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II Duecento e il Trecento

Uno degli eventi particolari che più caratterizza questo periodo storico è il passaggio dal
latino ai volgari nazionali e l'affiancarsi di questi ultimi alle lingue della scrittura. I poeti hanno
infatti adesso facoltà di scelta tra i due idiomi a seconda del pubblico che hanno di fronte
ma, soprattutto, a seconda del 'genere letterario' cui l'opera appartiene⇨si parla di
bilinguismo​. Ciò avviene soprattutto in Francia, grazie all'ambiente delle corti (da cui deriva il
termine​ cortese​ in riferimento alla produzione letteraria) che rendono la letteratura una libera
forma d'intrattenimento per un pubblico laico e formato da donne. Sarà proprio la figura di
queste ultime che porterà importanti autori come Andrea Cappellano a comporre il ​'De
Amore',​ in cui viene codificata l'etica dell'amore cortese. Per quanto riguarda la realtà
italiana il fenomeno sociale a cui viene attribuita più importanza è la nascita dei ​comuni​,
ovvero forme di autogoverno della città che sviluppano indipendenza dal papato e l'impero.
Nasce ora la scuola siciliana che da avvio ad una tradizione di poesia lirica. In Toscana i
poeti provenzali (i cosiddetti ​trovatori​) rendono questa lirica più personale, identificandosi
adesso come ​stilnovisti​ , tra cui ritroviamo anche Dante con il suo Vita Nova', fonte
d’ispirazione per Francesco Petrarca, il cui Canzoniere diventerà un modello Europeo. La
novella e la prosa vengono invece prese maggiormente in considerazione dalla tradizione
francese e medievale latina, cui Giovanni Boccaccio farà riferimento con il 'Decameron', una
narrazione scandita in novelle.
Da un punto di vista socio-economico, questi sono gli anni in cui è possibile assistere a:
- un'esplosione demografica;
- un miglioramento delle condizioni alimentari ed igieniche;
- un ampliamento dei commerci→ruolo centrale del mercante che viaggia in tutta Europa;
- nascita delle prime banche da parte di ricche famiglie,
- nascita delle prime compagnie assicurative;
- fioritura dell'industria manifatturiera;
- affinamento di tecniche agricole→cambia l'aspetto del paesaggio.
All’origine dell’espansione economica il ​modello feudale ​si aggiungono nuovi soggetti: i
comuni che conquistano le campagne riducendo il potere dell’aristocrazia feudale.
In questi anni la figura dell'​intellettuale​ è perlopiù rappresentata dagli uomini di pensiero
legati a istituzioni scolastiche. Inoltre, l'istruzione era nelle mani della Chiesa, quindi
l'intellettuale medievale era generalmente un ecclesiastico→ 'chierici", gli unici ad avere la
possibilità di seguire un percorso di studi che fosse comunque incentrato sulla Bibbia e sugli
scritti dei Padri della Chiesa. Per questo la gran parte dei laici era analfabeta e il solo
insegnamento della lettura e della scrittura non era ritenuto necessario per la formazione.
La situazione cambia grazie alla nascita delle ​università​, in cui la componente laica è
importante tanto quanto quella ecclesiastica. Tuttavia l'insegnamento teologico rimane
fondamentale. L'insegnamento è in latino e questo permette agli insegnanti e agli studenti di
circolare in tutta Europa. Un'ulteriore figura che si profila nel "200 è l’uomo di pensiero al
servizio dello Stato (Dante: un laico che unisce l'attività intellettuale ad un impegno pubblico,
diventando così un uomo attivo nella politica del comune). Nel 300, autori come Petrarca e
Boccaccio scelgono invece di prendere gli ordini religiosi, ma questa scelta è dettata dal
fatto che le città, e quindi i signori, prendono sempre più il sopravvento e l'intellettuale
diventa meno libero; da qui nasce la decisione di garantire una propria rendita attraverso la
carriera ecclesiastica. Gli intellettuali cristiani e laici scrivono entrambi in latino, identificando
così la comunicazione colta utilizzata anche all'interno del mondo universitario. Per questo,
opere in volgare come la prosa scientifica tardano ad affermarsi.
Nasce un nuovo metodo scolastico secondo cui il maestro pone la ​quaestio,​ cioè una
domanda che viene analizzata e suddivisa in argomenti favorevoli o contrari così da
permettere agli alunni di esercitare la ​disputationes​, affermando il proprio punto di vista.
Questo nuovo pensiero filosofico che prende vita nelle università si afferma come
Scolastica.
Per i filosofi medievali i problemi sono essenzialmente due:
1. Vengono tradotte le prime opere di Aristotele, il cui dialogo viene però filtrato da filosofi
che valorizzano la componente razionalistica piuttosto che quella metafisica: vengono quindi
affermate l'immortalità dell'anima e l'eternità del mondo, in completa opposizione con la
visione cristiana.
2. Il rapporto con il pensiero pagano e quindi tra fede e ragione.
In Francia è registrata una notevole produzione di materiale in volgare soprattutto di materia
epico-cavalleresca​⇒​Nascono in questo periodo le ​chansons de geste​ (lunghe narrazioni in
versi sulle magnifiche imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini)
Caratteristica principale è che i personaggi sono legati alla corte carolingia e che gli episodi
narrati siano fatti realmente avvenuti. La più famosa è la ​Chanson de Roland.
Si distinguono poi, sempre in lingua d'oil, i ​romanzi cortesi​ che si suddividono in:
- r​omanzi storici ​che traducono testi che narrano antichi eventi ed eroi;
- ​epopee dei cavalieri ​nati dalla fantasia dell'autore⇒materia bretone.
Tra i più grandi romanzieri del tempo ritroviamo anche Chrétien de Troyes.
La Lirica Provenzale si sviluppa nel sud della Francia, per questo parliamo di lingua d'oc.
I temi sono molteplici:
- la cronaca e la vita politica delle corti in cui risiedevano i poeti;
- la satira;
- la morale e la religione;
- l’amore idealizzato definito 'cortese' (mai soddisfatto e ricambiato = il poeta loda e
corteggia una donna che già è sposata senza sperare mai in alcuna ricompensa).

La storia della letteratura italiana del Medioevo non è una storia unitaria infatti ci sono
regioni che sin dall’inizio conquistano subito un primato culturale (Toscana ed Emilia), altre
invece avranno una fioritura poetica con il regno di Federico II (Sicilia e il Mezzogiorno).
Per far si che il toscano passi da lingua regionale a lingua nazionale occorrerà l’esempio e
l’opera dei tre massimi esponenti del Medioevo: Dante, Petrarca e Boccaccio denominati
anche “le tre corone auliche”.

FRANCESCO PETRARCA
Francesco Petrarca nato ad Arezzo nel 1304 da un fiorentino, il notaio Petracco di Parenzo,
trascorre l'infanzia tra il Valdarno e Pisa. Nel 1312 si stabilisce con la famiglia nella piccola
cittadina provenzale di Carpentras, vicino ad Avignone, dove il padre lavora. Francesco
studia prima grammatica sotto la guida del maestro Convenevole da Prato, poi diritto a
Montpellier. Alla morte del padre, spinto soprattutto da ragioni economiche, decide di
intraprendere carriera ecclesiastica, diventando cappellano della potente famiglia romana
dei Colonna. Nei primi anni Trenta si divide tra l'Italia e la Provenza dove ci fu il fatale
incontro con Laura nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone. Tuttavia, è spesso in Italia,
ospite di amici e benefattori ed è proprio durante questi soggiorni che riflette sulle disastrose
condizioni politiche in cui versa la penisola. Il 1348, è per l’Europa e per Petrarca un anno
segnato dalla peste nera che decimò la popolazione e anche Laura.
Benché Petrarca sia noto al pubblico moderno soprattutto per il Canzoniere scritto in
volgare, occorre ricordare che la grande maggioranza delle sue opere vennero scritte in
latino (​Africa, Ai posteri, De viris illustribus, Secretum​…)
Sin dagli anni della giovinezza, infatti, Petrarca cerca, colleziona e studia i manoscritti di
Virgilio, Cicerone e Seneca. Le tracce di quello studio le possiamo ancora vedere nelle
glosse​ ovvero i brevi commenti che egli stesso scrive ai margini del testo. L’influenza della
cultura greco-latina si fa sentire sulle sue opere sia in prosa che in versi infatti, troviamo il
richiamo all’esempio degli antichi.
L’idea di cultura di Petrarca infatti si fonda su due principi:
- ​la lezione umanistica dei classici​ e quindi il recupero dei valori della classicità,
- ​la dottrina cristiana.
La modernità di Petrarca sta tra l’altro nella sua ​complessità spirituale ​e nella quantità di
dubbi e ripensamenti rispecchiati anche nelle sue opere. Vi è sempre in lui, il sentimento di
una contraddizione tra corpo e anima e tra il desiderio della gloria terrena e l’ascesi. Ciò si
verifica soprattutto nella prosa latina del ​Secretum (​ il segreto conflitto delle mie angustie), in
cui Petrarca si ispira per il contenuto alle ​Confessioni di Sant’Agostino​ e mette in scena una
conversazione immaginaria tra sé stesso e il santo.
Petrarca a Milano, inizia a lavorare ad un’opera poetica interamente in volgare che resterà
incompiuta: ​i Trionfi​:poema ispirato alla Commedia dantesca in cui passa in rassegna tutti i
grandi spiriti del passato, l’amore per Laura e il suo destino ultraterreno.

Il Canzoniere
Petrarca fu un inesauribile revisore di se stesso infatti, del Canzoniere troviamo nove “forme
provvisorie”. Quello che noi chiamiamo Canzoniere è la raccolta definitiva che il poeta
consegnò al manoscritto Vaticano Latino 3195 intitolato ​Frammenti Volgari​.
La raccolta conta in tutto 366 componimenti distinti in sonetti (forma metrica privilegiata
perché rappresenta gli stati d’animo) , canzoni, sestine, ballate e madrigali. È diviso in due
parti; separate da alcune pagine bianche troviamo 263 testi in vita di Laura e 103 in morte di
Laura. Il Canzoniere è, un racconto dotato di un inizio ed una fine e un riconoscibile
svolgimento. A rendere più visibile questa 'trama' concorrono i cosiddetti 'testi di
anniversario', scritto ogni anno nella ricorrenza del primo incontro tra il poeta e la donna
amata. Nel libro si possono isolare anche brevi sequenze di componimenti che stanno tra
loro non in rapporto di successione cronologica bensì di congruità tematica: (testi che
sviluppano un identico motivo, come per esempio il motivo della lode per gli occhi, o del
dolore per la distanza dalla donna amata, o della morte di un amico, ecc). Se nei primi due
terzi del libro si leggono testi che pregano, celebrano, riflettono su Laura viva, l’ultimo terzo
del libro è dedicato al compianto su Laura morta, e a una più generale meditazione sulla
transitorietà delle cose terrene. Petrarca è il primo vero amante frustrato nei confronti di una
donna, Laura in questo caso, è una donna completamente repellente al suo sentimento
amoroso, che lo ricambia con un atteggiamento freddo e indifferente. In tutto lo studio di
Petrarca c’è sempre da ricordare che il nome Laura è sì, identificativo di una persona ma
indica anche quell‘ Aura poetica a cui lui aspira, agogna e che riesce a raggiungere con
l’incoronazione in Campidoglio. Egli non riesce a liberarsi mai del desiderio di gloria, di
essere riconosciuto, lodato e stimato ma anche del desiderio dell’amore di questa donna.
Entrambi i desideri collidono invece con un’idea molto radicata in Petrarca, il quale è sì un
autore che anticipa la cultura laica umanistica, ma rilegge anche la lezione del Cristianesimo
che ci dice che un bravo cristiano non dovrebbe mai avere smania di primeggiare. Questo
spiega come mai Petrarca sia estremamente moderno anche come cristiano.
Nel 500 nasce il Petrarchismo, un insieme di poeti che divinizzano Petrarca e iniziano a
scrivere imitandolo, seppur non saranno mai degni del modello effettivo. Egli comunque
diventa un modello talmente tanto forte da portare anche alla nascita di chi lo imita
ridicolizzando.

GIOVANNI BOCCACCIO
Giovanni Boccaccio nato nel 1313; fin da subito si trasferirono a Napoli dove potette godere
dell’amicizia degli aristocratici. Da questi ultimi impara a conoscere l’opera di Petrarca che
incontrerà poi più tardi a Firenze. Con la nascita delle prime biblioteche ha inoltre, modo di
venire a conoscenza di opere classiche che in seguito imiterà nelle sue rime in volgare.
Boccaccio scriverà anche la biografia di Petrarca e studierà la vita e le opere di Dante a cui
anche ad egli dedica una biografia e commenta persino la Commedia in una delle sue opere
(​Esposizioni)​ . Morì nel 1375, un anno dopo Petrarca.
Prima del Decameron lavora a tre opere in volgare: ​il Filocolo ​(Fatica d’amore=vicenda di
Florio e Biancifiore)​, il Filostrato ​(storia d’amore tragico di Troiolo e Criseida durante la
guerra di Troia) ​ e il Teseida ​(narra le vicende di Teseo=poema epico in cui si narra anche la
storia d’amore e il duello di Arcita e Palemone per Emilia)​ c​ he miscelano due generi letterari:
il poema epico e l’elegia amorosa.

Il Decameron
Il Decameron, (nome da lui coniato unendo insieme due parole greche: dieci giornate), è
stato scritto negli anni successivi alla peste nera anche se molto probabilmente molte delle
novelle sono state scritte prima del 1348. Il libro venne ultimato, si pensa, nel 1353, tuttavia
Boccaccio continuerà a meditarci sopra e a modificarlo. Nel 1348 la peste arriva a Firenze, e
l'introduzione al libro descrive la drammatica situazione della città. Il tema della peste ricorre
nella tradizione occidentale ma è certo che per quanto riguarda Boccaccio la sostanza della
descrizione è tratta dall'osservazione diretta: fu testimone del flagello. É in questo tragico
frangente che un gruppo di dieci giovani (sette donne e tre uomini) si riunisce e decide di
abbandonare la città per evitare il contagio e si rifugiano in alcune ville di loro proprietà.
I giovani scelgono ogni giorno tra le loro fila un «re» o una “regina” che deve raccontare
delle novelle: una ciascuno per dieci giorni (il «novellare» e sospeso nei giorni di venerdì e
sabato), per un totale di cento novelle. La cornice-l'artificio narrativo che permette di saldare
insieme le novelle non è un'invenzione di Boccaccio ma era già ben nota alla tradizione
narrativa indiana e araba (Mille e una notte). In Boccaccio, la cornice ha un ruolo molto più
importante. Non è semplicemente uno sfondo bensì il vero motore narrativo dell'opera,
ovvero il macrotesto che organizza e regola tutti i singoli testi (le novelle). ​Amore​ inteso
come soddisfazione sessuale e ​Fortuna​ intesa come destino, fatalità e peripezia sono, i temi
dominanti del libro. A questi due temi si aggiungono altri due: il ​Motto​ e la ​Beffa.​
Il linguaggio si adegua alla varietà dei registri e delle situazioni messe in scena nelle novelle
​ i linguaggi e di stili. Inoltre, ogni novella ha una sua
infatti Boccaccio anticipa la ​polifonia d
finalità didattica ovvero di insegnamento. Il Decameron fa anche riferimento alla Commedia
di Dante aprendo l’opera con novella dedicata al Cattivo (INFERNO) Ser Ciappelletto e la
conclude con una novella dedicato al personaggio Buono (PARADISO) di Griselda
(Boccaccio amico delle donne). Griselda è sia vincente quanto anticipatore di quella
emancipazione femminile infatti Boccaccio augura alle donne di potersi riscattare da questo
tipo di subordinazione e arrivare ad una libertà, quella di vivere la loro sessualità e la loro
vita in una maniera non così condizionata dalla paura del marito.
-Chiusa profetica in quanto la condizione femminile si è in parte evoluta. Si rivela una
novella strategica ed importante perché Griselda diventa una vera eroina, l’emblema di
remissività che non perde mai la dignità. Anche così sottomesso rimane il personaggio più
dignitoso di tutto il racconto; non è subdola o falsa come il marito, e riesce ad avere un
riscatto quando prova tenerezza nei confronti di quella persona che prenderà il suo posto. Ci
sono diversi temi incrociati (critica aristocrazia, rapporto sbilanciato tra marito e moglie,
riscatto).

Il Quattrocento

Il Quattrocento è incluso tra due date emblematiche: il 1375 e il 1494. Il 1375 è l'anno della
morte di Giovanni Boccaccio (il 21 dicembre); un anno prima (il 19 luglio) era morto
Francesco Petrarca. Nel 1375 il Trecento, inteso come il secolo che aveva consegnato ai
posteri la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio,
simbolicamente si chiude, mentre si apre quello che il grande filosofo e studioso Benedetto
Croce (1866-1952) ha definito il «secolo senza poesia». Il 1494 è invece l'anno in cui il re di
Francia Carlo VIII scende con il suo esercito in Italia alla conquista del Regno di Napoli.
Sotto il profilo artistico-culturale il Quattrocento è il secolo dell’Umanesimo con il suo
richiamo alla lezione morale e civile degli antichi e l’impegno nello studio e nella ricerca di
testi classici. Secondo gli umanisti, infatti, la cultura ha come scopo la formazione dell’uomo
nella sua interezza, deve cioè tendere a sviluppare tutte le sue facoltà e virtù morali,
intellettuali, civili, per creare un individuo aperto sia alla vita attiva, sia alla riflessione e alla
meditazione spirituale. L'interesse per le caratteristiche proprie dell'essere umano aumenta
in modo sensibile. Il culto dell'antico e della cultura classica greco-latina è il massimo
comune denominatore dell'Umanesimo. Nacque anche il ​principio dell’imitazione​ visto come
un'autonoma rielaborazione dei modelli. La riscoperta delle opere della classicità costituì
solo il primo passo; il secondo fu interrogarsi se il testo delle opere fosse quello originale o
fosse stato alterato nel tempo da errori, aggiunte, modifiche, omissioni effettuate dai copisti
o dai traduttori. Nasceva così la​ filologia,​ ossia la disciplina che si occupa della ricostruzione
del testo originale di un'opera. L’umanesimo fu adattato anche in funzione della vita
quotidiana, del vivere civile e politico ovvero il cosiddetto ​umanesimo civile.
Gli umanisti, non arrivarono mai a negare Dio e il significato della religione, ma elaborarono
e sancirono il diritto dell'uomo a esprimersi e a realizzarsi nel mondo attraverso l'esercizio
della politica, dell’etica laica, della cultura. Nei testi degli umanisti si afferma il valore
supremo della ​virtù​ e della ​dignità ​così come fa Leon Battista Alberti nei suoi ​Libri della
Famiglia.​ In questo contesto, avvenne la creazione di nuove corti dove il signore radunava
anche gli artisti e gli intellettuali perché ogni corte promosse una sua identità culturale
entrando così in rapporto ma anche in contrasto con altre regioni. Il sistema delle corti,
quindi, diventa indispensabile sia per la realizzazione di opere letterarie e artistiche sia
anche per la diffusione del ​mecenatismo o ​ vvero la disponibilità dei signori a proteggere e
sostenere gli artisti. La produzione letteraria era varia: troviamo​ i trattati c​ he spesso hanno la
struttura del dialogo veniva utilizzato per le questioni politiche e sociali, ​gli epistolari​, infatti la
lettera diventa uno dei mezzi più diffusi di circolazione, diffusione e promozione delle idee,​ il
discorso​ era scritto in occasioni pubbliche e private e infine l​a novellistica ​seguendo le orme
di Petrarca. Il Quattrocento è anche secolo di ​bilinguismo. ​Il latino domina come lingua colta
e letteraria mentre il volgare rimase fondamentalmente lingua d’uso e nu fu promotrice
Firenze a partire dagli anni Quaranta.

LEON BATTISTA ALBERTI

Leon Battista Alberti nasce a Genova nel 1404, figlio illegittimo del mercante fiorentino
Lorenzo Alberti, riesce a laurearsi in diritto canonico ovvero la disciplina che studia le norme
che regolano l’organizzazione della Chiesa, entra così in contatto con la Curia papale. Inizia
a studiare le opere del grande architetto latino Vitruvio e a fare esperimenti di ottica ed a
esercitarsi nella pittura e nella musica. Inoltre si fanno strettissimi i rapporti con di Alberti con
i vari signori delle corti. Leon Battista Alberti fu scrittore bilingue, scrisse cioè sia in volgare (i
due dialoghi ​Deifira e​ ​Ecatonfilea, la Grammatica della lingua toscana ​e il trattato ​De
iciarchia​ dedicato alle virtù pubbliche e domestiche che si addicono a un principe​) s​ ia in
latino (la commedia ​Philodoxeos fabula, i​ l trattato ​Vantaggi e svantaggi della letteratura ​nel
quale Alberti descrive il ruolo degli intellettuali nella società, le ​Intercenali ​ovvero brevi prose
nelle quali si raccontano le debolezze dell’umanità, il trattato ​La pittura​ dove vengono
​ el quale
applicati all’arte visiva principi di poetica e retorica e il trattato ​L’architettura n
fornisce tutte le coordinate per la costruzione di un edificio) .

I Libri della famiglia


I Libri della famiglia sono un trattato in forma di dialogo composto da un Prologo e da quattro
libri. Alberti dice di avere scritto i primi tre libri della Famiglia a Roma e la revisione e la
rielaborazione di quei tre libri furono effettuate a Firenze così come la composizione
dell'intero quarto libro. I quattro libri che compongono l'opera ospitano una serie di dialoghi
tra i rappresentanti della famiglia Alberti: questi dialoghi si svolgono a Padova intorno al letto
di malattia e di morte del padre di Leon Battista. L'opera si apre con un Prologo, nel quale
Alberti dedica il trattato ai giovani della sua famiglia: queste pagine introduttive ospitano una
trattazione sul ruolo giocato dalla virtù e dalla fortuna. Il primo libro è dedicato quindi, al
rapporto tra padri e figli, il secondo libro vede dialogare lo stesso Leon Battista e Lionardo
sul matrimonio e l'unità della famiglia, il terzo libro è preceduto da un Proemio: qui si trova
un enunciazione sulla difesa dell'uso del volgare (i Libri della famiglia sono stati definiti, non
a caso, un ​monumento al volgare​). Argomento del terzo libro è l'economia domestica in
senso stretto, e in particolare la masserizia, cioè l'arte, propria del padre di famiglia, di
amministrare oculatamente i beni. Il quarto libro tratta dei rapporti della famiglia con il mondo
esterno, del modo in cui si possa guadagnare l'amicizia e la benevolenza.
Il Cinquecento

Come data di riferimento abbiamo il 1494, ovvero la discesa di Carlo XIII in Italia. Si tratta di
un secolo di fioritura massima in tutte le arti anche se da un punto di vista politico è un
secolo di guerre e feroci contese tra gli stati. Si ha un senso di competizione legato
all’individualismo caratterizzante di questa epoca in cui non si compete solo tra Stati ma
anche tra corti. L'Italia raccoglie le basi del secolo precedente come ad esempio il recupero
di arti e letterature classiche e il recupero e restauro filologico dei testi.Tuttavia tra la cultura
medievale e quella rinascimentale ci sono importanti differenze:
- nuova idea della collocazione dell'uomo nell'universo (uomo vitruviano). Questa centralità
indica responsabilità, e quindi l’uomo è più propenso a concepire la fortuna come influenza
per il proprio destino invece che un dono della provvidenza.
Tra la cultura medievale e umanistica non ci sono solo elementi di rottura ma anche
elementi di continuità infatti la presenza e l’importanza di Dio nella vita dell'individuo non
viene negata. I cambiamenti avvengono in una prospettiva più laica ma senza rifiutare quella
che è stata una dimensione più religiosa della cultura medievale.
Il termine stesso di 'Rinascimento' allude a questa rinascita. Ad utilizzare per primo questo
termine alludendo alla cultura e alle arti fu Giorgio Vasari. Lui utilizza questo termine per
alludere al fatto che l'arte cinquecentesca, dopo un periodo di buio, è tornata a rinascere e a
fiorire. E' un concetto molto forte, che vede gli autori dei secoli scorsi in una prospettiva di
graduale miglioramento che poi culmina con quello che lui ritiene il più grande artista di tutti i
tempi, cioè Michelangelo Buonarroti. Questa rinascita rispetto alle tenebre del medioevo
viene ripreso anche nel '700 durante il secolo dell'illuminismo. “La civiltà del rinascimento”, in
Italia viene caratterizzata da un senso di individualismo, cioè una dimensione dell'Io che
predomina negli artisti e nella politica, in contrapposizione con quella dimensione di
collettività promossa dalla Chiesa. Inoltre vi è uno studio particolare sulla ​'storia e geografia
della letteratura'​ di Carlo Bisotti, diventato un modello per tanti perchè afferma di prestare
molta attenzione alla carta geografica, soprattutto per la situazione policentrica italiana dove
nascono molte corti con tanti rinascimenti. Il lavoro presso le corti acquisisce sempre più
valore e gli artisti e gli storiografia diventarono figure stipendiate e pagate, ma questo li
condannava anche al fenomeno di totale dipendenza alla corte. Proprio in questo periodo,
fino al '700, si diffonde il fenomeno delle accademie, cioè aggregazioni di persone che si
riuniscono nel nome di un interesse comune. Queste nascono e si diffondono sul territorio
perché costituiscono uno spazio di maggiore libertà in cui non si avvertiva la presenza del
principe. Qui si poteva fare satira, affrontare argomenti non graditi a corte. Si crea questa
realtà parallela che spesso però è comunicante, come per quelle accademie che nascono
affiliate ad una corte (accademia della Crusca fondata dalla famiglia dei Medici, poiché si
voleva affermare la propria grandezza da un punto di vista linguistico e preservare la lingua
da altri dialetti e altri volgari).
Tutto il 500 è caratterizzato dall'imitazione e vengono individuati i seguenti modelli:
Boccaccio per la prosa mentre per la poesia Petrarca (​petrarchismo)​. Dante è bene un
modello, ma è come quei campi di grano in cui vicino cresce sempre l'erbaccia→vuole
alludere al fatto che la lingua di Dante è molto ricca ma non è pura come quella delle altre
due corone fiorentine.
Emerge così il ​Manierismo​ che deriva dal termine maniera, coniato sempre da Giorgio
Vasari. Con questo termine indicava gli artisti che fondavano il loro stile sull’imitazione dei
grandi artisti. Più tardi, però, i critici e gli storici assegnarono a questo termine una
connotazione negativa in quanto ritenevano che gli artisti avessero abbandonato l’imitazione
in favore della maniera, cioè dell’imitazione senza alcuna originalità.

NICCOLÒ MACHIAVELLI

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469. Ebbe una buona formazione umanistica
grazie alla quale conobbe il latino che gli permise di studiare successivamente i poeti e gli
storici latini. Con il ritorno dei Medici, nel 1512, Machiavelli fu inserito nella lista delle
personalità sgradite, così gli furono estromessi tutti gli incarichi politici. Fu persino arrestato
e costretto a lasciare la città di Firenze. Durante questo periodo di lontananza da Firenze,
Machiavelli si dedica alla scrittura componendo la prima versione del ​Principe​.
Machiavelli nelle sue opere portò la forza nella lotta politica, la necessità per gli Stati di
possedere eserciti costruiti dai propri cittadini e la necessità che le doti dell’individuo si
accordino con la fortuna per avere successo.

Il Principe
Con questo scritto, Machiavelli voleva dimostrare ai Medici la sua competenza in materia di
politica e quanto fossero ben motivati i suoi appelli finchè ricevesse qualche nuovo incarico.
Il testo è suddiviso in ventisei capitoli che possono essere raggruppati in quattro sezioni.
Nella prima sezione vi è fatta una distinzione tra i vari principati che possono essere
ereditari, misti e nuovi.​ La seconda sezione tratta il problema del potere militare del principe
mentre la terza sezione spiega per quali vizi e virtù i principi sono lodati o biasimati. La
quarta e ultima sezione contiene un giudizio sulla situazione italiana contemporanea e sulla
necessità di difendere l’Italia e liberarla dalle mani dei Barbari. A questo punto Machiavelli
​ i colui che aspira a diventare principe e la ​fortuna​.
introduce un’analisi del rapporto tra ​virtù d
Senza fortuna o occasione favorevole, la virtù dell’uomo si esercita inutilmente, però non è
detto che l’occasione favorevole consista in una condizione oggettiva ottimale. Tuttavia, in
certi momenti, per assicurarsi il potere o per mantenerlo, può essere necessario usare la
violenza. Inoltre Machiavelli esprime uno dei suoi pareri più famosi riguardo alla questione
se sia meglio per un principe essere amato o temuto. Per Machiavelli è meglio esser temuti
che amati, perché gli uomini sono più portati ad aggredire uno che ispira amore piuttosto
uno che ispira timore. L’opera presenta alcune contraddizioni in quanto è stata scritta in
poco tempo e quindi non è stata rivista abbastanza.

FRANCESCO GUICCIARDINI

Francesco Guicciardini nasce a Firenze nel 1483, dove ebbe una rigida educazione cattolica
e dove studiò latino, greco e diritto. Gli scritti di Guicciardini possono essere divisi in: politici,
storici e testi a carattere personale e autobiografico. Guicciardini si sofferma molto sul tema
della fortuna, così come Machiavelli. Egli perviene ad una concezione di realtà legata
strettamente al caso. La fortuna ha un potere troppo elevato perché l’uomo possa sperare di
sfidarla o fronteggiarla. Tale pensiero determina una visione pessimistica e assolutamente
rinunciataria, cioè accettare tutto ciò che capita senza nemmeno nutrire la speranza di
potersi opporre alla sorte. Guicciardini tiene molto in considerazione la sua ascesa al potere
e infatti nella sua opera “la storia d’Italia” si sofferma su un periodo in cui l’italia è stata teatro
di ogni forma di aggressione da parte di altri stati e quindi è in una situazione di assoluta
debolezza. Il periodo va dal 1494 (discesa di Carlo VIII) al 1534 (morte Papa Clemente VII
appartenente alla famiglia dei Medici).
In Guicciardini manca l’impulso di fiducia nella virtù umana che invece c’è in Machiavelli.

I Ricordi
Questi ricordi sono intesi come cose da ricordare ovvero massime che possono servire per il
futuro. Il testo è fatto di tanti “pezzi” nonostante in alcuni casi ci sia fra i diversi ricordi una
certa continuità. In realtà però quello che lui trasmette in questa prosa così segmentata è
proprio quella di una visione della realtà frammentaria, la prosa non è argomentativa a tal
punto da avere una visione totale e complessa ma al contrario, (invece di scegliere la forma
del trattato preferisce una forma di scrittura segmentata come quello che usavano i mercanti
per ricordare alcune cose). Quindi sostanzialmente la sua prosa indica qualcosa da
ricordare ma che riguarda degli aspetti del comportamento. Guicciardini nei suoi ricordi
accoglie quella che è la complessità della realtà perché secondo Guicciardini ogni situazione
è diversa da un’altra e in quanto tali devono essere considerate utilizzando virtù come
l’intelligenza umana.
A questo proposito le parole chiave del suo lessico sono:
● discrezione → ovvero saper distinguere le cose da ciò che è bene da ciò che è male, per
poter giudicare ogni tipo di situazione;
● particulare → situazione specifica da valutare in quanto non è possibile prendere delle
decisioni in maniera assoluta ma bisogna sempre basarsi sul caso specifico che determina
una scelta piuttosto che un’altra.
Guicciardini affronta con poche parole dei concetti importanti ritenendo che siano necessari
delle espressioni più ricche.
I Ricordi sono scritti con uno stile didascalico e perciò impartiscono un insegnamento a chi li
legge. Ce ne accorgiamo perchè usa delle espressioni che mirano al coinvolgimento del
lettore e ce ne accorgiamo con le espressioni iniziali come ad esempio: “avvertite bene”,
“leggete spesso”, “non vi spaventi” presenti all’inizio di un concetto che vuole sia
d’insegnamento per gli altri.
- Il ​ricordo 6 a ​ fferma che è un grande errore parlare in maniera generale perché ogni
situazione è diversa da un’altra e che l’uomo può dare giudizi solo in base all’esperienza.
Inoltre, ci avverte che bisogna stare attenti al modo in cui si esprime un pensiero che non
offenda gli altri.
- Attraverso il ​ricordo 7,​ invece, afferma che non si può valutare una situazione nel generale
ma soltanto nello specifico.
- Il ​ricordo 8,​ ci avverte che se abbiamo bisogno di fare una confidenza è meglio non farla
altrimenti si rischia di procurare fastidio e dire cose senza pensare. Guicciardini con questo
ricordo, quindi afferma che bisogna essere cauti nel dire le cose.
- Il ​ricordo 9​ ci sprona a rivedere spesso i ricordi così da allenare la memoria a ricordare
come bisogna comportarsi.
- Il ​ricordo 10​ afferma che non bisogna confidare soltanto sulla nostra saggezza e sulla
nostra coscienza perché a queste deve essere sempre accompagnata l’esperienza.
- Il ​ricordo 11​ ci dice che non bisogna spaventarsi a fare della beneficienza perché un giorno
troveremo qualcuno che ne sarà grato. Nonostante Guicciardini avesse una prospettiva laica
in questo ricordo, emerge anche la prospettiva religiosa (fare del bene ci avvicina a Dio).
- Infine il ​ricordo 12​ afferma che i proverbi variano in base all'area linguistica e che anche i
proverbi sono dettati dall’esperienza.
LUDOVICO ARIOSTO

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474, ma fin da subito la famiglia si trasferì a
Ferrara, dove Ludovico tentò le sue prime prove da poeta componendo versi per lo più di
tema amoroso. Ludovico seguì la sua vocazione per la letteratura e gli studi umanistici. Nel
1503, prese gli ordini religiosi minori e si mise al servizio del cardinale Ippolito d’Este. In
questo periodo scrisse le commedie ​Cassaria​ e ​Suppositi e ​ portò a compimento la prima
redazione dell’​Orlando furioso.​ Si occupa anche dell'organizzazione di spettacoli per la corte
estense, scrivendo nuove commedie. Nel caso dei testi in latino, i suoi principali modelli
furono Catullo,Orazio, Ovidio e Tibullo. Ariosto produsse anche, un buon numero di Rime in
volgare che vide non solo il modello petrarchesco ma anche altri codici stilisti, oppure
preferisce rifarsi ai classici latini.

L’Orlando furioso
L’Orlando furioso è un poema cavalleresco diviso in quaranta canti in ottave. L’Orlando
furioso è un romanzo policentrico, in cui si sviluppano numerose vicende continuamente
intrecciate tra loro, sullo sfondo della lotta tra i Saraceni e i paladini cristiani di Carlo Magno.
Il più valoroso paladino Orlando, impazzisce per amore di Angelica, che non ricambia i suoi
sentimenti. Con il suo poema Ariosto si inserì nel filone della ​chanson de geste.​ Le varie e
intricate vicende che compongono l’Orlando furioso sono tenute insieme dal narratore a cui
spetta il compito di condurre e commentare l’intera storia, intrecciando le imprese dei
personaggi e intervenendo nel corso del racconto. Si costruisce così, una trama ricca di
colpi di scena, con una continua ricerca dell’imprevisto che può spingersi addirittura fino
all’inverosimile, infatti, importante è nel poema la componente del fantastico e oggetti legati
al mondo della magia. Altro tema fondamentale è la casualità della vita in effetti Angelica si
innamora di Medoro così per caso senza che lui abbia fatto niente per conquistarla.
Orlando è protagonista secondo il titolo ma non molto protagonista secondo il romanzo
infatti egli è presente in pochissimi passi. Ariosto porta alle estreme Orlando, facendogli
conoscere la ​pazzia,​ infatti il paladino con la perdita di Angelica, smarrisce la sua umanità,
fino a diventare irriconoscibile. ​La pazzia è un nodo centrale per tutto il poema​. La pazzia
d’amore diventa nel romanzo una dolorosa realtà, su cui Ariosto riflette e fa riflettere anche i
suoi lettori. Domina anche l’​ironia ariostesca​, infatti, Ariosto guarda con distacco ironico ai
limiti e alle debolezze della condizione umana. Uno dei temi più emblematici è il recupero
del senno di Orlando, da parte di Astolfo, che riacquista poi nel finale il proprio equilibrio
mentale e la propria identità. Astolfo per riuscirci, scende prima all’Inferno (rif. Commedia
dantesca), poi sale al Paradiso e da lì viene accompagnato da san Giovanni, sino sulla
Luna, luogo metaforico dove finiscono le cose perdute a causa di pazzeschi eccessi. Sulla
Luna, infatti, Astolfo ritrova tutti gli scarti della vita umana, tutto ciò che l’uomo smarrisce,
spreca o consuma e infine, ampolle di diverse dimensioni contenenti il senno. Astolfo qui,
scopre che anche chi ritiene affidabile possiede un pò di follia, inoltre, qui vede anche un pò
del suo senno che insieme a quello di Orlando ritorna sulla Terra. L’attenzione che Ariosto
pone al tema della follia e quello del desiderio lo avvicina idealmente a un autore come
Erasmo da Rotterdam​, che con il suo ​Elogio alla follia​ aveva mostrato come spesso la follia
è a muovere le sorti del mondo. Il romanzo si apre con la storia della principessa Lidia che è
condannata all’inferno per aver rifiutato e ingannato Alceste, un ragazzo innamorato di lei
che soffre così tanto per amore da morire.
TORQUATO TASSO

Torquato Tasso nasce a Sorrento nel 1544. Nel 1559 raggiunse il padre a Venezia e là
cominciò a scrivere un poema sulla prima crociata ​“il Gierusalemme”.​ Nel 1562 pubblicò il
poema cavalleresco ​Rinaldo. I​ n seguito si recò a Ferrara, dove si pose al servizio del
cardinale Luigi d’Este. Là riprese il progetto di un poema sulla prima crociata con il titolo
prima di ​Gottifredo ​e in seguito di ​Goffredo.​ Per la corte estense scrisse il dramma pastorale
Aminta​ e nel 1575 terminò la prima stesura del suo poema sulla crociata, noto con il titolo di
Gerusalemme Liberata. ​Nel frattempo il suo poema viene pubblicato sotto il titolo di
Gerusalemme liberata, in edizioni prive del consenso dell’autore. In seguito però il poeta
venne colto da scrupoli religiosi e artistici, che lo spinsero a ripudiare la sua opera e a
riscriverla completamente. Il nuovo testo, intitolato dal Tasso ​Gerusalemme conquistata
ottenne poco successo, mentre la ​Gerusalemme liberata​ continuava a circolare e veniva
ritenuta da molti un capolavoro.

La Gerusalemme liberata
E' un poema epico, diverso dal cavalleresco e che lo distingue dall'Ariosto. Il poema epico,
secondo l'idea di Tasso, è un poema con una finalità sia pedagogica sia di diletto.
Tasso si rifà a determinati parametri aristotelici, ma si rifà anche ad un altro parametro mai
tramontato, ovvero quello oraziano che prevede l'abbinamento 'utile-dulci': a qualcosa di
utile viene accostato qualcosa di piacevole.
In un momento come quello in cui Tasso compone la Gerusalemme Liberata, nel pieno della
cultura controriformistica, egli sceglie un argomento che in questa fase può essere
fortemente educativo per il lettore e quindi la Prima Crociata, la liberazione del Santo
Sepolcro e la guerra tra Cristiani e Musulmani.
C'è la fedeltà al fatto storico e ai personaggi, c'è una precisa unità di azione, c'è un
protagonista ovvero Goffredo di Buglione a cui attorno ruotano le azioni e gli altri
personaggi.
Tasso anticipa l'apertura del poema attraverso una celeberrima similitudine→
'Quando abbiamo un bambino malato dobbiamo curarlo, dandogli una medicina. La
medicina è spesso amara, quindi prendiamo un bicchiere in cui versiamo la medicina e sul
bordo mettiamo dei granelli di zucchero, cosicché il bambino avverti il sapore dolce dello
zucchero e dopo percepisca l'amaro della medicina, ma essa ormai è assunta quindi il bene
è fatto'.​→I lettori hanno bisogno di curare le loro anime, confuse, e la cura arriva con
un'opera che racconta un momento fondamentale nella storia del cristianesimo. Ma perchè
questa cura non sia troppo pesante per i lettori Tasso inserisce nell'opera alcuni personaggi
ed episodi che sono 'più leggibili' e fanno appassionare il lettore.
L'elemento che porta leggerezza, anche quando è tormentato, è l'amore.
Affinché il poema fosse allo stesso tempo leggero e quindi caratterizzato di elementi magici
ma allo stesso tempo un poema che celebra il cristianesimo, Tasso trova una soluzione:
inserisce quello che chiama ​il Meraviglioso Cristiano. C​ i sono quindi episodi che non sono
comuni alla normalità, ma che sono il risultato della potenza miracolosa di Dio.
C'è una contrapposizione nell'opera tra due versanti→ forze del bene in contrapposizione
forze del male.
Una di queste forze del male è Armida, maga e figura diabolica e estremamente sensuale
che va nel campo di guerra per far innamorare di sé tutti i soldati. Tuttavia il suo unico
obiettivo è Rinaldo, il primo paladino di Goffredo.
Rinaldo è valoroso ma ella lo fa innamorare di sé talmente tanto da convincerlo ad
abbandonare il campo di battaglia e a seguirla nel suo palazzo incantato nelle Isole
Fortunate, quelle che oggi sono le Isole Canarie.
L'azione bellica è ferma e bisogna recuperare per forza Rinaldo.
(Il recupero di una forza persa è una costante come ad esempio Astolfo recupera il senno di
Orlando sulla luna).
Tasso manda due soldati, a recuperare Rinaldo che sta nel palazzo di Armida, chiedendogli
di tornare indietro per continuare l'azione.
Si registra un viaggio voluto da Dio, e solo per questo riesce a realizzarsi. L'impresa si
risolve poichè riescono miracolosamente ad entrare nel cuore del palazzo di Armida,
approfittano di un momento di distrazione e convincono Rinaldo a tornare. Rinaldo si rende
conto di ciò che ha fatto e ritorna a Gerusalemme, lasciando Armida.
Tasso non lascia questa situazione in sospeso infatti Rinaldo ritorna al campo e libera
Gerusalemme. Verso la fine del poema, nelle ultime ottave, si vede che Armida ritorna e
vaga confusa per Gerusalemme. Anche a Rinaldo, ormai vittorioso, manca l'amore.
Nonostante l'esito felice dell'azione militare prova un senso di vuoto, quindi appena si
rivedono possono unirsi.
Tasso intende comunicare che un amore anche se nato con presupposti sbagliati può
stanarsi, e quindi che la risoluzione può esserci.

Il Seicento

Uno dei principali movimenti artistici nati sul finire del Cinquecento e sviluppatisi nel corso
del Seicento è il Barocco. Si tratta di un fenomeno europeo che si distinse per la sua forte
carica eversiva nei confronti delle regole e dei precedenti elaborati dipendenti dagli ideali
classicisti. Infatti, le poetiche barocche, mirano al superamento dei vincoli e alla creazione di
opere in cui risplenda l’abilità inventiva e l’originalità dell’artista: per questo motivo le opere
barocche sono state definite “stravaganti” ovvero con il significato di estraneità ai canoni
rinascimentali dell’armonia e della misura (Rif. al Parmigianino=Madonna dal collo lungo).
L’origine e il significato del termine 'barocco' sono incerti e controversi. Alcuni studiosi
ritengono che esso derivi dal portoghese​ barroco​, termine che indica un tipo particolare di
perla, non sferica, ma di fattezze irregolari, altri come Benedetto Croce credono invece che
esso sia legato alla cultura filosofico-scolastica, nella quale ​baroco d ​ efinisce un genere di
ragionamento vuoto e tortuoso. In entrambi í casi il termine, viene usato per la prima volta
nel XVIII secolo a proposito del gusto e della sensibilità seicentesca che rimanda alla
irregolarita o alla 'vuotezza artificiosa' del fenomeno che designa. Nell’ambito letterario,
indica una precisa corrente culturale anticlassicista, che cioè si oppone agli ideali di
equilibrio e armonia propri del classicismo umanistico-rinascimentale. Quella del Manierismo
è spesso considerata una fase di passaggio, proprio perché anticipa motivi e tratti stilistici
che saranno propri anche del Barocco. In effetti il Barocco è in primo luogo caratterizzato da
una insofferenza alle regole, che fa sì che le forme tradizionali siano svuotate e
contraddette, deformate e stravolte. Sotto questo aspetto il Barocco costituisce un
movimento innovativo e autonomo rispetto alla tradizione del classicismo. Quindi, mentre il
Manierismo lavora sul dettaglio e sui particolari, il Barocco tende al grandioso e allo stupore
(meraviglia). Altri elementi dell’arte barocca sono: l’incertezza e l’instabilità, la precarietà
dell’uomo e un forte sentimento della morte vista come un’idea ossessiva e strettamente
legata a temi come quello del tempo fugace e divoratore. In ambito letterario, la fugacità può
essere rappresentata anche dall’immagine, già rinascimentale della rosa, ora riproposto
come emblema della fugacità della vita e della necessaria distruzione della bellezza. Altro
tratto fondamentale del Barocco è la volontà di esaltare le forme più brillanti dell'intelligenza
identificandole con l​’ingegno​ e l’​acutezza​. La rottura dell’armonia si verifica con l’utilizzo di
una sintassi contorta e la ricerca di figure retoriche come la metafora. Anche in Italia,
condizionata dal nuovo potere della Chiesa della Controriforma, si sviluppò un gusto
barocco che vide come maggior esponente il poeta Giovan Battista Marino. Le due forme
più utilizzate, in Italia sono la trattatistica e la storiografia.
Matteo Peregrini fu il primo vero trattatista dell’ingegno, che nel suo trattato ​Delle acutezze
ha lo scopo di investigare le acutezze mirabili, partendo dalla considerazione fondamentale
che esse non consistono né in parole né in cose, bensì nel legame tra parole e parole, tra
parole e cose, e cose e cose. Peregrini, inoltre, enuncia anche altri punti fondamentali della
poetica barocca ovvero il legame tra artificio e diletto, in quanto l’artificio genera il dilettevole,
ovvero procura piacere al lettore. Per le nuove figure di gentiluomo di corte, nasce una
nuova tipologia di trattatistica morale e comportamentale. Appartengono ad essa ​Il
Segretario d ​ i Vincenzo Gramigna e il ​Ritratto del “privato” politico cristiano d
​ i Virginio
Malvezzi, dedicati alle nuove strategie comportamentali in un ambiente in cui sono
necessarie l’obliquità, la dissimulazione e una notevole versatilità che consenta di adeguarsi
al continuo mutare dei contesti e delle situazioni. Il trattato quindi, non è un elenco di
comportamenti da tenere ma un discorso di tipo morale e religioso. Per quanto riguarda la
trattatistica politica seicentesca, ruota intorno al concetto di di “ragion di Stato” di Giovanni
Botero. Per “ragion di Stato” si intende l’insieme dei mezzi a disposizione di un governante
per acquisire e conservare il potere, essa coincide dunque, con la difesa del potere. Il dato
più rilevante della storiografia seicentesca è il suo interesse per la contemporaneità, sia
quella del grande panorama europeo sia delle piccole realtà locali. Obiettivo fondamentale
dello storico, è la ricerca del vero che deve essere condotta nella più totale libertà. Un altro
motivo centrale della storiografia seicentesca è quello religioso perchè spesso gli storici
sono essi stessi dei religiosi.
La rivoluzione scientifica con l’affermazione della teoria eliocentrica copernicana, portò con
sé alla fine la fine di un mondo culturale e di un sistema filosofico e teologico che ponevano
l’uomo al centro dell’universo. Sul piano strettamente letterario, la rivoluzione scientifica
segnò la nascita di un nuovo linguaggio e l’acquisizione di nuovi generi come il dialogo in
volgare. La nascita della prosa scientifica significò anche la fondazione di un nuovo lessico,
comprensibile e allo stesso tempo scientifico. Questo si deve soprattutto a Galileo Galilei
che oltre al metodo di ricerca scientifica, dobbiamo anche la sua poliedricità di interessi per i
vari campi del sapere compreso quello della lingua e della letteratura.

GALILEO GALILEI

Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564 da una famiglia fiorentina. Galilei ebbe un’educazione
umanistica fino al suo ingresso nell’Università di Pisa come studente di Medicina, è inoltre
legato all’Università di Padova, presso la quale insegnò matematica. Sia quello padovano,
sia quello pisano, era un ambiente culturalmente conservatore, nel quale si diffondeva la
tradizione dell’aristotelismo. Della questione specifica dei rapporti tra scienza e fede egli si
occupò direttamente nelle cosiddette “ ​Lettere copernicane”​ cioè un gruppo di lettere in cui si
parla del rapporto fra le Sacre Scritture e i risultati delle ricerche scientifiche. Infatti, affinché,
la nuova scienza fosse attendibile era necessario sostenerla con ​un metodo sperimentale​,
ossia ciò che è percepibile direttamente con i sensi, l’osservazione diretta dei fatti e le
necessarie dimostrazioni, garantiscono la veridicità delle nuove scoperte.
Galilei con “​Il Dialogo sopra i due massimi sistemi”, e ​ gli intendeva raccogliere
definitivamente le ragioni e le prove in favore della teoria eliocentrica a confronto con quella
geocentrica. Galileo scrive “​il trattato sopra i due massimi sistemi​” in volgare, quindi compie
un'operazione coraggiosa, nonostante le varie polemiche sul volgare. Così lui lancia il
volgare anche in ambito scientifico perché lo ritiene pronto e anche perché voleva consentire
una circolazione più ampia delle sue teorie. Galileo non fu estraneo neanche ai dibattiti
letterari che animavano la scena culturale, infatti partecipò attivamente e in modo originale
con le sue ​Considerazioni al Tasso e Postille all’Ariosto. ​Fu anche un grande studioso di
Petrarca (​Postille al Petrarca​) e di Dante (​Lezioni all’accademia fiorentina, circa la figura, sito
e grandezza dell’Inferno di Dante)​ .

Considerazioni al Tasso e Postille all’Ariosto


Galileo Galilei si sofferma su 4 grandi classici: ​La Commedia, il Canzoniere la Gerusalemme
liberata e l'Orlando furioso.
Per Galileo l'opera che vale di più è l'Orlando furioso mentre la Gerusalemme liberata è
espressione di una arretratezza che la modernità non può accettare.
L’Orlando furioso attraverso l’immaginazione consente di trovare tante storie intrecciate,
pensare ai tanti personaggi e situazioni; tutto ciò viene approvato da Galileo.
Viceversa, il poema di Tasso a Galileo non convince per 2 motivi:
1. È troppo schiacciato e fedele alla storia mentre la poesia deve essere uno spazio di
libertà e immaginazione.
2. La poetica di Aristotele è molto presa in considerazione. Galileo vede nell'aristotelismo
una vecchia visione del mondo, e necessariamente si esprime in termini severi in quel
poema che più lo segue. Condanna quella mentalità obsoleta di concepire la poesia.
Queste dichiarazioni di Galileo sono delle annotazioni che, appartengono alla fase giovanile,
che scrisse lui stesso commentando le edizioni delle due opere.
Galileo in realtà non partecipò alle polemiche di queste opere ma scrisse solo delle
riflessioni personali senza lo scopo di pubblicarle e infatti ce ne accorgiamo dalla presenza
di battute, motti e commenti pesanti. Lui riporta il metodo dell’osservazione diretta anche
nell'analisi delle due opere.
Fondamentale è anche il rapporto tra vero e falso nella poesia: il vero: la storia, il falso: la
fantasia, la libertà. L'Orlando Furioso ha 46 canti, mentre la gerusalemme liberata è un
poema più concentrato e ha solo 20 canti.
Galileo apprezza quella varietà dell'Orlando e lo paragona alla complessità del cielo mentre
nella Gerusalemme liberata l'azione è molto controllata, e questo gli ricorda la fissità del
sistema tolemaico.
p.241: ​parola "ironia":​ Tasso era considerato il poeta senza riso, non ci propone personaggi
comici, al contrario di Ariosto. Galileo si esprime anche sullo stile e lessico dei due romanzi
e definisce la Gerusalemme liberata mentre il linguaggio e lo stile dell’Orlando furioso è
sobrio.
p.250:​ Per Galileo la vista è il senso principale.
Inoltre, gli eroi del Tasso sono creduloni e senza cervello, invece, quelli di Ariosto sono
dubbiosi e questo li predispone di più alla scoperta della verità.
GIOVAN BATTISTA MARINO

Giovan Battista Marino nasce a Napoli nel 1569. Risale alla fase napoletana, il primo
progetto dell’​Adone​; Marino tentò anche il genere epico, nel ​Anversa liberata ​e nella
Gierusalemme distrutta:​ due tentativi non fortunati e non portati a termine, di costruire un
poema eroico-cristiano alla maniera tassiana. A Napoli, Marino subì due arresti: la prima
prigionia è da lui stesso raccontata nel capitolo “​Il Camerone, prigione orridissima in Napoli”,
mentre la seconda volta riuscì a fuggire e si rifugiò a Roma. A Roma, frequentò l’Accademia
​ laborate in parte a
degli Umoristi: centro di ritrovo dei più noti letterati italiani. Le ​Rime, e
Napoli e poi concluse a Venezia, ebbero un successo immediato, mentre durante gli anni
torinesi fu pubblicata ​La Lira. ​Giovan Battista Marino darà poi vita al ​marinismo.​ La lirica
marinista si fonda su alcuni caratteri generali comuni e antipetrarchisti. Il primo, riguarda i
modi di organizzazione dei testi poetici, infatti i poeti barocchi optano per un'organizzazione
tematica. Il secondo carattere riguarda la scelta dei temi e dei motivi 'poetabili', che si allarga
sensibilmente, violando quel principio di selettività che era alla base della poesia
petrarchesca e petrarchista. Inoltre la poesia barocca è dominata da un forte gusto di tipo
realistico, attento anche ai particolari, purché siano in qualche modo carichi di 'meraviglia'.
Infine al canone unico e statico di bellezza femminile petrarchesco, i poeti marinisti
contrappongono una variegata casistica di bellezze (la ricamatrice, la nuotatrice, la sarta, la
«pollarola»), offrendo un modello più dinamico, di figure in azione, vere e proprie fotografie
di donne ritratte in specifici atteggiamenti.

La Lira (Bella schiava)


Il titolo fa riferimento a uno strumento a corde, con ciò infatti, Marino, sottolinea la stretta
parentela fra musica e poesia. La raccolta è strutturata sulla base di una ripartizione per
generi metrici (sonetti, madrigali, canzoni) e per sezioni tematiche (Amorose, Marittime,
Boscherecce…). Il tema amoroso resta quello centrale, ma con una tendenza
all’ampliamento dei motivi tematici. La donna, infatti, è colta in atteggiamenti vari all’interno
della cornice domestica e sono descritti particolari inediti del corpo e del volto.
Giambattista Marino con quest’opera ha compiuto una rivoluzione perché scrive di una
donna schiava di colore di cui egli si è innamorato. Lei non ha un nome che la identifichi.
Marino ne descrive la bellezza, esaltandola perché diversa da quella descritta e scritta
tradizionalmente da altri autori. Quel modello di femminilità che Petrarca aveva tanto
osannato, è soppiantato da un nuovo modello non più biondo, con capelli lunghi e donna
delicata, anzi. La donna che ci presenta Marino è di colore→atto rivoluzionario. È
sicuramente un messaggio quello che Marino vuole trasmettere ovvero l’esigenza di
rinnovamento della poesia. Marino, infatti, propone una poesia smisurata, fatta di
esuberanza, una poesia alternativa costruita intorno alla pelle scura della donna che Marino
trova più affascinante della pelle bianca. L’opera è un sonetto che non dice molto, ma il
poeta ripete la stessa parola che a volte è un sostantivo, altre volte un avverbio ovvero la
parola SOL. Nella poesia non c’è il sentimento, ma c’è il rovello cerebrale dell’autore e
l'accentuazione di una rara bellezza. Il ‘600 è un secolo in cui comincia a diffondersi il
viaggio. Il tutto parte dal 1492 con la scoperta dell’America. Da ciò comincia a diffondersi il
concetto di ESOTISMO (interesse per l’esotico). L’idea di ESOTISMO la ritroviamo in Marino
che celebra questa donna così insolita. Tutto il sonetto è costruito con una serie di ossimori
(mostro leggiadro, alba buia, luce d’inchiostro, arsura di carbone spento, servo di una serva,
laccio bruno e mano candida, notte solare, giorno negli occhi neri).
Notiamo come la donna abbia il potere SCURENTE: il bianco e il colore chiaro della
conchiglia perdono luce e si oscurano vicino a questa pelle scura.

Il Settecento

Si tratta di un'età che vede, in campo artistico, un ritorno dell'elaborazione di gusto


classicistico-razionalista, in molti casi, e specialmente in Italia, improntato a un rifiuto delle
stravaganze e degli eccessi barocchi. Bisogna tuttavia distinguere due fasi piuttosto diverse.
Nella prima, il recupero del classicismo avviene all'insegna di un tentativo di restaurare il
buon gusto da parte di una nuova generazione di intellettuali: l'Accademia dell'Arcadia, che
propugnava il ritorno a una poesia di argomento bucolico, leggera ed elegante. Nel contesto
europeo, domina il ​Rococò​. Si tratta di un movimento basato su un uso raffinato e controllato
di forme sinuose e dalle proporzioni ridotte addirittura minime. Durante la seconda fase, si
sviluppa una nuova corrente di pensiero, l’​Illuminismo,​che si fonda sul libero pensiero, ossia
sulla volontà di servirsi della ragione per una conoscenza senza limitazioni. La cultura
illuministica, favorisce nelle arti una reinterpretazione del Bello, che inizia a essere oggetto
di una disciplina specifica ovvero l’estetica. Inoltre, l’illuminismo vede il richiamo al mondo
greco-latino con l’obiettivo di ricostruire una nuova classicità. Si parla perciò di
Neoclassicismo,​ contraddistinto da un nuovo interesse per le forme armoniche e perfette.
Sotto l’etichetta di Neoclassicismo si possono collocare le produzioni di autori molto diversi
che, sperimentano stili anche in apparenza contrastanti (per esempio in Germania, a fianco
di tendenze neoclassiche, si sviluppa il movimento ​Sturm und Drang​ che sostiene il rifiuto
dei canoni e che sarà il precursore del Rinascimento).In campo economico in Inghilterra ha
avvio la Rivoluzione industriale, cioè la meccanizzazione delle attività produttive, a partire
dai settori tessile e metallurgico mentre in seguito, la Francia, con la Rivoluzione del 1789,
impegnerà l'Europa in una serie di guerre che, cambieranno il volto degli Stati europei e le
coscienze dei popoli. Dalla Rivoluzione saranno riconosciute l’uguaglianza degli uomini e
l'esistenza di diritti e doveri, e dal concetto di 'suddito' si passa a quello di 'cittadino'.
Il Settecento è anche il secolo della nascita delle scienze umane e dello studio del
linguaggio, ciò viene favorito dai viaggi in terre lontane e dal contatto con popoli primitivi.
Il mondo intellettuale europeo è caratterizzato, quindi, dal cosmopolitismo. In corrispondenza
a questi cambiamenti si assiste anche ad una riorganizzazione della conoscenza affidata
soprattutto ai filosofi e pensatori dell’Illuminismo francese che daranno vita alla prima
Encyclopédie d ​ iretta dal filosofo Diderot e dal matematico d’Alembert. Tra la nobiltà e la
grande borghesia si diffonde infine, la moda del ​grand tour​, ovvero dei lunghi viaggi
attraverso l'Europa a scopo culturale e informativo (una delle mete preferite è l’Italia).
Grazie a questi nuovi strumenti culturali e all'organizzazione del sapere, l’intellettuale diventa
espositore e divulgatore delle nuove idee, basate su una conoscenza scientifica e su
un’elaborazione dei dati, a scopo di imporre una nuova concezione del sapere. I maggiori
centri di diffusione dell’Illuminismo in Italia sono Milano e Napoli. A Milano, Pietro Verri fonda
l’Accademia dei Pugni, aperta a problemi di attualità e temi di utilità sociale, nella quale si
discute delle recenti novità. Con il fratello Alessandro, Pietro fonda il giornale ​“Il Caffè”, c​ he
diventa il più importante periodico italiano per la diffusione dell’Illuminismo e delle idee di
riforma sociale. Trai i compagni di Verri negli anni dell’Accademia dei Pugni troviamo Cesare
Beccaria, autore di una delle più famose e importanti opere dell’Illuminismo europeo, “​Dei
delitti e delle pene”​, nella quale dimostra come le torture e la pena di morte siano illegittime
e inutili.
L’Accademia dell’Arcadia​, fondata a Roma nel 1690, prende il nome dalla regione interna
della Grecia, culla della poesia pastorale. Nel corso del Settecento sorgono in tutta Italia
numerose colonie arcadiche che rispondono a quella romana ma godono allo stesso tempo
di ampia autonomia. L’Arcadia, infatti, è la prima accademia letteraria che unisce centri
culturali sparsi per tutta Italia. La poesia arcadica è soprattutto poesia d’occasione e
intrattenimento, il cui genere privilegiato è la lirica. I componimenti sono recitati nel corso
delle riunioni e sono accompagnati dalla musica e dal canto. La recita, è infatti, un elemento
indispensabile alla performance arcadica che si svolge all’interno di una scena piuttosto
stilizzata, che rappresenta boschi, prati e ruscelli abitati da pastori e pastorelle intenti a
cantare le proprie pene d’amore. Tra le forme metriche più amate dagli arcadi, è la
canzonetta anacreontica, composta di strofette di versi brevi da una combinazione molto
libera e dal ritmo molto marcato, spesso accompagnata dalla musica.

UGO FOSCOLO

Ugo Foscolo nato a Zante nel 1778 e primo di quattro fratelli, ha vissuto una vita abbastanza
tormentata, problematica. Suo padre era un medico a Venezia, mentre sua madre viveva a
Zante (all’epoca un possedimento veneziano). Dopo la morte del padre i fratelli vengono
divisi e affidati a diversi parenti. Quando Egli si reca a Venezia patisce molto la lontananza
della terra materna, così come prima sentiva la mancanza della terra paterna. Il tormento
nella sua vita è alimentato dall’allontanamento da entrambi i luoghi a cui teneva
maggiormente, sommato soprattutto dalla morte di suo fratello Giovanni, più piccolo di soli
tre anni. Non è ancora ben chiaro il motivo della sua morte, ma si suppone avesse perso la
dignità, l’onore, avendo contratto i debiti di gioco. Situazione di assoluta sofferenza, in
particolar modo per la madre che rimane sola: con un figlio morto ed uno lontano.

In morte del fratello Giovanni


In Foscolo, ma, soprattutto nell’opera “In morte del fratello Giovanni”, ricorrono diversi temi:
● Tema della lontananza dagli affetti, tema dell’esilio.
● Tema della morte, momento tragico, ma liberatorio (più volte Foscolo si lascia andare a
questo sfogo),
● Tema del sepolcro: forte sentimento che ognuno prova quando qualcuno amato non c’è
più; sentirsi ristorati nei pressi del sepolcro di chi non c’è più. Quando la consolazione di
essere vicini ai propri cari (nelle vicinanze dei loro sepolcri) viene meno o è impedita, la
morte della persona cara diviene intollerabile e, dunque, avviene un allontanamento →
perdita di facilità di comunicazione con le persone care (ciò che prima avveniva attraverso il
sepolcro).
● Tema dell’erranza → girovagare, movimentato dalle vicende → chiara allusione ai miti
classici (Ulisse di Omero ed Enea di Virgilio). Questo tema particolare lo ritroviamo in una
poesia di Catullo, anch’essa scritta in memoria del fratello morto.
A proposito di Catullo, Foscolo ha avuto una formazione classica, che le sue radici gli
imponevano di sapere: traduceva benissimo sia il greco che il latino. Lo stesso Alfieri
ammetteva che la sua formazione non fosse propriamente perfetta come quella di Foscolo.
Foscolo, infatti è stato un uomo coltissimo, richiestissimo dai salotti. Incantava con la sua
cultura, seppur la sua vita sia stata tumultuosa sul piano sentimentale: ha viaggiato per
amori e amicizie.L’opera “In morte del fratello Giovanni” è un testo rappresentativo di
Foscolo, non solo commemorativo della morte del fratello, ma anche un pretesto per parlare
della sua sofferenza per la lontananza.
Nella prima quartina del sonetto, Foscolo si descrive come un uomo esule, sempre in
viaggio. Nel momento in cui smetterà di fuggire sempre, potrà finalmente sedere sulla tomba
del fratello e piangere per la sua morte in età giovanile. La prima quartina fa riferimento al
tema della morte connesso al tema della quiete: Foscolo agogna potersi fermare vicino al
sepolcro del fratello → associazione tra morte del fratello e quiete di Foscolo nel
compiangerlo. Nella seconda quartina il poeta presenta sua madre come se fosse la
Madonna (a cui muore, appunto, il figlio). La madre è, ormai, una donna prossima alla
vecchiaia e si accinge a parlare in solitudine con Giovanni, il figlio morto, di Ugo, il figlio
lontano. A partire dalla prima terzina e a seguire nell’ultima, si avverte il peso della tristezza.
Nella prima terzina Foscolo sente che il destino gli è avverso e sente le preoccupazioni che
durante la vita di Giovanni lo hanno tormentato → sovrapposizione tra i due fratelli: Foscolo
si identifica con suo fratello, le pene vissute dal fratello sono anche sue pene. Infine,
nell’ultima terzina Foscolo non fa altro che auspicarsi di raggiungere il fratello, perché,
ormai, è l’unica cosa che gli resta. Spera, però, che le genti straniere possano ridare alla
loro madre il suo corpo morto, in modo tale che lei possa accogliere il suo secondo figlio
morto (consapevolezza che morirà prima della madre e in terra straniera).
Questo sonetto è assolutamente tragico per due motivi in particolare:
● Triste circostanza della morte del fratello.
● Circostanza agognata: Foscolo spera nella sua morte come finale di una vita fin troppo
difficile.

VITTORIO ALFIERI

Alfieri, nasce nel 1749 ad Asti. È stato un uomo molto forte, con una personalità spiccata e
di origine aristocratica perciò la sua formazione era raffinata. Presenta una certa
insofferenza, testimoniata dalla sua opera “La Tirannide”, nell’essere subordinato a qualcuno
→ non sopportava di sottostare a qualcun altro. Egli viaggiò moltissimo (segno di agiatezza),
frequentò salotti prestigiosi, condusse una vita da diplomatico (vita molto invidiabile,
decisamente differente da quella vissuta da Ugo Foscolo che vive una vita piuttosto sofferta,
problematica, inseguito dai debiti). Alfieri è stato riconosciuto dalla critica per la sua alterigia,
il suo sprizzare potere, non a favore della società, ma solo per dimostrare la sua superiorità.
La sua autobiografia “Vita scritta da esso” è un testo fondativo di una tradizione
autobiografica. Nella sua autobiografia Alfieri si è decisamente fatto conoscere, infatti, ha
ricevuto un giudizio severo dalla critica, per il suo essere un uomo altero. Dalla sua
autobiografia apprendiamo anche che nella sua infanzia ha avuto una carenza di affetti →
infatti ha sempre cercato legami profondi con la sua compagna.
Per certi aspetti Alfieri è un autore che suscita molti altri autori. Il sonetto di Alfieri è
particolare: è un sonetto ​autoritratto​ con il quale l’autore descrive se stesso fornendo dettagli
relativi al suo aspetto fisico e ai suoi aspetti morali.
Alfieri è stato un autore che si è occupato molto anche di teatro: ha scritto dei testi teatrali in
cui è andato a riesumare dei personaggi di notevole importanza, personaggi corrosi, in cui
ritroviamo quell’idea di un vita vissuta in base alle grandi passioni. Il teatro ha sempre avuto
una funzione educativa, una capacità di educare le masse. Nel caso di Alfieri, il suo teatro è
un teatro da camera che concepisce e realizza tra i suoi amici infatti il suo teatro non svolge
la funzione di coinvolgere le masse, di fatti si svolge nei salotti, in maniera del tutto elitaria.

Sublime specchio di veraci detti


Il sonetto “Sublime specchio di veraci detti” è un concentrato della sua vita, una sorta di
elisir, in quanto vuole esattamente descrivere come è stato. Questo sonetto veramente
rappresenta benissimo la sua figura, tanto che Foscolo lo prenderà d’esempio per scrivere
una sua opera (“Solcata ho fronte…”) realizzandola sul modello di Alfieri.
Egli immagina di guardarsi allo specchio e comincia ad analizzare, guardandosi, a partire dai
capelli tutta la sua figura (ciò avviene nelle prime due quartine). Nelle due terzine finali,
invece, descrive se stesso sotto il punto di vista caratteriale, morale. I capelli di Alfieri sono
ora radi (meno folti rispetto a prima → è cresciuto) in fronte, ma di un rosso sanguigno
(connotativo di una personalità spiccata → ne è consapevole e lo enfatizza). Da questa
descrizione capiamo che si descrive da uomo maturo. Alfieri si descrive con una lunga
statura (molto alto) e capo piegato all’ingiù. Quest’ultima caratteristica va in netta
contraddizione con l’enfasi che pone sui suoi capelli rossi: l’enfasi per i capelli rossi indica
grandezza, superiorità VS capo chino, ripiegato che, invece, allude al suo atteggiamento
meditabondo, pensieroso → immagine del SAGGIO che ha grande ingegno e quindi
riferimento all’ UOMO PENSIEROSO (modello fondato da Petrarca). Proseguendo con la
descrizione, notiamo che Alfieri si presenta come un uomo dall’aspetto e proporzioni quasi
perfette (idea di bellezza rara): fisionomia esile, sottile, un viso pallido (allude alla bellezza
femminile → è come se dicesse che ha la pelle nobile più degli altri), i suoi occhi azzurri
sono bellissimi ed ha un buono aspetto, ovvero è una persona animata da buoni sentimenti.
La sua proporzione è perfetta: bel naso, belle labbra, denti messi bene. Il suo volto è più
pallido di quello di un re. Le prime due quartine presentano una descrizione fisica, seppur
terminano entrambe con una frase che allude al carattere di Alfieri come se quest’ultimo
volesse introdurci alla descrizione morale delle prossime due terzine. Nella prima terzina
dice di essere infantile nei comportamenti perché cambia spesso umore, ma è, comunque,
una buona persona ma mai maligno, anche se, a causa delle ingiustizie viste, talvolta è
arrabbiato. Alfieri si dipinge come un uomo tormentato, inquieto, diviso tra le ragioni
dell’intelletto e quelle del cuore. Continua a descrivere la sua instabilità dicendo che a volte
è lieto e altre volte è triste. Fa anche riferimento a due personaggi storici dell’Iliade scritta da
Omero: ​Tersite e Achille​. Tersite è un personaggio spregevole e vile, mentre Achille è
fortemente positivo. Alfieri non dice di essere una volta uno e un’altra volta l’altro, ma dice di
apparire come loro. L’opera si chiude con una saggia conclusione: Alfieri si chiede “Cosa
pensi di essere?” e risponde “Muori e lo saprai. Alfieri è stato un autore che si è occupato
molto anche di teatro: ha scritto dei testi teatrali in cui è andato a riesumare dei personaggi
di notevole importanza, personaggi corrosi, in cui ritroviamo quell’idea di un vita vissuta in
base alle grandi passioni → la vita non deve essere solo tranquilla, ma anche estrema,
vissuta anche in modo tormentato. Il teatro ha sempre avuto una funzione educativa, una
capacità di educare le masse. Nel caso di Alfieri, però, egli compie una scelta particolare: il
suo teatro è un teatro da CAMERA che concepisce e realizza tra i suoi amici; il suo teatro
non svolge la funzione di coinvolgere le masse, di fatti si svolge nei salotti, in maniera del
tutto elitaria → Alfieri fa perdere al teatro la potenzialità di attirare il pubblico. È stato sempre
compromesso dall’idea di élite.
I SONETTI AUTORITRATTI DI FOSCOLO E MANZONI

-​ Foscolo​ è completamente l’opposto di Alfieri anche se mantiene la sua struttura: le prime


due quartine descrivono i tratti fisici mentre le ultime due terzine descrivono i tratti morali.
Foscolo si descrive con la fronte solcata dalle rughe, con occhi incavati (tratti che fanno
pensare ad una persona in difficoltà) ma intensi, con capelli rossi e con il capo chino
(riferimento al modello petrarchesco). Veloci sono i suoi passi così sono veloci i suoi pensieri
e le sue preoccupazioni. Inoltre, afferma che lui è avverso al mondo e al destino. Si descrive
come una persona triste, sola e pensierosa e dunque presenta un’incapacità a stare con gli
altri, questo fa pensare che si tratti di una solitudine cercata e voluta (Solo et
Pensoso=Petrarca). È pronto, iracondo, ricco di vizi e di virtù. A differenza di Ariosto ripone
nella morte la speranza di fama e quiete.

- ​Manzoni​ scrive il suo autoritratto da giovane perciò afferma “giovane d’anni e giovane di
senno”, inoltre, presenta una fronte alta che da sempre indica un uomo d’intelligenza, capelli
bruni e un occhio loquace. Si descrive a volte irato ma mai maligno. Si indica come una
persona che dice esclusivamente la verità, in caso contrario preferisce tacere, in questo
consiste la sua bontà d’animo. È una persona non audace, duro di modi ma di cuore gentile
che ambisce alla gloria e richiama il Dio Apollo che non a caso è il dio della poesia (anni in
cui non è avvenuta ancora la sua cristianizzazione perciò è ancora pagano). Lui disprezza
ma non odia mai, è pronto al perdono e anche lui come Alfieri e Foscolo è mesto e pensoso.
Il sonetto si chiude con una conclusione spensierata in confronto ai due autoritratti
precedenti, infatti Manzoni non menziona la morte ma al contrario afferma che sarà il tempo
e i posteri a rivelare ciò che lui è stato.

ALESSANDRO MANZONI

Introduzione alla Colonna Infame


A partire da una vicenda storica realmente accaduta Manzoni affronta una tematica in
particolare ovvero la percezione della giustizia per gli uomini davanti ad un’amministrazione
non equa. È un testo ambientato nel periodo della peste, quindi nel ‘600, stesso periodo in
cui si sviluppa l’opera “I Promessi Sposi”. Ciò che Manzoni racconta è realmente accaduto e
ce lo racconta affinché si sappia che è stato ingiusto! La peste, purtroppo, è stata una grave
malattia perché il contagio era facile, mieteva parecchie vittime ed era attribuibile a
condizioni igienico-sanitarie davvero approssimative (portava al contagio di massa).
La “colonna infame” è una colonna che Manzoni ci racconta essere stata eretta a Milano in
memoria di un reato addebitato a due personaggi in particolare: Guglielmo Piazza e
Giangiacomo Mora; Manzoni smentisce decisamente il reato che si pensa sia stato
commesso, per questo parla di ingiustizia. Secondo la storia, furono individuati e accusati di
aver contagiato con la peste gli altri cittadini, per questo furono definiti persino untori e la
loro casa fu rasa al suolo. Di fatti, la colonna infame rappresenta la casa distrutta dei due
cittadini milanesi condannati come dei colpevoli. I due furono processati e torturati perché si
pensava che uno dei due contagiatori avesse volutamente contagiato gli altri. Manzoni non
fa altro che sottolineare che la giustizia che fa affidamento alla tortura è una giustizia falsata
(in quanto, sotto tortura, anche il più innocente, per scampare ad essa, direbbe di essere
colpevole → non a caso i due cittadini accusati “confessarono” il falso solo perché indotti alla
tortura). Dopo essere stati torturati, processati, fu pensata un’ulteriore punizione estrema: la
costruzione di una colonna infame situata dove era prima la casa rasa al suolo per indicare
che “qui c’era l’infame”. Questa colonna doveva insegnare agli altri a non commettere quelle
azioni. Dal momento che i due cittadini, sotto tortura, hanno confessato, non si sa bene a chi
credere. Allora Manzoni, per ovviare a questo problema, decide di studiare tutte le carte
processuali e si accorge che, nonostante vi fossero degli elementi che dimostrassero
l’incolpevolezza dei due, i giudici preferirono incolparli per tenere sotto controllo la
situazione. Alla fine, lo studio delle carte processuali serve a Manzoni per rendersi conto,
ancora una volta, dell’infondatezza della pena, dell’assurdità delle punizioni, della tendenza
alla cattiveria spietata delle persone. Purtroppo, alla fine, i due untori muoiono sottoposti alla
“ruota”, dopo essere stati crudelmente torturati. Un altro elemento che ritroviamo nell’opera è
l’iniquità delle passioni. Le due passioni sono in particolare la rabbia ed il timore. La rabbia
porta a trovare necessariamente un colpevole a cui attribuire una pena, il timore, invece,
annebbia la mente e può rendere folli .
Gli elementi presenti nell’introduzione sono:
- il richiamo a Dio come unico vero giudice degli uomini ;
- non è l’unico avvenimento di peste, anzi, ce ne sono stati di altri, infatti, la storia che ci
racconta Manzoni è a titolo d’esempio, ma ogni epoca ha i suoi errori.
- il più grande errore che un uomo possa commettere ovvero l’IGNORANZA → l’essere
ignorante. In questa storia l’ignoranza si presenta sotto diversi aspetti: l’ignoranza per timore
del contagio e l’ignoranza dimostrata dai giudici che non vogliono conoscere la razionalità.
Oggi la colonna infame non esiste più: è stata abbattuta per denunciare l’infamità dei giudici;
si è capito che la colpa era dei giudici. Quest’opera è definita saggio PAMPHLET’ in quanto
pone in discussione un problema. Manzoni ha subito pensato che la storia della colonna
infame dovesse essere una piccola introduzione all’interno del romanzo (I Promessi Sposi),
ma, dato che la storia della colonna è di per sé già troppo pregnante, complicata, decide di
non inserirla nel romanzo e di farla divenire una storia a sé. Il testo mette in gioco elementi
importantissimi come:
1. Libero arbitrio: scelta tra bene e male (nel caso della storia i giudici hanno scelto il male).
2. Follia della folla → cecità, assenza di capacità di discernimento.
3. Malvagità che ha sede nel cuore delle persone.
Attraverso lo studio delle carte processuali Manzoni svela un’altra piaga: IGNORANZA e un
alto livello di SUPERSTIZIONE. I due untori ritenuti colpevoli sono accusati nonostante la
popolazione fosse ignara dei modi in cui avvenisse il contagio e la diffusione della peste che
ha dato per scontato che ciò che dicesse la giustizia fosse vero. Questo testo incrocia tanti
aspetti soprattutto della formazione illuminista di Manzoni. Il senso del testo è molto
complesso perché il linguaggio utilizzato non è letterario, bensì giuridico.
Manzoni si è occupato di giustizia così come altri illuministi: Cesare Beccaria, Parini e Pietro
Verri:
● Cesare Beccaria: Il dialogo di Manzoni è in stretta relazione con un trattato scritto da
Beccaria “Dei delitti e delle pene”.
Manzoni ci tiene molto a differenziare la sua opera da questo trattato, in quanto il suo
dialogo ha altre finalità: non solo dimostrare l’illegittimità della tortura, ma cerca anche di
dimostrare come potesse far comodo al governo diffondere la voce secondo cui gli “untori”
avessero deciso di contagiare volutamente la popolazione di peste, per evitare che ci si
soffermasse sull’incapacità del governo a risolvere la questione peste.
GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, e cresce in un ambiente rigido e reazionario. La
formazione di Leopardi e delegata ad alcuni precettori clericali che addestrano i giovani allo studio
della letteratura e delle scienze. Leopardi coltiva in solitudine letture sterminate e ricerche
approfondite che gli permettono di acquisire una padronanza assoluta nel campo della filologia e di
sviluppare vasti interessi filosofici che poi gli porteranno irreversibili danni alla salute e alla struttura
fisica La grande apertura culturale unita ad un serio culto della glona e del vigore degli antichi, fanno
percepire al giovane l'infelicita, la chiusura e l'oppressione a cui la natura lo costringe.
L'insoddisfazione e il bisogno di nuove espenerze spingono Leopardi ad applicarsi più direttamente
nell'esercizio della poesia. Quando Leopardi otterra di potersi trasferire a Roma, il soggiorno nella
capitale sarà fonte di nuove delusioni da cui emerge una lucida coscienza della propria diversità e
alienazione di fronte al mondo e alla natura. In questo periodo, Leopardi, progetta ed elabora una
serie di prose satiriche e di dialoghi filosofici chiamati Operette morali ai quali affida la proiezione
della sua sconsolata immagine della condizione umana, Leopardi dara vita a tre fasi della sua lirica in
ordine troviamo la stagione pisano-recanatese, il ciclo fiorentino o di Aspasia e infine canti
napoletani. La produzione lirica di Leopardi viene ricondotta a diversi fasi di pessimismo: in ordine il
pessimismo storico il pessimismo individuale e il pessimismo cosmico, Il metro più rilevante è la
canzone libera in cui non troviamo piu la funzione strutturale tipica della tradizione petrarchesco ma
al contrario troviamo un andamento ritmico del testo e del pensiero più libero.

Dialogo della NATURA E DI UN ISLANDESE

Questo dialogo fa parte delle operette morali. Le operette morali contengono dei dialoghi che
spesso presentano una battuta che induce il lettore a percepire la tragicità del contenuto
(pesantezza del messaggio in contrasto con la leggerezza della forma). Queste Operette sono state
scritte intorno al 1824 Sono gli anni in cui Leopardi è passato da una forma di pessimismo storico ad
una forma di pessimismo cosmico. Il Dialogo della natura e dell'islandese è l'operetta che meglio
descrive e rappresenta questo passaggio da un pessimismo ad un altro. Il modello su cui si basa
Leopardi è quello di un antico scrittore greco, Luciano, che scriveva dei dialoghi cosiddetti Dialoghi
Lucianei, altri modelli sono il Dialogo di Platone, il Dialogo di Galileo e il Dialogo di Leon Battista
Alberti. La scelta dell'Islanda fa riferimento al saggio di Voltaire che descrive l'Islanda soprattutto dal
punto di vista antropologico. Questo saggio aveva sbalordito i lettori proprio su come e quanto fosse
difficile vivere in quel luogo. Quindi Leopardi decide di riprendere questo luogo cosi ostico da
abitare. L'Islandese, che Leopardi prende in esame o ignoto, infatti sta a rappresentare uno dei tanti
e l'intera umanità. L'altro dialogante e la natura che si presenta come una donna dalle dimensioni
mastodontiche, massicce che rappresenta fissata, intransigenza e solidità. Un islandese sta
scappando e correndo si imbatte in questo busto di donna che lo guarda con atteggiamento freddo e
distaccato (la stessa cosa era accaduta a Vasco di Gama che non si accorse di aver passato il Capo di
Buona Speranza che gli si manifesto nelle forme di un gigante perché non voleva svolgesse il
viaggio). Questo busto massiccio rappresenta la Natura che domanda all'islandese chi sia e che cosa
sia facendo, dal momento che, trovandosi lungo la linea dell'equatore, la presenza umana é alquanto
bizzarra L'islandese si appresta a dire che sta cercando di fuggire dalla natura e dal destino che essa
ha già scritto. A tal proposito, la Natura rivela bruscamente all islandese di essere la Natura in
persona, la Natura da cui lui non può scappare. L'islandese è parecchio confuso: è proprio da questo
momento che comincia un lungo dialogo. L'Islandese dice alla Natura che le condizioni dell'uomo
sono disperate e non c'è felicità e che l'uomo è sempre perdente dinanzi ad essa. La Natura,
impassibile come sempre, risponde a lui dicendo che la Natura procede meccanicamente e non
prende in considerazione l'uomo perché le forme di vita per la Natura sono tutte uguali. La risposta
della Natura non può che indispettire l'Islandese che dice: Se io organizzo una festa nella mia villa,
mi preoccupo di ospitare per bene le persone invitate; devo trattarle bene perche le ho invitate io.
con questa metafora 'Islandese vuole chiaramente dire alla Natura che, dato che lei ha deciso di far
nascere gli uomini, deve trattarli bene e provvedere a loro. garantendo loro le stesse condizioni.

Il dialogo presenta due possibili finali: secondo alcuni pare che l'Islandese sia stato fagocitato da due
leoni famelici, altri dicono che un fierissimo vento abbia steso l'Islandese erigendo su di lui un
mausoleo di sabbia. In questo dialogo ci sono diversi NON che ci rimanda ad una figura retorica
chiamata litote, Questa continua ripetizione di NON non fa altro che rappresentare la figura della
felicità ESTREMAMENTE RIDIMENSIONATA -> FATTA DI RINUNCE E SENZA DESIDERIO.

La Natura è meravigliosa e terribile al tempo stesso: meravigliosa per i suoi bellissimi paesaggi, ma
terribile perché può portarli alla distruzione. La Natura, in questo caso, non rappresenta il modello
utopico femminile per eccellenza, in quanto ha i capelli neri, gli occhi neri e massiccia, imponente ed
esprime intransigenza, imperturbabilità e fissità. La Natura afferma e sostiene che a lei non interessa
proprio la felicità degli uomini. La risposta dell'islandese non puo che essere amareggiata e addebita
alla Natura l'OBBLIGO DI GARANTIRE DELLE CONDIZIONI ACCETTABILI DI VITA. La Natura risponde
dicendo che la vita è un meccanismo che prevede NASCITA E DISTRUZIONE -> visione meccanicistica.
Alla fine del dialogo ancora una volta la Natura afferma la propria potenza
SECONDO ‘800:
La prospettiva estremamente soggettiva ed individualista che aveva caratterizzato il Romanticismo in
Europa, cede il passo ad un’esigenza di ritorno al realismo, che si realizza in diverse forme come il Verismo
ed il Naturalismo. Una voglia di rivoluzionare, cambiando anche la figura ingombrante del narratore,
rendendo la modalità di narrazione più oggettiva, raccontando un accaduto senza quasi nessun forma di
soggettività. Il 1857, l’anno della pubblicazione de “I Fiori del male”, un libro che scarna la tradizione
poetica, avviando le prime forme di Simbolismo, è anche l’anno in cui Gustave Flaubert pubblica il romanzo
“Madame Bovary”. Questo romanzo è considerato il primo romanzo in cui si registra proprio questa
esigenza di realismo. Raccontando la storia di questa donna, senza troppi fronzoli. Si apre dunque la strada
verso una narrativa più moderna, una narrativa che concepisce il protagonista, mettendone da parte il
tema dell’eroismo. Questa affermazione delle tendenze al Realismo, anche da un punto di vista
cronologico, trova espressione attraverso alcuni grandi autori francesi col Positivismo. Alla base dell’idea di
poetica Naturalista possiamo trovare una vicinanza con le scienze, dal momento che si teorizza che anche la
Letteratura possa essere collegata ad esse, anche tramite il metodo sperimentale, con registrazione di dati,
osservazione ed analisi di essi. Un metodo che rende i personaggi quasi oggetto da laboratorio, rendendoli
pari a ciò che gli scienziati esaminano. Un ribaltamento che ha anche una ambizione, una speranza di poter
intervenire su molti contesti sociali come appunto le altre scienze. Le descrizioni delle vite di periferia, delle
classi sociali terribilmente svantaggiate, vengono descritte con oggettività, distacco e privi di
coinvolgimento emotivo, così come un vero scienziato analizzerebbe un soggetto. Quest’idea della
Letteratura trova una espressione privilegiata nel Romanzo, soprattutto grazie alla possibilità di descrizione
ed analisi, rendendo il romanziere quasi uniformabile alla figura del medico.

GIOVANNI VERGA:
L’Italia, nella seconda metà dell’800 ha concluso un duro e faticoso processo di unificazione. Una volta
completato questo percorso di unificazione dal punto di vista politico, si presentano tutti quei problemi che
prima erano stati messi da parte. L’analfabetismo evidente e i problemi tra classi sociali attraverseranno
quindi la mente di molti scrittori e intellettuali. Un esempio sarà Verga che pur avendo una condizione di
benessere, è conscio dei problemi che attanagliano la sua terra, la Sicilia, che essendo anche distaccata dal
resto della penisola, sente come una condizione di abbandono. Vediamo come questo scrittore ci proponga
nella sua visione Realista, una visione quasi apocalittica, senza un orizzonte di speranza. Novella racchiusa
nella raccolta chiamata “Vita dei Campi”.

– MOVIMENTO SCAPIGLIATI, Manuale di Letteratura;


- Letteratura dell’infanzia, analfabetismo e sfruttamento lavoro minorile;
- Problema della lingua dopo l’unità d’Italia;

“Vita dei Campi” è una raccolta in cui è molto evidente l’intento dello scrittore di dare vita e visibilità a
tutto quell’universo di persone che non ne avrebbero mai avuta, schiacciate in maniera disastrosa dal
destino e senza occasione di riscatto e di salvezza. È una raccolta di novelle in cui Verga si cimenta in una
forma di narrazione più breve, per poi concepire delle narrazioni più longeve, con il ciclo dei vinti. Quando
Verga arriva a convertirsi al Verismo, pur passando prima dallo stadio della Novella, con una scrittura più
breve, ha già avuto a che fare con il romanzo. Descrive le condizioni della sua terra, quasi sentendo un
dovere morale, prendendo parte al meridionalismo, parlando di tutte le carenze, insufficienze e problemi
che il sud stava passando durante quel periodo. Come già detto, nonostante la sua origine aristocratica,
Verga, suggestionato anche dalle serie di documenti parlamentari che lo avevano colpito, elabora la sua
poetica, legandola alle condizioni terribili della Sicilia, rese note dalle inchieste dei parlamentari dei tempi.
Rosso Malpelo rappresenta il condensato di tutta questa suggestione e di queste poetiche che si vengono
ad incrociare, con la rappresentazione reale delle cose, senza filtri. Verga vuole far trasparire quanto sia
impossibile cambiare le cose, quanto la natura sia implacabile e perfida, una natura che governa ogni
aspetto della vita. Con il ciclo dei vinti, lui descrive la natura come una forza che esercita la sua furia non
solo contro il povero contadino lavoratore ma anche contro il benestante aristocratico. Una forza che non
permette a nessuno di essere completamente felice. Le uniche sicurezze che c’erano ai tempi, dunque
erano la famiglia ed il lavoro. Nel caso di Rosso Malpelo però, la sua famiglia ed il suo lavoro sono i nemici,
rendendolo quindi un uomo senza una via di fuga e senza nessun spiraglio di felicità.

ROSSO MALPELO:
Il personaggio di Rosso Malpelo è un personaggio che Verga ci rappresenta come un personaggio malizioso
e cattivo, dai capelli rossi. L’ignoranza del tempo preludeva, a causa di questo colore di capelli. Malpelo
lavora tutta la settimana in una cava di arena con il padre. Questa presenza paterna, nell’universo affettivo
del ragazzo, è l’unica che nella durata di tutto il racconto, possa essere definita una vera figura positiva. La
parte femminile della famiglia non corrisponde nel ragazzo come le sue esigenze di affetto. La madre e la
sorella lo guardano con un senso di preoccupazione e di non contentezza. La sorella lo considera un
ingombro, un pericolo per la riuscita della sua vita, atteggiamento che si risentirà nel ragazzino. La novella
inizia con la messa a fuoco del padre di Rosso Malpelo, morto nella cava in cui lavora, cava in cui lavora per
un compenso misero, anche a causa a questa disgrazia. Vedremo anche un riferimento all’asino, un animale
molto diffuso nella narrativa Verghiana, come simbolo di lavoro e sforzi, nonostante la sua docilità,
rappresentando la condizione umana, quasi un simbolo che vuole anticipare la sofferenza che troveremo
nel racconto. Il padre di Rosso Malpelo muore a causa di un pilastro crollato nella cava, in un sabato in cui
non c’era nessuno sul posto di lavoro. Il figlio risenti molto di questa notizia, data l’importanza della figura
del padre nella sua vita. Rosso Malpelo, cominciando a lavorare nella cava in cui lavorava il padre, lo
turberà molto, rendendolo indisponente e ribelle. A causa di questo suo comportamento, le persone che lo
circondavano lo trattavano male, prendendolo a calci. Malpelo però, riuscirà a fare amicizia con un ragazzo
molto fragile soprannominato Ranocchio. Questo ragazzino però sarà la vittima di Rosso Malpelo, anche a
causa della sua fragilità e docilità. Un giorno Malpelo, percuoterà Ranocchio in maniera così violenta,
causandogli un colpo di tosse da cui fuoriuscirà sangue, causando malore nel povero ragazzo. Nella durezza
di queste vicende, ci sono dei momenti in cui sembra quasi di poter vedere un bisogno di tenerezza, come
quando a Rosso Malpelo, dopo la morte del padre, gli vengono consegnati i suoi oggetti personali.
Ricevendoli, Malpelo inizia ad accarezzarli e ad averne cura, quasi ricordandoli come il padre, unica fonte di
spensieratezza e felicità nella sua vita, ormai svanite. Vedremo come in questa novella, così come in tutte le
novelle di Verga, aleggerà un tema di predestinazione. Malpelo, infatti farà la stessa fine del padre,
esplorando un passaggio nella cava, quasi in segno di sacrificio, morirà senza lasciare traccia. La novella si
chiude con quasi una rappresentazione di un ciclo, Malpelo infatti quasi accetta il destino prescritto dalla
morte del padre, quasi come sinonimo di mancanza di speranza di successo o fuga dalle vite negative del
tempo.
PRIMI ANNI DEL ‘900:
Nei primi anni del ‘900 si determinano delle scoperte ed innovazioni che sconvolgono l’assetto del
sapere positivistico affermato nella seconda metà dell’800. La Prima Guerra mondiale scoppierà
pochi anni più tardi, una guerra che causerà una grande perdita, sia per quanto riguarda la
popolazione, sia economicamente. Questo conflitto genererà un senso di insicurezza e di paura,
segnando e traumatizzando buona parte della popolazione dei paesi coinvolti, inclusi i vincitori.
L’Italia, uscita vincente dalla guerra, sarà comunque segnata da questo malessere che colpirà la
popolazione. Si diffondono in maniera molto significativa delle forme depressive, dettate da
questa insicurezza e instabilità. L’inizio del ‘900 è segnato da questa sovrapposizione tra la Belle
Époque - un’epoca spensierata e mondana, ricca di grandi sperimentazioni artistiche e di grande
sviluppo di nuove forme d’arte - ed il periodo tragico della guerra, con tutte le sue complicazioni.
Questa situazione, così contraddittoria, produce un’esigenza di sperimentazione e distaccamento
dalla tradizione, questo spiega come mai proprio in questi anni si diffondano molte avanguardie,
ovvero movimenti di sperimentazione artistica che contraddistinguono fortemente questa fase e
sono talmente tanto definite che verranno chiamate “Avanguardie Storiche”. Tra le avanguardie
più importanti in Italia troviamo: il Crepuscolarismo (1903) , il Futurismo (1909) ed il
Frammentismo.
Come sempre l’arte figurativa riesce a rappresentare al meglio le situazioni. Prendiamo il quadro di
Picasso “Les demoiselles d’Avignon” ad esempio. Notiamo come in questo quadro, i corpi
femminili, che erano stati le figure dominanti finora, siano quasi irriconoscibili, sezionati in diversi
pezzi. Chiunque guardi questo quadro, può notare una sovrapposizione di tante prospettive
diverse. Queste prospettive possono quindi ricordarci le varie prospettive che si vanno ad
affermare nella fase iniziale del ‘900, non solo nella letteratura, ma anche nella scienza (Teoria
della relatività di Einstein). Questa idea della relatività si diffonderà a macchia d’olio in questo
periodo, causando quasi un “gusto” di provocazione nei confronti della tradizione. Nell’ambito dei
fenomeni delle avanguardie troviamo artisti che diventano quasi irriverenti, come Marcel
Duchamp che espone un orinatoio descrivendolo come una fontana. Quest’opera sarà una prima
forma di protesta contro il capitalismo che si era affermato durante quel periodo. Queste forme di
protesta, ricche di irriverenza si andranno sempre più ad espandersi da questo momento in poi e,
col passare del tempo daranno vita ad un pensiero nazionalista. Il pensiero Nazionalista, unito al
desiderio d’indipendenza da parte di ogni Stato, saranno la principale causa del primo conflitto
mondiale. Notiamo inoltre come i letterati italiani inizino ad avere le prime forme di libertà.
Libertà che permetterà loro di scrivere opere non più comandate da uomini potenti, ma anzi,
saranno opere che descriveranno la quotidianità, raccontando anche di cronaca. Purtroppo, però,
nonostante la libertà nella scrittura, i letterati non avranno “voce”, un potere che rimane ancora ai
ricchi e potenti. Prende inoltre piede l’arte del cinema, che guarda la letteratura come un bacino di
storie, vicende e personaggi che possono essere raccontate tramite le opere cinematografiche.
Questo rapporto tra cinema e letteratura diventerà strettissimo durante il periodo del
Neorealismo, in cui verranno rappresentati romanzi italiani e non solo.

Introduzione a “Mondo di carta” – Luigi Pirandello:


Pirandello si laurea a Bonn, in Germania, scrivendo una tesi sul dialetto di Girgenti. Fin da giovane
lui dedica la sua attenzione nello studio di un tratto umanistico legato al territorio che poi sarà
quasi una costante nella sua poetica. Le sfumature veriste nelle sue opere rimandano all’amicizia
tra Pirandello e Luigi Capuana. Il contrasto tra vita e forma e la differenza tra comicità e umorismo
saranno presenti anche in questo testo. Il protagonista del Mondo di carta è un personaggio che
quasi fa ridere, nonostante il suo disagio e la sua solitudine ed il suo sogno di felicità. Notiamo
questo collegamento tra comicità ed un messaggio quasi “amaro”. Questa novella fa parte della
raccolta “Novelle per un anno”. L’idea di raccogliere una novella per ogni giorno dell’anno venne
percepita nel 1922, progetto rimasto incompiuto a causa della sua morte nel 1936, pubblicato poi
post morte nel 1937 con solo 246 opere totali. Questa raccolta sarà composta da novelle brevi.
Questo tipo di forma narrativa è una forma molto congeniale per Pirandello (Novelle brevi, più
racconti, più “fatti” da raccontare e su cui protestare). Pirandello riesce a “giocare” con la
prospettiva e a porre l’avvenimento centrale della storia ai margini, ponendo l’attenzione su altri
personaggi minori dell’opera.
Tra gli elementi importanti delle opere di Pirandello troviamo:

• Collegamento tra Comicità ed Umorismo – Persona e Personaggio;


• Alienazione del personaggio principale, rendendolo un inetto;
• Situazione di quotidianità interrotta da un evento critico o da una determinata situazione;
• Il pessimismo che pervade l’opera – il raccontare la vita con una visione negativa;

Nel “Mondo di carta” si parla di Valeriano, un uomo che non è in grado di avere rapporti sociali,
anche a causa della sua cecità. Cecità che lo ha “costretto” a crearsi un mondo di carta, grazie alla
sua passione per i libri che ormai non poteva più leggere a causa del suo problema alla vista.

MONDO DI CARTA
Un gridare, un accorrere di gente in capo a Via Nazionale, attorno a due che s'erano presi:
un ragazzaccio sui quindici anni, e un signore ispido, dalla faccia gialliccia, quasi tagliata in
un popone, su la quale luccicavano gli occhialacci da miope, grossi come due fondi di
bottiglia.
Sforzando la vocetta fessa, quest'ultimo voleva darsi ragione e agitava di continuo le mani
che brandivano l'una un bastoncino d'ebano dal pomo d'avorio, l'altra un
libraccio di stampa antica.
Il ragazzaccio strepitava pestando i piedi sui cocci d'una volgarissima statuetta di terracotta
misti a quelli di gesso abbronzato della colonnina che la sorreggeva.
Tutti attorno, chi scoppiava in clamorose risate, chi faceva un viso lungo lungo e chi pietoso:
e i monelli, attaccati ai lampioni, chi abbajava, chi fischiava, chi strombettava sul palmo della
mano.
— È la terza! è la terza! — urlava il signore. — Mentre passo leggendo, mi para davanti le
sue schifose statuette, e me le fa rovesciare. È la terza! Mi dà la caccia!
Si mette alle poste! Una volta al Corso Vittorio; un'altra a Via Volturno; adesso qua.
Tra molti giuramenti e proteste d'innocenza, il figurinajo cercava anch'esso di farsi ragione
presso i piú vicini:
— Ma che! È lui! Non è vero che legge! Mi ci vien sopra! O che non veda, o che vada
stordito, o che o come, fatto si è…
— Ma tre? Tre volte? — gli domandavano quelli tra le risa.
Alla fine, due guardie di città, sudate, sbuffanti, riuscirono tra tutta quella calca a farsi largo;
e siccome l'uno e l'altro dei contendenti, alla loro presenza, riprendevano a gridare piú forte
ciascuno le proprie ragioni, pensarono bene, per togliere quello spettacolo, di condurli in
vettura al piú vicino posto di guardia.
Ma appena montato in vettura, quel signore occhialuto si drizzò lungo lungo sulla vita e si
mise a voltare a scatti la testa, di qua, di là, in sú, in giú; infine s'accasciò, aprí il libraccio e vi
tuffò la faccia fino a toccar col naso la pagina; la sollevò tutto sconvolto, si tirò sulla fronte gli
occhialacci e rituffò la faccia nel libro per provarsi a leggere con gli occhi soltanto; dopo tutta
questa mimica cominciò a dare in smanie furiose, a contrarre la faccia in smorfie orrende, di
spavento, di disperazione:
— Oh Dio. Gli occhi. Non ci vedo piú. Non ci vedo piú!
Il vetturino si fermò di botto. Le guardie, il figurinajo, sbalorditi, non sapevano neppure se
colui facesse sul serio o fosse impazzito; perplessi nello sbalordimento, avevano quasi un
sorriso d'incredulità sulle bocche aperte.
C'era là una farmacia; e, tra la gente ch'era corsa dietro la vettura e l'altra che si fermò a
curiosare, quel signore, tutto scompigliato, cadaverico in faccia, sorretto per le ascelle, vi fu
fatto entrare.
Mugolava. Posto a sedere su una seggiola, si diede a dondolare la testa e a passarsi le
mani sulle gambe che gli ballavano, senza badare al farmacista che voleva osservargli gli
occhi, senza badare ai conforti, alle esortazioni, ai consigli che gli davano tutti: che si
calmasse; che non era niente; disturbo passeggero; il bollore della collera che gli aveva dato
agli occhi. A un tratto, cessò di dondolare il capo, levò le mani, cominciò ad aprire e chiudere
le dita.
— Il libro! Il libro! Dov'è il libro?
Tutti si guardarono negli occhi, stupiti; poi risero. Ah, aveva un libro con sé? Aveva il
coraggio, con quegli occhi, di andar leggendo per istrada? Come, tre statuette? Ah sí? e chi,
chi, quello? Ah sí? Gliele metteva davanti apposta? Oh bella! oh bella!
— Lo denunzio! — gridò allora il signore, balzando in piedi, con le mani protese e
strabuzzando gli occhi con scontorcimenti di tutto il volto ridicoli e pietosi a un tempo. — In
presenza di tutti qua, lo denunzio! Mi pagherà gli occhi! Assassino! Ci sono due guardie qua;
prendano i nomi, subito, il mio e il suo. Testimoni tutti! Guardia, scrivete: Balicci. Sí, Balicci;
è il mio nome. Valeriano, sí, via Nomentana 112, ultimo piano. E il nome di questo
manigoldo, dov'è? è qua? lo tengano! Tre volte, approfittando della mia debole vista, della
mia distrazione, sissignori, tre schifose statuette. Ah, bravo, grazie, il libro, sí, obbligatissimo!
Una vettura, per carità. A casa, a casa, voglio andare a casa! Resta denunziato.
E si mosse per uscire, con le mani avanti; barellò; fu sorretto, messo in vettura e
accompagnato da due pietosi fino a casa.
Fu l'epilogo buffo e clamoroso d'una quieta sciagura che durava da lunghissimi anni. Infinite
volte, per unica ricetta del male che inevitabilmente lo avrebbe condotto alla cecità, il medico
oculista gli aveva detto di smettere la lettura. Ma il Balicci aveva accolto ogni volta questa
ricetta con quel sorriso vano con cui si risponde a una celia troppo evidente.
— No? — gli aveva detto il medico. — E allora séguiti a leggere, e poi mi lodi la fine! Lei ci
perde la vista, glielo dico io. Non dica poi, se me lo credevo! Io la ho avvertita!
Bell'avvertimento! Ma se vivere, per lui, voleva dir leggere! Non dovendo piú leggere, tanto
valeva che morisse.
Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella manía furiosa. Affidato
da anni e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe
potuto campare sul suo piú che discretamente, se per l'acquisto dei tanti e tanti libri che
gl'ingombravano in gran disordine la casa, non si fosse perfino indebitato. Non potendo piú
comprarne di nuovi, s'era dato già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno
tutti quanti dalla prima all'ultima pagina. E come quegli animali che per difesa naturale
prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, cosí a poco a poco era
divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli. Discesa
a grado a grado tutta la scala della miopia, ormai da alcuni anni pareva che i libri se li
mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli.
Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujo,
non s'illuse piú neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena poté uscire di
camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese,
lo aprí, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in
vettura; e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro
per l'ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lí, tutto il suo
mondo! E non poterci piú vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la
memoria!
La vita, non l'aveva vissuta; poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto,
per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che
leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco
anche per quella rappresentata nei libri che non poteva piú leggere.
La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua
e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte
s'era proposto di mettere un po' d'ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per
materie, e non l'aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l'avesse fatto, ora, accostandosi
all'uno o all'altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno
confuso, meno sparpagliato.
Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si
incaricasse di quel lavoro d'ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinotto
saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva
riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere,
quel giovanotto, che – via – doveva essere uscito di cervello quel pover'uomo, se per ogni
libro che gli nominava, eccolo là, saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora,
palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.
— Professore, — sbuffava il giovanotto. — Ma cosí badi che non la finiamo piú!
— Sí, sí, ecco, ecco, — riconosceva subito il Balicci.
— Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l'ha messo. Bene, bene qua, per
sapermi raccapezzare.
Erano per la maggior parte libri di viaggi, d'usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze
naturali e d'amena letteratura, libri di storia e di filosofia.
Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il bujo gli s'allargasse intorno in
tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase
come rimbozzolito a covarlo.
Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le
giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse
dentro. Scene, episodii, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta,
spiccata evidenza; rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli
erano rimasti piú impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla
punta dell'alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura
con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a
un erto viale, su lo sfondo di fiamma d'un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le
sacche del fieno alla testa.
Ma non poté reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse
voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com'era veramente e non come lui in
confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli
capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità.
Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza requie, e anche per il modo di parlare dava
l'immagine d'una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e
s'arrestasse d'un subito, con furioso sbàttito d'ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.
Irruppe nello studio, gridando il suo nome:
— Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già… me lo… sicuro, Balicci, c'era scritto sul giornale…anche
su la porta…Oh Dio, per carità, no! guardi, professore, non faccia cosí con gli occhi. Mi
spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.
Questa fu la prima entrata. Non se n'andò. La vecchia domestica, con le lagrime agli occhi,
le dimostrò che quello era per lei un posticino proprio per la quale.
— Niente pericoli?
Ma che pericoli! Mai, che è mai? Solo, un po' strano, per via di quei libri. Ah, per quei libracci
maledetti, anche lei, povera vecchia, eccola là, non sapeva piú se fosse donna o
strofinaccio.
— Purché lei glieli legga bene.
La signorina Tilde Pagliocchini la guardò, e appuntandosi l'indice d'una mano sul petto:
— Io?
Tirò fuori una voce, che neanche in paradiso.
Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e
volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa
quanto superflua, il pover'uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come
per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.
— No! Cosí no! Cosí no! per carità! — si mise a gridare.
E la signorina Pagliocchini, con l'aria piú ingenua del mondo:
— Non leggo bene?
— Ma no! Per carità, a bassa voce! Piú bassa che può! quasi senza voce! Capirà, io leggevo
con gli occhi soltanto, signorina!
— Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma
scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche delle dita sul libro). Non suona! Sordo.
Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.
Il Balicci s'interiva pallido:
— Le proibisco!
— Ma no scusi! Teme che glielo dia davvero? Non glielo do! Dicevo per farle avvertir subito
la differenza. Ecco, mi provo a leggere quasi senza voce. Badi però che, leggendo cosí io
fischio l'esse, professore!
Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Ma comprese che, sú per giú,
sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce,
che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.
— Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.
La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d'occhi.
— Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?
— Sí, ecco, per conto suo.
— Ma grazie tante! — scattò, balzando in piedi, la signorina. — Lei si burla di me? Che
vuole che me ne faccia io, dei suoi libri, se lei non deve sentire?
— Ecco, le spiego, — rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. — Provo piacere
che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma
gliel'ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che
qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento,
le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà… oh, basterà un cenno… e io la
seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!
— Ma io la prego di credere, professore, che la mia voce è bellissima! — protestò, sulle
furie, la signorina.
— Lo credo, lo so — disse subito il Balicci. — Non voglio farle offesa. Ma mi colora tutto
diversamente, capisce? E io ho bisogno che nulla mi sia alterato; che ogni cosa mi rimanga
tal quale. Legga, legga. Le dirò io che cosa deve leggere. Ci sta?
— Ebbene, ci sto, sí. Dia qua!
In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde
Pagliocchini volava via dallo studio e se n'andava a conversare di là con la vecchia
domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento
che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: — Bello, eh? —
oppure: — Ha voltato? —
Non sentendola nemmeno fiatare, s'immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che
non gli rispondesse per non distrarsene.
— Sí, legga, legga… — la esortava allora, piano, quasi con voluttà.
Talvolta, rientrando nello studio, la signorina Pagliocchini trovava il Balicci coi gomiti su
bracciuoli della poltrona e la faccia nascosta tra le mani.
— Professore, a che pensa?
— Vedo… — le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi,
riscotendosi con un sospiro: — Eppure ricordo che erano di pepe!
— Che cosa, di pepe, professore?
— Certi alberi, certi alberi in un viale… Là, veda, nella terza scansia, al secondo palchetto,
forse il terz'ultimo libro.
— Lei vorrebbe che io le cercassi, ora, questi alberi di pepe? — gli domandava la signorina,
spaventata e sbuffante.
— Se volesse farmi questo piacere.
Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s'irritava alle raccomandazioni di far piano.
Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in
automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in
quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di
Norvegia, non seppe piú tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che
descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a
cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:
— Ma che! ma che! ma che! — proruppe su tutte le furie. — Io ci sono stata, sa? E le so dire
che non è com'è detto qua!
Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d'ira e convulso:
— Io le proibisco di dire che non è com'è detto là! — le gridò, levando le braccia. —
M'importa un corno che lei c'è stata! È com'è detto là, e basta! Dev'essere cosí, e basta! Lei
mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può piú stare qua! Mi lasci solo! Se ne
vada!
Rimasto solo, Valeriano Balicci, dopo aver raccattato a tentoni il libro che la signorina aveva
scagliato a terra, cadde a sedere su la poltrona; aprí il libro, carezzò con le mani tremolanti
le pagine gualcite; poi v'immerse la faccia e restò lí a lungo, assorto nella visione di
Trondhjem con la sua cattedrale di marmo, col cimitero accanto, a cui i devoti ogni sabato
sera recano offerte di fiori freschi – cosí, cosí com'era detto là. – Non si doveva toccare. Il
freddo, la neve, quei fiori freschi, e l'ombra azzurra della cattedrale. – Niente lí si doveva
toccare. Era cosí, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta.
Tutto il suo mondo.
Primo dopoguerra:
Durante il secondo periodo, tutto ciò che è accaduto nella prima fase porta delle conseguenze. Tutta quella
tempesta di avanguardie storiche, tutta quella grande esigenza di sperimentare quelle nuove forme, crea
anche un’altra esigenza di ritorno all’ordine, di tradizione. Tradizione ormai persa a causa della volontà
degli artisti di scegliere delle forme nuove. Dalla fine della Prima Guerra mondiale (1918) all’inizio della
seconda, ci troviamo a registrare una sorta di esigenza a ritornare alla tradizione più classica, quasi un
nuovo ritorno al classicismo, un classicismo paradossale. Questo classicismo è un classicismo che guarda
sempre a determinati modelli della tradizione poetica ma non dismette l’esigenza di comunque cercare
strade nuove. È un richiamo alla tradizione, con un richiamo alla modernità ed innovazione. La “Ronda” è
una rivista in cui vennero racchiusi tutti i letterati che cercarono di riprendere i modelli classicisti. In questa
fase di intermezzo tra le due guerre, ci sono tante istanze e problemi: l’incalzare del Fascismo che
comprime molto la libertà degli intellettuali fino quasi ad annientarla, generando così una produzione
letteraria più vicina al regime, ricca di propaganda. Dall’altro lato si genera però una forma di opera di
opposizione, sia esplicita (con tutti i problemi derivati) e sia implicita, come il movimento dell’Ermetismo.
L’Ermetismo riduceva le opere in qualcosa di quasi criptato, che però annidavano molti significati. È un
fenomeno fortemente legato alle vicende politiche che in quel tempo si stavano svolgendo, è come una
sorta di barriera che certi poeti utilizzano per distanziarsi e difendersi, continuando a scrivere le loro opere.
Negli anni ’20 il fenomeno del Fascismo, con la marcia su Roma nel ’22 e la sua presa di potere, è un evento
che produce molti scossoni. Anche Croce, nel sua manifesto antifascista, esprime la sua opinione riguardo
al regime e alla pressione che questo regime causava su tutti gli intellettuali. Durante questo periodo si
svilupperanno molti romanzi gialli e romanzi rosa, erotici. Solitamente in questi romanzi rosa, nonostante
l’argomento trattato fosse l’erotismo, venivano comunque inculcate idee politiche colonialiste, ponendo
l’uomo al potere nella storia e ponendo come simbolo erotico la donna di colore, che rappresentava un
simbolo di non solo erotismo ma anche di esoticità. In questo ventennio la poesia viene prodotta in grande
quantità e qualità, anche grazie al fenomeno dell’Ermetismo. L’Ermetismo finisce con l’essere un fenomeno
talmente tanto rappresentativo di questo clima represso, che induce i poeti a fare sempre di più un passo
nella direzione della contrazione del significante, che verrà poi rappresentato come la poetica più
importante del ‘900. Alcuni studiosi hanno individuato nell’Ermetismo una linea novecentista,
contrapposto agli altri fenomeni artistici che erano nati in quel tempo, più realisti e diretti, opposti alle
caratteristiche delle opere ermetiche (pag. 122 del Manuale di letteratura Contemporanea). Un autore
antifascista e anti-novecentista importante è Carlo Levi, che da Torino venne trasferito in Lucania perché
considerato un “problema” dagli esponenti fascisti.

Per quanto riguarda la poesia ermetica invece, un autore importante è Salvatore Quasimodo, venne
accusato di distaccarsi da tutto ciò che stava accadendo e di non denunciare i disagi di quel tempo, a causa
della cripticità e difficoltà del capire il messaggio nelle sue poesie. Nelle “Fronde dei Salici”, Quasimodo
rappresenterà l’Italia del dopoguerra come un paese distrutto, in cui il dolore faceva da padrone.

I rapporti tra le letterature italiane e quelle straniere erano molto limitati ai tempi, soprattutto a causa del
Nazionalismo del tempo, che ne controllava la diffusione. Non mancheranno però delle traduzioni delle
opere straniere, soprattutto le letture americane, data anche la considerazione che gli autori italiani
avevano dell’America, considerandola una terra più sviluppata.

Introduzione ad Amai - Umberto Saba:


Saba è individuato all’unanimità come un autore chiave dell’anti-novecentismo. Il suo richiamo alla
tradizione è forte, tant’è che chiama la sua raccolta “Canzoniere”. Le sue poesie saranno più “facili” da
comprendere rispetto alle opere ermetiche, ciò non significa che avranno un significato minore o meno
importante. Sulla scia del modello Petrarchesco, anche lui ripenserà molto alle sue poesie, riflettendo sul
loro significato e modificandole. La prima edizione del Canzoniere di Saba è del 1921, la seconda edizione
verrà rilasciata addirittura 20 anni dopo, nel ’45. Le ultime due edizioni saranno postume, pubblicate nel ’61
e nel ’65. Al contrario degli altri poeti che non trascrivevano il vero, a volte esagerando, Saba è riconosciuto
come un poeta sincero. Lui esprimeva nella poesia la realtà più vera, tanto da parlare liberamente della sua
omosessualità nonostante il suo matrimonio con una donna. È inoltre un autore che ha fatto ricorso alla
terapia psicoanalitica, per venire a capo di tutti i pensieri che lo tormentavano, trascrivendoli poi nelle sue
opere. Saba riconosceva nel lettore la figura dell’amico, difatti lui non voleva fama e notorietà ma anzi
voleva raccontare dei suoi pensieri come l’avrebbe raccontato ad un amico. Il suo classicismo verrà infatti
considerato un classicismo socievole (pag. 177 del Manuale di letteratura Contemporanea).

Tra gli elementi più importanti delle opere di Saba troviamo:

• Scissione dell’io;
• Tema dell’infanzia (infanzia mancata)
• Tema erotico (moglie che considera mamma);
• Vita popolare;

AMAI

Amai trite parole che non uno


osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica, difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo,


quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona


carta lasciata al fine del mio gioco.
PARAFRASI:
Lui ci parla di come lui ha creato la sua poesia, parlando tramite il suo cuore, simbolo molto
importante per Saba:
Lui parla di quanto lui ami le parole frammentate che nessuno usava (i poeti avanguardisti
usavano parole nuove) e di quanto la rima baciata lo incanti, nonostante sia stata usata molto in
passato, quindi difficile da usare.
Parla poi del contenuto della sua poesia, descrivendola come una poesia che tratta di verità, che
riportava in superfice il vero che ormai giaceva al fondo, come se fosse un sogno dimenticato. Il
dolore aiuta a farci capire la verità ed il cuore, tramite questo dolore, comprende la verità
facendone un tutt’uno.
Nell’ultima strofa il tempo del verbo cambia, diventando un presente. Quindi dalle scelte fatte da
giovane, parla al presente riferendosi al lettore. Parla di quanto lui ami il lettore che ascolta ciò
che lui ha da dire e di quanto lui sia riconoscente alla poesia, che gli ha permesso di vivere in modo
felice nonostante la scissione del suo io dovuta a quest’ultima.
- Questa poesia è scritta quando Saba è ormai maturo, tant’è che è stata rilasciata nella
versione del ’46 del suo Canzoniere. Nell 1911 (anno in cui il Futurismo prendeva piede in
Italia) però aveva scritto un testo, che inviò ad una rivista che lo ignorò e cestinò non
ritenendolo interessante. Il testo era chiamato “Quello che resta da fare ai poeti”, scrive
con chiarezza ai poeti, dicendo che l’unica cosa che rimane da fare ai poeti è scrivere una
poesia onesta. Nonostante la poesia sia un’arte in cui la finzione fa da padrona, Saba porta
il termine “onestà” in questo ambito, facendo degli esempi. Il primo esempio sarà su
D’Annunzio, la cui poesia era una poesia non sincera, il secondo esempio sarà su Manzoni,
in questo caso però rappresentandolo come un poeta onesto. Parlando infatti degli “Inni
Sacri” rappresenterà l’essere religioso di Manzoni come qualcosa che lo rendeva sincero,
nonostante non siano opere facili da leggere.
LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE – Italo Calvino:
Questo testo, nonostante si ponga su una situazione molto triste e negativa, manda un messaggio
“illuminante”. Calvino, infatti, grazie al suo attivismo, alla sua grande fiducia nel progresso e alla sua
positività, verrà visto come l’illuminista del ‘900.

Questa storia raccontata è una storia vissuta in parte da Calvino nella realtà durante una giornata di lavoro
come rappresentante di lista, che però modificherà donando alla storia un nuovo protagonista. Ai tempi
Calvino era un rappresentante del partito comunista dal quale poi più avanti si distaccherà nel 1956.

Alcuni partiti erano in forte concorrenza. C’era paura che la Democrazia Cristiana si agevolasse nei voti
utilizzando un sistema di calcolo e valutazione dei voti a suo favore, così da sbaragliare la concorrenza.

Questa grande rivalità tra alcuni partiti spinge Calvino a controllare l’andamento delle votazioni,
rappresentando la lista comunista, siamo nel 1953.

Essendo in un seggio particolarmente delicato, allocato in un ospedale psichiatrico di Torino – il Cottolengo;


i comunisti - tra cui anche Calvino - avevano timore che, approfittando della incapacità di intendere e di
volere di determinati pazienti, il personale che assisteva questi pazienti, accompagnando i pazienti a votare,
potesse forzarne la volontà cambiando i risultati.

Calvino, essendo un rappresentante di lista, una volta presa visione di quello che accadeva in quel
grandissimo istituto, rimane sconcertato perché passano in second’ordine tutte le sue ragioni e i suoi
sospetti e le sue preoccupazioni. Prendono la scena altro tipo di considerazioni: un’enorme ammirazione
per tutte quelle suore che offrivano assistenza ai pazienti. Questo avvenimento rompe i suoi schemi.
Essendo partito da un presupposto agguerrito, si rende conto di quanto queste donne offrano amore
materno nei confronti dei poveri pazienti. Questa positività in un ambiente così auspico e negativo, lo
scombussola. Questa visione lo destabilizzerà, facendogli capire quanto tutto sia gestito da una potenza che
è più forte di qualunque volontà dell’uomo, la natura. Nella sua visione laica, torna a riprendere la scena il
dominio della natura, come responsabile di tutto.

Vedendo tutta questa sofferenza, in questo panorama infernale e di sofferenza, lui riconosce che per
fronteggiare quella potenza così cinica della natura, non serva tanto la ragione quanto il sentimento. Il
sentimento in questo caso sarà rappresentato dallo spirito amorevole di queste donne dedite a Dio che
lavoravano in questo istituto. Loro lo fanno non perché gli sia capitato ma per scelta. Proprio questa
capacità di scelta di convertire una vita che poteva essere una vita normale, in una vita caritatevole, manda
quasi in tilt Calvino.

L’autore rifletterà molto su questo avvenimento, quasi come se avesse scoperto un mondo nuovo.
Esattamente 10 anni dopo, nel 1963, decide di pubblicare un racconto chiamato “La giornata di uno
scrutatore”, già nel titolo c’è una piccola deviazione della realtà. Nella realtà lui, infatti fu rappresentante di
lista. Al contrario del ruolo dello scrutatore, il rappresentante aveva un ruolo molto più importante e
militante in quella situazione, opera quindi un piccolo slittamento. Darà inoltre al protagonista un nome
molto significativo: Amerigo Ormea. Questo nome fa riferimento alla scoperta dell’America, collegando
appunto la scoperta di questo amore inaspettato in un ambiente così infernale. Tutto questo racconto si
svolgerà in un unico giorno, di domenica: dall’alba fino a sera. Un messaggio importante che traspare dal
racconto è di quanto la linea del cuore è l’unica cosa che può contrapporsi alla potenza della natura.
LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE – capitolo 12:

Siamo nel capitolo 12°, nella parte finale della storia, in cui si racchiude la parte più significativa del testo.
Amerigo, cammina in questi grandi cameroni con dei letti uno di seguito all’altro con sopra dei pazienti
ricoverati. Questi pazienti verranno descritti come delle persone dalla forma innaturale, che producono
suoni terribili. Verrà colpito da una scena in cui uno dei pazienti si trova con suo padre, seduto sul letto su
cui era sdraiato. Era come se entrambi avessero bisogno dell’altro: il figlio, che per natura è nato in quello
stato ed il padre che lo ha accettato, nonostante tutto. Tra i due il legame era fortissimo, di tanto in tanto il
padre gli poneva una mandorla, facendogliela assaporare e, tramite il gusto dolce della mandorla, gli
donava felicità – ammiccando un piccolo sorriso - forse l’unica fonte di felicità in quell’ambiente così triste e
cupo. Questa scena colpirà Amerigo, che nonostante fosse giunto in quell’ambiente con fare agguerrito,
dati i suoi sospetti sulla situazione del seggio, vede una scena che lo fa quasi calmare e pensare.

TESTO:

Un certo numero degli iscritti a votare del «Cottolengo» erano malati che

non potevano lasciare il letto e la corsia. La legge prevede in questi casi che

tra i componenti del seggio se ne scelgano alcuni per costituire un «seggio

distaccato» che vada a raccogliere i voti dei malati nel «luogo di cura» cioè

là dove si trovano. Si misero d'accordo per formare questo «seggio

distaccato» con il presidente, il segretario, la scrutatrice in bianco e

Amerigo. Il «seggio distaccato» aveva in dotazione due scatole, una con le

schede da votare e l'altra per raccogliere le schede votate, un fascicolo

speciale come registro e l'elenco dei «votanti nel luogo di cura».

Presero le cose e andarono. Li guidava su per le scale un ricoverato di

quelli «bravi», un giovanotto piccolo e tozzo che, nonostante i brutti

lineamenti. la zucca rapata e subito sotto i sopraccigli spessi e uniti, si

dimostrava all'altezza del suo compito e premuroso, tanto che pareva finito

lì per sbaglio, per via della faccia. - In questo reparto ce n'è quattro -. Ed

entrarono.

Era un camerone lungo e si andava tra due bianche file di letti. L'occhio,

uscendo dall'ombra della scala, provava un senso d'abbagliamento,

doloroso, che forse era soltanto una difesa, quasi un rifiuto di percepire in

mezzo al bianco d'ogni monte di lenzuola e guanciali la forma di colore

umano che ne affiorava; oppure una prima traduzione, dall'udito nella vista

dell'impressione d'un grido acuto, animale, continuo ghiii... ghiii... ghiii...

che si levava da un qualche punto della corsia, a cui rispondeva a tratti da


un altro punto un sussultare come di risata o latrato: gaa! gaa! gaa! gaa!

Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e

bocca aperta in un fermo riso, d'un ragazzo a letto, in camicia bianca,

seduto, ossia che spuntava col busto dall'imboccatura del letto come una

pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c'era

segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-piantapesce (Fino a dove un essere
umano può dirsi umano? si chiedeva Amerigo)

si muoveva su e giù inclinando il busto a ogni «ghiii... ghiii...» E il «gaa!

gaa!» che gli rispondeva era d'uno che nel letto prendeva meno forma

ancora, eppure protendeva una testa boccuta, avida, congestionata, e doveva

avere braccia - o pinne - che si muovevano sotto le lenzuola in cui era come

insaccato, (fino a che punto un essere può dirsi un essere, di qualsiasi

specie?), e altri suoni di voci gli facevano eco, eccitate forse dall'apparire di

persone nella corsia, e anche un ansare e gemere, come d'un urlo che stesse

per levarsi e subito si soffocasse, questo d'un adulto.

Erano, in quell'infermeria, parte adulti - pareva - parte ragazzi e bambini,

se si doveva giudicare dalle dimensioni e dà segni, come i capelli o il colore

della pelle, che contano tra le persone di fuori. Uno era un gigante con la

smisurata testa da neonato tenuta ritta dai cuscini: stava immobile, le

braccia nascoste dietro la schiena, il mento sul petto che s'alzava in un

ventre obeso, gli occhi che non guardavano nulla, i capelli grigi sulla fronte

enorme, (un essere anziano, sopravvissuto in quella lunga crescita di feto?),

impietrito in una tristezza attonita.

Il prete, quello col basco, era già nella corsia, ad aspettarli, anche lui con

in mano un suo elenco. Vedendo Amerigo si fece scuro in viso. Ma

Amerigo in quel momento non pensava più all'insensato motivo per cui si

trovava lì; gli pareva che il confine di cui ora gli si chiedeva il controllo

fosse un altro: non quello della «volontà popolare», ormai perduto di vista

da un pezzo, ma quello dell'umano.

Il prete e il presidente s'erano avvicinati alla Madre che dirigeva quel

reparto, coi nomi dei quattro iscritti a votare, e la Madre li indicava. Altre

suore venivano portando un paravento, un tavolino, tutte le cose necessarie


per fare le elezioni lì.

Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse

già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto,

vestito d'un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall'altra parte

del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella

domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale

ma in qualche modo - pareva - rattrappito nei movimenti. Il padre

schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il

figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava

masticare.

I ragazzi-pesce scoppiavano nei loro gridi, e ogni tanto la Madre si

staccava dal gruppo di quelli del seggio per andare a zittire uno troppo

agitato, ma con scarso esito. Ogni cosa che accadeva nella corsia era

separata dalle altre, come se ogni letto racchiudesse un mondo senza

comunicazione col resto, salvo per i gridi che s'incitavano uno con l'altro, in

crescendo, e comunicavano un'agitazione generale, in parte come un chiasso

di passeri, in parte dolorosa, gemente. Solo l'uomo con la testa enorme stava

immobile, come non sfiorato da nessun suono.

Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di

membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una

paralisi. Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa e in qualche

modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio.

Non negli occhi: il figlio aveva l'occhio animale e disarmato, mentre quello

del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano

voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da

guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo

teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o

forse ancor di più, in qualche modo affascinato.

Intanto gli altri facevano votare uno in un letto. In questo modo: gli

mettevano intorno il paravento, col tavolino dietro, e per lui la suora, perché

era paralitico, votava. Tolsero il paravento, Amerigo lo guardò: era una

faccia viola, riversa, come un morto, a bocca spalancata, nude gengive,


occhi sbarrati. Più che quella faccia, nel guanciale affossato, non si vedeva;

era duro come un legno, tranne un ansito che gli fischiava al fondo della

gola.

Ma cosa hanno il coraggio di far votare? si domandò Amerigo, e solo

allora si ricordò che toccava a lui impedirlo.

Già rizzavano il paravento a un altro letto. Amerigo li seguì. Un'altra

faccia glabra, tumida, irrigidita a bocca aperta e storta, coi bulbi degli occhi

fuori delle palpebre senza ciglia. Questo però era inquieto, smanioso.

- Ma c'è un errore! - disse Amerigo, - come può votare, questo qui?

- Eppure, c'è il suo nome, Morin Giuseppe, - fece il presidente. E al prete:

- è proprio lui?

- Eh, qui c'è il certificato, - disse il prete: - impedimento motorio agli arti.

Madre, è lei, vero, che l'aiuta?

- Ma sì, ma sì, povero Giuseppe! - fece la Madre.

Quello sobbalzava come colto da scosse elettriche, gemendo.

Amerigo, ora toccava a lui. Si strappò con sforzo dai suoi pensieri, da

quella lontana zona di confine appena intravista - confine tra che cosa e che

cosa? - e tutto quello che era al di qua e al di là sembrava nebbia.

- Un momento, - disse, con una voce senz'espressione, sapendo di ripetere

una formula, di parlare nel vuoto, - è in grado l'elettore di riconoscere la

persona che vota per lui? È in grado di esprimere la sua volontà? Ehi, dico a

lei, signor Morin: è in grado?

- La solita storia, - disse il prete al presidente, - la Madre che sta qui con

loro giorno e notte, gli chiedono se la conosce... - e scosse il capo, con una

risatina.

Anche la Madre sorrise, ma d'un sorriso che era per tutti e per nulla. Il

problema d'esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli

venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del

contadino venuto a passare la domenica al Cottolengo per fissare negli

occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi

assistiti, il bene che ritraeva da loro - in cambio del bene che loro dava - era

un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino


fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non

perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio.

La Madre, se da quel tronco d'uomo col certificato elettorale non veniva

alcun segno di riconoscimento, era la meno preoccupata di tutti: eppure, si

dava da fare a sbrigare quella formalità delle elezioni come una delle tante

che il mondo di fuori imponeva e che, per vie che lei non si curava

d'indagare, condizionavano l'efficienza del suo servizio; e così cercava

d'alzare quel corpo con le spalle sui guanciali, quasi che potesse far la figura

di stare seduto. Ma nessuna posizione s'addiceva più a quel corpo: le

braccia, nel camicione bianco, erano rattrappite, con le mani piegate in

dentro, e anche le gambe aveva allo stesso modo, come se le membra

cercassero di tornare dentro sé stesse a cercare un rifugio.

- Ma, parlare, - fece il presidente, con un dito alzato, come chiedendo

scusa del dubbio, - non può proprio?

- Parlare no, signor presidente, - disse il prete, - eh, parli, tu? No, non

parli? Vede che non parla. Ma capisce. Lo sai chi è lei, sì? È buona? Sì?

Capisce. Del resto ha già votato l'altra volta.

- Sì, sì, - disse la Madre, - questo qui ha sempre votato.

- Perché è così, ma poi capisce... - disse la scrutatrice in bianco: una frase

che non si capiva se fosse una domanda, un'affermazione, o una speranza. E

si rivolse alla Madre, come a coinvolgere nella sua domanda-affermazionesperanza anche lei: - Capisce,
neh?

- Eh... - la Madre allargò le braccia e guardò in su.

- Basta con questa commedia, - disse Amerigo, secco. - Non può

esprimere la sua volontà, cioè non può votare. È chiaro? Un po' più di

rispetto. Non c'è bisogno di far altre parole.

(Voleva dire «un po' più di rispetto» verso le elezioni oppure «un po' più

di rispetto» verso la carne che soffre? Non lo specificò).

Si aspettava che le sue parole suscitassero una battaglia. Invece niente.

Nessuno protestò. Con un sospiro, scuotendo il capo, guardavano l'uomo

rattratto. - Certo, è peggiorato, - convenne il prete, a bassa voce. - Ancora

due anni fa, votava.


Il presidente mostrò il registro ad Amerigo: - Cosa si fa: lasciamo in

bianco o facciamo un verbale a parte?

- Lasciamo. Lasciamo perdere, - fu tutto quello che seppe dire Amerigo;

pensava a un'altra domanda: se era più umano aiutarli a vivere o a morire, e

anche a quella non avrebbe saputo dare una risposta.

Così, aveva vinto la sua battaglia: il voto del paralitico non era stato

estorto. Ma un voto, cosa contava un voto? Questo era il discorso che gli

faceva il «Cottolengo» con i suoi gemiti e i suoi gridi, vedila la tua volontà

popolare che scherzo diventa, qua nessuno ci crede, qua ci si vendica dei

poteri del mondo, era meglio lasciarlo passare anche quel voto, era meglio

che quella parte di potere guadagnata così restasse incancellabile,

inscindibile dalla loro autorità, che se la portassero su di loro per sempre.

- E il 27? E il 15? - chiese la Madre. - Gli altri che dovevano votare,

votano?

Il prete, data un'occhiata all'elenco, s'era avvicinato a un letto. Tornò

scuotendo il capo: - Anche quello là, sta male.

- Non riconosce? - fece la scrutatrice, come ci s'informa d'un parente.

- È peggiorato. Peggiorato, - fece il prete. - Non se ne fa niente.

- Anche questo, allora, lo depenniamo, - fece il presidente. - E il quarto?

Dov'è il quarto?

Ma il prete ormai l'aveva capita, voleva solo tagliar corto. - Se non può

uno non possono neanche gli altri; andiamo, andiamo, - e spingeva per il

braccio il presidente che cercava di controllare i numeri dei letti e a un certo

momento si fermò davanti al gigante immobile dalla testa enorme, e cercò

nell'elenco come per verificare se il numero del quarto votante era quello lì,

ma il prete lo spingeva via: - Andiamo, andiamo, vedo che qui sono tutti

mal messi...

- Gli altri anni glielo facevano fare, - diceva la Madre, come se parlasse di

iniezioni.

- Eh, adesso sono peggiorati, - concluse il prete. - Si sa, il malato, o

guarisce, o peggiora.

- Non tutti sono in grado di votare, si capisce, poveretti, - disse la


scrutatrice come scusandosi.

- Oh, poveri noi! - rise la Madre. - Ce n'è che non possono votare, ce n'è.

Vedesse lì nella veranda...

- Si possono vedere? - chiese la scrutatrice.

- Ma sì, venite di qua, - e aperse una porta a vetri.

- Se sono di quelli che fanno impressione, io ho paura, - disse il

segretario. Anche Amerigo s'era tirato indietro.

La Madre sorrideva sempre: - Ma no, perché paura, buoni figli...

La porta dava su una terrazza, una specie di veranda; e c'era un

semicerchio di seggioloni con seduti tanti giovanotti, rapati in testa e incolti

di barba, con le mani poggiate sui braccioli. Portavano vestaglie a righe blu

i cui lembi scendevano a terra nascondendo il vaso che era sotto a ogni

seggiolone, ma il puzzo e rivoli di trabocco si perdevano sul pavimento, tra

le loro gambe nude dai piedi calzati in zoccoli. Anche tra loro c'era quella

somiglianza fraterna che regna al «Cottolengo» e anche l'espressione era

simile, nelle bocche aperte, senza forma, maldentate: d'uno sghignazzare

che poteva anche essere un piangere; e lo strepito che mandavano si

fondeva in uno spento blaterio di risa e pianti. In piedi davanti a loro, un

assistente - uno di quei ragazzi brutti ma bravi - teneva l'ordine, con in

mano una canna, e interveniva quando uno voleva toccarsi, o alzarsi, o

attaccava briga con gli altri, o faceva troppo strepito. Sui vetri della veranda

brillava un po' di sole, e i giovanotti ridevano ai riflessi o passavano

mutevoli all'ira vociando contro l'uno o l'altro, e poi subito dimenticavano.

Quelli del seggio guardarono un po', dalla soglia, poi si ritirarono,

ripercorsero la corsia. La Madre li precedeva. - Lei è una santa, - disse la

scrutatrice. Non ci fossero anime come lei, questi infelici...

La vecchia suora muoveva lì intorno gli occhi chiari e lieti, come si

trovasse in un giardino pieno di salute, e rispondeva alle lodi con quelle

frasi che si sanno, improntate a modestia e ad amore del prossimo, ma

naturali, perché tutto doveva essere molto naturale per lei, non ci dovevano

essere dubbi, dacché aveva scelto una volta per tutte di vivere per loro.

Anche Amerigo avrebbe voluto dirle delle parole di ammirazione e


simpatia, ma quel che gli veniva da dire era un discorso sulla società come

avrebbe dovuto essere secondo lui, una società in cui una donna come lei

non sarebbe considerata più una santa perché le persone come lei si

sarebbero moltiplicate, anziché star relegate in margine, allontanate nel loro

alone di santità, e vivere come lei, per uno scopo universale, sarebbe stato

più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare, e sarebbe stato

possibile a ognuno esprimere sé stesso, la propria carica sepolta, segreta,

individuale, nelle proprie funzioni sociali, nel proprio rapporto con il bene

comune...

Ma più s'ostinava a pensare queste cose, più s'accorgeva che non era tanto

questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos'altro per cui

non trovava parole. Insomma, alla presenza della vecchia suora si sentiva

ancora nell'ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva

sempre (sia pur per approssimazione e con sforzo) cercato di modellarsi, ma

il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro, era ancora la presenza

di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui

sconosciuto.

La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato -

respingendo il resto del mondo - tutta sé stessa in quella missione o milizia,

eppure - anzi: proprio per questo - restava distinta dall'oggetto della sua

missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non

aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l'aveva

voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il

viaggio per veder masticare suo figlio.

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e

figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle

ginocchia le mani pesanti d'ossa e di vene, e le teste chinate per storto -

sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto -

in modo di continuare a guardarsi con l'angolo dell'occhio.

Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente

necessari.

E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore.


E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che

gli diamo.
Ungaretti e Montale analisi

Ungaretti

La 1°fase della poetica di Ungaretti raccolta nel Porto Sepolto appartiene alla sua
giovinezza mentre era un soldato sul fronte del Carso Lui recepisce le avanguardie
artistiche europee in quanto si forma a Parigi e rivoluziona il modo di pervenire ad
una poesia priva di punteggiatura rime caratterizzata da ampi spazi bianchi versi
liberi brevi pause silenzi analogie sintassi frantumata e semplicità del lessico per
incrementare la profondità della parola Questa produzione di Ungaretti collegata
alla 1°guerra mondiale nel momento in cui viene letta lascia un senso di tristezza
perché lui vive esperienza della guerra come interventista volontario semplice
soldato di fanteria:è in grado di raccontare risvolti umani (precarietà fragilità degli
esseri umani a contatto con la morte e persistenza della vita) Ogni lirica ha una data
cronica e topica (luogo in cui è stata scritta) tutte le poesie costituiscono un diario di
guerra in cui con drammaticità e realismo racconta la sua partecipazione a questo
grande evento e turbano lettore che rimane colpito dalla durezza del significato
(inquietudine del periodo storico) e dalla novità dello stile Questo testo facente
parte della 1°produzione ungarettiana (1916) è l’ultima poesia del Porto Sepolto con
cui si congeda ai lettori ma apre uno spiraglio di positività e lo fa parlando della
poesia:il poeta chiarisce cosa intende per poesia La poesia ha la forma di una
lettera:usa lo stile epistolare Ettore Serra era un suo amico:il legame tra i due è
molto forte perché è un lettorato e capisce il valore delle poesie di Ungaretti che
trova nella poesia un modo per salvarsi tanto che tramite le sue amicizie aiuta
Ungaretti a pubblicarle sotto il titolo di Porto Sepolto (porto è l’emblema della vita
movimento è un luogo animato ma è sepolto negli abissi del mare) Sceglie il porto
ripensando ad un’antica leggenda che aveva sentito raccontare a Alessandria
d’Egitto (sua città natale) di un porto dell’antichità che il mare aveva
sommerso:utilizza questa leggenda per fare di questo porto metafora di un pensiero
sepolto negli abissi che ritorna in superficie attraverso la parola scavata come un
abisso) Per Ungaretti la poesia è qualcosa che lo ha aiutato a tornare in superficie
rispetto ad un inabissamento determinato dalla guerra La raccolta Porto Sepolto
viene pubblicata ad Udine nel 1916 in pochissime copie da una piccola editoria
grazie a suo amico Ettore serra
Il titolo Commiato è il saluto Nel 1°verso il poeta si rivolge a Ettore serra un amico
gentile di nobiltà d’animo Il terzo verso poesia è monoverbale che corrisponde ad
una sola parola La poesia per Ungaretti è mondo l’umanità intesa come sofferenze
dolori gioie la propria vita (chiaro riferimento alla dimensione autobiografica della
sua poesia) è molto innovativa sul piano formale:vi è una rottura con la tradizione
cosa che non accade in Saba Il v6 “fioriti dalla parola” vuol dire che la poesia rende
bello leggibile ciò che non lo è:il poeta ha reso possibile di conoscere tante cose
riguardo la guerra v.7-8 “la limpida meraviglia di un delirante fermento” fanno
riferimento al poeta straordinario nella ricerca delle immagini La prima strofa
chiarisce i temi (mondo umanità propria vita che fioriscono dalla parola) Nel caos
della guerra riesce a trovare il silenzio la sua capacità di scavare come abisso nella
sua vita la parola che diventa fiore Ungaretti non vuole essere chiaro (differenza con
Saba) concepisce la poesia come un qualcosa di vero bello che deve mantenere il
mistero:ciò che alimenta la curiosità nel lettore Questa poesia è scritta da un autore
giovanissimo:si può parlare di un testo manifesto:ciò che intende per poesia
Attraverso l’abisso vi è un richiamo ad Orfeo e una concezione orfica della poesia
che dice qualcosa ma in una maniera non perfettamente comprensibile È un testo in
cui vi è la ripetizione dell’aggettivo “mio, mia” espressioni che fanno capire quanto il
poeta è pervenuto ad un’idea soggettiva della poesia Questo testo viene pubblicato
nel Porto Sepolto poi quando la guerra finirà farà parte della raccolta l’Allegria dei
Naufragi e poi l’Allegria associata al naufragio:capacità dell’uomo di reagire in
situazioni come tentativo di difesa difronte alla morte.

Montale
Montale da ragazzo legge e studia filosofi che gli trasmettono una visione
pessimistica della vita e annota le sue letture nel Quaderno Genovese poco dopo
compone testi degli Ossi di Seppia insieme ad altre raccolte che hanno avuto
grandissima notorietà come Occasioni pubblicate nel 1939 anno in cui inizia il
2°conflitto mondiale e La bufera e altro del 1956 in cui parla della 2°guerra mondiale
come una bufera che si è abbattuta sull’umanità Negli anni del fascismo è stato un
intellettuale molto impegnato:ha fatto parte di circoli aggregazioni culturali
combattendo il fascismo Montale è un poeta indecifrabile ma nella seconda metà
del 900 si è reso conto che la poesia si era distaccata da molti lettori (genere di élite
molto complessa e si avvicina al suo pubblico:cambia il suo modo di scrivere e si ha
dimostrazione con la raccolta Satura del 1971 in cui parla ai suoi lettori con
semplicità e si capisce questo cambiamento quando vince nel 1975 il premio Nobel
per la poesia:occasione in cui spiega che la poesia deve avvicinarsi a lettore lui
resterà fedele alla lirica moderna con un ingrediente classicistico umanistico verso
un significato assoluto delle cose e apparenza del reale Ossi di seppia è una raccolta
pubblicata nel 1925 anno importante in Italia perché viene pubblicato il manifesto
degli intellettuali fascisti a firma di Giovanni gentile e degli antifascisti di Benedetto
Croce:vi è tensione verso un clima opprimente:la poesia costituisce per molti
intellettuali la forma espressiva privilegiata seppur con la sua ambiguità Il titolo si
riferisce residuo organico che viene lasciato sulla riva sballottato dalle onde:lo
sceglie per alludere ad una condizione dell’umanità di annullamento in balia degli
eventi alla perfezione della forma che si trova nelle poesie e ad una tematica
presente nella raccolta:paesaggio ligure:mare aridità della pietra sole estate
(Montale è un poeta ligure legato alla sua terra:la Liguria qui è molto presente)
“Forse un mattino andando in un’aria di vetro” è un testo che condensa l’incertezza
della condizione umana che lui ha già voluto anticipare nel titolo della raccolta:la
poesia inizia già con un andamento dubitativo (forse) perché si avvicinano anni neri
Il tema è il presagio (previsione sullo svolgimento di eventi futuri) Il mattino è un
momento di epifania in cui le cose si manifestano con chiarezza con la luce del
mattino La 1°strofa è intessuta dalla luce dell’epifania L’aria è arida secca:vi è
chiarezza intorno a lui vedrà realizzarsi miracolo evento prodigioso:si accorgerà che
intorno a lui vi è il nulla vuoto:vi è mancanza di speranza senso di precarietà
illusorietà della realtà che percepisce con un terrore da ubriaco Davanti invece ha
uno schermo su cui si proiettano delle immagini realtà fenomenica che esprime
segnali di indifferenza disgregazione e morte:vi è l’apparenza quotidiana ma sarà
tardi (non potrà più fare quello che ha fatto) il presagio dovrà tenerlo per se e
rimanere in silenzio tra l’umanità che accetta cose per il quieto vivere È testo
pesante che rivela visione apocalittica della vita:è distillato di molte letture:ha
formazione tecnica passione per musica e vocazione poetica.
LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE – Italo Calvino:
Questo testo, nonostante si ponga su una situazione molto triste e negativa, manda un messaggio
“illuminante”. Calvino, infatti, grazie al suo attivismo, alla sua grande fiducia nel progresso e alla sua
positività, verrà visto come l’illuminista del ‘900.

Questa storia raccontata è una storia vissuta in parte da Calvino nella realtà durante una giornata di lavoro
come rappresentante di lista, che però modificherà donando alla storia un nuovo protagonista. Ai tempi
Calvino era un rappresentante del partito comunista dal quale poi più avanti si distaccherà nel 1956.

Alcuni partiti erano in forte concorrenza. C’era paura che la Democrazia Cristiana si agevolasse nei voti
utilizzando un sistema di calcolo e valutazione dei voti a suo favore, così da sbaragliare la concorrenza.

Questa grande rivalità tra alcuni partiti spinge Calvino a controllare l’andamento delle votazioni,
rappresentando la lista comunista, siamo nel 1953.

Essendo in un seggio particolarmente delicato, allocato in un ospedale psichiatrico di Torino – il Cottolengo;


i comunisti - tra cui anche Calvino - avevano timore che, approfittando della incapacità di intendere e di
volere di determinati pazienti, il personale che assisteva questi pazienti, accompagnando i pazienti a votare,
potesse forzarne la volontà cambiando i risultati.

Calvino, essendo un rappresentante di lista, una volta presa visione di quello che accadeva in quel
grandissimo istituto, rimane sconcertato perché passano in second’ordine tutte le sue ragioni e i suoi
sospetti e le sue preoccupazioni. Prendono la scena altro tipo di considerazioni: un’enorme ammirazione
per tutte quelle suore che offrivano assistenza ai pazienti. Questo avvenimento rompe i suoi schemi.
Essendo partito da un presupposto agguerrito, si rende conto di quanto queste donne offrano amore
materno nei confronti dei poveri pazienti. Questa positività in un ambiente così auspico e negativo, lo
scombussola. Questa visione lo destabilizzerà, facendogli capire quanto tutto sia gestito da una potenza che
è più forte di qualunque volontà dell’uomo, la natura. Nella sua visione laica, torna a riprendere la scena il
dominio della natura, come responsabile di tutto.

Vedendo tutta questa sofferenza, in questo panorama infernale e di sofferenza, lui riconosce che per
fronteggiare quella potenza così cinica della natura, non serva tanto la ragione quanto il sentimento. Il
sentimento in questo caso sarà rappresentato dallo spirito amorevole di queste donne dedite a Dio che
lavoravano in questo istituto. Loro lo fanno non perché gli sia capitato ma per scelta. Proprio questa
capacità di scelta di convertire una vita che poteva essere una vita normale, in una vita caritatevole, manda
quasi in tilt Calvino.

L’autore rifletterà molto su questo avvenimento, quasi come se avesse scoperto un mondo nuovo.
Esattamente 10 anni dopo, nel 1963, decide di pubblicare un racconto chiamato “La giornata di uno
scrutatore”, già nel titolo c’è una piccola deviazione della realtà. Nella realtà lui, infatti fu rappresentante di
lista. Al contrario del ruolo dello scrutatore, il rappresentante aveva un ruolo molto più importante e
militante in quella situazione, opera quindi un piccolo slittamento. Darà inoltre al protagonista un nome
molto significativo: Amerigo Ormea. Questo nome fa riferimento alla scoperta dell’America, collegando
appunto la scoperta di questo amore inaspettato in un ambiente così infernale. Tutto questo racconto si
svolgerà in un unico giorno, di domenica: dall’alba fino a sera. Un messaggio importante che traspare dal
racconto è di quanto la linea del cuore è l’unica cosa che può contrapporsi alla potenza della natura.
LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE – capitolo 12:

Siamo nel capitolo 12°, nella parte finale della storia, in cui si racchiude la parte più significativa del testo.
Amerigo, cammina in questi grandi cameroni con dei letti uno di seguito all’altro con sopra dei pazienti
ricoverati. Questi pazienti verranno descritti come delle persone dalla forma innaturale, che producono
suoni terribili. Verrà colpito da una scena in cui uno dei pazienti si trova con suo padre, seduto sul letto su
cui era sdraiato. Era come se entrambi avessero bisogno dell’altro: il figlio, che per natura è nato in quello
stato ed il padre che lo ha accettato, nonostante tutto. Tra i due il legame era fortissimo, di tanto in tanto il
padre gli poneva una mandorla, facendogliela assaporare e, tramite il gusto dolce della mandorla, gli
donava felicità – ammiccando un piccolo sorriso - forse l’unica fonte di felicità in quell’ambiente così triste e
cupo. Questa scena colpirà Amerigo, che nonostante fosse giunto in quell’ambiente con fare agguerrito,
dati i suoi sospetti sulla situazione del seggio, vede una scena che lo fa quasi calmare e pensare.

TESTO:

Un certo numero degli iscritti a votare del «Cottolengo» erano malati che

non potevano lasciare il letto e la corsia. La legge prevede in questi casi che

tra i componenti del seggio se ne scelgano alcuni per costituire un «seggio

distaccato» che vada a raccogliere i voti dei malati nel «luogo di cura» cioè

là dove si trovano. Si misero d'accordo per formare questo «seggio

distaccato» con il presidente, il segretario, la scrutatrice in bianco e

Amerigo. Il «seggio distaccato» aveva in dotazione due scatole, una con le

schede da votare e l'altra per raccogliere le schede votate, un fascicolo

speciale come registro e l'elenco dei «votanti nel luogo di cura».

Presero le cose e andarono. Li guidava su per le scale un ricoverato di

quelli «bravi», un giovanotto piccolo e tozzo che, nonostante i brutti

lineamenti. la zucca rapata e subito sotto i sopraccigli spessi e uniti, si

dimostrava all'altezza del suo compito e premuroso, tanto che pareva finito

lì per sbaglio, per via della faccia. - In questo reparto ce n'è quattro -. Ed

entrarono.

Era un camerone lungo e si andava tra due bianche file di letti. L'occhio,

uscendo dall'ombra della scala, provava un senso d'abbagliamento,

doloroso, che forse era soltanto una difesa, quasi un rifiuto di percepire in

mezzo al bianco d'ogni monte di lenzuola e guanciali la forma di colore

umano che ne affiorava; oppure una prima traduzione, dall'udito nella vista

dell'impressione d'un grido acuto, animale, continuo ghiii... ghiii... ghiii...

che si levava da un qualche punto della corsia, a cui rispondeva a tratti da


un altro punto un sussultare come di risata o latrato: gaa! gaa! gaa! gaa!

Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e

bocca aperta in un fermo riso, d'un ragazzo a letto, in camicia bianca,

seduto, ossia che spuntava col busto dall'imboccatura del letto come una

pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c'era

segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-piantapesce (Fino a dove un essere
umano può dirsi umano? si chiedeva Amerigo)

si muoveva su e giù inclinando il busto a ogni «ghiii... ghiii...» E il «gaa!

gaa!» che gli rispondeva era d'uno che nel letto prendeva meno forma

ancora, eppure protendeva una testa boccuta, avida, congestionata, e doveva

avere braccia - o pinne - che si muovevano sotto le lenzuola in cui era come

insaccato, (fino a che punto un essere può dirsi un essere, di qualsiasi

specie?), e altri suoni di voci gli facevano eco, eccitate forse dall'apparire di

persone nella corsia, e anche un ansare e gemere, come d'un urlo che stesse

per levarsi e subito si soffocasse, questo d'un adulto.

Erano, in quell'infermeria, parte adulti - pareva - parte ragazzi e bambini,

se si doveva giudicare dalle dimensioni e dà segni, come i capelli o il colore

della pelle, che contano tra le persone di fuori. Uno era un gigante con la

smisurata testa da neonato tenuta ritta dai cuscini: stava immobile, le

braccia nascoste dietro la schiena, il mento sul petto che s'alzava in un

ventre obeso, gli occhi che non guardavano nulla, i capelli grigi sulla fronte

enorme, (un essere anziano, sopravvissuto in quella lunga crescita di feto?),

impietrito in una tristezza attonita.

Il prete, quello col basco, era già nella corsia, ad aspettarli, anche lui con

in mano un suo elenco. Vedendo Amerigo si fece scuro in viso. Ma

Amerigo in quel momento non pensava più all'insensato motivo per cui si

trovava lì; gli pareva che il confine di cui ora gli si chiedeva il controllo

fosse un altro: non quello della «volontà popolare», ormai perduto di vista

da un pezzo, ma quello dell'umano.

Il prete e il presidente s'erano avvicinati alla Madre che dirigeva quel

reparto, coi nomi dei quattro iscritti a votare, e la Madre li indicava. Altre

suore venivano portando un paravento, un tavolino, tutte le cose necessarie


per fare le elezioni lì.

Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse

già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto,

vestito d'un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall'altra parte

del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella

domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale

ma in qualche modo - pareva - rattrappito nei movimenti. Il padre

schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il

figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava

masticare.

I ragazzi-pesce scoppiavano nei loro gridi, e ogni tanto la Madre si

staccava dal gruppo di quelli del seggio per andare a zittire uno troppo

agitato, ma con scarso esito. Ogni cosa che accadeva nella corsia era

separata dalle altre, come se ogni letto racchiudesse un mondo senza

comunicazione col resto, salvo per i gridi che s'incitavano uno con l'altro, in

crescendo, e comunicavano un'agitazione generale, in parte come un chiasso

di passeri, in parte dolorosa, gemente. Solo l'uomo con la testa enorme stava

immobile, come non sfiorato da nessun suono.

Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di

membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una

paralisi. Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa e in qualche

modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio.

Non negli occhi: il figlio aveva l'occhio animale e disarmato, mentre quello

del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano

voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da

guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo

teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o

forse ancor di più, in qualche modo affascinato.

Intanto gli altri facevano votare uno in un letto. In questo modo: gli

mettevano intorno il paravento, col tavolino dietro, e per lui la suora, perché

era paralitico, votava. Tolsero il paravento, Amerigo lo guardò: era una

faccia viola, riversa, come un morto, a bocca spalancata, nude gengive,


occhi sbarrati. Più che quella faccia, nel guanciale affossato, non si vedeva;

era duro come un legno, tranne un ansito che gli fischiava al fondo della

gola.

Ma cosa hanno il coraggio di far votare? si domandò Amerigo, e solo

allora si ricordò che toccava a lui impedirlo.

Già rizzavano il paravento a un altro letto. Amerigo li seguì. Un'altra

faccia glabra, tumida, irrigidita a bocca aperta e storta, coi bulbi degli occhi

fuori delle palpebre senza ciglia. Questo però era inquieto, smanioso.

- Ma c'è un errore! - disse Amerigo, - come può votare, questo qui?

- Eppure, c'è il suo nome, Morin Giuseppe, - fece il presidente. E al prete:

- è proprio lui?

- Eh, qui c'è il certificato, - disse il prete: - impedimento motorio agli arti.

Madre, è lei, vero, che l'aiuta?

- Ma sì, ma sì, povero Giuseppe! - fece la Madre.

Quello sobbalzava come colto da scosse elettriche, gemendo.

Amerigo, ora toccava a lui. Si strappò con sforzo dai suoi pensieri, da

quella lontana zona di confine appena intravista - confine tra che cosa e che

cosa? - e tutto quello che era al di qua e al di là sembrava nebbia.

- Un momento, - disse, con una voce senz'espressione, sapendo di ripetere

una formula, di parlare nel vuoto, - è in grado l'elettore di riconoscere la

persona che vota per lui? È in grado di esprimere la sua volontà? Ehi, dico a

lei, signor Morin: è in grado?

- La solita storia, - disse il prete al presidente, - la Madre che sta qui con

loro giorno e notte, gli chiedono se la conosce... - e scosse il capo, con una

risatina.

Anche la Madre sorrise, ma d'un sorriso che era per tutti e per nulla. Il

problema d'esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli

venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del

contadino venuto a passare la domenica al Cottolengo per fissare negli

occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi

assistiti, il bene che ritraeva da loro - in cambio del bene che loro dava - era

un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino


fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non

perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio.

La Madre, se da quel tronco d'uomo col certificato elettorale non veniva

alcun segno di riconoscimento, era la meno preoccupata di tutti: eppure, si

dava da fare a sbrigare quella formalità delle elezioni come una delle tante

che il mondo di fuori imponeva e che, per vie che lei non si curava

d'indagare, condizionavano l'efficienza del suo servizio; e così cercava

d'alzare quel corpo con le spalle sui guanciali, quasi che potesse far la figura

di stare seduto. Ma nessuna posizione s'addiceva più a quel corpo: le

braccia, nel camicione bianco, erano rattrappite, con le mani piegate in

dentro, e anche le gambe aveva allo stesso modo, come se le membra

cercassero di tornare dentro sé stesse a cercare un rifugio.

- Ma, parlare, - fece il presidente, con un dito alzato, come chiedendo

scusa del dubbio, - non può proprio?

- Parlare no, signor presidente, - disse il prete, - eh, parli, tu? No, non

parli? Vede che non parla. Ma capisce. Lo sai chi è lei, sì? È buona? Sì?

Capisce. Del resto ha già votato l'altra volta.

- Sì, sì, - disse la Madre, - questo qui ha sempre votato.

- Perché è così, ma poi capisce... - disse la scrutatrice in bianco: una frase

che non si capiva se fosse una domanda, un'affermazione, o una speranza. E

si rivolse alla Madre, come a coinvolgere nella sua domanda-affermazionesperanza anche lei: - Capisce,
neh?

- Eh... - la Madre allargò le braccia e guardò in su.

- Basta con questa commedia, - disse Amerigo, secco. - Non può

esprimere la sua volontà, cioè non può votare. È chiaro? Un po' più di

rispetto. Non c'è bisogno di far altre parole.

(Voleva dire «un po' più di rispetto» verso le elezioni oppure «un po' più

di rispetto» verso la carne che soffre? Non lo specificò).

Si aspettava che le sue parole suscitassero una battaglia. Invece niente.

Nessuno protestò. Con un sospiro, scuotendo il capo, guardavano l'uomo

rattratto. - Certo, è peggiorato, - convenne il prete, a bassa voce. - Ancora

due anni fa, votava.


Il presidente mostrò il registro ad Amerigo: - Cosa si fa: lasciamo in

bianco o facciamo un verbale a parte?

- Lasciamo. Lasciamo perdere, - fu tutto quello che seppe dire Amerigo;

pensava a un'altra domanda: se era più umano aiutarli a vivere o a morire, e

anche a quella non avrebbe saputo dare una risposta.

Così, aveva vinto la sua battaglia: il voto del paralitico non era stato

estorto. Ma un voto, cosa contava un voto? Questo era il discorso che gli

faceva il «Cottolengo» con i suoi gemiti e i suoi gridi, vedila la tua volontà

popolare che scherzo diventa, qua nessuno ci crede, qua ci si vendica dei

poteri del mondo, era meglio lasciarlo passare anche quel voto, era meglio

che quella parte di potere guadagnata così restasse incancellabile,

inscindibile dalla loro autorità, che se la portassero su di loro per sempre.

- E il 27? E il 15? - chiese la Madre. - Gli altri che dovevano votare,

votano?

Il prete, data un'occhiata all'elenco, s'era avvicinato a un letto. Tornò

scuotendo il capo: - Anche quello là, sta male.

- Non riconosce? - fece la scrutatrice, come ci s'informa d'un parente.

- È peggiorato. Peggiorato, - fece il prete. - Non se ne fa niente.

- Anche questo, allora, lo depenniamo, - fece il presidente. - E il quarto?

Dov'è il quarto?

Ma il prete ormai l'aveva capita, voleva solo tagliar corto. - Se non può

uno non possono neanche gli altri; andiamo, andiamo, - e spingeva per il

braccio il presidente che cercava di controllare i numeri dei letti e a un certo

momento si fermò davanti al gigante immobile dalla testa enorme, e cercò

nell'elenco come per verificare se il numero del quarto votante era quello lì,

ma il prete lo spingeva via: - Andiamo, andiamo, vedo che qui sono tutti

mal messi...

- Gli altri anni glielo facevano fare, - diceva la Madre, come se parlasse di

iniezioni.

- Eh, adesso sono peggiorati, - concluse il prete. - Si sa, il malato, o

guarisce, o peggiora.

- Non tutti sono in grado di votare, si capisce, poveretti, - disse la


scrutatrice come scusandosi.

- Oh, poveri noi! - rise la Madre. - Ce n'è che non possono votare, ce n'è.

Vedesse lì nella veranda...

- Si possono vedere? - chiese la scrutatrice.

- Ma sì, venite di qua, - e aperse una porta a vetri.

- Se sono di quelli che fanno impressione, io ho paura, - disse il

segretario. Anche Amerigo s'era tirato indietro.

La Madre sorrideva sempre: - Ma no, perché paura, buoni figli...

La porta dava su una terrazza, una specie di veranda; e c'era un

semicerchio di seggioloni con seduti tanti giovanotti, rapati in testa e incolti

di barba, con le mani poggiate sui braccioli. Portavano vestaglie a righe blu

i cui lembi scendevano a terra nascondendo il vaso che era sotto a ogni

seggiolone, ma il puzzo e rivoli di trabocco si perdevano sul pavimento, tra

le loro gambe nude dai piedi calzati in zoccoli. Anche tra loro c'era quella

somiglianza fraterna che regna al «Cottolengo» e anche l'espressione era

simile, nelle bocche aperte, senza forma, maldentate: d'uno sghignazzare

che poteva anche essere un piangere; e lo strepito che mandavano si

fondeva in uno spento blaterio di risa e pianti. In piedi davanti a loro, un

assistente - uno di quei ragazzi brutti ma bravi - teneva l'ordine, con in

mano una canna, e interveniva quando uno voleva toccarsi, o alzarsi, o

attaccava briga con gli altri, o faceva troppo strepito. Sui vetri della veranda

brillava un po' di sole, e i giovanotti ridevano ai riflessi o passavano

mutevoli all'ira vociando contro l'uno o l'altro, e poi subito dimenticavano.

Quelli del seggio guardarono un po', dalla soglia, poi si ritirarono,

ripercorsero la corsia. La Madre li precedeva. - Lei è una santa, - disse la

scrutatrice. Non ci fossero anime come lei, questi infelici...

La vecchia suora muoveva lì intorno gli occhi chiari e lieti, come si

trovasse in un giardino pieno di salute, e rispondeva alle lodi con quelle

frasi che si sanno, improntate a modestia e ad amore del prossimo, ma

naturali, perché tutto doveva essere molto naturale per lei, non ci dovevano

essere dubbi, dacché aveva scelto una volta per tutte di vivere per loro.

Anche Amerigo avrebbe voluto dirle delle parole di ammirazione e


simpatia, ma quel che gli veniva da dire era un discorso sulla società come

avrebbe dovuto essere secondo lui, una società in cui una donna come lei

non sarebbe considerata più una santa perché le persone come lei si

sarebbero moltiplicate, anziché star relegate in margine, allontanate nel loro

alone di santità, e vivere come lei, per uno scopo universale, sarebbe stato

più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare, e sarebbe stato

possibile a ognuno esprimere sé stesso, la propria carica sepolta, segreta,

individuale, nelle proprie funzioni sociali, nel proprio rapporto con il bene

comune...

Ma più s'ostinava a pensare queste cose, più s'accorgeva che non era tanto

questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos'altro per cui

non trovava parole. Insomma, alla presenza della vecchia suora si sentiva

ancora nell'ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva

sempre (sia pur per approssimazione e con sforzo) cercato di modellarsi, ma

il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro, era ancora la presenza

di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui

sconosciuto.

La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato -

respingendo il resto del mondo - tutta sé stessa in quella missione o milizia,

eppure - anzi: proprio per questo - restava distinta dall'oggetto della sua

missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non

aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l'aveva

voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il

viaggio per veder masticare suo figlio.

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e

figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle

ginocchia le mani pesanti d'ossa e di vene, e le teste chinate per storto -

sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto -

in modo di continuare a guardarsi con l'angolo dell'occhio.

Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente

necessari.

E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore.


E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che

gli diamo.

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