò che avviene in sede parlamentare è soggetto
all’autonomia di giurisdizione delle camere tramite organi ad hoc interni ad esse i quali esprimono i
giudizi su tali controversie. Le due camere hanno inoltre le garanzie di autocrinia, ovvero la capacità
delle camere di controllare i propri bilanci economici, e l’immunità della sede, cioè le forze dell’ordine
non possono entrare a meno che richieste. Tra le garanzie per l’indipendenza del Parlamento alcune
di queste riguardano i singoli parlamentari. Ad esempio l’Art. 69 stabilisce l’indennità dei parlamentari
che ha lo scopo garantire l’indipendenza economica dei parlamentari anche al tentativo di evitare
corruzioni esterne. Inoltre storicamente ha aiutato l’affermazione dei partiti di massa e l’entrata in
Parlamento delle persone meno abbienti.
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L’Art. 68 contiene due garanzie, l'insindacabilità e l’inviolabilità penale, ovvero le cosiddette immunità
parlamentari o prerogative parlamentari. L'insindacabilità è contenuta nel primo comma, in cui si
afferma che i membri del Parlamento non sono chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei
voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. I parlamentari quindi non devono rispondere riguardo alle
responsabilità giuridiche possibilmente derivanti dalle opinioni espresse. L’espressione “nell’esercizio
delle loro funzioni” si estende anche oltre i confini della sede parlamentare ma all’esterno di essa
l’insindacabilità può valere solo se vi è una connessione stretta con opinioni e atti tipici svolti
all’interno dell’assemblea parlamentare. Il parlamentare è quindi coperto dalla garanzia
dell’insindacabilità anche quando svolge un’attività politica al di fuori della sede ma le opinioni
espresse devono avere un nesso funzionale alla sua attività parlamentare, cioè ci deve essere
un'identità tra le opinioni che esprime al di fuori dell’assemblea e quelle che esprime in sede, in
quanto sta riproducendo tali idee fuori dalla sede.
Il resto dell’Art. 68 regola la disciplina della inviolabilità o immunità penale. Esso afferma che “senza
autorizzazione della camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere
sottoposto a perquisizione personale o domiciliare né può essere arrestato o altrimenti privato della
libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di
condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza”. L’attuale norma prevede che le perquisizioni e gli altri provvedimenti
restrittivi della libertà personale, che riguardano un parlamentare, necessitano la previa
autorizzazione della camera di appartenenza. Questa autorizzazione a procedere deve essere
richiesta dal giudice alla camera di appartenenza che la passa alla giunta per le autorizzazioni a
procedere, la giunta esamina l’atto e formula una proposta sulla quale vota l’assemblea. Prima del ‘93
(anno di revisione della norma) l'autorizzazione a procedere non era prevista solo per i provvedimenti
restrittivi della libertà personale ma in generale per sottoporre il parlamentare ad un processo. Questa
norma aveva in effetti determinato un abuso da parte delle forze politiche per bloccare processi verso
i politici. Durante lo scandalo tangentopoli la Camera dei Deputati rifiutò l’autorizzazione a procedere
nei confronti di Bettino Craxi e questo generò una grande indignazione al punto che le forze politiche
decisero di modificare l’articolo. Oggi quindi il giudice può tranquillamente iniziare un processo nei
confronti di un parlamentare e non deve chiedere nulla alle camere in via preliminare, l’autorizzazione
rimane esclusivamente per le misure restrittive. Il processo si può concludere con una sentenza
irrevocabile di condanna e quando questo avviene, o se c’è un arresto in flagranza è previsto l’arresto
obbligatorio. Dalla condanna deriva la decadenza del ruolo parlamentare. Anche con questa nuova
riforma l’immunità penale crea ancora dibattito in quanto può essere vista come un ostacolo all’attività
giurisdizionale. Tuttavia la ratio della norma si ritrova nella difesa del Parlamento dal rischio di
un’attività persecutoria da parte della Magistratura. Un equilibrio dovrebbe essere trovato limitando
tale garanzia ai soli casi in cui si sospetta una possibile persecuzione verso una forza politica.
Sempre a difesa dell’indipendenza del Parlamento e a garanzia del singolo parlamentare è posto il
divieto di mandato imperativo attraverso l’Art.67. Il parlamentare infatti ha il dovere di rappresentare la
Nazione e non interessi particolari, egli deve quindi tendere idealmente verso una sintesi di interessi
contrastanti della società. I parlamentari sono tutelati nella loro libertà anche verso i propri partiti che
non possono imporre la loro volontà sui membri.
La prima cosa che avviene in seguito alle elezioni è un’assemblea per l’elezione dei presidenti delle
Camere, le prime sedute infatti sono presiedute da un presidente provvisorio, scelto in base ai principi
del regolamento delle camere. I regolamenti prevedono che sia necessario per l’elezione del
presidente il raggiungimento di una maggioranza ampia (assoluta in Senato e ⅔ alla Camera), in
modo che risulti come una figura super partes, arbitro delle dispute politiche, anche se tale quorum
scende alla maggioranza assoluta dei presenti dal quarto scrutinio. In seguito, con il periodo della
seconda repubblica si è ritenuto invece più consono che i presidenti rappresentassero la maggioranza
politica, poiché responsabili dello svolgimento corretto del programma legislativo della maggioranza.
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L’elezione del presidente può creare momenti di tensione perché è previsto il ballottaggio tra due
candidati, in casi in cui nessun candidato riceva una maggioranza ampia, soprattutto al Senato dove
la maggioranza è generalmente meno forte. Al Presidente spetta la potestà di imporre l’osservanza e
l’interpretazione del regolamento, la direzione dei lavori della camera, il potere disciplinare nei
confronti dei parlamentari e la rappresentanza esterna della camera.
All’indomani dell’elezione viene dato ai parlamentari un lasso di tempo in cui devono scegliere il
gruppo parlamentare al quale aderire. I gruppi parlamentari sono aggregazioni spontanee di
parlamentari liberamente costituite sulla base di affinità politiche. I gruppi non sono obbligatoriamente
collegati ai partiti politici, i quali sono strutture che vivono nella realtà sociale quindi non sono organi
del Parlamento; è possibile che un partito non abbia un suo gruppo parlamentare quando è debole o
nuovo e di conseguenza può aggregarsi ad altri partiti per costituirne uno. Nessuno obbliga un
parlamentare ad aderire al gruppo che rappresenta il suo partito in quanto vale il principio di libero
mandato ma è obbligatorio aderire ad un qualsiasi gruppo, per questo quando i parlamentari sono
isolati o abbandonano un gruppo, essi si aggregano automaticamente nel gruppo misto, che può
comunque avere componenti politiche distinte al suo interno. I regolamenti delle Camere allo scopo di
evitare il disperdersi del corpo parlamentare (transfughismo) stabiliscono dei numeri minimi per la
formazione dei gruppi (20 alla Camera e 10 in Senato), ma sono previste delle deroghe quando questi
gruppi rappresentano partiti autonomi che si sono presentati alle elezioni e che non si sono presentati
con partiti diversi, allo scopo di evitare le scissioni. Il presidente dell’assemblea attribuisce ai gruppi
parlamentari uffici, sedi, personale, risorse per il lavoro, spazi adeguati nella sede in base alla loro
consistenza. Il gruppo elegge il proprio capogruppo e il rapporto tra gruppo e partito è formalmente di
separazione dal punto di vista giuridico quindi il partito non potrebbe controllare dall’esterno la
formazione del gruppo. I Presidenti dei gruppi parlamentari rappresentano questi ultimi nella
conferenza dei capigruppo, organo che svolge la funzione di organizzare e programmare i lavori
dell’assemblea. La costituzione dei gruppi è preliminare a tutte le attività del Parlamento, ed in base
ad essa avviene la costituzioni degli altri organi parlamentari ovvero le giunte e le commissioni,
perché gli organi interni devono essere coerenti alla composizione politica dell’assemblea.
Le giunte sono organi che svolgono funzioni serventi all'attività parlamentare, esse ovvero hanno
funzioni organizzative per l’istituzione e si occupano delle autonomie parlamentari. Alla Camera sono
presenti tre giunte: quella per il regolamento, quella delle elezioni e quella per le autorizzazioni a
procedere, al Senato queste ultime due sono unificate nella giunta delle elezioni e delle immunità
parlamentari. Le giunte vengono nominate liberamente dal presidente nel rispetto della composizione
parlamentare. La giunta per il regolamento assiste il presidente su tutto quello che riguarda
l’interpretazione del regolamento e per le proposte di modifica di esso, quella delle elezioni ha il
compito di applicare la disciplina dell’Art. 66 sui titoli di ammissione e la giunta per le autorizzazioni
svolge la fase istruttoria relativa alle delibere sulle immunità.
Le giunte non svolgono nessun incarico di carattere legislativo, compito che invece spetta alle
commissioni parlamentari, composte sempre sulla base delle proporzioni parlamentari. Le
commissioni sono organi necessari al funzionamento del Parlamento e sono previste dalla
Costituzione. Esse svolgono un’attività politica sostanzialmente coestensiva a quella delle assemblee.
Le commissioni permanenti sono 14 sia alla Camera che al Senato e sono costituite per ambiti
tematici, ogni commissione rappresenta grosso modo una materia o un ministero. Tutti i parlamentari
hanno l’obbligo di far parte di una commissione e la loro designazione in esse è scelta dai gruppi
parlamentari. Le commissioni sono il motore dell’attività del Parlamento perché al loro interno si
svolgono la fase preparatoria del processo legislativo, le audizioni ai membri esterni, indagini
conoscitive su diversi fenomeni ed altri procedimenti legati all’attività legislativa. Le commissioni sono
organi permanenti ma esiste la possibilità di comporre commissioni ad hoc per una materia specifica,
le quali cessano la loro attività al termine della funzione.
Ciascuna camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse attraverso le commissioni
parlamentari d'inchiesta. Le commissioni di inchiesta sono previste nella Costituzione nell’Art. 82 ed
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hanno medesimi poteri e limiti dell'autorità giudiziaria, un potere che non compete a nessun altro
organo parlamentare. Si tratta dei poteri istruttori dell’autorità giudiziaria come la convocazione dei
testimoni o la consegna delle prove, non possono quindi condannare. Le commissioni di inchiesta
sono diverse dalle 14 permanenti, e sono costituite ad hoc per lo svolgimento di quella specifica
inchiesta sempre rispecchiando la proporzione dei gruppi. Queste commissioni erano già previste in
epoca statutaria, ricordiamo ad esempio quella sul tema del brigantaggio, un esempio recente di
commissione d’inchiesta è quella antimafia che viene costituita in ogni legislatura. Le inchieste delle
commissioni sono distinte, in base alla finalità, in legislative e politiche. Le prime riguardano l’esame
di una questione di interesse pubblico in vista di un intervento legislativo, le seconde mirano a
ricostruire un evento spesso al fine di individuare eventuali responsabilità di soggetti pubblici e privati.
La loro attività si conclude con una o più relazioni. Le commissioni possono essere monocamerali o
bicamerali, che includono cioè sia deputati che senatori. Possono essere costituite con atto
monocamerale o con legge (il modello prevalente per quelle bicamerali) e questi atti prevedono una
durata limitata per le commissioni che generalmente coincide con la durata della legislatura.
Le deliberazioni di ciascuna camera non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro
componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva
una maggioranza speciale. Le deliberazioni quindi hanno bisogno di un quorum strutturale, cioè il
tasso di partecipazione alla seduta necessario, e di un quorum funzionale, cioè la maggioranza dei
votanti. Le procedure per il voto possono distinguersi in: voto tacito, palese e segreto. Con voto tacito
si intende un’assenza di obiezioni che fa presumere l’assenso, non è quindi una votazione vera e
propria. Il voto palese può essere manifestato per alzata di mano o per divisione in aula, può essere
per appello nominale, cioè quando si chiama ciascun parlamentare, il quale esprime ad alta voce il
suo voto. Per il voto segreto si esprime la propria volontà attraverso il deposito della scheda in
un’una. Tali modalità possono essere sostituite dal procedimento elettronico. La modalità più utilizzata
è quella del voto palese, per alzata di mano o per procedimento elettronico, allo scopo di assicurare
maggiore trasparenza.
Un procedimento peculiare è quello del ripescaggio o repêchage di progetti di legge già esaminati o
approvati nella precedente legislatura. Anche se non c’è una continuità tra una camera e la
successiva infatti, i regolamenti hanno previsto la possibilità di salvare i lavori precedenti qualora un
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progetto di legge sia già stato approvato nella precedente legislatura o qualora sia stata compiuta
l’istruttoria.
Alcuni dei procedimenti non legislativi attengono alle vicende del rapporto di fiducia. Il Governo, entro
dieci giorni dalla sua formazione deve presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia. Tale
presentazione consiste nella lettura delle dichiarazioni programmatiche da parte del Presidente del
Consiglio, a cui segue il dibattito e la replica, allo scopo di fornire specificazioni e chiarimenti. La
fiducia è espressa attraverso una mozione motivata per appello nominale. Non è prevista una
maggioranza speciale ma il quorum funzionale è quello della maggioranza semplice. La motivazione
è necessaria allo scopo di esplicitare l’accordo tra Parlamento e Governo sull’obiettivo di perseguire
un certo indirizzo politico.
L’Art. 94 prevede la mozione di sfiducia, la quale deve essere firmata da almeno un decimo dei
componenti di una Camera e ha lo scopo di interrompere il rapporto di fiducia. Allo scopo di non
cogliere alla sprovvista il Governo e la maggioranza, è previsto che la mozione non sia messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione ed è infatti prassi che il Presidente
dell’assemblea si accordi con il Governo per la data. Anche per la sfiducia è necessario che la
mozione sia motivata e la procedura di voto è la medesima. Si è affermata nella prassi la sfiducia
individuale, cioè la mozione di sfiducia indirizzata ad un singolo ministro.
Anche il Governo può modificare il rapporto di fiducia e lo fa utilizzando come deterrente nei confronti
della propria maggioranza una minaccia di dimissioni. Questa minaccia è formalizzata nella questione
di fiducia che, allo scopo di verificare la sussistenza del rapporto di fiducia, viene posta su una
determinata deliberazione parlamentare, la cui approvazione costituisce la condizione di permanenza
in carica del Governo. Non mancano usi distorti di tale istituto soprattutto allo scopo di far approvare
ampi progetti legislativi senza cambiarne gli articoli.
Sono principalmente tre gli atti non legislativi mediante i quali il Parlamento manifesta formalmente la
propria funzione direttiva: la mozione, la risoluzione e l’ordine del giorno. Si tratta di strumenti che
hanno la finalità di porre direttive per l’organo destinatario ed è previsto che le commissioni possono
compiere un’attività di controllo sulla loro attuazione. La mozione è volta a promuovere una
deliberazione dell’assemblea, la risoluzione ha la funzione di indurre il Governo a manifestare
orientamenti o a definire indirizzi su specifici argomenti e l’ordine del giorno ha carattere accessorio
rispetto all’argomento principale di discussione e ha lo scopo di esprimere incidentalmente la volontà
del Parlamento su di un certo profilo.
Il Parlamento possiede il sindacato ispettivo, ovvero può adottare atti indirizzati al controllo dell’attività
del Governo. Gli strumenti principali di questa funzione sono le interrogazioni e le interpellanze.
L’interrogazione consiste nella domanda se un fatto sia vero, se un’informazione sia giunta al
Governo, se il Governo intenda comunicare alle Camere documenti o notizie o stia per prendere un
provvedimento su un determinato oggetto. L’interpellanza invece consiste nella domanda circa i
motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che riguardano determinati aspetti
della sua politica. Il Governo può rispondere alle interrogazioni ed alle interpellanze attraverso un
Ministro, un viceministro o un sottosegretario di Stato. Il dibattito orale su tali strumenti si distingue in
3 fasi: illustrazione del proponente, risposta del Governo, replica del proponente, che dichiara di
essere soddisfatto o meno della risposta.
Il Governo
Nel nostro sistema costituzionale si può dire che il Governo ha un duplice ruolo: da una parte è un
organo esecutivo, al vertice dell’amministrazione e che ha come compito l’esecuzione e la messa in
atto della legge, dall’altra è un organo politico in quanto concorre a determinare l’indirizzo politico
dello Stato. Il Governo quindi si pone come una sorta di punto di incontro tra gli organi rappresentativi,
i quali pongono in astratto disposizioni generali, e gli organi che rendono tali disposizioni concrete
attraverso l’amministrazione pubblica, ad esempio infatti il Ministro, derivante dalla rappresentanza, è
al vertice di una struttura amministrativa. Il Governo inoltre partecipa, sempre più frequentemente,
all’attività dispositiva e legislativa.
Possiamo meglio definire il ruolo del Governo analizzando la sue storia ed evoluzione. Il Governo è
un organo che nasce nel quadro storico della monarchia assoluta ed era dedito a svolgere attività
provvedimentali e a rendere concrete le scelte del Re. Con il passaggio alla monarchia costituzionale
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il Governo si trova legato da una doppia responsabilità sia verso il Re che verso le Camere e la
crescente forza politica della legge del Parlamento fa si che il Governo si trasformi in un organo
esecutivo della volontà delle Camere. Infine, con l’affermazione della forma di governo parlamentare
e quindi con l’affermazione del Parlamento sul monarca, il Governo diventa dipendente dalla
legittimazione del Parlamento ed ha bisogno della sua fiducia per continuare a svolgere le proprie
funzioni. Si può quindi affermare che il Governo ha un potere esecutivo della volontà di un organo
diverso, è incaricato di dare esecuzione alla legge del Parlamento attraverso l’amministrazione.
Il Governo è definito come un complesso organico, costituito da un organo collegiale, il Consiglio dei
Ministri, e da organi monocratici, cioè il Presidente del Consiglio e i singoli Ministri. La Costituzione
non prevede una gerarchia tra i vari organi e la dottrina ha con il tempo alternato definizioni che
esaltavano la centralità del presidente ad altre che valorizzavano invece il Consiglio dei Ministri, altre
teorie invece hanno tentato di giungere ad un punto intermedio a conciliare carattere monocratico e
collegiale. Nella prassi si è affermata un’impostazione “ministeriale” principalmente nel contesto di
Governi frammentati di coalizione, nei quali i vari partiti rivendicavano l’indipendenza dei propri
Ministri. In questa impostazione i ministeri sono quindi autonomi da un punto di vista politico ed il
Presidente svolge un ruolo di mediatore tra i partiti e di un primus inter pares tra i Ministri. Negli ultimi
anni inoltre, anche a causa della polarizzazione del sistema politico, il Governo si è trasformato in un
comitato direttivo della maggioranza parlamentare.
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dirige i lavori del Consiglio convocando le riunioni, fissando l’ordine del giorno ed altro. Egli inoltre
presiede altri organi collegiali al di fuori del Consiglio, come la Conferenza Stato-Regioni oppure i
collegi ristretti di Ministri. Allo scopo di coordinare l’attività dei Ministri il Presidente ha il potere di
indirizzargli delle direttive politiche ed amministrative, le quali però non prevedono conseguenze
sanzionatorie definite. Sempre a tale scopo egli ha il potere di sospendere l’adozione di atti da parte
dei Ministri e sottoporli al Consiglio dei Ministri e il potere di richiedere ai Ministri relazioni e verifiche
amministrative, di istituire comitati interministeriali o gruppi di studio e concordare con i Ministri le loro
pubbliche dichiarazioni. Infine, la legge n. 124/2007 riserva al Presidente la direzione della politica
dell’informazione per la sicurezza svolta dai servizi segreti e il potere di apporre o rimuovere il segreto
di Stato.
Il Consiglio dei Ministri è un organo collegiale (non complesso in quanto quell’aggettivo è utilizzato
per il Governo in sé) composto dal Presidente e dai Ministri, a cui partecipa inoltre il Sottosegretario di
Stato alla Presidenza. Le modalità di funzionamento dell’organo sono disciplinate dal regolamento
interno e dalla legge n 400/1988. Al Consiglio dei Ministri spettano tutte le funzioni che la Costituzione
attribuisce genericamente al Governo, come l’iniziativa legislativa, l’adozione dei decreti legislativi e
decreti legge, il trasferimento dalla commissione deliberante all’assemblea dei disegni di legge. Altre
funzioni sono contenute in diverse fonti di rango primario, principalmente nella legge n. 400/1988. Il
Consiglio determina la politica generale del Governo e l’indirizzo dell’azione amministrativa e delibera
su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto di fiducia. Il Consiglio delibera sugli
impegni programmatici ed esprime l’assenso alla proposta del Presidente di porre la questione di
fiducia alle Camere. Il Consiglio decide inoltre sulla composizione del Governo e sulle competenze
dei singoli Ministri.
I Ministri svolgono una duplice funzione: come componenti del Consiglio e come organi di vertice di
apparati amministrativi, i Ministeri. Il ruolo dei Ministri deve essere quindi descritto insieme alla
descrizione dei modelli costituzionali di amministrazione, che scendono la Costituzione sono tre. Il
primo, delineato dall’Art. 95 indica l’amministrazione come apparato servente del Governo, divisa in
settori ed organizzata in uno schema piramidale con al vertice il Ministro. Gli Art. 28, 97 e 98
configurano gli organi dell’amministrazione come organi tecnici separati da quelli politici e ai quali
spetta l’applicazione di norme generali ed astratte. Il terzo modello è infine individuato dagli Art. 5,
117 e 118 e imposta una pluralità di amministrazioni organizzate su base territoriale o funzionale. Il
modello prevalente è quello ministeriale, ma si è tentato di superare questa impostazione attraverso il
decentramento e il trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni e agli enti locali. La
Costituzione non determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri, i quali infatti
possono essere più dei Ministri, quando o il Presidente o un altro Ministro sono posti a più Dicasteri, o
meno dei Ministri, principalmente per la presenza dei Ministri senza portafoglio, ovvero quei Ministri
senza un apposito apparato amministrativo, che svolgono funzioni delegate dal Presidente e per
questo utilizzano le sue strutture amministrative. Ai Ministri spetta l’esercizio della funzione di indirizzo
politico-amministrativo, definendo obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare, ai cosiddetti dirigenti
invece spetta l’adozione di atti verso l’esterno e la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa
attraverso autonomi poteri di spesa e organizzazione. Il Ministro svolge questa funzione di indirizzo
attraverso atti normativi (regolamenti ministeriali), direttive (atti interni alla PA) e circolari e propone al
Consiglio le nomine dei segretari generali e dei dirigenti. Il Ministro non può sostituirsi al dirigente
generale nell'adozione di un atto di sua competenza, né può revocarne o riformarne i provvedimenti,
ed anche in caso di inerzia, ritardo o gravi inosservanza delle direttive generali, il Ministro può solo
nominare un commissario ad acta dopo aver fissato un termine per l’adempimento e aver dato
comunicazione del procedimento al Presidente del Consiglio.
Il Governo è composto inoltre da organi “non necessari” cioè organi non previsti dalla Costituzione,
introdotti da convenzioni o consuetudini costituzionali e successivamente disciplinati da fonti primarie.
Tra questi si ricordano il consiglio di gabinetto, organo composto da Ministri designati dal
Presidente con la funzione di aiutare il Presidente nello svolgimento delle sue funzioni, i comitati di
Ministri, istituiti in relazione a politiche settoriali che riguardano ambiti materiali di più ministeri e
generalmente con funzioni istruttorie e preparatorie, il Vicepresidente del Consiglio, scelto o scelti
tra i Ministri, principalmente con funzione di supplenza, i commissari straordinari, istituiti al fine di
realizzare specifici obiettivi determinati in relazione a programmi deliberati dal Parlamento o dal
Consiglio, i Sottosegretari di Stato, delegati dei Ministri, e i viceministri, nomina attribuita ad alcuni
sottosegretari.
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La Formazione del Governo
L’ordinamento italiano è basato su una forma di governo di tipo parlamentare, che non è
semplicemente una forma che prevede un parlamento in quanto questo è un organo presente nella
maggior parte dei paesi anche in quelli con una forma di tipo presidenziale. Invece la forma di
governo di tipo parlamentare si caratterizza per la presenza del rapporto della fiducia tra il Parlamento
e il Governo, cioè tra l’organo legislativo e quello esecutivo. Alla fiducia che il Parlamento conferisce
al Governo legittimandolo corrisponde una responsabilità politica del Governo. Il rapporto di fiducia
esiste solamente nella forma di governo parlamentare. Le forme di governo sono quindi caratterizzate
dal rapporto tra i diversi poteri dello stato, e non dipendono quindi dalla forza politica dei vari organi.
In Italia la forma parlamentare è impostata dall’Art. 94 il quale sancisce la necessità del rapporto
fiduciario.
Il procedimento di formazione del Governo non è disciplinato direttamente dalla Costituzione, che
contiene solamente le fasi della nomina dei Ministri e del giuramento. Le fasi precedente, come le
consultazioni, sono invece svolte in base a delle consuetudini costituzionale consolidatesi negli anni.
All’esito positivo delle consultazioni, che possono ripetersi più volte, anche affidate ad un altro
soggetto attraverso un mandato esplorativo, il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di
formare il Governo al cosiddetto presidente incaricato, il quale accetta con riserva (nel senso che non
può dare la certezza). Il presidente incaricato quindi inizia a confrontarsi con i partiti per stilare la lista
dei Ministri e una lista con le priorità dei lavori di Governo, al termine di ciò torna al Quirinale e
“scioglie la riserva”. È possibile che il presidente incaricato non riesca a formare un governo e quindi
rimette l’incarico al Presidente della Repubblica.
Quando la riserva è sciolta il Presidente della Repubblica, attraverso tre decreti, nomina il presidente
incaricato Presidente del Consiglio dei Ministri e nomina i Ministri individuati dall’accordo di
maggioranza. Rimane aperto il dibattito sulla possibilità che il Presidente della Repubblica possa
sindacare sulle nomine dei Ministri. Alla nomina segue il giuramento e si tiene il voto di fiducia, che
secondo l’Art. 94 si deve tenere entro 10 giorni dal giuramento. Il voto di fiducia è un voto bicamerale
con due distinti voti che devono entrambi avere un esito positivo senza però una maggioranza
specializzata. È un voto per appello nominale e ogni parlamentare chiamato deve rispondere a voce
alta.
Se il Governo riceve la fiducia inizia il rapporto fiduciario vero e proprio che dura fino alla sua
interruzione o per le dimissioni del Presidente del Consiglio o più spesso per un voto di sfiducia,
disciplinato sempre dall’Art. 94, che se riceve la maggioranza porte alle dimissioni del governo. La
Costituzione prevede inoltre la questione di fiducia, che al contrario della mozione di sfiducia,
proposta dai parlamentari, è un’iniziativa del Governo stesso con lo scopo di domandare al
parlamento se permane la fiducia nei suoi confronti, è una verifica del rapporto fiduciario. La
questione è posta su una legge che se non viene approvata porta alle dimissioni del Governo. La
questione di fiducia comporta un grande vantaggio per il Governo perché velocizza i lavori
parlamentari su quella legge, che va solo approvata o respinta e non può essere emendata articolo
per articolo. L’interruzione del rapporto fiduciario determina la riattivazione del processo delle
consultazioni. Se il Presidente della Repubblica constata che non c’è la possibilità di costituire un
nuovo rapporto fiduciario egli ha il potere di scioglimento anticipato delle camere, un potere che è
tenuto ad esercitare dopo aver sentito i pareri dei presidenti di assemblea ogni volta che non sia
possibile risolvere una crisi di governo costituendone uno nuovo. Il Presidente ha comunque l’obbligo
di cercare una maggioranza alternativa.
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Le dimissioni di un Governo aprono le cosiddette crisi di governo che possono essere parlamentari,
se determinate dal voto di sfiducia in Parlamento, o extraparlamentari, se determinate dalle
spontanee dimissioni del Governo. Si fa invece riferimento al “rimpasto” quando in un Governo
vengono sostituiti uno o più Ministri, in questo caso non si tratta di un nuovo Governo e quindi non è
necessario un ulteriore voto di fiducia. Lo strumento della sfiducia inoltre può esercitarsi anche nei
confronti di un singolo Ministro.
Responsabilità Ministeriale
I Ministri sono soggetti ad una responsabilità politica, che viene sanzionata dal Parlamento attraverso
la sfiducia e ad una responsabilità giuridica per i reati commessi durante lo svolgimento delle loro
funzioni. Per i reati commessi al di fuori dell’attività politica il Ministro risponde della responsabilità
giuridica come un normale cittadino. I reati commessi durante lo svolgimento dei lavori politici sono
detti reati ministeriali e richiedono i poteri politici del ministro o del Presidente del Consiglio. Il reato
ministeriale è punito con una pena aggravata di ⅓ rispetto alla pena normale. La responsabilità
giuridica dei reati ministeriali si imputa solo al Ministro responsabile e non si estende al Governo.
Il Consiglio di Stato è l’organo più antico, risalente al periodo napoleonico ed ha due funzioni: esprime
pareri in materia giuridico-amministrativa relativi all’attività delle pubbliche amministrazioni sotto il
profilo di legittimità ed ha competenza giurisdizionale amministrativa di secondo grado, cioè sui ricorsi
contro le sentenze dei tribunali amministrativi regionali. Il Governo ne nomina il presidente e un quarto
dei consiglieri. È indipendente di fronte al Governo ei suoi pareri possono essere obbligatori,
facoltativi, vincolanti o non vincolanti.
La Corte dei conti ha funzione di controllo e funzione giurisdizionale. La prima riguarda il controllo
preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e uno successivo sulla gestione del bilancio dello Stato
e degli enti a cui lo Stato contribuisce. La seconda riguarda la giurisdizione nelle materie di contabilità
pubblica, specialmente quei giudici con oggetto la responsabilità contabile e amministrativa e le
pensioni a carico dello Stato.
Il CNEL è un organo costituito da esperti e rappresentanti delle categorie produttive, titolare del
potere di iniziativa legislativa e di poteri consultivi a rappresentanza delle categorie professionali. Si
può dire che il CNEL è un istituto di scarsa importanza con poteri limitati, in quanto le sue iniziative di
legge non hanno un carattere vincolante.
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Proprio per la carenza nella disciplina dei suoi poteri è dibattuto molto sulla natura di questo organo.
L’espressione capo dello stato infatti può essere interpretata o in chiave “descrittiva”, secondo la
quale al Presidente competono un certo numero di funzioni esecutive ed esso è simbolo vivente
dell’autorità dello Stato, o in chiave “attributiva”, che vede il capo dello Stato come: il titolare di tutti i
poteri statali non attribuiti ad altri organi, l’organo senza il quale lo stato andrebbe in paralisi o l’organo
supremo in posizione, a volte anche in guida e comando. L’ipotesi sulla competenza residuale è
tuttavia superata in quanto nella maggior parte delle costituzioni i compiti del capo dello Stato sono
elencati. La figura del capo dello Stato si caratterizza sempre per la supremazia in posizione, che sta
a descrivere la preminenza di tale organo in onori e dignità, la supremazia in guida invece include gli
strumenti volti a valorizzare l'attitudine del soggetto ad esercitare un’attività persuasiva sui cittadini in
base alla sua autorità ed autorevolezza, la supremazia in comando infine consiste nel potere di
imposizione e coercizione. Nella forma di governo parlamentare, secondo la dottrina, il capo dello
Stato è un soggetto regnante ma non governante e dovrebbe rappresentare un potere neutro e
imparziale. Tuttavia si tratta di principi teorici in quanto si può rilevare come il Presidente della
Repubblica abbia dei poteri politici, limitati dalla controfirma, e la posizione neutra o intermedia è
svolta anche da ulteriori organi costituzionali, facendo si che questo non sia un elemento sufficiente a
definire il capo dello Stato. L’elemento principale del capo dello Stato può ritrovarsi invece nella
personalizzazione del suo potere, in quanto si tratta di un organo monocratico. Oltre ad essere un
capo “formale” è possibile che il Presidente della Repubblica si elevi a capo “sostanziale” in periodi di
crisi. Si può dire che il capo dello Stato svolge il ruolo di garante o custode della Costituzione e
controlla l’attuazione dell’indirizzo politico, o merito, costituzionale, mentre la Corte costituzionale
controlla la legittimità costituzionale. Progressivamente il ruolo del Presidente della Repubblica si è
andato a connotare per una più accentuata dialettica tra Governo e Parlamento e per questo è
possibile affermare che i poteri presidenziali dipendono dagli equilibri politici delle istituzioni, se c’è
una maggioranza coesa il Presidente va ad accentuare la sua natura di organo di equilibrio anche
verso le opposizioni, se il Governo si trova in difficoltà va invece a supportarlo.
Il Presidente della Repubblica è eletto ogni 7 anni, e quindi di regola non coincide con la durata della
legislatura. Si tratta di un mandato lungo in quanto è considerato come un organo di garanzia e non
politico, quindi è slegato dalle elezioni e dalla maggioranza politica. Il Presidente della Repubblica
viene eletto dal Parlamento in seduta comune con una maggioranza qualificata (⅔ dei membri del
Parlamento) che idealmente a rappresentare l’imparzialità politica della carica, tuttavia si abbassa il
quorum alla maggioranza assoluta dopo la terza votazione. All’elezione partecipano anche
rappresentanti dei consigli regionali, 3 per ogni regione e 1 per Molise e Valle d’Aosta, che
generalmente non vanno ad incidere sulla votazione e sono prettamente simbolici. Per essere
eleggibile, il Presidente della Repubblica deve avere almeno 50 anni, avere la cittadinanza italiana e
deve godere dei i diritti civili e politici. La rielezione non è disciplinata dalla Costituzione ma non è per
questo vietata, fino ad ora è avvenuta solo una volta con Napolitano. La possibilità della rielezione
sembra essere confermata dall’Art. 88 che priva il Presidente del potere di scioglimento delle camere
negli ultimi sei mesi della sua presidenza ad evitare che egli sciolga le camere nella speranza di una
propria rielezione. Infine la carica del Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra
carica.
Con elezione pre-scadenza si intende il fatto che il Presidente della Camera dei Deputati convoca
l’elezione del Presidente della Repubblica 30 giorni prima della fine del suo mandato. Se le Camere
però sono sciolte o mancano meno di tre mesi al termine della legislatura la rielezione del Presidente
è affidata alle nuove Camere e nel frattempo i poteri del capo dello Stato sono prorogati, per questo
l’istituto è detto prorogatio. L’istituto della supplenza del Presidente si verifica quando egli non può
esercitare la carica temporaneamente e compete al Presidente del Senato. Se l’impedimento
all’esercizio della carica non è temporaneo, la Costituzione non ci fornisce alcuna informazione sul
procedimento da seguire. L’unico caso di impedimento permanente si è verificato nel 1964, quando il
Presidente della Repubblica Segni fu colpito da una grave malattia, i presidenti delle assemblee, il
Presidente del Consiglio e il presidente della Corte costituzionale avevano proposto di affidare il ruolo
di supplenza al Presidente del Senato e poi indire nuove elezioni per il Presidente per colmare il vuoto
istituzionale ma non si arrivò a questo in quanto Segni riuscì a dimettersi. L’accertamento
dell’impedimento è generalmente affidato all’autodichiarazione attraverso un decreto, in mancanza di
un’autodichiarazione non si è arrivati a decidere a quale potere spetti in quanto l’unico caso è stato
quello di Segni, conclusosi con le sue dimissioni.
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I Poteri del Presidente e la Controfirma
L’Art. 87 elenca alcuni dei poteri del Presidente della Repubblica, tuttavia non ci viene molto in aiuto
per vari motivi. Innanzitutto esso non comprende tutti i poteri del Presidente, elencati in altri articoli
costituzionali, addirittura i poteri presidenziali possono anche essere previsti dalla legge ordinaria.
Nell’Art. 87 inoltre sono elencati sia poteri sostanzialmente presidenziali sia poteri che sono solo
formalmente presidenziali, come il comando delle forze armate. Bisogna quindi analizzare l’Art. 89 il
quale introduce l’istituto della controfirma ministeriale e afferma che gli atti del Presidente della
Repubblica devono essere controfirmati dai Ministri proponenti per essere validi e questi se ne
assumono la responsabilità. In teoria quindi la Costituzione prevede un modello in cui il Presidente
non ha poteri sostanziali, in quanto egli non può esercitare le proprie funzioni da solo. Tuttavia nella
prassi vi sono atti per i quali la controfirma dell’atto è meramente formale mentre è il Presidente che
prende la decisione sostanziale. Con riferimento agli atti presidenziali si fa riferimento al concetto di
atti complessi, cioè atti derivanti dalla fusione di atti distinti di due organi, in questo caso il Presidente
e il ministro. La determinazione del contenuto dell’atto, cioè il potere sostanziale, varia tra i diversi atti,
per questo si è arrivati ad una quadripartizione:
Atti dovuti: indicano quegli atti in qui non è presente alcuna discrezionalità nell’esercizio del potere e
non vi è un ministro proponente. Un esempio è quello della promulgazione di una legge che è stata
riapprovata dopo il rinvio.
Atti paritari: sono gli atti nei quali le due volontà si equivalgono attraverso un accordo, ad esempio
nel caso della nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri o lo scioglimento delle Camere.
Il potere di scioglimento anticipato delle camere entra in gioco durante le crisi di governo, durante le
quali il Presidente è chiamato a farsi moderatore della dialettica politica, quando manca una
maggioranza coesa che sostenga il Presidente del Consiglio. Riguardo tale potere la Costituzione è
ambigua, essa lo attribuisce al Presidente della Repubblica ma questo è obbligato ad ascoltare i
pareri dei Presidenti delle Camere, che di fatto provoca la partecipazione dello stesso Parlamento, si
tratta tuttavia di un parere non vincolante.
Anche se sostanzialmente la Costituzione si riferisce a tutti gli atti presidenziali, sono generalmente
esenti da controfirma gli atti privati, le omissioni (da non confondere con gli atti di diniego), gli atti
orali, gli atti compiuti quale presidente di un organo collegiale, cioè CSM e Consiglio Supremo di
Difesa, il giuramento, le dimissioni e i conflitti di attribuzione sollevati contro un ministro.
53
La Responsabilità del Presidente e il Processo
Il Presidente della Repubblica non va incontro a responsabilità politica per i propri atti. Sotto il punto di
vista della responsabilità giuridica invece l’esenzione del Capo dello Stato incontra due limiti. Essa
infatti non copre gli atti compiuti al di fuori dall’esercizio delle funzioni presidenziali e, secondo l’Art.
90, il Presidente è comunque responsabile per i reati di alto tradimento ed attentato alla
Costituzione. La procedura è introdotta dai lavori di un comitato composto dai membri delle Giunte
per le immunità, che svolge una fase istruttoria senza limiti di segreto, se il comitato non rileva una
manifesta infondatezza, può presentare una relazione al Parlamento in seduta comune. Nel
Parlamento in seduta comune si svolge la formalizzazione dell’incriminazione nei confronti del
Presidente, cioè la messa in stato di accusa deliberata a maggioranza assoluta e a scrutinio
segreto. Se il Presidente è messo in stato di accusa (mai accaduto nella prassi) il Parlamento nomina
un comitato d’accusa che redige i capi di imputazione, trasmessi all’organo giudicante, la Corte
costituzionale affiancata dai 16 ulteriori giudici estratti a sorte da una lista compilata dal Parlamento, è
una giuria politica.
La Corte ha lavorato in composizione allargata negli anni ‘70 sul caso Lockheed, contro due Ministri
corrotti da un’azienda di armi americana, questa composizione allargata infatti nel testo originale della
Costituzione era prevista sia per il Presidente della Repubblica che per i Ministri, dopo questo
processo il Presidente della Corte costituzionale propose al Parlamento di mantenere questo sistema
solo per i reati presidenziali per non rallentare i regolari lavori della Corte. I reati di alto tradimento e di
attentato alla Costituzione non sono dettagliati e regolati da alcuna norma e quindi non sono previste
neanche le pene per questi reati, su cui la Corte ha quindi ampia discrezionalità. Si tratta di una
grande eccezione rispetto al principio di legalità penale e allo stato di diritto.
Il Regionalismo
L’Italia introduce le regioni come entità amministrative con la Costituzione del ‘48, prima di ciò infatti le
regioni erano solo zone geografiche e gli unici enti locali del Regno d’Italia erano i comuni e le
province che rimanevano comunque subordinati allo Stato, senza alcun tipo di autonomia rafforzata.
Storicamente, oltre al modello dello stato accentrato, esistevano vari modelli organizzativi che
prevedevano forti autonomie territoriali come ad esempio il modello confederato, come la Svizzera, in
cui stati autonomi si uniscono e regolano con un trattato, oppure il modello federale, come gli USA,
simile al modello confederato ma con stati con minore autonomia. Il primo esempio storico di
regionalismo si ritrova nella Costituzione spagnola del ‘32, esso rappresentava una via di mezzo tra
stato accentrato e stato federale e prevedeva delle regioni che non erano sovrane ma che avevano
ampia autonomia anche sul piano legislativo. All’interno del dibattito costituzionale in molti
sostenevano l’introduzione di un sistema federale o comunque di un sistema con ampie autonomie e
vedevano nello stato accentrato una delle cause dell’ascesa del fascismo. Vedevano infatti nel
federalismo una sorta di freno agli autoritarismi. Le istanze autonomistiche arrivavano soprattutto
dalla DC mentre erano osteggiate dall’area della sinistra. Il compromesso tra queste due correnti
porta all'approvazione del regionalismo. L’Italia viene divisa in 20 regioni, di cui 15 a statuto ordinario
e 5 ad autonomia o statuto speciale, in base alle loro diversificate condizioni storiche, economiche e
culturali. Il Costituente, nel 1948, accolse un modello che era il risultato della combinazione di istituti
provenienti sia dall’esperienza regionale che federale. Le Regioni speciali vennero istituite e dotate di
competenze attraverso atti di provenienza statale (Statuti speciali), mentre le Regioni ordinarie furono
investite di un’autonomia normativa abbastanza ristretta e meramente concorrente. Il modello
regionale percepito dal costituente rispecchiava quindi una posizione deteriore sia rispetto al
regionalismo spagnolo sia rispetto al modello federale. La Costituzione prevedeva comunque alcuni
dispositivi di autonomia delle Regioni come l’individuazione costituzionale delle materie di loro
competenza, il principio del parallelismo delle funzioni e la tutela delle proprie attribuzioni di fronte alla
Corte costituzionale.
Il Regionalismo viene di fatto attuato solo negli anni ‘70 ed entra presto in crisi. Le Regioni erano
infatti definite “senza volto” per l'assenza di una vera e propria identità e lo Stato, per il suo ruolo
“tutorio”, finiva spesso per andare oltre le proprie competenze. Inoltre a livello politico ci furono
numerosi ritardi sia sul piano delle funzioni amministrative che per l’approvazione degli statuti e la
classe politica riscontrò delle difficoltà nella creazione di una classe dirigente locale. Le modifiche
apportate con le leggi cost. 1/1999, 2/2001 e 3/2001 al titolo V della Costituzione e agli Statuti speciali
rappresentarono un tentativo di rilanciare il regionalismo. Esse prevedevano una ridistribuzione delle
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funzioni legislative, un rafforzamento dell’autonomia organizzativa, una riduzione del ruolo tutorio
dello Stato.
Il regionalismo italiano è ad oggi organizzato secondo diversi principi. Un primo principio è quello che
tutela l’uniformità adottando soluzioni vincolanti e non derogabili da parte delle Regioni (ad esempio la
presenza di organi necessari), mentre un altro punta alla valorizzazione dell’autonomia degli enti
regionali, lasciando libera decisione su alcuni assetti organizzativi configurati da norme di rango
costituzionale, ad esempio la scelta sul modello di elezione del Presidente. Da un lato, è offerta agli
enti la possibilità di scelta tra più varianti costituzionalmente predefinite, dall’altro sono previste norme
costituzionali dispositive o suppletive liberalmente derogabili dalle Regioni. È riconosciuta alle Regioni
l’autonomia organizzativa di tipo residuale, che garantisce la competenza della Regione su tutte le
scelte organizzative non rimesse al legislatore statale. Le norme costituzionalmente dispositive sono
derogabili dalle Regioni, e lo stesso vale per le norme suppletive.
La materia della forma di governo rientra nella competenza statutaria sia per le regioni ordinarie che
per quelle speciali, in queste ultime le norme sulle forme di governo possono essere sostituite da
leggi statutarie. Le regioni non vengono lasciate completamente libere ma sono vincolate a seguire i
principi emanati dal Governo, seguendo gli Art. 121,122 e 126. Il sistema di elezione del Presidente,
della Giunta e del Consiglio e la normazione dei casi di insindacabilità e ineleggibilità sono attribuiti
alla potestà legislativa concorrente. Il nuovo sistema regionale prevede inoltre ancora alcuni elementi
indisponibili come la presenza del Consiglio Regionale, come organo collegiale monocamerale, la
denominazione “regione” e la Giunta, la quale si struttura di assessori (equivalenti dei Ministri) e dei
presidenti della Giunta. La Costituzione vincola ulteriormente le regioni attraverso l’Art. 126 comma 2
obbligando a mantenere l’istituto del voto di sfiducia consiliare verso il Presidente della Giunta il che
obbliga le Regioni a rimanere in un sistema di tipo parlamentare, la sfiducia determina lo scioglimento
del Consiglio e la decadenza del Presidente il quale non può essere sostituito come in un normale
governo parlamentare. La fiducia deve essere presente tassativamente e la Corte costituzionale è
stata rigorosa nell’imporre questa linea nel modo più preciso possibile. Il Presidente della Giunta
rappresenta la Regione, quindi è anche Presidente della Regione e alla dimissione della maggioranza
dei Consiglieri si deve dimettere anche la Giunta e deve essere sciolto il Consiglio.
Sui rapporti tra i vari organi regionali, con la riforma del 1999, si apre uno spazio di autonomia
regionale. Le regioni la esprimono attraverso lo “statuto regionale”, un atto normativo previsto dall’Art.
123 come fonte del diritto autonoma della regione che contiene le norme sulla forma di governo
regionale in armonia con la Costituzione. Gli statuti dispongono di una competenza specializzata e
riservata, le quale non entra in contatto con le competenze delle leggi regionali, statuti e leggi
regionali infatti non si trovano in un rapporto gerarchico ma di separazione di competenze.
La principale scelta che compete agli statuti è la scelta del metodo di elezione del Presidente, che
può essere diretto o indiretto, tutte le regioni utilizzano il modello dell’elezione diretta tranne il
Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta dove il Presidente è eletto dal Consiglio. In molte regioni in
Consiglio si vota il programma di governo, mentre in altre va solo esposto.
Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza
assoluta dei suoi componenti, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di
due mesi. Il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli
statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione. Lo statuto
è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta
un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale.
L’Art. 123 si riferisce esclusivamente alle regioni ad autonomia ordinaria, le regioni a statuto speciale
sono invece regolate da leggi costituzionali. Il Parlamento ha previsto che con lo specifico riferimento
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alla forma di governo, le regioni a statuto speciale possono adottare delle leggi statutarie approvate
dal Consiglio di quella regione.
Il Consiglio
Il Consiglio regionale costituisce l’assemblea politico-rappresentativa della comunità regionale. Esso
esercita la potestà legislativa e le altre funzioni conferite dalla Costituzione e dalle leggi. Il Consiglio
può fare proposte di legge alle Camere. I Consigli sono eletti a suffragio universale e diretto (in
Trentino-Alto Adige è costituito dai consiglieri provinciali di Trento e Bolzano eletti dai cittadini). I
consiglieri sono liberi dal mandato imperativo e godono dell’insindacabilità. Le regole per eleggere il
Consiglio sono rimesse alla competenza legislativa statale (nella determinazione dei principi) e
regionale (per le norme di dettaglio). Nelle Regioni a statuto speciale il sistema di elezione è
determinato in armonia con la Costituzione e per mezzo di una legge statutaria. Il numero dei
consiglieri è rimesso alla competenza dei vari statuti e quindi può essere diverso di regione in
regione, tuttavia la normativa statale ha imposto dei tetti massimi sulla base di un equilibrio tra
rappresentati e rappresentanti. La Costituzione riserva alla legge la durata dei Consigli, attualmente di
5 anni. La prorogatio non incide sulla durata dell’organo, ma sui poteri ad esso spettanti tra la fine di
una legislatura regionale e l’insediamento dell’altra e solo nei casi in cui lo Stato interviene per
sciogliere il Consiglio o per rimuovere il Presidente di Regione non si esercita la prorogatio.
Per far parte dell’elettorato attivo, l’elettore deve essere iscritto alle liste elettorali dei Comuni della
Regione e per la Valle d’Aosta ed il Trentino-Alto Adige è richiesto anche il requisito della residenza
nel territorio per un certo periodo di tempo. Per rientrare invece nell’elettorato passivo non si può
appartenere contemporaneamente al Consiglio/Giunta ed al Parlamento, ad un’altra Giunta o ad un
altro Consiglio, al Parlamento europeo, al CSM o alla Corte costituzionale. In materia di verifica dei
poteri i Consigli regionali hanno la competenza a decidere sulle cause di ineleggibilità e di
incompatibilità dei propri componenti. Il controllo sulla legittimità delle elezioni spetta al giudice
amministrativo.
Per quanto riguarda i regolamenti interni, l’autonomia regolamentare è dedotta dai principi generali
sull’organizzazione degli organi politici e non essendoci una riserva di regolamento nella Costituzione,
la loro organizzazione interna può essere gestita da altre fonti. Spetta agli Statuti determinare le
norme sulla produzione dei regolamenti e il loro quorum di approvazione, le forme di governo, i
principi di organizzazione, l’ambito ed il regime dei regolamenti interni. Le norme prodotte dai
regolamenti non sono di rango primario e sono assoggettabili al sindacato costituzionale.
All’interno del Consiglio troviamo il Presidente del Consiglio regionale, l’ufficio di Presidenza e i gruppi
consiliari. I presidenti dei gruppi consiliari insieme al Presidente del Consiglio regionale formano la
conferenza dei Presidenti, cui spettano attività connesse alla programmazione dei lavori. Anche nel
Consiglio regionale vi sono commissioni permanenti, che partecipano al processo legislativo e che
hanno carattere conoscitivo, ispettivo e di controllo. Infine, le giunte consiliari sono importanti per il
regolamento e per le elezioni.
La cessazione degli organi regionali di natura quinquennale può avvenire per cause di natura
politico-istituzionale (a seguito di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente delle Giunta o
nelle ipotesi di sua rimozione, impedimento permanente, morte o dimissioni volontarie) o per le
dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti dell’organo, ciò causa il cosiddetto
scioglimento funzionale. In tale eventualità si determinano anche le dimissioni della Giunta e lo
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scioglimento del Consiglio. Un altro tipo di scioglimento è lo scioglimento sanzionatorio che avviene
tramite decreto del Presidente della Repubblica e che dispone lo scioglimento del Consiglio
Regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla
Costituzione, gravi violazioni di legge o per ragioni di sicurezza nazionale. Tale istituto non è mai stato
attuato e per questo vi sono vari dubbi sul suo funzionamento. Il primo interrogativo riguarda
l’imputazione sostanziale dello scioglimento, cioè se sia un potere di iniziativa presidenziale o
ministeriale. Il secondo riguarda le fattispecie legittimanti l’intervento sanzionatorio. Un terzo dubbio
attiene a cosa accade dopo lo scioglimento perché essendo sciolti per aver compiuto gravi
illegittimità, non può essere esercitato l’istituto della prorogatio e secondo la Corte Costituzionale l’Art.
126 rimanda ad una legge statale l’eventuale disciplina della prorogatio degli organi regionali colpiti.
Il Presidente Regionale
Il Presidente regionale può essere eletto sia con suffragio universale diretto, sia con votazione
consiliare, secondo quanto stabilito dai propri statuti. La specifica regolazione del sistema elettorale è
rimessa alla potestà legislativa concorrente, dall’Art 122 Cost, il quale esplicita che le cause di
ineleggibilità ed incompatibilità del Presidente debbano essere fissate dalla legge regionale, nel
rispetto dei principi statali.
Il vertice dell’Esecutivo regionale è allo stesso tempo Presidente della Regione, Presidente della
Giunta e assume la veste di ufficiale del Governo quando esercita le funzioni amministrative
delegategli dallo Stato. Egli rappresenta la Regione nei rapporti con altri soggetti esterni, ad esempio
partecipando alla Conferenza Stato-Regioni ed alla Conferenza unificata o partecipando alla riunione
del Consiglio dei Ministri nel caso dell’esercizio, da parte del Governo, di poteri sostitutivi nei confronti
della Regione o promuovendo le questioni di legittimità costituzionale. Come Presidente della Giunta
dirige la politica della Giunta e ne è responsabile, se eletto direttamente ed a suffragio universale ha
potere di nomina e revoca degli assessori e gode di un forte potere di persuasione nei confronti di
Giunta e Consiglio in quanto può provocare il loro scioglimento dimettendosi.
La Giunta
La Giunta regionale si forma in modo diverso a seconda del metodo di elezione applicato nella
Regione. Se il Presidente è eletto direttamente, è lui che nomina e revoca gli assessori, nel caso di
elezione consiliare del Presidente invece, la Giunta può essere eletta in vari modi stabiliti dallo statuto
ad esempio con o senza voto di fiducia alla proposta del Presidente o si può procedere alla votazione
dei singoli assessori da parte dello stesso Consiglio. I rapporti tra la Giunta ed i singoli assessori non
sono risolti a livello costituzionale e al riguardo ci sono 2 ipotesi:
La Giunta è l’organo esecutivo della Regione. Il ruolo esecutivo e quello legislativo sono quindi
separati sul principio degli Stati di diritto, tuttavia la Giunta è chiamata a dirigere l’indirizzo politico
regionale e ha la capacità di condizionare la maggioranza consiliare. Gli statuti possono riconoscere
alla GIunta competenze normative limitate ai singoli regolamenti esecutivi e di attuazione, predisporre
il bilancio ed il consuntivo che il Consiglio dovrà approvare con legge. Altra competenza è quella di
agire e resistere in giudizio nelle questioni di legittimità costituzionale riguardo una legge dello Stato e
nei conflitti di attribuzione tra lo Stato o altre Regioni.
Esistono poi organi regionali costituzionalmente non necessari, istituiti negli Statuti, come le Consulte
o le Commissioni di garanzia statutaria (che hanno il compito di esprimere pareri tecnici), i Consigli
regionali dell’economia e del lavoro e per le pari opportunità, i difensori civici regionali (che mirano a
realizzare la tutela della legalità e regolarità amministrativa, ma non sono un organo di governo della
regione e non si sostituiscono alle amministrazioni degli enti locali).
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Nell’organizzazione della regione sono inoltre presenti istituti di partecipazione diretta, oltre alle
elezioni. È prevista la capacità di richiedere un referendum sia sulle leggi che sui provvedimenti
amministrativi della regione, e tale referendum può essere abrogativo, consultivo, confermativo o
propositivo. È dubbia la natura di referendum deliberativi attraverso i quali la popolazione può
approvare o meno una legge senza il Consiglio, in contrasto a quanto l’Art. 123 stabilisce sulla
funzione legislativa del Consiglio. I referendum consultivi e propositivi devono ovviamente avere ad
oggetto solo questioni relative a materie regionali, quelli abrogativi ricalcano la disciplina statale
dell’Art 75. I referendum confermativi si aggiungono alle delibere del Consiglio. Gli Statuti disciplinano
altre forme di democrazia partecipata, come nell’accesso ai documenti amministrativi.
Le Funzioni Amministrative
Dopo la riforma costituzionale del 2001, la ripartizione delle competenze amministrative risulta più
flessibile e dinamica, sulla base del superamento dei principi di decostituzionalizzazione e del
parallelismo delle funzioni amministrative. Per superare il principio del parallelismo il legislatore è
sembrato ispirarsi al cosiddetto federalismo di esecuzione, allocando la funzione legislativa agli enti
territoriali maggiori (Stato e Regioni), mentre quella amministrativa agli enti territoriali minori
(Comuni). Sotto il punto di vista della decostituzionalizzazione è stato rimesso alla legge il potere di
individuare quale sia l’ente territoriale competente ad esercitare le funzioni amministrative
disciplinando determinate materie. La disciplina costituzionale si è limitata a stabilire quali debbano
essere i criteri per far sì che il legislatore attribuisca le funzioni all’uno o all’altro ente.
Nel nuovo Art. 118 si prevede che tutte le funzioni amministrative siano attribuite in via di principio ai
Comuni, ma per assicurarne l’esercizio unitario, possono essere conferite alle Città metropolitane, alle
Province, alle Regioni ed allo Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza. I comuni quindi sono titolati di tutte le funzioni amministrative non diversamente
attribuite. Il potere di allocazione delle funzioni amministrative spetta alla legge. È inoltre riservata alla
legge statale la capacità di stabilire le forme di coordinamento e di intesa nelle funzioni amministrative
fra Stato e Regioni. Per quanto attiene al soggetto competente ad allocare le funzioni amministrative,
la Costituzione distingue le funzioni amministrative degli enti infraregionali da quelle conferite allo
Stato o alle Regioni. L’art 117 attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in ordine alle
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane e le Regioni hanno pieno potere di
conferire agli enti infraregionali altre funzioni amministrative rispetto a quelle fondamentali. Il modello
di allocazione delle funzioni sembra essere ‘’a cascata’’, la legge statale è competente a valutare per
ciascuna materia se sussistano le esigenze di esercizio unitario a livello nazionale delle funzioni
amministrative prendendole su di sé se queste esigenze sussistono. La regione può avocare a sé le
materie per cui lo Stato non ha preso le funzioni e di conseguenza stabilisce quali materie debbano
essere attribuite alla stessa Regione se sussistono esigenze di unitarietà oppure alle Città
metropolitane, alle Province e ai Comuni.
Prima della riforma del 2001 le Regioni erano sottoposte a diversi tipi di controllo anche sui loro atti
amministrativi e legislativi. Entrambi i controlli sono stati aboliti e oggi, tranne che per il controllo sugli
organi regionali (Consigli regionali e Presidente tramite lo scioglimento sanzionatorio) e per l’esercizio
del potere sostitutivo, l’unico sindacato sulle Regioni espressamente previsto è esercitato dalla Corte
costituzionale, dagli organi giurisdizionali e dalla Corte dei Conti.
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politica estera, in particolare negli aspetti internazionalistici, alle Regioni non appartiene una funzione
normativa nei suoi ambiti residuali ma prevale per essa la competenza statale esclusiva. Per quanto
riguarda invece il potere di concludere trattati il fatto che la Regione ‘’può’’ concludere accordi e intese
indica che non è una sua competenza esclusiva e l’espressione ‘’nei casi e con le forme’’ stabiliti dalla
legge statale si indica che gli accordi prevedono la partecipazione degli organi statali e tali accordi
con le regioni possono solo essere “esecutivi ed applicativi di accordi internazionali regolarmente
entrati in vigore, o accordi di natura tecnico amministrativa, o accordi di natura programmatica nel
rispetto dei vincoli derivanti dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana”
Anche le Regioni, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione
del diritto dell’UE e all’esecuzione degli atti dell’Unione Europea. In caso di inadempienza
nell’attuazione del diritto dell’Unione è previsto l'intervento sostitutivo dello Stato. La legge definisce le
procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. Il potere sostitutivo dello Stato è distinto tra
interventi di tipo successivo, in cui il Governo assegna alle regioni un congruo termine per adottare i
provvedimenti dovuti o necessari, e interventi di tipo preventivo, in cui lo Stato interviene per
introdurre una normativa finalizzata ad attuare le norme europee nel caso di inerzia della regione. In
tal caso la normativa adottata dallo Stato ha carattere cedevole, ovvero trova applicazione solo per
sopperire all'inerzia regionale e solo finché permanga.
Durante la fase ascendente dell’attuazione degli atti dell’UE la legge prevede un obbligo di
informazioni sui progetti dell’Unione da parte del Governo alle Regioni, le quali possono presentare
osservazioni e convocare la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome al fine di raggiungere un’intesa. Le regioni possono concorrere direttamente alle
attività del Consiglio e della Commissione europea nell'ambito delle delegazioni del Governo. Il
Governo può ricorrere alla Corte di giustizia contro gli atti dell'Unione ritenuti illegittimi, anche su
richiesta di una Regione o di una Provincia autonoma, qualora un atto dell'Unione riguardi le loro
materie di competenza.
Riguardo la fase discendente la l. n. 234/2012 stabilisce che le Regioni possono dare attuazione
legislativa alle direttive, anche in mancanza di una legge statale.
L’Autonomia Finanziaria
La disciplina del sistema tributario e contabile dello Stato è riservata al legislatore statale. Allo stato
spetta dettare con legge i principi in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario. L’Art. 119 afferma l'autonomia finanziaria di entrata e di
spesa delle Regioni e degli altri enti territoriali substatali, e sono previste per questi enti fonti di entrata
proprie. Accanto ai tributi troviamo le compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro
territorio (trasferimenti ordinari), proporzionalmente alla capacità di produzione del reddito nella
singola Regione e dovrebbero stimolare la stessa a perseguire politiche economiche virtuose che ne
rafforzino l’economia. È istituito un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale, è
previsto l'accesso a risorse aggiuntive ed interventi speciali per promuovere lo sviluppo economico, la
coesione e la solidarietà sociale, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona e rimuovere
gli squilibri economici e sociali. Questi ultimi due strumenti rientrano nei trasferimenti speciali, sono
rivolti a realizzare una politica redistributiva delle risorse di tipo eccezionale. Essi sono strumentali a
scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni degli enti, come necessità conseguenti ad una
calamità naturale, organizzazione di un’olimpiade...
Le risorse derivanti dalle fonti di entrata devono consentire agli enti territoriali di finanziare
integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. La norma ha carattere programmatico perché
impone di perseguire soluzioni ispirate all' autosufficienza finanziaria. L'obiettivo posto dal costituente
sembra sia quello di raggiungere una reale ed effettiva autonomia finanziaria che possa configurare il
federalismo fiscale. Inoltre la norma costituzionale prevede che gli enti possano ricorrere
all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento.
Alla disciplina tributaria degli enti territoriali si applica l’Art. 23, che pone una riserva relativa di legge
su questa materia, stabilendo che ogni prestazione imposta deve fondarsi su una base legislativa. Di
conseguenza, gli enti locali, i quali non hanno potestà legislativa, non possono in maniera autonoma
istituire tributi ma per essi è necessaria una previa legge statale o regionale. Altro limite degli enti
territoriali deriva dall'appartenenza della Repubblica all'Unione Europea e dai vincoli alle politiche di
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bilancio. Infatti il coordinamento della finanza pubblica per il perseguimento del patto di stabilità ha
portato ad alcune misure legislative che limitano i poteri di spesa degli enti territoriali.
Il principale atto normativo di regolazione di tali enti locali è il TUEL. L’Art. 3 del TUEL stabilisce che il
Comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo
sviluppo. Tra le funzioni fondamentali di tale enti ci sono l’organizzazione dell'amministrazione, la
gestione dei servizi pubblici di interesse generale, la pianificazione urbanistica ed edilizia,
l’organizzazione dei servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed altro.
La Provincia è l'ente locale intermedio tra il Comune e la Regione, rappresenta la propria comunità,
ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo. A seguito della legge Delrio la Provincia
ha una natura rappresentativa più dei Comuni compresi nella sua area che dei cittadini. Tra le sue
funzioni vi sono la tutela e la valorizzazione dell'ambiente, la pianificazione dei servizi di trasporto in
ambito provinciale, la costruzione e gestione delle strade provinciali...
La disciplina delle Città metropolitane è contenuta nell’Art. 1 della legge Delrio. La città metropolitana
è un ente territoriale di area vasta e il suo territorio coincide con quello della provincia. Tra le sue
funzioni fondamentali gestisce la pianificazione territoriale generale, comprese tutte le strutture di
comunicazione, le reti di servizio e delle infrastrutture, ordina la gestione di servizi pubblici, la mobilità
e la viabilità... Un particolare statuto giuridico è riservato a Roma capitale.
Sono organi di governo del Comune: il Consiglio, la Giunta ed il Sindaco. Il Consiglio è l’assemblea
rappresentativa dell’ente, è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo ed è organizzato
secondo i principi tipici di tale categoria di organi (previsione di un regolamento interno, istituzione di
gruppi consiliari, commissioni, autonomia funzionale e organizzativa, tutela delle minoranze e delle
opposizioni, ecc). Il numero dei consiglieri è proporzionale alla popolazione comunale. La forma di
governo è molto simile a quella delle regioni. Il Sindaco è eletto direttamente dai cittadini, nomina e
revoca i membri della Giunta (gli assessori) e dà comunicazioni al Consiglio relative alle azioni ed ai
progetti da realizzare nel corso del mandato. Il Sindaco (come il Consiglio) ha un mandato della
durata di 5 anni ed è rieleggibile una sola volta. La sfiducia del Consiglio, la rimozione, la decadenza
o il decesso del sindaco, le dimissioni della maggioranza dei consiglieri sono tutti fenomeni che
determinano lo scioglimento del Consiglio e l’indizione di nuove elezioni. Ciò può venire anche a
seguito di scioglimento sanzionatorio del Consiglio e di rimozione del Sindaco dopo un controllo
operato dal Governo.
La forma di governo provinciale prevede tra gli organi esclusivi il Presidente della Provincia, il
Consiglio della Provincia e l’Assemblea dei Sindaci. Il Presidente rappresenta l'ente, convoca e
presiede il consiglio provinciale e l'Assemblea dei Sindaci. Il Consiglio è l'organo di indirizzo di
controllo, approva i regolamenti, i piani ed i programmi il su proposta del presidente della Provincia,
adotta gli schemi di bilancio da sottoporre al parere dell'Assemblea dei Sindaci. Il Consiglio è
composto dal Presidente della provincia e dai consiglieri provinciali, eletti in proporzione alla
popolazione delle Province dai Sindaci e dai consiglieri comunali. La carica dei consiglieri provinciali
ha durata biennale. L'Assemblea dei Sindaci è composta dai Sindaci dei Comuni compresi ed ha
poteri propositivi, consultivi e di controllo in base a quanto previsto dallo Statuto. Il Presidente della
Provincia viene eletto per un mandato di quattro anni dai Sindaci e dai consiglieri dei Comuni della
Provincia.
Nella forma di governo delle Città metropolitane gli organi apicali sono il Sindaco, il Consiglio
metropolitano e la Conferenza metropolitana. Il modello è molto simile alla forma di governo
provinciale. Il Sindaco metropolitano è il Sindaco del Comune capoluogo. Il Consiglio metropolitano è
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composto dal Sindaco e dai Consiglieri in proporzione alla popolazione. Il mandato dei consiglieri
metropolitani dura 5 anni. L'elezione avviene sulla base di liste con il voto che offre la possibilità di
esprimere una preferenza. La Conferenza metropolitana è composta dal Sindaco, che la convoca e la
presiede e dai Sindaci dei Comuni appartenenti alla Città metropolitana.
Il Potere Sostitutivo
Il potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e degli enti locali garantisce la possibilità di
un intervento unitario nel caso in cui l'ente titolare della competenza sia inadempiente. Il potere
sostitutivo si esercita mediante il compimento di atti oppure nominando commissari straordinari
sostituti per compiere gli atti stessi. Il potere è disciplinato dagli Art. 117 e 120, il primo si riferisce alla
competenza legislativa regionale nell'attuazione ed esecuzione degli obblighi internazionali e rinvia
alla legge statale per la disciplina del potere sostitutivo. Il secondo articolo ha portata più generale. e
prevede il potere di sostituzione in capo al Governo, che può esercitarlo nei confronti di organi delle
Regioni, delle Città metropolitane, delle Province dei Comuni per motivi di mancato rispetto di norme
e trattati internazionali o della normativa comunitaria, pericolo grave per l’incolumità e sicurezza
pubblica, tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica, tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro
competente per la materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali, assegna all’ente
interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari e decorso tale
termine, il Consiglio dei ministri adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, oppure nomina un
apposito commissario. Anche le leggi regionali possono prevedere interventi sostitutivi sugli organi
degli enti locali.
I referendum sono forme di partecipazione obbligatorie, ma non vincolanti. ai fini della deliberazione
finale. Le popolazioni interessate sono quelle residenti nei territori destinati a passare da un ente
locale ad un altro e la loro volontà deve essere sottolineata nel procedimento. Il legislatore regionale
non può escludere nello stabilire la decisione anche le popolazioni che subiscono la decurtazione
territoriale.
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poteri dello Stato sono il potere esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario. Alla tripartizione
classica si aggiungono anche dei poteri indipendenti previsti dalla Costituzione come il Presidente
della Repubblica e la Corte costituzionale. I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato sono detti
interorganici perché si svolgono tra organi nell'ambito dello stesso ente (lo Stato). È importante che al
giudizio della Corte partecipino le parti, ossia i poteri sulla cui attribuzione si discute e gli organi
legittimati a sollevare il conflitto. I poteri dello Stato, nel contesto delle competenze della Corte
costituzionale, sono definiti dalla legge 89 del 1953 che individua quei soggetti che possono agire in
giudizio come attori o resistenti negli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del
potere a cui appartengono, cioè i conflitti rientrano nelle competenze della Corte se avvengono tra gli
organi all’apice dei poteri. Ad esempio, la volontà del potere esecutivo è dichiarata dal Consiglio dei
Ministri, quella del potere legislativo da entrambe le Camere (le quali non hanno conflitti tra di loro in
quanto rappresentano lo stesso potere), mentre all’apice del potere giudiziario si individuano tutti i
giudici, in quanto si tratta di un potere diffuso. I poteri dello Stato sono detti poteri pluralistici, cioè
articolati in una pluralità di soggetti come i Ministri nel caso del potere esecutivo ma si parla di potere-
organo si parla di quell’organo monocellulare che ha una sfera di attribuzioni, come il Presidente della
Repubblica. I poteri e i poteri-organo legittimati a sollevare il conflitto sono numerosi: il Presidente
della Repubblica, la Corte costituzionale, il Parlamento in seduta comune, il CSM, la Corte dei conti, il
CNEL, il Consiglio di Stato, il comitato promotore del referendum abrogativo, i 5 Consigli Regionali
che promuovono il referendum abrogativo, i promotori delle proposte di legge, altri soggetti esterni
allo Stato-persona (Province, Comuni, Città metropolitane), il Consiglio dei Ministri (sia il Presidente
che i singoli Ministri), entrambe le Camere e le articolazioni interne, il potere giudiziario e tutti i giudici,
anche speciali ed ai pubblici ministeri. Il conflitto insorge tra questi organi per la delimitazione della
sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali.
Il conflitto di attribuzioni viene sollevato con ricorso o con un'ordinanza, che devono essere depositati
nella cancelleria della Corte costituzionale. Nel ricorso vengono indicate le ragioni del conflitto, le
norme costituzionali che fondano l'attribuzione (il parametro), la richiesta di una pronuncia sulla
spettanza del potere e quella di annullamento dell'atto lesivo. Non essendo previsti termini di
decadenza, il ricorso può essere sollevato in ogni tempo. Il conflitto si svolge in due fasi:
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I conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni sono detti conflitti intersoggettivi, hanno ad
oggetto le competenze costituzionali degli enti, ad esclusione di quelle legislative (che possono solo
essere oggetto di una questione di legittimità costituzionale). Vengono quindi in rilievo solo le funzioni
regolamentari, amministrative e giurisdizionali. Il conflitto può essere sollevato davanti alla Corte nel
momento in cui lo Stato o le Regioni invadano con un proprio atto non legislativo la sfera di
competenza assegnata dalla Costituzione ad uno dei due soggetti. La Corte costituzionale delibera
sulla spettanza della competenza e sulla esistenza della lesione, e potrebbe annullare l'atto. Sono
ritenuti ammissibili anche conflitti che non presuppongono vere e proprie invasioni di competenza e si
parla di conflitti di menomazione o da interferenza, nei quali l’ente non contesta la spettanza del
potere, ma rileva che il cattivo esercizio delle competenze altrui si sia riflettuto in una menomazione
della propria sfera di competenza. Sono contemplati anche i comportamenti omissivi, ma la lesione
deve essere attuale e concreta. La competenza oggetto deve trovare fondamento delle norme
costituzionali. Se l'intervento amministrativo relativo a materie di competenza concorrente avviene per
leale collaborazione o sussidiarietà, questo è legittimato.
I conflitti intersoggettivi sono sollevati dallo Stato e dalla Regione con ricorso, nel quale è necessario
indicare come sia sorto il conflitto e specificare l'atto che si pretende abbia invaso la sfera di
competenza. La legittimazione sostanziale spetta al Consiglio dei Ministri per lo Stato e alla Giunta
per la Regione, la legittimazione processuale è attribuita al Presidente del Consiglio e al Presidente
della Regione, sono quindi gli organi collegiali a decidere se e come impugnare e a decidere
l’oggetto. Per i conflitti intersoggettivi non è prevista una fase di deliberazione ed è previsto un
termine di decadenza. Il ricorso deve essere notificato all'organo che ha emanato l'atto entro 60 giorni
dal momento della pubblicazione. Non trova applicazione l'istituto della acquiescenza, cioè la
mancata impugnazione di un atto non preclude l' impugnabilità di un atto di analogo contenuto.
Possono partecipare al contraddittorio anche terzi qualora l’oggetto precluda un loro diritto. Lo stesso
atto può essere impugnato sia davanti alla Corte costituzionale che al TAR ed è possibile che i due
processi si svolgano contemporaneamente, perché le due giurisdizioni operano su un piano diverso,
ma l’eventuale pronuncia definitiva di annullamento si riflette sull’altro processo.
L’organo di vertice sotto il profilo delle scelte politiche è il Consiglio Europeo, organo inizialmente
affermatosi al di fuori di un riconoscimento normativo. Il Consiglio europeo da all’Unione gli impulsi
necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Esso è
composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri, dal suo Presidente e dal Presidente della
Commissione. Spettano al Consiglio europeo le funzioni di definizione dell’indirizzo politico
dell’Unione, la risoluzione dei conflitti sulle materie più controverse, esso inoltre prende le decisioni
sulle riforme dei trattati e nomina il Presidente della Commissione Europea. Possiamo dire che il
Consiglio Europeo rappresenta un organo di diritto internazionale
Al Consiglio Europeo si affiancano altri organi, i quali non si ritrovano in un rapporto di gerarchia. Il
Parlamento europeo è un organo elettivo, eletto dai cittadini a suffragio universale che assicura la
rappresentanza democratica dei cittadini europei all’interno dell’Unione. La durata del mandato è di 5
anni ed ogni stato, su un numero complessivo di 750 membri, ha un certo numero di seggi, definito in
base alla popolazione con una formula correttiva che va a difendere la rappresentanza degli stati più
piccoli, inoltre ogni stato può decidere di adottare il proprio sistema elettorale. I parlamentari europei
godono di un regime di insindacabilità e di inviolabilità durante le sessioni del Parlamento, e delle
stesse immunità riconosciute ai membri del Parlamento nazionale nel territorio del proprio Stato. Il
Parlamento europeo è regolato, oltre che dai Trattati, dal proprio regolamento interno. All’interno del
Parlamento europeo si costituiscono gruppi parlamentari che rappresentano confederazioni dei partiti
nazionali in base all’identità politica e quindi non in base alla nazionalità. Il Presidente del Parlamento
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e i presidenti dei gruppi parlamentari si riuniscono nella Conferenza dei Presidenti, organo che ha il
compito di determinare lo svolgimento dell’attività parlamentare. L’organizzazione interna del
Parlamento prevede 20 commissioni permanenti, sub-commissioni e commissioni temporanee Il
Parlamento va a rappresentare la natura comunitaria dell’Unione Europea in quanto va a
rappresentare una dinamica politica generalmente unitaria. Il Parlamento esercita la funzione
legislativa e la funzione di bilancio (insieme al Consiglio), concorre ad importanti decisioni del
Consiglio, esercita funzioni di controllo politico e consultive, elegge il presidente della Commissione.
Un altro organo con potere legislativo è il Consiglio (diverso dal Consiglio Europeo). Oltre alla
funzione legislativa svolge la funzione di bilancio e la funzione di definizione delle politiche. Gli atti
normativi passano per la sua approvazione ed è composto da un rappresentante per ciascuno Stato
membro a seconda della materia che si deve discutere, cioè in base alla materia in discussione vi
partecipano i Ministri degli stati membri (o i loro delegati) competenti per quella materia, al Consiglio
degli affari generali invece partecipano i primi Ministri. Il Consiglio ha carattere intergovernativo, come
il diritto internazionale, ma può anche essere paragonato ad un’assemblea rappresentativa degli enti
territoriali negli Stati federali. Questo modello legislativo “bicamerale” con Parlamento e Consiglio è
basato sul modello istituzionale tedesco, che prevede una camera elettiva e una con la
partecipazione variabile dei Ministri degli stati federali. La presidenza del Consiglio è assunta da
ciascuno Stato membro a rotazione. Il Consiglio decide solitamente a maggioranza qualificata,
definita come quella che raggiunge il 55% dei membri del Consiglio che rappresentino almeno il 65%
della popolazione dell’Unione. La sua organizzazione ed i procedimenti interni sono regolati oltre che
dai Trattati, dal suo regolamento interno. Spettano al Consiglio la funzione normativa e di bilancio, le
decisioni in materia di politica estera e di sicurezza comune. Il Consiglio si confronta con la
Commissione in ogni fase del procedimento.
Essa non ha quindi una funzione esecutiva come se fosse una specie di “governo” dell’Unione, ma va
ad esercitare funzioni che hanno influenza sulla legislazione, sull’indirizzo politico generale e
sull’amministrazione. Tuttavia alcune delle sue competenze sono riconducibili ad un organo di tipo
esecutivo come il potere di convocare il Consiglio dell’Unione, quello di contribuire a definire l’agenda
del Consiglio europeo, redigere annualmente la relazione generale sull’attività dell’Unione, di gestire il
bilancio dell’UE, di svolgere attività nelle relazioni esterne al fine di promuovere negoziati. Attraverso il
potere di iniziativa e il potere di controllo delle politiche europee, la Commissione è quell’organo che
acquisisce le priorità determinate dal Consiglio Europeo e le trasforma in atti giuridici, introducendoli
al Parlamento. Inoltre, ha un ruolo di sorveglianza sul rispetto degli stati membri degli obblighi
derivanti dalla partecipazione all’Unione.
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permanente e la morte. Il Parlamento mantiene un potere di sfiducia nei confronti della Commissione,
infatti attraverso la mozione di censura, approvata a maggioranza dei ⅔ dei voti e a maggioranza
assoluta dei membri, può determinare le dimissioni obbligatorie della Commissione. Si tratta tuttavia
di una norma che non ha sinora trovato applicazione.
● La Corte dei conti europea: essa assicura il controllo dei conti nell’ambito dell’Unione
esaminando tutte le sue entrate e spese. L’importanza di tale organo equivale a quella delle
giurisdizioni contabili nazionali nell’esercizio del controllo della gestione delle finanza da parte
della pubblica amministrazione. Essa è composta da un cittadino per Stato membro,
nominato per un periodo di 6 anni dal Consiglio, previa consultazione del Parlamento
conformemente alle proposte degli Stati.
● Il Comitato economico e sociale: un organo consultivo che ha il compito di rappresentare
interessi settoriali, costituito da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di
lavoratori indipendenti ed altri attori.
● La Banca centrale europea: essa è istituita nel quadro di un Sistema europeo delle Banche
centrali (SEBC), insieme alle banche centrali nazionali a cui la BCE fa capo. Essa ha
importanti poteri e notevole autonomia, può stabilire regolamenti, prendere decisioni e
formulare raccomandazioni e pareri. Il SEBC ha il compito di definire la politica monetaria
dell’Unione, di svolgere operazioni sui cambi e di contribuire alla vigilanza degli enti creditizi e
della stabilità del sistema finanziario. La BCE ha il potere esclusivo di autorizzare l’emissione
di banconote all’interno dell’Unione.
● Infine si ricordano le varie Agenzie create dalla normazione secondaria. Non si tratta di un
genus unitario ma si distinguono generalmente in esecutive, alle quali spettano compiti di
gestione nell’attuazione dei programmi europei, e di regolamentazioni, che svolgono funzioni
di regolazione di specifici settori, spesso caratterizzati da un alto livello tecnico.
Le modalità di reperimento delle risorse finanziarie dell’Unione hanno subito negli anni un’evoluzione
sempre più tendente all’autonomia dell’Unione rispetto agli Stati membri. Inizialmente il bilancio
europeo era interamente finanziato mediante contributi degli Stati secondo una proporzione rispetto
alle loro capacità. Il bilancio è adesso finanziato integralmente tramite risorse proprie ovvero i dazi
doganali sulle importazioni da paesi terzi, una quota delle risorse provenienti dall’IVA (imposta sul
valore aggiunto), e da una certa aliquota del Reddito Nazionale Lordo degli Stati membri.
Parte C
La Giurisdizione
La giurisdizione è tesa ad assicurare la corretta osservanza ed applicazione del diritto. Chi esercita la
giurisdizione è il giudice ed egli è soggetto esclusivamente alla legge e non deve soggiacere a
nessun condizionamento esterno, non gode di poteri discrezionali come le amministrazioni ma il
giudice ha carattere vincolato e decide solo in base al proprio libero convincimento, non in base alla
ponderazione di interessi. La Magistratura è disciplinata dal titolo IV della Costituzione nel quale cui le
disposizioni ribadiscono il principio di legalità, rafforzato dalle varie riserve di legge.
Al fine di assicurare l’esercizio indipendente della giurisdizione, la Costituzione stabilisce una serie di
norme a carattere processuale:
• sul diritto di azione e difesa in giudizio (Art. 24) che assicura l’accesso e la difesa davanti ad un
giudice per chiunque vanti un diritto o un interesse legittimo (principio di tutela effettiva)
• sul principio di obbligatorietà dell’azione penale (Art. 112) in base al quale il pubblico ministero di
fronte ad una notizia di reato, qualora non ritenga di archiviare il caso, deve esercitare l’azione
penale, formulando un’imputazione e la richiesta di rinvio a giudizio
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• sul divieto di non liquet che consiste nell’obbligo del giudice di pronunciarsi sulla questione
pendente davanti a lui
• sul principio del contraddittorio (Art. 24 e 111), in base al quale non solo a ciascuno è consentito
difendersi dagli addebiti, ma anche di contestare dialetticamente gli accertamenti e l’acquisizione
delle prove nell’ambito del processo
• sul principio del giudice naturale precostituito per legge, in base al quale il giudice che dovrà
esaminare il caso da giudicare dovrà essere nominato in forza di criteri precostituiti in base a norme di
carattere generale e astratto
• sul principio di ragionevole durata dei processi (Art. 111) che dovrebbe assicurare la certezza e la
tempestività delle decisioni ed evitare che il giudice finisca per sottrarsi all’obbligo di emettere un
provvedimento
• sul principio del riesame di legittimità di tutte le sentenze e di tutti i provvedimenti sulla libertà
personale, affidato alla Corte di Cassazione
• sul principio di nomofilachia, che dovrebbe assicurare l’unità dell’ordinamento sul piano
interpretativo, evitando che ogni giudice si faccia la sua insindacabile interpretazione e si determini un
proliferare incondizionato di orientamenti giurisprudenziali. Tale compito è assegnato alla Corte
suprema di Cassazione, la quale è titolare della competenza di esaminare i ricorsi di legittimità nei
confronti di sentenze e provvedimenti sulla libertà personale
L’Organizzazione Giudiziaria
L’Art. 102 sancisce il principio di unità della giurisdizione, in base ad esso la funzione giurisdizionale è
esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, i soggetti
che esercitano la funzione giurisdizionale devono appartenere alla magistratura ordinaria, la quale è
formata da magistrati giudicanti e requirenti. La Costituzione prescrive che il regime giuridico di tutti i
magistrati ordinari sia disciplinato dalla legge introducendo una riserva assoluta di legge tale da far
ritenere che la disciplina della materia debba essere affidata ad un corpus normativo unitario (le
norme dell’ordinamento giudiziario, escludendo le altre fonti) ed inoltre afferma solennemente nell'Art.
104 che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. L’Art.
102 precisa che non possono essere istituiti giudici straordinari o speciali, per risolvere specifiche
controversie, tuttavia possono essere istituite presso gli organi giudiziari ordinari delle sezioni
specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini estranei alla
magistratura. Inoltre sono individuate altre articolazioni amministrative distinte da quella ordinaria
ovvero la giurisdizione contabile, amministrativa e militare. L’Art. 106 sancisce che i giudici debbano
essere scelti su base meritocratica, tramite concorso. Controverso è il rapporto tra amministrazione
giudiziaria ed il principio democratico. Infatti l’Art. 101 afferma che la giustizia è amministrata in nome
del popolo e l’ultimo comma dell’Art. 102 afferma che la legge regola i casi e le forme della
partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia, sembra che l’intento del
costituente fosse quello di democratizzare l’esercizio giurisdizionale, attraverso una responsabilità
politica e la previsione di rappresentanti eletti dal popolo. Tuttavia con l’espressione “in nome del
popolo” non è da intendere che il popolo sia titolare del potere giudiziario, i giudici non sono
responsabili politicamente e sono indipendenti da qualsiasi condizionamento, specie politico. La
giurisdizione è esercitata nel nome ed al servizio del popolo e la partecipazione del popolo
all’amministrazione della giustizia si configura come un’eccezione.
Rivolta ad assicurare una giurisdizione indipendente è la responsabilità giuridica dei magistrati, i quali
soggiacciono alle regole generali di cui all’Art. 28, applicabili ai funzionari ed ai dipendenti dello Stato.
La l. n. 117/1988 riguarda la disciplina della responsabilità civile dei magistrati ed è stata oggetto di
numerose modifiche derivanti dalla giurisprudenza europea. Una delle novità più rilevanti riguarda
l’oggettivazione della colpa grave, ritenuta come la violazione manifesta della legge, e la
configurazione della clausola di salvaguardia secondo cui al di fuori dei casi di dolo e colpa grave,
l'attività di interpretazione delle norme non può dar luogo a responsabilità. La riforma inoltre ha
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comportato l’abolizione del filtro endoprocessuale di ammissibilità della domanda di risarcimento e il
diritto di risarcimento è previsto nei confronti dello Stato a chi ha subito danno in conseguenza di un
reato commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni. Un’equa riparazione è inoltre prevista
quando è violato il principio di ragionevole durata dei processi.
Nella Costituzione sono inoltre presenti norme, diverse da obblighi ed oneri, con lo scopo di
prevedere garanzie per i magistrati per assicurarne la sottrazione a condizionamenti esterni. L’Art.
107 dispone che i magistrati sono inamovibili, non possono essere dispensati o sospesi dal servizio
né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del CSM o con loro consenso. Lo
stesso articolo poi stabilisce che i magistrati si distinguono solamente per le loro funzioni, ma non vi
sono gerarchie. Un’unica deroga a questo principio deriva dall’eventualità che contro le sentenze
pronunciate dagli organi giurisdizionali è ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione, la quale può
limitare l'assoluta indipendenza dei giudici, stabilendo a quali principi il giudice si dovrà attenere nel
definire la controversia, dopo avere annullato con rinvio la sentenza.
La Magistratura
La magistratura è composta dall’insieme di organi a capo del potere giudiziario e la Costituzione
contiene 2 parti che regolano i rapporti con la magistratura. La prima riguarda i diritti dell’individuo nel
rapporto con la funzione giudiziaria, sono diritti inviolabili della persona e risiedono nella parte della
Costituzione come ad esempio l’Art. 24 sulla libertà di difesa; si tratta di principi del buon processo
nati con l’illuminismo giuridico e lo stato di diritto. La seconda parte di norme (dall’Art. 101 a seguire)
struttura invece l’organizzazione del potere giudiziario.
La controversia di competenza giurisdizionale tra più magistrature viene risolta dall’intervento della
Corte di Cassazione che ha anche competenza di risoluzione di controversie giurisdizionali.
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Presidente della Corte di Cassazione ed il Procuratore generale della stessa, è costituito da 27
membri, ⅔ dei quali eletti dai magistrati stessi (sono 16 ed i c.d. ‘’membri togati’’) e ⅓ dal Parlamento
in seduta comune scegliendo tra professori universitari ed ordinari in materie giuridiche ed avvocati
dopo 15 anni di esercizio (sono 8 e sono i c.d. ‘’membri laici’’). L'Art. 22 della legge che disciplina il
CSM prevede un quorum di 3/5 del Parlamento in seduta comune nelle prime due votazioni e di 3/5
nelle successive. I membri rimangono in carica 4 anni e non sono immediatamente rieleggibili. Finché
sono in carica non possono essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un
Consiglio regionale. All’interno del CSM ci sono vari organi tra cui un vicepresidente (eletto tra i
membri laici), un Comitato di Presidenza che attua le deliberazioni del Consiglio, diverse commissioni
e una Sezione disciplinare che è un organo giurisdizionale e può quindi sollevare questioni di
costituzionalità.
Al CSM spettano tutti i poteri relativi allo stato giuridico dei magistrati ordinari, come le assunzioni,
anche su richiesta del Ministro della Giustizia, la nomina e la revoca dei magistrati onorari ed altro.
Molte delle delibere sullo stato giuridico dei magistrati sono adottate previo parere del Consiglio
direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari composti da membri di diritto o eletti.
Il CSM è considerato come una sorta di autogoverno della magistratura, anche se è condizionato da
interventi di organi estranei, come il Ministro della Giustizia, ed inoltre non rappresenta l'ordine
giudiziario, in quanto è composto solo in parte da magistrati, e né la presidenza, né la vicepresidenza
sono attribuite a membri togati. Il Ministro della Giustizia potrebbe influenzare la posizione di
indipendenza della magistratura in quanto organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo a
presiedere le relazioni tra il Governo e gli apparati amministrativi relativi alla giustizia, con la
conseguenza di limitare l’indipendenza della magistratura. Per evitare questo pericolo la Costituzione
determina la competenza ministeriale in termini residuali, affermando che spettano al Ministro della
Giustizia l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia e il Ministro della
Giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare, può chiedere pareri al CSM riguardo d.d.l. di
stampo giudiziario e fornire osservazioni sui provvedimenti sullo status dei magistrati.
Il rapporto tra il ministero e l'ordine giudiziario si articola lungo due direttrici: quella di un'attività di
organizzazione ed amministrazione degli apparati serventi degli organi giurisdizionali, e quella di
vigilanza, dove per vigilanza si intende provocare l'attivazione del CSM e la vigilanza si giustifica con
l'esigenza di evitare che l'ordinamento giudiziario si ponga come un corpo separato.
Tra il CSM e l'organo politico, ovvero il ministro della Giustizia, non mancano problemi di
coordinamento. Secondo la Corte costituzionale il loro rapporto si deve basare su una leale
collaborazione e sul dovere di correttezza; ciò implica che non devono tenere comportamenti
presuntuosi, incongrui, contraddittori o insufficientemente motivati.
Il principio di unità della giurisdizione rende semplice l'individuazione di criteri per identificare l'ambito
di intervento della magistratura ordinaria rispetto all'ambito di intervento delle magistrature speciali.
L’ambito della prima infatti è ricavabile in modo residuale rispetto alle specifiche attribuzioni rivolte alle
giurisdizioni speciali. Tuttavia nel caso concreto la ripartizione tra giurisdizione ordinaria ed
amministrativa è più controversa.
La Giurisdizione Ordinaria
Secondo il regio decreto n. 12/1941, l’ordine giudiziario è costituito dagli uditori (vincitori di concorso),
dai giudici di ogni grado dei tribunali e delle corti, dai magistrati del pubblico ministero, dai magistrati
onorari, dal personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie, gli ufficiali giudiziari sono ausiliari
dell'ordine giudiziario. La magistratura è unificata nel concorso di ammissione ed è distinta in funzioni
giudicanti e requirenti. Il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa si può
verificare solo dopo accertamento della sussistenza di attitudini alla nuova funzione e previo parere
del Consiglio giudiziario. La funzione giudicante è esercitata da: giudice di pace, Tribunale ordinario,
Corte di Appello, Corte di Cassazione, tribunale per i minorenni e giudici di sorveglianza. Quelle
requirenti spettano all’ufficio del PM presso la Corte di Cassazione, Corte di appello, tribunali ordinari
e per minorenni. Gli uffici giudicanti hanno una cancelleria e quelli del PM una segreteria.
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sezione e dai consiglieri. In ciascuna sezione la Corte Suprema di Cassazione giudica col numero
invariabile di 5 componenti, mentre giudica a sezioni unite con il numero invariabile di 9 componenti.
Il pubblico ministero esercita sotto la vigilanza del Ministro della Giustizia le funzioni che la legge gli
attribuisce, i PM esercitano l’azione penale, cioè perseguono i reati, vigilano sull'osservanza delle
leggi, sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia, sulla tutela dei diritti dello Stato, delle
persone giuridiche e degli incapaci richiedendo, qualora necessari, i provvedimenti cautelari,
promuove la repressione dei reati e l'applicazione delle misure di sicurezza e fa eseguire i giudicati ed
ogni altro provvedimento del giudice, interviene nei procedimenti civili nei casi stabiliti dalla legge, ha
azione diretta per far eseguire ed osservare le leggi di ordine pubblico, se tale azione non è attribuita
ad altri organi dalla legge, esercita la direzione della polizia giudiziaria, può proporre ricorso per
Cassazione nell'interesse della legge ed impugnare per revocazione le sentenze civili, ossia chiedere
la revisione delle sentenze penali, presso la Corte di Cassazione interviene e conclude in tutte le
udienze civili e penali e redige requisitorie. Nella corte d’appello è costituita una Direzione distrettuale
antimafia e nella Corte di Cassazione una Direzione nazionale antimafia. I PM sono organizzati in
uffici detti procure della Repubblica, sono assistiti dalle forze dell’ordine che svolgono funzioni
giudiziarie e istruttorie nei processi, individuando soggetti e prove.
La Giustizia Amministrativa
Per giustizia amministrativa si intende l’insieme degli istituti volti ad assicurare una tutela nei confronti
della pubblica amministrazione avverso lesioni da essa causate nell’esercizio del proprio dovere. Si
distingue tra ricorsi amministrativi, nel caso in cui la controversia è decisa da un organo
amministrativo con un provvedimento amministrativo, e ricorsi giurisdizionali, nel caso in cui la
controversia è decisa da un organo giudiziario con una pronunzia giurisdizionale. La tutela
giurisdizionale è assicurata sia dai giudici ordinari che da giudici speciali (sistema di civil law), tra cui
il giudice amministrativo, le cui competenze sono stabilite.
In merito al potere discrezionale della PA l’Art. 113 garantisce la tutela giurisdizionale nei confronti di
tutti i suoi atti. Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti, compresi quelli politici, non legislativi. Inoltre la Costituzione riconosce al
giudice amministrativo, insieme agli altri giudici speciali, la piena dignità di giudice.
Il criterio fondamentale per identificare la ripartizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi è dato
dalla natura della posizione tutelata. Al giudice ordinario spettano le controversie relative alla tutela
dei diritti soggettivi, mentre al giudice amministrativo quella degli interessi legittimi. Di conseguenza i
giudici ordinari possono disapplicare nel singolo caso, ma non possono revocare, modificare o
annullare il provvedimento amministrativo. Invece il giudizio di legittimità sugli atti e sui provvedimenti
amministrativi è riservato al giudice amministrativo, il quale può annullarli per vizio di incompetenza,
eccesso di potere o violazione di legge. Tale modello subisce comunque una serie di deroghe e
precisazioni. I giudici ordinari e speciali possono conoscere incidentalmente anche situazioni sulle
quali non hanno giurisdizione. Il giudice amministrativo può decidere di tutte le questioni pregiudiziali
o incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale
di sua competenza. Inoltre il Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa hanno la
facoltà di conoscere in via principale anche dei diritti soggettivi, si tratta di una giurisdizione esclusiva
attribuita al giudice amministrativo. In ciò la Corte costituzionale ha statuito che la giurisdizione
amministrativa è estensibile alla cognizione dei diritti soggettivi solo nel caso di materie nelle quali la
pubblica amministrazioni agisca nell'esercizio di poteri autoritativi, quindi non è sufficiente che vi sia
un generico pubblico interesse perché alcune materie siano deferite al giudice amministrativo. Inoltre
attribuire al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva su controversie dei diritti non preclude il
giudizio ordinario. Al giudice amministrativo è attribuita espressamente la giurisdizione a conoscere
le richieste di risarcimento dei danni per lesioni di interessi legittimi, derivanti dal mancato o
dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa.
L’Art. 113 Cost afferma che la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti
della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa. L’azione della PA
viene protetta dal legislatore dall’azione dei giudici, purché sia garantita la tutela dei soggetti lesi. In
virtù del rigido principio della separazione dei poteri già la l. n. 2248/1865 afferma che l'atto
amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità
amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso,
ciò esclude qualsiasi intervento giurisdizionale rivolto a revocare o modificare atti dell’amministrazione
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in sostituzione di essa. Al giudice amministrativo è preclusa la possibilità di eccedere i limiti
dell’annullamento degli atti amministrativi. Rimane solo in capo all’amministrazione il potere e
l’obbligo di conformarsi al giudicato, di compiere cioè tutte le attività volte a sanare gli effetti negativi
dell’attività censurata . Solo in caso di giudizio di merito il giudice amministrativo può anche “riformare
l’atto e sostituirlo”, nel caso, cioè di inadempimento della PA agli obblighi discendenti da una
precedente pronunzia giurisdizionale ed il privato ottiene tutela diretta da parte dell’organo
giurisdizionale. I limiti interni alla giurisdizione, cioè i vincoli al giudizio ordinario, si riflettono
soprattutto sui tipi di sentenze che possono venire adottate nei confronti della pubblica
amministrazione. Mentre, infatti, è pacificamente ammesso che il giudice ordinario adotti sentenze di
mero accertamento o di condanna al pagamento di somme di denaro, si esclude che esso possa
pronunciare altri tipi di sentenze di condanna o sentenze a carattere sostitutivo. A seguito della
sentenza del giudice ordinario, è offerta una tutela risarcitoria per equivalente e non in forma
specifica.
Avverso gli atti della PA è ammessa anche la tutela non giurisdizionale secondo il sistema dei ricorsi
amministrativi, volti ad ottenere una revoca o annullamento dell’atto amministrativo. I ricorsi si
distinguono in ricorsi ordinari, che contengono i ricorsi gerarchici, gerarchici impropri e in opposizione,
che possono essere esperiti nei confronti dei provvedimenti non definitivi. Il ricorso gerarchico è nei
confronti di un organo gerarchicamente sovraordinato a quello che ha adottato l’atto, il ricorso
gerarchico improprio è nei confronti di organi non gerarchicamente sovraordinati e il ricorso in
opposizione è rivolto allo stesso organo che ha adottato l’atto. Oltre ai ricorsi ordinari esistono i ricorsi
straordinari ammessi solo nei confronti di provvedimenti definitivi. Il ricorso straordinario al Capo dello
Stato è una sorta di ponte tra i rimedi amministrativi e giurisdizionali. Amministrativi perché va
desunta dalla natura dell’organo amministrativo responsabile della decisione finale; giurisdizionali
perché la decisione di ricorso è preceduta da un parere del Consiglio di Stato e la decisione del
ricorso è adottata con decreto dal PdR su proposta del Ministro competente.
L’ordinamento della giustizia amministrativa è stabilito da varie fonti, tra cui la l. n.186/1982, il codice
del processo amministrativo, il Testo Unico del Consiglio di Stato, dai TAR... Proprio i TAR sono
tribunali di giustizia amministrativa di 1° grado a livello territoriale, mentre il Consiglio di Stato esercita
le funzioni di giudice di appello avverso le pronunce dei TAR. In limitati casi il Consiglio di Stato
decide come giudice esclusivo in unico grado. I TAR sono composti da magistrati amministrativi e per
accedervi bisogna fare un concorso di secondo grado, bisogna già quindi appartenere all’ordinamento
giudiziario. Il Consiglio di Stato è composto dal suo Presidente, dai presidenti di sezione e dai
consiglieri e si divide in 7 sezioni (6 con funzione giurisdizionali, 1 con funzione consultiva).
La Corte dei conti ha sede a Roma e si trova in ogni capoluogo di regione (2 in Trentino-Alto Adige).
È composta da un Presidente eletto tra i magistrati della stessa Corte con decreto del PdR, su
proposta del Presidente del Consiglio.
I Soggetti Giuridici
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politici sono riservati dalla Costituzione ai soli cittadini. Per capacità di agire si intende invece la
capacità di compiere atti idonei a modificare la realtà giuridica, essa si acquista a 18 anni di età ma
può essere successivamente limitata e nel caso in cui essa fosse assente in un individuo, egli può
essere rappresentato. La capacità naturale è la capacità di intendere e di volere ovvero la coscienza
e volontà degli atti che si compiono.
Per interesse si intende il valore relativo attribuito ad un determinato bene o aspetto della vita di un
soggetto e può essere un bene materiale o meno. La protezione di un interesse può dar luogo al
riconoscimento di posizioni o situazioni giuridiche soggettive attive o di vantaggio, alle quali vengono
subordinate posizioni giuridiche soggettive passive o di svantaggio: il collegamento tra esse prende il
nome di rapporto giuridico. Il potere è la possibilità di adottare legittimamente atti giuridici. La facoltà
consiste nella possibilità di tenere comportamenti consentiti dall’ordinamento incidendo sulla realtà
giuridica generando, modificano o estinguendo situazioni soggettive conformemente alla propria
volontà. La pretesa è la posizione di chi trae vantaggio dalla previsione di un obbligo gravante su altri
soggetti. Ad essa corrisponde una situazione di obbligo (di dare, fare o non fare), mentre al potere
una di soggezione. Le posizioni soggettive attive si distinguono quindi anche in base alla posizione al
numero dei soggetti passivi.
Al diritto soggettivo è riservata la massima protezione e si caratterizza per una tutela immediata e
piena, in caso di lesione di un diritto soggettivo il soggetto titolare del diritto può ricorrere al giudice. I
diritti soggettivi si differenziano in base ai soggetti passivi verso i quali vengono fatti valere, i diritti
assoluti hanno opponibilità erga omnes, mentre i diritti relativi hanno opponibilità inter partes;
I diritti di libertà sono diritti soggettivi assoluti e si traducono nella pretesa di astensione da parte di
tutti gli altri soggetti dell’ordinamento con riferimento ad una certa sfera di interessi del titolare. Il
godimento di essi non comporta alcuna modificazione della realtà giuridica e non sono prescrittibili in
quanto anche il comportamento inerte del titolare è una forma di godimento. La libertà si identifica
solo sul piano del lecito materiale, può manifestarsi come un potere ma non un potere innovativo che
cioè introduce una modificazione giuridica. I diritti di libertà sono privi di oggetto, personali e
indisponibili. I diritti sociali sono soggettivi relativi, attribuiti da una fonte a carattere autoritativo e con
finalità di tipo solidaristico. Si traducono in diritti di credito la cui prestazione è imposta ad un soggetto
pubblico ed ha un costo. Sono previsti dalla Costituzione ma necessitano di regola di un’attuazione
legislativa. Altri diritti soggettivi sono i diritti reali, sull’uso di un bene materiale, i diritti sui beni
immateriali, ad esempio il diritto d’autore, di monopolio, potestativi, della personalità, di
partecipazione.
I Diritti Costituzionali
I diritti costituzionali sono quelli riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e la solennità di tale fonte si
è riflessa sulla conoscenza di essi e dunque sulla loro effettività. Essi si avvalgono degli strumenti
previsti dall’ordinamento a tutela della legalità costituzionale. La Costituzione italiana ha ereditato un
patrimonio culturale dei diritti composto dalla stratificazione delle cosiddette generazioni dei diritti.
Vengono detti diritti di prima generazione quelli che risalgono alle rivoluzioni borghesi. Sono infatti
espressione delle richieste della borghesia e sono anche definiti libertà negative, poiché sono delle
pretese di astensione indirizzate verso lo Stato, a tutela delle libertà dell’individuo.
Quando queste libertà non saranno più sufficienti vengono introdotti i diritti di seconda generazione,
anche detti diritti sociali. Questi sono espressione delle esigenze delle masse e si affermano infatti
con l’introduzione del suffragio universale e dei partiti di massa. I diritti sociali riflettono istanze di
emancipazione, sono pretese degli individui verso lo Stato, affinché lo Stato si faccia interprete di
difendere e tutelare diritti come la salute, l’istruzione e il lavoro. Tutto questo si manifestò per la prima
volta in Europa nel 1919 con la Costituzione di Weimar. Nel secondo dopoguerra l’ordinamento
italiano si apre al diritto internazionale con le varie dichiarazioni dei diritti umani.
L'Art. 2 nasce dall’apice della collaborazione all’interno della costituente tra DC, PCI e PSI. Con
questo articolo la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Al centro di questo
articolo si trova la persona umana, che si va a sostituire all’individuo caratteristico della visione
liberale e individualistica. Con la persona umana infatti si dà più importanza ai rapporti sociali e
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comunitari.
I Diritti Inviolabili
Talune posizioni giuridiche godono di una superiorità sostanziale: in caso di contrasto tra diritti, la
prevalenza si determina in base a fattori di natura formale. Se i diritti appartengono a fonti dello
stesso rango, l'interprete utilizza la soluzione del bilanciamento tra i due. L’Art. 2 della Costituzione
italiana recita che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo
sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica economica e sociale. Il concetto di inviolabilità di tali diritti è stato
oggetto di studio e di dibattito e viene declinato per la prima volta dalla Corte costituzionale con la
sentenza 1146 del 1988 che dichiara che i diritti inviolabili sono talmente sacri che non possono
essere modificati anche attraverso la revisione costituzionale.
Alcuni diritti sono esplicitamente dichiarati inviolabili nella Costituzione, ad esempio l'Art. 13 tutela la
libertà personale, il 14 il domicilio, il 15 la segretezza della corrispondenza, il 24 il diritto di difendersi
in giudizio, tuttavia oltre a questi diritti esplicitamente inviolabili la Corte Costituzionale ha deciso di
lasciare la definizione di diritti inviolabili aperta agli altri diritti perché non può essere redatta una
gerarchia dei diritti.
1. La forza formale dell'atto di riconoscimento in quanto la superiorità formale della fonte permette
che l'interesse protetto non venga leso da un atto subordinato, pena l’annullamento di questo.
2. La garanzia di inviolabilità che si pone anche come un limite al potere di revisione costituzionale.
4. Le garanzie di natura organizzativa sono riconducibili al principio in base al quale la funzione del
provvedere è affidata ad organi del circuito tecnico attitudinale e non democratico rappresentativo.
5. La presenza della Corte costituzionale è una garanzia stessa, perché un cittadino tramite un
giudice potrebbe impugnare un eventuale provvedimento lesivo e giustificato da natura politica e
quindi incostituzionale.
I Diritti Internazionali
Un ulteriore livello di protezione si riscontra nel diritto proveniente dalle fonti internazionali ed
europee. Tra le principali fonti internazionali si trovano i vari trattati, innanzitutto la Carta delle
Nazioni Unite, sulla quale base sono state approvate la Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e quella dei
diritti del fanciullo. La Dichiarazione dei diritti dell’Uomo nel 1949 rappresenta il primo accordo sui
diritti umani a livello globale, esso non ha un valore giuridico vincolante ma è un manifesto di
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promozione dei diritti ed esistono oggi diversi trattati sui diritti che la prendono come riferimento. I
diritti umani non sono sovrapponibili con i diritti fondamentali del costituzionalismo, non è infatti
presente in essi un rapporto tra lo stato e il cittadino, ma sono diritti appartenenti all’essere umano in
quanto tale, sono essenziali per la dignità della persona e per questo non passano per la
discrezionalità dello stato.
Tra gli altri atti internazionali si ricorda la CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo) sottoscritta a Roma nel 1950. Essa prevede meccanismi di garanzia e l’istituzione della
Corte europea dei diritti dell’uomo, con il potere di condannare gli Stati membri che abbiano leso
alcuni diritti individuali riconosciuti dai Trattati. La condanna è risarcitoria e la Corte non ha potere di
annullare gli atti interni, manca un rapporto tra questa Corte e i giudici nazionali e le due Corti
operano parallelamente, quindi è possibile che uno stesso atto possa essere giudicato in maniera
differente. Tuttavia recentemente l’ordinamento italiano ha riconosciuto la superiorità della forza
formale delle norme di adattamento della CEDU e anche l’esclusività dell’interpretazione della
Convenzione da parte della Corte, la giurisprudenza della quale rappresenta un parametro di
legittimità delle norme interne. La Corte si avvale delle cosiddette sentenze pilota per l’esame di molti
ricorsi seriali derivanti da una medesima questione, derivanti da problemi strutturali all’interno degli
ordinamenti nazionali. Le sentenze pilota rilevano una lesione derivante da situazioni interne di
portata generale, non solo condannano lo Stato ma indicano anche le misure più idonee da adottare
per porre rimedio alla problematica entro un certo termine.
La Carta sociale europea è stata qualificata come fonte internazionale priva di effetto diretto ed
enuncia principi ad attuazione progressiva.
Il progressivo riconoscimento dei diritti a livello europeo si è realizzato attraverso l’opera della
giurisprudenza della Corte di Giustizia. Il rispetto dei diritti della persona è un parametro di legittimità
per gli atti dell’Unione, insieme alle tradizioni Costituzionali comuni agli Stati membri e i trattati di
tutela dei diritti fondamentali. Questo insieme di criteri di collegamento è stato inserito nel trattato di
Maastricht ed è oggi nell’Art. 6 del TUE. Nel 2000 è stata poi stipulata la Carta dei diritti fondamentali
dell’UE (Carta di Nizza), atto di natura atipica che inizialmente rappresentava una sorta di
autolimitazione da parte degli organi che la hanno adottata. La Carta non ha una pretesa fondativa o
innovativa, ma si limita soltanto a riaffermare i diritti già esistenti. Ha successivamente acquisito la
stessa efficacia giuridica dei Trattati istitutivi ed è richiamata e riconosciuta dal TUE. I diritti garantiti
dalla Carta di Nizza sono configurabili come diritti pubblici soggettivi, opponibili soltanto nei confronti
delle autorità pubbliche e la Carta non impone alcun dovere o obbligo per i cittadini. La clausola di
salvaguardia, prevista anche dalla CEDU, presuppone che il soggetto passivo del diritto sia solo lo
Stato-apparato, i diritti europei hanno quindi natura relativa.
L’Art. 52 stabilisce la portata dei diritti garantiti, eventuali limitazioni devono essere stabilite dalla
legge e rispettare il contenuto essenziale dei diritti. Attraverso la riserva di legge viene stabilita la
forma dell’atto introduttivo della limitazione (garanzia formale) e si circoscrive il suo contenuto
(garanzia sostanziale).
La tendenza europea è quella di esaminare i diritti procedendo per categorie e in modo unitario.
L’atto non riconosce singole situazioni giuridiche soggettive, ma principi che necessitano di
svolgimento da parte delle fonti derivate: la situazione giuridica soggettiva onnicomprensiva assicura
uno standard unitario minimo. La Corte costituzionale ha riconosciuto alle norme interne di
adattamento della CEDU una posizione intermedia tra la Costituzione e le leggi ordinarie.
I Diritti di Libertà
La nostra Costituzione non protegge una singola sintetica libertà ma decide di articolare la libertà
dell’uomo in una varietà di situazioni concrete, e di proteggerle in modo specifico e particolare in base
alla situazione. Ci sono quindi vari diritti di libertà con vari oggetti.
I diritti di libertà iniziano con l'Art. 13 che difende la libertà personale, che consiste nella libertà di
non essere coerciti nella propria sfera fisica, libertà da arresti e attività simili che ledono il corpo
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personale. A sua difesa sono previste una riserva di legge e una riserva di giurisdizione che agiscono
come garanzie per i diritti, sono istituti giuridici che riservano un comportamento ad una precisa
autorità. La riserva di giurisdizione implica che i provvedimenti restrittivi nei confronti di un singolo
spettano unicamente all'autorità giudiziaria e sono adottati con un atto motivato, si limitano così le
autonomie e la discrezionalità delle autorità. Dunque la norma introduce da un lato un limite al
legislatore, dall'altro pone un divieto ai soggetti pubblici diversi dall'autorità giudiziaria di adottare i
provvedimenti lesivi alla libertà personale. L'unica deroga è stabilita in casi di necessità ed urgenza,
indicati tassativamente dalla legge (riserva assoluta e rinforzata), tuttavia la Costituzione prevede
comunque questi casi attraverso la legge e ne regola i provvedimenti da attuare. Tali provvedimenti
restrittivi vanno notificati al giudice (il GIP) entro 48 ore e egli ha la possibilità di convalidarli o meno,
la mancata convalida da parte dell’autorità giudiziaria fa cadere ogni provvedimento che perde i suoi
effetti. L'atto dell'autorità giudiziaria deve contenere una motivazione che è un ulteriore strumento di
garanzia perché nell'Art. 111 al penultimo comma è ammesso il ricorso per la revisione processuale,
ovvero il diritto di fare ricorso alla Corte di Cassazione. Si tratta di un’ulteriore garanzia in quanto è un
processo molto veloce a tutela della libertà personale.
L’Art.16 tratta della libertà di circolazione, materia strettamente connessa alla libertà personale.
Secondo l’articolo ogni cittadino ha il diritto di circolare e soggiornare liberamente sul territorio
nazionale tranne che per i casi previsti dalla legge.
La differenza tra la libertà personale e la libertà di circolazione è molto sottile. La dottrina non ha una
differenziazione definitiva dei due concetti ma una prima ipotesi della Corte Costituzionale sulla loro
differenza afferma che l’Art. 13 protegge dai provvedimenti coercitivi mente l’Art.16 tutela la persona
rispetto a dei divieti e obblighi astratti e generali, senza mai prevedere la componente coercitiva
corporale, quindi è una differenza che si basa sulla distinzione tra coercizione (Art.13) e obbligo
(Art.16). Una differenza può riscontrarsi sull’oggetto del provvedimento restrittivo, l’oggetto regolato
dall’Art. 13 è l’individuo, mentre i provvedimenti restrittivi dell’Art. 16 riguardano una generalità di
soggetti, sul territorio che non può essere fruito a causa di determinate circostanze. Il provvedimento
restrittivo della libertà di circolazione è teso a sottrarre una parte del territorio al soggiorno e alla
circolazione per chiunque indiscriminatamente e riguardo i casi di sicurezza e di sanità. La libertà di
circolazione attiene sia la sfera fisica che quella morale distinguendosi dalla libertà personale e da
quella da prestazioni personali imposte per il fatto che il contenuto del diritto è fissato sul rapporto tra
la persona e il territorio. I provvedimenti restrittivi previsti dall’Art.16 richiedono esclusivamente la
riserva di legge mentre quelli previsti dall’Art. 13 richiedono quella di legge e quella di giurisdizione.
Ulteriore differenza si ritrova nella titolarità infatti mentre l’Art. 13 usa formule a carattere impersonale,
l’Art 16 si riferisce ai soli cittadini.
La libertà di domicilio (Art. 14) è considerata come la pretesa affinché i terzi si astengano
dall’entrare nel domicilio senza il consenso del titolare. Il diritto ha diversa valenza rispetto
all’interpretazione di domicilio, il domicilio civile è considerato come la sede dei propri affari e
interessi, quello fiscale come la sede del soggetto passivo d’imposta. Per il diritto penale il domicilio
necessita della sussistenza di essere un luogo isolato dall’esterno, destinato ad attività tipiche della
vita privata, con destinazione attuale e legittima. Dubbio è se l’autovettura possa essere considerata
un domicilio, mentre le camere d’albergo, le roulottes ecc. lo sono. Il diritto è riconosciuto a tutti, ma
nell’ipotesi di contitolarità del medesimo luogo prevale lo ius excludendi alios. La Costituzione
prevede l’inviolabilità e la riserva di legge a carattere assoluto e rinforzato. La disposizione rinvia alle
garanzie prescritte per la tutela della libertà personale, quindi la libertà di domicilio è assistita dalla
riserva di giurisdizione e dalla ricorribilità in Cassazione. La prima è però doppiamente derogabile,
con provvedimenti provvisori dell’autorità di pubblica sicurezza e nei casi di necessità e urgenza, nel
caso di ispezioni, per motivi di sanità e incolumità pubblica o fini economici e fiscali.
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L'articolo 21 regola la libertà di espressione del pensiero e afferma che tutti hanno diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola o lo scritto. Nell’Art. 21 si fa riferimento a
quelle manifestazioni del pensiero rivolte al pubblico, non a quelle private, regolate invece nell’Art. 15.
Tali manifestazioni non sono rivolte ad un soggetto in particolare ma ad una generalità di consociati. Il
problema dell’Art. 21 è l’individuazione dei suoi limiti. La maggior parte del testo dell’articolo è
dedicata alla stampa, lo strumento principale di comunicazione nell’Italia del ‘48, ma non per questo è
obsoleto perché la disciplina della stampa è stata estesa anche alle altre forme di manifestazioni di
pensiero riconducibili alla stampa, come siti internet. I giornali non possono essere sottoposti ad
autorizzazioni o a censura, è però possibile procedere a sequestro per i casi previsti dalla legge
(riserva di legge) e per atto motivato dall’autorità giudiziaria. In caso di provvedimenti urgenti si può
intervenire senza attendere tali riserve ma come per i casi dell'articolo 13, tali provvedimenti devono
essere comunicati e convalidati dall’autorità giudiziaria in un arco di 24 ore. È prevista una deroga agli
ufficiali di polizia giudiziaria quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento
dell'autorità giudiziaria. Il provvedimento deve essere comunicato immediatamente per la convalida.
Per la stampa periodica è previsto un ulteriore limite perché la legge è abilitata a stabilire che essi
debbano rendere noti i mezzi di finanziamento. Il ‘’responsabile’’ citato è il direttore che incide, tramite
il pagamento di un corrispettivo, sul giornalista e ciò che egli scrive.
L’Art. 21 prevede anche dei limiti a tale libertà. Questi limiti possono essere limiti espressi, uno solo
previsto dallo stesso articolo, e limiti impliciti, ricavati dagli altri articoli costituzionali. Il limite espresso
riguarda le manifestazioni di pensiero che sono contrarie al buon costume. Tale limite ha diverso
valore in base alla definizione di buon costume. Una prima ipotesi eguaglia il buon costume con i
valori dominanti condivisi dalla maggioranza della società, questa concezione è stata
progressivamente abbandonata a favore di una concezione molto più limitata, che interpreta il buon
costume con il rispetto del pudore sessuale in particolare a tutela dei minori. Estendere tale concetto
alla moralità pubblica finirebbe per svuotare il significato di libertà, proprio perché il buon costume non
è ciò che è conforme all'opinione comune e la morale sessuale varia nel tempo, anche in base all'età
ed al contesto sociale dei destinatari. A questo limite espresso si aggiungono limiti non presenti
nell’Art. 21 ma che si ricavano da altri beni costituzionali. Ad esempio dall’Art. 3 si ricava il limite
dell’onore e della rispettabilità dei terzi, dall’Art. 14 e 15 si ricava il diritto di privacy e quindi la libertà
di manifestazione del pensiero non può essere utilizzata per ledere questi diritti. Altri limiti impliciti di
questo articolo sono ad esempio il fatto che il manifestante debba esprimere il proprio pensiero, le
sue convinzioni e non quelle altrui e per questo l'articolo tutela il diritto d'autore, di inventore e il
segreto d'ufficio. L'ordine pubblico non costituisce un limite per la libertà di pensiero e nemmeno per
gli altri diritti di libertà. Di dubbia legittimità e la punizione dei reati di opinione, come l'apologia di
delitto.
Questa norma costituzionale contempla a sua volta altri diritti importanti, il diritto di informare o di
cronaca, di comunicare notizie, e di informarsi, ma questi non sono obblighi. Quindi l'articolo non è
finalizzato al buon funzionamento della democrazia o al perseguimento di interessi collettivi, ma ha
natura individualistica e il pensiero viene tutelato anche se questo sia erroneo o inesatto.
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Le Libertà Associative
Le libertà associative sono libertà individuali che si esprimono in forma aggregata e non libertà delle
associazioni. Tra queste si distinguono le libertà di riunione (Art 17), di associazione (Art 18),
sindacale (Art 39) ed il diritto di associarsi in partiti politici (Art 49). Esse si esprimono in una forma
collettiva attraverso l’aggregazione di più soggetti.
L’Art. 17 tutela la libertà di riunione e afferma che i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e
senz’armi, e che queste riunioni devono essere comunicate all’autorità se in luogo pubblico. La
riunione si caratterizza per la compresenza fisica di più persone in un medesimo luogo, è un elemento
oggettivo che è carente nella definizione di associazione e per questo è differente, si può infatti
essere membri di un’associazione senza partecipare ad alcuna attività, mentre la riunione può anche
esaurirsi in breve tempo in un evento. La riunione è tale quando la compresenza è volontaria e per
uno scopo comune. La riunione può essere sciolta se ci sono comprovati motivi di sicurezza e di
rischio per l'incolumità pubblica. Se e solo se sono riunioni non pacifiche con comprovati pericoli per
la sicurezza e l’ordine pubblico possono essere vietate preliminarmente, non si tratta di un ordine
pubblico ideale ma materiale, non protegge quindi i valori, neanche quelli costituzionali, ma solo
l’incolumità. Prima della Costituzione le riunioni richiedevano un’autorizzazione mentre oggi si chiede
il preavviso che consente all’autorità di preparare l’attività di controllo funzionale a garantire l’ordine
pubblico materiale. Se manca il preavviso, come nella maggior parte dei casi, non sussistono ragioni
perché la riunione sia sciolta se si sta svolgendo pacificamente. La riunione si distingue
dall’associazione per la compresenza fisica in un luogo, mentre l’associazione si sviluppa attorno un
ideale comune ma senza la necessità di una compresenza fisica. La riunione può avvenire in un
luogo privato, in un luogo pubblico e in un luogo aperto al pubblico. Le riunioni in luogo aperto al
pubblico sono quelle riunioni per cui l’organizzatore ha la capacità di selezionare l’accesso dei
partecipanti (cinema, stadi ed altro). A seconda del tipo di riunione cambia l’intensità della regolazione
pubblica e la capacità di controllo dello Stato, nelle riunioni in luogo privato lo stato è molto lontano e
contenuto nella sua attività di interferenza in quanto queste riunioni sono anche difese dal diritto di
domicilio, le riunioni in luogo pubblico sono invece quelle più controllate allo scopo di mantenere
l’ordine pubblico e sicurezza. Il preavviso vale solo per le riunioni in luogo pubblico.
Il diritto di associazione è regolato nell’Art. 18 il quale nel primo comma afferma che “i cittadini
hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli
dalla legge penale”. L’associazione si costituisce attorno ad un vincolo ideale e quindi non si basa
sulla compresenza fisica, per questo i limiti per le associazioni non si basano sull’ordine pubblico
materiale ma si ritrovano nei fini dell’associazione che possono essere leciti o illeciti. La Costituzione
non dà alcuna definizione al concetto di associazione. Il fenomeno associativo (a differenza della
riunione) prescinde dalla compresenza fisica ed è l’unione ideale di una o più persone per un fine
comune. Vige un accordo, in cui due o più persone manifestano la volontà di unirsi in maniera
reciproca. Per essere considerato dal diritto, tale accordo si deve manifestare o in forma scritta o con
atti concreti. Sono vietate le associazioni segrete, come le logge massoniche, o che perseguono
scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. Nella libertà di associarsi rientra anche la
libertà di non-associarsi. Il potere di associarsi potrebbe essere riconosciuto dall’ordinamento. Ad
esempio l’Art 20 in modo implicito stabilisce che è possibile l’esistenza di associazioni che si
costituiscono, che hanno capacità giuridica e svolgono attività in varie forme. Non sono vietate
associazioni con fini idealistici nel rispetto del nostro ordinamento pluralista anche se questi vanno
contro lo stesso ordinamento. Le associazioni devono essere vietate quando i loro fini risultano nel
compimento dei reati, già vietati ai singoli. Questa è una riserva di legge doppiamente rinforzata
perché le associazioni possono essere vietate se commettono reati che sono già vietati ai singoli,
deve esserci quindi un parallelismo tra le associazioni e i singoli, e questo evita che la legge crei
specifici divieti per le associazioni. Il secondo comma dell’articolo proibisce le associazioni segrete,
ma la materia è rimasta incompleta, senza applicazioni pratiche fino allo scoppio dello scandalo P2.
La loggia venne sciolta con una legge e si approvò poi una legge ad hoc riguardante le associazioni
segrete (legge 18 del 1982) attraverso cui lo Stato specificò la disciplina di tali associazioni vietando
le associazioni segrete e quelle che perseguono fini politici attraverso organizzazioni militari. L’unico
limite valoriale all’attività associativa espresso nella Costituzione è quello del divieto di ricostituzione
del partito fascista.
La libertà religiosa dal punto di vista individuale è prevista nell’Art. 19, e nella sua forma
organizzativa nell’Art. 20. In quest’ultimo articolo si fa riferimento alla forma “ecclesiastica”, un termine
che seppur proveniente dalla tradizione cattolica include anche le altre fedi religiose. I rapporti di
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queste organizzazioni con lo Stato si regolano attraverso la stipulazione di accordi o concordati, in
base ad un modello che ha origine nell’800, in alternativa al modello neutralistico americano. Le
discriminazioni sono vietate solo in negativo, quindi la Cost. non preclude al legislatore un trattamento
di favore alle associazioni religiose. Per la confessione cattolica l’Art. 7 stabilisce una disciplina
speciale, mentre le altre confessioni sono disciplinate dall’Art. 8. Nei concordati si regolano materie
varie di interesse delle fedi come l’istruzione, il matrimonio ed altro. In merito alla libertà religiosa è
importante innanzitutto rilevare l’Art 3, il quale esclude che vi sia una discriminazione in base alla
religione professata ed afferma che i cittadini sono uguali davanti alla legge. L’Art 19, in cui è
espresso il diritto di libertà religiosa, afferma che ‘’Tutti hanno diritto di professare liberamente la
propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne
in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume’’.
Dal punto di vista storico, in Italia, lo Stato era inizialmente in un rapporto conflittuale con la Chiesa e
per questo non si arrivò alla stipulazione di un accordo fino al 1929 con i patti lateranensi. Il
mantenimento dei patti lateranensi era sostenuto in Assemblea costituente dalla DC, mentre le
sinistre si opponevano in quanto frutto della politica fascista. Togliatti poi arriverà ad un
compromesso, portando al riconoscimento dei patti lateranensi nell’Art. 7 della Costituzione. Lo Stato
e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono
regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono
procedimento di revisione costituzionale. Quest'ultima affermazione ha portato ha due interpretazioni
dei casi in cui la volontà di modifica dei patti è unilaterale. Una prima interpretazione afferma che le
modifiche dei patti possono avvenire esclusivamente con la volontà delle due parti, mentre la seconda
afferma che quando manca la volontà dell’altra parte lo Stato può procedere con la revisione
costituzionale. Il godimento della libertà di culto è garantito in qualsiasi forma, associata o individuale.
Il generale diritto all'obiezione di coscienza religiosa consiste nel diritto del credente di opporsi
all'adempimento di un obbligo giuridico nel caso in cui questo comporti una violazione dei precetti
della propria religione. La libertà di associarsi per l'esercizio di culto è legata anche agli Art. 17 e 18, i
quali prevedono che non vi sia una libertà di associazione se questa vada a ledere la sicurezza
pubblica. La propaganda religiosa può essere vietata se viene leso il buon costume nell’esercizio di
culto. L’Art 19 tutela anche la facoltà di non credere, di non esercitare alcun culto e di non farne
propaganda. L’ateismo non è una religione, non viene tutelato dall’Art 19, ma dal 21 come
espressione del proprio pensiero.
Nell’Art. 8 si considerano i rapporti con le altre fedi che sono tutte egualmente libere di fronte alla
legge e sono regolati per legge sulla base di intese con i relativi rappresentanti. Ad oggi ci sono
diverse intese con le minoranze musulmane, protestanti, testimoni di Geova e altri. Non tutte le chiese
hanno un'intesa con lo stato ma questo non intacca la loro libertà di esercitare la fede ma manca solo
quel peculiare rapporto con lo stato.
Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi a partiti politici, i quali non sono però soggetti giuridici.
Ad essi vengono dedicate norme speciali come il rimborso elettorale (sostegno finanziario che ne
promuove l’attività), accesso ai mezzi di informazione in occasione di consultazioni elettorali. A
differenza delle semplici associazioni politiche, i partiti pretendono di avere un’influenza generale
sulla vita politica nazionale (distinzione soggettiva) e prendono parte alle consultazioni elettorali
(distinzione oggettiva). L’iscrizione ad un partito non può essere imposta, i limiti possono essere solo
di fondamento costituzionale. I partiti concorrono con metodo democratico alla determinazione della
vita nazionale. Alcuni funzionari pubblici possono essere limitati nell’iscrizione a partiti. I titolari di
questa libertà sono i cittadini. L’Art. 14 TUE riconosce che i Parlamentari europei sono eletti a
suffragio diretto, stabilisce il riconoscimento del diritto di voto alle elezioni europee e quello di
elettorato passivo. A livello europeo, un partito politico è un’associazione di cittadini che persegue
obiettivi politici ed è istituita in conformità dell’ordinamento giuridico di almeno uno Stato membro. Il
Parlamento ne verificherà la sussistenza dei requisiti, ovvero: che abbia personalità giuridica nello
Stato membro in cui ha sede, essere rappresentato in almeno ¼ degli Stati dell’Unione da membri del
PE o Parlamenti nazionali/regionali, oppure aver ricevuto in almeno ¼ degli Stati membri almeno il
3% dei voti, rispettare i principi fondamentali dell’UE, aver partecipato alle elezioni del PE o averne
espresso l’intenzione.
Uguaglianza
Il principio di uguaglianza è un caposaldo del costituzionalismo liberale che troviamo affermato sin
dalle rivoluzioni borghesi. Con l'evoluzione del costituzionalismo poi si è passati da un principio di
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uguaglianza meramente formale ad un’uguaglianza sostanziale. L’Art. 3 contiene entrambe le forme
di questo principio. L’uguaglianza formale è sancita nel primo comma mentre l’altra nel secondo. Il
primo comma sancisce che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge e che la legge non deve fare
discriminazioni di nessun tipo né di svantaggio né di vantaggio. Questo principio entrò da subito nel
costituzionalismo liberale e rappresentava una grande conquista rispetto al passato. Esso non viene
cancellato con lo sviluppo del costituzionalismo ma viene ampliato attraverso l’uguaglianza
sostanziale. Il secondo comma ci dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana. L’uguaglianza sostanziale è dunque un compito
dello stato che mira a rendere possibile che tutti i cittadini abbiano pari possibilità e risorse di
realizzare a pieno la propria persona. Questo principio è quindi frutto della seconda stagione dei diritti,
è un completamento dei diritti sociali, come quella formale è un completamento dei diritti di libertà
della prima generazione.
Il principio di uguaglianza formale è stato interpretato non nel senso che la legge deve trattare tutti
allo stesso modo ma che lo stato deve trattare in maniera uguale situazioni uguali ma differenti in
maniera differente è un divieto di differenziazione irragionevole, le differenze evidenti tra situazioni
rendono illegittimo il trattamento uguale. La Corte quando si trova di fronte ad una legge con una
discriminazione o differenziazione deve giudicare se questa è ragionevole in base alla differenza delle
situazioni. Il diritto di uguaglianza formale prevede il divieto di discriminazione, perché la legge deve
riconoscere a tutti i cittadini uguali diritti e uguali doveri. Il caso di pari dignità sociale consiste in un
vero e proprio diritto all'onore.
Il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli (spesso riguardo l’istruzione, la sanità, il lavoro o
la progressività fiscale) è un compito a carattere programmatico che si rivolge al legislatore perché
questi svolga l’attività politica in una certa direzione, sono obiettivi ma non hanno capacità vincolante,
non comporta un controllo della legge.
I Diritti Sociali
I cosiddetti diritti sociali sono quei diritti che fanno parte della seconda generazione, essi si sviluppano
nel contesto dello stato sociale, basato sulla solidarietà e sulla progressività delle imposte che porta
all’uguale distribuzione delle chance tramite l'erogazione dei servizi pubblici. I diritti sociali
rappresentano obiettivi programmatici, non implicano regole giuridiche precettive, al contrario dei
diritti di libertà, perché dipendono dalle risorse disponibili e quindi non possono essere rinforzati dalle
norme precettive e vincolanti.
Istruzione, salute e lavoro sono i tre principali ambiti dei diritti sociali. Il diritto al lavoro è in teoria
quello fondamentale previsto negli Art, 1 e 4. I diritti sociali disciplinati dopo quelli di libertà nel titolo II.
L’Art. 29 tratta della famiglia, il 32 la salute e il 33 e il 34 l’istruzione. Il diritto alla salute è configurato
sia come diritto di libertà, in quanto le cure sono volontarie, sia come diritto sociale perché sono
gratuite.
L’Art. 32 disciplina i diritti alla salute, la quale va intesa in senso estensivo come una complessiva
situazione di equilibrio psico-fisico. Questi interessi sono qualificati dalla Costituzione come
fondamentali. La libertà di salute include anche i comportamenti negativi (libertà di non curarsi o
ammalarsi) e questo specifico diritto può solo essere limitato dalla legge (riserva assoluta) nei casi
che necessitano di un trattamento sanitario obbligatorio nell’interesse della collettività alla salute.
Esso è però limitato al rispetto della persona umana (es. incostituzionalità della lobotomia). I
trattamenti sanitari a carattere coercitivo devono osservare anche le garanzie previste per la libertà
personale. La titolarità del diritto è estesa a tutti. Le norme hanno carattere programmatico. Vigono il
diritto a ricevere le prestazioni sanitarie e quello a ricevere gratuitamente la cura.
I diritti sociali sono legati al principio di uguaglianza sostanziale dell’Art. 3. Il diritto al lavoro, quello
principale nell’ambito dei diritti sociali, viene ripreso nella sezione dei rapporti economici della
Costituzione con la tutela al lavoro in tutte le sue forme. Il diritto al lavoro non è limitato dal carattere
programmatico dei diritti sociali, infatti la Costituzione introduce regole prescrittive in materia di lavoro,
ad esempio sulla retribuzione che deve essere proporzionata alla quantità del lavoro, la durata
massima del lavoro, i diritti della donna lavoratrice, il diritto al riposo e alle ferie, il diritto al lavoro dei
disabili o l’assistenza alle persone che non possono lavorare.
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Il lavoro è oggetto di numerosi articoli, è definito dall’Art. 4 come una funzione o attività che concorra
al progresso materiale o spirituale della società. In una definizione oggettiva esso è qualsiasi attività
umana che abbia un riflesso socio-economico e culturale, mentre in una definizione in senso stretto è
un’attività economica finalizzata alla produzione ed allo scambio di beni e servizi. L’Art. 4 disciplina il
diritto al lavoro. Lavorare è un dovere, il diritto si riferisce alla libertà nella scelta e nello svolgimento
dell’attività normativa. Possono esserci dei limiti, come ad esempio l’iscrizione ad un albo. L’articolo
contiene una prescrizione programmatica che impone ai pubblici poteri di favorire la creazione di
opportunità di lavoro e garantisce l’impossibilità di un licenziamento arbitrario. L’Art. 37 dispone che
le donne abbiano diritto alla stessa retribuzione degli uomini e che il loro lavoro debba comunque
consentire l’adempimento della sua funzione familiare. La Repubblica deve inoltre stabilire un limite
minimo di età per lavorare.
Il lavoro viene tutelato anche attraverso le norme sull’organizzazione sindacale. L’Art. 39 prevede la
libertà sindacale, i sindacati hanno un ruolo superiore rispetto agli altri tipi di associazioni (anche
grazie alla forte presenza dei sindacalisti nella Costituente), un ruolo quasi al livello pubblico in quanto
è previsto nell’articolo che questi possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce, quindi insieme alle
imprese stipulano dei contratti collettivi per tutti i lavoratori di una certa categoria anche per i lavoratori
non aderenti al sindacato. Tuttavia questo non si realizzò perché i sindacati rifiutano questa
impostazione che avrebbe determinato l’intervento dello Stato all’interno delle loro organizzazioni. I
sindacati si sono quindi organizzati nel segno del pluralismo con diverse pretese e i loro contratti
vincolano esclusivamente i loro iscritti. Il legislatore può prevedere un onere di registrazione per
riconoscerne la personalità giuridica pubblica, e la norma garantisce ai sindacati anche sul piano del
possibile giuridico ma dato che l’articolo non è mai stato attuato, i sindacati non sono stati registrati e
quindi sono associazioni non riconosciute.
L’Art. 40 prevede il diritto allo sciopero, astensione collettiva dal lavoro conseguente alla
proclamazione dello stesso nell'ambito delle leggi che lo regolano, l’articolo rimanda alla regolazione
della legge per tutelare i diritti dei terzi che sarebbero colpiti dagli effetti dello sciopero. Da esso si
distingue la serrata, sospensione temporanea del lavoro decisa dal datore di lavoro, che invece non è
coperta da una garanzia costituzionale: la CC ha tuttavia dichiarato l’illegittimità della repressione
penale della stessa. Essa si configura comunque come un illecito contrattuale (tranne nei casi in cui
costituisca una conseguenza dell'inadempimento dei lavoratori). Il lavoratore non può essere
sanzionato per aver scioperato ma verrà privato della retribuzione equivalente al lavoro non svolto. La
legge n. 146/1990 ha regolato lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Lo sciopero deve comunque
consentire l’erogazione di prestazioni minime indispensabili. È stata istituita una Commissione di
Garanzia di attuazione della legge, che ha il compito di accordarsi con le organizzazioni sindacali per
definire le misure idonee ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il
godimento dei diritti della persona.
I diritti all’assistenza ed alla previdenza sociale. L’assistenza comprende i servizi sociali, erogati
indipendentemente dalla contribuzione dei destinatari, che è invece tipica della previdenza. L’Art. 38,
che delinea i capisaldi del sistema di sicurezza sociale, ha il proprio referente principale nel lavoro. Se
il cittadino è inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi per vivere, egli ha diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale. I lavoratori devono essere tutelati in caso di malattia, infortunio e vecchiaia.
Rientrano nei diritti sociali anche i diritti e doveri familiari. L’Art. 29 qualifica la famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio. Le attribuzioni genitoriali vengono riconosciute dall’ordinamento in
vista della cura della prole. La famiglia legittima (fondata sul matrimonio) non è però l’unica
riconosciuta. L’Art. 30 assicura ai figli nati al di fuori del matrimonio ogni tutela giuridica, e altri articoli,
parlando della famiglia, non fanno riferimento la matrimonio. La CC ha escluso l’illegittimità delle
unioni omosessuali, la cui garanzia spetta però alla discrezionalità del legislatore. La famiglia
legittima riserva però indubbiamente un trattamento riservato ad esempio, ad essa è garantita
l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Qualora si tratti di una semplice convivenza, né i diritti del
convivente né quelli dei figli nati dall’unione sono in grado di influire sui diritti di eventuali ulteriori figli
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generati al di fuori dell’unione. La ricerca della paternità/maternità non è tutelata costituzionalmente
ma la sua disciplina è di rango legislativo. Secondo l’Art. 30 è diritto e dovere dei genitori mantenere,
istruire ed educare i figli, anche quelli al di fuori del matrimonio, i genitori possono limitare la libertà
personale dei figli ai fini del perseguimento dell’obiettivo educativo. Infine, l’Art. 31 sancisce che la
Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e
l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Libertà Economiche
Le libertà economiche sono il pilastro dell’origine dei diritti di libertà nel costituzionalismo borghese e
subiscono l’impatto dei diritti di seconda generazione. La libertà di iniziativa economica è una
situazione giuridica avente come contenuto: la scelta delle finalità economiche che il privato vuole
perseguire, la titolarità dell’impresa, il diritto a non essere vincolati allo svolgimento di un’attività
economica e la protezione di tale situazione giuridica da invasioni. La generalità delle clausole si
presta sia all’interventismo pubblico nell’economia che alle scelte liberistiche. Vi è un implicito divieto
di restrizioni della concorrenza, controllata e tutelata dall’autorità Antitrust. Lo stesso Art. 41 impone
poi i limiti espliciti dell’utilità sociale, che non deve essere messa in pericolo dall’attività economica,
sicurezza, libertà e dignità umana. Gli ultimi tre si riferiscono al modo di svolgimento, ad esempio il
lavoratore subordinato non può restringere i propri diritti di libertà più di quanto sia strettamente
necessario all’attività lavorativa. La legge può aggiungere limiti ulteriori, coordinando e
programmando le attività economiche pubbliche e private. Nell’Art. 41 quindi si afferma che l’iniziativa
economica privata è libera, ma già nel secondo comma vengono introdotti limiti. Gli interessi della
comunità quindi impongono restrizioni alle iniziative economiche private. La dignità dell’uomo è un
principio molto ampio, un valore assoluto delle costituzioni del secondo dopoguerra, la libertà
economica gli viene dopo. Le attività economiche non possono svolgersi in contrasto con la dignità
dell’uomo, che, come l’Art. 41 lo intende, è un dato oggettivo ricavato dalla coscienza sociale, non
dall’opinione del singolo che vuole intraprendere l’attività.
L’Art. 42 disciplina la proprietà posta come diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo, riconducibile ai diritti assoluti verso ai quali corrisponde un generale dovere di astensione
da parte di terzi. L’esercizio di questo diritto rende il titolare idoneo a produrre modificazioni nel
possibile giuridico. La differenza dalle libertà è che la proprietà riguarda l’esistenza di un oggetto del
diritto, a seconda del quale il diritto assume estensioni e contenuti diversi. Esso si articola, a seconda
dell’oggetto, in statuti proprietari, caratterizzati da diverse posizioni di vantaggio o svantaggio. L’Art.
42 disciplina inoltre l’espropriazione, la legge deve determinarne i casi, perseguire l’interesse
generale e stabilire un indennizzo. A volte lo statuto proprietario può essere così invasivo da tradursi
in una espropriazione non acquisitiva, obbligando la PA ad indennizzare il privato. Con
l’espropriazione la Costituzione va a limitare la proprietà privata, che era il diritto simbolo dei diritti di
libertà della prima generazione per motivi di interesse generale della comunità. Le libertà economiche
quindi hanno una posizione minoritaria rispetto agli interessi della comunità. La Costituzione aveva
come base un modello economico fortemente coeso e armonico in cui le parti dovessero cooperare,
gli articoli dal 43 al 47 pianificavano quindi un’economia fortemente collettiva, che tuttavia non si è
realizzata.
Diritti Politici
Per diritti politici si intende l’insieme delle situazioni soggettive strettamente legate all’appartenenza
ad uno Stato. Essi hanno natura funzionale, sono sottoposti a numerosi limiti imposti nell’interesse
dello Stato e riconosciuti ai soli cittadini.
Il diritto di voto consiste in una manifestazione della volontà, tramite l’elezione mediante la quale si
compie la preposizione di titolari ad un ufficio pubblico. Per l’Art. 48 spetta a tutti i cittadini, uomini e
donne, di maggiore età. Un’eccezione è ravvisabile nell’Art. 58 che fissa il limite minimo di età a 25
anni per l’elezione dei senatori. La legge cost. 1/2000 garantisce il diritto di voto anche per i cittadini
residenti all’estero. Il requisito della cittadinanza è parzialmente derogato per le elezioni di enti locali e
Parlamento europeo, per il quale votano anche i cittadini UE residenti in Italia. Il diritto può essere
limitato per incapacità civile, effetto di una sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale
previsti dalla legge.
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Si parla di diritto nel voto quando si indica il potere di concorrere a determinare gli effetti giuridici in
un’elezione in conformità alla propria libertà. A garanzia della genuinità del voto la Costituzione
introduce la segretezza, l’uguaglianza e personalità del voto. Con diritto al voto si indica invece la
pretesa di partecipare al procedimento di voto senza subire impedimenti o esclusioni. Il diritto al voto
è configurato come un dovere civico.
Tra i diritti politici sono previsti anche diritto di petizione, di iniziativa legislativa e referendaria. L’Art.
51 tutela l’interesse dei cittadini ad accedere ai pubblici uffici, quindi non soltanto alle cariche elettive
ma anche agli uffici pubblici non politici (spesso vi si accede tramite concorso). Il genere non è un
criterio su cui basare i requisiti attitudinali richiesti per l’accesso e l’elettorato passivo è disciplinato da
norme costituzionali e legislative ordinarie. La Repubblica deve promuovere le pari opportunità tra
uomini e donne e la legge può inoltre, in questo contesto, parificare gli italiani senza cittadinanza ai
cittadini.
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