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I edizione digitale: febbraio 2014


I edizione: marzo 2014
© 2009 Mark Hathaway - Leonardo Boff
© 2009 Orbis Books, Maryknoll, New York, USA
© 2014 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: The Tao of liberation
Traduzione dall’inglese di Michele Zurlo
ISBN: 978-88-7625-514-4
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Mark Hathaway - Leonardo Boff

IL TAO DELLA LIBERAZIONE


ESPLORANDO L’ECOLOGIA DELLA
TRASFORMAZIONE

traduzione di Michele Zurlo


Indice
Introduzione
Sul Tao Te Ching
Prologo
Il Tao della liberazione
1. Cercare la saggezza in un tempo di crisi
Parte prima
2. Smascherare un sistema patologico
3. Oltre il dominio
4. Oltre la paralisi
Parte seconda
5. Riscoprire la cosmologia
6. La cosmologia della dominazione
7. Trascendere la materia
8. Complessità, Caos e Creatività
9. Memoria, risonanza morfica ed emergenza
10. Il cosmo come rivelazione
Parte terza
11. Spiritualità per un’era ecozoica
12. L’ecologia della trasformazione
Il viaggio continua
Bibliografia
Consigli bibliografici
A mia figlia, Jamila, e a mia moglie, Maritza,
che nel corso di questo viaggio mi hanno sostenuto
con il loro amore e incoraggiamento.
Ai miei maestri,
che mi hanno ispirato con la loro sapienza e le loro intuizioni.
E al cosmo vivente,
la cui continua bellezza mi accende di stupore.
MARK HATHAWAY
A Mirian Vilela e a Steven Rockefeller,
per il loro profondo amore nei confronti della Terra vivente
e per il loro contributo essenziale al processo
di stesura della Carta della Terra.
LEONARDO BOFF
Introduzione
di Fritjof Capra
Con l’avanzare del nuovo secolo, due fenomeni sono destinati ad
avere un impatto fondamentale sul benessere dell’umanità. Uno è
l’ascesa del capitalismo globale, l’altro è la costruzione di comunità
sostenibili fondate sulla messa in opera della progettazione ecologica.
Il capitalismo globale si associa alle reti elettroniche di flussi
finanziari e informativi, l’ecoprogettazione alle reti ecologiche di flussi
energetici e materiali. L’obiettivo dell’economia globale, nella sua
forma attuale, è massimizzare la ricchezza e il potere delle élite, quello
dell’ecoprogettazione è massimizzare la sostenibilità della rete della
vita. Oggi questi due scenari sono in rotta di collisione.
La nuova economia, nata dalla rivoluzione della tecnologia
dell’informazione degli ultimi trent’anni, si struttura perlopiù attorno
a reti di flussi finanziari. Grazie a sofisticate tecnologie
dell’informazione e della comunicazione, il capitale finanziario può
spostarsi rapidamente in tutto il pianeta alla continua ricerca di
opportunità di investimento. Tale sistema poggia su un modello
informatico capace di gestire l’enorme complessità generata dalla
rapida deregolamentazione e da una sconcertante varietà di nuovi
strumenti finanziari.
Questo tipo di economia è talmente complesso e turbolento da
sfuggire a qualsiasi analisi tradizionale. Ci troviamo di fronte a un
casinò globale gestito elettronicamente. I giocatori non sono anonimi
speculatori, bensì grosse banche di investimento, fondi pensionistici,
multinazionali e fondi aperti, organizzati in modo tale da favorire la
manipolazione finanziaria. Il cosiddetto mercato globale non è in
realtà un vero e proprio mercato, ma una rete di macchine
programmate a partire da un valore unico – il denaro – che esclude
tutti gli altri valori. In altre parole, la globalizzazione economica ha
sistematicamente escluso la dimensione etica del mercato.
Negli ultimi anni, tra gli studiosi e i leader di comunità si è
discusso molto dell’impatto sociale ed ecologico della globalizzazione.
Dalle loro analisi emerge che la nuova economia sta provocando una
serie di dannosissime reazioni a catena. Essa ha arricchito un’élite
globale composta di speculatori finanziari, imprenditori e
professionisti dell’high tech. In cima alla piramide vi è stata
un’accumulazione della ricchezza senza precedenti. Per il resto, le
ripercussioni sociali e ambientali sono disastrose, e ciò mette a
repentaglio il benessere economico della popolazione a livello
mondiale, come dimostra l’attuale crisi finanziaria.
Il nuovo capitalismo globale ha contribuito all’aggravarsi della
disuguaglianza e dell’esclusione sociale, al crollo della democrazia, al
rapido ed esteso degrado ambientale, all’aumento della povertà e
dell’alienazione. Esso minaccia e distrugge le comunità locali in tutto
il mondo e, in nome di una mal concepita biotecnologia, viola la
sacralità della vita tentando di trasformare la diversità in
monocoltura, l’ecologia in ingegneria e la vita stessa in una merce.
È ormai evidente che il capitalismo globale nella sua forma attuale
è insostenibile – socialmente, ecologicamente e persino
finanziariamente – e deve essere ripensato dalle fondamenta. Il
principio su cui si basa, ossia che fare denaro debba avere la
precedenza sui diritti umani, sulla democrazia, sulla tutela
dell’ambiente e su qualsiasi altro valore, è garanzia di catastrofe. Tale
principio, tuttavia, può essere modificato: non è una legge di natura.
Le reti elettroniche di flussi finanziari e informativi possono
incorporare altri valori. Il nodo della questione non è la tecnologia ma
la politica. La grande sfida del XXI secolo sarà cambiare il sistema di
valori sotteso all’economia globale così da renderlo compatibile con
l’istanza di dignità umana e sostenibilità ecologica.
In realtà, il processo di riformulazione della globalizzazione è già
cominciato. A questo scopo all’inizio del secolo si è formato uno
straordinario fronte di organizzazioni non governative (ONG) a livello
mondiale. In concomitanza con i vertici del World Trade Organization
(WTO), del G7 e del G8, tale fronte, o movimento per la giustizia globale,
come viene anche denominato, ha coordinato diverse manifestazioni
di protesta che hanno avuto grande successo e ha organizzato svariate
riunioni del Forum Sociale Mondiale, soprattutto in Brasile. Durante
questi incontri, le ONG hanno proposto una serie di politiche
commerciali alternative, tra cui alcuni progetti concreti per
ristrutturare radicalmente le istituzioni finanziarie globali,
trasformando in tal modo la natura della globalizzazione.
Il movimento per la giustizia globale rappresenta una nuova forma
di movimentismo politico tipica della moderna era dell’informazione.
Grazie al sapiente uso di Internet, le ONG che fanno parte di questa
coalizione possono mettersi in rete, condividere le informazioni e
mobilitare i propri affiliati a velocità inaudite. Le nuove ONG globali
vanno dunque affermandosi quali incisivi attori politici, indipendenti
dalle istituzioni tradizionali a livello nazionale e internazionale. Esse
costituiscono una nuova forma di società civile globale.
Per poter inserire questo discorso politico in una prospettiva
sistemica ed ecologica, la società civile globale fa affidamento su un
network di studiosi, istituti di ricerca, think tank e centri di cultura
che operano per la gran parte al di fuori delle istituzioni accademiche,
delle organizzazioni economiche e delle agenzie governative ufficiali.
Esistono ormai decine di istituti di ricerca e di cultura di questo tipo in
tutto il mondo. Il comun denominatore è che essi svolgono la loro
attività all’interno di una cornice ben definita di valori condivisi.
Tali centri sono costituiti perlopiù da comunità di studiosi e
attivisti impegnati in diversi progetti e iniziative. Si possono enucleare
tre aree d’interesse che costituiscono gli epicentri dei movimenti di
base più ampli e dinamici. La prima riguarda la riformulazione delle
regole e delle istituzioni della globalizzazione. La seconda è la lotta
agli alimenti geneticamente modificati e la promozione di
un’agricoltura sostenibile. La terza è la progettazione ecologica: un
lavoro sinergico per ridisegnare le nostre strutture fisiche, le città, le
tecnologie e le industrie in modo da renderle ecologicamente
sostenibili.
La progettazione, in senso lato, consiste nel plasmare flussi di
energia e di materia per scopi umani. La progettazione ecologica è
invece un processo in cui gli scopi umani vengono armonizzati con gli
schemi e i flussi del mondo naturale. I principi dell’ecoprogettazione
rispecchiano i principi organizzativi sviluppati dalla natura per
preservare la rete della vita: il continuo riciclo della materia, l’uso
dell’energia solare, la biodiversità, la cooperazione, la collaborazione
ecc. Fare progettazione in un contesto simile richiede un cambiamento
radicale del nostro atteggiamento nei confronti della natura: non più
la ricerca di ciò che possiamo estrarre dalla natura, ma la ricerca di ciò
che possiamo imparare da essa.
Negli ultimi anni sono aumentati considerevolmente pratiche e
programmi improntati all’ecoprogettazione, tutti ormai ben
documentati. Tra questi, la rinascita a livello mondiale dell’agricoltura
biologica; l’organizzazione di settori industriali diversi in cluster
ecologici in cui gli scarti di uno diventano una risorsa per l’altro; il
passaggio da un’economia orientata al prodotto a un’economia di
“servizi e flussi”, con un ciclo continuo di materie prime industriali e
componenti tecniche tra produttori e utenti; edifici progettati per
produrre più energia di quanta ne consumano, che non generano
sprechi e monitorano il proprio rendimento; automobili ibride che
possono raggiungere livelli di efficienza energetica molto più elevati
delle auto tradizionali e così via.
Le tecnologie e i programmi di ecoprogettazione si incardinano sui
principi basilari dell’ecologia e dunque ne condividono alcune
caratteristiche cruciali. Di norma sono progetti su scala ridotta
improntati alla diversità e all’efficienza energetica, non inquinanti,
rivolti alla comunità e ad alta intensità di lavoro: creano cioè molta
occupazione. Le tecnologie oggi a disposizione dimostrano
chiaramente che la transizione verso un futuro sostenibile non è più
un problema tecnico o concettuale. È un problema di valori e di
volontà politica.
Negli ultimi anni, però, tale volontà sembra essere aumentata
notevolmente. Prova ne è il film di Al Gore Una scomoda verità, che ha
contribuito non poco a risvegliare la coscienza ecologica. Nel 2006, nel
Tennessee, Gore ha istruito personalmente milleduecento volontari su
come presentare il suo famoso slide show e diffondere il messaggio in
tutto il mondo. Da allora al 2008 sono state realizzate quasi ventimila
presentazioni a un pubblico di due milioni di persone. In quel periodo
l’associazione di Gore, il Climate Project, ha addestrato alla stessa
missione più di mille volontari in Australia, Canada, India, Spagna e
Regno Unito. Ad oggi operano duemilaseicento presentatori, che
hanno raggiunto un pubblico di quattro milioni di persone in tutto il
mondo.
Una tappa altrettanto importante è stata la pubblicazione del libro
Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà di Lester Brown, fondatore
del Worldwatch Institute e autorità in materia di ambiente. La prima
parte del volume è una dettagliata documentazione della profonda
interconnessione esistente tra tutte le grandi problematiche moderne.
Brown dimostra con impeccabile lucidità che il circolo vizioso fatto di
pressione demografica e povertà non può che portare al
depauperamento delle risorse – abbassamento dei livelli freatici,
prosciugamento dei pozzi, deforestazione, crollo della pesca, erosione
del suolo, desertificazione delle distese erbose e così via – e che a
causa di tale depauperamento, aggravato dai cambiamenti climatici,
molti Stati sono destinati al fallimento, perché i governi non sono più
in grado di garantire la sicurezza ai propri cittadini, i quali, spinti
dalla disperazione, si votano in alcuni casi al terrorismo.
Se la prima parte del volume, com’è ovvio, è sconfortante, la
seconda – un piano d’azione dettagliato per salvare la civiltà – è
ottimista e stimolante. Esso prevede una serie di iniziative simultanee
che interagiscano tra loro, rispecchiando così l’interdipendenza dei
problemi che intendono affrontare. Ciascuna proposta può essere
messa in pratica con le tecnologie già esistenti, e tutte sono illustrate
facendo riferimento a esperienze di successo che si sono
effettivamente verificate nel mondo. Il Piano B di Brown è forse la
testimonianza ad oggi più convincente del fatto che possediamo già le
conoscenze, le tecnologie e i mezzi finanziari per salvare la civiltà e
costruire un futuro sostenibile.
Con l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti,
infine, si sono fatti non pochi passi avanti, quanto a volontà e
leadership politica, per progredire verso la sostenibilità. La storia
familiare di Obama è molto variegata, dal punto di vista razziale e
culturale. Il padre era keniota, la madre americana, il patrigno
indonesiano. Obama è nato alle Hawaii ed è cresciuto in parte lì e in
parte in Indonesia. La grande eterogeneità del suo background ha
plasmato la sua visione del mondo: egli è a suo agio tra persone
diverse per razza ed estrazione sociale.
Avendo lavorato per anni come organizzatore di comunità e
avvocato specializzato in diritti civili, Obama è un ottimo ascoltatore,
facilitatore e mediatore. Oltre a modificare la cultura politica degli
Stati Uniti, la sua elezione sta contribuendo a trasformare l’immagine
dell’America all’estero e l’auto-percezione degli americani in patria.
Il programma politico del presidente Obama prevede un radicale
cambiamento di rotta degli USA. Tra i suoi punti principali,
l’eliminazione del fondamentalismo di mercato, la fine
dell’unilateralismo americano e l’elaborazione di politiche di green
economy per fronteggiare la crisi ambientale globale. Obama è
perfettamente conscio della profonda interconnessione esistente tra i
grandi problemi con cui il mondo deve fare i conti, e ci sono
autorevoli scienziati e attivisti pronti ad aiutarlo a trasformare tale
consapevolezza in politiche concrete. Eppure, alcuni interrogativi
fondamentali rimangono. Perché ci è voluto tanto tempo per rendersi
conto delle gravi minacce alla sopravvivenza dell’umanità? Perché
facciamo tanta fatica a modificare la nostra percezione, le nostre idee,
il nostro stile di vita, e a cambiare le istituzioni che perpetuano
l’ingiustizia e annichiliscono la capacità del nostro pianeta di
alimentare la vita? In che modo possiamo accelerare il cammino verso
la giustizia sociale e la sostenibilità ecologica?
Sono questi i temi al centro di questo libro. Gli autori – uno
proveniente dal Sud del mondo, l’altro dal Nord – hanno riflettuto a
fondo su questioni di teologia, giustizia ed ecologia. La loro risposta
agli interrogativi appena formulati è che la sfida fondamentale non
consiste solo nel diffondere la conoscenza e nel modificare le vecchie
abitudini. Tutte le minacce con cui dobbiamo fare i conti, dal loro
punto di vista, sono sintomi di un più profondo male culturale e
spirituale che affligge l’umanità. «È nostra convinzione che una grave
patologia sia connaturata al sistema che oggi domina e sfrutta il
mondo», affermano. Individuano nella povertà e nella
disuguaglianza, nel depauperamento della Terra e
nell’avvelenamento della vita i sintomi principali di tale patologia, e
fanno notare che «le stesse forze e ideologie che sfruttano ed
escludono i poveri stanno anche devastando l’intera comunità vivente
sulla Terra».
Per guarire da questa grave patologia, sostengono gli autori, c’è
bisogno di un cambiamento profondo nella coscienza umana. «Siamo
chiamati a reinventare noi stessi in quanto specie». Il nome che essi
danno a questo processo di profonda trasformazione è “liberazione”,
nell’accezione con cui il termine viene usato nella tradizione della
teologia della liberazione: sia nel senso individuale di realizzazione
spirituale, o illuminazione, sia in quello collettivo del popolo che cerca
di liberarsi dall’oppressione. È mia opinione che sia questo duplice
uso del termine “liberazione” a rendere unico questo libro, perché
consente di integrare tra loro la dimensione sociale, politica,
economica, ecologica, emotiva e spirituale dell’attuale crisi globale.
Come affermano Hathaway e Boff nel Prologo, il Tao della
liberazione è la ricerca della saggezza necessaria per compiere profonde
trasformazioni liberatrici in tutto il mondo. Rendendosi conto che tale
saggezza non si può però esprimere pienamente a parole, gli autori
hanno scelto di definirla ricorrendo all’antico termine cinese Tao (‘la
Via’), che indica sia un percorso spirituale individuale sia il modo in
cui funziona l’universo. Secondo la tradizione taoista, la realizzazione
spirituale si raggiunge quando si agisce in armonia con la natura.
Secondo quanto si legge nel classico cinese Huainanzi, «colui che segue
l’ordine naturale scorre nella corrente del Tao».
In questo libro la ricerca della saggezza necessaria per passare da
una società ossessionata dalla crescita illimitata e dal consumo
materiale a una civiltà equilibrata e a sostegno della vita comporta
due tappe fondamentali. La prima è l’individuazione degli ostacoli
concreti che si frappongono tra noi e la trasformazione liberatrice. La
seconda consiste nella formulazione di una “cosmologia della
liberazione”: nelle parole di Thomas Berry (citato nel libro), essa è una
visione del futuro «avvincente abbastanza da sostenerci nella
trasformazione del progetto umano attualmente in corso».
Gli ostacoli molteplici e interdipendenti esaminati da Hathaway e
Boff sono generati dalle nostre strutture politiche ed economiche,
consolidati da una visione del mondo meccanicistica e deterministica
e interiorizzati da sentimenti di impotenza, negazione e disperazione.
Inoltre, nel libro si affronta diffusamente il tema degli ostacoli
“sistemici” esterni, tra cui l’illusione di una crescita illimitata in un
pianeta finito, il potere eccessivo delle corporation, il sistema
finanziario parassitico e la tendenza a monopolizzare la conoscenza e
imporre le «monocolture della mente», secondo l’azzeccata
definizione di Vandana Shiva. Come spiegano gli autori, questi
ostacoli esterni sono rafforzati da sistemi di istruzione oppressivi, da
mass media manipolatori, da un consumismo esasperato e da
ambienti artificiali – specie nelle aree urbane – che ci isolano dalla
natura vivente.
Secondo gli autori, per vincere l’impotenza interiorizzata, che può
assumere la forma della dipendenza e dell’avidità, della negazione,
del torpore psichico o della disperazione, dobbiamo espandere la
nostra percezione del sé. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di
provare compassione, costruire la comunità e la solidarietà e
risvegliare il nostro senso di appartenenza alla Terra, riscoprendo così
il nostro “sé ecologico”. Gli autori sostengono che dovremmo
«riflettere sulle cose che davvero ci rallegrano e ci danno piacere [...]
stare con gli amici, passeggiare all’aria aperta, ascoltare musica,
gustare un semplice pasto». Quasi tutto ciò che ci dà davvero gioia
costa poco o nulla.
Tuttavia, per poterci risvegliare e riconnettere pienamente,
abbiamo anche bisogno di una nuova comprensione della realtà e di
una nuova concezione del posto che l’umanità occupa all’interno del
cosmo.
Abbiamo bisogno di una «cosmologia vivente e vitale». Gli autori
usano il termine “cosmologia” nel senso di una visione del mondo
condivisa che dia significato alla nostra esistenza, e contrappongono
la “cosmologia della liberazione” che va pian piano facendosi strada
alla “cosmologia della dominazione”, in cui rientra quella
“cosmologia dell’acquisizione e del consumo che ne è surrogato” che
domina le moderne società industriali.
Secondo gli autori, sta nascendo dalla scienza moderna una nuova
visione del cosmo che sotto molti aspetti richiama le antiche
cosmologie aborigene. A differenza di queste, però, la nuova visione
del mondo scientifica prospetta un universo in evoluzione, ed è
quindi la cornice concettuale ideale per quella trasformazione
liberatrice di cui abbiamo bisogno. Per portare avanti questa tesi,
Hathaway e Boff attingono a un ampio bacino di pensatori
contemporanei: filosofi, teologi, psicologi e scienziati naturali. Viene
vagliato un ampio spettro di idee, modelli e teorie, invero non tutti
compatibili tra loro: alcuni sono arcani e decisamente estranei alla
scienza ufficiale, e di quando in quando gli autori giungono a
conclusioni che si spingono ben oltre la scienza moderna. Nondimeno,
riescono mirabilmente a dimostrare che una nuova e coerente visione
scientifica della realtà va affermandosi.
Fulcro dell’indagine scientifica contemporanea è l’universo, che
non è più visto come una macchina composta di tanti piccoli pezzi. Si
è ormai appurato che il mondo materiale è in sostanza una rete di
schemi relazionali inseparabili tra loro e che il pianeta nel suo
complesso è un sistema vivente che si autoregola. Alla visione del
corpo umano come una macchina e della mente come un’entità
separata se ne va sostituendo un’altra in base alla quale non solo il
cervello ma tutto il sistema immunitario, i tessuti corporei e ogni
singola cellula costituiscono un sistema vivente e cognitivo.
L’evoluzione non è più considerata una lotta per l’esistenza bensì una
danza collaborativa, i cui motori sono la creatività e il rinnovamento
costante. Accanto all’attenzione per la complessità, le reti e gli schemi
organizzativi, si fa strada anche una “scienza della qualità”.
Gli autori sostengono inoltre, a mio avviso giustamente, che la
nuova cosmologia scientifica è assolutamente compatibile con la
dimensione spirituale della liberazione. Essi ricordano al lettore che,
all’interno della tradizione cristiana, il termine “spirito” – ruha in
aramaico o ruah in ebraico – significava in origine ‘soffio di vita’.
Quest’ultimo era anche il significato originario di spiritus, anima,
pneuma e altre parole antiche per “anima” o “spirito”. L’esperienza
spirituale, dunque, è innanzitutto esperienza dell’essere in vita. La
presa di coscienza fondamentale di tale esperienza, stando a
numerose testimonianze, è un profondo senso di unità con il tutto, un
senso di appartenenza all’universo nel suo insieme.
Tale senso di unità con il mondo naturale è pienamente accolto
dalla nuova concezione della vita maturata dalla scienza
contemporanea. Se comprendiamo che le radici della vita affondano
nei concetti basilari della fisica e della chimica, che il dipanarsi della
complessità è cominciato ancor prima che si formassero le prime
cellule viventi e che la vita si è evoluta per miliardi di anni usando
sempre gli stessi schemi e processi, allora possiamo renderci conto di
quanto siamo congiunti con l’intero tessuto vivente.
È l’ecologia, in particolare, ad avere piena consapevolezza della
connessione con la natura. I concetti di connessione, relazione e
interdipendenza sono fondamentali nell’ecologia. Peraltro la
connessione, la relazione e l’appartenenza costituiscono l’essenza
dell’esperienza spirituale. L’ecologia sembra dunque essere un ponte
ideale tra la scienza e la spiritualità. Non a caso, Hathaway e Boff
auspicano una «spiritualità ecologica» che si occupi in primo luogo
del futuro del pianeta Terra e dell’umanità.
Ciascuna religione, evidenziano gli autori, possiede una visione e
un approccio ecologici, e questa varietà di insegnamenti va
considerata una risorsa, non una minaccia. «Ciascuno di noi deve
volgersi di nuovo alla propria tradizione spirituale», si legge, «per
trovarvi idee che ci spingano al rispetto per tutte le forme di vita, a
un’etica della condivisione e della cura, a una visione del sacro
incarnato nel cosmo».
Il Tao della liberazione contiene inoltre numerosi suggerimenti su
quali obiettivi, strategie e politiche perseguire per un’efficace azione
trasformatrice che porti a una società giusta ed ecologicamente
sostenibile. Due strategie analizzate nel dettaglio sono il
bioregionalismo, che si fonda sull’idea secondo cui occorre
riconquistare a livello locale la connessione profonda con la natura, e
la Carta della Terra – «un sogno di vera liberazione per l’umanità» –,
che enuncia come suo primo principio il rispetto e la cura per la
comunità vivente.
In un momento di svolta nella storia dell’umanità, i lettori
troveranno in questo libro una messe di idee e di riflessioni
approfondite sui fondamentali cambiamenti della coscienza umana e
sulle radicali trasformazioni ormai indispensabili nel mondo. Tra
tutte, l’idea forse più importante e convincente è quella che costituisce
il fulcro di questa avventura: invece di considerare la transizione
verso una società sostenibile in termini di limiti e restrizioni,
Hathaway e Boff propongono con solide argomentazioni una nuova e
inoppugnabile concezione della sostenibilità come liberazione.
Fritjof Capra
Berkeley, Prima Giornata Internazionale della Terra
22 aprile 2009
Sul Tao Te Ching
Abbiamo scelto di usare il Tao Te Ching (o Dao De Jing)1, un
antico testo cinese scritto approssimativamente duemilacinquecento
anni fa, come fonte di ispirazione per questo libro. Il testo è
tradizionalmente attribuito a Lao-tzu (Laozi), saggio che si ritiene sia
vissuto dal 551 al 479 a.C. circa, anche se molti studiosi pensano che si
tratti in realtà di una raccolta da fonti diverse di detti tradizionali.
Esso fu elaborato probabilmente tra il VII e il II secolo a.C.
Secondo Jonathan Star, possiamo interpretare il significato del
titolo Tao Te Ching come segue:
Il Tao è la Realtà suprema, il sostrato che pervade ogni cosa, è l’intero universo e
il modo in cui opera l’universo. Il Te è la forma e il potere del Tao, è il modo in cui il
Tao si palesa: il Tao che si manifesta in una forma e in una virtù particolari. Il Tao è la
realtà trascendente, il Te è la realtà immanente. Ching significa ‘libro’ o ‘opera
classica’. Dunque, Tao Te Ching letteralmente significa ‘il Libro classico della Realtà
suprema (Tao) e della sua Manifestazione perfetta (Te)’, ‘il Libro della Via e il suo
Potere’, ‘il Classico del Tao e la sua Virtù’.
(2001)
Dopo la Bibbia, il Tao Te Ching è il libro più pubblicato al mondo.
Esistono innumerevoli traduzioni, alcune più accademiche e letterali,
altre più poetiche. Essendo il cinese antico una lingua concettuale,
ogni parola del testo evoca una serie di immagini che possono essere
tradotte in molti modi. Nessuna traduzione coglie quindi l’intera
portata e profondità del testo. In un certo senso, ciascuna traduzione è
una sorta di interpretazione, e nessuna di esse ci può fornire il quadro
completo di ciò che vi è contenuto.
Dal momento che il nostro intento non è quello di elaborare un
trattato accademico sul testo, abbiamo scelto di raccogliere una serie
di traduzioni, molte delle quali sono più poetiche che letterali, e di
combinarle per creare una versione utile a introdurre i diversi capitoli
ma allo stesso tempo fedele al testo originale. A questo scopo abbiamo
usato le traduzioni di Mitchell (1988), Muller (1997), e Feng e English
(1989), rifacendoci al contempo all’eccellente traduzione letterale di
Jonathan Star con C.J. Ming (Star, 2001) come guida generale.
1 La traslitterazione moderna dal cinese è in realtà “Dao De Jing”, che corrisponde alla sua
corretta pronuncia, ma abbiamo scelto di usare “Tao Te Ching” perché è in questa forma che è
maggiormente conosciuto al lettore medio.
Prologo
C’era un che di informe e perfetto,
caotico e completo.
Prima del Cielo e della Terra.
Silente, vasto, vuoto, solitario.
Pervade tutto, perennemente in moto,
tutto sostiene eppure mai si esaurisce.
È la madre del cosmo.
In mancanza di un nome, lo chiamerò Tao.
Scorre attraverso tutto,
all’interno e all’esterno,
per poi ritornare alla fonte di tutto. [...]
Gli Uomini seguono la Terra.
La Terra segue il Cielo.
Il Cielo segue il Tao.
Il Tao segue solo se stesso.
TAO TE CHING §25
Il Tao della liberazione è la ricerca della saggezza necessaria per
compiere profonde trasformazioni nel mondo. Abbiamo scelto di
definire questa saggezza attraverso l’antica parola cinese Tao, che vuol
dire ‘via, cammino verso l’armonia, la pace e le giuste relazioni’. Il Tao
può essere inteso come un principio d’ordine che costituisce il sostrato
comune del cosmo: esso è sia il modo in cui funziona l’universo sia la
struttura cosmica in movimento, che non può essere descritta ma solo
percepita2. Il Tao è la saggezza che risiede nel cuore stesso
dell’universo e che racchiude l’essenza della sua finalità e della sua
direzione.
Pur usando l’immagine del Tao e i testi dell’antico Tao Te Ching, il
nostro non è un libro sul taoismo di per sé. Anzi, l’idea che abbiamo in
mente allorché usiamo il termine Tao trascende in un certo senso
qualsiasi specifica filosofia o religione. Concezioni simili possono
ritrovarsi anche in altre tradizioni. Ad esempio, nel buddhismo il
Dharma è «il modo in cui le cose funzionano» o il «processo ordinato»
(Macy, 1991a). Analogamente, il termine aramaico usato da Gesù
normalmente tradotto come ‘regno’ – Malkuta3 – si riferisce ai
«principi di governo che guidano le nostre vite verso l’unità» ed evoca
«l’immagine di un “braccio carico di frutti” in procinto di creare, o di
una serpeggiante primavera che è pronta a sbocciare con tutto il
verdeggiante potenziale della Terra» (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p.
53]). Anche se il Dharma e il Malkuta inquadrano il concetto in modo
differente, ai fini di questo libro possiamo ipotizzare che essi si
riferiscano in qualche modo alla stessa realtà del Tao: una realtà che
sfugge a una rigida definizione e può solo essere intuita a un livello
più profondo.
L’ideogramma cinese usato per il Tao combina i concetti di
saggezza e di cammino, restituendo l’immagine di un processo che
mette in pratica la saggezza: in altre parole, una sorta di prassi. Nel Tao
della liberazione, cerchiamo appunto questa “saggezza in cammino”,
intrinseca nella struttura stessa del cosmo.

In questa ricerca della saggezza, prendiamo spunto da campi


diversi come l’economia, la psicologia, la cosmologia, l’ecologia e la
spiritualità. Eppure è impossibile delineare perfettamente la forma del
Tao della liberazione. Il Tao è un’arte, non una scienza esatta. Per la
precisione, il Tao è un mistero: possiamo fornire delle indicazioni che
mostrino il cammino da seguire, ma non possiamo tracciare una
mappa dettagliata.
Andiamo alla ricerca della saggezza nella speranza di individuare
delle idee che consentano all’umanità di allontanarsi da percezioni,
pensieri, abitudini e sistemi che perpetuano l’ingiustizia e
annichiliscono la capacità del nostro pianeta di alimentare la vita. Lo
facciamo nella speranza di trovare un nuovo modo di vivere che possa
soddisfare equamente i bisogni degli esseri umani, ma in armonia con
i bisogni e il benessere dell’intera comunità terrestre, e anzi di tutto il
cosmo.

Per definire questo processo di trasformazione usiamo la parola


“liberazione”. Tradizionalmente, questo termine è stato usato o in
senso individuale, come realizzazione spirituale, o in senso collettivo,
riferito al popolo che tenta di liberarsi da strutture politiche,
economiche e sociali oppressive. È nostra intenzione accoglierne
entrambe le accezioni, ma inquadrandole in un contesto più ampio,
ecologico e persino cosmologico. Per noi la liberazione è il processo in
base al quale ci si orienta verso un mondo in cui tutti gli esseri umani
possono vivere con dignità e in armonia con la grande comunità che
compone Gaia, la Terra vivente. Liberazione significa dunque porre
rimedio al terribile danno che abbiamo inflitto l’uno all’altro e al
nostro pianeta. A un livello più profondo, la liberazione è la
realizzazione delle potenzialità degli esseri umani in quanto creativi e
vitali partecipanti alla continua evoluzione di Gaia.
Possiamo poi inserire la liberazione in una prospettiva cosmica,
ossia come un processo attraverso cui anche l’universo cerca di
realizzare le sue potenzialità, dotandosi di una differenziazione, di
un’interiorità (o autoorganizzazione) e di una condivisione sempre
maggiori. In questo contesto, gli individui e le società sono liberati
nella misura in cui essi:
— diventano sempre più diversi e compositi, rispettando e
onorando le differenze;
— approfondiscono l’interiorità e la coscienza, favorendo processi
creativi di autoorganizzazione;
— rinsaldano i legami di comunità e di interdipendenza, compresa
la comunione con l’intera comunità vivente della Terra.
Questo libro parte dal seguente interrogativo: come avviene la
trasformazione? O, più precisamente, perché è così difficile attuare
quei cambiamenti indispensabili per salvare Gaia, la comunità vivente
della Terra di cui facciamo parte? Un contributo fondamentale di
questo libro potrebbe risiedere nel fatto stesso di formulare tale
domanda. Speriamo che il nostro lavoro possa servire come punto di
partenza per cercare nuovi approcci creativi alla trasformazione
liberatrice.
La nostra opera costituisce il punto di confluenza delle correnti di
pensiero di due autori, uno proveniente dal Sud e l’altro dal Nord4.
Leonardo Boff sarà certamente ben noto a molti lettori. Da teologo,
egli ha studiato a fondo i temi della liberazione e dell’ecologia e ha
pubblicato oltre cento opere su questi argomenti. Insegna da anni
teologia nel suo paese, il Brasile, così come in diverse altre regioni
delle Americhe e dell’Europa. Nel 2001 ha inoltre ricevuto il Right
Livelihood Award.
Mark Hathaway lavora da venticinque anni come educatore per
adulti, occupandosi di giustizia ed ecologia. Di questi venticinque
anni, otto li ha trascorsi lavorando come educatore popolare e agente
pastorale nei quartieri poveri di Chiclayo, cittadina sulla costa
settentrionale del Perù. Studia da anni matematica, fisica, teologia,
spiritualità della creazione e formazione per adulti e collabora a
iniziative cattoliche, ecumeniche e di giustizia interreligiosa ed
ecologica. Attualmente vive in Canada, il suo paese natale, dove
lavora sia come coordinatore del programma sudamericano per la
Chiesa Unita del Canada sia come “ecologo” freelance, studiando
l’interconnessione tra ecologia, economia, cosmologia e spiritualità.
Il nucleo originario di questo progetto è da far risalire a un saggio
scritto da Mark mentre ultimava la tesi di master dal titolo
“Formazione trasformatrice”. Fu in occasione di un viaggio di
Leonardo a Toronto nel 1996 che avemmo modo di conoscerci. Dopo
aver letto la tesi, Leonardo suggerì di lavorare insieme alla stesura di
un libro in cui fosse contenuta anche la prospettiva del contesto latino-
americano. Il presente volume è dunque il frutto di questo sforzo
comune.
Due punti di riferimento cruciali del testo sono l’attenzione
privilegiata nei confronti dei poveri e l’interesse prioritario per la
Terra. A nostro avviso, queste due visioni sono intimamente collegate:
le stesse forze e ideologie che sfruttano ed escludono i poveri stanno
anche devastando l’intera comunità vivente sulla Terra. In questo
libro analizzeremo la relazione esistente tra i numerosi ostacoli che si
frappongono tra noi e un’autentica trasformazione. Nostro intento, al
contempo, è comprendere meglio le modalità con cui il cambiamento
si verifica naturalmente nel mondo. Combinate insieme, queste analisi
potranno fungere da guida per quanti lottano per una trasformazione
promotrice della vita.
Abbiamo tratto ispirazione da un ampio spettro di prospettive e di
visioni, attinte da persone diverse e diverse tradizioni spirituali.
Proviamo dunque profonda gratitudine per tutti coloro che hanno
condiviso con noi la loro sapienza. È nostro auspicio che questi fili
possano intrecciarsi nel corso del nostro volume per formare un
arazzo che sia al tempo stesso nitido e vivace. È un compito
impegnativo, sotto molti aspetti. Abbiamo optato per una visione di
ampio respiro più che per un’analisi circoscritta e dettagliata delle
singole parti. Speriamo di riuscire in questo modo ad avvicinare i
lettori a dimensioni che potranno poi esplorare più
approfonditamente per conto proprio.
L’immagine che si potrebbe usare per descrivere il metodo con cui
è stato scritto questo testo è quella della spirale. Di quando in quando
si avrà la sensazione di trovarsi di fronte a una rivisitazione degli
stessi temi, ma da una prospettiva differente. Man mano che ci si
addentrerà in questa spirale, tali diverse prospettive consentiranno di
cogliere il tutto, che è qualcosa di più della somma delle parti: è il
mosaico che si rivela solo astenendosi da un’analisi dettagliata dei
singoli pezzi. Auspichiamo che, a quel punto, si comincerà anche a
sentire il flusso e la trama del Tao della liberazione a un livello
profondo e intuitivo, perché è lì che la sua misteriosa saggezza può
fungere da guida dell’agire umano nella missione di rinnovare il
mondo.
2 Le definizioni di Tao sono attinte da Dreher, 1990; Heider, 1986; Feng, English, 1989;
Star, 2001.
3 È praticamente impossibile conoscere le parole precise proferite da Gesù in aramaico
palestinese. In questo libro abbiamo scelto di usare queste parole nel modo in cui compaiono
nei vangeli della versione aramaica (siriaca) della Bibbia usata oggi dai cristiani aramaici: la
Peshitta. Molti studiosi cristiani aramaici sostengono che tali versioni dei vangeli potrebbero
essere antiche quanto quelle del Nuovo Testamento greco. Le traslitterazioni e le
interpretazioni delle parole attinte dalla Peshitta sono ricavate dall’opera di Neil Douglas-
Klotz (1990, 1995, 1999, 2006), il quale rileva che Gesù parlava di norma in aramaico poiché
era quella la lingua comunemente usata dal suo popolo. Perciò usare una fonte così
attendibile in aramaico (come la versione Peshitta) contribuisce sicuramente a penetrare
meglio la figura di Cristo, come anche il senso profondo celato nelle sue parole e la natura
della sua spiritualità. Come ci spiega Douglas-Klotz: «La Peshitta è, tra le antiche versioni del
Nuovo Testamento, la più semitica, la più ebraica, se vogliamo. Quantomeno ci offre uno
scorcio del pensiero, della lingua, della cultura e della spiritualità di Gesù attraverso la lente
della primissima comunità di cristiani ebrei orientali. Nessun testo greco ci può fornire una
simile visuale» (1999). L’autore afferma inoltre che le parole chiave usate da Gesù sono di
radice identica (e quindi anche di identico significato) sia in aramaico palestinese sia in
aramaico siriaco. Per il metodo usato da Douglas-Klotz, cfr. The Hidden Gospel (1999).
4 Nel testo useremo spesso il termine “Nord” (o “Nord globale”) per riferirci alle società
ipersviluppate e consumistiche situate perlopiù al nord, e il termine “Sud” (o “Sud globale”)
per riferirci alle società povere collocate prevalentemente al sud, in particolare nelle fasce
tropicali e subtropicali del pianeta.
IL TAO DELLA LIBERAZIONE
Ci troviamo ad una svolta critica nella storia del Pianeta, in un
momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. A mano
a mano che il mondo diventa sempre più interdipendente e
fragile, il futuro riserva allo stesso tempo grandi pericoli
e grandi opportunità. [...] La scelta sta a noi: o creiamo
un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli
uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione, la nostra
e quella della diversità della vita. [...] Dobbiamo decidere
di vivere con un senso di responsabilità universale,
identificandoci con l’intera comunità terrestre, oltre
che con le nostre comunità locali.
CARTA DELLA TERRA
Quale nome i nostri figli e i figli dei nostri figli useranno per
definire la nostra epoca? Parleranno con rabbia e frustrazione
dell’epoca del Grande Disfacimento [...] oppure gioiosamente
commemoreranno la grandiosa era della Grande Svolta, quando i
loro avi trasformarono la crisi in opportunità, seguirono le
più nobili potenzialità della loro natura, suggellarono
un’alleanza creativa su cui fondare la convivenza tra loro
e con la Terra vivente e diedero vita a una nuova era piena
di promesse per l’essere umano?
DAVID KORTEN
Non ci mancano certo le forze dinamiche per costruire il
futuro. Viviamo immersi in uno sconfinato oceano di energia.
Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio
ma per invocazione.
THOMAS BERRY
1. Cercare la saggezza in un tempo di crisi
Se i migliori tra chi è in cammino incontrano il Tao,
vogliono incarnarlo.
Se i normali tra chi è in cammino incontrano il Tao,
a volte lo seguono, a volte lo dimenticano.
Se gli stolidi tra chi è in cammino incontrano il Tao,
ridono forte.
Se non ridessero,
non sarebbe il Tao.
Per questo si dice:
la via della luce sembra oscura,
la via che avanza sembra andare indietro,
la via diritta sembra contorta,
il più grande potere appare debole,
la vera purezza appare macchiata,
la grande abbondanza sembra povera,
la vera solidità sembra instabile.
Il vasto spazio non si può contenere,
il più grande talento impiega molto a maturare,
la nota più alta è dura da udire,
la forma perfetta non si può incarnare.
Non v’è luogo dove si trovi il Tao.
Eppure tutto nutre e tutto porta a compimento.
TAO TE CHING §41
Oggi siamo probabilmente a uno dei più importanti crocevia nella
storia dell’umanità, e anzi della Terra stessa. Le dinamiche della
povertà in aumento e dell’accelerazione del degrado ecologico,
combinate insieme, stanno dando vita a un vortice terribile di
disperazione e devastazione al quale è sempre più arduo sfuggire. Se
non agiremo con la dovuta energia, tempestività e saggezza, ci
condanneremo presto a un futuro in cui una vita dotata di senso, di
speranza e di bellezza sarà ormai una possibilità remota.
In realtà la vita di gran parte del genere umano, quella parte che
arranca ai margini dell’economia globale, sembra già in bilico sull’orlo
dell’abisso. Il divario tra ricchi e poveri cresce di anno in anno. In un
mondo che vende l’illusione di un paradiso consumistico, i più
devono faticare per conquistare il minimo indispensabile per
sopravvivere. Il sogno di raggiungere uno stile di vita semplice ma
dignitoso rimane perennemente inafferrabile. Per molti, dunque,
vivere diventa con il passare degli anni sempre più difficile.
Le altre creature che condividono il pianeta con l’umanità stanno
sperimentando una crisi ancora più profonda. Mentre gli esseri umani
si appropriano di una fetta sempre più grande dei doni della Terra, le
altre forme di vita ne hanno sempre meno a disposizione. Mentre noi
guastiamo l’aria, l’acqua e la terra con sostanze chimiche e scorie, i
sistemi complessi che sostengono la rete della vita sono vieppiù
minacciati. Molte specie stanno scomparendo per sempre. Il nostro
pianeta, di fatto, sta vivendo una delle più gravi estinzioni di massa di
tutti i tempi.
Vi sono, naturalmente, alcuni segnali di speranza: innumerevoli
individui e organizzazioni lavorano con creatività e coraggio alla
trasformazione. Alcuni hanno dato vita a movimenti ormai diffusi a
livello globale. Il loro impegno sta facendo la differenza per tante
comunità in tutto il mondo. Intanto, i nuovi mezzi di comunicazione
creano opportunità di dialogo tra persone di differenti culture e
religioni: si possono condividere idee e saperi come mai prima d’ora.
In tanti sono oggi più consapevoli dei propri diritti fondamentali e più
attivi nel difenderli. Concreti passi avanti sono stati fatti in campi
come l’assistenza sanitaria e l’accesso ai servizi di base. C’è maggiore
conoscenza delle questioni ecologiche, e molte comunità si sforzano di
operare in armonia con la natura, non contro di essa. Tutte queste
tendenze schiudono nuove possibilità per il rinnovamento del mondo.
Eppure, sotto molti aspetti, non si tratta che di lampi di luce in
mezzo alle tenebre. Non si scorge ancora un’efficace azione concertata
di portata tale da bloccare concretamente la sempre maggiore povertà
e il disfacimento ecologico, né tantomeno capace di avviare un
processo in grado di guarire la comunità terrestre. Le istituzioni
globali, in particolare i governi e le multinazionali, continuano ad
agire con modalità che non tengono minimamente conto dell’urgenza
di modificare radicalmente il nostro modo di vivere. Al contrario, le
idee, i moventi, i costumi e le scelte politiche che hanno provocato
tanta devastazione e ingiustizia continuano a dominare i nostri sistemi
politici ed economici. Come ha dichiarato Michail Gorbacëv:
Sebbene crescano le iniziative, anche coraggiose, di alcuni capi di governo e
privati per salvaguardare l’ambiente, non mi sembra che si stia affermando una
leadership tale da fronteggiare seriamente l’attuale situazione né che vi sia una reale
disponibilità ad assumersi dei rischi. Aumentano gli individui e le organizzazioni che
si impegnano attivamente affinché vi sia maggiore consapevolezza e cambi il modo
in cui trattiamo la natura, eppure non vedo ancora una visione chiara e un fronte
unito che spingano l’umanità a reagire in tempo e correggere la rotta.
(2001)
Joanna Macy e Molly Brown (1998) definiscono «Grande Svolta» la
sfida cruciale della nostra epoca, ossia la transizione dalla società
industriale della crescita a una civiltà a sostegno della vita. Non
sappiamo però se riusciremo a realizzare in tempo questa
fondamentale trasformazione, scongiurando così la distruzione di
quella rete intricata che alimenta le forme di vita complessa. Quel che
è certo è che se non riusciremo a concretizzare il cambiamento non
sarà per la mancanza di tecnologia o di sufficienti informazioni, o di
alternative creative, ma piuttosto per la mancanza di volontà politica e
per il fatto che i pericoli dinnanzi a noi sono così gravi che si
preferisce scacciarli dalla mente per paura. Tuttavia siamo convinti
che questo circolo vizioso di disperazione e devastazione possa essere
interrotto, e che abbiamo ancora il margine per agire e cambiare rotta.
C’è ancora tempo perché si verifichi la Grande Svolta e il pianeta ne
sia guarito. Scopo di questo libro è, appunto, la ricerca di una via che
indirizzi a tale trasformazione, un cambiamento che ci spinga a un
nuovo modo di essere nel mondo: una modalità che preveda relazioni
giuste e armoniose sia all’interno della società umana sia all’interno
dell’intera comunità terrestre. È dunque la ricerca di una saggezza –
un Tao – che ci porti a una liberazione integrale.
È nostra convinzione che la forza per operare questi cambiamenti
sia già presente tra noi. I suoi semi sono contenuti nello spirito umano.
Essa è presente nei processi evolutivi di Gaia, la nostra Terra vivente.
Anzi, essa è intrecciata nel tessuto stesso del cosmo, nel Tao che scorre
attraverso tutto e in tutto. Se troveremo il modo di entrare in sintonia
con il Tao e di allinearci alla sua energia, allora troveremo anche la
chiave per mettere in pratica una trasformazione davvero
rivoluzionaria che porti a una liberazione autentica. Il Tao, tuttavia,
non è qualcosa di cui ci possiamo appropriare o che possiamo
dominare: piuttosto, dobbiamo consentire che esso agisca attraverso
di noi aprendoci alla sua energia trasformatrice, cosicché la Terra
possa essere guarita. Nelle parole di Thomas Berry:
A noi non mancano le forze dinamiche necessarie per costruire il futuro. Viviamo
immersi in un oceano di energia inimmaginabile. Ma questa energia, in definitiva, è
nostra non per dominio ma per invocazione.
(1999)
Prima di lanciarci in quest’impresa, però, dobbiamo comprendere
gli ostacoli concreti che si frappongono tra noi e la trasformazione
liberatrice. Forse il primo passo verso la saggezza è semplicemente
quello di riconoscere l’esigenza di cambiamento. Molti di noi ancora
non si rendono conto della portata e della gravità delle crisi che
abbiamo dinnanzi. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che la nostra
percezione della realtà è stata plasmata in modo tale da occultare ciò
che altrimenti sarebbe subito evidente. Tendiamo a vedere il mondo
da una prospettiva molto ristretta, sia rispetto al tempo sia rispetto
allo spazio. Raramente spingiamo il nostro sguardo al di là del passato
o del futuro immediati, o al di là della nostra comunità e della nostra
regione.
Parte della questione risiede anche nel fatto che i problemi con cui
dobbiamo fare i conti si acuiscono con estrema gradualità, specie se
rapportati alla durata relativamente breve della vita umana.
Tendiamo ad abituarci rapidamente alle nuove realtà – almeno a un
livello superficiale –, e per questo non ci rendiamo conto della gravità
delle crisi che ci si presentano. Un paragone illuminante è quello della
rana esposta a temperature sempre più elevate: se mettete una rana
nell’acqua bollente, quella cercherà di scappare immediatamente, ma
se la mettete nell’acqua fredda e aumentate gradualmente la
temperatura, la rana non si accorgerà del pericolo finché non sarà
troppo tardi e morirà.
La crisi della Terra: una prospettiva cosmica
Per capire appieno la gravità delle crisi con cui abbiamo a che fare
dobbiamo quindi abbandonare per un momento la nostra consueta
visione della realtà e adottare una prospettiva “cosmica”. Poniamo
che tutta la storia dell’universo, lunga quindici miliardi di anni, si
possa condensare in un unico secolo5; in altre parole, che ogni “anno
cosmico” equivalga a 150 milioni di anni della Terra6.
Da questo punto di vista, la Terra nasce il settantesimo anno del
secolo cosmico e la vita compare a sorpresa negli oceani subito dopo,
nell’anno 73. Per quasi due decenni cosmici, la vita è composta quasi
esclusivamente di batteri unicellulari. Eppure questi organismi
contribuiscono notevolmente a trasformare il pianeta, modificandone
radicalmente l’atmosfera, gli oceani e la geologia, in modo che essi
possano sostenere forme di vita più complesse.
Nell’anno 93 comincia una nuova fase creativa, con l’avvento della
riproduzione sessuale e la morte degli organismi unici. In questa
nuova fase, il processo evolutivo accelera rapidamente. Due anni
dopo, nell’anno 95, compaiono i primi organismi pluricellulari. I primi
sistemi nervosi si sviluppano nell’anno 96 e i primi vertebrati meno di
un anno dopo. I mammiferi arrivano a metà dell’anno 98, due mesi
dopo il debutto dei dinosauri e delle prime piante infiorescenti.
Cinque mesi dopo, un asteroide colpisce la Terra distruggendo
numerose specie viventi, tra cui i dinosauri. Ma in poco tempo il
pianeta recupera e anzi supera la sua antica bellezza. In quest’era, il
Cenozoico, vi sono un’abbondanza e una varietà di forme viventi mai
viste.
È durante quest’epoca meravigliosa che nascono gli esseri umani.
Dodici giorni dopo, i nostri antichi antenati cominciano a camminare
eretti. Sei giorni dopo, l’Homo habilis inizia a maneggiare degli
strumenti e, un giorno fa, l’Homo erectus addomestica il fuoco. L’uomo
moderno, l’Homo sapiens, nasce circa dodici ore fa.
Per gran parte del pomeriggio e della sera di questo giorno
cosmico viviamo in armonia con la natura, a contatto con i suoi ritmi
come con i suoi pericoli. In effetti, la nostra presenza ha scarso impatto
sulla vasta comunità biotica fino a quaranta minuti fa, quando
addomestichiamo per la prima volta animali e piante con l’invenzione
dell’agricoltura. I nostri interventi continuano a espandersi, pur se
lentamente, e circa venti minuti fa alcuni di noi cominciano a costruire
e ad abitare le città.
L’impatto del genere umano sugli ecosistemi del mondo diventa
più pesante solo due minuti fa, quando l’Europa si trasforma in una
società tecnologica e comincia a espandere il proprio potere con
l’avventura coloniale. È in questo momento che, tra le altre cose,
aumenta rapidamente il divario tra i ricchi e i poveri.
Negli ultimi dodici secondi (dal 1950), accelera drasticamente il
ritmo dello sfruttamento e della devastazione ecologica. In questo
breve lasso di tempo7:
• Abbiamo distrutto quasi metà delle grandi foreste della Terra, i
polmoni del pianeta. Molte tra le più importanti ed estese – tra cui le
grandi foreste boreali, quelle pluviali tropicali e quelle delle zone
temperate – registrano tuttora un tasso di distruzione in accelerazione.
Ogni anno si disbosca un’area pari all’estensione del Bangladesh.
• Abbiamo emesso nell’atmosfera quantità immense di diossido di
carbonio e di altri gas serra, innescando un pericoloso meccanismo di
riscaldamento globale e instabilità climatica. Le temperature globali
sono già aumentate in media di 0,5 °C e potrebbero aumentare tra i 2 e
i 5 °C nei prossimi venti secondi cosmici8.
• Abbiamo creato un buco enorme nell’ozono, lo strato protettivo
del pianeta che filtra le radiazioni ultraviolette nocive. Come risultato,
i livelli UV hanno raggiunto cifre record, minacciando la salute degli
organismi viventi.
• Abbiamo minato la fertilità del suolo e la sua capacità di
sostenere la vita vegetale: il 65 per cento della terra un tempo arabile
ormai non lo è più – quasi la metà negli ultimi nove secondi cosmici –,
mentre un ulteriore 15 per cento della superficie terrestre va
desertificandosi. Negli ultimi cinque secondi cosmici, la Terra ha
perduto una quantità di terreno superficiale pari a quello che ricopre
tutte le terre coltivate di Francia e Cina messe insieme. Due terzi di
tutta la terra agricola sono stati moderatamente o gravemente
danneggiati dall’erosione e dalla salinizzazione.
• Abbiamo immesso nell’aria, nel suolo e nell’acqua del pianeta
decine di migliaia di nuove sostanze chimiche, molte delle quali sono
tossine resistenti che avvelenano lentamente i processi biologici.
Abbiamo prodotto scorie nucleari mortali che rimarranno
pericolosamente radioattive per molte centinaia di migliaia di anni, un
periodo ben più lungo delle dodici ore cosmiche vissute dagli uomini
moderni.
• Abbiamo distrutto centinaia di migliaia di specie vegetali e
animali. Circa cinquemila specie scompaiono ormai ogni anno, quasi
tutte a causa delle attività umane. Si stima che il tasso di estinzione sia
diecimila volte più elevato di quello presente prima che gli umani
occupassero il pianeta, e che potremmo sperimentare la più grande
estinzione di massa nella storia della Terra. Gli scienziati prevedono
che tra il 20 e il 50 per cento di tutte le specie scomparirà nei prossimi
trent’anni (sette secondi cosmici) se questo trend dovesse continuare.
• Gli esseri umani usano o consumano il 40 per cento di tutta
l’energia disponibile per gli animali terrestri (si parla in questo caso di
“produzione primaria netta”, PPN, del pianeta), e a questo ritmo nel
giro di otto secondi cosmici (trentacinque anni) se ne accaparreranno
l’80 per cento, lasciando agli altri animali solo il 20 per cento.
Tanta distruzione in così poco tempo! E per cosa? I “benefici” di
questo processo sono andati a una fetta molto piccola dell’umanità: la
fascia più ricca della popolazione mondiale, pari al 20 per cento,
guadagna circa duecento volte di più del 20 per cento più povero9.
All’inizio del 2009, i 793 miliardari presenti sul pianeta avevano
complessivamente un “valore” netto pari a 2,4 trilioni di dollari (Pitts,
2009), una cifra più elevata del reddito complessivo annuale della
metà più povera del genere umano (all’inizio del 2008, prima dello
scoppio dell’attuale crisi economica, si contavano 1.195 miliardari per
un valore totale di 4,4 trilioni di dollari, ossia circa il doppio di quanto
guadagna in un anno il 50 per cento più povero!). In termini di
reddito, la fascia di popolazione più ricca, pari all’1 per cento, ha
ricevuto quanto l’intera fascia dei più poveri, pari al 57 per cento10.
Il nostro pianeta, frutto di oltre quattro miliardi di anni di
evoluzione, viene oggi divorato da una piccola parte dell’umanità, ma
neanche questa cerchia privilegiata può sperare di reggere tale
sfruttamento ancora per molto. Non deve quindi sorprendere se, nel
1992, un gruppo di milleseicento scienziati, tra cui oltre un centinaio
di premi Nobel, abbia deciso di riunirsi attorno a un tavolo per
elaborare un “monito all’umanità”:
Mancano pochi decenni prima che si perda ogni chance di scongiurare le minacce
che si profilano oggi e le prospettive per l’umanità si restringano
incommensurabilmente [...] è necessaria una nuova etica, un atteggiamento nuovo
che ci spinga ad assolvere al dovere di prenderci cura di noi stessi e della terra.
Questa etica deve fare da propulsore a un grande movimento e convincere i leader
riluttanti, i governi riluttanti e persino i popoli riluttanti a mettere in atto i
cambiamenti necessari.
(Brown et al., 1994)
Sono passati quasi vent’anni da quando questo monito fu lanciato
per la prima volta. Sebbene alcuni leader abbiano cominciato, forse, a
prendere più seriamente la questione della povertà e del degrado
ecologico, non esiste ancora un movimento coordinato che mobiliti le
energie dell’umanità per affrontare con decisione le crisi che ci sono
dinnanzi. Al contrario, vengono spese molte più energie nella
cosiddetta guerra al terrorismo (che in realtà è più che altro una
guerra per salvaguardare le forniture petrolifere e perpetuare il
“business as usual”) che non per le minacce che stanno distruggendo la
vita a una velocità mai vista.
La ricerca della saggezza
Per la prima volta nella storia evolutiva dell’uomo, tutte le
situazioni di crisi – la distruzione degli ecosistemi, la povertà
opprimente di miliardi di persone, frutto dell’avidità e di
un’ingiustizia sistemica, e la minaccia costante del militarismo e della
guerra – le abbiamo create noi stessi. Combinate tra loro, queste crisi
possono distruggere non solo una singola cultura o una singola
regione del mondo, ma l’intera civiltà umana, e addirittura l’intera
rete della vita sul pianeta. Sono in pericolo non soltanto le generazioni
attuali, ma anche quelle future della comunità terrestre.
I rischi che corriamo, ovviamente, generano paura. È importante
rendersi conto non soltanto della situazione, ma anche dei sentimenti
che essa suscita in noi. Nell’evidenziare l’immediatezza di queste
minacce, è però di vitale importanza evitare moniti apocalittici che
conducano alla paralisi indotta dalla disperazione. Dobbiamo tenere a
mente che queste crisi sono prodotte da noi, e quindi c’è la speranza
di fronteggiarle in modo incisivo. Molte persone brillanti e creative
hanno profuso le loro migliori energie per formulare alternative
concrete che consentano all’umanità di vivere dignitosamente senza
mettere a repentaglio la salute degli ecosistemi terrestri.
Siamo convinti che l’uomo possegga già le informazioni e le
conoscenze necessarie per superare le crisi attuali. Come scrivono
Macy e Brown:
Possiamo scegliere la vita. A dispetto di tutte le più tragiche previsioni, possiamo
ancora agire per garantire un mondo vivibile. È fondamentale rendersi conto di
questo: possiamo soddisfare i nostri bisogni senza annientare il sistema che sostiene la vita.
Possediamo le conoscenze tecniche e i mezzi di comunicazione per farlo. Abbiamo il
buon senso e le risorse per coltivare cibo a sufficienza, garantirci aria e acqua pulite e
produrre l’energia necessaria attraverso il sole, il vento e le biomasse. Se abbiamo la
volontà, avremo anche i mezzi per controllare la popolazione umana, smantellare le
armi ed evitare le guerre, dando voce a tutti nell’autogoverno democratico.
(1998)
Ovviamente serviranno impegno, azioni concertate e
organizzazione per mettere in pratica queste alternative. Soprattutto,
abbiamo bisogno dell’energia, della lungimiranza, della perspicacia e
della saggezza per orientare la nostra azione trasformatrice: abbiamo
bisogno di un autentico Tao che ci guidi verso la liberazione. Abbiamo
bisogno di comprendere le diverse dimensioni della crisi globale e
delle dinamiche che contribuiscono a perpetuarla; abbiamo bisogno di
trovare una strada per superare gli ostacoli sul nostro cammino;
abbiamo bisogno di una comprensione sempre più profonda della
realtà, ed anche della vera natura della trasformazione; infine,
abbiamo bisogno di affilare il nostro intuito e sviluppare nuove
sensibilità per essere capaci di agire creativamente ed efficacemente.
In questa ricerca di saggezza, dobbiamo innanzitutto capire che
tutte le minacce che si presentano possono essere viste, in un certo
senso, come sintomi di un più profondo male culturale e spirituale che
affligge l’umanità, in particolare quel 20 per cento di persone che
consumano la fetta più cospicua della ricchezza del mondo. Ciò ci
costringe a riflettere più a fondo sulle nostre culture, i nostri valori, i
nostri sistemi politico-economici e su noi stessi. Come afferma lo
psicologo Roger Walsh, le crisi che sono intorno a noi possono servire
a far crollare «le nostre difese e aiutare a confrontarci con la vera
condizione del mondo e il nostro ruolo nel crearla» (1984 [1991, p.
160]). Possono indurci a cambiare profondamente il modo in cui
viviamo, pensiamo e agiamo, e persino il modo in cui percepiamo la
realtà.
I periodi di crisi possono essere tempi creativi, tempi in cui si
schiudono nuove visioni e nuove possibilità. L’ideogramma cinese per
‘crisi’, il wei-ji, è composto dai caratteri che rappresentano il pericolo e
l’opportunità (raffigurati da una lancia inarrestabile e da uno scudo
impenetrabile). Non si tratta di una contraddizione o di un paradosso:
i pericoli che corriamo ci stimolano a riflettere più a fondo, a cercare
alternative, a cogliere le opportunità. La parola “crisi” deriva dal
greco krinein, che vuol dire ‘dividere’: implica dunque una scelta tra
diverse alternative. Non agire per cambiare la situazione, ossia la
povertà in aumento e la devastazione ecologica, vuol dire scegliere di
continuare a sprofondare in un abisso di disperazione.

Ma un’altra scelta è possibile: abbiamo la possibilità di optare per


un nuovo modo di vivere sul pianeta, un nuovo modo di vivere tra di
noi e con le altre creature del mondo. Numerose sono le fonti di
ispirazione per un mondo in tale maniera trasfigurato. Alcune di esse
sono antiche e provengono dalle diverse tradizioni culturali e
spirituali presenti nel mondo. Altre stanno nascendo adesso da ambiti
come l’ecologia profonda, il femminismo, l’ecofemminismo e la nuova
cosmologia che si fa strada a partire dalla scienza. Una nuova visione
della realtà, un nuovo modo di essere nel mondo stanno diventando
possibili. Scrivono Macy e Brown:
L’aspetto maggiormente degno di nota di questo momento storico sulla Terra non
è che siamo sul punto di distruggere il mondo: in realtà ci siamo già da un po’. È
invece che stiamo cominciando a risvegliarci, come da un sonno millenario, a una
relazione del tutto nuova con il mondo, con noi stessi e con gli altri. Questo nuovo
sguardo sulla realtà rende possibile la Grande Svolta.
(1998)
Esaminare gli ostacoli
Se un’autentica trasformazione che porti a un mondo fondato su
una nuova visione sembra un compito arduo, ciò è dovuto ai
numerosi ostacoli, tra loro interdipendenti, che contribuiscono a far
sembrare impossibile il cambiamento. Un passo importante nella
ricerca di un Tao della liberazione è quindi il riconoscimento dei
fattori che intralciano realmente il cambiamento. Per capire meglio,
esamineremo questi ostacoli da tre differenti prospettive. Un modo
per leggere la situazione è considerarla come un processo in cui si
rimuovono man mano diversi strati. A volte ritorneremo sullo stesso
ostacolo, ma osservato a un livello differente, più sfumato. I diversi
strati o prospettive, tuttavia, sono in certa misura modi
complementari di vedere un’unica realtà.
Da un primo punto di vista, gli ostacoli sono sistemici. Le strutture
politiche ed economiche del mondo non solo devastano direttamente
la Terra, ma bloccano qualsiasi azione efficace per risolvere i problemi
odierni. Sempre più il potere è nelle mani di un numero ristretto di
corporation transnazionali che sempre meno è tenuto a rendere conto
alle strutture democratiche. L’economia del capitalismo globale è
fondata sull’ideologia della crescita e del progresso quantitativo. Una
fetta vieppiù cospicua di profitti è generata dalla speculazione, mentre
sempre meno valore viene attribuito alle attività realmente produttive
legate alla natura e all’economia sociale. Sempre meno persone
beneficiano di questo sistema, e una fascia sempre più ampia
dell’umanità ne è totalmente esclusa. La vita della natura e la vita dei
poveri sono convertite in capitale inanimato attraverso il denaro,
un’astrazione che di per sé non ha un valore intrinseco. Non essendo
questo un sistema sostenibile, persino la minoranza di persone che ne
beneficia al momento non può sperare di continuare così a lungo.
Insomma, il mondo è governato da un sistema patologico e fuori
controllo che, lasciato a se stesso, minaccia di distruggere la Terra.
Nell’esaminare tale sistema patologico, cercheremo di
comprenderne meglio le dinamiche e di smascherarne la
fondamentale follia. Dimostreremo quanto il capitalismo
transnazionale sia radicato nel patriarcato (il dominio degli uomini
sulle donne) e nell’antropocentrismo (il dominio dell’uomo sulla
natura). Parte della missione di creare un sistema alternativo è
riconcettualizzare la natura stessa del potere: non più controllo bensì
potenzialità creativa intrecciata ai vincoli dell’influenza reciproca.
Da una seconda prospettiva, le strutture dello sfruttamento e della
supremazia globale contribuiscono a indebolire la nostra capacità di
cambiamento a livello psico-spirituale. L’oppressione oggettiva
produce un’eco psicologica che assume la forma dell’impotenza
interiorizzata. La gravità delle crisi con cui ci dobbiamo confrontare
tende inoltre a generare dinamiche di negazione, di colpa e, se
abbiamo il coraggio di guardare in faccia la realtà, anche di
disperazione. Le dipendenze si rivelano un meccanismo di difesa per
evitare di affrontare realtà dolorose. Il nostro spirito si anestetizza e
smettiamo di vivere pienamente da esseri umani. I media, i sistemi di
istruzione, il consumismo e (in molte nazioni) la repressione militare –
insieme a una serie di dinamiche culturali più subdole – non fanno
che rinforzare questo assoggettamento dello spirito. Finanche la
nostra percezione della realtà è distorta da un sistema che cerca di
blandirci e di bloccare ogni serio processo di cambiamento.
Allo scopo di superare gli impedimenti psico-spirituali alla
trasformazione, prenderemo in esame l’importanza di riconoscere le
nostre paure, di costruire la comunità e di alimentare la creatività e la
solidarietà. Rifletteremo inoltre sull’esigenza di superare la nostra
alienazione dalla natura e di recuperare una reale salute psichica, in
modo da accedere a quella forza interiore di cui abbiamo bisogno per
lavorare alla trasformazione profonda del mondo. Infine, nostro fine è
risvegliare lo spirito e sviluppare una compassione profonda, ossia la
capacità di immedesimarsi nelle gioie e nelle sofferenze di tutte le
creature della Terra. Ciò implica vivere a un livello dell’essere molto
più profondo e ricco di quello diffuso nelle società moderne.
Scavare più a fondo: cosmologia e liberazione
Osservando il male spirituale dell’impotenza, siamo indotti a
esaminare una terza e forse più importante prospettiva: la nostra
percezione della natura della realtà. Tale prospettiva, da noi definita
“cosmologica”, è forse la più difficile da assumere, ma anche
potenzialmente la più feconda di nuove alternative. La nostra
cosmologia comprende l’interpretazione dell’origine, evoluzione e
finalità dell’universo e del posto che gli esseri umani occupano
all’interno di esso. Il modo in cui viviamo e interpretiamo il cosmo – la
nostra “cosmovisione” – è al cuore delle nostre convinzioni circa la
natura della trasformazione.
Negli ultimi tre secoli, una cosmologia meccanicistica,
deterministica, atomistica e riduzionista ha prevalso nel genere
umano. Il consumismo ha poi ristretto e involgarito ulteriormente
questa percezione della realtà. Questi fattori, combinati tra loro, hanno
contribuito a schiacciare la nostra capacità di immaginare il
cambiamento e di agire creativamente.
Negli ultimi cento anni, tuttavia, una nuova interpretazione del
cosmo ha cominciato a farsi strada a partire dalla scienza. Sotto molti
aspetti, essa richiama una più antica cosmologia – ancora diffusa tra
molti popoli aborigeni – in base alla quale l’universo è un unico
organismo che funziona in modo olistico. Nondimeno, a differenza
delle cosmologie tradizionali, la nuova cosmologia che scaturisce dalla
scienza immagina un universo in evoluzione: il cosmo non è un’entità
statica ed eterna, bensì un processo che si dispiega e si ricrea
costantemente. Come scopriremo più avanti, questa cosmovisione
mette in discussione il modo stesso in cui consideriamo le dinamiche
del cambiamento. Allorché ci si rende conto dell’interconnessione tra
noi e il cosmo, la trasformazione comincia a essere inquadrata in una
nuova cornice che sradica i presupposti dai quali partiamo: la
causalità lineare e la cieca casualità. L’importanza dell’intuito, della
spiritualità e delle sapienze antiche si fa più evidente. Invece che
consumatori o spettatori passivi in una partita del puro caso,
cominciamo a percepirci come partecipanti attivi nel sottile mistero
della finalità cosmica in divenire.
L’ecologia della trasformazione
Nel momento in cui analizziamo i molteplici livelli degli ostacoli al
cambiamento ed esaminiamo la nuova cosmologia che si fa strada a
partire dalla scienza, cominciamo anche a notare l’interrelazione tra le
diverse dimensioni del complessivo processo di trasformazione, che si
potrebbe definire un’ecologia. La parola “ecologia” si riferisce di
norma alla relazione tra gli organismi e l’ambiente circostante. In
sostanza, si tratta di uno studio sull’interrelazione e l’interdipendenza.
Letteralmente, è lo “studio della casa” (laddove oikos, ‘casa’, potrebbe
essere interpretata come la Terra stessa). Pare appropriato, dunque,
parlare di una “ecologia della trasformazione” per descrivere i
processi interrelati che debbono essere messi in moto per guarire la
nostra casa comune: la Terra.
Un’efficace ecologia della trasformazione richiederà una nuova
visione della realtà che funga da obiettivo concreto e ci restituisca la
speranza. Con la sconfitta del “socialismo reale” degli ultimi vent’anni
(il quale, nonostante i suoi limiti, quantomeno infondeva la speranza
in un’alternativa possibile), è diventata quanto mai urgente l’esigenza
di una visione organica che prospetti un mondo completamente
trasfigurato. È proprio immaginando delle strade praticabili per
vivere dignitosamente e in armonia con la Terra che possiamo avviare
una diversa corrente di ispirazione che sia a sostegno della vita e ci
spinga verso un futuro migliore.
Una visione del mondo realistica che consentirebbe agli umani di
vivere con dignità e in armonia con le altre creature è quella del
“bioregionalismo”. Il bioregionalismo immagina una società fondata
su piccole comunità locali legate tra loro da una rete di relazioni
basate sull’eguaglianza, la condivisione e l’equilibrio ecologico invece
che sullo sfruttamento. Questo modello intende costruire comunità
che si sostengono e si rigenerano da sole. L’estensione di tali comunità
dovrebbe corrispondere alle “bioregioni” naturali fondate
sull’ecologia, la storia naturale e la cultura di un’area specifica, e
dovrebbe rispecchiare i valori dell’autonomia e dell’armonia con la
natura: si instaurerebbe il controllo da parte della comunità, i bisogni
individuali verrebbero soddisfatti e si costruirebbe una cultura locale
(Nozick, 1992).
Una siffatta visione potrà sembrare poco realistica, persino
utopica, ma andando avanti nella lettura di questo libro ci si renderà
conto che questo modello è molto più in sintonia con i bisogni
dell’umanità e del processo evolutivo cosmico rispetto alle strutture di
dominio e sfruttamento che violentano oggi il nostro pianeta. Anzi,
adottare un modello che contenga queste direttrici potrebbe essere la
nostra unica speranza in una vita degna di essere vissuta.
Infine, rivedremo, approfondiremo e integreremo le nostre
riflessioni analizzando alcuni possibili processi di apertura e di
assimilazione del Tao della liberazione. In tal modo risulteranno
meglio delineati anche i contorni dell’ecologia della trasformazione.
Speriamo che ciò stimoli a sua volta nuove riflessioni e processi che
arricchiscano l’agire di chi lotta per la salute e il benessere della
comunità della Terra.

Scopo del libro è ridare speranza e ispirare nuova creatività a


quanti si impegnano per migliorare la qualità e il vigore delle
comunità viventi della Terra, sia umane che non umane. In questo si
percepisce l’urgenza di questa nostra missione. Il cammino che ci
aspetta non è facile. Duane Elgin parla del tempo a venire come di una
«compressione planetaria»: le crisi legate al degrado e al
depauperamento ecologici, ai cambiamenti climatici e alla povertà ci
trascineranno inevitabilmente in un gorgo in cui «la civiltà umana
sprofonderà nel caos oppure si innalzerà, in un processo a spirale di
profonda trasformazione» (1993). Possiamo scegliere di non
intraprendere una vera trasformazione, e scivolare così in un futuro di
infelicità, povertà e degrado ecologico ancora peggiori, oppure
renderci conto di quanto debbano essere immediati e radicali i
cambiamenti da fare e metterci alla ricerca del Tao della liberazione.
Se scegliamo la seconda strada, possiamo sperare in un risveglio
spirituale collettivo dell’umanità e in una nuova civiltà planetaria in
cui la bellezza, la dignità, la diversità e il rispetto assoluto per la vita
siano al centro di tutto: un’autentica Grande Svolta. La nostra
speranza è che le riflessioni di questo libro possano contribuire al
raggiungimento della saggezza necessaria per lavorare concretamente
a una tale trasformazione.
5 La tempistica qui indicata per il secolo cosmico si basa sulla cronologia indicata nel libro
The Universe Story (Berry-Swimme, 1992). In base a una stima più recente, il cosmo ha 13,73
miliardi di anni.
6 Un mese cosmico equivale quindi a 12,5 milioni di anni, un giorno cosmico a 411.000
anni, un’ora cosmica a circa 17.000 anni, un minuto cosmico a circa 285 anni, un secondo
cosmico a circa 4,75 anni.
7 Le cifre di questa sezione provengono da diverse fonti: Sale, 1985; Nickerson, 1993;
Brown et al., 1991; Brown et al., 1997; Ayres, 1998; Graham, 1998. E dal terzo Rapporto di
Valutazione del Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (2001), dal
Worldwatch Institute (2000 e 2005) e dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (2006).
8 Per rendere l’idea di questo cambiamento, la temperatura della Terra è attualmente tra i
5 e i 7 °C più elevata rispetto all’ultima era glaciale.
9 In base alle stime del Rapporto sullo Sviluppo del 1992 elaborato dall’UNDP, il
Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il divario tra il 20 per cento più ricco delle
nazioni e il 20 per cento più povero era in media di 60 a 1. Prendendo però in considerazione
il reddito individuale effettivo, il divario era di 150 a 1 (Athanasiou, 1996). Nel Rapporto
UNDP del 2005, il divario era in media di 82 a 1, e dunque il divario del reddito reale era
probabilmente di circa 200 a 1.
10 Le cifre sono attinte da Milanovic, 1999: la disparità nella distribuzione del reddito si è
in realtà aggravata da quando questi dati sono stati elaborati per la prima volta.
PARTE PRIMA
Esaminare gli ostacoli
2. Smascherare un sistema patologico
In armonia con il Tao,
il cielo è limpido e puro,
la Terra è serena e unita,
lo spirito è rinnovato nel potere,
le sorgenti sono piene,
la miriade di creature del mondo fiorisce, nella gioia,
i capi sono in pace e le loro nazioni governate
[con giustizia.
Quando l’umano interferisce con il Tao,
il cielo si sporca,
la Terra è consumata,
lo spirito si esaurisce,
le sorgenti si svuotano,
l’equilibrio crolla,
le creature si estinguono
TAO TE CHING §39
Se i governanti vivono nello splendore e prosperano
[gli speculatori
mentre i contadini perdono la terra e si svuotano
[i granai;
se i governi spendono in ostentazione e armi;
se i ricchi sono spreconi e incoscienti,
si concedono tutto e hanno più di quel che possono
[usare,
mentre i poveri non sanno dove voltarsi.
Tutto questo è furto e caos.
Non è la via del Tao.
TAO TE CHING §53
Il primo passo per individuare il cammino verso un mondo in cui
vita, bellezza e dignità possano fiorire è rendersi conto della
situazione reale del pianeta. Come abbiamo già visto, viviamo in
un’epoca in cui gli ecosistemi della Terra sono distrutti a velocità
inaudite e una piccola minoranza del genere umano monopolizza le
ricchezze del pianeta. Nel frattempo, le modalità con cui strutturiamo
la società cambiano tanto rapidamente quanto radicalmente. Ci
troviamo dunque a un crocevia. Dal punto di vista tecnologico, le
scoperte nel campo delle comunicazioni, dell’informatica e della
genetica amplificano il potere dell’uomo come non mai. Dal punto di
vista economico, il mondo è soggiogato a tutti i livelli dai dettami del
“mercato” e del profitto. Dal punto di vista politico, le corporation
transnazionali stanno diventando i poteri dominanti a livello globale,
grazie al sostegno della forza militare delle nazioni al servizio dei loro
interessi. Dal punto di vista culturale, i mass media impongono in
tutto il mondo i valori e i desideri del consumismo.
Molti considerano questa forma di “globalizzazione” ormai
inevitabile: i megafoni dei poteri forti ci assicurano che è così.
Dobbiamo adattarci, e forse anche influenzare in qualche modo queste
tendenze. Non c’è alternativa. E se invece la povertà e la devastazione
ecologica oggi in atto non fossero meri effetti collaterali o “disturbi
della crescita” dei nostri sistemi economici, politici e culturali? Se non
bastasse qualche blando palliativo a curarli? Se, al cuore di queste
crisi, ci fosse una patologia intrinseca? Non saremmo costretti a
riconsiderare la strada che stiamo percorrendo e a cercarne altre? Non
saremmo indotti a pensare e agire in modo nuovo e creativo per
cambiare ciò che sembrava inevitabile?
È nostra convinzione che una grave patologia sia connaturata al
sistema che oggi domina e sfrutta il mondo. In questo capitolo
cercheremo di smascherare questa patologia. Non è però nostra
intenzione scoraggiare o abbattere i lettori. Al contrario, il primo
passo verso la guarigione è proprio riconoscere e comprendere la
malattia. Viviamo una sorta di illusione collettiva in cui ciò che è
illogico e distruttivo viene visto come normale e inevitabile.
L’esistenza di un disordine strutturale è sicuramente scontata per chi
ne è maggiormente colpito: tutte le creature i cui habitat vengono
devastati e la stragrande maggioranza degli uomini, ormai ai margini
della nuova economia globale. Per quanti raccolgono (almeno
nell’immediato) i benefici del sistema questa patologia è invece meno
evidente. Ma un’analisi più approfondita offrirà a tutti spunti utili per
fronteggiare il dis-ordine dominante11 e immaginare strade
alternative.

Qual è la natura della malattia che affligge il mondo? Il primo


passo da fare è osservare più da vicino i sintomi del male, un male che
ha le sue origini nel modo in cui è strutturata la moderna società
umana. In particolare, prenderemo in esame il problema della povertà
e della disuguaglianza e la crisi ecologica derivante dall’aver
“oltrepassato” i limiti della Terra con lo sfruttamento e la
contaminazione.
Povertà e disuguaglianza
Un primo sintomo della patologia è l’acuirsi delle disparità tra
ricchi e poveri. Si potrebbe obiettare che, almeno in termini monetari,
l’umanità è più ricca oggi che in qualsiasi altra epoca. Viviamo in un
mondo pieno di meraviglie che i nostri antenati, un secolo fa, non
avrebbero neanche immaginato: rapidità negli spostamenti e nelle
comunicazioni, medicina avanzata, sistemi automatizzati per ridurre
il lavoro, lussi e comfort. Secondo alcune stime, esiste ormai più
varietà di prodotti di consumo che specie viventi. Gli esseri umani
producono pro capite circa cinque volte di più rispetto a un secolo fa
(Little, 2000).
Eppure quest’incredibile incremento della ricchezza non ha
portato all’eliminazione o perlomeno a una significativa riduzione
della povertà. Al contrario, negli ultimi cinquant’anni la fascia di
popolazione che vive in povertà è rimasta sostanzialmente uguale
(Korten, 1995). Si sono fatti dei concreti passi avanti nella riduzione
della mortalità infantile, nell’aspettativa di vita, nell’alfabetizzazione e
nell’accesso all’assistenza medica di base, ma quasi un terzo della
popolazione mondiale vive ancora con meno di un dollaro al giorno.
A ben guardare, specie se si considera l’erosione delle culture e degli
stili di vita tradizionali, nonché degli ecosistemi che li sorreggevano,
la qualità della vita per i poveri della Terra è forse addirittura
peggiorata.
Il divario tra ricchi e poveri si è trasformato in un baratro. In
termini relativi, Asia, Africa e America latina sono più povere di
quanto non lo fossero un secolo fa. A livello globale, la disparità di
reddito tra ricchi e poveri è raddoppiata. Il peggio è che enormi
porzioni di ricchezza continuano a essere trasferite dalle nazioni
povere a quelle più ricche: per ogni dollaro che il Nord dà in aiuti
umanitari, tre dollari ritornano sotto forma di servizio del debito. Il
trasferimento netto di ricchezza aumenta ancor più drasticamente se si
considerano le inique condizioni dettate dagli scambi commerciali,
che condannano le nazioni più povere a salari esigui e a prezzi delle
commodity ridotti. In termini di ricchezza, la disuguaglianza è ancor
più sconcertante. Le tre persone più ricche al mondo dispongono di
beni che superano il prodotto interno lordo complessivo delle
quarantotto nazioni più povere. Come abbiamo già evidenziato, i
miliardari posseggono una ricchezza netta complessiva di oltre 2,4
trilioni di dollari, più elevata rispetto al reddito annuale complessivo
della metà più povera dell’umanità. Per contro, si è stimato che per
garantire istruzione e assistenza medica di base, un’alimentazione
adeguata, acqua e scarichi fognari sicuri a quanti oggi non hanno
accesso a questi servizi essenziali basterebbero 40 miliardi di dollari
l’anno, ossia meno del 2 per cento della ricchezza degli individui più
ricchi (Rapporto sullo Sviluppo del Programma delle Nazioni Unite
per lo Sviluppo – UNDP, 1998). Più di recente, la Banca mondiale ha
calcolato che le spese aggiuntive necessarie per raggiungere gli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che oltre a quelli appena elencati
prevedono la riduzione dell’HIV/AIDS e della malaria e la sostenibilità
ambientale, ammonterebbero a circa 40-60 miliardi di dollari l’anno.
Secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, nel
2007 sono invece stati destinati circa 25 miliardi di dollari la settimana
alle spese militari.
L’osservazione immediata, quando si riflette su questa realtà, è che
la povertà è dovuta non alla mancanza di ricchezze o di risorse nel
mondo, bensì piuttosto alla loro cattiva distribuzione. Come diceva
Gandhi, «la Terra soddisfa i bisogni di tutti, ma non può placare
l’avidità di chi è dedito al folle consumo».
Una seconda considerazione è che, se l’indigenza provoca
sofferenze indicibili, la disuguaglianza non fa che aggravarle. Tanto
più è vero nel mondo moderno, in cui anche le persone più povere
entrano in contatto con la radio, la televisione e la pubblicità. I mass
media offrono l’immagine di un “paradiso” consumistico di cui
godono in pochi, e intanto crescono l’alienazione e la disperazione tra
i poveri. La prospettiva dei media minaccia anche le fonti tradizionali
di sostegno sociale (cultura, famiglia e tradizioni).
Contemporaneamente si aggrava il degrado ecologico, e così
scompare anche il sostegno materiale e spirituale garantito da stili di
vita tradizionali, senza contare la bellezza della natura.
Sfruttare la Terra
L’altro importante sintomo della patologia è il rapido esaurirsi
delle ricchezze della Terra, tra cui acqua e aria pulite, suolo fertile e
una moltitudine composita di comunità organiche. La stessa avidità
che genera povertà tra gli esseri umani impoverisce anche la Terra. Il
consumo umano usurpa una fetta sempre più grossa della ricchezza
naturale del pianeta, una ricchezza il cui valore trascende il denaro
perché serve a mantenere la vita. Tecnicamente, assistiamo ormai
all’esaurimento delle “fonti” terrestri: il mondo sta entrando in un’era
di “declino” in cui l’umanità divora le ricchezze comuni del pianeta
più velocemente di quanto queste riescano a rigenerarsi12.
Questo processo di “declino” mette a repentaglio la nostra capacità
di provvedere alla produzione alimentare. L’agricoltura moderna usa
sostanze chimiche per stimolare la crescita delle piante e incrementare
i raccolti nel breve termine, ma gli elementi essenziali vanno perduti
senza avere il tempo di riprodursi, portando al degrado del suolo e
alla diminuzione delle qualità nutritive del cibo. Il suolo viene trattato
come un mero “terreno di coltura” più che come un complesso
ecosistema in cui ogni grammo di terreno può contenere un miliardo
di batteri, un milione di funghi e decine di migliaia di protozoi: «La
terra produce la vita perché essa stessa è viva» (Suzuki-McConnell,
1997). Ci vogliono cinquecento anni per costruire un solo pollice (2,5
cm) di strato superficiale, mentre ogni anno vanno perduti 23 miliardi
di tonnellate di suolo, il che significa che negli ultimi vent’anni si è
persa una quantità di terra pari a quella che ricopre i terreni agricoli di
Francia e India messe insieme. Ogni anno sfruttiamo, ci appropriamo
o distruggiamo il 40 per cento dei cento miliardi di nuove tonnellate
di suolo prodotte dagli ecosistemi della Terra.
L’irrigazione estensiva, inoltre, provoca una diffusa salinizzazione,
mentre l’automazione e la coltivazione in terreni marginali aggravano
l’erosione del suolo. Combinati con gli effetti dei cambiamenti
climatici, questi fattori portano alla desertificazione delle terre arabili:
tra il 1972 e il 1991 le aree desertificate erano più vaste di quelle
destinate alle colture di Cina e Nigeria messe insieme. Si è stimato che
il 65 per cento della terra un tempo arabile sia ormai diventata un
deserto.
Anche le foreste, gli ecosistemi terrestri più ricchi dal punto di
vista biologico, sono ormai sulla via della distruzione. Negli ultimi
vent’anni si è disboscata un’area più larga del territorio degli Stati
Uniti a est del Mississippi. Più della metà di tutte le foreste presenti
sul pianeta nel 1950 sono state ormai abbattute. Anche se si sta
procedendo a una qualche forma di rimboschimento, questi boschi
sono poco più che piantagioni di alberi con una varietà e densità di
vita molto minori rispetto alle foreste vergini che hanno sostituito.
Non sorprende dunque che centinaia di migliaia di specie vegetali e
animali siano scomparse per sempre e che altre siano in via di
estinzione a un ritmo migliaia di volte superiore che in passato, sin dai
tempi della scomparsa dei dinosauri.
Anche gli oceani, che costituiscono il 99 per cento dello spazio
vivente sul pianeta, e nei quali ha la sua casa il 90 per cento di tutti gli
esseri viventi, subiscono trasformazioni sostanziali. Almeno un terzo
del CO2 e l’80 per cento del calore generati dai cambiamenti climatici
è assorbito dagli oceani. Ciò sta modificando l’acidità, la calotta
glaciale, il volume e la salinità del mare e potrebbe alterare le correnti
oceaniche, che hanno una grande influenza sul clima globale. Un
quarto di tutte le barriere coralline – gli ecosistemi marini con il
maggior grado di biodiversità – è già andato distrutto, e la metà di
quelle rimaste è in pericolo. I radicali cambiamenti che si stanno
verificando nella chimica degli oceani potrebbe mettere in pericolo il
plancton, che è fonte essenziale di sostanze nutritive per le altre
creature marine e costituisce il polmone primario del nostro pianeta,
in quanto produce ben il 50 per cento dell’ossigeno della Terra
(Mitchell, 2009).
L’acqua freatica accumulatasi nell’arco di milioni di anni nelle
gigantesche falde acquifere si è rapidamente ridotta nell’ultimo secolo,
mentre il ricorso a queste fonti aumenterà probabilmente di un
ulteriore 25 per cento nei prossimi venticinque anni. Molte persone
devono già fare i conti con la cronica carenza d’acqua, e sicuramente
nei prossimi decenni la situazione peggiorerà in diverse aree del
globo. Il petrolio e il carbone, formatisi nell’arco di 500 milioni di anni,
potrebbero esaurirsi entro la metà del prossimo secolo (e il carbonio
che la Terra ha con tanta prudenza sepolto per stabilizzare la sua
atmosfera sarà di nuovo liberato). Siamo già sul punto di raggiungere
il picco della produzione petrolifera, e presto la domanda supererà
l’offerta. Come se non bastasse, minerali fondamentali come il ferro, la
bauxite, lo zinco, il fosfato e il cromato si esauriranno quasi
completamente nel corso di questo secolo.
Dunque, ogni minuto di ogni giorno (Ayres, 1999b):
• perdiamo foreste tropicali per un’area pari a cinquanta campi da
football, perlopiù a causa di incendi;
• desertifichiamo mezzo chilometro quadrato di terra;
• consumiamo una quantità di energia da combustibili fossili che
la Terra ha impiegato diecimila minuti a produrre catturando la luce
solare.
Si stima che già ora il 20 per cento più ricco dell’umanità usi oltre il
100 per cento dell’output sostenibile, mentre il restante 80 per cento ne
usa un ulteriore 30 per cento (e sono stime piuttosto al ribasso). In
altre parole, stiamo già oltrepassando i limiti della Terra. È evidente
che responsabile di questa situazione è una fascia piuttosto ristretta
dell’umanità: l’iperconsumo di pochi sta depauperando l’intera
comunità terrestre. In base alle stime di alcuni ecologi, almeno un
terzo del “capitale naturale” della Terra è andato perduto nei
venticinque anni intercorsi tra il 1970 e il 1995 (Sampat, 1999), e da
allora il ritmo di questo depauperamento non ha fatto che accelerare.
Non si può continuare a saccheggiare le ricchezze del pianeta senza
che vi siano gravi ripercussioni sulla vita.
Avvelenare la vita
Il terzo sintomo della patologia è forse il più pericoloso.
Producendo una montagna sempre più alta di scorie, annientiamo la
capacità delle “discariche” naturali del pianeta di assorbire,
scomporre e riciclare gli agenti contaminanti. Fatto ancor più grave,
stiamo introducendo veleni chimici e nucleari che permangono nel
lungo periodo e trasformano la chimica stessa dell’atmosfera. La
resistenza di queste sostanze minaccia gravemente la salute di tutte le
creature viventi, come pure degli habitat che le sostentano. Si
considerino i seguenti esempi:
• Settantamila agenti chimici prodotti dall’uomo sono stati
rilasciati nell’aria, nell’acqua e nel terreno – perlopiù negli ultimi
cinquant’anni –, mentre ogni anno viene creato oltre un migliaio di
nuovi prodotti chimici. La produzione annuale di sostanze chimiche
organiche sintetiche è aumentata da sette milioni, nel 1950, a quasi un
miliardo di tonnellate (Karliner, 1997). Sull’80 per cento di queste
sostanze non sono mai stati effettuati test di tossicità (Goldsmith,
1998). Ogni minuto muoiono cinquanta persone per avvelenamento
da pesticidi (Ayres, 1999b), e ogni giorno si produce un milione di
tonnellate di rifiuti pericolosi (Meadows et al., 1992).
• Si continuano a produrre scorie nucleari, alcune delle quali
rimangono pericolosamente radioattive per duecentocinquantamila
anni, senza metodi sicuri di smaltimento. Nel mondo esistono oltre
milleottocento tonnellate di plutonio, ma quest’elemento è talmente
tossico che anche solo un milionesimo di oncia può essere letale per
un essere umano: ne bastano otto chili per produrre una bomba
atomica potente quanto quella che distrusse Hiroshima.
• Abbiamo immesso nell’atmosfera un’immensa quantità di
carbonio – tre volte superiore a quella che i cicli naturali possono
assorbire –, innescando un pericoloso meccanismo di riscaldamento
globale e instabilità climatica. Ci sono buoni motivi per ritenere che
questo sia il più significativo cambiamento del clima terrestre
dall’inizio dell’Eocene, circa 55 milioni di anni fa (Lovelock, 2006).
Distruggendo foreste ed ecosistemi marini abbiamo gravemente
indebolito la capacità della Terra di rimuovere il diossido di carbonio
dall’aria. I livelli di CO2 sono i più elevati degli ultimi
centosessantamila anni, e le temperature globali sono già aumentate in
media di 0,5 °C. Con questi ritmi, nei prossimi cinquant’anni i livelli
di CO2 raddoppieranno ed entro la fine del secolo le temperature
globali cresceranno di altri 2-5 °C (IPPC – Intergovernmental Panel on
Climate Change, ‘Gruppo intergovernativo di esperti sul
cambiamento climatico’). Il risultato è che le condizioni
meteorologiche sono diventate più instabili e vanno aumentando i
danni causati da cicloni. Il numero di persone colpite ogni anno da
disastri legati alle condizioni meteorologiche è salito da 100 milioni
nel 1981-85 a 250 milioni nel 2001-5 (Worldwatch 2007).
La resistenza rappresenta un problema di non facile soluzione, a
causa dell’impatto persistente, a lungo termine, di quelle sostanze.
Anche se dovessimo interrompere la produzione di sostanze chimiche
tossiche a partire da domani, anche se tutte le centrali nucleari fossero
chiuse all’improvviso, anche se smettessimo di emettere gas serra
come il metano e il CO2, i loro effetti nocivi persisterebbero per secoli,
millenni o – nel caso delle scorie nucleari – per centinaia di milioni di
anni. Eppure la produzione di queste sostanze non fa che aumentare,
in alcuni casi a un ritmo ancora più veloce. James Lovelock (2006)
sostiene che alcuni cambiamenti da noi avviati potrebbero essere
addirittura irreversibili. Se non facciamo nulla per ridurre al più
presto le emissioni di gas serra, potremmo raggiungere il punto critico
e il riscaldamento del pianeta sarebbe definitivo.

Può capitare di non cogliere subito l’interconnessione tra


resistenza delle sostanze tossiche, depauperamento delle risorse,
povertà e disuguaglianza. Non è facile percepire la correlazione tra la
dimensione ecologica e quella sociale della crisi. In parte è dovuto al
fatto che i mass media tendono a presentare la questione mettendo in
contrapposizione bisogni umani e salvaguardia ambientale.
Dobbiamo preservare una foresta vergine o abbatterla per creare
nuovi posti di lavoro? Dobbiamo mantenere un fiume incontaminato
o aprire una nuova miniera per stimolare un’economia depressa?
Dobbiamo usare sostanze chimiche e ingegneria genetica per
incrementare la produzione alimentare? Dobbiamo costruire una
nuova diga per fornire energia utile allo sviluppo industriale?
Ma se facciamo un passo indietro e adottiamo un punto di vista
più ampio, ci rendiamo conto che l’idea per cui o si affronta il
problema della povertà o si proteggono gli ecosistemi (ma non
entrambe le cose) è una menzogna perpetuata da chi vorrebbe
continuare a sfruttare la Terra e i membri più poveri e vulnerabili
dell’umanità. Le stesse patologie che impoveriscono gli esseri umani
impoveriscono anche il pianeta. Per capirlo meglio, esaminiamo sei
caratteristiche fondamentali dell’attuale dis-ordine globale indotto dal
capitalismo industriale della crescita:
1. dipendenza dalla crescita illimitata;
2. visione distorta dello sviluppo;
3. assoggettamento sempre maggiore al dominio delle
multinazionali;
4. debito e speculazione quali generatori di profitto;
5. tendenza a monopolizzare la conoscenza e a imporre una
cultura uniforme a livello globale;
6. potere come strumento di sopraffazione, che comprende anche
la forza militare e la violenza.
Il cancro della crescita
In un certo senso, la fede diffusa nella crescita è giustificata,
perché la crescita è un aspetto fondamentale della vita [...] Quel
che è sbagliato nell’attuale concezione di crescita economica e
tecnologica, piuttosto è la mancanza di limitazioni. Si crede
comunemente che ogni crescita sia buona senza riconoscere che,
in un ambiente finito, dev’esserci un equilibrio dinamico tra
crescita e declino. Mentre alcune cose devono crescere, altre
devono diminuire, così che gli elementi possano essere
rilasciati e riciclati.
La maggior parte del pensiero economico moderno si fonda
sulla nozione di crescita indifferenziata. L’idea che la
crescita possa essere paralizzante, insana o patologica
non viene presa in considerazione. Ciò di cui abbiamo
urgentemente bisogno, perciò, è una differenziazione
e precisazione del concetto di crescita.
(Capra, 1982 [2005, p. 117])
Nel mondo moderno, la crescita è diventata sinonimo di salute
economica. Se la crescita è stagnante o peggio ancora immobile, se
l’economia “affonda”, allora siamo in recessione e seguiranno
certamente la disoccupazione e altri mali sociali. Nessuno è disposto a
mettere in discussione il pensiero dominante in base al quale
un’economia in continua espansione è indispensabile.
Ma la crescita economica, per come viene tradizionalmente intesa,
implica l’uso di ulteriori risorse naturali e la produzione di altri
sottoprodotti pericolosi, tra cui sostanze chimiche e nucleari
inquinanti. Nel frattempo però, come abbiamo già evidenziato, diversi
input essenziali per un’economia in crescita vanno rapidamente
esaurendosi. Per quanto gli “ottimisti” possano postulare che si
troveranno dei sostituti sintetici, non ci sono prove certe che
confermino le loro speranze.
Il punto della questione è che il pianeta in cui viviamo è limitato:
c’è solo una data quantità di aria e acqua pulite e una data quantità di
terreno fertile. Anche l’energia disponibile non è infinita (è rigenerata
dal sole, certo, ma a un ritmo ben preciso). Poiché tutte le economie e
tutti gli esseri umani hanno bisogno di questi elementi essenziali ma
non infiniti, è evidente che sussistono dei limiti alla crescita.
Perché allora molti economisti insistono nel dire che la crescita
economica illimitata e indifferenziata è giusta e necessaria? Questa
convinzione è da imputare in parte alla confusione tra crescita e
sviluppo. Come evidenzia l’economista Herman Daly, «la crescita è
l’incremento quantitativo per assimilazione e accumulo di materiali»,
mentre «sviluppo è miglioramento qualitativo, realizzazione di
potenzialità» (1996 [2001, p. 21]). La nostra economia ha bisogno di
svilupparsi in senso qualitativo, senza per questo dover crescere
quantitativamente. «Il pianeta Terra», afferma Daly, «si sviluppa nel
tempo senza crescere. Poiché l’economia è un sottosistema di un
ecosistema finito e non crescente, diventa necessario che il
comportamento dell’economia si approssimi sempre più a quello
dell’ecosistema» (1996 [2001, p. 233]).
Nelle epoche antiche, quando la popolazione umana non era molto
numerosa e le tecnologie a disposizione erano piuttosto rudimentali,
ci si poteva comportare come se la Terra fosse un serbatoio infinito di
materie prime. È pur vero che l’Impero romano, gli abitanti dell’Isola
di Pasqua, la civiltà Maya che viveva nella giungla dei bassopiani e
altre culture inflissero gravi danni agli ecosistemi locali, provocando
in tal modo il crollo delle loro società. Ma la salute dell’ecosistema
globale non fu mai veramente messa a repentaglio e, con il passare del
tempo, gli ecosistemi locali riuscirono a rigenerarsi.
Oggi la popolazione mondiale si è espansa rapidamente, e ancor
più rapidamente sono cresciuti i consumi. Siamo passati da quella che
Daly chiama l’economia di «un mondo vuoto» a quella di «un mondo
pieno»:
La crescita economica ha riempito il mondo di noi e delle nostre cose, ma lo ha
reso relativamente vuoto di ciò che c’era prima – ciò che è stato ormai assimilato in
noi e nelle nostre cose, vale a dire i sistemi naturali necessari alla vita che abbiamo
recentemente iniziato a chiamare “capitale naturale”, in seguito al tardivo
riconoscimento sia della loro utilità che della loro scarsità. Ora, un’ulteriore
espansione della nicchia umana aumenta spesso i costi ambientali più rapidamente di
quanto aumenti i benefici produttivi, inaugurando una nuova era di crescita
antieconomica, crescita che impoverisce più di quanto arricchisca, perché al margine
costa di più di quanto valga. Questa crescita antieconomica rende più difficile
anziché facilitare la cura della povertà e la protezione della biosfera.
(1996 [2001, p. 299])
Una strada insostenibile
Abbiamo già accennato a una delle possibili chiavi di lettura dello
spostamento verso l’economia del «mondo pieno»: quello della
produzione primaria netta (PPN). L’uomo consuma oggi oltre il 40 per
cento dell’energia prodotta attraverso la fotosintesi sulla terraferma: il
3 per cento viene utilizzato direttamente, mentre il resto va
semplicemente sprecato o distrutto (attraverso l’urbanizzazione, la
deforestazione, i rifiuti agricoli ecc.). La quantità di PPN utilizzata
aumenta ancora se si considerano gli effetti devastanti
dell’inquinamento, del riscaldamento globale e della riduzione
dell’ozono (Meadows et al., 1992 [1993]). Con gli attuali tassi di
crescita, ci approprieremo dell’80 per cento del PPN terrestre entro il
2030 (Korten, 1995).
Un altro angolo visuale per comprendere i limiti della crescita è
esaminare il concetto di “impronta ecologica” elaborato da William
Rees e Mathias Wackernagel dell’università della British Columbia.
Un’impronta ecologica si fonda sul calcolo della quantità di terra
necessaria per produrre cibo, legno, carta ed energia per abitante di
una data regione o nazione geografica.
Solo il 12 per cento della superficie terrestre è lasciato alla
conservazione delle specie non umane (una percentuale
scandalosamente ridotta), mentre ai bisogni umani sono riservati 1,7
ettari pro capite (1,8, se si includono anche le risorse marine).
L’impronta ecologica media pro capite è già di 2,3 ettari13. In altre
parole, stiamo già consumando il 30 per cento in più della quantità
sostenibile nel lungo periodo, soprattutto attraverso lo sfruttamento
delle risorse non rinnovabili. Se dovessimo riservare alle altre specie
una quota più ragionevole, intorno al 33 per cento, rimarrebbero 1,3
ettari a persona: consumeremmo comunque il 75 per cento in più della
quantità sostenibile.
Già a un primo sguardo si può dedurre che la popolazione
mondiale dovrebbe diminuire di almeno un terzo. Certamente queste
cifre in sé hanno una loro importanza, ma non dicono tutto. Un
abitante del Bangladesh, ad esempio, ha in media un’impronta
ecologica di soli 0,6 ettari, un peruviano di 1,3 ettari. Le nazioni più
ricche, invece, hanno bisogno di una quantità di terreno che va dai 5,4
ettari dell’Austria ai 12,2 ettari degli USA. Se tutti gli abitanti della
Terra usassero la stessa quantità che spetta in media a un abitante del
Nord (intorno ai 7 ettari), avremmo bisogno di tre o quattro altri
pianeti come la Terra per il nostro sostentamento. Evidentemente,
dunque, è l’iperconsumo del Nord la causa principale dello stress
ecologico.

Un altro indicatore dell’impossibilità di una crescita economica


illimitata lo fornisce una complessa simulazione al computer
analizzata dagli autori del volume I nuovi limiti dello sviluppo: la salute
del pianeta nel terzo millennio (Meadows et al., 2004 [2006]). Se
continueremo a seguire questo modello economico di crescita, senza
sostanziali modifiche alle politiche oggi in atto, il tenore di vita e il
benessere umano cominceranno a precipitare dopo il primo decennio
di questo secolo, probabilmente intorno al 2015, al massimo entro il
2025.
A seconda delle diverse strategie e dei diversi scenari utilizzati,
naturalmente, viene ritardato l’avvio del declino. Il dato sorprendente
è che persino raddoppiando le risorse non rinnovabili a disposizione
si avrebbe un effetto tutto sommato trascurabile.
Maggiormente incisiva sarebbe l’introduzione di tecnologie più
avanzate, unita a una maggiore disponibilità di risorse, ma solo
ricorrendo alle premesse più ottimistiche – raddoppiamento delle
risorse conosciute, efficace controllo dell’inquinamento, crescita
sostanziale dei raccolti, contrasto all’erosione del suolo, tecnologie per
migliorare l’efficienza delle risorse – si potrà evitare il collasso,
sebbene anche in questo caso l’aspettativa di vita diminuirebbe
intorno alla metà del secolo. Tuttavia, nel lungo periodo (oltre il 2100)
i costi aumenteranno comunque e gli attuali livelli di vita diverranno
insostenibili.
Non solo: modificando anche una sola delle premesse appena
elencate si avrebbe un drastico crollo del benessere umano
(eliminando l’ipotesi che si possano sviluppare e implementare
tecnologie avanzate per migliorare l’efficienza delle risorse, ad
esempio, le proiezioni prevedono il collasso intorno al 2075). È
possibile peraltro che questo modello addirittura sottovaluti l’impatto
dei cambiamenti climatici a cui abbiamo già dato avvio (si veda, ad
esempio, l’immagine a pagina 1 del volume di Meadows et al., 2004
[2006] in cui si illustrano le possibili ripercussioni del cambiamento
climatico).
In definitiva, come scrive Dennis Meadows:
Finché vi sarà una crescita esponenziale della popolazione e dell’industria, finché
questi due inseparabili aspetti della crescita continueranno a lievitare, innescando
una sempre maggiore domanda alla base, i possibili sviluppi della tecnologia, delle
risorse, della produttività non faranno alcuna differenza. Alla fine si raggiungerà il
limite, lo si oltrepasserà e si arriverà al collasso. [...] Le più ottimistiche previsioni
sulla tecnologia e sulle risorse non fanno che ritardare il crollo di un decennio o giù
di lì. È sempre più difficile elaborare degli scenari che consentano al modello di
produrre un risultato sostenibile.
(citato in Gardner, 2006)
D’altra parte, se si riesce a stabilizzare la crescita demografica e a
ridurre significativamente il consumo pro capite (tenendo al
contempo sotto controllo l’inquinamento e salvaguardando i terreni
coltivabili), il collasso economico ed ecologico si può ancora evitare. A
differenza dello scenario precedente, in questo caso non si ipotizza un
raddoppiamento, alquanto irrealistico, delle risorse non rinnovabili a
disposizione.
Ma il tempo gioca un ruolo decisivo. In base alle proiezioni
elaborate da Meadows e gli altri autori, se si fosse cominciato
vent’anni prima a mettere in atto i radicali cambiamenti indispensabili
per tradurre in realtà questo scenario, ci sarebbe stato meno
inquinamento, più risorse non rinnovabili per tutti e un indice di
benessere umano un po’ più elevato. Di contro, quanto più aspettiamo
a frenare la crescita, tanto più disastrose saranno le ripercussioni e più
difficile la transizione verso la sostenibilità. Scrivono gli autori:
La crescita, e soprattutto la crescita esponenziale, è tanto insidiosa proprio perché
essa riduce il tempo disponibile per un’azione efficace: essa grava su un sistema a
ritmi sempre più accelerati, fino a che i meccanismi che erano stati in grado di
reggere ritmi inferiori di variazione cominciano a cedere. [...]
Una volta che la popolazione e l’economia abbiano superato i limiti fisici del
pianeta [ciò che gli autori ritengono sia già avvenuto], vi sono solo due modi per
tornare indietro: il collasso non voluto, provocato da penurie e crisi sempre più gravi
e ravvicinate, o una riduzione controllata dell’attività a seguito di consapevole scelta
sociale.
(Meadows et al., 1992 [1993, p. 218 e 228])
E più di recente:
Rinviare la riduzione dei flussi e la transizione a mezzi sostenibili significa, nella
migliore delle ipotesi, ridurre le possibili scelte delle generazioni future e, nella
peggiore, accelerare il collasso.
(Meadows et al., 2004 [2006, p. 302])
Il fascino della crescita
Pur avendo oltrepassato tutti i limiti di un’economia sostenibile,
non ci siamo ancora decisi a ridurre il consumo, il “throughput
economico”. Anzi, molti economisti e politici si ostinano nel dire che
la crescita è un fattore fondamentale in un’economia sana. Perché la
crescita attrae ancora così tanto?
I suoi promotori sostengono che una crescita costante è
indispensabile per ridurre la povertà. È sotto gli occhi di tutti che
moltissime persone, probabilmente la maggior parte del genere
umano, non hanno sufficienti risorse per vivere dignitosamente. La
crescita è vista come una via “facile” per risolvere il problema: non c’è
bisogno di dividere la torta, basta renderla più grande.
Ma esistono limiti molto concreti che rendono questa via
impraticabile. Entro questo secolo, la popolazione mondiale arriverà a
nove o dieci miliardi di persone: l’economia dovrebbe quindi crescere
almeno di venti volte per poter garantire a tutti quei livelli di consumo
di cui oggi gode solo il 20 per cento più ricco. Se ci affidassimo alla
sola crescita per arginare la povertà, l’economia umana dovrebbe
crescere come minimo, stando alle stime ONU, tra le cinque e le dieci
volte perché si possa raggiungere un livello di vita accettabile per
quanti oggi vivono in stato di indigenza (McKibben, 1998). Poiché
l’economia è già cresciuta oltre i livelli sostenibili, in quel caso si
avrebbe un immediato collasso ecologico ed economico, ben prima di
raggiungere l’obiettivo. Perché allora i politici e gli economisti
continuano a invocare la crescita come strumento per eliminare la
povertà? Stando al Worldwatch Institute:
La visione evocata dalla crescita – una sorta di torta di ricchezze lievitante – è uno
strumento politico potente e conveniente, poiché consente di evitare gli spinosi
problemi della disparità dei redditi e dell’ineguale distribuzione dei patrimoni. Si
presume che, finché c’è la crescita, esista anche la speranza di veder migliorare le vite
dei poveri senza cambiamenti nello stile di vita dei ricchi. In realtà, invece, non è
possibile raggiungere un’economia mondiale ambientalmente sostenibile senza che i
più fortunati [sic] limitino i loro consumi per dar modo ai poveri di aumentare i loro.
(Brown et al., 1991 [1992, p. 120])
In ogni caso, un secolo di “crescita” inaudita non ha portato a una
riduzione consistente della povertà, né è probabile che ciò accada in
futuro. Anche se il tasso di crescita economica delle nazioni povere
dovesse raddoppiare, solo sette riuscirebbero a colmare il divario con
le nazioni ricche nel prossimo secolo, e solo altre nove nel prossimo
millennio (Hawken, 1993)!
David Korten, esperto in materia di sviluppo, evidenzia
addirittura che proprio le politiche che promuovono la crescita
possono aggravare la povertà, trasferendo «reddito e patrimoni a chi
detiene le proprietà, a spese di chi deve lavorare per vivere» (1995).
Favorendo l’agricoltura da esportazione, ad esempio, si può anche
aumentare la crescita, ma ciò avvantaggerà le grandi imprese a danno
dei piccoli agricoltori. Intensificare il disboscamento potrà anche
incrementare la crescita, ma danneggerà i mezzi di sussistenza
tradizionali basati sulle risorse forestali, aggravando al contempo
l’erosione del suolo e riducendo le piogge.
Quel che si fa rientrare nella nozione di crescita corrisponde spesso
a uno spostamento dall’economia non monetaria a una monetaria.
Questo passaggio non di rado si realizza privando i poveri della loro
tradizionale base economica e costringendoli a lavorare alle
dipendenze dell’economia del denaro. Scrive Korten:
La corsa alla crescita economica quale principio cardine delle politiche pubbliche
sta accelerando il crollo della capacità rigeneratrice dell’ecosistema e del tessuto
sociale che sostiene la comunità umana. Essa sta al contempo inasprendo la lotta per
l’accaparramento delle risorse tra ricchi e poveri: una lotta in cui i poveri sono
destinati a perdere.
(1995)
L’unico modo per risolvere il problema della povertà e della
disuguaglianza, dunque, è che chi ha di più riduca drasticamente i
consumi, così che si possano distribuire più equamente le non infinite
ricchezze del mondo. Tale riduzione potrebbe realizzarsi in parte con
un utilizzo più efficiente delle risorse esistenti: ad esempio scegliendo
tecnologie energetiche sostenibili e sottraendo risorse alle spese
militari. Oltre alla riduzione del consumo complessivo e al contestuale
aumento delle risorse da destinare ai poveri, sarebbe comunque
necessaria anche una radicale modifica dello stile di vita del 20 per
cento più ricco (e potente) dell’umanità.
Ridurre i consumi del Nord e ridistribuire la ricchezza al Sud potrà
sembrare una missione impossibile, ma sarebbe a vantaggio di tutti. I
benefici sarebbero innanzitutto ambientali. Come evidenziato dal
Worldwatch Institute, l’enorme divario tra ricchi e poveri è uno dei
fattori cruciali della devastazione ecologica. Coloro che si trovano in
cima alla scala del reddito infliggono i danni ecologici più sostanziosi,
a causa del consumo elevato e della produzione di grandi quantità di
scorie e di inquinamento. D’altra parte, anche quanti vivono nella
povertà estrema contribuiscono alla rovina degli ecosistemi, proprio
perché marginalizzati: sono costretti a sfruttare eccessivamente terreni
di scarso valore, a depredare le foreste per la legna o a coltivare su
versanti fragili e soggetti a erosioni. La fascia di popolazione che
dispone di mezzi modesti ma sufficienti tende invece ad avere
l’impatto minore sulla più ampia comunità terrestre. Una maggiore
equità, quindi, eliminerebbe molti danni associati agli estremi della
ricchezza e della povertà (Brown et al., 1994).
Senza contare che, ridistribuendo la ricchezza mondiale, miliardi
di persone verrebbero liberati dalla disperazione e dallo squallore di
una povertà opprimente, e potrebbero sviluppare pienamente le
proprie potenzialità umane e contribuire alla costruzione di un futuro
sostenibile. I benefici per il Nord non sono così immediatamente
evidenti, ma è innegabile che affrancarsi dalla cultura consumistica
avvantaggerebbe in definitiva anche il mondo ipersviluppato, perché
rigenererebbe le comunità liberando da stili di vita ossessivi e
competitivi. Insomma, una migliore distribuzione del reddito e della
ricchezza potrebbe migliorare la salute di tutti. Come osserva Korten:
Acqua pulita e servizi sanitari adeguati sono forse i fattori più importanti per
rimanere sani e avere una vita lunga. Da alcune esperienze in luoghi come lo stato
del Kerala, in India, si evince che determinati bisogni si possono soddisfare anche con
livelli di reddito relativamente modesti. Per contro, nei paesi con livelli di reddito
elevati si registra l’aumento dei casi di cancro, di malattie respiratorie, di stress, di
disturbi cardiovascolari e di difetti congeniti, oltre che la diminuzione della
concentrazione di spermatozoi. Si evidenzia sempre di più un collegamento tra questi
fenomeni e gli effetti collaterali della crescita economica: inquinamento dell’aria e
dell’acqua, additivi chimici e residui di pesticidi nel cibo, inquinamento acustico e
maggiore esposizione alle radiazioni elettromagnetiche.
(1995)
Una maggiore equità implicherebbe un beneficio ulteriore: tenere
sotto controllo l’eccessiva crescita demografica. In genere, i tassi di
crescita della popolazione cominciano a calare una volta soddisfatti i
bisogni primari, quando le persone si sentono abbastanza sicure da
avere meno figli (che costituiscono una forma elementare di assistenza
previdenziale). Non a caso, quando negli anni Settanta i redditi
cominciarono ad aumentare nel Sud del mondo, i tassi di crescita
demografica calarono considerevolmente. Con l’inizio della crisi del
debito e l’imposizione di severe misure di rigore negli anni Ottanta, i
redditi diminuirono drasticamente e i tassi di crescita demografica
cessarono di rallentare, anzi in alcuni casi aumentarono. Fu solo negli
anni Novanta che ripresero a scendere, anche se circa un terzo di quel
calo è forse da attribuirsi alle morti causate dall’epidemia di AIDS.
Insieme alla certezza del reddito, la chiave per la stabilizzazione
demografica è l’emancipazione femminile, che contempla anche la
possibilità per le donne di decidere quanto dev’essere numerosa la
famiglia. Tale emancipazione, tuttavia, si può promuovere più
facilmente in una società caratterizzata da un tasso di disoccupazione
ridotto e da una contenuta violenza sociale; anche queste condizioni,
del resto, si ritrovano solo laddove si sia raggiunta quantomeno un
po’ di equità nel reddito e la povertà sia diminuita. In definitiva, la
certezza del reddito è essenziale per frenare la crescita demografica in
tempi rapidi.
Un indicatore fallace, una falsa prospettiva
Tra i principali problemi legati all’economia della crescita c’è la
modalità con cui essa è calcolata. Il prodotto interno lordo (PIL)14, il
criterio principale per misurare la crescita economica, è un indicatore
alquanto fallace. Fondamentalmente, il PIL rappresenta il valore
complessivo dei beni e dei servizi prodotti e comprende tutte le
attività economiche in cui è previsto l’uso di denaro. Dunque una
costosa bonifica disinquinante, la fabbricazione di una bomba
nucleare o i lavori per abbattere una foresta vergine sono ugualmente
conteggiati nel PIL e interpretati come benefici economici.
Paradossalmente, altre attività economiche che non prevedono l’uso
del denaro come l’agricoltura di sussistenza (la produzione di cibo per
uso familiare e della comunità), il volontariato o l’educazione dei figli
non sono invece conteggiate. Guidare un’auto per un chilometro
contribuisce al PIL molto più che percorrere la stessa distanza a piedi o
in bicicletta, anche se queste due ultime modalità non generano costi
ambientali.
In sostanza, il PIL valuta positivamente attività che distruggono la
vita, mentre tante altre che la promuovono rimangono invisibili. Così
si calcola il valore dell’ammortamento di capitale su edifici, fabbriche
e macchinari, ma calcoli simili non si fanno per il depauperamento del
“capitale naturale”, ossia la riduzione della capacità portante della
Terra. La “ricchezza” artificiale spesso si “produce” nascondendo i
costi della devastazione della ricchezza reale del pianeta, che si tratti
di foreste, di acqua, di aria o del terreno. Ad esempio, abbattere una
foresta pluviale genera crescita, ma nessuno tiene conto dei costi della
ricchezza perduta in termini di esseri viventi, aria, suolo e acqua
prima alimentati da quell’ecosistema. A tal proposito, Korten afferma
che il PIL non è altro che «una misura del ritmo con cui trasformiamo
le risorse in rifiuti» (1995).
Nel suo film Who’s Counting?, l’economista femminista Marilyn
Waring illustra un esempio interessante delle distorsioni introdotte
dal PIL. Waring evidenzia che, grazie all’attività economica generata
dalla perdita di petrolio della Exxon Valdez al largo della costa
dell’Alaska, quella della petroliera è diventata la traversata più
“produttiva” di tutti i tempi dal punto di vista della crescita. Nel PIL
sono stati calcolati come crescita la bonifica ambientale, i rimborsi
assicurativi e persino le donazioni alle organizzazioni ambientaliste.
Nulla invece sul versante del debito: i costi in termini di uccelli, pesci
e mammiferi marini morti, e la devastazione della bellezza originaria,
non sono stati affatto conteggiati.
Sia dal punto di vista etico sia da quello pragmatico, quindi, usare
il PIL come parametro per misurare il progresso economico è alquanto
discutibile. Il genere di crescita economica indifferenziata che il PIL
calcola non è necessariamente positivo, anzi spesso può essere nocivo.
Come scrive Herman Daly: «C’è qualcosa di profondamente sbagliato
nel considerare la terra come se fosse in liquidazione» (citato in Al
Gore, La Terra in bilico).
È esattamente ciò che facciamo nel momento in cui distruggiamo il
capitale reale del pianeta – la sua capacità di sostenere la vita – per
accumulare un capitale artificiale, astratto, morto, sotto forma di
denaro (che non ha un valore intrinseco reale). In questo modo
prendiamo qualcosa in prestito dal benessere futuro di tutti gli esseri
viventi per produrre un guadagno immediato per una piccola
porzione dell’umanità. Si tratta di una forma molto pericolosa di
finanziamento in disavanzo.
Oggi va facendosi strada una proposta alternativa: sostituire il PIL
con il GPI (Genuine Progress Indicator, ‘Indice di progresso effettivo’). Il
GPI distingue tra attività che producono la vita e attività che la
distruggono. Le prime sono calcolate come produttive, le seconde
come costi. In questo indicatore, inoltre, sono contemplate tutte le
attività, comprese quelle che non prevedono l’uso di denaro. Ciò
consente una valutazione più accurata del progresso economico reale:
un progresso basato sullo sviluppo qualitativo più che sulla crescita
quantitativa. Dalle prime applicazioni di tale indicatore si è notato che,
nei venticinque anni precedenti al 1992, il GPI degli Stati Uniti è calato,
anche se il PIL è aumentato (Nozick, 1992). I dati successivi sembrano
confermare questa tendenza: nel 2002, il GPI era ancora leggermente
inferiore rispetto ai livelli raggiunti nel 1976.
Per poterci affrancare dall’economia tradizionale della crescita
quantitativa misurata dal PIL dobbiamo adottare un approccio
qualitativo. I concetti tradizionali di profitto, efficienza e produttività
vanno messi in discussione e riformulati. Abbiamo bisogno della
crescita? Certamente. Abbiamo bisogno di crescere in conoscenza e in
saggezza, nell’accesso ai servizi primari per tutti, in dignità umana.
Dobbiamo inoltre promuovere la bellezza, preservare la biodiversità e
prenderci cura della salute degli ecosistemi. Non abbiamo invece
bisogno che crescano i consumi superflui. Né abbiamo bisogno di una
crescita cancerogena che distrugge la vita solo per accumulare un
capitale morto a beneficio di una piccola fetta dell’umanità.
Uno sviluppo distorto
Quando nel 1975 l’antropologa Helena Norberg-Hodge si recò per
la prima volta nella regione del Ladakh, nel Kashmir (India), entrò in
contatto con un popolo che viveva da sempre isolato dall’economia
globale. La qualità della vita di quella gente era però elevata. Gli
ecosistemi locali erano in buona salute e l’inquinamento quasi non
esisteva. Certo, alcune risorse erano difficili da reperire, ma si
lavorava solo per quattro mesi l’anno, dedicando il resto del tempo
alla famiglia, agli amici e ad attività creative. Il risultato era che il
popolo del Ladakh produceva una ricca varietà di espressioni
artistiche. Si viveva in case spaziose e adeguate a quel territorio. Tutti
i bisogni primari, compresi l’abbigliamento, l’alloggio e il cibo, erano
prodotti e distribuiti senza ricorrere ai soldi. Quando Norberg-Hodge
chiese a un abitante del luogo dove vivessero i poveri, quello sulle
prime rimase un po’ perplesso, poi rispose: «Non ci sono poveri qui»
(1999).
Con il passare degli anni, però, l’economia locale ha cominciato a
“svilupparsi”. Dapprima sono arrivati i turisti, portando con sé i
prodotti e i marchingegni dell’economia globale. A quel punto gli
abitanti hanno cominciato a sentire il bisogno di denaro per poter
acquistare beni di lusso. Così, poco a poco, si sono orientati verso
un’economia monetaria. Con l’introduzione dell’agricoltura da
reddito, l’economia locale è diventata dipendente dal petrolio,
essendo necessari dei trasporti moderni per spedire la produzione.
Anche l’ecosistema locale ha cominciato a deteriorarsi, quando in
agricoltura si sono fatte strada le sostanze chimiche. L’economia
tradizionale precipitava, e intanto anche la cultura Ladakh si
impoveriva e gli abitanti cominciavano a perdere la loro identità.
La prima reazione, ascoltando questa storia, è forse di nostalgia
per un’epoca e una cultura più semplici. Per molti probabilmente quel
che è accaduto al popolo del Ladakh è triste ma in qualche modo
inevitabile. Altri si chiederanno se non c’era un’altra via per aprirsi al
mondo, una via che non implicasse il deterioramento della cultura e
dell’ecosistema locali.
In ogni caso, non è sbagliato domandarsi se il processo di crescita
vissuto da quella gente sia stato di reale progresso o “sviluppo”.
Come già evidenziato, lo sviluppo dovrebbe contemplare un
miglioramento qualitativo dell’esistenza. Nel caso del Ladakh, i
“benefici” dell’economia globale (televisione, accesso ai beni di
consumo per chi se li può permettere, trasporti moderni) superavano i
costi in termini di povertà, degrado ecologico ed erosione culturale?
Pare di no. Definire “sviluppo” un tale processo è un’evidente
distorsione. Eppure a partire dalla seconda guerra mondiale
moltissime nazioni si sono lanciate in un’avventura di “sviluppo”
massiccio che ha diversi tratti in comune con il processo vissuto dal
popolo del Ladakh.
È innegabile che negli ultimi sessant’anni si siano fatti concreti
passi avanti nel controllo delle malattie, nell’innalzamento
dell’aspettativa di vita e nell’accesso all’istruzione. È però
preoccupante che finanche queste conquiste siano oggi in pericolo e
che la povertà si acuisca in molti paesi dell’Africa e in alcuni
dell’America latina e dell’Asia. Anche nel caso dei “miracoli”
economici asiatici tanto cari agli ideologi dello sviluppo, si verificano
puntualmente delle gravi battute d’arresto provocate dalle crisi
finanziarie.
Lo sviluppo della povertà
Non di rado questo processo di sviluppo è in realtà un esempio di
“malsviluppo” che si fonda sui presupposti tipici dell’economia della
crescita poc’anzi esaminati. Ciò è tanto più vero nel caso dei
megaprogetti come le dighe, i piani di irrigazione, le aree di libero
scambio e molte altre iniziative industriali. Questi progetti possono
effettivamente produrre “crescita” nell’economia del denaro così come
viene calcolata dal PIL (sebbene possano anche generare un onere del
debito alquanto gravoso), ma spesso impoveriscono una grossa fetta
della popolazione e minacciano la salute degli ecosistemi. Si
considerino i seguenti esempi:
• In base al progetto irriguo Narmada, attualmente in corso in
India, si costruiranno trenta dighe grandi, centotrentacinque di medie
dimensioni e tremila piccole per sfruttare le acque del fiume Narmada
e dei suoi affluenti. Si stima che a causa di questo progetto più di un
milione di persone verrà sradicato dalle proprie terre e si
distruggeranno 350.000 ettari di foresta, portando così all’estinzione di
molte preziose specie vegetali e al massacro della fauna selvatica. I più
colpiti saranno gli adivasi (popoli indigeni), i quali perderanno le terre
su cui abitano da millenni.
• In tutto il mondo, l’introduzione delle sementi ibride della
“rivoluzione verde” ha portato vantaggi di breve termine per la
produttività agricola, ma a caro prezzo. Le nuove colture richiedono
dosi massicce (e costose) di fertilizzanti e pesticidi chimici, a danno
della salute dell’acqua, del terreno e degli agricoltori. Molte colture
richiedono inoltre una quantità maggiore d’acqua, e dunque
un’irrigazione estensiva (il che porta all’elaborazione di imponenti
progetti per la costruzione di dighe come quello di Narmada). Gran
parte delle nuove sementi ibride sono piantate come monocolture,
eliminando così le tradizionali colture miste e rendendo l’agricoltura
più vulnerabile alla siccità, alle calamità e alle infestazioni
(Dankelman-Davidson, 1988). Di recente, l’introduzione di colture
realizzate con l’ingegneria genetica, come la soia resistente agli
erbicidi del Sud America, ha provocato un’ulteriore concentrazione
della ricchezza nelle mani dei grandi proprietari terrieri, favorendo
l’allontanamento dei piccoli produttori e la distruzione degli
ecosistemi complessi.
• La comunità agricola di Singrauli, in India, un tempo produttiva,
è diventata un’area di degrado ambientale da quando nella zona sono
state aperte una decina di miniere di carbone a cielo aperto e una serie
di generatori a carbone. La contaminazione del suolo, dell’aria e
dell’acqua ha contribuito alla diffusione quasi epidemica di
tubercolosi, malattie della pelle e altri disturbi. Settantamila persone,
molte delle quali un tempo coltivavano la terra, ora lavorano nelle
miniere. Secondo quanto riferito da Patricia Adams, la stampa indiana
ha paragonato Singrauli ai «gironi più bassi dell’Inferno dantesco»
(1991).
• Nel Lesotho, il governo sudafricano e la Banca mondiale stanno
realizzando l’Highlands Water Project, con cui nasceranno cinque
grosse dighe, 200 chilometri di tunnel e un impianto idroelettrico. Per
questo progetto, però, ventisette mila residenti sono stati già
espropriati delle loro campagne a causa dell’allagamento della diga di
Mohale. A tutti è stata promessa una nuova sistemazione nelle aree
urbane, ma quasi nessuno ha ricevuto risarcimenti per le perdite
(Chiesa Unita del Canada, 2007).
• Nei pressi di Cajamarca, sugli altipiani del Perù, è stata aperta la
miniera d’oro di Yanacocha, la più grande del Sud America. Questo
ha portato grande ricchezza per una piccola fetta della popolazione,
ma il resto degli abitanti è stato penalizzato dall’aumento dei prezzi
della terra e dei prodotti essenziali. Crescono anche il crimine e la
prostituzione. Nella falda acquifera è cominciato a penetrare il
cianuro, avvelenando molte fonti idriche locali. Diversi corsi d’acqua
mostrano già tracce di contaminazione. Non solo: nel 2002 una perdita
di mercurio da un camion proveniente dalla miniera ha inquinato un
tratto di strada lungo 40 chilometri, provocando l’avvelenamento di
quasi un migliaio di residenti.
• Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico è stata creata un’area di
libero scambio, la cosiddetta “maquila”, per dare impulso allo sviluppo
economico del Messico. Gli operai (perlopiù donne) che vi lavorano
percepiscono salari esigui e sono soggetti a una serie di abusi dei
diritti umani. Come se non bastasse, l’area di confine è piena di
inquinanti tossici e sono comuni gravi malformazioni congenite.
Questi “progetti di sviluppo” creano il genere di crescita calcolata
dal PIL, ma non migliorano la qualità della vita di una fascia
consistente della popolazione. Sono inoltre devastanti per gli
ecosistemi naturali e minacciano la capacità della Terra di alimentare
la vita. Eppure molti economisti ed “esperti di sviluppo” si ostinano
nel dire che la strada verso il progresso risiede in questa sorta di
malsviluppo. Perché?
Distruggere la sussistenza
Una delle questioni cruciali è che lo sviluppo dell’Occidente,
fondato su indicatori distorti come il PIL, non tiene in considerazione
le tradizionali economie di sussistenza: economie basate sulla
produzione per il consumo immediato e locale. Com’era per il popolo
del Ladakh diversi decenni fa, in un’economia di sussistenza si può
godere di una qualità della vita piuttosto elevata e si ha il tempo per la
famiglia e le attività culturali, ma vi sono pochi scambi di denaro.
Usando le lenti distorte dell’economia moderna, questa mancanza di
transazioni è interpretata come povertà, come un “problema” che va
“curato”.
L’ecofemminista indiana Vandana Shiva scrive invece: «La
sussistenza [...] non implica necessariamente una qualità fisica di vita
insufficiente» (Shiva, 1989 [2002, p. 21]). I cibi locali, non lavorati e
prodotti senza input chimici, sono spesso più sani di quelli delle diete
occidentali; i vestiti e gli edifici fatti con materiali naturali sono più
adatti ai climi locali oltre che più convenienti. Shiva mette in rilievo
che il «progetto, viziato da un pregiudizio culturale», per rimuovere la
povertà percepita «annienta stili di vita sani e sostenibili e crea
un’effettiva povertà materiale, ovvero la miseria, negando perfino i
bisogni legati alla sopravvivenza, poiché storna le risorse a beneficio
della produzione di merci che le consumano in modo massiccio» (1989
[2002, p. 21]). «Le materie prime disponibili sono aumentate, ma la
natura è impoverita. La miseria del Sud nasce da una crescente
scarsità d’acqua, cibo, foraggio e combustibile, associata al
consolidarsi del malsviluppo e alla distruzione ecologica» (1989 [2002,
p. 16]).
La “cura” prescritta dallo sviluppo è dunque promuovere i
megaprogetti, introdurre colture da reddito per le esportazioni e
intensificare lo sfruttamento delle risorse naturali. Queste misure
incrementano il flusso di denaro ma privano i poveri dei loro mezzi di
sussistenza. In genere sono le donne le più colpite da questa deriva.
«Questa crisi colpisce più severamente le donne, in primo luogo
perché esse sono le più povere tra i poveri, e poi perché, con la natura,
sono le principali sostentatrici della società» (Shiva, 1989 [2002, p. 16]).
Gli agricoltori di sussistenza, perlopiù donne, sono spesso messi ai
margini dall’agricoltura commerciale, e questo lascia senza reddito
intere famiglie. Tutto questo non fa che accelerare il processo di
urbanizzazione: privati della loro economia tradizionale, i nuclei
familiari si spostano verso le città in cerca di lavoro, in settori in cui i
salari sono esigui, come nel caso delle maquilas del Messico e
dell’America centrale. Gli ecosistemi locali, intanto, sono minacciati
dall’abbattimento delle foreste, dai pesticidi introdotti in agricoltura e
dall’inquinamento del terreno, dell’acqua e dell’aria provocato dalle
fabbriche e dalle miniere. Osserva David Korten:
Dopo trent’anni di lavoro nel campo dello sviluppo, solo di recente mi sono reso
conto fino a che punto l’avventura di sviluppo in cui si è lanciato l’Occidente ha in
realtà allontanato le persone dai mezzi di sussistenza tradizionali e rotto i vincoli di
sicurezza garantiti dalla famiglia e dalla comunità, inducendo invece la dipendenza
dal lavoro e dalle merci prodotte dalle moderne multinazionali. È la prosecuzione di
quel processo cominciato con la recinzione, o privatizzazione, delle terre comuni in
Inghilterra per concentrare i benefici della produzione nelle mani di pochi invece che
di molti. [...] I sistemi agricoli, sanitari, di istruzione e di mutuo soccorso gestiti a
livello locale [sono ormai sostituiti] da sistemi che si prestano di più al controllo
centralizzato.
(1995)
Adeguarsi al malsviluppo
Circa un decennio fa alcuni ricercatori dell’università di Yale, in
collaborazione con due importanti giardini botanici degli Stati Uniti,
hanno pubblicato uno studio sul valore dei cosiddetti “prodotti
forestali secondari” ricavati da una foresta pluviale sana. Il valore
complessivo medio del lattice, dei frutti commestibili e di altri beni
prelevati dalla foresta arrivava a oltre 6.000 dollari per ettaro, più del
doppio di quanto si guadagnerebbe pascolando bestiame su un
terreno disboscato o raccogliendo legname da piantagioni di alberi a
crescita rapida.
Ciononostante, ogni anno decine di milioni di ettari di foresta
pluviale vengono abbattuti o semplicemente incendiati. Alcuni
governi, come l’Indonesia o il Brasile, offrono incentivi diretti o
indiretti a questo tipo di attività. Perché? Al contrario delle produzioni
forestali tradizionali, che si vendono per la maggior parte nei mercati
locali per soddisfare bisogni locali, il bestiame, la soia e il legname
possono essere venduti sul mercato globale, dove essi generano «una
quantità sostanziosa di valuta estera». Si tratta «evidentemente di
commodity da esportare, controllate dal governo e sostenute da
cospicui finanziamenti federali» (citato in Adams, 1991). Questa
capacità di generare valuta estera sul mercato mondiale è di
fondamentale importanza, dal momento che servono valute forti per
affrontare il pagamento dei gravosi debiti esteri.
Una fortissima pressione è infatti esercitata sulle nazioni indebitate
perché procedano al pagamento del debito. Le istituzioni finanziarie
internazionali come il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca
mondiale impongono pesanti misure di austerity – denominate
“programmi di aggiustamento strutturale” (SAP, Structural Adjustment
Programs) – come condicio sine qua non per la concessione di nuovi
prestiti. Obiettivo dei SAP è assicurare la disponibilità di valuta estera
per pagare i debiti. I governi nazionali devono quindi tenere sotto
controllo l’inflazione (riducendo il consumo interno), tagliare la spesa
pubblica, promuovere le colture da reddito e le industrie estrattive,
allentare i vincoli ambientali e occupazionali e incoraggiare gli
investimenti esteri (perlopiù delle multinazionali). Paradossalmente, il
problema del debito che i SAP si propongono di risolvere può farsi
risalire in larga misura ai megaprogetti associati alla pratica del
malsviluppo, oltre che alle condizioni sfavorevoli del prestito e agli
elevati tassi d’interesse.
Insomma, è raro che i SAP riducano l’onere del debito che
dovrebbero invece ripianare. Anzi, possono anche aggravare il
problema. Per tenere sotto controllo l’inflazione, i SAP spesso inducono
la recessione alzando i tassi di interesse interni. Se calano i consumi
interni, l’occupazione e i salari, anche le entrate fiscali diminuiscono.
Sempre più nazioni, intanto, incrementano la produzione delle
commodity da esportazione, aumentando così l’offerta e la
competizione internazionale e facendo crollare i prezzi, le entrate e i
salari. I debiti continuano a crescere a ritmi ancor più elevati. A quel
punto sono necessari nuovi prestiti solo per pagare gli interessi sul
vecchio debito (il che può portare anche a nuovi SAP!), e non di rado si
devono innalzare ulteriormente i tassi di interesse interni per attrarre
più denaro.
La strategia dei SAP per garantire il pagamento del debito si rivela
dunque un fallimento clamoroso, eppure i creditori del Nord si
ostinano a concedere nuovi prestiti. Perché? Vero scopo dei SAP
sembra essere la formazione di una manodopera a basso costo alla
disperata ricerca di lavoro, esportazioni di materie prime per i mercati
internazionali a condizioni vantaggiose e nuovi mercati per le
multinazionali. Di solito si descrive questo processo come
l’imposizione di una “economia neoliberista”: un modello di
capitalismo selvaggio che sacrifica il benessere della stragrande
maggioranza dell’umanità e della Terra per l’arricchimento di pochi.
In un certo senso, i SAP possono considerarsi una sorta di moderna
prigione dei debitori, che tiene reclusi interi popoli ed ecosistemi.
In un’intervista rilasciata nel 1999, poco prima di morire, alla
rivista «New Internationalist», l’ex presidente della Tanzania Julius
Nyerere raccontava in che modo i SAP avevano impoverito milioni di
persone e azzerato i progressi conquistati dal suo paese grazie a un
autentico sviluppo umano:
Mi trovavo a Washington l’anno scorso. Alla Banca mondiale la prima domanda
che mi fecero fu: «Come ha fatto a fallire?». Risposi che avevamo preso in consegna
un paese con l’85 per cento della popolazione adulta analfabeta. Gli inglesi ci
avevano governato per quarantatré anni. Quando sono andati via, c’erano in tutto
due ingegneri specializzati e dodici medici. Questo è il paese che abbiamo ereditato.
Alla fine del mio mandato, il 91 per cento delle persone era alfabetizzato e quasi
tutti i bambini andavano a scuola. Abbiamo formato migliaia di ingegneri, medici,
insegnanti.
Nel 1988 il reddito pro capite della Tanzania era di 280 dollari. Ora, nel 1998, è di
140 dollari. Quindi chiesi io a quelli della Banca mondiale di spiegarmi cos’era andato
storto, visto che negli ultimi dieci anni la Tanzania ha firmato qualsiasi cosa e ha fatto
tutto quello che volevano l’FMI e la Banca mondiale. Le iscrizioni scolastiche sono
sprofondate al 63 per cento e le condizioni dei servizi sanitari e sociali sono
peggiorate. Ho chiesto di nuovo: «Cos’è andato storto?».
(Bunting, 1999)
Il fallimento dei SAP non è evidente soltanto dall’impoverimento di
larga parte dell’umanità, ma anche dalla devastazione della Terra: le
colture da reddito richiedono l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi
chimici; per esportare il legname si disboscano le foreste pluviali,
distruggendo così intere specie, causando l’erosione del suolo e in
ultimo la desertificazione; le delicate paludi di mangrovia sono
convertite in allevamenti di gamberi; miniere e fonderie creano una
miscela mortale di sostanze chimiche tossiche.
Non solo: i SAP neutralizzano anche l’unico meccanismo di mercato
che potrebbe promuovere la conservazione delle ricchezze naturali del
pianeta. In teoria, quando scarseggiano le merci i prezzi aumentano,
costringendo i produttori a diventare più efficienti e a cercare
alternative più sostenibili dal punto di vista ambientale.
Parallelamente, se i prezzi aumentano i consumi calano,
promuovendo la conservazione delle risorse.
Purtroppo i SAP hanno gravemente distorto questa forma di
regolamentazione del mercato. Il modello neoliberista imposto
attraverso di essi costringe le nazioni a competere nella produzione di
beni da esportazione per guadagnare più valuta estera. Il legno, i
minerali, il petrolio e i prodotti agricoli sono esportati a livelli
insostenibili, creando così un momentaneo “eccesso di offerta” e
mantenendo bassi i prezzi. In tal modo non si innesca quindi quel
meccanismo di mercato che potrebbe invece favorire la salvaguardia o
la ricerca di alternative più sostenibili. È probabile che i prezzi
aumenteranno solo quando le risorse della Terra saranno ormai in via
di esaurimento, portando al rischio del collasso economico invece che
alla graduale transizione verso un’economia più sostenibile.
Ripensare lo sviluppo
Sia i SAP sia le pratiche di malsviluppo che essi promuovono
stanno creando un debito enorme, insolvibile per la maggioranza del
genere umano, ormai impoverita, e per la comunità di creature che
dividono la Terra con noi. Se vogliamo porre rimedio al problema del
debito, dobbiamo ripensare e mettere profondamente in discussione
quello che oggi denominiamo “sviluppo”. In particolare, dobbiamo
passare al setaccio tutto ciò che mette in pericolo le culture e le
sapienze tradizionali, che intacca la partecipazione e la democrazia e
che minaccia la salute degli ecosistemi.
Anche quei progetti che sembrano soddisfare i bisogni primari
dell’uomo vanno in alcuni casi messi in discussione. Ad esempio,
costruire scuole può avere un impatto negativo se il sistema di
istruzione adottato induce ad abbandonare uno stile di vita
tradizionale in favore del consumismo e dell’economia del denaro.
Ospedali e cliniche possono essere usati per imporre la medicina
occidentale, escludendo i guaritori e le medicine tradizionali. Le
strade possono aumentare la dipendenza dal petrolio e incoraggiare la
produzione di colture da reddito per le esportazioni.
Ciò detto, non tutto quello che va sotto il nome di sviluppo è
negativo. Anzi, sono assolutamente necessarie misure per migliorare
la salute, l’alimentazione e l’istruzione. Visti i danni inflitti dal
malsviluppo, molto si deve fare anche per risanare le comunità. La
chiave sta nell’indirizzare lo sviluppo in modo da dare potere ai
popoli, promuovere le diverse culture e salvaguardare gli ecosistemi
locali.
Lo sviluppo dunque, come la crescita, deve essere riformulato in
chiave qualitativa più che quantitativa (specie se le quantità che
vengono misurate – laddove si usano come criteri di misurazione il
denaro e il PIL – hanno di per sé un valore discutibile). Lo sviluppo
non deve più privilegiare il vantaggio e il profitto immediato di pochi,
ma interessarsi al miglioramento a lungo termine della qualità della
vita di tutti gli uomini e di tutte le creature della Terra. Forse
dovremmo anche trovare un nuovo linguaggio in cui il termine
“sviluppo” non abbia l’accezione negativa che gli viene associata oggi.
Si comincia a parlare di “sviluppo sostenibile”: in teoria è uno
sviluppo che non mette a repentaglio il benessere delle generazioni
future. In pratica, si dà ancora la priorità allo sviluppo rispetto alla
sostenibilità. Un’altra alternativa è “comunità sostenibile”:
l’espressione sembra migliore in quanto descrive il fine che ci si
prefigge (specie se nel termine “comunità” comprendiamo anche le
altre creature), anche se forse è un po’ troppo statica. Potremmo
pensare a espressioni più appropriate del tipo: “ecosviluppo”,
“evoluzione sostenibile della comunità” o persino “coevoluzione
partecipativa”.
Per poter formare delle comunità davvero sostenibili, dobbiamo
imparare dalla saggezza degli ecosistemi sani, in cui gli scarti sono
riciclati da altri organismi per produrre nuovamente la vita. Un
esempio affascinante si può trovare nel metodo aigamo di coltivazione
del riso sviluppato da Takao Furuno, in Giappone. Nelle risaie piene
d’acqua sono allevate delle anatre che forniscono un fertilizzante
naturale alle piante e mangiano le erbacce (ma non le piantine di riso,
che non sono di loro gradimento), evitando così un lavoro
massacrante. Si usano inoltre delle felci acquatiche per fornire azoto al
riso e cibo aggiuntivo alle anatre. Oltre settantacinquemila agricoltori
in Asia ricorrono ormai a questo metodo. La produzione aumenta in
media tra il 50 e il 100 per cento senza bisogno di usare input chimici,
e le anatre forniscono agli agricoltori una fonte aggiuntiva di proteine
o di introiti (Ho, 1999).
In tutto il mondo esistono molti esempi simili di pensiero creativo
ed ecologico. Questa forma di “ecosviluppo” dimostra che è possibile
migliorare la vita delle comunità umane preservando al contempo la
salute della Terra. Nel momento in cui intraprendiamo un cammino di
ecosviluppo, dovremmo sforzarci di emulare la sapienza dei popoli
indigeni delle Americhe, che valutano le conseguenze delle loro azioni
per le successive sette generazioni. Mike Nickerson scrive: «Ci sono
volute la cura e la fatica di oltre settemila generazioni per rendere
possibili le nostre esistenze. Esse ci hanno dato il linguaggio, i vestiti,
la musica, gli utensili, l’agricoltura, lo sport, la scienza e una vasta
comprensione del mondo dentro e intorno a noi. Di sicuro abbiamo il
dovere di trovare dei modi per preoccuparci di almeno altre sette
generazioni» (1993).
Il dominio delle multinazionali
Non possiamo sperare di affrancarci dalla crescita illimitata e
indifferenziata come dal malsviluppo se non riconosciamo le vere
potenze globali che scatenano entrambe le patologie: le corporation
transnazionali (TNC, transnational corporations). Le cinquecento società
di capitali più grandi del mondo impiegano solo lo 0,05 per cento
della popolazione mondiale, eppure controllano il 25 per cento della
produzione economica globale (così come viene calcolata dal PIL) e il
70 per cento del commercio internazionale. La metà delle prime cento
entità economiche del mondo non sono nazioni bensì corporation. Le
prime trecento (escluse le istituzioni finanziarie) possiedono circa un
quarto degli asset produttivi del mondo, mentre le prime cinquanta
società finanziarie controllano il 60 per cento di tutto il capitale
produttivo (Korten, 1995). Scrive Tom Athanasiou:
Le TNC sono sia gli architetti sia i mattoni dell’economia globale. [...] Sono loro a
dettare le condizioni. [...] Sono attori regionali e globali in un mondo frammentato in
nazioni e tribù. Mettono un paese contro l’altro, un ecosistema contro l’altro,
semplicemente perché fare così porta affari. Salari esigui e scarsi standard di
sicurezza, saccheggio ambientale, desideri in continua espansione: sono tutti sintomi
di forze economiche, incarnate nelle corporation transnazionali, così potenti da
spezzare tutti i vincoli di quella società di cui a parole sono al servizio.
(1996)
Le TNC hanno fatto di tutto per piegare le regole dell’economia
globale al loro tornaconto. Nelle nazioni grandi come in quelle piccole,
esse sono capaci di esercitare una notevole influenza:
• coltivando “relazioni amichevoli” con i partiti attraverso
contributi politici;
• promettendo (o minacciando) di spostare gli investimenti e i
posti di lavoro;
• esercitando pressioni sui mercati finanziari globali affinché
esprimano il loro “voto” sulle politiche di un governo, attraverso
attività come la speculazione monetaria.
Dato il controllo esercitato sull’economia globale, negli ultimi
venticinque anni l’influenza politica delle corporation si è fatta
davvero pesante. Non sorprende dunque che le politiche incardinate
nei programmi di aggiustamento strutturale siano favorevoli alle
grandi multinazionali. Non solo: le nuove regole economiche previste
dagli accordi e dalle istituzioni che governano il commercio e gli
investimenti – come l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO,
World Trade Organization), il NAFTA (North American Free Trade
Agreement, Accordo nordamericano per il libero scambio) e l’Accordo
multilaterale sugli investimenti (per il momento fallito) – sono
perlopiù una “dichiarazione dei diritti” delle TNC. Secondo Martin
Khor, direttore del Third World Network, gli accordi sul commercio
globale fungono da «poliziotti economici del mondo per far rispettare
le nuove norme che massimizzano le operazioni sregolate delle
corporation transnazionali» (Khor, 1990).
Questa nuova piattaforma globale rende sempre più difficile per
governi e cittadini proteggere il benessere dell’uomo e dell’ambiente.
Il governo canadese, ad esempio, è stato costretto a rimuovere il
bando sul commercio interprovinciale dell’additivo metallico per
carburante MMT – una potente neurotossina ormai comprovata – a
causa delle regole del NAFTA, che proibiscono di fatto tali restrizioni.
Paradossalmente, l’uso dell’MMT non è consentito negli Stati Uniti, il
paese in cui la Ethyl Corporation fabbrica questa sostanza chimica. Un
altro esempio lo si può ritrovare nelle modifiche proposte dal WTO per
eliminare le tariffe doganali su tutti i prodotti forestali e consentire
agli investitori un accesso incondizionato ai boschi degli altri paesi,
senza l’obbligo di rispettare le leggi nazionali in materia di lavoro e
ambiente.
Le corporation transnazionali e la devastazione ecologica
Oltre a promuovere un contesto economico globale che rende
praticamente impossibile la salvaguardia dell’ambiente e del lavoro, le
TNC hanno un ruolo diretto in quasi tutte le attività più devastanti dal
punto di vista ecologico. Producono oltre la metà dei carburanti fossili
e sono direttamente responsabili di più del 50 per cento delle
emissioni mondiali di gas serra. Sono inoltre loro a produrre quasi
tutte le sostanze chimiche nocive per l’ozono. Controllano anche l’80
per cento della terra destinata all’agricoltura da esportazione. Appena
venti società gestiscono oltre il 90 per cento della vendita complessiva
di pesticidi (Athanasiou, 1996). Infine, colossi come General Electric,
Mitsubishi e Siemens hanno fortissimi interessi nel campo dell’energia
nucleare.
Di recente, le TNC hanno assunto un controllo sempre maggiore
sull’offerta mondiale di sementi e persino di materiale genetico, grazie
ai brevetti su forme viventi e su singoli geni. Dal 1995, la coltivazione
di OGM, organismi geneticamente modificati (o frutto di ingegneria
genetica) prodotti e controllati da multinazionali come la Monsanto e
l’Aventis, si è diffusa rapidamente fino a raggiungere più di cento
milioni di ettari (più o meno l’estensione della Bolivia, o di Francia e
Germania messe insieme). Il 60 per cento della soia e il 25 per cento
del mais mondiali contengono già geni provenienti da altre specie.
Il pericolo di queste colture “transgeniche” è duplice. Da un lato,
poiché il seme è di proprietà della multinazionale che lo produce, le
colture sottraggono agli agricoltori il controllo della fornitura di
sementi (un processo già avviato in forma minore con l’introduzione
di varietà ibride nel secolo scorso). Per poter usare queste sementi, gli
agricoltori sono costretti a firmare dei “contratti per l’utilizzo di
tecnologia” che proibiscono di conservare le sementi per più di un
anno.
Le corporation transnazionali hanno persino tentato di introdurre
forme di controllo genetico nelle sementi per renderle sterili: finora
tuttavia questa tecnologia “sterminatrice” non è stata approvata.
Ancor più inquietante è che le colture transgeniche si ottengono
introducendo artificialmente i geni di una specie in un’altra attraverso
l’uso del DNA ricombinante. Questo inserimento sostanzialmente
casuale di geni estranei può avere effetti inaspettati sul genoma di una
pianta, e in effetti solo una piccola percentuale di esperimenti di
ingegneria genetica va in porto. Ma i geni si replicano e si diffondono,
e qualsiasi effetto indesiderato – tra cui la susseguente mutazione
dovuta a un genoma meno stabile – potrebbe espandersi velocemente
in specie colturali di cruciale importanza attraverso l’impollinazione
incrociata.
Visti i potenziali rischi, perché non bandire gli OGM? Le
multinazionali chimiche e agricole sostengono che le colture
transgeniche sono necessarie per aumentare la produzione alimentare
e addirittura ridurre l’uso di sostanze chimiche in agricoltura.
Nessuna di queste argomentazioni, però, pare avere grande
fondamento. Come abbiamo visto, la causa principale della fame e
della povertà è la cattiva distribuzione della ricchezza e il
depauperamento degli ecosistemi. Poiché le colture transgeniche
garantiscono il controllo delle multinazionali sulla fornitura di
sementi e introducono la contaminazione genetica negli ecosistemi,
esse in realtà non fanno che acuire questi problemi. Anche se si
aumentasse la produzione alimentare in modo considerevole, è molto
improbabile che ciò possa avere un impatto di qualche tipo sulla
povertà. Anzi, spesso l’incremento della produzione fa precipitare i
prezzi, impoverendo i piccoli coltivatori.
Peraltro, nessuna coltura OGM per uso commerciale creata finora
serve a incrementare davvero la produzione agricola o
l’alimentazione. Quasi tutte le modificazioni si concentrano sulla
tolleranza agli erbicidi (per uccidere le erbe infestanti senza
danneggiare le colture) o sulla resistenza agli insetti. Le colture
tolleranti agli erbicidi fanno quindi aumentare l’uso di sostanze
chimiche nocive per gli ecosistemi. E consentono alle grosse
compagnie e ai grossi proprietari terrieri di espandere le loro
coltivazioni. Addirittura, in Argentina e Paraguay i grandi proprietari
terrieri hanno indiscriminatamente spruzzato erbicidi sui campi vicini
per uccidere le colture dei proprietari più piccoli e cacciarli via dalle
loro terre.
Il modo migliore per garantire la sicurezza alimentare è usare
un’ampia varietà di piante a impollinazione aperta: ciò garantisce la
diversità genetica e dunque una combinazione di tratti che possono
adattarsi a diverse condizioni meteorologiche e del suolo. I semi
dell’impollinazione aperta, però, non possono essere brevettati e
controllati dalle multinazionali come avviene nel caso degli OGM.
Come scrivono Lovins e Lovins (2000): «La nuova botanica tende a
giudicare lo sviluppo delle piante non in base al loro successo
evolutivo ma in base al successo economico: la sopravvivenza non del
più forte ma del più grasso, di quello in grado di approfittare delle
vendite massicce di prodotti sotto monopolio».

Dal momento che investono grosse cifre in tecnologie distruttive


per l’ambiente, le corporation transnazionali sono una forza che si
oppone a strategie ecologicamente salutari. Negli ultimi quarant’anni
si sono investiti molti più soldi nell’energia nucleare che nelle
tecnologie per l’energia solare o eolica, soprattutto perché è più
semplice per le multinazionali guadagnare da questo tipo di
tecnologia centralizzata (e dagli spin-off militari che essa porta con sé).
Parallelamente, le compagnie petrolifere hanno messo in piedi
massicce campagne pubblicitarie per seminare il dubbio circa
l’evidenza scientifica del riscaldamento globale, nonostante la scienza
sia unanime nell’affermare che l’attività umana sta avendo un impatto
sensibile (e, secondo molti, preponderante) su tale fenomeno.
Ci sono anche corporation che promuovono il benessere ecologico.
Le grosse compagnie assicurative, preoccupate dai danni causati dagli
uragani, da ricollegarsi al riscaldamento globale, hanno cominciato a
fare pressioni perché si riducano le emissioni di gas serra. Alcune
società, soprattutto quelle più piccole, stanno sviluppando tecnologie
più ecologiche come i pannelli solari, i generatori eolici e le celle a
combustibile a idrogeno. In generale, però, le TNC più grosse e potenti
sono ancora restie alle energie alternative, a meno che non trovino il
modo di controllarle e avere il predominio su di esse.
È chiaro dunque che la responsabilità principale della
devastazione ecologica che stiamo sperimentando oggi è da imputare
alle grosse multinazionali. È improbabile che la situazione cambi fino
a quando non si modificheranno radicalmente la struttura e le regole
di queste società. Paul Hawken (1993) scrive che le corporation al
momento «se la passano bene» dal punto di vista dei bilanci, se si
trascura il fatto che di fatto rubano al futuro per guadagnare oggi. Per
diventare etica, giusta ed ecologica, una corporation deve affrontare
spese che altri non hanno. Di fatto, molte multinazionali stanno
mettendo in pericolo la loro redditività nel lungo termine, ma le
quotazioni raramente tengono conto delle prospettive di lungo
periodo.
Le “superpersone” corporative
Secondo diversi analisti, il problema dell’attuale modello
corporativo è da farsi risalire in gran parte al momento in cui i
tribunali statunitensi (e più tardi anche quelli di altre nazioni)
riconobbero alle corporation il diritto di essere considerate persone
giuridiche. Da ciò derivò il riconoscimento di una serie di diritti, tra
cui quello della libera espressione e della partecipazione politica. Ma
le aziende non sono persone reali, come rileva Kalle Lasn:
Una corporation non ha né cuore, né anima, né principi morali. Non sente dolore
e non si lascia intimidire. Una corporation non è un essere umano, ma un processo:
un mezzo per ottenere un guadagno. [...] Per la sua “sopravvivenza” è necessaria una
sola condizione: nel lungo termine, le entrate devono per lo meno eguagliare le
uscite. Detto questo, la corporation è un organismo che, potenzialmente, può esistere
all’infinito.
Quando una corporation fa del male alla gente o danneggia l’ambiente, non sente
alcun dolore o rimorso, dato che è incapace di provare emozioni. [...]
Siamo soliti demonizzare le corporation per la loro insaziabile ricerca di
espansione, potere e ricchezza. Eppure, guardiamo le cose come stanno: esse non
fanno altro che mettere in atto degli ordini impartiti. È questo il motivo per cui sono
state create.
(1999 [2004, pp. 229-231])
Secondo Joel Bakan sono state create delle superpersone
corporative che sono esseri patologici. Non possiamo aspettarci che si
comportino in modo etico visto che sono strutturati per pensare e
agire da psicopatici:
Il modello societario della corporation è intrinsecamente concepito in modo da
sottrarre alla responsabilità legale coloro che ne detengono la proprietà e la
amministrano, facendo diventare la corporation, una “persona” caratterizzata da una
forma di disprezzo psicopatologica per i vincoli giuridici, il bersaglio principale di
un’eventuale incriminazione o procedimento penale. [...] Come un soggetto
psicopatico, la corporation non può riconoscere né agire secondo principi etici che le
inibiscano di nuocere agli altri. La sua natura giuridica non fissa alcun limite a quello
che può fare agli altri nel perseguimento dei suoi scopi egoistici; di fatto, laddove i
benefici superano i costi, la corporation è perfino obbligata ad arrecare danni. Solo la
pragmatica considerazione dei propri interessi e i vincoli imposti dalle leggi locali
possono frenarne gli istinti predatori, e spesso ciò non costituisce un ostacolo
sufficiente ad impedirle di distruggere vite, danneggiare comunità e mettere in
pericolo l’intero pianeta.
(2004 [2004, pp. 81 e 102])
David Korten segnala che le “superpersone” corporative sono
ormai fuori controllo: persino chi le “gestisce” è ormai diventato
sacrificabile. Le corporation esistono come «entità a sé stanti» senza
alcun legame con persone o luoghi. Anzi, secondo Korten, gli interessi
degli esseri umani e dell’intera comunità terrestre sono ormai del tutto
divergenti rispetto a quelli delle corporation. Eppure esse vanno
assumendo un controllo sempre maggiore sulle nostre esistenze: «è
come se fossimo invasi da alieni intenzionati a colonizzare il nostro
pianeta, riducendoci in schiavitù ed escludendo quanta più gente
possibile» (1995).
Secondo John Ralston Saul (1995 [1999]), questa tendenza ricorda
da vicino gli obiettivi dei movimenti corporativisti come il fascismo
degli anni Venti e Trenta, che mirava a: 1) trasferire il potere dai
popoli e dai governi ai gruppi d’interesse economico; 2) «estendere
l’iniziativa imprenditoriale in aree normalmente riservate agli enti
pubblici» (quella che noi chiamiamo “privatizzazione”); 3) eliminare i
confini tra interesse pubblico e privato. A leggere la sua analisi si ha
l’impressione che, nonostante la seconda guerra mondiale, il
corporativismo abbia di nuovo trionfato in una forma diversa, più
subdola e potente. È arduo immaginare un modello di governance
globale meno democratico e meno ecologico di questo.
Lo schiacciante potere patologico delle corporation può apparire
invincibile, ma già compaiono le prime crepe nell’armatura. In alcune
aree d’Europa e del Brasile, e persino in alcune province degli Stati
Uniti, sono nate delle zone OGM-free. I governi progressisti, in
particolare nell’America del Sud, cominciano a mettere seriamente in
discussione l’agenda neoliberista promossa dalle TNC. Le proteste a
livello globale contro l’FMI, la Banca Mondiale e l’Organizzazione
mondiale del commercio – preziosi strumenti internazionali del
dominio delle multinazionali – stanno assumendo sempre maggior
vigore. È in gran parte grazie a questi movimenti e all’ascesa di
governi critici verso l’agenda del WTO se negli ultimi anni non si è fatto
praticamente nessun “passo avanti” nei negoziati
dell’Organizzazione.
Secondo Korten, l’attuale capitalismo corporativo globale somiglia
molto alle economie centralizzate dell’ex blocco sovietico:
«L’Occidente sta ormai percorrendo un cammino ideologico
estremista [analogo a quello dell’ex blocco sovietico], con la differenza
che puntiamo dritto alla dipendenza da corporation ineffabili che non
rendono conto di nulla, invece che da uno Stato ineffabile che non
rende conto di nulla» (1995). Entrambi i sistemi concentrano il potere
economico in istituzioni centralizzate restie a rispondere delle loro
azioni e alla partecipazione popolare; entrambi poggiano su grandi
strutture intrinsecamente inefficienti e insensibili ai diritti umani e ai
bisogni autentici; entrambi creano un’economia distorta che tratta le
altre creature e gli ecosistemi come risorse da sfruttare senza
conseguenze. Come sappiamo, il sistema sovietico – un tempo
ritenuto inaffondabile – crollò nel giro di qualche anno. Anche se il
capitalismo corporativo globale è un sistema più sofisticato di
controllo e di sfruttamento, ci sono ottimi motivi per ritenere che
anch’esso soccomberà, altrettanto rapidamente, se non farà una decisa
inversione di rotta. Come rileva Korten, «un sistema economico può
sopravvivere solo fintanto che la società possiede i meccanismi per
contrastare gli abusi del potere statale o del mercato e l’erosione del
capitale naturale, sociale e morale che tali abusi di solito acuiscono»
(1995).
La finanza parassitaria
I problemi della crescita, del malsviluppo e del dominio
corporativo sono aggravati dal parassitario sistema finanziario che
sempre più sposta l’economia dalla produzione e distribuzione di beni
e servizi alla produzione di profitto attraverso la manipolazione di
denaro. Nel 1993, due tra le maggiori multinazionali del mondo – la
General Electric e la General Motors – generarono più profitti grazie
alle loro controllate finanziarie che con la costruzione di prodotti
elettronici o automobilistici (Dillon, 1997).
L’“economia finanziaria” globale ha velocemente sopravanzato
l’economia basata su beni e servizi reali. Le transazioni finanziarie
ormai “valgono” (con il denaro come metro di misura!) oltre sette
volte di più del commercio mondiale di merci tangibili. Il valore
monetario delle azioni scambiate sulle principali Borse mondiali è
salito da 0,8 trilioni di dollari nel 1977 a 22,6 trilioni nel 2003. Scrive
Korten: «Ciò determina un incremento enorme nel potere d’acquisto
della classe dirigente rispetto al resto della società. Crea l’illusione che
le politiche economiche stiano aumentando la ricchezza reale della
società, quando invece la stanno erodendo» (2006).
Nel 1997, le transazioni quotidiane di azioni, valute, future sulle
commodity e obbligazioni avevano raggiunto nel complesso circa 4
trilioni di dollari, mentre oggi in base ai calcoli della Banca dei
Regolamenti Internazionali sono le transazioni di valuta estera a
raggiungere da sole quella cifra (rispetto ai 1,5 trilioni di dollari del
1997). Scrive Dillon: «La maggior parte di queste transazioni [il 95 per
cento] è di tipo speculativo: non sono di per sé necessarie a finanziare
la produzione di beni e servizi» (1997). L’introduzione di nuove
tecnologie non ha fatto che aumentare il ritmo e il volume delle
transazioni finanziarie. Quasi tutte usano ormai il «cyber-denaro»:
trasferimenti elettronici che usano computer e mezzi di
comunicazione quasi istantanei in tutto il mondo. Nelle parole di
Dillon: «Niente di tangibile passa di mano. Gli speculatori si
arricchiscono senza fare nulla di particolarmente tangibile, se non
riorganizzare gli zero e gli uno sui chip del computer quando
comprano e vendono il cyber-denaro» (1997).
Sono passati molti anni da quando l’economista John Maynard
Keynes ammoniva: «Gli speculatori possono non causare alcun male,
come bolle d’aria in un flusso continuo di intraprendenza; ma la
situazione è seria quando l’intraprendenza diviene la bolla d’aria in
un vortice di speculazione». È un’analisi perfetta dell’attuale
economia globale. La volatilità generata da questa situazione può
precipitare le cose velocemente e inaspettatamente. Nel 1995, un
operatore finanziario che lavorava a Singapore mandò in bancarotta la
britannica Barings Bank, vecchia duecentotrentatré anni, perché perse
1,3 miliardi di dollari in una transazione che riguardava derivati
giapponesi per un valore di 29 miliardi di dollari. Ancor più
devastanti furono le crisi finanziarie del 1994 in Messico e del 1998 in
Asia: gli investitori ritirarono all’improvviso i soldi da quelle regioni,
provocando lo scoppio della “bolla speculativa” e portando quelle
economie al collasso. In entrambi i casi l’enorme, e volatile, afflusso di
capitale speculativo creò le condizioni che portarono alla crisi. E in
entrambi casi, a proteggere dalle perdite gli investitori esteri (che nel
frattempo avevano realizzato straordinari profitti speculativi) furono i
pacchetti di salvataggio finanziati a livello internazionale. Ad
accollarsi il costo di questi pacchetti, però, furono i popoli e gli
ecosistemi delle nazioni colpite, specie attraverso l’aumento del carico
debitorio e l’imposizione di nuovi programmi di aggiustamento
strutturale.
Su scala ancor più vasta, c’è infine la crisi dei mutui subprime:
partita dagli Stati Uniti, essa ha provocato il crollo dei mercati
finanziari in tutto il mondo. Ancora una volta la speculazione, in
particolare il trading di mutui subprime venduti come investimenti su
titoli di credito, ha portato alla rovinosa fine della bolla speculativa,
questa volta però a livello globale e non più regionale. Scrive
l’economista Herman Daly:
La turbolenza che colpisce l’economia mondiale, scatenata dalla crisi del debito
dei subprime USA, non è in realtà una crisi di “liquidità”, come spesso viene definita.
Ciò implicherebbe che quell’economia è in crisi perché le imprese non riescono più a
ottenere credito o prestiti per finanziare i loro investimenti. In realtà, questa crisi è il
risultato di una crescita eccessiva dei titoli finanziari rispetto alla crescita della
ricchezza reale: insomma, l’opposto della mancanza di liquidità.
I problemi degli USA di cui siamo testimoni sono sorti perché l’ammontare della
ricchezza reale non è un pegno sufficiente a fare da garanzia per lo sconcertante
debito, esploso come conseguenza della possibilità da parte delle banche di creare
denaro, dei prestiti concessi su titoli incerti e del deficit del governo statunitense,
alimentato dalle spese per le guerre e dal recente taglio delle tasse. [...] Per mantenere
viva l’illusione che la crescita ci renda più ricchi, abbiamo dilazionato i costi
emettendo titoli finanziari praticamente illimitati, opportunamente dimenticando che
questi cosiddetti titoli sono, per l’intera società, debiti da rifondere con la crescita
futura della ricchezza reale. Ma la crescita futura è molto incerta, data la dilazione dei
costi reali, mentre il debito continua ad aumentare a livelli inauditi.
(2008)
Ancora una volta, i governi sono stati costretti a puntellare il
sistema finanziario concedendo massicci prestiti e persino acquisizioni
di istituzioni finanziarie, lasciando però trilioni di dollari sulle spalle
dei contribuenti. Nel frattempo lo scoppio della bolla sta producendo
costi molto reali: la disoccupazione cresce, la gente perde la casa e il
commercio globale rapidamente si contrae.

La speculazione finanziaria, dunque, pur essendo ormai avulsa


dalla realtà produce costi molto reali per gli esseri umani e per l’intera
comunità terrestre. Gli speculatori finanziari detengono un immenso
potere economico: come dimostrano le crisi in Messico e in Asia,
possono spostare velocemente i loro fondi quando vogliono, lasciando
che le economie crollino a causa delle loro scelte. Persino le politiche
delle nazioni più ricche sono soggette a questo tipo di pressione. Agli
inizi degli anni Novanta, ad esempio, il governo canadese addusse la
minaccia di rappresaglie finanziarie come giustificazione per il
drastico taglio della spesa pubblica. I finanzieri internazionali
esercitano una sorta di potere di veto sulle politiche di tutti i paesi del
mondo, spingendoli ad approvare leggi e regolamenti che
incrementano la redditività delle aziende attraverso politiche di
investimento aperto (che aumentano ulteriormente la volatilità), di
“libero commercio”, di riduzione delle tasse e di minori protezioni per
il lavoro e gli ecosistemi.
Gli investitori esercitano il proprio potere anche sulle singole
corporation. Per tagliare i costi, aumentare la redditività e
incrementare i prezzi delle azioni, le compagnie eliminano posti di
lavoro o li spostano dove i salari sono più bassi. Analogamente,
distruggere gli “asset naturali” consumando le ricchezze della Terra a
ritmi insostenibili aumenta i profitti e i prezzi delle azioni
nell’immediato. Le corporation che si sforzano di essere responsabili,
che preferiscono la sostenibilità a lungo termine rispetto al profitto
immediato, sono soggette a forti pressioni finanziarie perché agiscano
in modo diverso. Quelle che non lo fanno sono esposte agli attacchi
degli “scalatori” di multinazionali.
Ned Daly cita l’esempio della Pacific Lumber Company, che estrae
legname dalle antiche foreste di sequoie della costa californiana. Negli
anni Ottanta era considerata una compagnia modello per le politiche
sul lavoro e sull’ambiente, tra cui benefit generosi per i lavoratori e
metodi innovativi e sostenibili per il taglio e il trasporto dei tronchi. A
causa di queste scelte, tuttavia, l’azienda generava profitti modesti e
aveva di conseguenza un valore azionario contenuto. Divenne così
bersaglio di un’OPA ostile da parte dello scalatore Charles Hurwitz.
Non appena Hurwitz assunse il controllo dell’azienda, raddoppiò il
taglio di legname e prosciugò il fondo pensionistico della compagnia
di oltre la metà dei titoli. Ciò gli consentì di pagare i titoli spazzatura
da lui usati per finanziare l’acquisizione e di ottenere cospicui profitti.
Per realizzare quei guadagni fu accelerata la distruzione di una delle
più imponenti e preziose foreste del mondo (N. Daly, 1994).
Il sistema finanziario globale può essere quindi visto come un
parassita che succhia la vita all’economia reale. Con questo non si vuol
dire che non sia necessario investire: perché vi sia autentica
innovazione e progresso, spesso sono indispensabili investimenti
produttivi che creino posti di lavoro con salari minimi, purché si
conduca uno stile di vita sostenibile rispettando i vincoli degli
ecosistemi. La maggior parte degli investitori mondiali, invece,
sembra ormai dedita ai cosiddetti “investimenti estrattivi” che non
creano ricchezza ma semplicemente «estraggono e concentrano la
ricchezza esistente. [...] Nel peggiore dei casi, un investimento
estrattivo diminuisce la ricchezza [e la salute] complessiva della
società, mentre garantisce un guadagno considerevole a un singolo
individuo» o a un gruppo di investitori (Korten, 1995). Le operazioni
di Charles Hurwitz sono un esempio perfetto di investimenti
parassitari.
Una ricchezza illusoria
Al centro degli investimenti estrattivi e della finanza parassitaria vi
è una visione sbagliata del denaro. Persino Adam Smith era contrario
all’idea di fare denaro dal denaro: il denaro era inteso come uno
strumento, non un fine in sé. Scrive John Ralston Saul: «L’esplosione
di mercati monetari avulsi dal finanziamento di attività reali è
inflazione pura. Perciò, è anche una forma pura e molto esoterica di
ideologia» (1995 [1999, p. 147]).
L’economista Herman Daly (1996 [2001]) parla di «inganno della
concretezza mal riposta»: confondiamo il denaro (o gli zero e gli uno
che sfrecciano nel cyberspazio e hanno praticamente rimpiazzato la
moneta fisica) con la ricchezza reale che esso dovrebbe rappresentare.
Ciò che si assume per vero per il simbolo astratto della ricchezza si
presuppone valga anche per la ricchezza reale.
La ricchezza reale, però, tende a deteriorarsi: non si può
accumulare per sempre il grano nei granai e nei silos; i vestiti prima o
poi si logorano o sono mangiati dalle tarme; gli edifici poco a poco si
deteriorano. Le ricchezze naturali (come le foreste o le colture)
possono crescere, nel migliore dei casi, secondo i tempi dettati dagli
input del sole, dell’acqua e dell’aria pulite e di un terreno sano. La
ricchezza reale non cresce mai a ritmi esponenziali per un periodo
troppo lungo, e con il passare del tempo può anche deperire.
Il denaro, invece, non si rovina. Identificando il simbolo (il denaro)
con la realtà (la ricchezza), la ricchezza diventa una quantità astratta,
libera dalle leggi della fisica e della biologia. Può accumularsi per
sempre senza decomporsi. Attraverso il gioco di prestigio del debito e
di altre più sofisticate manipolazioni finanziarie, il denaro può persino
crescere, non di rado a ritmi esponenziali. È l’inganno della
concretezza mal riposta a far credere a molti economisti (così come a
politici, investitori, e anche a persone normali adescate dall’illusione
del denaro) che anche la ricchezza reale cresca esponenzialmente.
In realtà, il denaro che si accumula non è affatto una ricchezza
reale: è semplicemente una sorta di pegno sulla produzione futura
che, per consenso sociale, può essere riconvertito in ricchezza reale in
un secondo momento15. Per rispettare le garanzie sempre più elevate
sui future generati da questa forma di accumulazione di capitale
l’economia deve crescere costantemente, oppure bisogna ridurre il
valore del denaro attraverso l’inflazione, affinché vi sia
corrispondenza con la ricchezza realmente esistente (altrimenti, come
nel caso della crisi del debito dei subprime, la bolla scoppia
innescando una reazione a catena che può portare al crollo di svariate
compagnie o all’evaporazione del valore dei titoli virtuali).
Cominciamo dunque a comprendere come la ricerca di profitto
dell’economia finanziaria concentri la ricchezza nelle mani degli
investitori, impoverendo ancora di più i poveri e tutta la comunità
terrestre. Per poter rispettare un pegno sulla produzione futura
sempre più elevato, il mondo è costretto a perseverare in questa
ossessione della crescita illimitata, consumando così la ricchezza
naturale del pianeta. Parallelamente, le pressioni inflazionistiche
impoveriscono in particolare i poveri, i quali di certo non
percepiscono redditi da capitale a ritmi esponenziali.
Ecco un esempio concreto per capire meglio. Tra il 1980 e il 1997, le
nazioni più povere del mondo hanno trasferito 2,9 trilioni di dollari
per pagare debiti alle banche, ai governi del Nord e a istituzioni
finanziarie internazionali quali la Banca mondiale e l’FMI. Eppure,
nello stesso periodo, il loro debito complessivo è aumentato ancora:
da 568 miliardi di dollari a oltre 2 trilioni. Grazie al debito, cospicue
risorse passano dai poveri ai ricchi attraverso il “gioco di prestigio”
dell’interesse composto. Il pegno sempre più elevato sulla produzione
futura delle nazioni più povere non potrà mai essere rispettato. Ma il
parassitico sistema finanziario mondiale continua a dissanguare i
poveri e la Terra, ostinandosi nell’idea che tutta la ricchezza estraibile
vada usata per arricchire l’economia finanziaria.
Il denaro colonizza la vita
Per molti l’economia è la scienza (o l’arte) di produrre, distribuire e
consumare la ricchezza. In parole povere, l’economia sarebbe l’arte di
fare denaro. Ma in greco “economia” si dice oikonomia, ossia l’arte di
curare e gestire la casa, sia essa la comunità, la società o la Terra. La
radice di “economia” è infatti la stessa del termine “ecologia”: lo
studio della casa.
Aristotele fece una distinzione netta tra economia e “crematistica”,
ossia le attività speculative che non producono nulla di valore e che
tuttavia generano profitto. La crematistica è «la branca dell’economia
politica relativa all’uso della proprietà e della ricchezza in vista della
massimizzazione del valore di scambio monetario per il proprietario
nel breve periodo» (H. Daly-Cobb, 1989 [1994, p. 200]).
Aristotele fa l’esempio del filosofo Talete di Mileto per illustrare la
differenza tra economia e crematistica. Per anni, Talete era stato
schernito dalla comunità per il suo stile di vita semplice. «Se la
filosofia è così importante», gli chiedevano, «perché non sei capace di
accumulare ricchezza?». Talete decise allora di dimostrare il contrario.
Grazie alle conoscenze di astronomia, il filosofo riuscì a prevedere che
vi sarebbe stato un eccezionale raccolto di olive. Durante l’inverno
prese in affitto per pochi soldi tutti i frantoi della regione. Quando il
raccolto eccezionale alla fine arrivò, sfruttò il suo monopolio per
procurarsi un grande profitto, ma a danno della comunità.
Ciò che fece Talete somiglia per molti aspetti a quello che avviene
oggi sui mercati finanziari globali. Egli però lo vedeva per ciò che era:
una pratica crematistica più che economica. Dopotutto, il filosofo non
aveva creato nulla che avesse un valore: non aveva inventato un
nuovo uso dell’olio d’oliva, non aveva costruito nuovi frantoi, non
aveva piantato ulivi. Semplicemente, si era arricchito a spese degli
altri.
Gran parte della nostra prassi “economica” non è altro che una
forma sofisticata di crematistica. Le attività che generano i maggiori
guadagni spesso hanno poco o nessun valore (non sostengono né
promuovono la vita, anzi possono distruggerla), mentre le attività
davvero produttive – prendersi cura dei bambini, produrre cibo,
proteggere la natura – rendono poco in termini monetari. Ecco perché
pensiamo che il banchiere d’investimento “valga” di più della
contadina che si spacca la schiena per nutrire la terra e la famiglia.
Scrive Vandana Shiva:
Il riduzionismo finale viene raggiunto quando la natura viene collegata a una
visione dell’attività economica in cui il denaro è l’unica misura del valore e della
ricchezza. La vita cessa di essere il principio organizzatore degli affari economici. Ma
il problema con il denaro è che la sua relazione con la vita e i processi vitali è
asimmetrica. Lo sfruttamento, la manipolazione e la distruzione della vita nella
natura possono essere fonte di denaro e di profitti; ma questi ultimi non saranno mai
fonte della vita nella natura, né della sua capacità di sostenere la vita. È questa
asimmetria che spiega l’acuirsi delle crisi ecologiche e la riduzione del potenziale
naturale di produzione della vita, insieme con l’incremento dell’accumulazione del
capitale e l’espansione dello “sviluppo” come processo che sostituisce il corso della
vita e della sussistenza con la circolazione del denaro e dei profitti.
(1989 [2002, p. 37])
David Korten afferma che la nostra è un’epoca in cui il denaro ha
colonizzato la vita. è un’espressione azzeccata. Già cinquant’anni fa il
grande storico economico Karl Polanyi metteva in guardia sul fatto
che «la nozione di guadagno» rischiava di sopravanzare la cornice
sociale (e, aggiungeremmo, ecologica), così da trasformare la società
umana (e tutta la comunità terrestre) in un mero «accessorio del
sistema economico». Egli segnalava che se le leggi del commercio (o,
più precisamente, della crematistica) avessero prevalso sulle leggi
della natura e sulle leggi di Dio, il «mercato autoregolato» non sarebbe
potuto esistere «per un dato periodo di tempo senza demolire la
sostanza sociale e naturale della società» (citato in Athanasiou, 1996).
Monocoltura della mente
Non è escluso che il sistema patologico che domina il globo stia
effettivamente trasformando la comunità umana e le altre comunità
biotiche in «meri accessori del sistema economico». Esso impone una
cultura globalizzante (o meglio, una caricatura culturale) che
distrugge le culture e le sapienze locali, impoverendo così l’umanità e
mettendo a repentaglio la sopravvivenza stessa della nostra specie.
Secondo Vandana Shiva, la «cultura globale» imposta al mondo dal
capitalismo corporativo finge di essere universale ma è il prodotto di
una cultura particolare (che nasce nell’America del Nord e in Europa):
«è semplicemente la versione globalizzata di una tradizione locale e
provinciale» (Shiva, 1993 [1995, p. 13]).
Questa cosiddetta cultura globale, opportunamente irradiata dalla
pubblicità, dai mass media e dall’istruzione occidentalizzata, tende a
rifiutare i saperi e le saggezze locali tradizionali, dichiarandole
illegittime o proprio inesistenti. Nel migliore dei casi, la cultura
globalizzata assorbe qualche elemento simbolico come la musica,
l’abbigliamento o l’arte delle culture non occidentali, ma la loro
essenza e i loro valori sono perlopiù ignorati. Allo stesso tempo, la
cultura globalizzante «rimuove le alternative cancellando o
distruggendo la realtà che quelle alternative cercano di rappresentare.
La linearità frantumata del sapere dominante sconvolge l’integrazione
tra i diversi sistemi. Si eclissano insieme con il mondo a cui si
riferiscono. Il sapere scientifico dominante alimenta dunque una
monocoltura della mente, che apre un vuoto in cui le alternative locali
scompaiono» (Shiva, 1993 [1995, p. 13]).
Frammentare e monopolizzare la conoscenza
Paradossalmente, uno dei metodi per frammentare e distruggere la
conoscenza è la moltiplicazione delle informazioni, molte delle quali
hanno un valore effettivo molto marginale. Un caso tipico è quello
della pubblicità. Prima ancora di arrivare sui banchi di scuola, un
bambino dell’America del Nord ha già visto in media tremila spot,
mentre i ragazzi passano più tempo a guardare la pubblicità che in
classe (Swimme, 1996). Questo lavaggio del cervello prolungato e
persistente, che comincia fin dalla tenera età, non può non restringere
la nostra prospettiva e indottrinarci in modo tale da considerare
normale l’attuale dis-ordine globale. È incredibile, ad esempio, che un
abitante degli Stati Uniti sia in grado di riconoscere oltre un migliaio
di loghi aziendali ma non altrettante specie animali o vegetali del suo
territorio (Orr, 1999). La monocultura dominante ci riempie di
informazioni “vuote”, ma ci impedisce di acquisire un sapere
autentico.
Anche il medium televisivo tende a suddividere la conoscenza in
frammenti di informazioni isolate. I notiziari televisivi, confezionati
con “messaggi telegrafici”, ci abituano a trattare problematiche
complesse scomponendole in frammenti dissociati da un quadro
complessivo di analisi. Anche i programmi TV, che variano dai trenta
ai sessanta minuti, tendono ad affrontare questioni semplici (se mai ne
affrontano!) che possono essere “risolte” rapidamente, evitando i temi
più complessi. Questi programmi anestetizzano la mente e
allontanano la gente da attività culturali tradizionali, come la
narrazione, la conversazione, la musica, l’arte e la danza.
È un processo che ricorda alcuni versi di T.S. Eliot contenuti nei
cori de La Rocca:
Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?
Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
Ne potremmo aggiungere un terzo, adatto alla nostra epoca:
Dov’è l’informazione che abbiamo perduto nella distrazione?
La cultura globalizzante allunga i suoi tentacoli, e intanto cerca di
monopolizzare anche quelle sapienze tradizionali che possono
rivelarsi redditizie. Tra gli esempi più evidenti, la pulsione delle
corporation transnazionali a brevettare la vita stessa.
L’Organizzazione mondiale del commercio ha spianato la strada a
questa pulsione allorché ha permesso la protezione dei brevetti su
sementi e materiale genetico. Vandana Shiva spiega che due
multinazionali USA hanno approfittato di queste disposizioni per
richiedere il brevetto sul riso basmati e sul neem – un pesticida e
fungicida naturale –, entrambi sviluppati secoli fa dalle comunità
contadine dell’India16. È una forma di “biopirateria” ormai dilagante.
Si è tentato persino di brevettare dei geni provenienti da alcuni popoli
indigeni. Che una follia simile possa apparire logica all’interno del
dis-ordine globale che domina oggi il pianeta è la prova evidente che
esiste una patologia intrinseca.
Distruggere la diversità
Man mano che la “monocoltura della mente” avanza, essa
annienta le altre culture, le lingue e i saperi come una metastasi. Come
vanno perdendosi le specie animali e vegetali locali, sostituite da
poche varietà economicamente convenienti, così vanno scomparendo
interi sistemi culturali. Molti hanno impiegato migliaia di anni per
evolversi e si adattano perfettamente a un ecosistema specifico, in
particolare nel caso delle culture autoctone. Ogni cultura perduta
implica un impoverimento della diversità, oltre che un
depauperamento delle ricchezze autentiche della Terra. Come la
distruzione di specie vegetali nelle foreste pluviali può determinare la
perdita di una cura per il cancro o di un nuovo, prezioso alimento,
così pure la distruzione dei pezzi del mosaico culturale globale
implica la perdita di potenziali soluzioni alle crisi attuali. Non solo:
tali perdite comportano anche il depauperamento della bellezza e del
mistero della vita, che non si possono mai pienamente misurare o
quantificare.
Un esempio di questa tendenza è costituito dalla riduzione delle
lingue parlate nel mondo. La lingua è un aspetto centrale della
cultura, in quanto incarna un determinato modo di pensare:
l’estinzione di una lingua, dunque, implica la perdita di una
prospettiva unica in sé, di un modo ben preciso di concepire il mondo.
Secondo i linguisti, circa diecimila anni fa esistevano dodicimila
lingue, parlate dai 5-10 milioni di abitanti del pianeta. Oggi ne
rimangono solo settemila, nonostante la popolazione sia schizzata a
oltre 6 miliardi di persone. Anche il ritmo con il quale le lingue si
estinguono è accelerato notevolmente, soprattutto nell’ultimo secolo:
perdiamo ormai quasi una lingua al giorno. A questo ritmo, tra un
centinaio di anni rimarranno solo duemilacinquecento lingue. Altri
esperti sono ancor meno ottimisti: secondo costoro entro il 2100
scomparirà il 90 per cento delle lingue rimaste (Worldwatch, 2007).
Nel suo studio sull’ascesa e il declino delle civiltà nel mondo, lo
storico culturale Arnold Toynbee affermava che le civiltà in declino
tendono all’uniformità e alla standardizzazione. Al contrario, le civiltà
in ascesa sono caratterizzate dalla diversità e dalla differenziazione.
L’uniformità è un segnale di stagnazione e di decadimento (Korten,
1995).
La sempre maggiore omogeneità della cultura globalizzante va di
pari passo con l’imposizione di un’economia globale sempre più
uniforme. Nel suo libro The Ecology of Commerce (1993), Paul Hawken
paragona l’economia globale a una comunità di piante pioniere
infestanti. Nelle aree appena bonificate, le piante fanno a gara per
ricoprire il terreno quanto più rapidamente possibile. Sprecano molta
energia, ma la biodiversità non è elevata. Le piante presenti in queste
comunità biotiche non sono granché utili alle altre specie, neanche
all’uomo. Gli ecosistemi con le maggiori potenzialità evolutive sono
invece quelli che presentano un grado più elevato di biodiversità
(come le foreste vergini e le barriere coralline). Analogamente,
l’ossessione dell’economia globale per la crescita e l’espansione senza
vincoli trascura qualità più importanti come la complessità, la
cooperazione, la conservazione e la diversità. È un sistema immaturo.
La stessa analogia è utile per riflettere sull’affermarsi di una
monocultura globale. In definitiva, la perdita di diversità culturale e di
saperi locali rappresenta per la comunità umana lo stesso tipo di
minaccia che la perdita di diversità degli ecosistemi rappresenta per il
pianeta in generale. Stiamo sostituendo un “ecosistema” di culture
diverse con una monocultura simile alle piante infestanti, che
crescono rapidamente ma non sono di alcuna utilità. Non solo: è come
se questa cultura infestante che va diffondendosi contenesse un gene
letale – come la varietà geneticamente modificata di cotone che
produce il pesticida BT – che la rende in un certo senso incompatibile
con la vita.
Il potere come dominio
Al cuore della patologia globale che pervade la Terra vi è la
concezione del potere come dominio. Per potersi imporre in tutto il
pianeta, il capitalismo (e il suo predecessore, il mercantilismo) ha
sempre usato la forza, inizialmente attraverso il colonialismo. Tra il
XVI e il XIX secolo, le potenze europee conquistarono o soggiogarono
alla propria dominazione gran parte del pianeta. Ma all’inizio del XIX
secolo, le popolazioni locali cominciarono a ribellarsi a tale dominio,
in particolare nell’America latina. Anche se questi movimenti
indipendentisti (prevalentemente) borghesi non introdussero un
cambiamento significativo per le fasce più povere della società, quelle
lotte costrinsero le potenze egemoniche a ripensare la loro strategia.
Alla fine degli anni Sessanta, il colonialismo tradizionale fondato sul
controllo politico diretto era stato ormai quasi completamente
rimpiazzato dal neocolonialismo economico. Negli anni successivi, le
TNC (insieme con le nazioni che ne fanno gli interessi politici) hanno
esteso il loro controllo prima attraverso i SAP e più di recente tramite la
“liberalizzazione” del commercio e degli accordi di investimento, che
annullano l’autorità locale e la sovranità dei cittadini garantendo
invece i “diritti” dei poteri economici sfruttatori, in particolare delle
grosse multinazionali.
Queste armi economiche sono persuasivi strumenti di
sopraffazione, ma sono puntellate anche dalla minaccia delle armi. Le
spese militari fagocitano ancora una quota gigantesca delle risorse
mondiali. Secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di
Stoccolma, nel 2007 i governi hanno speso complessivamente oltre 1,3
trilioni di dollari (pari al 2,5 per cento del PIL globale) per finanziare le
forze armate. Forse ancor più degno di nota è che molte tra le menti
più brillanti e dotate del mondo siano tuttora al servizio della ricerca
militare: cosa accadrebbe se quelle stesse risorse venissero impiegate
per risolvere i gravi problemi con cui il pianeta deve fare i conti?
Senza contare che la guerra continua a distruggere vite e intere
comunità, specie nei conflitti interni legati alla povertà, alla carenza di
risorse e agli interessi delle corporation. Concreta rimane anche la
minaccia delle armi atomiche: nel mondo esistono ancora circa
dodicimila testate nucleari, sufficienti a distruggere la Terra più di una
volta.
Per numerosi popoli del mondo, quindi, la guerra e la repressione
militare sono ancora un pericolo tangibile. Negli ultimi anni questo
pericolo si è concretizzato ancora di più nei conflitti, nelle tattiche
repressive e nelle violazioni dei diritti umani legati alla cosiddetta
guerra al terrorismo. Bollare una persona o un gruppo come
“terrorista” dà la libertà di tenere imprigionato qualcuno per un
tempo indefinito, di torturare e persino di uccidere.
Più in generale, le metafore e i modi di pensare militaristi
continuano a caratterizzare la patologia globale. Parliamo di
“sconfiggere la malattia” invece che di promuovere il benessere;
parliamo di “sopravvivenza del più forte”, o addirittura di
“distruggere o essere distrutti”, più che di cooperazione per la
sopravvivenza di tutti. Vediamo la sopraffazione – sia essa del ricco
sul povero, dell’uomo sulla donna, di una nazione su un’altra, degli
uomini sulla natura – come qualcosa di naturale o comunque
inevitabile.
Non deve quindi sorprendere se gli esseri umani cercano di
manipolare e di controllare persino i processi che regolano la vita
attraverso l’ingegneria genetica. Ma esistono anche altre tecnologie in
grado di amplificare il potere della sopraffazione, in particolare la
robotica e le nanotecnologie (queste ultime potrebbero addirittura
sviluppare macchine autoreplicanti poco più grandi di una molecola
che imitano i microrganismi). Bill Joy (2000) mette in guardia sul fatto
che tali tecnologie celano potenzialità nocive inaudite. A differenza
delle testate nucleari, le nuove tecnologie non hanno bisogno di
materie prime di difficile reperimento. Sono inoltre potenzialmente
autoreplicanti. E sono tutte sviluppate da grosse multinazionali senza
troppa vigilanza da parte dei governi nazionali, sfuggendo così ai
meccanismi dell’accountability.
Il pericolo costituito dalle nuove tecnologie è molto concreto. I geni
delle colture transgeniche sono già passati ad altre piante, e persino ad
altre specie. I microscopici “naniti” potrebbero anche riprodursi da
soli, rendendo in teoria possibile, ad esempio, la creazione di
micromacchine che invadano ed erodano la Terra riducendola in
polvere, o che annientino sistematicamente i batteri essenziali per la
vita sul pianeta. Con l’avanzare dell’intelligenza artificiale, i robot
potrebbero anche replicare se stessi, magari rimpiazzando in futuro il
genere umano.
Sono previsioni che potranno suonare come pura fantascienza, ma
ci sono buoni motivi per credere che queste tecnologie diverranno
realtà mentre molti di noi saranno ancora in vita: il genio della
genetica è già fuori dalla lampada. Scrive Joy:
Il vaso di Pandora della genetica, della nanotecnologia e della robotica è ormai
quasi scoperchiato, anche se non ce ne siamo accorti. [...] Siamo catapultati nel nuovo
secolo senza alcun progetto, senza controllo, senza freni. Ci siamo già spinti troppo in
là per cambiare rotta? Non credo, ma ancora non ci proviamo neanche a cambiarla, e
intanto si avvicina l’ultima chance per imporre il nostro controllo, si avvicina il punto
di non ritorno. Abbiamo già i nostri primi robot domestici, esistono tecniche di
ingegneria genetica disponibili a livello commerciale, le nanotecniche avanzano
rapidamente. Lo sviluppo di queste tecnologie procede per gradi [...], ma la virata
verso l’autoreplicazione selvaggia nella robotica, nell’ingegneria genetica o nelle
nanotecnologie potrebbe arrivare all’improvviso, cogliendoci di sorpresa esattamente
come avvenne per la clonazione di un mammifero.
(2000)
Le facoltà dell’uomo sembrano aumentare più rapidamente della
sua saggezza. Secondo Joy ci sono tuttavia buone ragioni per sperare.
L’autore fa notare che l’umanità è riuscita a rinunciare alle armi
chimiche e biologiche perché si è resa conto che erano troppo terribili
e devastanti per poterle usare. Possiamo rinunciare al sapere e al
potere che queste nuove tecnologie comportano, o quantomeno
imporre su di esse vincoli stringenti ispirati al principio di
precauzione? Ciò dipenderà, in definitiva, dalla disponibilità del
genere umano – in particolare di chi esercita una più forte influenza
all’interno del sistema patologico che governa il nostro pianeta – a
rinunciare alla brama di potere, di controllo e di dominio.
Dalla patologia alla salute
È possibile abbandonare la strada della patologia e sceglierne una
che porti alla salute e alla vita? Il dis-ordine globale ha una portata e
una forza tali da apparire schiacciante. Senza contare che la follia
evidente nell’irrazionalità di tale sistema può spingerci alla negazione
(com’è possibile che ciò accada?) oppure alla disperazione (come
riusciremo a fermare tutto questo?).
Paradossalmente, però, proprio quell’irrazionalità può
trasformarsi in un segnale di speranza. I sistemi economici, politici e
ideologici dominanti cercano di convincerci che il tipo di
“globalizzazione” fondata sul “libero mercato”, sulla speculazione
finanziaria, sulla deregolamentazione, sul potere corporativo e sulla
crescita illimitata è inevitabile. Non c’è altra strada: possiamo fare
qualche piccola variazione, ma un cambio radicale di rotta è
impossibile. In realtà, un sistema così patologico e irrazionale qual è
l’attuale dis-ordine globale non è affatto inevitabile. È un artificio
fasullo e irrazionale che contraddice miliardi di anni di evoluzione
cosmica e terrestre.
Opinioni e convinzioni di partenza
Se gli uomini come individui cedono al richiamo dei loro istinti
elementari, rifuggendo dal dolore e cercando la soddisfazione
solo per se stessi, il risultato che ne traggono, tutto
considerato, non può che essere uno stato di insicurezza,
di paura e di promiscua infelicità.
(Einstein, 1995 [2005, p. 21])
Per capire meglio, passiamo per un momento in rassegna alcune
opinioni e convinzioni intrinseche alla patologia che affligge oggi il
mondo e raffrontiamole con quello che potremmo definire il “buon
senso ecologico”, ossia un modo di pensare che incarni la saggezza del
Tao.
In primo luogo, l’attuale sistema è ossessionato dalla “crescita”
quantitativa, indifferenziata e illimitata, così come viene percepita
attraverso le lenti distorte del PIL. Un throughput (il ritmo al quale le
risorse vengono utilizzate) in crescita è considerato un segno di buona
salute, anche se in questo processo di malsviluppo si consuma la
ricchezza naturale e la povertà aumenta. Parallelamente, la mentalità
monoculturale mira a imporre all’intero pianeta un’unica cultura e un
unico modello economico, dando vita a società immature e
“infestanti”, ossia con un elevato utilizzo di energia e una scarsa
diversità.
Al contrario, gli ecosistemi sani sono caratterizzati dalla stabilità:
Herman Daly parla di «economie dello stato stazionario». Ciò non
significa che il cambiamento non sia possibile, o addirittura
desiderabile – tutti gli ecosistemi evolvono nel tempo – ma è un
cambiamento perlopiù qualitativo, con una crescita della diversità che
porta a una sempre maggiore stabilità del sistema. In tale contesto, vi
è inoltre una grande varietà di ecosistemi caratterizzati dalla diversità,
e ognuno di essi si adatta perfettamente a un clima specifico e a una
specifica area geografica. Il Tao risiede nella diversità, nella
differenziazione e nella stabilità, non in una monocultura in metastasi.
In secondo luogo, l’attuale dis-ordine globale dà preminenza alla
nozione di guadagno e al profitto a tutti i costi. È un sistema
incentrato sull’ossessione del guadagno immediato a scapito della
sostenibilità a lungo termine, sulla priorità data al profitto di pochi a
spese dei più. Le attività che generano i maggiori “profitti” sono le
stesse che minano la qualità della vita, mentre quelle che davvero
sostengono e promuovono la vita sono considerate “antieconomiche”.
Il “guadagno” è definito in termini puramente finanziari: è il denaro
«l’unica misura del valore e della ricchezza», anche se la qualità della
vita e la biodiversità risultano minacciate dall’accumularsi del
“capitale” inanimato.
Dalla prospettiva degli ecosistemi, il denaro è semplicemente
un’astrazione creata per facilitare gli scambi. Non ha valore in sé
(quale valore può avere il denaro se non ci sono più cibi sani, aria e
acqua pulita da acquistare?). Solo la salute e la diversità della rete
della vita hanno un valore reale. Le attività che la mettono in pericolo
– come l’annientamento della vita per accumulare capitale – sono un
male, non un bene. Tutte le attività vanno in definitiva giudicate in
base al loro valore durevole, a lungo termine. Il guadagno immediato
a prezzo del benessere di lungo periodo non è un vero guadagno
bensì una perdita. Il Tao attribuisce grande valore alla vita e guarda al
bene delle sette generazioni successive e ancora più in là.
Terzo, il dis-ordine sistemico egemonico concentra il potere e la
ricchezza nelle mani delle “superpersone” corporative, entità fasulle
che non rendono conto alle comunità entro cui operano. Il potere è
inteso ed esercitato sostanzialmente come sopraffazione. La
competizione è considerata il motore del cambiamento e del progresso
(anche se le grosse corporation tendono a sabotarla monopolizzando i
mercati e il potere).
Nella prospettiva degli ecosistemi, la ricchezza è utile alla
comunità quando viene condivisa da tutti. Il potere è decentrato: in un
ecosistema sano, non domina nessuna specie. Le dinamiche della
competizione esistono, ma ancor più importanti sono la cooperazione
e l’interdipendenza. Nella logica di un ecosistema, una specie che
comincia a espandersi oltre i suoi confini naturali è patologica, come le
cellule cancerogene nell’organismo.
Le specie che espandono la propria nicchia al di là di ogni
ragionevole limite esauriranno inevitabilmente le riserve alimentari,
provocando il crollo demografico. Il Tao guarda all’equilibrio e
all’interdipendenza, in modo tale che tutte le specie e tutti i popoli
coesistano in armonia.
Dal punto di vista ecologico, dunque, non c’è nulla di logico o
naturale nel dis-ordine che domina oggi il pianeta. Esso è in
contraddizione con il Tao. Anche nell’ottica dell’etica e dei valori
umani l’attuale sistema appare irrazionale. David Korten sintetizza
così alcune opinioni sulle dinamiche umane implicite nell’ideologia
dominante:
1. Gli esseri umani sono essenzialmente spinti dall’avidità e
dall’interesse egoistico, che si manifestano in particolare come
desiderio di guadagno monetario;
2. Misura del progresso e del benessere umani è la crescita dei
consumi: come a dire che realizziamo pienamente il nostro essere
uomini nell’accaparramento;
3. Il comportamento competitivo (e, presumibilmente, il desiderio
di prevalere) è più fruttuoso per una società rispetto alla
cooperazione;
4. Le azioni che apportano maggiore guadagno finanziario sono le
più vantaggiose per la società e per l’intera comunità vivente.
Perseguendo l’avidità e l’accaparramento, in definitiva, si arriverà al
migliore dei mondi possibili (Korten, 1995).
Esposte in modo così nudo e crudo, è difficile concordare con
simili affermazioni. Di certo non trovano riscontro in nessuna
religione o filosofia del mondo. Nel Tao Te Ching (§33), ad esempio, si
legge:
Solo chi sa di avere abbastanza
è davvero ricco.
Persino Adam Smith, considerato il faro del capitalismo e
dell’economia del “libero mercato”, avrebbe rigettato con forza dei
principi tanto grotteschi: egli riteneva che il carattere costitutivo
dell’umanità fosse la simpatia (o compassione), non lo spirito di
competizione o l’avidità. La virtù si componeva, secondo il filosofo, di
tre elementi: decoro, prudenza (assennato perseguimento dei propri
interessi) e benevolenza (incoraggiare la felicità degli altri) (Saul, 1995
[1999, p. 152]).
Assumere una nuova prospettiva
In che modo possiamo prendere le distanze da una visione distorta
che sovverte i valori facendoli diventare degli antivalori? In che modo
possiamo passare dal sistema attuale, fondato sulla crematistica, la
monocultura e la sopraffazione a uno in cui vi sia un’autentica
oikonomia, la cura della nostra casa, ossia la Terra? In che modo
possiamo creare un mondo in cui l’umanità viva entro i confini
ecologici del pianeta ed elimini le terribili disuguaglianze tra ricchi e
poveri?
Nel porsi queste domande, bisogna tenere a mente che il dis-
ordine dominante non ha ancora trionfato completamente, nonostante
il suo immenso potere economico, politico e culturale. Il mondo
accoglie ancora un’ampia varietà di culture. In tutto il pianeta esistono
numerose sacche di resistenza che continuano a combattere contro le
tendenze omologanti. Ciò vale soprattutto per le fasce più emarginate
e oppresse dal sistema dominante, come le donne, i popoli indigeni e
quanti vivono nelle economie di sussistenza. Ma vale anche per coloro
che si trovano a contatto con i “centri” del potere: ovunque ci sono
comunità che cercano un’alternativa all’economia e alla cultura
globalizzanti. Ovunque nascono movimenti che resistono
all’imposizione del sistema egemonico e puntano a creare un nuovo
ordine basato su equità, giustizia, legittimazione e salute ecologica.
Ovunque ci sono persone e organizzazioni che progettano politiche
innovative e tecnologie creative. Non c’è nulla di inevitabile
nell’attuale dis-ordine: possiamo ancora scegliere un cammino
alternativo che conduca alla Grande Svolta, e molti lo stanno già
facendo.
Secondo Korten, la scelta è tra quello che egli chiama «Impero»,
ossia l’attuale sistema globale di dominio (Macy e Brown lo
definiscono «Società industriale della crescita»), e la comunità della
Terra, che è invece l’ordine basato sui principi di una comunità
sostenibile che si prende cura della casa: un’autentica oikonomia. Si
può schematizzare il contrasto tra gli assunti e i valori dei due sistemi
alternativi come segue:
Al fine di elaborare una piattaforma, una visione alternativa su cui
fondare un’autentica oikonomia, si può visualizzare la nostra economia
in modo nuovo usando un diagramma a torta (di seguito, adattato da
Henderson, 1996). A differenza della moderna patologia economica,
che mette al di sopra di tutto l’”ipereconomia” finanziaria tralasciando
sia le economie non umane che quelle di sussistenza, questo modello
riconosce il ruolo preminente dell’economia non umana. Subito dopo
vengono le attività umane che sono a sostegno della vita, come
l’assistenza all’infanzia e l’agricoltura di sussistenza (perlopiù svolte
dalle donne, senza retribuzione): esse sono considerate il fondamento
delle altre attività economiche. Poi viene il contributo del settore
pubblico e dell’economia sociale, tra cui le attività svolte da
organizzazioni popolari e non governative. Infine, il settore privato
(cooperative, piccole imprese e solo dopo le aziende più grosse) e il
settore finanziario (una vera e propria “ciliegina sulla torta”, concepita
per essere utile agli altri livelli, non essenziale in sé).
Il principio alla base di questo modello è sovvertire completamente
l’economia attuale: non più un’economia finanziaria e corporativa che
succhia la vita ai livelli sottostanti, ma una finanza e un’impresa al
servizio dell’intera comunità. La comunità umana, da parte sua,
riconosce di dipendere dalla comunità della Terra e dà la priorità
all’ecosistema in quanto fondamento della vita e di tutte le attività
umane. In tale contesto, il valore economico va calcolato in base a
quanto un’attività promuove relazioni sane ed è a sostegno della vita,
non in base al profitto monetario da essa generato.

A livello pratico, ci sono diverse politiche che possono indirizzarci


verso questa oikonomia rinnovata. La patologia moderna perpetua se
stessa premiando le attività più dannose e al
• Correggere gli indicatori economici allineandoli all’Indice di
progresso effettivo sopra citato, cosicché il consumo del capitale
naturale sia visto come un costo invece che come un introito. Usare
l’indice alternativo per riconoscere il valore delle attività umane non
monetarie e il contributo degli ecosistemi al mantenimento della vita.
• Tassare meno il lavoro e il reddito e di più il throughput di
risorse. Attualmente sono i lavoratori a sopportare il peso maggiore
del carico fiscale. Le imposte “verdi” potrebbero costituire
un’alternativa molto più fruttuosa. Si dovrebbero tassare l’energia, il
consumo idrico a livello industriale, l’inquinamento, i pesticidi e il
confezionamento, che produce molti rifiuti, per promuovere
l’efficienza e ridurre la produzione nociva. Contemporaneamente si
dovrebbero concedere incentivi alle energie alternative, ai trasporti
pubblici, all’agricoltura biologica e alle tecnologie efficienti per
promuoverne l’utilizzo. Poi una piccola tassa sulle transazioni
finanziarie (chiamata “Tobin Tax” dal nome dell’economista che per
primo avanzò la proposta) ridurrebbe notevolmente le attività
speculative e creerebbe dei fondi da utilizzare per la riduzione della
povertà, per la cancellazione del debito e per il ripristino ecologico.
• Cancellare i debiti delle nazioni più povere e trovare un modo
per ridurre gradualmente e poi eliminare quelli dei paesi cosiddetti “a
reddito medio”. Come abbiamo visto, il debito e i programmi di
aggiustamento strutturale che lo accompagnano sono meccanismi
cruciali del malsviluppo. Molti dei debiti in questione sono già stati
appianati più volte (e tanti erano ingiusti e illegittimi fin dall’inizio).
Stornare il denaro dalle spese militari oppure istituire una tassa sulle
transazioni finanziarie sarebbe probabilmente più che sufficiente per
alleggerire i poveri dell’onere debitorio.
• Adottare una serie di misure per arginare il potere corporativo:
proibire le donazioni ai partiti politici; porre fine all’artificio giuridico
secondo cui le corporation sono “persone” dotate di diritti come la
libertà di espressione e di partecipazione politica; fare in modo che gli
azionisti siano giuridicamente responsabili per i danni provocati dalle
società, così da incoraggiare investimenti etici; elaborare delle
disposizioni che revochino lo statuto societario a quelle compagnie
che violano ripetutamente le leggi anti-inquinamento, danneggiano i
dipendenti o commettono reati.
Non mancano certo le buone idee per elaborare politiche e
tecnologie che contribuiscano a creare un futuro sostenibile ed equo.
Né mancano le risorse economiche. Come scrive Paul Hawken:
Gli Stati Uniti e l’ex Unione Sovietica hanno speso più di 10 trilioni di dollari per
la guerra fredda, una cifra sufficiente a ricostruire tutte le infrastrutture del mondo,
ogni singola scuola, ospedale, strada, edificio o azienda agricola. In parole povere,
abbiamo comprato e venduto il mondo intero al solo scopo di annientare una
corrente politica. Affermare adesso che non ci sono le risorse per fondare
un’economia rigenerativa è davvero paradossale, soprattutto perché le minacce con
cui abbiamo a che fare oggi sono reali, mentre nello stallo nucleare post guerra fredda
il rischio di devastazione era una mera possibilità.
(1993)
Cosa occorre dunque perché la Grande Svolta diventi realtà? In
che modo possiamo progredire verso la totale liberazione
dell’umanità e della Terra? Rendersi conto che questo stato di cose
non è inevitabile, ed è anzi irrazionale e patologico, è già un passo
avanti. Il prossimo passo da fare è individuare l’origine di alcune
convinzioni, atteggiamenti, modi di vedere e di agire su cui si fonda il
sistema attuale.
11 Ci sono molti modi per definire la patologia sistemica che affligge il pianeta. In questo
libro usiamo perlopiù il termine “dis-ordine” per indicare un sistema, un “ordine”
fondamentalmente patologico: in sostanza, un sistema che ricorda da vicino una malattia
simile al cancro. Altri, come David Korten e alcune associazioni ecumeniche, definiscono tale
dis-ordine “Impero”. Secondo Korten, ad esempio, l’Impero prevede «un ordine
gerarchizzato delle relazioni umane, fondato sul principio dell’egemonia. L’Impero approva i
surplus di beni materiali delle classi dirigenti, celebra il potere dominatore della morte e della
violenza, misconosce il principio femminile e reprime la realizzazione delle potenzialità
dell’umanità matura» (2006). Analogamente, l’Alleanza mondiale delle Chiese riformate
(WARC, World Alliance of Reformed Churches) definisce l’Impero «il punto di convergenza
di interessi, sistemi e network economici, politici, culturali, geografici e militari che mirano a
controllare il potere politico e la ricchezza economica. Di norma esso condiziona e indirizza il
flusso di ricchezze e di potere dalle persone, le comunità e le nazioni più vulnerabili verso
quelle più potenti. L’Impero travalica ogni confine, distrugge e ricostruisce identità, sovverte
culture, subordina nazioni e Stati e marginalizza oppure coopta comunità religiose». Un
vantaggio del termine Impero è che ricollega immediatamente l’attuale sistema a un modello
sociale, cominciato circa cinquemila anni fa, che prevede l’uso della forza militare. D’altra
parte, la forma moderna di Impero ha caratteristiche uniche che questa parola non può
evocare: in particolare, la vorace devastazione dei sistemi viventi della Terra. Un terzo modo,
complementare a questi, di chiamare questa patologia sistemica è “Società industriale della
crescita”. Tale espressione è stata coniata dall’ecofilosofo Sigmund Kvaloy e serve a
evidenziare la dipendenza del sistema dal consumo sempre maggiore di risorse, come pure
una mentalità che considera la Terra «un deposito di risorse e una discarica» (Macy-Brown,
1998). In definitiva, le tre definizioni sono valide, utili e tra loro complementari, e sono usate
in diversi punti del volume, insieme ad altre come “capitalismo corporativo globale”.
12 Gran parte delle cifre contenute in questo capitolo è presa da Brown, Flavin e Postel,
1991 e da Sale, 1985, con degli aggiornamenti attinti dal volume Vital Signs 2006-2007 del
Worldwatch Institute e dal libro di Suzuki e McConnell The Sacred Balance: Rediscovering Our
Place in Nature (1997), oltre che da fonti aggiuntive come la FAO.
13 Secondo alcune stime, la media si attesta addirittura intorno ai 3,1 ettari. Si veda:
http://www.nationmaster.com/graph/env_eco_foo-environment-ecological-footprint.
14 Un indicatore precedente, un po’ diverso, è il prodotto nazionale lordo (PNL). Presenta
in sostanza gli stessi limiti del PIL.
15 Un esempio illuminante di come tali pegni si possano accumulare in proporzioni
assurde attraverso la crescita esponenziale si trova in un articolo scritto dal ricercatore
venezuelano Luis Britto García (1990): nel pezzo l’autore finge che un capo indigeno
guatemalteco scriva una lettera ai leader d’Europa. Nella lettera si evidenzia che, se l’Europa
dovesse ripagare a «tassi di mercato» il «prestito amichevole» di 185.000 chili di oro e di 16
milioni di chili d’argento forniti dalle Americhe più di trecento anni fa, l’Europa dovrebbe
dare «185.000 chili di oro e 15 milioni di chili d’argento elevati a una potenza di 300.
Equivarrebbe a un numero a trecento cifre, e a un peso che supera di gran lunga quello del
pianeta Terra». L’esponente di 300 è, evidentemente, un’esagerazione, ma è vero che a un
tasso d’interesse del 13,5 per cento la quantità di oro e argento necessaria per restituire il
prestito dopo trecento anni supererebbe il peso della Terra.
16 Fortunatamente, dopo una battaglia legale, il brevetto sul neem è stato rigettato e quello
sul riso basmati soggetto a diverse restrizioni. È andata così anche grazie al grande clamore
suscitato dalla vicenda. Purtroppo, di solito, le richieste di brevetto non arrivano mai
all’attenzione dell’opinione pubblica.
3. Oltre il dominio
Il Tao del Cielo è come un arco:
abbassa ciò che è in alto, solleva ciò che è in basso.
Prende da chi ha troppo,
dà a chi ha troppo poco.
La via degli umani è all’opposto:
usano il potere per prendere da quel che è
[consumato,
da quelli che hanno poco,
e dare a quelli che hanno molto.
Il saggio che segue il Tao continua a dare,
perché reca frutti senza sforzo.
Agisce senza aspettative,
ha successo senza prendersi meriti,
non deve dimostrare il suo valore
a nessun altro.
TAO TE CHING §77
Chi guida gli altri in armonia con il Tao
non usa la forza per soggiogare,
non domina il mondo con la forza delle armi.
Per ogni forza c’è una forza contraria.
La violenza, anche se ben intenzionata,
sempre rimbalza su se stessa.
TAO TE CHING §30
Com’è potuto nascere un sistema tanto irrazionale e distruttivo
come l’attuale dis-ordine patologico? Secondo l’ecopsicologo
Theodore Roszak, le crisi ecologiche e sociali che si verificano oggi
devono essere considerate «qualcosa di più che una serie casuale di
sbagli, di errori di valutazione e di false partenze a cui si può porre
rimedio con un po’ di competenza in più nei posti giusti». Come si è
detto, sono i valori, le convinzioni e le opinioni al centro dei sistemi di
dominio a essere distorti, e alimentano una violenza che mette a
repentaglio la vita. Per questo «serve innanzitutto una sensibilità
radicalmente diversa, un’integrità mentale completamente nuova che
[...] sovverta dalle fondamenta i principi della vita industriale» e della
globalizzazione corporativa (Roszak, 1992).
In questo capitolo esamineremo la prospettiva dell’ecologia
profonda e dell’ecofemminismo, in quanto strumenti per mettere in
discussione la logica sottesa a quella che potremmo definire
“l’ideologia del dominio”. A partire da quella prospettiva,
ripercorreremo poi la genesi storica di questa ideologia ed
esamineremo il modo in cui si è concretizzata nell’attuale capitalismo
globale. Infine, useremo questi nuovi spunti per analizzare e rivedere
il concetto di potere.
L’ecologia profonda
Come molte altre filosofie ecologiche, l’ecologia profonda si
occupa della devastazione in atto ai danni della biosfera terrestre e dei
modi per rigenerare i sistemi viventi. Ma è ben altra cosa rispetto ad
alcune forme “superficiali” di pensiero ecologico che consigliano di
salvare “l’ambiente” solo perché serve all’umanità. Dal punto di vista
dell’ecologia profonda, le altre specie e gli altri ecosistemi hanno un
valore intrinseco che non deriva dalla loro utilità o dal valore estetico
per gli esseri umani. Al contrario, secondo l’ecologia profonda molte
versioni dell’ambientalismo sono antropocentriche perché continuano a
vedere il mondo come se gli uomini fossero la misura di tutti i valori,
l’apice nella gerarchia della creazione. Nelle parole dello psicologo
Warwick Fox, «chi si occupa di questioni ambientali perpetua di
solito, seppur inconsapevolmente, il pregiudizio arrogante secondo
cui noi uomini occupiamo il centro del dramma cosmico e, insomma,
il mondo è fatto per noi» (1990).
L’ecologia profonda, invece, contesta il concetto di “ambiente”
separato dal genere umano. L’umanità è considerata parte del mondo
naturale, una parte della grande “rete della vita”. Ciò vale sia a livello
fisico sia a livello spirituale o psichico. Nel momento in cui
avveleniamo l’aria, l’acqua e il terreno, avveleniamo noi stessi. Nel
momento in cui degradiamo la bellezza e la diversità della comunità
planetaria, degradiamo anche la nostra umanità. Come scrive Wendell
Berry, «il mondo che ci circonda, che è intorno a noi, è anche dentro di
noi. Noi siamo fatti di quel mondo: lo mangiamo, lo beviamo, lo
respiriamo, è sangue del nostro sangue e carne della nostra carne»
(citato in Hawken, 1993).
L’ecologia profonda punta a superare l’approccio sintomatico di
certe versioni dell’ambientalismo per scovare le radici profonde della
crisi ecologica: «L’ecologia profonda sa che soltanto con una radicale
rivoluzione della coscienza si potrà veramente preservare i sistemi che
alimentano la vita sul nostro pianeta» (Seed et al., 1988).
Rivoluzionare la coscienza
Qual è dunque la natura di questa “rivoluzione della coscienza”?
Secondo Arne Naess (1912-2009), che per primo avanzò l’idea
dell’ecologia profonda nel 1973, i suoi due elementi caratterizzanti
sono l’autorealizzazione e l’uguaglianza biocentrica17.
L’autorealizzazione presuppone che gli uomini siano intimamente
connessi con l’intera ecosfera. Gli esseri umani non sono al di là o al di
sopra della rete della vita. Tutti gli organismi, compreso l’uomo, sono
«nodi in una rete o campo biosferico di relazioni intrinseche» (Arne
Naess citato in Roszak, 1992). L’autorealizzazione scaturisce quindi
dall’empatia e dalla compassione che ci connettono con tutte le
creature viventi. Nelle parole di Naess: «Con la maturità, gli esseri
umani proveranno gioia quando anche le altre forme di vita la
proveranno, e proveranno dolore quando le altre forme di vita lo
proveranno» (citato in Kheel, 1990). Grazie a questa profonda
interconnessione, siamo arricchiti dalla diversità e dalla molteplicità
delle specie e degli ecosistemi terrestri:
L’autorealizzazione che sperimentiamo identificandoci con l’universo è
intensificata dall’aumento delle modalità in cui si realizzano gli individui, le società e
anche le forme di vita e le specie. Maggiore è la diversità, tanto più grande sarà
l’autorealizzazione [...]. Molti ecologisti profondi hanno avuto la sensazione – di
solito, ma non sempre, quando si trovano a contatto con la natura – di essere legati a
qualcosa più grande del loro ego, più grande del loro nome, della loro famiglia, delle
particolari individualità [...]. Senza questa identificazione non si viene coinvolti
nell’ecologia profonda.
(Devall-Sessions, 1985 [1989, p. 83])
L’uguaglianza biocentrica deriva da un’analoga visione del
mondo. Ogni essere vivente e ogni ecosistema ha il diritto intrinseco
di esistere, e questo diritto non dipende dalla maggiore o minore
utilità al genere umano. Naturalmente, un organismo può aver
bisogno di eliminarne un altro per sopravvivere, ma nessun
organismo (nemmeno l’essere umano) ha il diritto di uccidere senza
motivo e nessun organismo ha il diritto di annientare un’intera specie.
Gli uomini possono uccidere per soddisfare dei bisogni primari – e
possono prendere dalla Terra il necessario per conservare la salute e la
dignità –, ma non hanno il diritto di distruggere la biodiversità per
accumulare capitali e ricchezze, né per produrre beni di lusso non
necessari. Ciò significa che gli esseri umani devono abbandonare la
sete di dominio, sulle altre specie come sugli altri uomini:
La consapevolezza ecologica e l’ecologia profonda sono in netto contrasto con
l’ideologia dominante delle società industrial-tecnocratiche che considerano l’uomo
isolato e fondamentalmente separato dal resto della natura, superiore ad essa e
designato a esercitarne il controllo. Questa immagine dell’uomo rispetto alla natura
rientra in più ampi modelli culturali. Per migliaia di anni l’idea di dominio ha
progressivamente ossessionato la cultura occidentale: il dominio degli uomini sulla
natura non umana, dell’uomo sulla donna, dei ricchi e dei potenti sui poveri,
dell’Occidente sulle culture non occidentali. La consapevolezza dell’ecologia
profonda ci mette in condizione di smascherare queste illusioni pericolose ed errate.
(Devall-Sessions, 1985 [1989, p. 74])
Critica all’antropocentrismo
Dal punto di vista dell’ecologia profonda, l’atteggiamento alla base
della crisi ecologica è l’antropocentrismo, ossia la convinzione che
solo gli esseri umani abbiano un valore intrinseco. Il resto ha un
valore relativo, importante solo nella misura in cui serve agli interessi
umani.
L’antropocentrismo ci separa dal resto della comunità terrestre e ci
fa ritenere al di sopra delle altre creature. Riduciamo la sfera della vita
– la biosfera – a un ambiente separato da noi.
Al centro della nostra antiecologica teoria e prassi economica vi è
appunto l’antropocentrismo. È il linguaggio stesso – con espressioni
come “materie prime”, “risorse naturali”, o anche “preoccupazione
per l’ambiente” – a tradirci, evidenziando la percezione secondo cui il
mondo non umano sarebbe al servizio e a disposizione dell’umanità.
La maggior parte di noi non ha mai messo veramente in
discussione questa logica. Sembra scontato considerare l’umanità
come qualcosa di superiore o separato dal resto della comunità
terrestre. Pensiamo di avere il diritto di sfruttare la Terra, anche se
questo danneggia o annienta le altre specie.
Alcuni sostengono che possiamo essere antropocentrici e allo
stesso tempo salvaguardare le altre forme di vita; anzi, è ovvio che per
poter preservare la specie umana bisogna proteggere almeno una
parte della natura. Ma sorge spontanea una domanda: quanta natura
deve essere preservata, e quali specie possiamo permetterci di
perdere? È un ragionamento che porta su una “brutta china”,
rischiando di distruggere l’umanità insieme con altri membri della
comunità terrestre.
Peraltro, quel tanto che basta per la sopravvivenza dell’uomo
potrebbe non essere sufficiente per alimentare l’amore, la bellezza e lo
spirito. Secondo lo storico culturale ed ecologo (o “geologo”) Thomas
Berry (1914-2009), l’evoluzione umana si sarebbe potuta verificare solo
in un pianeta bello come il nostro. La bellezza della Terra è dunque
essenziale per preservare ciò che c’è di più prezioso nell’umanità.
Forse anche alcune di queste argomentazioni possono sembrare
antropocentriche. D’altra parte, dire che gli esseri umani hanno
bisogno delle altre specie, nel senso più ampio del termine, significa
ammettere che siamo interconnessi con tutte le forme di vita. In
definitiva però, come spiega Warwick Fox (1990), l’antropocentrismo è
irrazionale e limitante perché:
1. Non è coerente con la realtà scientifica. Né il nostro pianeta né
l’umanità si possono considerare il centro dell’universo. La biosfera
terrestre costituisce un tutto dinamico in cui gli esseri umani sono
interdipendenti con tutte le altre specie. Né ci possiamo ritenere i
sovrani della creazione: l’evoluzione è una realtà ramificata, non una
piramide gerarchica.
2. I comportamenti che esso ha generato si sono rivelati disastrosi:
ci hanno fatto distruggere intere specie ed ecosistemi a ritmi
vertiginosi sin dai tempi della catastrofe cosmica che provocò la
scomparsa dei dinosauri.
3. Non è una posizione logica, poiché non esiste alcuna divisione
netta tra noi e le altre specie, né da un punto di vista evolutivo né da
un punto di vista fisico. Persino il nostro corpo è una comunità
simbiotica: è composto quasi per la metà di altri organismi come i
lieviti e gli enterobatteri dell’intestino, che ci aiutano a metabolizzare
il cibo e a produrre vitamine essenziali.
4. è moralmente opinabile perché non si accorda con un
atteggiamento aperto verso l’esperienza. In sostanza è una posizione
egoistica che ci intrappola in un inganno, rendendoci ciechi alla verità.
Se l’antropocentrismo può sembrare “naturale”, esso però nega la
visione ecologica secondo cui gli esseri umani sono profondamente
legati all’intera rete della vita e da essa dipendono. Non possiamo
esistere senza la Terra: facciamo parte di un tutto più grande. Non
esiste un “ambiente” al di fuori di noi. Scambiamo continuamente
materia con il mondo circostante, immettendovi ossigeno, acqua e
sostanze nutritive che prima facevano parte di altre creature. Tutte le
forme viventi del pianeta condividono lo stesso meccanismo di
codificazione genetica. Gli altri esseri viventi sono nostri “parenti”.
Siamo dunque chiamati ad abbandonare la prospettiva
antropocentrica per abbracciarne una “biocentrica” o “ecocentrica”.
L’antropocentrismo è invece una mentalità essenzialmente egocentrica.
Abbiamo il dovere di migliorare l’empatia con le creature viventi e
persino con il terreno, con l’aria e l’acqua, che pure fanno parte di noi.
Un’alternativa antropoarmonica
Stephen Scharper (1997) propone un’alternativa alla mentalità
antropocentrica: la mentalità “antropoarmonica”. Invece di
“conquistare la natura”, gli esseri umani devono svilupparsi e
progredire in armonia con l’ecosfera. Con questo non si vuole negare
che l’umanità sia in qualche modo unica: al contrario, dovremmo
onorare questa unicità riconoscendo la nostra interdipendenza con le
altre creature. Né significa che gli uomini non possono in nessun caso
uccidere altre forme di vita: non c’è modo di sopravvivere senza
consumare altri organismi.
Vivere secondo l’etica antropoarmonica significa invece sviluppare
profondi rispetto e amore per la vita nel suo complesso; significa
smettere di dominare, manipolare, divorare e inquinare la Terra come
se fosse di nostra proprietà; significa consumare solo ciò che è
necessario per una vita dignitosa e sana (ponendo così fine
all’accumulazione illimitata).
Arne Naess afferma che l’ecologia profonda ci richiama in ultima
analisi a riflettere su ciò che significa essere umani. Non si tratta di
negare la nostra identità – il nostro ruolo straordinario nella costante
evoluzione della Terra – ma piuttosto di inquadrarla nel contesto più
ampio del “Sé ecologico”. Questo cambio di prospettiva deve andare
oltre la mera accettazione intellettuale, per permeare ogni aspetto del
nostro essere e delle nostre azioni. In particolare, l’ecologia profonda
richiama gli uomini a mettere da parte la brama di possesso, di
consumo e di dominio, perché questo cammino non potrà mai portare
all’autentica realizzazione dell’umanità. Al contrario, dobbiamo
cercare la sicurezza, l’amore e la comunità nell’armonia con l’intera
ecosfera. La conversione a una nuova etica è una sfida molto
impegnativa, ma è l’unica che possa garantire all’umanità uno stile di
vita davvero appagante.
L’ecofemminismo
L’ecofemminismo approfondisce la critica che l’ecologia profonda
muove all’ambientalismo e integra l’analisi esaminando anche le
ingiustizie fra esseri umani. Si può intendere l’ecofemminismo come
una sintesi tra la visione del femminismo e quella dell’ecologia
profonda, sebbene il risultato sia più radicale (nel senso di andare alla
radice delle cose) e più ampio della semplice somma delle parti.
Il femminismo è un movimento variegato e multiforme che sfugge
a una definizione univoca. In questa sede, lo possiamo intendere come
una critica profonda del patriarcato, laddove con questo termine si
intende il sistema di dominio degli uomini sulle donne. Le forme più
radicali di femminismo, tuttavia, individuano anche un legame
causale tra dominio e sfruttamento di genere e tutte le altre forme di
oppressione, ad esempio quelle basate sul ceto, la razza, l’etnia e
l’orientamento sessuale. Il patriarcato ha dunque un significato molto
ampio. Il femminismo radicale non è tanto la ricerca dell’uguaglianza
tra uomini e donne all’interno del dis-ordine dominante (che in ogni
caso non sarebbe realizzabile): è piuttosto la critica di tutti i sistemi
che perpetuano l’oppressione e lo sfruttamento.
Vandana Shiva (1989 [2002]) afferma che il femminismo è in ultima
analisi una filosofia e un movimento transgender. Esso ritiene che la
mascolinità e la femminilità siano delle costruzioni sociali e
ideologiche e che il principio femminile della creatività sia incarnato
non solo nelle donne ma anche negli uomini e nella natura. Per
combattere il patriarcato occorre recuperare questo principio, ma ciò
richiede una nuova apertura mentale da parte delle donne, chiamate a
essere produttive e attive, e degli uomini, chiamati a propendere per
attività che promuovono la vita. Se sono state le donne le capofila del
movimento femminista – com’è giusto che sia, dal momento che la
liberazione di norma parte dalle categorie oppresse –, anche gli
uomini devono assumere una posizione attiva a favore del
femminismo e della lotta contro il sistema patriarcale.
Il femminismo è probabilmente uno dei movimenti più importanti
e originali di tutti i tempi. Fritjof Capra (1982 [1990]) afferma che fino
a poco tempo fa il patriarcato era così radicato e inveterato da non
essere mai stato messo in discussione. Questa realtà ha plasmato tutte
le relazioni umane e il nostro rapporto con il mondo. Oggi, il
movimento femminista è invece diventato una delle correnti culturali
più potenti della nostra epoca: ha ormai varcato i confini e le barriere
di classe ed è diventato davvero globale.
Il legame tra patriarcato e antropocentrismo
Proprio in quanto sintesi di femminismo ed ecologia profonda,
l’ecofemminismo postula un legame dinamico anche tra patriarcato e
antropocentrismo. Dalla prospettiva ecofemminista, non è una
coincidenza se il pensiero patriarcale occidentale identifica le donne
con la natura: questa costruzione sociale è servita per sfruttarle e
dominarle entrambe, perché entrambe sono rappresentate come
inferiori agli uomini. Scrive Vandana Shiva: «Le metafore e i concetti
privi del principio femminile si sono fondati su una visione della
donna e della natura come entità senza valore e passive, e dunque,
alla fin fine, non indispensabili» (1989 [2002, p. 222]). Le donne e la
natura sono ritenute passive, mentre gli uomini sono visti come esseri
razionali, forti e non emotivi. Nella società patriarcale, il ruolo
maschile così com’è stato costruito a livello sociale è considerato
superiore, mentre la natura e le donne sono viste sostanzialmente
come oggetti da sfruttare. Per questo gli ecofemministi sostengono che
è giusto parlare di androcentrismo più che di antropocentrismo.
Charlene Spretnak afferma:
La moderna società tecnocratica è alimentata dall’ossessione patriarcale per il
dominio e il controllo. Essa nutre un ethos manageriale che pone al di sopra di tutto
l’efficienza della produzione e il guadagno immediato: al di sopra dei principi etici e
morali, al di sopra della salute della comunità vivente, al di sopra dell’integrità dei
processi biologici, soprattutto di quelli che costituiscono il principale potere
femminile. Gli esperti che guidano la nostra società cercano un rifugio dalla paura
della natura, con cui essi non sono in comunione e con cui non hanno un rapporto
profondo [...] Secondo gli ecofemministi, questo sistema ci sta portando all’ecocidio e
al suicidio della specie perché si basa sull’ignoranza, la paura, l’inganno e l’avidità.
Secondo noi le persone, uomini o donne che siano, irretite dai valori di questo
sistema non sono in grado di prendere decisioni razionali.
(1990)
Per l’ecofemminismo, dunque, la chiave per conquistare la
liberazione delle donne e della comunità terrestre è smantellare le
fondamenta del patriarcato e dell’androcentrismo, ponendo fine a
tutte le forme di dominio, a cominciare dal controllo maschile sulle
donne e sul mondo non umano. Per raggiungere l’obiettivo, il
movimento punta ad affermare il valore intrinseco della natura e a
«restituire valore alla cultura e alle attività delle donne» (T. Berman,
1993).
Allargare il campo di analisi
Nell’ottica dell’ecofemminismo la stessa logica usata per
soggiogare le donne e la natura viene applicata, con qualche piccola
variazione, per giustificare l’oppressione razziale e sociale e quella
legata all’orientamento sessuale. Come le donne e la natura sono
considerate deboli, passive e inferiori, così i “non bianchi” sono
dipinti come più vicini al mondo animale e meno “civilizzati” dei
“bianchi”. Analogamente, la classe lavoratrice è considerata più vicina
agli istinti animali “elementari” e dipinta come “proletari” che si
accoppiano facilmente. I gay sono condannati perché assumono
atteggiamenti “effeminati”, mentre le donne omosessuali sono
esecrate perché usurpano ruoli maschili. In tutti i casi, funziona la
logica della mente dominatrice e patriarcale.
L’ecofemminismo allarga quindi la prospettiva dell’ecologia
profonda istituendo un legame tra tutti i sistemi di dominio e
controllo. Allo stesso tempo vuole superare l’idea un po’ astratta, cara
ad alcuni ecologi profondi, di una generica identificazione con la
natura. Gli ecofemministi ritengono che un legame emotivo con
luoghi e persone reali sia indispensabile per convincersi a lottare per
la giustizia e l’armonia ecologica. Dobbiamo ancorarci all’esperienza
reale – non identificarci con una mera astrazione – se vogliamo aprirci
a quello stupore, a quella meraviglia e a quella empatia che ci possono
nutrire: «Il pericolo di un’astratta identificazione con il “tutto” è che
non si riesca a riconoscere e a rispettare l’esistenza di esseri viventi,
autonomi. [...] La consapevolezza profonda, olistica
dell’interconnessione tra tutte le forme di vita deve essere coscienza
vissuta, che esperiamo nella relazione con specifici esseri viventi così
come nella relazione con il tutto» (Kheel, 1990).
Le origini del patriarcato e dell’antropocentrismo
La prospettiva ecofemminista può fornire alcuni spunti per capire
come mai l’avidità, lo sfruttamento e il dominio siano arrivati a
esercitare un’influenza così forte sui sistemi economici, politici e
culturali che oggi governano le società umane. In particolare, ci aiuta a
comprendere in che modo le convinzioni, le opinioni e i “valori” tipici
dell’attuale dis-ordine globale sono generati dalle dinamiche del
patriarcato e dell’antropocentrismo (o androcentrismo).
È utile a questo punto ripercorrere le origini storiche e l’evoluzione
del patriarcato e dell’antropocentrismo. Così facendo, si sveleranno i
processi da cui sono scaturite queste costruzioni sociali e si troveranno
gli spunti per creare alternative giuste, eque e sostenibili che le
rimpiazzino.
In numerose culture indigene, antiche e moderne, si è notata una
notevole parità tra i sessi, associata a una relazione armoniosa con la
natura. In queste culture il lavoro è spesso suddiviso in base al sesso,
ma questo non indica necessariamente un rapporto tra i sessi fondato
sullo sfruttamento. Anzi anticamente, prima dell’invenzione
dell’agricoltura estensiva e della domesticazione degli animali, le
civiltà umane erano abbastanza egualitarie e molte anche
matricentriche: le divinità principali erano femminili e le donne
godevano di grande prestigio sociale. Moltissime tribù di cacciatori-
raccoglitori, le società neolitiche dell’Europa antica e dell’Anatolia e le
culture andine sembrerebbero conformarsi a questo schema
matricentrico18.
Le origini del patriarcato
Con ogni probabilità il patriarcato prese piede in Europa e nel
Medio Oriente intorno al 5000 avanti Cristo. In Asia centrale sarebbe
emerso ancor prima, mentre in molte altre zone del pianeta sarebbe
nato dopo, talvolta sotto la spinta delle invasioni e del colonialismo (vi
sono tuttavia alcune culture, come quella balinese e quella dei
Khoisan del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale, che hanno
mantenuto uno schema di relazioni maschio-femmina improntato
all’eguaglianza fino ai nostri giorni).
Maria Mies (1986) ipotizza che il patriarcato abbia fatto breccia per
la prima volta tra i nomadi dediti alla pastorizia: quando
cominciarono a osservare e a comprendere i processi riproduttivi
degli animali, gli uomini si resero conto del loro ruolo generativo. Ciò
modificò il loro rapporto con la natura e portò a una nuova
suddivisione del lavoro in base al sesso. Nelle società nomadi delle
regioni aride, il tradizionale ruolo femminile di procacciatrice di cibo
divenne secondario. Per questo le donne furono relegate a un ruolo
subordinato, addette alla cura dei figli. Cominciò così a evolvere un
nuovo metodo di produzione, basato sulla coercizione, il controllo e la
manipolazione.
Nelle società agricole, il patriarcato potrebbe essere nato con
l’invenzione dell’aratro. Rosemary Radford Ruether scrive: «L’aratro
fu lo strumento della dominazione maschile sugli animali e la terra.
Insieme alla spada, questi strumenti vennero a costituire i mezzi per la
sottomissione maschile di altri uomini e, infine, delle loro donne»
(1992 [1995, p. 233]).
Ken Wilber (1996) da parte sua evidenzia che l’uso dell’aratro
richiede una grande forza fisica. Le donne incinte che tentano di usare
l’aratro spesso abortiscono, dunque è opportuno evitare questo tipo di
lavoro. Con l’introduzione dell’aratro, le attività agricole passano
dalle donne agli uomini: questi ultimi vanno così assumendosi il
compito di produrre il cibo, mentre le donne sono sempre più relegate
a ruoli domestici. Non solo: l’aratro contribuisce a generare eccedenze
di cibo, e ciò consente agli uomini di svolgere attività che vanno al di
là delle incombenze necessarie al sostentamento quotidiano, mentre le
donne rimangono sostanzialmente legate alla riproduzione e alla cura
della casa.
Nel tempo, queste dinamiche hanno portato all’allontanamento
pressoché totale delle donne dalla sfera pubblica. Wilber afferma che
invece nelle società orticole (con un’agricoltura basata sulla zappa o
sul bastone da scavo), in cui le donne producono circa l’80 per cento
del cibo, esistono relazioni paritarie tra uomini e donne (sebbene i
ruoli siano differenziati) e molte divinità importanti sono femminili.
Al contrario, oltre il 90 per cento delle società agrarie (quelle in cui si
usa l’aratro) è a predominio maschile, e le divinità principali sono
tendenzialmente uomini.
La produzione predatoria
Fin dal Neolitico, i progressi dell’agricoltura consentirono ai
villaggi di produrre eccedenze e di accumulare la ricchezza nel tempo.
Mies osserva che fu questo a rendere economicamente vantaggiosa la
guerra per la prima volta nella storia: era più facile accaparrarsi con la
forza la produzione degli altri che produrre per conto proprio.
Nacque così la “produzione predatoria” (in sostanza, una produzione
non-produttiva!), attraverso la conquista e il saccheggio. Si
costruirono mura attorno ai villaggi e si svilupparono le “arti” della
guerra. Gli uomini cominciarono ad acquisire il monopolio delle armi
(probabilmente per la loro stazza più grande e perché non erano
vincolati alla cura dei figli) e questo portò a una nuova concentrazione
del potere e del prestigio in mano maschile, e dunque all’evoluzione
del patriarcato. Mies scrive che «la relazione tra i sessi fondata sullo
sfruttamento e il dominio» e la «asimmetrica suddivisione del lavoro
tra uomini e donne» furono in definitiva «create e manipolate» dalla
violenza e dalla coercizione permesse dal monopolio maschile sulle
armi (1986).
Con lo sviluppo delle società agrarie, questo processo accelerò. Si
accumulavano maggiori ricchezze, e sempre più uomini erano
affrancati dalla produzione di cibo. Se da un lato ciò rese possibile la
nascita della scrittura, dell’astronomia, della metallurgia e della
matematica, dall’altro liberò forza lavoro da usare per formare gruppi
specializzati nella guerra. Per la prima volta emersero eserciti
professionisti, e persino intere classi guerriere.
Con il tempo, l’aumento della popolazione nelle città-Stato fece
emergere la competizione per accaparrarsi le sempre più carenti
ricchezze naturali: terreni fertili, acqua per l’irrigazione, metalli
preziosi e così via. Con la guerra nacque anche la prassi di catturare
gli schiavi. Attraverso questo complesso processo, le società furono
sempre più suddivise secondo criteri di classe, genere e razza.
Mies scrive che «il metodo predatorio di appropriazione» divenne
infine il «paradigma di tutte le relazioni tra gli esseri umani fondate
sullo sfruttamento» e, potremmo aggiungere, tra gli uomini e l’intera
comunità terrestre. In questo processo, alcuni gruppi umani (e la
Terra) cominciarono a essere considerati delle mere “risorse naturali”
da usare per l’arricchimento di altri. Lo sfruttamento generato dalla
“produzione predatoria” non si limitava alla «appropriazione
unilaterale delle eccedenze prodotte molto al di sopra dei bisogni
primari di una comunità», ma andava ben oltre: era «la rapina, il
saccheggio e la razzia dei bisogni primari di altre comunità. Questo
concetto di sfruttamento, dunque, implica sempre una relazione nata e
tenuta in piedi dalla coercizione e dalla violenza» (1986).
L’ascesa dell’antropocentrismo
Le stesse dinamiche che progressivamente aumentarono il potere
del patriarcato contribuirono anche all’ascesa dell’antropocentrismo.
In molte società di cacciatori-raccoglitori, la relazione tra esseri umani
e mondo non umano è intima e diretta. Si assiste, ovviamente, a un
certo timore nei confronti della natura, ma in generale non esiste una
rigida separazione tra gli uomini e il resto della comunità vivente.
Neanche il metodo di produzione presuppone il controllo sulla
natura, bensì piuttosto l’armonia con essa.
Quando le società sviluppano l’orticoltura, si introduce un
elemento di controllo, ma si tratta di un cambiamento relativamente
marginale. Si continua a vivere in comunione con la Terra, e
l’intervento umano è ancora minimo. Nelle società nomadi dedite alla
pastorizia, la domesticazione degli animali conduce forse a un
maggior controllo e dominio. Questi aumentano nelle società agrarie,
in cui si usa il lavoro degli animali per arare, e ancor di più quando
nascono i primi progetti di irrigazione estensiva.
Con l’evoluzione delle città e delle città-Stato in società agrarie, lo
spostamento verso l’antropocentrismo si accentua ulteriormente. Una
separazione psicologica dalla comunità non umana era cominciata già
all’epoca dei villaggi neolitici, specie una volta che furono costruite
mura e fortificazioni, ma fu con la genesi delle città che questo
processo accelerò rapidamente. Una città è una creazione umana: un
habitat artificiale in cui la natura è tenuta sotto controllo e le
costruzioni dell’essere umano acquistano sempre maggior
preminenza.
Duane Elgin (1993) osserva che le culture delle città-Stato erano
molto più gerarchiche rispetto ai piccoli villaggi. La società si divide
sempre di più in classi e caste, con una precisa suddivisione del lavoro
tra governanti, sacerdoti, guerrieri, artigiani e mercanti. Allo stesso
tempo, le città-Stato contribuiscono allo sviluppo dei metodi
«predatori» di acquisizione, essendoci molta più ricchezza da
difendere e tecniche belliche sempre più sofisticate. Si assiste inoltre a
un cambiamento nella psicologia sociale, con la misurazione e
l’accumulazione della ricchezza e la nascita di una nuova visione del
mondo fondata sulla «sistemazione matematica dei cieli». Le divinità
si spostano dalla terra al cielo, il che potrebbe simboleggiare il
distacco dell’umanità da una relazione diretta con il mondo naturale.
Durante questo processo, si fa strada a un certo punto l’idea della
proprietà privata. Con l’espandersi delle città-Stato e la divisione della
società in classi, grandi distese di terra sono riservate, come fonte di
ricchezza, ai settori più potenti della società (sovrani, sacerdoti ecc.).
Queste proprietà sono spesso coltivate anche grazie al lavoro degli
schiavi. Si riducono dunque le terre comuni dei villaggi e le classi
contadine ne sono impoverite. La terra comincia a essere considerata
una proprietà personale invece che un patrimonio comune da
condividere (per quanto nell’antichità questo cambiamento non fu
totale, e anzi le terre comuni resistettero in molte culture fino all’epoca
moderna). Questo processo è il segno di un mutamento importante
della sensibilità: la terra viene vista come una risorsa, come una
proprietà privata nelle mani degli esseri umani, spesso uomini. Fino a
quel momento era stata percepita come qualcosa che non poteva
essere posseduto ma solo condiviso, come accade ancora oggi in molte
culture indigene. La terra non apparteneva agli esseri umani:
piuttosto, erano gli esseri umani che appartenevano a essa e, per
estensione, al pianeta Terra.
L’ascesa della cultura delle città-Stato fu spesso accompagnata da
pratiche ecologicamente distruttive. Nel volume The Story of Wood and
Civilization (2005), John Perlin collega la deforestazione delle antiche
culture della Mesopotamia, di Creta, della Grecia e di Roma al declino
della loro civiltà. Analogamente, molti imputano l’abbandono delle
città nella giungla dei Maya alle ripercussioni ecologiche della
deforestazione, spesso esito di un’eccessiva domanda di legname da
costruzione (che serviva, tra le altre cose, per la fabbricazione di
imbarcazioni) o di legna per alimentare le fornaci e la lavorazione dei
metalli. In altre epoche, la deforestazione servì a liberare le terre per
destinarle all’agricoltura. In entrambi i casi, il disboscamento era
legato a una nuova visione del mondo che autorizzava il dominio e lo
sfruttamento delle “risorse”, umane e naturali, per accumulare
ricchezza.
Alcune implicazioni per il presente
Cosa possiamo imparare da questa storia? Certamente
l’evoluzione del patriarcato e dell’antropocentrismo è complessa, ma è
evidente che tutte le forme di dominio, di oppressione e di
sfruttamento hanno un’origine comune. Bisogna però andare oltre il
resoconto storico e cercare di discernere i processi psicologici in gioco.
Rosemary Radford Ruether (1992 [1995]) suggerisce ad esempio
che le prime culture matricentriche contenessero già i semi della loro
distruzione. A differenza di quello femminile, legato per natura alla
riproduzione e alla conservazione della vita, il ruolo maschile ha
bisogno di essere costruito socialmente.
Nelle società di cacciatori-raccoglitori presenti intorno alla fine
dell’era glaciale, i cacciatori maschi avevano ancora un ruolo cruciale
nella produzione di cibo, per via della presenza di grossi mammiferi
da cacciare. Il ruolo del maschio cacciatore, socialmente costruito,
aveva ancora grande rilevanza e dava agli uomini la certezza del
proprio contributo alla società. Con la fine dell’era glaciale, la caccia
gradualmente divenne meno importante e crebbe il ruolo delle donne,
in quanto erano loro le principali raccoglitrici.
Nell’era neolitica le donne erano spesso le principali produttrici di
cibo, oltre che le figure genitoriali preminenti. È possibile che in
questo tipo di società – ad esempio quelle dell’Europa antica e
dell’Anatolia – gli uomini non siano riusciti a sviluppare un ruolo
sufficientemente assertivo e rilevante, dando così la stura al
risentimento maschile per il prestigio intrinseco delle donne. Come
evidenziano Mary Gomes e Allen Kanner (1995), il dominio potrebbe
essere un modo per negare la dipendenza. Fu in questo contesto che
gli uomini cominciarono a definire la propria mascolinità in funzione
ostile alla donna, gettando così le basi del patriarcato. Fino a quando
questo risentimento latente non sarà risolto, è improbabile che si possa
superare il sistema patriarcale nella sua forma attuale.
Ruether suggerisce che un’implicazione concreta di questa analisi
dovrebbe essere l’elaborazione di nuove forme di parità tra i generi
che passino dalla dipendenza all’interdipendenza. Priorità assoluta
della società moderna è soprattutto la costruzione di una nuova figura
maschile che sia completamente coinvolta nel ruolo genitoriale e nel
lavoro domestico così necessario alla vita. In generale, il ruolo dei due
sessi deve diventare più fluido e flessibile, consentendo a entrambi di
partecipare ad attività che generano la vita anziché distruggerla.
L’autrice indica nella società balinese tradizionale un esempio di come
si possa raggiungere una relazione stabile tra i sessi non improntata
allo sfruttamento.
Il dominio come meccanismo di negazione della dipendenza,
enucleato da Gomes e Kanner, richiama peraltro la relazione degli
esseri umani con l’intera comunità terrestre. L’uomo tende a dominare
la Terra e le creature viventi nel tentativo di negare la dipendenza
dalla grande rete della vita: «Noi che apparteniamo alla civiltà
urbana-industriale abbiamo incentrato la nostra identità di specie
sulla rinuncia a questa verità. L’uomo dipende in tutto e per tutto
dall’ospitalità della Terra, e ciò costituisce una minaccia per l’io
separativo» (Gomes-Kanner, 1995). Questo processo pare dunque
essersi avviato molto tempo fa con l’avvento delle culture agrarie e
delle città-Stato, ma l’alienazione si è acuita con lo sviluppo delle
società industriali.
Il capitalismo globale: un sistema androcentrico
Dalla prospettiva ecofemminista, il capitalismo moderno
rappresenta il sistema patriarcale e antropocentrico più sofisticato e
sfruttatore. Il capitalismo globale corporativo, come tutti i sistemi di
dominio imperiale che lo hanno preceduto, ha come suo fondamento
una «relazione oggettuale, estrattiva, non reciproca con la natura, che
si stabilisce tra gli uomini e le donne e tra gli uomini e la natura»
(Mies, 1986). Come abbiamo già evidenziato a proposito della
patologia della crescita illimitata e del malsviluppo, l’attuale sistema
economico occulta il contributo dell’economia non umana (spesso
femminile, in particolare il lavoro non retribuito). Fulcro delle società
industriali della crescita edificate dal capitalismo corporativo è la
distruzione della ricchezza naturale della Terra per un’artificiosa e
illusoria accumulazione di capitale. Allo stesso tempo, come già
emerso dall’analisi sul dominio corporativo e sulla speculazione
finanziaria, «coloro che controllano il processo di produzione e i
prodotti non sono essi stessi produttori, bensì accaparratori» (Mies,
1986). Sono quindi i «mezzi di produzione predatori» il cuore del
capitalismo.
La nascita del capitalismo
Secondo il pensiero ecofemminista, le origini del capitalismo sono
da ricollegarsi a numerosi processi storici: l’espansione del
colonialismo e della schiavitù, la persecuzione delle donne durante la
grande caccia alle streghe in Europa e lo sviluppo della moderna
scienza e della tecnologia che ha portato alla rivoluzione industriale.
Questi processi combinati tra loro hanno sovvertito l’immagine della
natura: da Madre Terra a macchina inanimata al servizio del bisogno
“maschile” di un serbatoio di materie prime e di un deposito per le
scorie. Parallelamente sono sorti nuovi e più sofisticati tipi di
patriarcato tesi ad assoggettare le donne a nuove forme di
sfruttamento.
Molti storici sostengono che l’”accumulazione originaria” del
capitale, che avrebbe gettato le basi del capitalismo, fu possibile solo
grazie alla violenta usurpazione delle ricchezze delle colonie europee
che si trovavano nelle Americhe, in particolare l’oro, l’argento e i
prodotti agricoli delle colonie spagnole e portoghesi. Nella già citata
finta lettera di Guaicaipuro Cuauhtémoc ai leader europei si parla
ironicamente del «primo di numerosi prestiti amichevoli concessi
dall’America per lo sviluppo dell’Europa», ossia i 185.000 chili di oro e
i 16 milioni di chili d’argento spediti da Sanlúcar de Barrameda tra il
1503 e il 1660 (Britto García, 1990). La verità è che quelle ricchezze
furono acquisite a prezzo di lacrime e sangue, oltre che della vita di
centinaia di migliaia di indigeni che lavoravano nelle tante miniere
sparse in America latina. Per rimpinguare quella manodopera milioni
di africani furono prelevati a forza dalle loro case, privati della libertà
e portati come schiavi nelle Americhe. Molti altri furono ridotti in
schiavitù per lavorare nelle piantagioni, garantendo così preziosi
prodotti da esportare in Europa. Spagna e Portogallo non usarono
questa ricchezza per finanziare il proprio sviluppo industriale ma per
creare un bacino di ricchezza e una domanda di beni di lusso che
gettarono le basi dell’espansione industriale dell’Europa
nordoccidentale.
Più o meno nello stesso periodo, soprattutto tra la metà del XV e la
metà del XVIII secolo, dilagò in Europa la grande persecuzione delle
“streghe”, nota anche come “il tempo dei roghi”. In base alle stime,
l’80-90 per cento delle vittime erano donne e morirono in tutto circa
due milioni di persone, con modalità spesso brutali. La maggior parte
delle donne ammazzate, quasi tutte povere, praticava forme
tradizionali di guarigione e di ostetricia. Pur avendo avuto avvio in
seno all’Inquisizione cattolica (espandendosi anche in America
Latina), la persecuzione delle streghe prese piede ben presto anche
nell’Europa protestante (e, più tardi, nel New England).
Il tempo dei roghi può essere interpretato come una
manifestazione della paura per il potere delle donne e per il potere
della natura, visto che bersaglio principale erano le donne che
praticavano forme di guarigione tradizionali (pratiche che
richiedevano la conoscenza delle erbe e dei luoghi selvatici in cui si
potevano raccogliere). Non a caso in inglese la parola witch, ‘strega’,
deriva da wita, che significa ‘il sapiente’. Le “streghe” erano dunque
coloro che possedevano una forma di sapienza legata alla natura.
Mies (1986) evidenzia che la caccia alle streghe rappresentò anche
l’assalto alla sessualità delle donne e al controllo femminile sulla
fertilità (di qui la persecuzione delle ostetriche). Più in generale essa
servì a tenere lontane le donne dalla sfera pubblica: a causa di quella
persecuzione, persero il lavoro di artigiane e le loro proprietà furono
confiscate. A livello psicologico, il trauma collettivo scaturito da una
persecuzione tanto massiccia e terrificante dev’essere stato enorme.
Sicuramente le donne si resero conto che il modo migliore per
difendersi era tenersi quanto più possibile in disparte e mostrarsi
mogli docili e obbedienti e figlie totalmente dedite alla cerchia
familiare.
È interessante notare la coincidenza temporale tra la caccia alle
streghe e la prima ondata del colonialismo europeo. Mies ritiene che
non si tratti di un caso:
Il corrispettivo europeo della tratta di schiavi in Africa fu la caccia alle streghe. [...]
Come il processo di “naturalizzazione” delle colonie si basò sull’uso massiccio della
violenza e della coercizione, così il processo di addomesticamento delle donne
europee non fu affatto pacifico o idilliaco. Le donne di certo non consegnarono
volontariamente il proprio controllo sulla produttività, sulla sessualità o sulle
capacità generatrici ai mariti e ai “Grandi Capi” (la Chiesa, lo Stato).
(1986)
Il terzo processo storico avviatosi all’incirca nello stesso periodo fu
la rivoluzione scientifica. Se ne parlerà più diffusamente in seguito;
basti qui rilevare che essa influenzò profondamente la visione del
mondo degli europei, in particolare delle élite intellettuali e politiche.
La Terra non fu più considerata terra mater, e il terreno, le foreste e
tutti gli esseri viventi furono trasformati in una macchina inanimata e
in una fonte inesauribile di “materie prime” al servizio dell’uomo.
Questo mutamento, come spiega Vandana Shiva, rimosse «ogni
ostacolo etico e gnoseologico alla violazione e allo sfruttamento» (1989
[2002, p. 6]). Anche le donne (come pure i popoli indigeni) – ritenute
più vicine alla natura e quindi meno razionali e di minor valore –
divennero esseri di poco superiori a strumenti “al servizio dell’uomo”.
Dalla prospettiva ecofemminista, la scienza moderna è un progetto
palesemente patriarcale in quanto favorisce nuove forme di
assoggettamento e di sfruttamento. Essa dà infatti la stura al
malsviluppo (nato con il colonialismo e perpetuato nelle forme
moderne di dominio economico) perché si fonda su modelli di
percezione riduzionisti (che tentano cioè di comprendere il tutto
scomponendolo in piccole parti), dualistici (una cosa dev’essere in un
modo oppure in un altro, non entrambi) e lineari (relazioni dirette di
causa ed effetto). Secondo Shiva, questi schemi dominanti di
percezione
non possono competere con l’uguaglianza nella diversità, con forme e attività che
sono significative e valide, pur se differenti. Il pensiero riduzionista sovrappone i
ruoli e le forme di potere dei concetti occidentali orientati in senso maschile alle
donne, a tutti i popoli non occidentali e anche alla natura, rendendoli tutti «carenti» e
bisognosi di «sviluppo». La diversità, e l’unità e l’armonia nella diversità, diventano
epistemologicamente irraggiungibili in questo contesto di malsviluppo, che quindi
diventa sinonimo di sottosviluppo per le donne (aumentando così la discriminazione
sessista) e di sfruttamento per la natura (accentuando la crisi ecologica).
(1989 [2002, p. 16])
Shiva ritiene che questo modo di pensare e la rivoluzione
industriale che esso ha ispirato abbiano in definitiva trasformato
l’economia
da avveduta gestione delle risorse finalizzate alla sussistenza e alla soddisfazione
dei bisogni fondamentali a processo di produzione di manufatti per la
massimizzazione dei profitti. L’«industrialismo» ha creato un appetito di risorse
naturali che non conosce limiti e la scienza moderna, dal canto suo, ha fornito
l’autorizzazione etica e conoscitiva che ha reso un tale sfruttamento possibile,
accettabile e persino desiderabile. Il nuovo rapporto di dominio e signoria dell’uomo
sulla natura è stato di conseguenza associato a nuovi modelli di dominio e
supremazia sulle donne, che sono state escluse da qualunque partecipazione «alla
pari» sia nella scienza sia nello sviluppo.
(1989 [2002, p. 6])
Capitalismo e sfruttamento
Il capitalismo nacque dunque nello stesso periodo in cui
l’androcentrismo andava radicandosi nella coscienza degli intellettuali
e delle classi dirigenti d’Europa. L’“uomo”, definito come entità
razionale e autonoma («Penso, dunque sono»), era considerato il
vertice di una gerarchia alla cui base c’era il “selvaggio”, ossia la
natura non addomesticata, e al centro le donne, i popoli indigeni, le
persone di colore e i contadini. Il patriarcato, inteso qui come sistema
unitario di dominio e sfruttamento, fu la base sulla quale si sarebbe
edificato il capitalismo.
Anche Maria Mies è dell’idea che non possa esistere capitalismo
senza patriarcato. L’accumulazione capitalistica si basa
sull’appropriazione della ricchezza prodotta dalla natura, dalle donne
e dai poveri di tutto il mondo (specialmente i popoli non europei). In
altre parole, il suo fulcro è il metodo “predatorio” (o parassitario) di
produzione, giustificato e alimentato dal patriarcato. Il capitalismo
poggia sul lavoro non retribuito delle donne, sul saccheggio delle
risorse del pianeta e sul lavoro sottopagato delle classi e delle razze
sfruttate. Questa illimitata accumulazione di capitale inanimato
succhia la vita alla Terra e alle sue creature. Senza contare che coloro
che controllano e traggono profitto dalla produzione non sono essi
stessi produttori bensì usurpatori. Questo è particolarmente evidente
nel caso della moderna “economia finanziaria”.
Come tutte le forme di produzione predatoria, il capitalismo ha
bisogno della violenza. Talvolta essa è diretta e prevede l’uso o la
minaccia delle armi. Per tutta l’epoca coloniale e fino a oggi, si è
ricorsi alla “diplomazia delle cannoniere” per preservare il dis-ordine
globale (come testimoniano le due guerre in Iraq, in cui milioni di
persone innocenti sono stati uccisi per garantire le forniture petrolifere
all’Occidente). Oggi ancor più diffuso è invece l’uso di meccanismi
repressivi all’interno delle diverse nazioni. I governi che impongono i
diktat dei programmi di aggiustamento strutturale, ad esempio,
lanciano soldati e polizia contro il loro stesso popolo per sopprimere
le legittime proteste.
La forma più pervasiva di violenza esercitata dal capitalismo,
tuttavia, è la violenza strutturale rappresentata dalla coercizione
economica. Il debito e i SAP sono già un ottimo esempio di tale
coercizione, imposta su interi popoli e nazioni. Più in generale però il
capitalismo usa l’iniqua suddivisione del lavoro come sistema per
appropriarsi della ricchezza. I lavoratori retribuiti sono pagati meno
del valore che essi creano, consentendo così l’accumulazione di
capitale, ma persino maggiore è lo sfruttamento delle donne e degli
ecosistemi, perché il loro contributo all’economia semplicemente non
è riconosciuto (è reso invisibile, ad esempio, da indicatori come il PIL).
Il mancato riconoscimento di attività così necessarie alla vita non è
solo una svista: si basa su una divisione di genere del lavoro che
attribuisce più valore al lavoro “umano” (perlopiù maschile) rispetto
alle attività “naturali” (tra cui la produzione di sussistenza, il lavoro
domestico e tutti i “doni” della comunità terrestre). Il lavoro non
retribuito, svolto in larga misura dalle donne, è considerato meno
prezioso, pur essendo indispensabile per la conservazione e la
produzione della vita19. Né si tiene conto dei servizi resi a tutti da una
comunità biotica, ad esempio una foresta, in termini di produzione di
ossigeno, di purificazione e conservazione dell’acqua e di formazione
di terreni sani. Eppure «questa produzione di vita è da sempre
condizione necessaria per tutte le forme di lavoro produttivo,
comprese quelle che sottostanno alle regole dell’accumulazione
capitalistica» (Mies, 1986). Queste modalità di lavoro tanto
misconosciute costituiscono invece la fonte primaria della vera
ricchezza, e il loro sfruttamento è alla base del metodo parassitario e
predatorio di produzione su cui si fonda il capitalismo moderno. Se il
marxismo vede nello sfruttamento del lavoro retribuito la fonte
primaria dell’accumulazione di capitale, l’analisi ecofemminista si
spinge oltre affermando che il capitalismo poggia tanto sullo
sfruttamento dei lavoratori salariati quanto sull’ipersfruttamento delle
donne e dell’intera comunità terrestre. Conclude Mies:
L’oppressione delle donne è ormai parte integrante delle relazioni di produzione
patriarcali e capitaliste (o socialiste), del paradigma della crescita illimitata, delle
sempre maggiori forze di produzione, dello sfruttamento illimitato della natura, della
produzione illimitata di merci, dei mercati in perenne espansione e dell’infinita
accumulazione di capitale morto. [...] Le donne, che tanto devono lottare per
riconquistare la loro umanità, non hanno nulla da guadagnare dalla perpetuazione
[del paradigma dell’infinita accumulazione di capitale e della ‘crescita’ illimitata]. [...]
è palese ormai che il processo stesso di accumulazione distrugge il fulcro dell’essenza
umana in qualsiasi angolo del pianeta, perché si basa sull’annullamento
dell’autarchia delle donne [la capacità di esercitare il controllo] sulla propria vita e
sul proprio corpo. Proprio perché le donne non hanno nulla da guadagnare, quanto a
umanità, dalla perpetuazione di questo modello di crescita, esse possono sviluppare
una visione della società che non sia più basata sullo sfruttamento della natura, delle
donne e degli altri popoli.
(1986)
Non è possibile quindi per le donne eliminare lo sfruttamento e
l’oppressione se domina il paradigma economico attuale, come è
impossibile salvaguardare l’integrità della comunità terrestre. Dal
punto di vista ecofemminista, serve una battaglia a trecentosessanta
gradi per modificare le relazioni tra uomini e donne, tra esseri umani
e natura, tra Nord e Sud.
Oltre il capitalismo: le alternative ecofemministe
Quale alternativa può elaborare l’ecofemminismo per rimpiazzare
il sistema del capitalismo globale e corporativo? Al posto della
produzione predatoria fondata sullo sfruttamento, l’ecofemminismo
immagina una nuova economia tesa alla produzione e alla
conservazione della vita. Per eliminare lo sfruttamento, le relazioni
economiche devono essere reciproche e non gerarchiche, sia tra le
persone sia tra gli esseri umani e la natura. Si rigetta la separazione
dualistica e soggiogante tra uomini e donne e tra umanità e natura,
così come quella basata sul ceto e sulla razza. Allo stesso tempo, la
fede nella crescita e nel progresso infiniti è considerata una pericolosa
illusione che genera disuguaglianza e devastazione. La Terra è
accettata nella sua finitezza, e l’umanità deve sforzarsi di vivere in
armonia con essa (Mies, 1986).
Di cruciale importanza in questa nuova visione è il modo di
concepire il lavoro. Scopo della fatica umana non è più la crescita, nel
senso di espansione quantitativa ai fini dell’accumulazione, ma
piuttosto il miglioramento dei processi vitali e la felicità degli esseri
umani. Il lavoro non è più solo un peso da sopportare, bensì
un’unione armonica di piacere e fatica, che pure è necessaria.
Da questa prospettiva acquista particolare valore il lavoro che
prevede un contatto diretto, sensuale con la natura. C’è ancora posto
per le macchine e la tecnologia, ma il loro fine non è più quello di
isolarci dalla materia organica, dagli organismi viventi o dal mondo
materiale. Il lavoro deve innanzitutto avere uno scopo, dev’essere
utile e necessario alla produzione di vita e alla sua conservazione. Ciò
comporta anche una nuova concezione del tempo in base alla quale
non esiste una rigida separazione tra lavoro e gioco, ma un’alternanza
da noi decisa liberamente.
I processi di produzione e consumo devono essere riunificati e le
comunità locali a livello regionale devono sviluppare un’economia
autosufficiente: ciò che la comunità produce deve anche essere da essa
consumato. La nuova tipologia di lavoro non potrà però esistere fino a
quando non sarà eliminata la suddivisione sessista dei compiti.
Secondo Mies, la modifica dell’attuale suddivisione del lavoro
dev’essere il cardine del processo di formazione di una nuova
economia:
Qualsiasi ricerca di autarchia [autosufficienza] ecologica, economica e politica
deve partire dal rispetto per l’autonomia del corpo delle donne, per la loro capacità
produttiva di creare nuova vita e darle sostentamento attraverso il lavoro, per la loro
sessualità. Per superare l’attuale suddivisione sessista del lavoro occorrerebbe
innanzitutto che la violenza che contraddistingue ovunque le relazioni capitalistico-
patriarcali tra uomo e donna fosse eliminata non dalle donne, ma dagli uomini.
(1986)
Rosemary Radford Ruether (1992) si spinge oltre, non limitandosi
a segnalare l’esigenza di una revisione della suddivisione di genere
del lavoro, ma del ruolo dei sessi in generale. Le donne devono
potenziare l’autonomia e l’individualità nella loro vita, non attraverso
la sopraffazione (l’affermazione di sé a spese degli altri) bensì
armonizzando il loro essere “persone per gli altri” con l’essere
“persone per se stesse”, il tutto all’interno di una comunità a sostegno
della vita.
Ruether concorda con Mies sul fatto che debba trasformarsi
innanzitutto lo stile di vita degli uomini: «I maschi devono superare
l’illusione e l’individualismo autonomo, con la sua estensione nel
potere egocentrico sugli altri, a cominciare dalle donne con le quali
sono in relazione» (Ruether, 1992 [1995, p. 375]). Il modo migliore per
farlo, suggerisce l’autrice, è che gli uomini instaurino con le donne
relazioni autenticamente vitali, assumendosi parte dei loro compiti
come la cura dei figli, il bucato, la cucina, il vestiario, le pulizie:
Solo quando gli uomini saranno pienamente integrati nella cultura della
quotidiana conservazione della vita, uomini e donne potranno cominciare a
riplasmare insieme i grandi sistemi della vita economica, sociale e politica. Potranno
cominciare ad avere di mira una nuova coscienza culturale e nuove strutture
organizzative che connettano questi sistemi più grandi alle loro radici nella terra e
alla conservazione della terra di giorno in giorno e di generazione in generazione.
(1992 [1995, p. 375])
Alla trasformazione del lavoro e del ruolo dei sessi si deve
accompagnare un cambiamento profondo nella percezione della
realtà. Vandana Shiva evidenzia che la versione maschile della
«razionalità» che domina l’Occidente moderno è in realtà un «fascio di
irrazionalità che minacciano la sopravvivenza dell’umanità».
Dobbiamo invece riscoprire il principio femminile del «rispetto per la
vita nella natura e nella società. Questo consentirà alla fine a tutti i
popoli – del Nord e del Sud – di orientarsi verso un nuovo modo di
pensare e di essere nel mondo» (1989 [2002, p. 222]).
Quando si mina il principio femminile nella donna e nella natura,
lo si può distorcere fino a farlo diventare un principio di passività.
Negli uomini lo stesso processo porta a una deriva «del concetto di
attività, da creazione a distruzione, e del concetto di potere da
legittimazione a sopraffazione». Quando il principio femminile muore
contemporaneamente negli uomini, nelle donne e nella natura, «la
violenza e l’aggressività diventano il modello maschile di attività, e la
donna e la natura vengono trasformate in oggetti passivi della
violenza» (Shiva, 1989 [2002, p. 65]).
Per invertire questo processo, lo studioso junghiano Gareth Hill
invoca il recupero del “femminile dinamico” nella società umana. In
questo caso il “femminile” non si riferisce alle sole donne, ma a un
insieme di valori e di tratti distintivi che sono stati sistematicamente
respinti dal patriarcato. Il femminile dinamico va oltre l’immagine
statica della nutrizione e delle cure materne, sebbene indubbiamente
racchiuda anche qualità come la compassione e il desiderio di
conservare la vita. Esso contiene anche un’essenza giocosa, vitale. È
allo stesso tempo attivo e ricettivo, flessibile e persistente. Ricorda la
parte del Tao Te Ching (§78, S. Mitchell) in cui si parla della forza
dell’acqua:
Nulla al mondo
è morbido e flessibile come l’acqua.
Eppure nulla quanto lei
dissolve ciò che è duro e inflessibile.
Il morbido dissolve il duro;
il leggero supera il rigido.
Tutti sanno che è vero,
pochi lo mettono in pratica.
Il femminile dinamico è anche creativo, perché è in grado di far
erompere dalla prevedibilità un elemento di caos e di sorpresa. È agli
antipodi del paradigma di dominio e controllo (Gomes-Kanner, 1995).
L’integrazione del femminile dinamico nella nostra prassi economica,
politica e culturale ci aiuterebbe quindi a concepire ed esercitare il
potere in modo del tutto nuovo: non come dominio, sfruttamento e
controllo ma come qualcosa di positivo e creativo.
Ricostruire il potere
Fintanto che il potere sarà inteso come dominio e sfruttamento, il
patriarcato continuerà a imperversare, minacciando i sistemi ecologici
e sociali che alimentano la vita. Occorrono una teoria e una prassi del
potere completamente nuove, così che il principio femminile ne sia
rinnovato e rigenerato.
La parola “potere” evoca pensieri e immagini anche molto diversi
tra loro. In alcuni ambienti ha ormai assunto una connotazione
completamente negativa, come imposizione del volere di un
individuo o di un gruppo su un altro. Eppure l’etimo della parola
“potere” è il latino posse, ‘essere capace’, un’accezione che si ritrova
anche, per esempio, nello spagnolo poder. Il potere è ciò che rende
capaci. La radice del termine evoca quindi qualcosa di produttivo e
persino creativo, non qualcosa di distruttivo.
Ma nelle società patriarcali il potere è sempre stato visto come
qualcosa di posseduto da un solo gruppo o individuo a spese di un
altro. Si tratta di una concezione profondamente distorta. Michel
Foucault afferma che il potere non è statico, né è qualcosa che può
essere posseduto. Piuttosto, esso circola attraverso un reticolo di
relazioni. Somiglia piuttosto a un insieme di fili che collegano gli
esseri viventi: «Il potere non si applica agli individui, ma transita
attraverso gli individui» (1980 [1998, p. 33]).
Si è già detto che Shiva istituisce un legame tra l’esercizio del
potere assertivo maschile e la costruzione sociale della natura e del
femminile come realtà passive. Poiché il potere è relazionale, il primo
dipende dalle ultime. La sfida è riformulare il potere in modo che non
sia più una relazione tra attivo e passivo, oppressore e oppresso,
sfruttatore e sfruttato, bensì una relazione fondata sulla reciprocità e
la creatività. Per capire come fare, però, è necessario analizzare nel
dettaglio il potere.
Analisi del potere
Nell’opera Truth or Dare (1987), la scrittrice, attivista e psicologa
Starhawk delinea tre forme o modalità di base attraverso cui il potere
esprime se stesso: il potere-su [«power-over»], il potere-dall’interno
[«power-from-within»] e il potere-con [«power-with»].
Il potere-su è quello che limita e controlla. È il modo in cui si
concepisce e si esercita di norma il potere nella moderna società
patriarcale, ed è radicato nel paradigma meccanicistico dominante di
cui si parlerà più diffusamente nel sesto capitolo. Il potere-su tende a
strutturarsi gerarchicamente e opera attraverso sistemi di autorità e di
dominio. È la forma di potere che consente al capitalismo patriarcale
di accaparrarsi la produzione attraverso lo sfruttamento.
Siamo talmente abituati al potere-su e alle sue implicite minacce
che esso opera ormai a livello subconscio, come un carceriere
insediatosi nella nostra testa. In genere ci accorgiamo del potere-su
solo nelle sue manifestazioni più estreme, ad esempio la violenza
esplicita. Pur essendo però il potere delle armi e della forza l’esempio
più lampante del potere-su, di solito esso agisce attraverso subdoli
meccanismi di coercizione, di manipolazione e di controllo indotti
dalla paura.
Non va dimenticato che a suo modo il potere-su “consente di fare”:
«Il potere-su consente a un individuo o a un gruppo di prendere
decisioni che riguardano gli altri e di esercitare il controllo»
(Starhawk, 1987). Tuttavia la sua essenza è negativa: è il potere usato
per reprimere e schiacciare il potere degli altri.
Un altro tipo di potere, contrapposto al potere-su, è il cosiddetto
“potere-dall’interno”. È quello che alimenta la vita: il potere della
creatività, della guarigione e dell’amore. Se ne fa esperienza, in
particolare, quando si agisce di concerto con gli altri per opporsi al
controllo del potere-su. Il potere-dall’interno è quindi il fulcro di ciò
che spesso si definisce con il termine empowerment, e dunque di molti
modelli emancipativi di istruzione e di azione politica.
Va rilevato che nel Tao si può individuare la forma più pura ed
essenziale di tale potere: il potere intrinseco presente al centro stesso
del cosmo20. Il potere-dall’interno si ricollega anche al concetto cinese
del Te (la seconda parola del Tao Te Ching): il Te è rappresentato da
un ideogramma che unisce l’immagine del procedere diritti con quella
del cuore (Dreher, 1990). Significa dunque vivere in modo autentico,
dal cuore (il centro vitale), conciliando intuito e compassione. Da
un’altra prospettiva, il Te è la forza individuale che consente di vedere
con lucidità e di agire con decisione nel posto giusto al momento
giusto. Il Te è anche la forza intrinseca dei semi, la forza di venire alla
luce. Possiamo dunque interpretare il Te come la forza dell’energia
vitale presente in tutti gli esseri, una forza che mette in connessione
con la forza cosmica del Tao e la incanala.
La terza modalità con cui si esprime il potere è il cosiddetto
“potere-con”, ossia il “potere di influenzare” o “potere come
processo”. Esso scaturisce dalla disponibilità degli altri ad ascoltare le
nostre idee. È il potere-con che ci consente di agire di concerto con gli
altri e di associarci in forme autenticamente partecipative. Se il potere-
su usa l’autorità garantita dalla posizione per imporre il proprio
volere attraverso l’obbedienza, il potere-con confida nel rispetto
guadagnato con le azioni: «Il potere-con è più sfumato, fluido e
leggero di quello derivante dall’autorità. Si fonda sulla responsabilità
individuale, sulla nostra creatività, sul nostro coraggio, e sulla volontà
degli altri di darci risposta» (Starhawk, 1987). Secondo Joanna Macy,
buddhista, ecologista e pacifista militante, questa forma di potere è
una sorta di sinergia basata sull’apertura agli altri: «L’esercizio del
potere come processo esige che denunciamo e rigettiamo l’uso della
forza in ogni sua forma in quanto ostacola la nostra e l’altrui
partecipazione alla vita» (citato in Winter, 1996).
Il potere come processo richiede che si coltivi la dote dell’empatia.
In attività come l’educazione popolare o l’organizzazione di
movimenti di base si usa questa forma di potere.
Nella realtà le tre forme di potere coesistono e interagiscono tra
loro. Il potere-dall’interno e il potere-con, ad esempio, sono spesso
intrecciati (anche se a livello concettuale sono agli antipodi). In fondo,
il dominio poggia su una certa dose di creatività, per quanto distorta.
Inoltre, capita spesso che una persona imponga le proprie idee e la
propria creatività su un’altra, trasformando così il potere-dall’interno
in potere-su. Starhawk segnala che, all’interno della cultura
dominante, queste due forme di potere non di rado si confondono.
L’influenza può facilmente sfociare nell’autorità, soprattutto perché
siamo stati indottrinati a pensare al potere come dominio.
L’idea che il potere-con si intrecci spesso con il potere-su e con esso
si confonda fu analizzata a fondo dalla filosofa Hannah Arendt.
Parlando della violenza, la forma più estrema di potere-su, e del
potere di agire di concerto con gli altri (che corrisponde al potere-con
di Starhawk), Arendt scrive:
Potere [il potere-con] e violenza [il potere-su], per quanto siano fenomeni distinti,
in genere appaiono insieme. Dovunque siano combinati, il potere, come abbiamo
visto, è il fattore primario e predominante. La situazione tuttavia è completamente
diversa quando abbiamo i due elementi allo stato puro [...]. La violenza può sempre
distruggere il potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più efficace, che ha come
risultato l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla
canna di un fucile è il potere. [...]
Politicamente parlando è insufficiente dire che il potere e la violenza non sono la
stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto,
l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa
finisce per far scomparire il potere. La violenza può distruggere il potere; è
assolutamente incapace di crearlo.
(Arendt, 1970 [2001, pp. 56-57 e 61])
In modo simile Starhawk afferma che «i sistemi di dominio
distruggono il potere-con, poiché esso può esistere soltanto tra pari e
tra coloro che riconoscono di essere tali» (1987). A differenza del
potere-su, il potere-con può sempre essere revocato da un gruppo:
non invade la libertà dell’altro.
Il rapporto tra potere-con e potere-dall’interno è forse più chiaro.
In un gruppo in cui le opinioni di ciascuno sono tenute in
considerazione (ossia dove vige il potere-con), è più probabile che
riusciremo a esprimere e a sviluppare il nostro potere-dall’interno.
Allo stesso tempo, man mano che crescono le nostre potenzialità
creative e vitalizzanti, aumenteranno anche le probabilità di
guadagnarci il rispetto degli altri.
Per illustrare il modo in cui interagiscono tra loro i poteri si può
usare l’immagine dell’organizzazione reticolare di Michel Foucault a
cui si è accennato poc’anzi. Il potere-dall’interno può essere
rappresentato come dei nodi da cui si origina il potere; il potere-con
come le linee che uniscono gli individui e i gruppi attraverso
l’influenza; il potere-su come le barriere che bloccano le relazioni del
potere-con e soffocano l’esercizio del potere-dall’interno.

Trasformare i rapporti di potere


Passare dalla riformulazione del concetto di potere alla sua
concreta ricostruzione non è compito facile, eppure è un passo che si
deve fare. Il metodo predatorio di produzione del patriarcato si regge
sull’esercizio del potere-su, il potere del dominio. Se non si può
contrastare questa forma di potere, se non si possono coltivare nuove
forme che promuovano la vita invece che la morte, allora le chance di
trasformare il mondo secondo le direttrici pensate dagli ecofemministi
sono davvero poche.
È utile a questo punto ricordare che il potere non è statico né
quantitativamente prestabilito. La politica della trasformazione
tradizionale ha sempre parlato di “presa del potere”. Esiste però
un’altra possibilità: creare nuove sorgenti del potere, a partire dai
margini. Naturalmente uno scontro con chi detiene il potere-su può
diventare inevitabile, ma la priorità è quella di coltivare il potere-
dall’interno e il potere-con a livello popolare. Il movimento globale
della società civile incarnato nelle organizzazioni popolari, come pure
in numerose organizzazioni non governative, dimostra che queste
forme di potere sono già in fase di formazione e vengono già coltivate.
Un modo per alimentare il potere-con e il potere-dall’interno è
dunque quello di dare vita a organizzazioni partecipative
caratterizzate da un clima di apertura che faccia sentire i suoi membri
liberi di essere se stessi e di esprimersi. Può essere utile a questo scopo
ricorrere alla visualizzazione guidata, a tecniche ludiche e a forme
creative di espressione. Chi si prefigge di facilitare i processi
trasformativi deve anche garantire un senso di sicurezza all’interno
del gruppo, per consentire alle persone più inibite o vulnerabili di
esprimersi apertamente senza timore. Sarebbe opportuno in taluni
contesti fissare alcune “regole di base”.
Una seconda strategia per coltivare il potere liberatorio è
promuovere la presa di coscienza. Scrive Joanna Macy: «Il “potere-
con” richiede attenzione all’ambiente fisico e mentale circostante e
prontezza di riflessi nel cogliere le reazioni proprie e altrui. È la
capacità di agire in modo da aumentare la partecipazione totale e
consapevole alla vita» (1995). E Starhawk: «è dalla consapevolezza che
comincia qualsiasi forma di resistenza. Possiamo opporci al dominio
solo diventando e rimanendo consapevoli: consapevoli del sé,
consapevoli di come è costruita la realtà intorno a noi, consapevoli
delle nostre scelte, anche quelle all’apparenza insignificanti,
consapevoli del fatto che stiamo facendo una scelta» (1987).
Solo all’interno di un gruppo si può sviluppare il potere-con. Per
sua natura, questa forma di potere è la più relazionale. Chi partecipa
ad attività liberatrici può coltivare il potere-con solo se il gruppo
consente una partecipazione autentica e se vi è una reale condivisione
della leadership. Scrive Starhawk: «Per poter restituire potere, un
movimento non deve soltanto essere strutturato secondo modalità che
siano al servizio della liberazione, ma deve conoscere il modo in cui il
potere si sposta e circola all’interno di un gruppo» (1987).
Le forme liberatrici del potere incarnate dal potere-dall’interno e
dal potere-con si coltivano meglio se ci si impegna in interazioni che
producono valore. A tal proposito, Macy parla di «scambi sinergici», i
quali producono «qualcosa che prima non c’era e che potenzia le
capacità e il benessere di quanti ne sono coinvolti» (1995). In effetti, la
parola “sinergia” riassume bene ciò che intendiamo per potere-con.
Per ristrutturare il potere all’interno dell’intera società occorrono
però delle strategie che vanno ben oltre questi primi passi. Il
patriarcato si è sviluppato nell’arco di migliaia di anni, e il capitalismo
globale corporativo – la manifestazione più recente di questa
mentalità imperiale – tiene stretta nella sua morsa la maggior parte del
mondo. Per poter costruire nuove forme di potere e contrastare quelle
più antiche, abbiamo bisogno di grandi risorse interiori e di una
comprensione profonda dell’essenza della realtà e della
trasformazione.
Il primo compito è liberarsi dai sortilegi del patriarcato,
dell’antropocentrismo e dell’attuale sistema di dominio: dobbiamo
destarci dalla paralisi che ci tiene imprigionati all’oppressione, alla
disperazione, alla negazione e alla dipendenza. Il cammino per
arrivare a questa meta sarà esaminato quando arriveremo alla
prossima tappa del nostro viaggio a spirale.
17 Naess (1989 [1994]) enuclea i seguenti principi cardine dell’ecologia profonda: 1) la
prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle
forme viventi non umane è indipendente dall’utilità che possono avere per i meri scopi
umani; 2) la ricchezza e la diversità delle forme viventi sono valori in sé e contribuiscono alla
prosperità della vita umana e non umana; 3) gli esseri umani non hanno il diritto di ridurre
tale ricchezza e diversità se non per soddisfare bisogni vitali; 4) l’attuale interferenza umana
nel mondo non umano è eccessiva e va rapidamente aumentando; 5) la prosperità della vita e
delle culture umane è compatibile con un decremento sostanziale della popolazione umana.
La prosperità della vita non umana necessita di tale decremento [questo principio sembra
basarsi su presupposti un po’ semplicistici: sarebbe forse più opportuno inquadrarlo
nell’ambito del decremento del consumo umano, che nel tempo potrebbe richiedere anche
una riduzione della popolazione]; 6) perché cambino in modo sostanziale le condizioni di vita
occorre un’inversione di rotta delle scelte politiche, che dovrebbero toccare alla radice le
strutture economiche, tecnologiche e ideologiche; 7) il cambiamento ideologico fondamentale
dev’essere quello di apprezzare la qualità della vita (che alberga in situazioni che hanno un
valore intrinseco) invece di anelare a uno standard di vita elevato. Ci si renderà conto allora
della profonda differenza tra il tanto e il buono; 8) chi approva questi principi ha il dovere di
partecipare, direttamente o indirettamente, alla missione di mettere in atto i cambiamenti
necessari.
18 Occorre precisare che la ricerca di un’idilliaca età dell’oro in cui le relazioni tra uomo e
donna erano paritarie, così come è stata presentata da certa letteratura recente, andrebbe
tenuta entro gli opportuni confini. Opere come Il calice e la spada (Eisler, 1987 [1996]) hanno
romanzato le culture neolitiche dell’Europa antica e dell’Anatolia, come pure la cultura
preclassica della Creta minoica, presentandole come società in cui vi era un’armoniosa
relazione tra i sessi. Definite matrifocali o matricentriche (invece che matriarcali, che
sottintende un dominio femminile) e adoratrici di divinità femminili, queste civiltà ci
restituiscono una potente mitologia che rivela la non essenzialità del dominio patriarcale e
antropocentrico. Tuttavia, non si può dimostrare con certezza che in queste società
prevalessero effettivamente relazioni così armoniose tra i sessi. Ecco perché una certa cautela
è opportuna.
19 È tanto più vero oggi alla luce del programmi di aggiustamento strutturale. Le donne
spesso accettano lavori non retribuiti per reagire alla crisi economica generata dai SAP. Le
mense comuni (comedores populares) dell’America latina, ad esempio, garantiscono un
meccanismo di sopravvivenza grazie al quale la popolazione ha di che sfamarsi in un periodo
di rialzo dei prezzi e di disoccupazione elevata. Il lavoro non retribuito delle donne
sovvenziona di fatto un’intera economia della sopravvivenza. Se ne può dedurre che la
restituzione del debito avviene attraverso il lavoro non retribuito delle donne.
20 Anche la parola usata da Gesù in aramaico, hayye, connota questa forma di potere, che
si può tradurre in questo caso come “forza vitale” o “energia originaria che pervade il cosmo”
(Douglas-Klotz, 1999).
4. Oltre la paralisi
Rinnovare la psiche
Il saggio desidera la libertà dal desiderio,
non si cura delle cose preziose.
Il saggio impara a lasciar andare il sapere.
Il saggio riporta solo gli altri
a ciò che hanno perduto,
aiuta tutti gli esseri a trovare la loro vera natura,
senza mai osare usare la forza.
TAO TE CHING §64
Guarda il mondo come fosse il tuo corpo,
ama il mondo come te stesso,
e ti sarà consegnata la cura di tutte le cose.
TAO TE CHING §13
Comprendere le patologie che minacciano le società umane e la
rete della vita è il primo passo verso la liberazione. Una volta
smascherati questi disturbi grazie a un’attenta riflessione sulle
modalità con cui l’antropocentrismo e il patriarcato influenzano la
nostra percezione e plasmano le nostre azioni, cominciamo a scrollarci
di dosso la convinzione che la situazione attuale sia inevitabile e
immutabile. Ma le patologie che colpiscono il mondo hanno radici
profonde anche nella psiche; ecco perché, a un livello più profondo, ci
si può comunque sentire incapaci di operare un cambiamento radicale
nel nostro modo di vivere e nella convivenza con l’intera comunità
terrestre.
Se è vero che i sistemi di sfruttamento e la struttura del potere
dominante sono ostacoli non da poco alla trasformazione liberatrice, il
senso di impotenza può essere un impedimento ancora più grande.
Dove affonda le radici la nostra paralisi? Perché ci sentiamo incapaci
di agire, o quantomeno di pensare che un’altra strada sia possibile?
Cosa intorpidisce e indebolisce il nostro spirito?
L’impotenza può essere definita come quel qualcosa che ci
impedisce di realizzare con pienezza sia il potere-dall’interno (la
potenzialità creativa su cui deve fondarsi la nostra nuova visione) sia
il potere-con (la capacità di agire di concerto con gli altri). Per poter
ripensare il potere e riconnetterci a esso, dobbiamo quindi
innanzitutto affrontare la realtà dell’impotenza: in quali forme si
manifesta? In che modo ci colpisce? Da dove trae origine? Come
possiamo superarla?
Lo psicologo e rabbino Michael Lerner ha studiato a fondo questo
fenomeno. Negli anni Sessanta e Settanta, Lerner militava nel
movimento di protesta contro la guerra in Vietnam. Notò allora per la
prima volta che le persone che partecipavano alla lotta agivano spesso
in modo tale da sabotare i loro stessi obiettivi: per loro l’impotenza era
un dato incontrovertibile, e questo li portava a progettare e a
intraprendere azioni che finivano col confermare la loro convinzione.
Più ancora dell’impotenza strutturale creata dai sistemi dominanti, fu
questa impotenza “in eccesso” – o interiorizzata – a rivelarsi fatale per
il movimento.
Non che Lerner neghi l’esistenza di fonti “esterne” o oggettive di
impotenza, ossia gli strumenti con cui le strutture politiche,
economiche e sociali impediscono agli esseri umani di mettere in
pratica le loro potenzialità e di realizzare il cambiamento.
Indubbiamente esistono, ma sono acuite dall’impotenza interiorizzata
(in eccesso): «Gli esseri umani contribuiscono all’impotenza in quanto
la loro struttura emotiva, intellettuale e spirituale impedisce di
concretizzare possibilità che pure esistono» in seno a quella realtà che
ha indotto l’impotenza sistemica (Lerner, 1986).
Le dinamiche dell’impotenza interiorizzata svolgono un ruolo
cruciale nell’inibire oggi un’autentica trasformazione a livello globale.
Dobbiamo fare i conti con minacce tra le più gravi nella storia umana,
eppure non riusciamo ad agire o agiamo secondo modalità che in
definitiva mettono a repentaglio il nostro benessere. Le dinamiche
dell’impotenza interiorizzata sono diventate così forti e pervasive da
toccare tutti i settori della società umana. Persino le classi dirigenti
agiscono secondo modalità che, pur vantaggiose nel breve termine, in
realtà mettono in pericolo il loro futuro e quello dei loro figli.
Osserva Lerner: «L’impotenza ci contamina direttamente. Ci
cambia, ci trasforma, ci distorce» (1986). La convinzione che le grandi
trasformazioni siano impossibili diventa una profezia che si
autoavvera. È ovvio che le attuali strutture di potere costituiscono un
ostacolo concreto al cambiamento, ma uno degli espedienti con cui lo
bloccano è proprio sfruttando e rafforzando il nostro senso di
impotenza:
Il mondo può essere cambiato. Una delle ragioni principali per cui rimane com’è
risiede nella profonda convinzione che nulla possa cambiare né cambierà. Si tratta di
un’evoluzione del tutto nuova nella storia. Nelle epoche precedenti, il motivo per cui
tutto rimaneva fermo aveva poco a che fare con le opinioni, le convinzioni e la
percezione di sé. [...] La novità fondamentale dell’epoca moderna è che le classi
dirigenti governano per consenso: sono riuscite a ottenere la partecipazione attiva
delle persone su cui governano al processo di tutela dell’ordine stabilito. Siamo
diventati i carcerieri di noi stessi.
(Lerner 1986, pp. 3-4)
Se riusciremo a guardare in faccia la nostra impotenza
interiorizzata, se riusciremo a fuggire dalle prigioni che ci hanno
costruito nella psiche, allora ci saranno maggiori chance di cambiare i
sistemi politici, culturali ed economici. Come segnala Lerner, per
quanto schiacciante possa essere il potere delle strutture di dominio,
esse non detengono il potere assoluto. E possono quindi essere
detronizzate.
Il potere dominatore dell’attuale sistema patriarcale, incarnato nel
capitalismo globale corporativo, esiste proprio grazie al modo in cui
sfrutta l’impotenza interiorizzata. Vi è quindi un forte legame tra
l’impotenza oggettiva prodotta dai sistemi di dominio e la realtà
psicologica dell’impotenza interiorizzata. Nei prossimi paragrafi
cercheremo innanzitutto di distinguere le diverse forme di impotenza
interiorizzata e il modo in cui interagiscono tra loro. Poi esamineremo
le modalità con cui i sistemi di dominio le rafforzano e se ne
avvantaggiano per perpetuare e potenziare se stessi. Rifacendoci
all’ecopsicologia, approfondiremo quindi la relazione tra il nostro
senso di impotenza e l’alienazione dalla comunità terrestre. A partire
da questo, esploreremo infine alcune strategie concrete per andare
oltre la paralisi e orientarci verso un empowerment e una liberazione
autentici.
Le dinamiche dell’impotenza
Secondo quanto scrive lo psicologo Roger Walsh (1984 [1991]), il
buddhismo classico fornisce un’analisi della patologia individuale e
sociale che può aiutare a comprendere le dinamiche dell’impotenza
interiorizzata. Tutte le forme patologiche sono suddivise dal
buddhismo in tre categorie di “veleni”: avversione, dipendenza,
illusione.
L’avversione può manifestarsi in diversi modi: elusività
compulsiva, rabbia, paura, atteggiamento difensivo, aggressività.
Quando assume la forma della paura, l’avversione si concretizza in
due modalità tipiche dell’impotenza interiorizzata: la negazione e
l’oppressione interiorizzata. La negazione prevale tra quei soggetti che
beneficiano delle attuali strutture di potere, i quali temono che
riconoscere la realtà della crisi significhi rinunciare alla sicurezza e
alla comodità. L’oppressione interiorizzata, al contrario, si riscontra
soprattutto in chi subisce gli effetti diretti dell’impotenza strutturale e
tenta di difendersi dalle forme più brutali di violenza.
Con il termine “dipendenza” ci si riferisce a qualcosa di più ampio
delle dipendenze da sostanze come l’alcol e le droghe: nella psicologia
buddhista, la dipendenza comprende anche tutte le forme di avidità e
di attaccamento. La dipendenza si ricollega all’avversione, in quanto è
un altro modo per nascondersi o sfuggire alle proprie paure. Può
essere vista anche come un tentativo di riempire il vuoto di una vita
vissuta nell’illusione con qualcosa – qualsiasi cosa – che allevi il dolore
della mancata speranza. La dipendenza si combina con l’avversione
per annebbiare ulteriormente la nostra percezione, facendoci
sprofondare ancora di più nell’illusione.
La forma forse più pura di impotenza interiorizzata è l’illusione
della disperazione. Cominciamo a percepire il mondo come privo di
speranza, il cambiamento come una cosa impossibile. Ci si ritrova
talmente ingabbiati nella disperazione da considerare “realistica”
questa visione del mondo, e utopica e impraticabile qualsiasi proposta
alternativa. Rassegnati a questo triste destino, si cerca magari una
falsa via di fuga nelle dipendenze, oppure si esprimono la
frustrazione e la rabbia con comportamenti irrazionali e aggressivi.
Analizzando queste diverse modalità di impotenza interiorizzata,
si comprende che esse tendono a combinarsi e a rafforzarsi
reciprocamente, mentre solo di rado si ritrovano in forma isolata. La
loro complessa interazione forma una rete aggrovigliata che
imprigiona la psiche. Per provare a districarla, occorre innanzitutto
esaminare ciascun filo così da far emergere il quadro completo di tutte
le possibili interazioni.
L’oppressione interiorizzata
William Reich sosteneva che la domanda fondamentale della
psicologia moderna dovrebbe essere: «Quali sono le forze psicologiche
che impediscono alle persone di ribellarsi contro un ordine sociale
oppressivo che non le fa essere ciò che potrebbero essere?» (Lerner,
1986). Tale interrogativo si attaglia in particolare a coloro che traggono
pochissimi benefici – o addirittura nessuno – dagli attuali sistemi
politici, economici e sociali. Perché non si ribellano?
La maggior parte dell’umanità deve convivere ogni giorno con
pericoli molto concreti. Il mancato soddisfacimento dei bisogni
primari, la vulnerabilità a malattie potenzialmente mortali e la
minaccia della violenza (sia essa domestica, sociale o politica) rendono
la sicurezza una condizione perennemente irraggiungibile. L’esito
scontato di questo stato di cose è la paura, la quale sottrae potere alle
persone perché le immobilizza e inibisce così l’azione trasformatrice.
Certamente la paura che caratterizza l’oppressione interiorizzata è il
prodotto dell’impotenza e dell’oppressione strutturali; eppure è da
essa distinta. In un certo senso, è l’impronta psicologica lasciata da
una lunga storia di soggiogazione e violenza.
Si prendano ad esempio i popoli dell’America latina21. Da secoli
hanno sviluppato quella che si potrebbe definire una cultura della
sopravvivenza, soprattutto i popoli indigeni. Tale cultura di norma
evita lo scontro diretto con le strutture dell’oppressione e dello
sfruttamento, preferendo invece (almeno in superficie) assoggettarsi e
salvare il salvabile, resistendo alla dominazione con modalità più
sottili. Questa strategia probabilmente si è resa necessaria in
determinati momenti, e può anche essersi rivelata vincente, ma il
prezzo da pagare è stato l’aver interiorizzato l’oppressione.
La cultura della sopravvivenza non implica una pura passività
rispetto all’oppressione, né vanno sminuite le storiche lotte dei popoli
latinoamericani, spesso sfociate in coraggiose forme di ribellione. Ma
queste rivolte si sono rivelate nella maggior parte dei casi fallimentari,
e ogni volta le si è pagate a caro prezzo. Anzi, a ogni battaglia persa il
potere dei dominatori si è rafforzato e la resistenza è diventata
“sotterranea”, soprattutto in senso psicologico. Intanto la speranza in
un cambiamento reale diminuiva e la disperazione si accumulava.
Nell’ultimo secolo qualcosa è cambiato nella storia
dell’oppressione, grazie al successo delle lotte per il lavoro, dei
movimenti rurali e indigeni, delle organizzazioni popolari e persino
delle rivoluzioni, sebbene alcune di queste conquiste si siano rivelate
di breve durata. Di recente nel continente latinoamericano sono stati
eletti, con il sostegno dei movimenti popolari, numerosi governi
progressisti determinati a reindirizzare radicalmente la società (altri,
meno radicali, stanno comunque realizzando riforme importanti per
migliorare la vita della popolazione povera). Nonostante questi
successi, i vecchi schemi di pensiero e di azione sono duri a morire:
l’impronta dei passati fallimenti persiste nell’oppressione
interiorizzata.
Paulo Freire interpreta tale realtà in questi termini: gli oppressi si
sono in qualche modo adattati alla situazione ed è probabile che, pur
desiderando una vita migliore per sé e per i propri figli, abbiano al
tempo stesso timore della libertà. Hanno timore in particolare di
combattere per la liberazione perché questo rappresenta una minaccia
concreta alle loro vite: le violente repressioni che si sono succedute
nella storia si sono impresse profondamente nella loro psiche. È
quindi del tutto naturale che la gente scelga di “distrarsi” da ciò che
invece può costituire la chiave per la liberazione. Scrive Freire:
La coscienza ingenua [dell’oppresso] non è poi così ingenua: è anche riflessiva. È
la coscienza del possibile: più precisamente, è la massima lucidità di coscienza che ci si
possa rappresentare senza rischiare di scoprire qualcosa che può essere fortemente
destabilizzante.
(citato in Torres, 1986)
La «coscienza ingenua» cui fa riferimento Freire è insomma una
sorta di illusione creata dalla psiche in risposta alla paura della
repressione, della sofferenza e della violenza. Se in passato ha avuto
un senso (ed è invero comprensibile anche oggi), tale coscienza
impedisce però l’azione trasformatrice e va dunque a svantaggio degli
oppressi.
Né va trascurato che le dinamiche dell’oppressione interiorizzata
svolgono un ruolo cruciale anche nella sottomissione delle donne
all’interno della società. I meccanismi di potere all’interno della
famiglia, della scuola e della società in generale avviano il processo di
interiorizzazione dell’oppressione nelle donne fin dalla tenera età. La
costante minaccia della violenza e dell’abuso sessuale sia in casa che
fuori contribuisce non poco al senso di insicurezza da cui nasce
l’oppressione interiorizzata. Le dinamiche dell’impotenza
interiorizzata rafforzano altresì il razzismo, così come l’oppressione
derivante dall’orientamento sessuale.
Chi lavora a contatto con le fasce più emarginate e soggiogate della
società deve tenere conto dell’oppressione interiorizzata allorché si
cimenta in una prassi trasformatrice (ossia in un’azione trasformatrice
che combini teoria – o visione – e pratica). Gli educatori e gli attivisti
popolari si limitano talvolta ad attività di “coscientizzazione”, le quali
però sono spesso inefficaci perché l’oppressione interiorizzata inibisce
l’apprendimento e l’azione che ne consegue:
“Capire” cosa succede non vuol dire riuscire a cambiarlo. Siamo assillati dalla
“sicurezza” del modo in cui abbiamo imparato a essere, la “sicurezza” di ciò che è
conosciuto, familiare. [...] Sconvolgere tutto questo terrorizza, soprattutto perché quel
modo di essere non ci appartiene in quanto individui, ma è prescritto, imposto a
livello sociale. La nostra paura del cambiamento, il senso della minaccia che incombe,
è giustificato.
(Rockhill, 1992)
Questo pensiero trova un’eco nelle osservazioni di Charlotte
Bunch: «L’autocoscienza femminista ci ha aiutato a verbalizzare la
nostra oppressione; tuttavia solo di rado ci ha portato ad assumere il
controllo della nostra vita e a cambiare le condizioni che provocano
quell’oppressione» (1987). Superare l’oppressione interiorizzata,
dunque, richiede qualcosa in più dell’essere informati: richiede una
prassi liberatoria che ne affronti le cause primarie e le dinamiche che
la sottendono.
La negazione
Come per l’oppressione interiorizzata, fulcro della negazione è
l’avversione sotto forma di paura. Per quelli che subiscono
direttamente minacce mortali da parte del sistema di dominio la
negazione è più difficile: è arduo, anche se non impossibile, dire che
tutto va bene quando ogni giorno bisogna lottare per la sopravvivenza
o sopportare la violenza (sebbene la negazione possa ancora entrare in
gioco nel caso delle minacce ecologiche, se non se ne fa esperienza
diretta).
La negazione è senza dubbio più profonda e pervasiva tra coloro
che traggono qualche beneficio dal sistema. In questi casi si limita a
tenere lontani dalla mente certi aspetti della realtà e a rimuovere
determinate informazioni. Se le minacce più gravi alla sopravvivenza
di un individuo sono tenute a distanza dall’esperienza immediata nel
tempo e nello spazio, il meccanismo di negazione è agevolato.
È il caso di molte minacce alla sopravvivenza globale con cui
dobbiamo fare i conti oggi. Per chi vive una vita tutto sommato
confortevole, il problema della povertà e dell’iniqua distribuzione
delle risorse mondiali può essere tenuto lontano dalla mente evitando
il contatto con i poveri. Il pensiero dei danni ecologici può essere
evitato se i loro effetti non sono troppo visibili. Il pericolo della guerra
atomica può anche essere una minaccia reale, ma nella vita di tutti i
giorni c’è ben poco a ricordarcelo.
Tenere i problemi «lontano dagli occhi, lontano dal cuore»
sicuramente favorisce la negazione22. Non v’è dubbio che tutto questo
sia favorito anche dal modo in cui i mass media selezionano e
diffondono (o bloccano) le informazioni. In sostanza, però, la
negazione dipende dai filtri interiori con cui teniamo lontane le
informazioni dolorose. La negazione è un meccanismo di difesa
talmente efficace che spesso non ci rendiamo neanche conto di
adoperarlo. Quando ci si presenta un’informazione che potrebbe far
vacillare quella falsa sicurezza che ci siamo costruiti, tendiamo a
reagire in diversi modi (Macy, 1995):
• Incredulità: tendiamo a ignorare il problema, grazie al fatto che
molte situazioni di crisi non sono immediatamente visibili
(l’assottigliamento dello strato d’ozono, ad esempio, o l’esaurirsi delle
risorse idriche) oppure si sviluppano solo gradualmente (come il
riscaldamento globale).
• Contestazione: se è impossibile ignorare il problema, tendiamo a
contestare i fatti o a dire che la situazione non è poi così grave.
Oppure ci rifugiamo nel “tecno-ottimismo”, sostenendo che l’ingegno
umano (o la crescita economica!) risolverà magicamente il problema,
anche se non si intravede per il momento alcuna soluzione.
• Doppia vita: se è impossibile far finta di nulla o contestare i fatti,
ci rifugiamo in una doppia vita, relegando la piena conoscenza della
realtà in un angolo buio della mente e fingendo di vivere come se
tutto fosse normale. Come afferma Macy, «tendiamo a vivere la nostra
vita come se nulla fosse cambiato, pur sapendo che invece tutto è
cambiato».
Viviamo in una realtà che tutto è fuorché normale. Le minacce
presenti sono qualitativamente diverse rispetto a quelle di ogni altra
epoca della storia umana. Macy rileva che «fino alla fine del XX secolo,
ogni generazione ha vissuto con l’intima certezza che altre generazioni
sarebbero seguite» (1995). Quali che fossero le avversità o le minacce
alla sopravvivenza individuale, rimaneva l’assoluta certezza che altre
generazioni sarebbero venute a calpestare la Terra, almeno finché il
Creatore non avesse deciso altrimenti. Quella certezza non c’è più. È
questa perdita la «realtà psicologica centrale della nostra epoca».
Questa pena genera una paura così forte che è più opportuno
chiamarla terrore, o sgomento. Eppure non si parla mai di questa
realtà. È troppo doloroso. Ci rifugiamo invece nella negazione: «Quei
segnali di pericolo che dovrebbero attirare la nostra attenzione, farci
raccogliere le forze e spingerci all’azione collettiva sortiscono invece
l’effetto opposto. Ci fanno desiderare di chiudere gli occhi e occuparci
di qualche altra cosa» (Macy-Brown, 1998).
La paura che questo sgomento scatena in noi è così profonda da
sfociare in una sorta di “torpore psichico” con cui tentiamo di
preservarci dalla piena esperienza del dolore. Scrive Laura Sewall: «La
piena consapevolezza ferisce. [...] In una cultura che può concedersi
questo lusso, semplicemente si abbassa il volume» (1995). Tuttavia,
innescando la negazione non facciamo entrare neanche la bellezza e la
gioia. E autorizziamo noi stessi a perpetuare comportamenti e
atteggiamenti che alimentano un sistema distruttivo per la comunità
terrestre. La negazione è quindi provocata dalle attuali situazioni di
crisi ma è anche ciò che le perpetua.
L’omertà sui nostri sentimenti più profondi riguardo al futuro della nostra specie,
il torpore, l’isolamento, il sovraffaticamento e la confusione cognitiva che ne
risultano: tutto cospira a creare un senso di inutilità. Ciascun atto di negazione,
conscio o inconscio, è una rinuncia alla forza di reagire.
(Macy, 1983)
La paura del dolore che è fulcro della negazione è acuita dal fatto
che le società occidentali considerano il dolore una disfunzione. Non
solo: abbiamo paura di dare angoscia agli altri o di seminare il panico,
abbiamo paura di sentirci in colpa perché siamo in parte responsabili
dei problemi che ci affliggono, abbiamo paura di apparire stupidi o
impotenti (perché non è ammesso sviscerare un problema senza
averne la soluzione). Sono paure comprensibili, ma reprimerle
comporta un costo concreto ed elevato. Le energie necessarie per
ragionare lucidamente e agire in modo creativo finiscono per
indebolirsi o dissolversi, e le potenzialità si assottigliano ancora di più.
Scrive Roger Walsh:
La negazione, la repressione o altre difese vengono sempre fuori a spese della
consapevolezza, dell’autenticità e dell’efficacia. Quando neghiamo la realtà neghiamo
anche tutta la nostra potenzialità e umanità. Quando operiamo una distorsione della
nostra immagine del mondo, distorciamo anche l’immagine di noi stessi. Quindi
rimaniamo all’oscuro della forza e delle potenzialità che si trovano dentro di noi e
che noi stessi siamo: quella forza e quelle potenzialità sono le maggiori risorse che
abbiamo da offrire al mondo.
(1984 [1991, p. 158])
Poiché non siamo più in contatto con il nostro potere-dall’interno, la
negazione inibisce le potenzialità di un potere-con strutturato, che è
invece indispensabile per sfidare i sistemi fondati sul potere-su. Come
vedremo più avanti, il torpore psichico indotto dalla negazione blocca
anche la bellezza e la compassione, le quali possono invece motivarci e
sostenerci nella lotta per la trasformazione. La negazione può anche
portare a comportamenti distruttivi come il vandalismo, la violenza o
il suicidio, a proiezioni psicologiche che ci spingono a demonizzare gli
altri (è il caso del razzismo, del sessismo, dell’intolleranza religiosa
ecc.) e a una minore produttività intellettuale e creativa. Altra
possibile conseguenza è il rifugiarsi in dipendenze di vario genere per
compensare la vitalità perduta nei meccanismi repressivi di
negazione. In ogni caso, negare significa in sostanza vivere una
menzogna: negare la verità della nostra situazione. Inevitabilmente si
arriva all’illusione, la cui principale manifestazione è oggi la
disperazione.
La dipendenza
La parola “dipendenza” è immediatamente associata all’abuso di
qualche sostanza: dipendenza dall’alcol, dal tabacco, dalle droghe.
Sicuramente queste ultime sono quelle più diffuse e procurano un
danno enorme alla società umana, ma la dipendenza di cui si discute
in questa sede ha un’accezione più ampia. Secondo la psicologia
buddhista (Walsh, 1984 [1991]), la dipendenza comprende qualsiasi
bisogno compulsivo di possedere o di sperimentare qualcosa. È
caratterizzata dalla convinzione che «devo avere… per essere felice».
Si può essere dipendenti dall’accumulazione di capitale, dai beni
materiali, dallo shopping, dal potere, dal lavoro, dai divertimenti, dal
cibo o dal sesso.
La schiavitù e l’ossessione che caratterizzano le dipendenze
restringono drasticamente la prospettiva. Esse si concentrano infatti
sull’esperienza immediata, sulla gratificazione momentanea dei
desideri. Direttamente o indirettamente, tendono a intorpidirci e a
ridurre la nostra consapevolezza. Come spiega Ed Ayres, in questo
modo la dipendenza annienta la capacità di immaginare e di essere in
empatia con gli altri. «Essere umani significa invece essere capaci di
immaginare, di vedere nel senso letterale del termine, di essere in
empatia con gli altri così come di ascoltare i propri bisogni» (1999a).
La dipendenza è dunque profondamente disumanizzante.
Tra le forme di dipendenza più diffuse (e interconnesse) del
mondo moderno ci sono quelle dalla crescita economica e dal
consumo, come pure quelle, a esse collegate, dalla televisione e dalle
tecnologie. A differenza di altre, queste dipendenze sono accettate e
anzi incoraggiate dal capitalismo corporativo. Come già osservato, la
“crescita” quantitativa indifferenziata e l’accumulazione di capitale
sono considerati gli obiettivi economici prioritari, pur non avendo
finora generato un maggiore benessere e avendo al contrario arrecato
danni incalcolabili. A livello popolare si incoraggia il consumo come
se fosse la chiave per la felicità, e un fiume di spot pubblicitari
alimenta questa dipendenza. David Korten afferma:
Invece di insegnarci che il cammino verso la soddisfazione è vivere al meglio
grazie alla relazione con la famiglia, la comunità, la natura e il cosmo vivente, i media
asserviti alle multinazionali non fanno che proporci una falsa promessa: quali che
siano i nostri desideri, il mercato è la via per la gratificazione immediata. Il nostro
fine è quello di consumare: siamo nati per comprare. Incantati dalle sirene del
mercato, sottovalutiamo l’energia vitale che impieghiamo per ottenere denaro e
sopravvalutiamo i presunti benefici in termini di energia vitale derivanti dallo
spenderlo.
(1995)
Così, mentre la stragrande maggioranza della popolazione
mondiale è allettata dal sogno di un paradiso consumistico che non
potrà mai raggiungere, una piccola cerchia che invece possiede i
mezzi si affanna ad acquisire quanti più beni possibile. Eppure il
bisogno di consumare non è mai appagato. Chi vive nelle società
consumistiche non è certo più felice oggi rispetto agli anni Cinquanta,
anche se il potere d’acquisto è più che raddoppiato (Winter, 1996).
Negli Stati Uniti, la percentuale di persone che si definiscono “molto
felici” è scesa dal 35 per cento del 1957 al 30 per cento di oggi
(Gardner, 2001).
Ciò che caratterizza le dipendenze è proprio il fatto che i bisogni
compulsivi a esse sottesi non possono mai essere soddisfatti. Questo
perché il bisogno umano di gioia, amore e significato non può essere
colmato da nessuna sostanza, da nessuna merce o piacere immediato.
Nonostante questo vuoto, la sofferenza che soggiace alle
dipendenze è spesso mascherata: un certo grado di negazione si
accompagna sovente alla dipendenza, qualsiasi forma essa assuma.
L’alcolista che continua a bere cercherà di mantenere un’apparenza
normale, e negherà che ci sia un problema. Anche le società
dipendenti dalla crescita infinita e dal consumo illimitato negano i
problemi, quasi che la finitezza delle risorse si potesse liquidare con
una fede cieca e irrazionale in soluzioni ancora da elaborare. In ultima
analisi, la dipendenza ci costringe a vivere in una menzogna, a vivere
nell’illusione.
La disperazione
Le dipendenze, la negazione e l’oppressione interiorizzata tendono
a paralizzarci, distogliendoci dall’impegno di costruire comunità più
eque e a sostegno della vita. Il tentativo di difendersi dalla paura e dal
dolore, però, spinge verso una forma ancor più profonda di
sofferenza. Nel momento in cui scegliamo di non impegnarci in prima
persona per cambiare le cose, «la nostra vita comincia a sembrare così
disperata e sconfortante che molti [di noi] finiscono in un circolo
vizioso di autocommiserazione e di autodistruzione che è altrettanto
negativo, e anzi spesso peggiore di qualsiasi prezzo eventualmente da
pagare» nella lotta per la trasformazione (Walsh 1984 [1991]). La
disperazione, che spesso si manifesta in forme più o meno subdole di
depressione, è più nociva della sofferenza legata all’accettazione della
verità dolorosa della nostra realtà e al tentativo di cambiarla.
Perdere la speranza, cadere nella disperazione, è forse la forma più
pura di impotenza interiorizzata. Alla base vi è la totale rinuncia al
nostro potere-dall’interno, al potere creativo, alla facoltà di dare un
contributo significativo al mondo. Questo può portare a una
negazione ancora più profonda o alla dipendenza, in quanto si cerca
di evitare o di fuggire dall’inevitabile sofferenza che la disperazione
porta con sé.
La disperazione è essenzialmente uno stato di illusione perché ci fa
percepire la realtà attraverso un velo di falsità che ci separa dalla gioia
di vivere. Ed è intimamente collegata al torpore psichico che comincia
con la negazione. Quante più energie impieghiamo per reprimere le
nostre paure e il nostro dolore, quanto più cerchiamo di isolarci dalle
sofferenze del mondo che ci circonda, tanto più cadiamo in un buco
nero che risucchia la gioia di vivere. Quest’isolamento ci esclude dalla
comunità umana e da quella terrestre in generale, privandoci di una
sorgente di amore, di speranza e di energia e impedendoci di esperire
il potere-con. Secondo Joanna Macy da tutto questo
scaturisce la perdita della sensibilità, come se un nervo fosse stato reciso. Come ha
detto Barry Childers: «Ci rendiamo immuni dalle necessità della situazione
riducendo la nostra consapevolezza». Questa anestetizzazione tocca anche altri
aspetti della nostra vita. L’amore e la perdita sono meno intensi, il cielo è meno
vivido, perché se non permettiamo a noi stessi di provare dolore non sentiamo
neanche il resto. «La mente paga il suo intorpidimento nei confronti del mondo»,
afferma Robert Murphy, «rinunciando alla sua capacità di provare gioia e alla sua
elasticità».
(1995)
La disperazione può colpire persino chi è direttamente impegnato
nella lotta per la trasformazione. Guardare con onestà a ciò che
succede nel mondo può opprimere e gettare nella disperazione.
Questa condizione può peggiorare se le nostre attività ci inducono a
operare ossessivamente per il cambiamento, al punto da sentirci
sovraccaricati e sempre più spossati. L’azione compulsiva non è che
una forma ulteriore di dipendenza.
Di certo le situazioni di crisi sono talmente gravi da non lasciare
molto spazio all’ottimismo. I problemi sono complessi e il tempo è
limitato. Forse è anche utile esprimere le nostre paure, ammettere di
pensare che è troppo tardi per compiere i cambiamenti necessari a
costruire un futuro giusto ed ecologicamente armonioso. Ma il confine
tra speranza e disperazione è sottile. Esprimere le nostre paure
dev’essere il primo passo per andare oltre la paralisi che esse
generano. Insomma, abbiamo bisogno di una speranza realistica che
riconosca i pericoli, le difficoltà e le paure del presente ma sia capace
di superarli grazie a un’ispirazione che scorre profonda quanto la vita
nella Terra.
I rinforzi sistemici
L’impotenza interiorizzata serve a perpetuare i sistemi che
sfruttano la comunità umana e l’intera comunità terrestre, ma è anche
in certa misura il prodotto di quei sistemi. Come già rilevato, il
capitalismo moderno ci domina con il nostro consenso, ma questo
consenso – per usare il lessico di Noam Chomsky – è “fabbricato”
premeditatamente.
Tuttavia, è come se chi muove i fili del sistema dominante fosse
rimasto impigliato nella stessa tela che ha tessuto. La negazione e la
dipendenza, in particolare, sembrano dilagare tra i ricchi e i potenti
esattamente quanto negli altri settori della società (e forse anche di
più). Quando si prendono in esame i rinforzi sistemici occorre quindi
tenere a mente che molti di essi (specie quelli legati all’istruzione e ai
mass media) servono a controllare e a circoscrivere anche l’agire dei
potenti. Questo certamente non significa che nessuno è responsabile
dell’attuale sistema di dominio, ma mette in luce quanto sia diventato
totalizzante. In un certo senso sembra aver assunto una vita propria.
Nei successivi sottoparagrafi esamineremo alcuni rinforzi sistemici
usati per fabbricare il consenso. Per cominciare, analizzeremo il modo
in cui la minaccia della violenza e i sistemi educativi contribuiscono a
creare e mantenere l’impotenza interiorizzata. La maggior parte del
paragrafo sarà però incentrata sul ruolo dei mass media nel favorire la
negazione, nell’alimentare la dipendenza e nel tenerci in uno stato di
illusione.
Repressione, militarismo e violenza
In diverse parti del pianeta la forza impiegata da esercito e polizia
è tra gli strumenti principali per perpetuare l’impotenza strutturale.
La forza repressiva è uno dei mezzi più diretti e brutali nelle mani del
sistema di potere, ed è riservato quasi esclusivamente ai poveri e agli
oppressi.
La repressione agisce però contemporaneamente sulle dinamiche
dell’oppressione interiorizzata. Perché ciò accada non c’è bisogno di
esercitarla davvero, è sufficiente la minaccia. Ogni volta che si reprime
con la violenza una protesta, ogni volta che un attivista viene arrestato
o un prigioniero torturato, gli effetti dell’uso della forza riverberano
ben oltre coloro che la subiscono direttamente. Rafforzando
l’oppressione interiorizzata, la violenza si amplifica oltre i confini del
suo esercizio diretto.
Peraltro, per potersi strutturare, la repressione ha bisogno
dell’oppressione interiorizzata. Le forze militari e di polizia sono
spesso composte da persone povere e oppresse. È possibile controllare
la massa solo se un numero consistente di oppressi è cooptato per
farne a sua volta una forza repressiva. Questo tipo di organizzazione
si destabilizza però piuttosto facilmente. Si pensi alla “rivoluzione
popolare” che nel 1986 portò al crollo del regime di Marcos nelle
Filippine o alla destituzione di Slobodan Miloevic´ in Serbia: in quei
casi la polizia e l’esercito cambiarono fronte in un momento cruciale
rinunciando a intervenire o addirittura unendosi al popolo, e
consentendo così alla rivolta popolare di rovesciare un regime
dittatoriale.
In tutto il mondo l’uso della forza repressiva va oggi scontrandosi
con pressioni sempre più forti a salvaguardia dei diritti umani. Per
quanto sia improbabile che la forza bruta scompaia del tutto e non
venga più usata come strumento di dominio, è ormai un meccanismo
grossolano riservato ai casi estremi. Sempre di più il sistema predilige
mezzi più sofisticati per agire sull’impotenza interiorizzata.
Più pervicaci e difficili da sradicare sono le minacce della violenza
domestica e dell’aggressione sessuale, usate per rafforzare
l’oppressione interiorizzata nelle donne di tutte le classi sociali in tutto
il mondo. Anche in questo caso non è necessario l’uso effettivo della
forza: una donna non ha bisogno di essere aggredita sessualmente per
temere per la propria incolumità e limitare le attività per evitare guai.
Gli abusi verbali, ad esempio, possono avere un impatto altrettanto
devastante, anche se meno facile da misurare in quanto poco
dimostrabile. Anche i mass media condizionano l’oppressione
interiorizzata quando mostrano atti di violenza ai danni delle donne
(eppure, nonostante queste minacce, i movimenti femministi hanno
fatto notevoli progressi nel rendere la violenza sulle donne sempre
meno accettabile).
Non si può tralasciare infine la pervasiva minaccia della guerra
atomica: una minaccia che tuttora ha un effetto dirompente sulla
psiche collettiva del pianeta, anche dopo la fine della guerra fredda.
Come ha dimostrato (1983) Joanna Macy, la minaccia atomica è fonte
di profonda disperazione e opera in modo subdolo ma vigoroso per
tenerci incatenati all’impotenza interiorizzata. Fino a quando non vi
sarà un disarmo nucleare su scala globale, essa continuerà a snaturare
le nostre esistenze usando la paura di una catastrofe improvvisa per
erodere il nostro spirito.
L’istruzione
L’istruzione, specie attraverso le sue istituzioni ufficiali, svolge un
ruolo importante nell’adattamento ai valori e alle idee del capitalismo
corporativo e all’ideologia dell’impero. Essa tende anche a rafforzare i
meccanismi dell’impotenza interiorizzata, seppure con modalità più
subdole.
Nel Sud globale, in particolare, i metodi educativi si basano ancora
sulle dinamiche dell’oppressione interiorizzata. L’istruzione si fonda
sull’autorità dell’insegnante, in quanto colui che trasmette la
conoscenza. L’apprendimento si riduce spesso alla memorizzazione di
fatti e formule, e gli studenti sono trattati come ricettori passivi della
conoscenza. Gli educatori popolari dell’America latina definiscono
questo modello “educación bancaria” perché evoca l’immagine di un
mero “deposito” di conoscenze nella mente degli studenti. Nel
migliore dei casi si trascura il potere-dall’interno, nel peggiore lo si
reprime. La creatività e la curiosità sono considerate sovversive, o al
limite fastidiose.
Questa metodologia allena gli allievi a vedere il potere come
autoritario e statico. Si insegna agli studenti a essere obbedienti e
passivi e a non mettere nulla in discussione. Questo a sua volta
consolida l’oppressione interiorizzata. I contenuti del processo
educativo possono rafforzare ulteriormente tale tendenza.
L’insegnamento della storia, ad esempio, può magnificare le virtù
degli oppressori (ed evidenziare i fallimenti degli oppressi), mentre la
letteratura e la religione possono idealizzare la visione patriarcale
delle relazioni di genere.
Chi ha avuto a che fare con sistemi educativi più progressisti
considera un’istruzione così autoritaria un retaggio del passato,
eppure è ancora diffusissima in molte parti del mondo. Peraltro i
modelli di istruzione più illuminati, che danno valore allo spirito
critico, alla creatività e alla collaborazione, sono ancora soggetti a
molte restrizioni.
Quasi tutti i sistemi educativi incoraggiano le dinamiche della
negazione trasmettendo una visione distorta della realtà che ignora le
crisi che colpiscono il pianeta oppure le affronta in modo molto
superficiale. Ogni materia è trattata come una cosa a sé stante,
rendendo più difficile cogliere l’interconnessione tra i differenti
problemi. Ci insegnano a pensare nell’immediato, a riflettere poco
sulle conseguenze a lungo termine di un’azione o di un progetto. I
bambini sono particolarmente sensibili a minacce come la guerra
atomica o il disastro ecologico, eppure questa sensibilità raramente
viene sviluppata in modo costruttivo. In questo caso entrano in gioco
le paure degli adulti; innanzitutto la paura di generare angoscia o di
riconoscere il dolore. Poiché spesso sono gli educatori i primi a vivere
un certo grado di negazione, la trasmettono inconsciamente anche agli
studenti.
Se è vero che i sistemi educativi tendono a scoraggiare le
dipendenze da sostanze nocive, essi tendono però ad alimentare
l’ossessione sociale per il consumo illimitato, incoraggiando i ragazzi a
lottare per un lavoro ben retribuito che garantisca il benessere
materiale. Persino nelle società più povere e tra le popolazioni
emarginate, dove realizzare quest’aspirazione è pressoché
impossibile, si sfrutta il mito del “migliorare grazie all’istruzione” per
consolidare il potere del sistema educativo ufficiale e fare in modo che
abbia grande prestigio sociale.
L’idea che l’azione trasformatrice sia inutile – un messaggio di
disperazione – è trasmessa subdolamente anche per altre vie. I
bambini che sognano di cambiare il mondo ricevono spesso in cambio
un sorriso o un commento condiscendente invece che un vero
incoraggiamento. La storia è presentata da una visuale deterministica
pensata apposta per reprimere l’utopica speranza in un futuro
migliore. Ci insegnano a essere “pratici” e “realisti” e ad accettare la
nostra impotenza intrinseca.
Ovviamente esistono correnti che viaggiano in direzione opposta
rispetto a quelle or ora descritte. Ci sono tanti educatori che si
sforzano di risvegliare l’immaginazione e la creatività degli studenti,
che cercano di fornire un quadro preciso dei problemi che affliggono il
mondo e coltivano nei ragazzi la maturità emotiva e la capacità di
affrontare il dolore in modo costruttivo. In moltissimi casi, però, il
risultato finale del sistema educativo è di rendere gli studenti ancora
più vulnerabili alle dinamiche dell’impotenza interiorizzata.
Quel che è più grave è che pochissimi sistemi educativi ed
educatori trasmettono una concezione della realtà che dia il giusto
valore al rapporto con la grande comunità terrestre. Di rado si dà
risalto ai saperi tradizionali e alla storia dei popoli indigeni. Gli
studenti trascorrono il tempo in aule asettiche senza quasi nessun
contatto con il mondo naturale, a parte qualche occasionale animale
domestico tenuto in classe o la dissezione di qualche “campione”
durante l’ora di scienze. La logica sottesa a questo sistema di
istruzione è allenare gli studenti a competere nell’economia globale, a
diventare consumatori e magari anche buoni cittadini rispettosi degli
altri. A differenza dei sistemi educativi delle società aborigene,
l’istruzione moderna non inizia gli studenti a una relazione con la
grande comunità terrestre e con il cosmo che la comprende. Ai ragazzi
si insegna a comportarsi da individui autonomi in una società
competitiva, non da membri della grande comunità vivente.
I mass media
I mezzi di comunicazione di massa, primo fra tutti la televisione, si
possono a buon diritto considerare lo strumento più importante
attraverso cui si rafforza l’impotenza interiorizzata nelle società
moderne, sia al Sud che al Nord. Il potere e il raggio d’azione dei mass
media sono ormai enormi: il 97 per cento delle famiglie negli Stati
Uniti, il 90 per cento in Cina e oltre l’80 per cento in Brasile
possiedono almeno un televisore. Se nelle nazioni più povere la
percentuale è notevolmente più bassa, altri media (soprattutto la
radio) hanno una penetrazione quasi universale.
L’ascesa dei mass media è un fenomeno relativamente recente.
Fino agli inizi del secolo scorso la stragrande maggioranza della
popolazione acquisiva le informazioni e il sapere da persone che
conosceva e di cui si fidava: genitori, anziani, insegnanti, medici e capi
religiosi. Oggi i mezzi di comunicazione hanno quasi del tutto
soppiantato queste fonti. Negli Stati Uniti, ad esempio, un bambino di
cinque anni trascorre in media quindici ore la settimana davanti alla
TV e vede migliaia di spot pubblicitari (Swimme, 1997). Una volta
cresciuti, quei bambini trascorreranno più tempo davanti al televisore
che non a scuola. Da adulti ne vedranno cinque ore al giorno, il che
significa che quest’attività assorbe più tempo di tutte le altre, se si
eccettuano il lavoro e il sonno (Korten, 1995). Calcolando anche il
tempo dedicato ad altre fonti – giornali, radio, Internet e persino
manifesti pubblicitari – ci si renderà conto di quanto sia schiacciante
l’influenza dei mass media.
Altrettanto inquietante è il controllo sui mezzi di comunicazione:
ad oggi, cinquanta grosse corporation reggono l’industria mediatica
mondiale e nove di queste detengono il dominio assoluto (Herman-
McChesney, 1997)23. Inoltre, sono solo cinquanta le aziende di
pubbliche relazioni che producono il grosso della pubblicità a livello
mondiale, e ad appena dieci di queste va il 70 per cento di tutti gli
introiti pubblicitari (Karliner, 1997). Ed Ayres conclude che «la nostra
ricezione delle informazioni è sempre più filtrata da strutture di
grandi dimensioni, siano esse le corporation che possiedono i giornali
o le radio, le loro agenzie pubblicitarie o il settore delle lobby che aiuta
a stabilire le regole [...] grazie alle quali i media traggono i loro
profitti» (1999a).
Non sorprende quindi che Paul Hawken affermi: «La nostra mente
è indirizzata» – o sarebbe meglio dire “forgiata”? – «dai media al
servizio delle corporation che li sponsorizzano» (1993). Nei paragrafi
successivi esamineremo la seconda parte dell’affermazione di
Hawken, ossia che i media puntano a «riorganizzare la realtà in modo
da far dimenticare agli spettatori il mondo che li circonda». Come si
può riorganizzare la realtà? A quale scopo? E come può questo
rafforzare il senso di impotenza?
BLOCCARE LA PERCEZIONE, PERPETUARE LA NEGAZIONE
Uno degli stratagemmi con cui i media ci rendono impotenti è
favorendo la negazione. In parte lo fanno inibendo la percezione, così
da impedirci di avere un quadro preciso di ciò che accade nel mondo e
delle ragioni per cui accade.
Sulle prime potrà suonare strano: mai come adesso ci sono state
tante informazioni accessibili per una fascia così ampia della
popolazione mondiale. Ed Ayres paragona questa situazione a un
enorme quadro di cui però si riescono a vedere soltanto i puntini o i
pixel. Siamo sommersi da piccoli frammenti di informazioni, ma non
ci viene permesso di prendere le distanze e osservare il quadro
completo. È difficile soprattutto con un medium come la televisione, i
cui programmi sono confezionati con “messaggi telegrafici” pensati
apposta per catturare l’attenzione e produrre un impatto immediato,
non per favorire una comprensione ragionata degli eventi e del perché
si verificano24.
I media non si limitano però a ricorrere alla frammentazione – che
potrebbe anche sembrare casuale –, ma arrivano a occultare
artatamente le informazioni e a seminare il dubbio. Nel dibattito sui
cambiamenti climatici, ad esempio, la principale linea difensiva di
quanti hanno interesse a mantenere lo status quo (come l’industria
petrolifera) è negare del tutto il fenomeno, o al più affermare che esso
è provocato da eventi “naturali” come i cicli solari. Organizzazioni
ben finanziate come la Global Climate Coalition sono state istituite
proprio per propalare queste argomentazioni. Nonostante l’evidente
faziosità di questi enti, i media si ostinano a concedergli “eguale
spazio” in nome della presunta par condicio; una strategia che
potremmo definire della “falsa obiettività”.
Poiché però la comunità scientifica è ormai pressoché unanime
riguardo all’origine umana dei cambiamenti climatici, i media hanno
dovuto cambiare tattica: seppur costretti a concedere un po’
d’attenzione ai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate
Change (IPCC), che raccolgono il consenso di migliaia di esperti
internazionali in materia di clima, continuano però a pubblicare o a
mandare in onda le opinioni dello scienziato eretico di turno che dice
il contrario (e con tempistiche precise, quando quelle opinioni
producono l’impatto maggiore). Sono giudizi facilmente confutabili,
ma ormai il danno è fatto: si semina un dubbio sufficiente ad
alimentare lo scetticismo e la negazione.
I media sminuiscono inoltre la portata delle informazioni a
disposizione. Si sostiene ad esempio che i cambiamenti climatici non
si verificano con tanta rapidità, che potrebbero non essere poi così
gravi, che abbiamo ancora tempo per pensare alle contromisure, che
gli esseri umani saranno in grado di adattarvisi, o addirittura che se
ne potrebbe ricavare qualche beneficio. Quasi mai si riportano le
raccomandazioni dell’IPCC sulla necessità di ridurre dell’80 per cento
le emissioni di gas serra entro i prossimi quarant’anni. Al contrario, il
dibattito si riduce alla questione se dobbiamo oppure no ridurre le
emissioni del 5-10 per cento rispetto ai livelli del 1990 e se vi sia
davvero un’urgenza tale da adottare queste pur minime riduzioni. In
realtà dal 1990 le emissioni degli Stati Uniti – i maggiori produttori di
gas serra del pianeta – sono aumentate del 16 per cento, e quelle del
Canada di un incredibile 50 per cento25.
I mezzi di comunicazione possono circoscrivere con grande
efficacia i termini di un dibattito in qualsiasi ambito. Secondo Noam
Chomsky le democrazie sono consapevoli di non poter soffocare del
tutto il dibattito, né d’altronde hanno interesse a farlo. Fintanto che si
mantiene la discussione entro una sfera circoscritta di opinioni, non
c’è il pericolo di impensierire davvero chi detiene il potere.
Il dibattito non può essere messo a tacere, né sarebbe opportuno farlo, perché in
un sistema propagandistico ben funzionante esso può avere una funzione di
appoggio alle istituzioni se incanalato entro limiti adeguati. Ciò che è necessario è che
tali limiti siano ben precisi. Le polemiche possono anche essere violente fintantoché si
attengono a quei presupposti che definiscono il consenso delle elite, anzi entro tali
confini vanno addirittura incoraggiate, perché contribuiscono all’affermazione di
queste dottrine e contemporaneamente consolidano l’impressione che la libertà
imperi. In breve, ciò che è essenziale è il potere di decidere gli argomenti all’ordine
del giorno.
(Chomsky, 1989 [1991, p. 98])
Frammentando e occultando le informazioni, seminando il dubbio,
delimitando il dibattito, i media impediscono il formarsi di una
visione complessiva delle crisi che colpiscono l’umanità e la grande
comunità terrestre. Certamente ci sono persone in grado di squarciare
questo velo di distorsione e di inganno, ma possono essere
tranquillamente escluse dal dibattito ufficiale perché sono percepite
come una frangia al di fuori dei confini di un discorso razionale.
Queste tattiche sono dunque sufficienti a tenere in piedi e rafforzare la
negazione.
INCULCARE L’INADEGUATEZZA, SVIGORIRE L’IMMAGINAZIONE
I mass media ci rendono impotenti ricorrendo anche ad altri
mezzi, più subdoli ma altrettanto potenti. Michael Lerner (1986)
sostiene ad esempio che la televisione acuisca l’impotenza
interiorizzata proprio grazie ai suoi format. I programmi durano
perlopiù tra i trenta minuti e l’ora, un tempo durante il quale si
presenta un problema con un taglio ben preciso per poi trovarne
anche la soluzione. Nel tempo questa semplificazione della vita può
generare a livello inconscio un senso di inadeguatezza, facendoci
dubitare della forza del nostro potere-dall’interno.
Seguendo la stessa logica ci vengono mostrate solo persone belle
(quantomeno secondo l’idea mediatica di “bellezza”) e “di successo”.
Si crea così l’impressione che sia “normale” essere ricchi e belli,
negando la realtà della stragrande maggioranza della gente, che ha
pochi mezzi e una concezione diversa della bellezza. Anche questo
genera un senso di inadeguatezza e persino di autocommiserazione
(«ci dev’essere qualcosa che non va in me se non sono così») che sfocia
in una sorta di oppressione interiorizzata.
I mezzi di comunicazione sono anche ampiamente responsabili di
quell’omologazione culturale che Vandana Shiva definisce
«monocoltura della mente». Se si presenta come normativa un’unica
cultura, tutte le altre ne vengono di conseguenza sminuite. Anche
questo rafforza l’oppressione interiorizzata.
Un altro strumento per renderci impotenti è l’isolamento e
l’alienazione dalla comunità. In passato durante il tempo libero si
stava perlopiù in gruppo. Ascoltare musica, raccontare storie, ballare
o assistere a un’opera teatrale erano attività che si svolgevano insieme;
c’era tempo per parlare con i vicini e con gli amici e per una
partecipazione reale, immediata. Al contrario, i media moderni sono
per natura individuali e passivi26. La televisione, in particolare, tende
a isolarci dagli altri, anche quando la vediamo in gruppo. Ci rapisce e
ci assorbe. Ci allontana così dalla comunità che ci circonda e riduce le
occasioni di agire di concerto con gli altri, di creare e conservare il
potere-con. Allo stesso tempo ci aliena dal rapporto con la grande
comunità terrestre, separandoci ancora di più dalla natura.
Infine, la televisione, i film e simili (si potrebbero includere i
videogiochi) tendono a ridurre e distorcere l’immaginazione,
delimitando così la creatività e la prospettiva. Siamo assorbiti dalla
natura visiva di questi mezzi di comunicazione, che riescono a
proiettare delle immagini nella nostra mente. Lo stato di rilassamento
in cui siamo quando ne fruiamo produce un effetto quasi ipnotico nel
quale si accettano acriticamente valori e idee in un processo di
assorbimento passivo. A differenza di quando leggiamo o ascoltiamo
una storia, non abbiamo bisogno di creare da noi le immagini, non c’è
bisogno di usare l’immaginazione. Intanto però ci esponiamo a una
subdola distorsione dell’anima. Negli Stati Uniti, un ragazzo vede in
TV circa quarantamila omicidi fino ai diciotto anni (Ayres, 1999a), e
con i videogiochi può anche uccidere per finta, ma in maniera
realistica. Come può tutto questo non avere un impatto sul modo in
cui i ragazzi vedono il mondo, sulla visione del futuro che
svilupperanno? È proprio sull’immaginazione – e sulla creatività che
l’accompagna – che si fonda la nostra capacità di sviluppare il potere-
dall’interno.
RAFFORZARE LE DIPENDENZE
I mezzi di comunicazione di massa non soltanto rafforzano la
negazione e svigoriscono l’immaginazione: essi alimentano e
intensificano la dipendenza predominante nel capitalismo moderno,
l’avidità, attraverso pubblicità e immagini che incoraggiano al
consumo. Siamo bombardati ogni giorno da centinaia, migliaia di
messaggi che ci dicono in modo più o meno subdolo che il nostro
valore intrinseco dipende dalla nostra capacità di acquistare. Per
quanto insignificante e vuota possa essere la ricerca della felicità
attraverso il consumo, questo messaggio ci colpisce tutti riducendoci a
meri ricettacoli degli ultimi prodotti dell’economia corporativa.
L’epoca del capitalismo consumistico cominciò negli Stati Uniti
all’indomani della seconda guerra mondiale. Fu in quel periodo che
Victor Lebow, un analista vendite, formulò una delle dichiarazioni più
esplicite sul bisogno di inculcare la dipendenza dal consumo:
La nostra enorme capacità produttiva [...] ci chiede di fare del consumismo il
nostro stile di vita, di convertire l’acquisto e l’uso di beni in un rituale, di ricercare la
nostra soddisfazione spirituale, la soddisfazione del nostro ego, nel consumo. [...]
Abbiamo bisogno che le cose siano consumate, distrutte, scartate e rimpiazzate
sempre più velocemente.
(citato in Durning, 1995)
Per poter fare del consumismo uno stile di vita, il capitalismo
moderno ha avviato quello che gli psicologi Allen Kanner e Mary
Gomes definiscono «il più grande progetto psicologico mai intrapreso
dalla razza umana» (1995). La quantità di denaro spesa per questo
progetto di indottrinamento di massa è sconcertante, e nel 2008 ha
sfiorato il trilione di dollari: più di 80 dollari l’anno per ogni uomo,
donna e bambino del pianeta, circa sei volte in più rispetto agli
investimenti annuali necessari per garantire cibo, assistenza sanitaria,
acqua e istruzione all’umanità intera. è sconfinata la quantità di
competenze psicologiche e ricerche che si possono acquistare con quel
denaro.
Non sorprende dunque che i messaggi più frequenti e persistenti
siano veicolati da spot pubblicitari. Come agiscono? Instillandoci
subdolamente un senso di inadeguatezza e di infelicità. Spesso lo
fanno creando l’immagine del “consumatore ideale” che poi noi
vorremo emulare. Ci viene detto che se vogliamo essere belli, se
vogliamo avere successo ed essere felici, dobbiamo comprare un certo
prodotto. Insomma, la pubblicità cerca costantemente di creare in noi
falsi bisogni dicendoci che dobbiamo possedere “solo un’altra cosa”
per essere davvero felici; essa dunque incoraggia i comportamenti da
dipendenza.
Stranamente, si ricordano con precisione solo pochi spot. In un
certo senso il vero scopo della pubblicità è infatti vendere il
consumismo in sé, creare una cultura consumistica e incline alla
dipendenza. Il risultato è che in ciascuno di noi si costruisce quello che
Kanner e Gomes chiamano «il sé consumistico»: un falso sé che «nasce
dalla spietata distorsione degli autentici bisogni e desideri umani»
(1995). La nostra vera identità è deformata e travisata dall’impresa
consumistica. Fulcro della pubblicità è una menzogna in base alla
quale il successo e la felicità dipendono da ciò che si possiede. Bisogni
primari a parte, è un’idea evidentemente falsa ma è ripetuta così
spesso che si finisce col credervi. Cerchiamo di soddisfare bisogni
autentici come l’amore, la bellezza, l’amicizia e la ricerca di senso
attraverso dei vacui sostituti (non a caso le società ricche sono spesso
meno felici rispetto a quarant’anni prima!). Viviamo in uno stato di
illusione.
Questa malattia non appartiene però soltanto ai ricchi. Gli stessi
messaggi sono dati in pasto a miliardi di persone che ogni giorno
devono faticare solo per poter soddisfare i bisogni primari. Per loro le
sirene del consumismo sono una continua beffa: non potranno mai
sperare di raggiungere i livelli di consumo messi in mostra dalla
pubblicità. Il messaggio che arriva a costoro, dunque, è che non
potranno mai sperare di essere felici, di avere successo o di essere
belli. Al limite possono provare per un momento quel piacere
comprando una bibita, delle sigarette o un pacchetto di patatine che
forse neanche possono permettersi. Insomma, il messaggio
consumistico rafforza anche nei poveri il senso di oppressione
interiorizzata, o addirittura di disperazione.
Al Nord come al Sud, il consumismo acuisce il senso di alienazione
e indebolisce la comunità. Più energie si impiegano nella caccia al
consumo (o al surrogato mondo consumistico creato dalla televisione
e dagli altri media), meno ne rimangono da dedicare alle relazioni
autentiche, alla contemplazione della natura, alla comunità e alla
formazione del potere-con. Questo genera un senso ancora più
profondo di alienazione e di vuoto, che a sua volta alimenta la febbrile
dipendenza dal consumo.
ALIMENTARE L’ILLUSIONE
L’ideologia consumistica è così pervasiva e vigorosa da essere
diventata di fatto la cosmologia delle moderne società capitaliste. Con
il termine “cosmologia” intendiamo la visione della natura, della
realtà e della finalità della vita: un argomento che esamineremo più
approfonditamente nei successivi capitoli.
Brian Swimme (1996; 1997) spiega bene la questione. Ricorda che
nelle società tradizionali la sera i bambini sedevano attorno al fuoco
ad ascoltare le storie degli anziani sulla nascita dell’universo, sulla
comparsa degli esseri umani e sul posto che l’umanità occupa
all’interno della grande comunità terrestre. Dove avviene tutto questo,
oggi?, si chiede Swimme. Qual è la fonte della nostra cosmologia
funzionale? Ecco la sua risposta:
Prendiamo i nostri figli, li teniamo al buio e accendiamo la TV, ma non ci sono
programmi, c’è la pubblicità. [...] La pubblicità è il racconto cosmologico dei tempi
moderni. [...] La pubblicità, in forma molto sintetica, ci dice tutto ciò che conta: ci
spiega la natura dell’universo, la natura dell’essere umano, dà dei modelli di
riferimento. La natura dell’universo? Un deposito di materia prima. La natura
dell’essere umano? Trovare un lavoro e comprare delle merci. L’uomo ideale? Uno
che a bordo piscina ride mentre sorseggia una Pepsi.
(1997)
Durante quella conferenza, Swimme criticò le migliaia di psicologi,
tra i più dotati al mondo, che lavorano instancabilmente per trovare il
modo di impiantare questo messaggio nell’anima di ogni singolo
bambino27. Le altre fonti di trasmissione culturale impallidiscono al
confronto. Come già evidenziato, prima ancora di cominciare la scuola
i bambini sono sommersi da trentamila messaggi pubblicitari. Da
ragazzi, trascorreranno più tempo a guardare spot che in classe. Fin
da piccoli siamo dunque indottrinati a una cosmologia involgarita che
ci fa sentire perennemente inutili e vacui. Ci viene insegnato a
sostituire con dei beni materiali il nostro bisogno di significato, di
amore, di creatività e di comunione. La nostra esistenza si riduce
sempre di più al lavoro, al guadagno e a comprare quante più cose
possibile. C’è sempre meno spazio per quello che ci fa sentire davvero
appagati. Siamo sempre più distaccati dalla sorgente profonda del
nostro intrinseco potere-dall’interno. Allo stesso tempo, l’isolamento e
l’alienazione tra gli uomini e tra questi e gli altri esseri viventi
indeboliscono la facoltà di agire in modo sinergico per realizzare un
vero cambiamento. I sistemi di dominio tessono una tela di illusioni
che ci separa dal nostro potere. Come scrive Roger Walsh:
Il nostro abituale stato mentale, dicono le psicologie orientali, non è lucido, né
ottimale né è completamente razionale. Piuttosto, i nostri attaccamenti, le nostre
difese e false opinioni influenzano e distorcono la nostra esperienza con mezzi tanto
efficaci quanto sottili e non riconosciuti. Siccome non vengono riconosciute, tali
distorsioni costituiscono una forma di illusione (maya la chiamano gli orientali), una
forma che raramente viene compresa perché è condivisa culturalmente.
Sebbene questa affermazione possa suonare strana all’inizio, in realtà è
compatibile con il pensiero di molti eminenti psicologi occidentali. «Siamo tutti
ipnotizzati sin dall’infanzia. Non percepiamo noi stessi e il mondo intorno a noi come
realmente sono ma come siamo stati persuasi a vederli», ha detto Willis Harman
della Stanford University.
(1984 [1991, p. 82])
Scavare più a fondo: la prospettiva dell’ecopsicologia
Esiste una via di fuga dalla rete dell’oppressione interiorizzata,
della negazione, delle dipendenze e della disperazione che intrappola
e paralizza la maggior parte dell’umanità? Sulle prime, i legacci che ci
stringono sembrano indistruttibili. Eppure la vacua cosmologia del
consumismo che tenta di blandirci con l’autocompiacimento non può
spegnere del tutto la nostra sete di comunione, di creatività e di
bellezza. In cuor nostro sappiamo che qualcosa è sbagliato, che in
qualche maniera siamo incompleti. Qui può forse trovarsi il segreto
della nostra liberazione.
Un indizio del fatto che lo stile di vita consumistico non riesce a
soddisfarci è l’epidemia di depressione che dilaga nelle società ricche.
L’Organizzazione mondiale della salute mette la depressione al
secondo posto nella classifica delle malattie più diffuse nelle nazioni
ricche del Nord; in altre parole è ancora più comune del cancro. Non
solo: in base a numerose evidenze scientifiche, man mano che le
società passano dal soddisfacimento dei bisogni primari al consumo
massiccio la depressione si diffonde sempre di più. Negli Stati Uniti,
ad esempio, la probabilità che gli adulti nati nel decennio successivo
alla seconda guerra mondiale soffrano di depressione è tre volte
superiore (e anche più di tre volte) rispetto a quelli nati prima della
prima guerra mondiale. Lo psicologo inglese Oliver James sostiene
addirittura che «più una nazione si avvicina al modello americano,
ossia a una forma molto avanzata e tecnologica di capitalismo, più
sarà alta la percentuale di malattie mentali tra i suoi cittadini»
(Gardner, 2001).
Alla luce delle analisi precedenti, questi dati non sorprendono:
tentare di soddisfare il bisogno di comunione e di bellezza con la
dipendenza dal consumo non potrà mai portare alla vera felicità.
Come contraltare, Gary Gardner (2001) cita alcuni studi sul popolo
Amish del Vecchio Ordine, in Pennsylvania, che vive ancora a
contatto con la terra e mantiene forti vincoli comunitari. La vita
semplice di queste persone non contempla la televisione, l’elettricità,
le automobili e altre comodità. La loro forte economia locale consente
però di soddisfare i bisogni primari come il cibo, il vestiario e
l’alloggio. Lo stile di vita è austero ma la percentuale di malattie
mentali tra gli Amish è esigua: un quinto di quella registrata tra chi
vive con tutti i comfort nella vicina Baltimora.
Quale insegnamento possiamo trarne? Sicuramente non dobbiamo
desumerne che tutta la moderna tecnologia e il benessere materiale
siano di per sé da biasimare. Indubbiamente anche tra i poveri che
vivono tra la violenza e il degrado urbano la percentuale di malattie
mentali sarà elevata. La differenza cruciale tra gli Amish e i loro vicini
di Baltimora è che i primi vivono all’interno di una comunità affiatata,
non contaminata dall’ideologia e dallo stile di vita del consumismo. A
ben guardare, il loro spirito comunitario non si limita solo alle
persone. Gli Amish coltivano la terra in modo tradizionale, e questo li
fa vivere a stretto contatto con essa. Abitano da generazioni nello
stesso posto, in seno a una comunità di cui fa parte anche la terra, e di
essa si prendono cura perché è la loro fonte primaria di sussistenza.
Le moderne società urbanizzate, al Nord come al Sud, sono invece
sempre più alienate dalla comunità, lontane dal prossimo sia umano
sia non umano. Oltre il 45 per cento della popolazione mondiale vive
nelle città, e la percentuale continua a crescere. In America latina,
Europa e Nord America spesso si supera il 70 per cento. Per contro, la
popolazione è sempre meno radicata in un luogo specifico. Negli Stati
Uniti questo sradicamento ha raggiunto il culmine: il 20 per cento
della popolazione cambia residenza ogni anno (Sale, 2001). Queste
tendenze, unite all’influenza della cultura consumistica (che di per sé
è uno dei motori dell’urbanizzazione e della mobilità), rendono
sempre più difficile coltivare lo spirito comunitario. Siamo ormai
disconnessi dal nostro prossimo, dalla Terra e dalle creature che la
condividono con noi.
Per meglio esaminare questo senso di separazione e di alienazione
è opportuno rifarsi all’ecopsicologia, una disciplina che va facendosi
sempre più strada. A differenza di altre branche della psicologia, che
di rado guardano al di là delle relazioni familiari, l’ecopsicologia
sostiene che occorre considerare una più ampia rete di relazioni,
compresa quella con la Terra. Fulcro di questa disciplina è la
convinzione che, nel profondo della nostra psiche, siamo ancora
fondamentalmente e inestricabilmente «legati alla Terra che ci ha dato
la vita». Analizzando la spietatezza con cui sfruttiamo il pianeta,
questo abuso si rivela una proiezione «di bisogni e desideri inconsci»,
come un sogno o un’allucinazione. Secondo l’ecopsicologia, la
soggiogazione del pianeta vivente svela però «la condizione collettiva
della nostra anima» molto più dei sogni, che difficilmente
confondiamo con la realtà. «Più importanti sono i sogni che [...]
rendiamo “reali”, di acciaio e cemento, in carne e ossa, con le
ricchezze strappate al pianeta» (Roszak, 1995).
Ecopsicosi: vivere in uno stato di disconnessione
Nell’esaminare lo stile di vita disfunzionale tipico delle società
moderne, l’ecopsicologia sostiene che viviamo una sorta di psicosi
collettiva. Se si intende per psicosi il tentativo di vivere nella
menzogna, la radice dell’attuale psicosi (o illusione) collettiva è allora
la nostra disconnessione dagli altri, la percezione che esistiamo in
quanto ego isolati. Vivere disconnessi dagli altri esseri – umani e non
umani – implica accettare la menzogna secondo cui non si hanno
obblighi etici nei confronti di chicchessia, non bisogna prendersi cura
degli altri esseri viventi né esiste alcun legame autentico con la Terra
che ci sostenta.
Molti autori hanno provato a descrivere la natura di questa psicosi,
e ciascuno ha messo in luce nuove sfumature di questo disturbo
collettivo dell’anima. Thomas Berry, storico culturale e religioso poi
diventato “geologo” (o “studioso della Terra”), sostiene che «siamo
diventati autistici rispetto al mondo naturale. Lo consideriamo
tollerabile ma lo teniamo fuori da noi» (citato in Scharper, 1997).
Come chi soffre di autismo, anche noi non riusciamo a sentire, udire o
percepire realmente la presenza degli altri. Ci siamo preclusi la
possibilità della relazione e della comunione, compresa quella con la
grande comunità terrestre. Come scrive Ralph Metzner, «siamo
diventati ciechi alla presenza psichica del pianeta vivente e sordi alle
sue voci e alle sue storie, che sono state invece fonte di nutrimento per
i nostri antenati delle società preindustriali» (Metzner, 1995).
Come si è sviluppata questa specie di autismo? In gran parte
attraverso quel processo di torpore psichico già esaminato a proposito
della negazione. Scrive Sarah Conn:
Molti di noi hanno imparato a camminare, respirare, guardare e ascoltare di
meno, a intorpidire i propri sensi sia rispetto al dolore sia rispetto alla bellezza del
mondo naturale, vivendo la cosiddetta vita privata, soffrendo secondo modalità che
si percepiscono come «puramente individuali», tenendo nascosto il dolore persino a
se stessi. Sentendoci vuoti, proiettiamo quindi i nostri sentimenti sugli altri o ci
lanciamo in attività compulsive, insoddisfacenti, che non ci nutrono né
contribuiscono a sanare il contesto che ci circonda. L’incidenza oggi così alta della
depressione è forse in parte un segnale del nostro sanguinare alle radici, ormai
tagliati fuori dal mondo naturale e incapaci di piangere per le sue sofferenze o di
emozionarci per la sua bellezza.
(1995)
Il torpore psichico e l’autismo da esso generato sono dunque
intimamente connessi ai comportamenti compulsivi e a quelli legati
alle dipendenze. A tal proposito Metzner afferma che «l’incapacità di
fermare il nostro comportamento suicida ed ecocida rientra nella
definizione clinica di dipendenza o compulsione»: non riusciamo a
smettere di comportarci così anche se sappiamo che è nocivo per noi e
per gli altri (1995). In modo simile David Korten:
Nessuna persona sana di mente vorrebbe un mondo abitato da miliardi di
emarginati che vivono nell’assoluta privazione e da una cerchia ristretta che
custodisce lussi e ricchezze dietro mura fortificate. Nessuno gioirebbe alla
prospettiva di vivere in un mondo fatto di sistemi sociali ed ecologici in disfacimento.
Eppure continuiamo a mettere a repentaglio la sopravvivenza della civiltà umana e
della nostra specie [oltre a quella delle altre specie] per consentire a un milione di
persone o giù di lì di accumulare denaro oltre ogni ragionevole necessità.
Continuiamo ad avanzare in una direzione in cui nessuno in realtà vorrebbe andare.
(1995)
Perché lo facciamo? Innanzitutto perché la percezione di ciò che è
normale e sano è stata fortemente distorta. Per gran parte della storia
umana abbiamo vissuto in piccole tribù o in comunità a stretto
contatto con gli ecosistemi che ci garantivano il sostentamento.
Osservata da questa prospettiva, la civiltà urbana e tecnologica
moderna non è affatto normale. Come rileva Edward Goldsmith,
«nella prospettiva dell’esperienza complessiva dell’umanità su questo
pianeta questo è altamente atipico, necessariamente di breve durata, e
totalmente aberrante». Considerare normale la realtà presente è come
considerare un tessuto canceroso un «organismo sano» (1992 [1997, p.
5]). Secondo Theodore Roszak, l’industrialismo urbano si trova «al
limite estremo di un’oscillazione esasperata» (1992). Gli uomini si
sono evoluti in un contesto ricco di tradizioni e di comunità e
attraverso il contatto sensoriale e diretto con il mondo naturale. Per
questo mal ci adattiamo all’isolamento delle nostre moderne esistenze
tecnologiche.
La psicologia, come qualsiasi altra scienza, è nata in una cornice
distorta, condizionata da questo stato aberrante. Essa analizza di
norma gli esseri umani come individui relativamente isolati,
prestando attenzione ai rapporti immediati con la famiglia per
allargarli talvolta ad amici e colleghi. Il mondo circostante è visto
come qualcosa di freddo, oggettivo e persino inospitale. Eppure un
tempo (e ancora oggi in molte società indigene) la psicologia si
inseriva in un contesto più ampio:
C’era un tempo in cui tutte le psicologie erano “ecopsicologie”. Chi si occupava di
guarire l’anima dava per scontato che la natura umana fosse fortemente integrata con
il mondo che condividiamo con gli animali, le piante, i minerali e tutti i poteri
invisibili del cosmo. Come la medicina in passato era considerata “olistica” –
guarigione del corpo, della mente e dell’anima – e non c’era bisogno di specificarlo,
così la psicoterapia era naturalmente connessa con il cosmo. È la psichiatria della
moderna società occidentale ad aver separato la vita “interiore” dal mondo “esterno”,
come se quello che è dentro di noi non fosse anche all’interno dell’universo: qualcosa
di reale, consequenziale e inseparabile dallo studio del mondo naturale.
(Roszak, 1992)
Quasi tutte le correnti psicologiche occidentali sono quindi
inadatte ad analizzare e comprendere la psicosi collettiva che ci
disconnette e ci isola dalla grande comunità degli esseri viventi. La
moderna psicoterapia si concentra sull’individuo e si pratica nello
spazio ristretto di uno studio o di un consultorio. Proprio in quanto
tende a dissociare l’individuo dal contesto comunitario ed ecologico,
mostra di essere radicata in quella stessa visione distorta della realtà
che qui cerchiamo di esaminare. Al contrario, la prospettiva
ecopsicologica può aiutarci a inquadrare la psicosi collettiva in un
contesto più ampio che ci faccia individuare la sua genesi e i possibili
modi per guarirla.
La genesi dell’ecopsicosi
Com’è nata la psicosi di cui soffriamo oggi? Come siamo arrivati a
uno stadio che, dal punto di vista della storia umana, è «altamente
atipico» e addirittura «totalmente aberrante»? è come se avessimo
dimenticato qualcosa che prima era un dato scontato: abbiamo perso il
contatto con il nostro bisogno di comunità, il legame profondo con la
terra, la relazione vitale con la comunità biotica, il rispetto e la
devozione per la Terra che ci nutre, il timore reverenziale del cosmo
che abbraccia tutto. Le culture tradizionali dei nostri antenati
conoscevano queste cose e vivevano in questo modo. Com’è possibile
che questa sapienza, questo modo di vivere, siano andati perduti?
Secondo Ralph Metzner (1995) soffriamo di amnesia traumatica
collettiva. Come la vittima di qualche terribile atto di violenza che
rimuove i ricordi, anche noi potremmo essere stati indotti da un
trauma collettivo (o da una serie di traumi) a perdere
progressivamente la nostra antica saggezza. Interessante quel che
afferma Chellis Glendinning a proposito del trauma come fondamento
di tutti i comportamenti da dipendenza: la dipendenza si sviluppa
«perché abbiamo subito un’inaudita violazione». L’autrice sostiene:
Il trauma subito dal popolo tecnologico [...] è l’allontanamento sistemico e
sistematico delle nostre esistenze dal mondo naturale: dai viticci intrecciati alla terra,
dai cicli del sole e della luna, dallo spirito degli orsi e degli alberi, dalla forza vitale
stessa. È anche l’allontanamento sistemico e sistematico della nostra vita da quelle
esperienze sociali e culturali che i nostri antenati davano per scontate perché
vivevano in sintonia con il mondo naturale.
(1995)
Pur non essendo ben chiaro a chi si riferisca Glendinning quando
parla del «popolo tecnologico», è evidente che i popoli moderni, sia al
Nord sia al Sud, hanno sperimentato questo processo. Tra i traumi che
si sono succeduti nelle diverse generazioni vi sono:
• L’antico trauma associato al passaggio dalla cultura dei
cacciatori-raccoglitori a quella agricola e delle città-Stato. Non è stata
quasi mai una transizione pacifica, bensì il risultato di un’imposizione
violenta per mezzo di guerre e conquiste.
• I traumi vissuti dai popoli europei a causa della peste nera (metà
XIV secolo), della “piccola era glaciale” (XV secolo) e della caccia alle
streghe. Questi eventi, combinati insieme, hanno alimentato una
sempre maggiore ostilità verso le donne e il mondo naturale che fu
poi estesa anche agli altri popoli quando gli europei cominciarono a
invadere e colonizzare nuove terre.
• I traumi di coloro che furono allontanati o cacciati con la forza
dalle loro terre a causa della schiavitù e delle conquiste in Africa, in
Australia, in Asia e nelle Americhe. La gravità di questi traumi non va
sottovalutata, soprattutto perché a essi si accompagnarono stragi e
sofferenze provocate da violenze, maltrattamenti e malattie.
• I traumi legati alle migrazioni di massa degli europei nelle
Americhe, in Australia e in altre parti del mondo. Tali migrazioni si
verificarono spesso attraverso la coercizione. Molti scappavano da una
persecuzione, altri erano poveri contadini che provavano a sfuggire
alla fame e alla miseria, spesso attirati con false promesse in qualche
“nuovo mondo”. Poi c’erano quelli trasferiti contro la loro volontà,
come i prigionieri poveri della Gran Bretagna e dell’Irlanda spediti in
Australia.
• Il trauma dell’industrializzazione che, direttamente o
indirettamente, ha costretto (e continua a farlo) molta gente ad
abbandonare la terra per riversarsi in città sovraffollate e violente.
Questo trauma perdura ancora, soprattutto nel Sud globale: si emigra
dalle aree rurali verso le città nella speranza di sfuggire alla povertà e
di trovare lavoro, istruzione e assistenza sanitaria.
Questi traumi hanno sfilacciato gli antichi legami che ci univano
alla terra e ai nostri simili. Alcune culture indigene li conservano
ancora, almeno fino a un certo punto. Per molti di noi, invece, quei
vincoli si sono erosi nel tempo. Nel profondo, portiamo ancora le
cicatrici di quei traumi. Riguardano tutti, gli oppressi come gli
oppressori, gli sfruttati come gli sfruttatori, i poveri come i ricchi,
anche se i modi per affrontarli o esprimerli possono essere differenti.
Chellis Glendinning giunge quindi a questa conclusione:
La dislocazione della società tecnologica dall’unica vera casa che abbiamo mai
avuto è un evento traumatico verificatosi nel corso di diverse generazioni, che si
ripete nell’infanzia e nella vita quotidiana. Di fronte a una tale frattura, i sintomi da
stress traumatico non sono più quei rari fenomeni provocati da un evento
straordinario o da una catastrofe atmosferica, ma sono all’ordine del giorno per tutti.
(1995)
Glendenning spiega inoltre che la reazione classica al trauma è il
processo di dissociazione attraverso cui «separiamo la coscienza,
reprimiamo interi campi dell’esperienza e ci rendiamo sordi a una
percezione completa del mondo» (1995). Manifestazione di questa
coscienza divisa sono le dicotomie costruite dall’uomo come
corpo/mente, maschile/femminile, materia/spirito, uomo/natura,
selvaggio/addomesticato. Analogamente Robert Greenway (1995)
afferma che le culture industrializzate hanno ingigantito il processo di
«differenziazione» al punto tale che esso domina completamente la
nostra coscienza. Il dualismo è diventato il nostro modello culturale.
Viviamo la coscienza come separazione, anche se non potremo mai
essere davvero separati dalla biosfera che ci sostenta.
Gli ambienti artificiali che ci siamo costruiti, soprattutto nelle aree
urbane, aggravano questa dislocazione isolandoci ulteriormente dal
mondo non umano. Theodore Roszak sostiene che le città sono nate
come megalomani fantasie imperiali dei re e dei faraoni: «Nacquero
da manie di grandezza, furono costruite dalla violenza disciplinata e
pensate per irreggimentare spietatamente la natura [e l’umanità]»
(1992). Le città moderne perpetuano sotto molti aspetti questa
tradizione. La moderna città industriale, in particolare, è una sorta di
“armatura” collettiva della nostra cultura, uno «sforzo patologico di
tenerci lontani dal contatto diretto con il continuum naturale dal quale
ci siamo sviluppati» (1992)28. Anche James Lovelock riflette su questo
stato di cose:
Come possiamo venerare e rispettare il mondo vivente se non
siamo più in grado di ascoltare il canto degli uccelli in mezzo al
rumore del traffico, o di respirare aria fresca e profumata? Come
possiamo chiederci di Dio e dell’Universo se non vediamo mai le stelle
a causa delle luci cittadine? Se pensate che questa sia un’esagerazione,
ripensate all’ultima volta che vi siete stesi sull’erba a prendere il sole e
avete colto l’odore fragrante del timo e avete udito cantare le allodole.
Ripensate all’ultima notte in cui avete guardato il profondo blu del
cielo e siete riusciti a scorgere la Via Lattea, l’adunanza di stelle che
costituisce la nostra galassia.
(1988 [1991, p. 212])
Secondo Lovelock, chi vive in città vede il mondo solo attraverso
lo schermo televisivo. Siamo intrappolati in un mondo nel quale non
siamo attori ma meri spettatori, un mondo costruito e filtrato dalla
sopraffazione umana. «La vita cittadina», conclude Lovelock,
«rafforza e corrobora l’eresia dell’umanesimo, la dedizione narcisistica
agli esclusivi interessi umani» (1988 [1991, p. 212]).
L’ecopsicosi si trasmette e si rinforza anche grazie al modo in cui si
educano i figli. La creazione del sé separativo comincia fin da piccoli,
spesso fin dalla nascita. La medicina moderna – almeno fino a pochi
anni fa (e ancora oggi in diversi luoghi) – separa il neonato dalla
madre subito dopo la nascita per metterlo nell’ambiente asettico del
nido, circondato da altri bambini altrettanto stressati. Non di rado un
biberon subito rimpiazza il legame dell’allattamento. La notte si fanno
dormire i bimbi da soli, e ai genitori è sconsigliato di tenerli in braccio
troppo spesso. Conclude Roszak:
A quale scopo tutto questo se non per rompere il vincolo tra madre e figlio quanto
prima possibile e spingere il bimbo a essere autonomo? [...] A differenza delle società
tradizionali, dove la fase in cui il bambino si tiene in braccio si prolunga fino al primo
anno di vita [e spesso si continua ad allattare per molto più tempo], nell’Occidente
moderno si costringe il bambino a un’autosufficienza a-relazionale fin dal primo
vagito. Dai bimbi appena usciti dal grembo materno, la forma più profonda di
relazione, ci si aspetta che diventino subito degli individui, volenti o nolenti.
(1999)
La psicologia femminista segnala che questo processo è
particolarmente accentuato nel caso dei maschi, a cui si chiede di
formare una propria identità di genere fondata sulla separazione e
sulla differenziazione dalla madre. Dai maschi ci si aspetta che
sradichino la propria “donna interiore”. Questo richiede un enorme
atto di volontà fin da piccoli, ed è qualcosa che distorcerà e bloccherà
definitivamente l’identità maschile. Osserva Marti Kheel: «L’identità
soggettiva del ragazzo si fonda in questo modo sulla negazione e
l’oggettificazione dell’altro» (citato in Roszak, 1999). I maschi sono
lasciati emotivamente isolati, intrappolati entro i rigidi confini del loro
ego. Per difendere tali confini e affermare l’autonomia si deve negare
la dipendenza, spesso attraverso la competizione, il dominio, lo
sfruttamento o la violenza. Potremmo ravvisare quindi in questo
processo la radice psicologica fondamentale del patriarcato.
Il filosofo ecologico Paul Shepard ritiene che nelle società
industrializzate la creazione fin dall’infanzia del sé separativo sfoci in
una menomazione dello sviluppo fin dai primi anni di vita (in
particolare nei maschi). Siamo quindi quelli che «possiedono la più
inconsistente struttura identitaria al mondo: secondo gli standard
paleolitici, siamo degli adulti infantili». Conseguenza di questa
patologia collettiva è la tendenza ad «aggredire quel mondo naturale
che sentiamo confusamente averci abbandonato» (citato in Metzner,
1995). Il bisogno di lanciarci in un’infinita competizione tra di noi può
essere visto come una manifestazione della stessa patologia.
Non è dunque così strano che possa sussistere una relazione tra
l’alienazione dalla grande comunità terrestre e la sete di dominio.
L’esperienza della separazione e dell’autonomia che caratterizza
ormai la coscienza moderna è «la condizione essenziale del dominio»,
e «il dominio è la radice dello sfruttamento» (Greenway, 1995). Perché
è così? Secondo gli psicologi, il dominio è spesso un tentativo di
negare la realtà della dipendenza. Come gli uomini con una mentalità
patriarcale tendono a negare la dipendenza dalle donne
sottomettendole, così le società tecnologiche negano la dipendenza
dalla Terra attraverso il dominio. Mary Gomes e Allen Kanner
sostengono che «la dipendenza dell’essere umano dall’ospitalità della
Terra è totale, e questo terrorizza il sé separativo. Dominando la
biosfera e tentando di controllare i processi naturali, possiamo
conservare l’illusione di essere completamente autonomi». I due
autori rilevano inoltre che la negazione della dipendenza conduce non
di rado a un tipo di relazione parassitaria, come già evidenziato a
proposito della ricerca capitalistica della crescita illimitata: «La non
accettazione della dipendenza ci fa agire nei confronti del pianeta
come dei parassiti che sterminano chi li ospita» (Gomes-Kanner, 1995).
Ampliare il senso del sé: risvegliare la psiche ecologica
Come possiamo superare la nostra psicosi collettiva? Come
possiamo guarire la nostra anima e lasciarci alle spalle quella
tendenza al dominio e allo sfruttamento che ci induce a farci del male
a vicenda e a danneggiare la grande comunità terrestre?
L’ecopsicologia insegna che il primo passo è provare ad
allontanarsi da questo senso del “sé” così limitato. Il moderno
pensiero occidentale di cui fa parte la psicologia ufficiale ha
circoscritto il “sé” a quello che risiede entro i limiti della carne: tutto
ciò che c’è al di fuori è il “mondo esterno”. Sin da piccoli impariamo a
reprimere quella che si potrebbe definire “empatia cosmica” o
“coscienza oceanica”. Attraverso un processo di progressivo torpore
psichico, ci isoliamo sempre di più dalla comunità vivente in modo da
agire come “individui normali” nel mondo contemporaneo. È
interessante notare che persino secondo Freud29 «il nostro presente
senso dell’Io è soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai
più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che
corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con
l’ambiente» (citato in Roszak, 1995). Theodore Roszak ravvisa in
quest’affermazione una lontana anticipazione della prospettiva
ecopsicologica. Si può definire l’ecopsicologia «il rifiuto di
accontentarsi di quell’”avvizzito residuo”» (1995). Essa cerca al
contrario di ampliare il nostro concetto del sé, di espanderlo oltre i
rigidi confini della carne.
L’idea di un senso del sé amplificato potrà suonare strana a menti
forgiate dalla moderna civiltà tecnologica. Ma la saggezza tradizionale
ha spesso postulato che una grossa parte dell’anima risieda al di fuori
del corpo, che sia il corpo a essere dentro l’anima, non il contrario.
Anche da un punto di vista puramente fisico, l’idea che vi sia un
confine netto tra il sé e il mondo esterno è un’illusione. Il corpo
scambia continuamente materia con “il mondo esterno”: ogni anno si
sostituisce il 98 per cento degli atomi nel nostro corpo. Oltre la metà
del nostro peso netto è composta da cellule non umane, perlopiù
batteri intestinali, lieviti e altri microrganismi simbiotici essenziali per
la sopravvivenza (Korten, 1999). Anche al livello mentale scambiamo
costantemente idee e informazioni: i nostri pensieri sono il frutto
dell’interscambio con gli altri. Ciascun “individuo” è dunque un
sistema aperto e dinamico che può sopravvivere solo grazie
all’interazione con le persone, con altri organismi, con l’ecosfera e con
il cosmo intero.
Con questo ovviamente non si vuole negare che ciascuno di noi
abbia bisogno di un senso di unicità, di una propria identità: questa
identità, però, non deve formarsi in contrapposizione alle altre. Una
volta il filosofo francese Jacques Maritain scrisse: «Apriamo gli occhi
su noi stessi nel momento in cui apriamo gli occhi sulle cose» (citato in
A. Barrows, 1995). Più che considerare prescrittivo il sé separativo,
dovremmo cercare di apprezzare e coltivare quello che alcuni
psicologi femministi chiamano il sé relazionale: «Invece di pensare che
uno sviluppo sano si ottiene aumentando l’autonomia, la teoria
relazionale suggerisce che maturare significa confrontarsi con una
sempre maggiore complessità nelle relazioni» (Gomes-Kanner, 1995).
L’ecofilosofo Arne Naess sostiene parimenti che il processo di
maturazione psicologica implica lo sviluppo dell’identificazione con
gli altri, che consente al sé di abbracciare cerchi dell’essere sempre più
ampli fino a includere la grande comunità della Terra (Barrows 1995).
Questa espansione è anche un approfondirsi del sé. Gli
ecopsicologi sono infatti convinti che fulcro della nostra psiche sia il
cosiddetto “inconscio ecologico”. In qualche modo misterioso, questa
forma di inconscio collettivo contiene un archivio vivente del processo
evolutivo cosmico. Al contempo è caratterizzato dalla percezione di
una perdurante connessione con la Terra. Questa saggezza interiore,
nascosta nelle profondità della nostra psiche, ha guidato la nostra
evoluzione e ci ha consentito di sopravvivere. Roszak la definisce
«l’intelligenza unificata della specie, la sorgente dalla quale scaturisce
la cultura in quanto riflesso autocosciente di una sempre affiorante
mente della natura». La repressione dell’«inconscio ecologico è la vera
radice della complice follia che colpisce la società industriale». Al
contrario, «il libero accesso all’inconscio ecologico è la via per
raggiungere la salute mentale» (1992). Aprendo gli occhi sulla nostra
connessione con la Terra e tutti gli esseri viventi, apriamo gli occhi
anche su noi stessi.
Per rigenerare l’inconscio ecologico occorre un processo attraverso
cui recuperare «l’innata natura animistica dell’esperienza» tipica dei
bambini, cosicché «l’io ecologico» possa nascere a nuova vita. Quando
ciò si verifica, «l’io ecologico matura un senso di responsabilità etica
verso il pianeta» che «essa cerca di intrecciare [...] alla trama delle
relazioni sociali e delle decisioni politiche» (Roszak, 1992).
Per ampliare e approfondire questo senso del sé in espansione
dobbiamo migliorare la capacità di provare empatia e compassione.
Nelle parole di Warwick Fox, è lo sviluppo di una «identificazione di
stampo cosmologico» grazie alla quale «si ha la percezione vivida
dello schema complessivo delle cose, così da giungere a provare un
senso di comunanza con tutte le altre entità (che se ne abbia contatto
diretto o meno)» (W. Fox, 1990). Albert Einstein sembra riferirsi allo
stesso processo quando afferma:
[Gli esseri umani sono] parte di un tutto da noi chiamato “Universo”, una parte
limitata nel tempo e nello spazio. Facciamo esperienza [di noi stessi], dei [nostri]
pensieri e sentimenti come qualcosa di separato dal resto: una sorta di illusione ottica
della [nostra] coscienza. Quell’illusione è per noi come una prigione che ci rinchiude
nei nostri desideri individuali e nell’affetto per qualche persona a noi vicina. Il nostro
compito deve essere di liberarci da questa prigione ampliando il cerchio della
compassione, per abbracciare tutte le creature viventi e tutta la natura nella sua
bellezza.
(citato in Chang, 2006)
Potrà forse sembrare un compito troppo grande: la compassione e
l’interconnessione, tenute in grande considerazione dalle grandi
tradizioni spirituali di tutto il mondo, hanno ormai scarso valore nella
cultura del capitalismo competitivo. Molti ritengono che le moderne
società industriali della crescita siano caratterizzate da una sorta di
«Thanatos»30, ossia una morte dell’anima provocata dalla nostra
riluttanza a «oltrepassare i confini dell’individuo» per «paura della
disintegrazione personale» (Sliker, 1992). Il pensiero di dover allargare
i nostri confini o espandere il senso del sé può terrorizzare. Ma la
grande apertura generata dalla compassione dischiude anche l’energia
dell’Eros – l’abbraccio appassionato alla vita – e la bellezza e la
meraviglia del cosmo. Riconoscendo il nostro dipendere dagli altri,
dalla grande comunità terrestre e dal cosmo che la avvolge, «facciamo
in modo che la gratitudine e il senso di reciprocità fluiscano
liberamente e spontaneamente» (Gomes-Kenner, 1995). Liberiamo così
una nuova energia, un fuoco che ci può ispirare e sostenere nella lotta
per salvare il mondo.
Bellezza, meraviglia e compassione
Certamente è una prospettiva stimolante, ma come possiamo
concretizzarla? Bisogna tenere a mente che la nozione della profonda
connessione con la Terra e i suoi processi evolutivi è già presente in
noi grazie all’inconscio ecologico. Non dev’essere creata ex nihilo:
piuttosto, va risvegliata attraverso un processo che ne riporti alla
coscienza la memoria profonda. Questo risveglio dev’essere
alimentato dall’amore, dalla bellezza e dalla meraviglia: forze che ci
aprono alla parte migliore di noi.
A tale proposito l’ecopsicologia richiama l’attenzione su un aspetto
di vitale importanza per chi opera per una liberazione totale e per la
guarigione del pianeta. Se si parte dal presupposto che le persone
sono avide e incivili per natura, oppure stupide e autodistruttive, i
discorsi e gli atteggiamenti non potranno che essere sprezzanti,
dispotici e autoritari. Si cominceranno a usare gli stessi strumenti del
potere-su, che rende impotente chi invece si dovrebbe motivare
all’azione.
Tra gli strumenti autoritari, la colpa e la vergogna sono certamente
i più pericolosi. Molti di noi, nel profondo del cuore, si sentono
sicuramente in colpa per lo stato in cui si trova il mondo e per essere
in parte responsabili di questa situazione. È naturale, ed entro certi
limiti può anche essere salutare. Ma incoraggiare il senso di colpa,
tentare di traumatizzare e far provare vergogna per indurre all’azione
è controproducente: «La vergogna è tra le spinte più aleatorie della
politica, e troppo facilmente scivola nel risentimento. Mettete in
discussione l’intero stile di vita di qualcuno e tutto quello che
riuscirete a ottenere sarà una rigida posizione difensiva» (Roszak,
1995). La vergogna ci chiude in noi stessi, ci paralizza. Sentirsi in colpa
aumenta la percezione della disarmonia, e questo porta a un maggiore
isolamento, all’alienazione e alla negazione.
Far leva sul senso di colpa può avere anche altri pericolosi effetti
collaterali. Secondo Roszak, «la politica autoritaria si radica nella
coscienza della colpa», che nasce quando si «convincono le persone a
non fidarsi l’una dell’altra, a non fidarsi di se stesse» (1992). In modo
simile, Roger Walsh afferma:
La colpa cerca sempre qualcuno da condannare e non fa particolare attenzione a
chi sia. Se si tratta di noi stessi, ci condanniamo e ci denigriamo, con ciò esacerbando
l’indegnità e l’inadeguatezza che aveva dato inizio all’intero problema. Se sono gli
altri, cerchiamo qualcuno che faccia da capro espiatorio. Tra queste persone
potrebbero essere comprese le vittime stesse.
(1984 [1991, p. 159])
Secondo l’ecopsicologia dovremmo invece partire dal presupposto
che le persone sono fondamentalmente sensibili e compassionevoli.
Nel profondo, tutti noi amiamo il mondo e le creature che lo abitano.
Siamo tutti capaci di farci commuovere dalla sua bellezza, siamo tutti
capaci di provare stupore e venerazione. Partendo da questo punto
fermo si possono introdurre le persone al potere che risiede nel
profondo di se stesse e intorno a esse, il misterioso Tao che scorre
attraverso tutto e in tutto.
Se riusciremo ad «ampliare il cerchio della compassione» e a
espandere il senso del sé, non avremo bisogno di motivazioni esterne
per agire. Come osserva Arne Naess, «il voler bene viene naturale se il
“sé” viene ampliato e approfondito. [...] Come non occorre una morale
per respirare [...] così, se il “sé” amplificato abbraccia un altro essere,
non c’è bisogno di un’esortazione morale per volergli bene» (citato in
W. Fox, 1990).
Quando il nostro agire è radicato nel sé espansivo ed ecologico, il
“dovere” morale associato alla colpa e alla vergogna diviene
superfluo. L’amore e la bellezza, più che l’obbligo, diventano il
fondamento dell’azione: un’idea da sempre tramandata dalle grandi
tradizioni spirituali di tutto il mondo. La preghiera del “Sentiero della
Bellezza” del popolo navajo, negli Stati Uniti sudoccidentali,
esemplifica questa visione dell’etica: «I miei pensieri saranno belli, le
mie parole saranno belle, le mie azioni saranno belle, percorrerò la
mia vita lungo il Sentiero della Bellezza». Espandendo il nostro senso
del sé fino a includere la bellezza intorno a noi e ad armonizzarci con
essa, diventiamo noi stessi parte di questa bellezza in continua
evoluzione.
Vivere un sé ampliato – che comprende l’inconscio ecologico –
genera inoltre un senso di appagamento che libera dalla rete di
inadeguatezza, negazione, dipendenza e disperazione che ci
intrappola. Ciò vale in particolare per la dipendenza dal consumo:
man mano che cresce il sé ecologico, al vuoto del sé consumistico si
sostituisce un senso di sempre maggiore soddisfazione e integrazione.
La brama infinita di possesso cessa nel momento in cui il vuoto del
nostro essere è finalmente colmato. Il rituale dello shopping perpetuo
può essere sostituito da attività più gratificanti come costruire la
comunità, impegnarsi in imprese artistiche, contemplare la bellezza
della natura. Quando facciamo questo salto, si liberano nuove energie
da dedicare a combattere l’ingiustizia e a guarire il pianeta.
Dalla paralisi alla riconnessione
Abbiamo creato una situazione mondiale che sembra richiedere
una maturazione psicologica e sociale senza precedenti per la
nostra sopravvivenza. [...] Dal momento che richiede maggiore
sviluppo e maggiore maturazione da parte nostra, la crisi globale
può quindi funzionare da catalizzatore evolutivo. La necessità
può essere la madre non solo dell’invenzione, ma anche dell’evoluzione.
Questo ci dà una visione totalmente diversa della nostra situazione.
Pertanto da questa prospettiva la nostra attuale crisi può essere
vista non come un disastro totale ma come una sfida evolutiva,
non tanto come uno strattone verso la regressione e l’estinzione,
ma come una spinta verso nuove vette evolutive. [...] Questa
prospettiva ci dà sia una visione del futuro sia un motivo
per lavorare in quella direzione.
(Walsh, 1984 [1991, pp. 167-169])
La crisi vissuta dal nostro pianeta sicuramente richiede una
maturazione psicologica collettiva, un nuovo modo di essere umani
nel mondo. L’ecopsicologia ci fornisce alcuni spunti su cosa dovrebbe
contenere questa nuova modalità d’essere umani, ci presenta una
concezione della vita in contatto con il potere della bellezza, dello
stupore, del rispetto e della compassione, ripristinando i vincoli
comunitari tra noi, con le altre creature e con l’intero cosmo. In che
modo mettere in pratica questa visione?
Non esistono ricette facili. Ci sono ostacoli molto concreti a
impedire il cammino verso la trasformazione. Fin qui abbiamo
esaminato in che modo le dinamiche dell’oppressione interiorizzata,
della negazione, delle dipendenze e della disperazione ci ostacolano e
come i sistemi di dominio rafforzano tali dinamiche per perpetuare la
paralisi collettiva. Nell’approcciarci a una nuova visione e a un nuovo
modo d’essere nel mondo, dobbiamo quindi chiederci come possiamo
liberarci da queste trappole. Dobbiamo anche domandarci cosa fare
per aprirci a nuove sorgenti di potere e liberare le energie necessarie
all’azione trasformatrice. Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo,
esamineremo i processi utili a liberarci dalle forze che ci intrappolano
e a riconnetterci con il potere creativo del Tao.
Un primo processo riguarda lo sviluppo della nostra
consapevolezza. Essere consapevoli significa aprirsi alla realtà, una
realtà che contiene bellezza e gioia ma anche paura e dolore. Si
potrebbe partire da quegli aspetti della realtà che più facilmente
favoriscono l’apertura: l’esperienza della bellezza, dello stupore e
della devozione. Quando le barriere che sono dentro di noi
cominciano a dissolversi, possiamo far affiorare alla coscienza la realtà
della disarmonia, ossia che la bellezza è stata infangata, che
abbondano le sofferenze gratuite, che le cose non sono come
dovrebbero o potrebbero essere.
Riconoscere e analizzare le reazioni emotive, in particolare quella
legata alla realtà del dolore, è un altro processo di cruciale importanza
per riconnettersi al potere autentico. Come rileva Joanna Macy,
provare dolore per la nostra condizione è naturale e salutare; è
morboso o disfunzionale solo se lo neghiamo o lo reprimiamo.
Reprimere richiede un’energia inaudita: succhia via la nostra vitalità e
intorpidisce la mente e lo spirito. Sbloccando ed esprimendo il dolore,
sblocchiamo anche l’energia del potere-dall’interno. Condividere ed
esprimere il dolore aiuta inoltre a mettersi in connessione con gli altri
e con l’intera rete della vita, e a far nascere il potere-con (Macy, 1995).
Scavando più a fondo nel nostro comune dolore, ci apriamo
all’interconnessione profonda che ci lega alle persone, agli esseri
viventi, alla Terra e al cosmo intero. Possiamo a quel punto cercare un
modo per ampliare la compassione e costruire la comunità e la
solidarietà. Così facendo ci si avvia anche a una comprensione più
profonda della propria condizione e alla ricerca di nuove fonti di
saggezza che indirizzino l’agire. Approfondendo la compassione e
costruendo la comunità, si può imparare a concentrare l’attenzione e a
usare l’energia in modo più efficace. Si può individuare poi una nuova
visione e uno scopo che guidino e spronino alla lotta per risanare la
comunità terrestre.
Quando esamineremo più a fondo questi processi nei seguenti
sottoparagrafi, ci accorgeremo che essi sono in realtà parti
complementari di un unico, grande processo di riconnessione con il
potere. Non vanno intesi in maniera lineare: non si tratta di
intraprenderne uno, poi un altro in sequenza. Bisogna al contrario
intraprenderli tutti come in una spirale che va sempre più a fondo. È
però utile dare un nome a questi processi ed esaminarli
singolarmente. Si comincerà così a vedere con più chiarezza come
possiamo vincere la paralisi e connetterci con il Tao della liberazione.
Il risveglio attraverso la bellezza
Parlare di bellezza [...] non è un mero esercizio di estetica o un
farfugliamento sull’ineffabile. È un bisogno vitale e impellente,
assolutamente rilevante ai fini della possibilità di sopravvivenza,
quantomeno di una sopravvivenza dignitosa e umana. Non possiamo
quindi che concordare con Platone, il quale nella Repubblica
afferma che «scopo dell’educazione è insegnarci ad amare la bellezza».
(Ferrucci, 1982)
Come vincere il torpore psichico indotto dall’oppressione
interiorizzata, dalla negazione, dalla dipendenza e dalla disperazione?
Lo psicologo James Hillman (1996 [2013]) suggerisce che dovremmo
innanzitutto risvegliare l’anima attraverso la bellezza e il piacere.
Recuperando il nostro senso estetico, potremo ritrovare anche la
sensualità e dissolvere i confini che ci separano dagli altri esseri. Come
rileva Laura Sewall, cominceremo a quel punto «a interessarci a ciò
che vediamo e, si spera, ad amare il mondo materiale, la nostra Terra.
Poiché l’amore modifica i nostri comportamenti, potrebbe essere
cruciale per la salvaguardia del pianeta onorare l’esperienza sensuale
e sensoriale» (1995). In ultima analisi, risvegliare i sensi e riavvicinarsi
alla bellezza aiuta a modificare la percezione della realtà. Ci si
affranca così dai confini intorpidenti dell’ego per avvicinarsi a
un’esperienza aperta e consapevole del mondo.
Fulcro di questo processo è l’acquisizione di nuovi livelli di
consapevolezza. Il silenzio e la solitudine possono aiutare: serve
tempo per fermarsi, ascoltare il proprio respiro, diventare consapevoli
del proprio corpo e delle sensazioni che si provano. In questo modo
sviluppiamo una maggiore coscienza. Per chi è preso da attività
frenetiche, è importante prendersi del tempo per essere,
semplicemente, senza una tabella di marcia prestabilita.
Come ci ricorda il monaco buddhista Thích Nhât Hanh (1997),
anche i gesti semplici – lavare i piatti, pulire casa, bere una tazza di tè
o camminare – possono essere un’occasione per meditare, se ci si
concentra su ciò che si fa invece che sui pensieri che si affollano nella
mente. Non è un processo facile, eppure poco a poco si impara a
focalizzare la consapevolezza al di fuori della prigione dell’ego e ad
ampliare il senso del sé. All’inizio questa maggiore consapevolezza
potrebbe limitarsi al corpo e alle proprie sensazioni, ma lentamente si
potrà espanderla fino ad abbracciare cerchi sempre più ampi del
mondo che ci circonda.
A livello pratico, un esercizio interessante è riflettere sulle cose che
davvero ci rallegrano e ci danno piacere. Ci si renderà conto che la
maggior parte di queste cose costa poco o nulla: stare con gli amici,
passeggiare all’aria aperta, ascoltare musica, gustare un semplice
pasto. Questo fa capire innanzitutto quanto è discutibile il
consumismo come via verso l’autentica felicità. Quello che ci dà gioia
si può trovare anche in uno stile di vita semplice. Anzi, se quello stile
di vita contempla più tempo libero, può offrire anche più occasioni
per provare il piacere autentico.
Tuttavia, ancor più importante è che le attività che ci danno gioia e
ci rendono felici costituiscono una sorta di “varco verso la devozione”.
Poiché è più facile prestare attenzione a qualcosa che si ama, ogni
volta che ci impegniamo in qualcosa che ci piace possiamo fare uno
sforzo cosciente per esercitare la consapevolezza. Questo aiuterà a
essere attenti anche negli altri settori della vita. Dovremmo sforzarci
di dedicare più tempo a queste attività, perché donano gioia e
rinnovano lo spirito (e possono anche indirizzarci verso uno stile di
vita più sostenibile).
Anche fare esperienza della natura è fondamentale per espandere
la consapevolezza e sviluppare la coscienza. Impiegare del tempo per
passeggiare in un bosco o vicino a un fiume o sulla spiaggia ritempra
straordinariamente lo spirito. Aprendoci al suono degli uccelli, del
vento tra gli alberi e dello scorrere dell’acqua il nostro senso del sé si
può espandere oltre i confini dell’ego. Quando contempliamo la
bellezza di un fiore, la scintillante danza del sole sull’acqua, la soffice
sensazione dell’erba sui piedi nudi, ci rendiamo disponibili alla
comunione con tutti gli esseri viventi.
Per alcuni riprendere il contatto con il mondo naturale può essere
un’impresa non da poco. È difficile in particolare per chi vive nei
quartieri poveri delle grandi città. Eppure anche in questi casi le
possibilità ci sono. Alcune comunità, ad esempio, hanno cominciato a
coltivare dei giardini comunitari nei terreni abbandonati. Sono
iniziative che portano benefici straordinari: creano spazi in cui riunirsi
per lavorare insieme ed entrare dunque in relazione; producono cibo
sano che integra e arricchisce l’alimentazione di queste persone;
danno l’opportunità di stabilire un contatto diretto, sensoriale e
salutare per l’anima con la terra, i semi e le piante. Esistono altri
progetti altrettanto benefici, come il ripristino degli spartiacque locali
o la coltivazione degli alberi di quartiere.
Riconnettendoci alla bellezza, in particolare quella del territorio in
cui abitiamo, cominciamo anche a superare l’alienazione spaziale, il
senso di sradicamento. Ci si potrebbe a questo scopo impegnare per
migliorare l’”alfabetizzazione rurale”, imparando a riconoscere le
specie autoctone, studiando la geografia locale e cercando di
comprenderne l’interrelazione all’interno dell’ecosistema locale.
Questi processi ci aiutano a ritrovare il senso del nostro essere
“indigeni” di un luogo, indipendentemente dal fatto che vi siamo nati
o meno. Non penseremo più di “possedere” la terra ma ci sentiremo
parte di essa; cominceremo anzi a pensare che siamo noi ad
appartenere a essa. Scopo di queste attività è sviluppare la querencia,
una parola spagnola che secondo la definizione di Kirkpatrick Sale
identifica «un profondo senso di benessere interiore derivante dal
conoscere un luogo ben preciso della Terra, i suoi cicli quotidiani e
stagionali, i suoi frutti e i suoi profumi, il suo suolo e i suoi canti
d’uccello. Un posto in cui, in qualsiasi momento si ritorna, dall’anima
si leva un sospiro interiore di identificazione e di riconoscimento»
(2001).
Quando si approfondisce la consapevolezza, si espande la
percezione e si ristabilisce il contatto con un luogo, si comincia anche a
provare profondo rispetto e amore per la Terra e le sue creature. Nel
lessico dell’ecopsicologia, si sviluppa il sé ecologico. Si comincia allora
a prendersi cura di tutte le forme viventi spontaneamente, non per un
“dovere” morale ma spinti dall’amore. Scrive Sewall:
Se è alimentata dalla bellezza e dalla sensualità, la nostra relazione con il mondo
visibile può smuovere il nostro cuore. Quando il mondo visibile diventa cosciente e
vitale, lo possiamo percepire fin nel nostro corpo. Così, il mondo sensoriale si incarna
dentro di noi: è una relazione viscerale, l’esperienza soggettiva diventa carnale. Ci
innamoriamo. Partecipare in questa maniera è essenziale per potersi prendere cura
della Terra: dobbiamo vederla «con gli occhi dell’amore».
(1995)
Elaborazione della disperazione e opera di potenziamento
Come la bellezza e il piacere inducono in noi un senso di maggiore
interconnessione, altrettanto può fare l’analisi delle emozioni associate
all’attuale condizione di crisi, soprattutto il dolore e la paura. Come
già rilevato, la paura è in larga parte sottesa all’oppressione
interiorizzata, alla negazione, alla disperazione e alle dipendenze.
Anche il dolore gioca un ruolo importante, poiché la paura è in larga
misura paura del dolore: il dolore che proviamo oggi e il dolore che
potremmo provare in futuro, il nostro dolore e quello delle persone
che amiamo. L’impotenza arriva quando cerchiamo di sfuggire alla
paura attraverso l’avversione, le dipendenze e l’illusione. Il dolore è
però un’emozione talmente forte da riportarci alla realtà e costringerci
a riconoscere le nostre paure. Questo crea nuove opportunità per
crescere. Scrive Walsh:
Le minacce senza precedenti di oggi possono forse richiamarci a una vita più
attenta e ad un contributo maggiore. Se decidiamo di permetterglielo, potrebbero far
crollare le nostre difese e aiutare a confrontarci con la vera condizione del mondo e il
nostro ruolo nel crearlo. Potrebbero richiamarci ad esaminare la nostra vita e i nostri
valori con un’urgenza e una profondità nuove e ad aprirci pienamente, forse per la
prima volta, alle questioni fondamentali della nostra esistenza.
(1984 [1991, p. 160])
Riconoscendo ed esperendo le emozioni si edifica il senso della
solidarietà e della comunità, si sbloccano le energie represse, si
acquisisce maggiore lucidità e ci si prefigge uno scopo. Insomma,
analizzare il dolore e la paura risveglia lo spirito e offre nuove risorse
da incanalare nella lotta per la trasformazione.
Come suggerisce Joanna Macy, dobbiamo avviare una
«elaborazione della disperazione e un’opera di potenziamento» (o
«un’elaborazione che ci rimette in connessione») che è simile
all’elaborazione del lutto di chi ha subito una perdita:
Come l’elaborazione del lutto è il processo attraverso il quale si sbloccano le
energie intorpidite riconoscendo la perdita di una persona cara e addolorandosi per
essa, così tutti noi dobbiamo sbloccare i nostri sentimenti per il pianeta minacciato e
la possibile scomparsa della nostra specie. Fino a quando non lo faremo, il nostro
potere di immaginare una reazione creativa rimarrà bloccato.
(1983)
Macy individua diverse fasi dell’elaborazione della disperazione e
dell’opera di potenziamento. La prima è il riconoscimento del dolore e
della paura. Come già evidenziato, il dolore è morboso solo se è
negato. Anche il potere paralizzante della paura è amplificato se essa
rimane inespressa. Occorre dunque riabilitare la paura e il dolore,
riconoscendo che è naturale e sano provare queste emozioni. Come
rileva Macy, «per la prima volta nella storia contempliamo la
possibilità della morte della nostra specie. Guardare in faccia la
disperazione e l’angoscia per il mondo costituisce una sorta di rito
iniziatico necessario alla nostra crescita, al compimento di quella
promessa che è dentro di noi» (1983).
Una volta riconosciuti il dolore e la paura, si dovrà trovare il
coraggio di provare fino in fondo queste emozioni. Non basta ricevere
delle informazioni: molti di noi già sanno che siamo in pericolo e che il
nostro futuro è minacciato. Abbiamo però difficoltà ad ammetterlo per
paura di sentirci vulnerabili o disperati. Per andare oltre la paralisi
bisogna abbassare le difese e partecipare al flusso del dolore,
permettendo a noi stessi di esprimerlo. Questo implica un processo di
“disintegrazione positiva” attraverso il quale impariamo ad
abbandonare difese e modi d’essere ormai superati. L’arte, il
movimento o il rituale possono favorire questa pratica del lamento.
Aprendosi al flusso delle emozioni, si potranno attraversare queste
ultime fino a quando non se ne raggiungerà la sorgente autentica. Il
dolore e persino la disperazione sono infatti radicati nella
compassione, nella capacità di con-patire:
Dove si colloca, dunque, la disperazione? E perché il nostro dolore per il mondo è
così importante? Perché queste reazioni manifestano il nostro essere interconnessi. Il
sentimento delle afflizioni sociali e planetarie è un varco verso una coscienza sociale
sistemica. Per usare una metafora, è un sorta di “arto fantasma”: come una persona
amputata continua a sentire prurito e fitte all’arto reciso, così noi proviamo dolore in
quelle estremità di noi stessi – il nostro corpo – di cui dobbiamo ancora diventare
pienamente coscienti.
(Macy, 1983)
Anche la paura affonda le radici nell’amore: abbiamo paura di
veder soffrire o morire ciò a cui teniamo. Sbloccando i sentimenti
repressi si libera l’energia: «Quando superiamo i vecchi tabù e le
reazioni condizionate, cominciamo ad avvertire la promessa che è
dentro di noi. Sentiamo schiudersi nuove possibilità. Siamo come
organismi che si risvegliano dal sonno: stendiamo un braccio,
pieghiamo una gamba, emettiamo dei suoni» (Macy, 1983). Si tratta in
un certo senso di un processo catartico, eppure è anche qualcosa di
più:
Presentare l’elaborazione della disperazione e l’opera di potenziamento come una
semplice catarsi equivarrebbe a dire che, dopo aver ripreso possesso e condiviso le
nostre emozioni per la sofferenza generale e il possibile annientamento di massa,
potremmo andarcene via purgati dal dolore per il mondo. Non è possibile né è
adeguato ai nostri bisogni, dal momento che ogni giorno ci sono notizie che causano
nuovo dolore. Riconoscendo la capacità di patire con il mondo, ci apriamo invece a
nuove dimensioni dell’essere. Dove il dolore c’è ancora, ma c’è anche molto altro. C’è
meraviglia e persino gioia nel constatare il nostro reciproco appartenerci. E c’è anche
una nuova forma di potere.
(Macy, 1983)
La fase finale di questo processo consiste dunque nel recuperare il
potere dell’interconnessione. Sbloccando il nostro dolore e
riconoscendo le nostre paure, ci apriamo nuovamente alla grande rete
vivente di cui facciamo parte. Siamo liberi di allontanarci dal guscio
soffocante costituito dall’illusione dell’ego e di riconnetterci con il
potere del Tao che scorre attraverso tutte le cose.
Possiamo quindi considerare l’elaborazione della disperazione e
l’opera di potenziamento come una strada ulteriore per acquisire una
maggiore consapevolezza e non farci «schiacciare dal terrore, dalla
pena, dalla rabbia e dal senso di impotenza» che il dolore e la paura
generano in noi (Macy, 1983). In realtà l’elaborazione della
disperazione e il risveglio attraverso la bellezza sono complementari.
Ricongiungerci alla bellezza può rafforzarci e darci il coraggio per
affrontare il dolore. D’altra parte, proprio il dolore è alla radice
dell’amore e della compassione per la rete della vita che è intorno a
noi. Combinati insieme, questi processi sono senza dubbio più potenti
ed efficaci di quanto lo sarebbero se invece fossero separati.
Coltivare la compassione
Insieme all’ampliamento della consapevolezza, l’elaborazione
della disperazione e il risveglio attraverso la bellezza mirano
entrambe a coltivare e accrescere la capacità di provare compassione.
La compassione comporta un’espansione del sé oltre l’ego in modo
che l’aver cura fluisca da un’estensione naturale del nostro stesso
essere. Essere realmente compassionevoli significa identificarsi con gli
altri e anzi con l’intera rete della vita. La compassione ci consente
quindi di fare esperienza dell’interconnessione.
Spesso si pensa che la compassione sia soltanto l’identificazione
con le sofferenze degli altri; in realtà essa implica anche la
condivisione della gioia, del piacere e dell’estasi. La bellezza ci fa
uscire da noi stessi e ci spinge a sviluppare la sensibilità e la
consapevolezza. Siamo stimolati a provare devozione, meraviglia e
rispetto: tutti aspetti fondamentali per la coscienza ecologica
dell’interconnessione.
Di norma non si associano la compassione e la consapevolezza al
potere, probabilmente perché si pensa a esso in termini di dominio (o
potere-su) e la compassione può addirittura sembrare una debolezza.
La sinergia del potere-con, al contrario, poggia proprio sulla
consapevolezza e sull’interconnessione. Esso «richiede attenzione
all’ambiente fisico e mentale circostante e prontezza di riflessi nel
cogliere le reazioni proprie e altrui. È la capacità di agire in modo da
aumentare la partecipazione totale e consapevole alla vita» (Macy,
1995). Man mano che potenziamo la compassione e la consapevolezza
ci riconnettiamo e recuperiamo il nostro potere di agire di concerto
con gli altri. Non a caso Michael Lerner afferma che compito
fondamentale di una psicologia di massa dell’empowerment dovrebbe
essere quello di stimolare la compassione (1986).
Coltivare la compassione è un processo, anzi un percorso di vita.
Risvegliando i sensi attraverso la bellezza e il piacere e facendo
esperienza della paura e del dolore si sviluppa la compassione per se
stessi e per gli altri. Prestare attenzione all’esperienza del corpo può
inoltre liberare le facoltà intuitive, aumentare la sensibilità, espandere
i propri limiti al di là dell’ego e mettere in contatto con nuove fonti di
potere. Anche le attività creative possono connetterci con il nostro
potere-dall’interno, dandoci la forza interiore di abbandonare le difese
che ci isolano e di espandere noi stessi al di là dei confini dell’ego.
Una volta alimentata la compassione, si potranno raggiungere
nuovi livelli di coscienza neutralizzando gli effetti limitanti
dell’impotenza interiorizzata. Si potrà allora cogliere intuitivamente la
natura della realtà e la fondamentale connessione tra tutte le cose e
tutti gli esseri.
Costruire la comunità e la solidarietà
Non si può però coltivare la compassione e la consapevolezza
isolandosi dagli altri. La compassione è autentica solo se
l’interconnessione diventa una realtà vitale grazie alla comunità e alla
solidarietà. Non possiamo sperare di trasformare il nostro modo
d’essere umani nel mondo senza il sostegno e lo stimolo di altre
persone che condividono lo stesso percorso. Inoltre, il potere-con
necessario per modificare strutture e atteggiamenti si può esercitare
solo di concerto con gli altri.
Va peraltro ricordato che numerosi meccanismi usati dal sistema
dominante per rafforzare l’impotenza mirano proprio a isolarci gli uni
dagli altri e a inibire lo sviluppo del potere-con, come già evidenziato
a proposito dell’impatto dei mass media. Allo stesso tempo le
dipendenze come quella dal consumo servono a placare il bisogno di
relazioni umane e di comunità con dei falsi surrogati. Costruire la
comunità e il senso di solidarietà riduce quindi l’impotenza
interiorizzata perché allevia il bisogno di comportamenti dipendenti e
ci libera dalla mutilante prigione dell’isolamento.
Lerner (1986) segnala tuttavia che formare una comunità non deve
significare ritornare alle strutture del passato, come le famiglie
disfunzionali che tante ferite hanno procurato. Per essere veramente
liberatrice, la comunità non deve fondarsi su relazioni oppressive né
su diversi gradi di potere e di rispetto. Serve una nuova forma di
comunità, basata sulla reciprocità e sul comune impegno alla crescita e
all’azione trasformatrice.
Come afferma Marcia Nozick, questo tipo di comunità è un
elemento fondamentale della riscoperta del potere individuale. Se è
vero che la conoscenza di sé è essenziale per lo sviluppo del potere-
dall’interno, è altrettanto vero che tale conoscenza «di rado emerge
nell’isolamento, ed è invece di solito innescata da un processo
interattivo di identificazione con gli altri all’interno di un percorso
comune. Chi ha la stessa visione e vive una situazione analoga alla
nostra diventa uno specchio che restituisce l’immagine di ciò che
siamo e di ciò che potremmo diventare». La comunità è quindi
essenziale per «mettere in pratica le nostre facoltà di agire e realizzare
il cambiamento nella nostra vita» (1992).
Per essere davvero liberatrice e favorire l’empowerment, la comunità
deve anche aiutarci a coltivare e praticare la compassione. Lerner da
par suo afferma che bisogna imparare a essere compassionevoli
innanzitutto con se stessi, perché sforzarsi di cambiare implica
«commettere degli errori. Scopo della compassione dev’essere
prendere atto di questo, combattere lo sconforto e accettare i limiti
della propria trascendenza senza smettere di provare a superarli».
Dobbiamo anche imparare a perdonare chi ci circonda e ad accettarne
gli errori. Questo ci impone di «conoscere e riconoscere nel dettaglio le
esperienze di vita di ciascuno e di giungere a una comprensione
profonda dell’influenza dell’ambiente sociale, economico e politico su
quelle esperienze» (Lerner, 1986).
La comunità e la solidarietà sono quindi impegnative. Ma sono di
cruciale importanza se vogliamo crescere e cambiare, se vogliamo
davvero guarire dalla patologia che ci affligge e ci rende impotenti.
Secondo Roszak, «la strada per guarire dalla nostra complice follia
non può [...] essere quella della terapia individuale. Non abbiamo né il
tempo né gli strumenti medici per riporre le nostre speranze in questa
strategia» (1992). Dev’essere la comunità il contesto all’interno del
quale cerchiamo di guarire e di stimolarci l’un l’altro ad acquisire
nuovi modi di essere.
Coltivare la volontà
Una volta che si comincia a recuperare il potere e a riconnettersi
con esso, come lo si può incanalare e rendere efficace? Possono essere
utili al riguardo le intuizioni psicologiche di Roberto Assagioli,
fondatore della psicosintesi. Di particolare interesse in questa sede è la
sua idea di volontà.
Il ruolo della volontà è spesso frainteso e sottovalutato perché
viene scambiato con l’idea vittoriana della forza di volontà: la volontà
non va confusa con una rigida autolimitazione o con un inutile e
faticoso ricorso alla forza bruta. Nella visione di Assagioli, la vera
funzione della volontà è indirizzare, non imporre. La volontà può
talvolta comportare uno sforzo, ma è uno sforzo simile a quello
richiesto per guidare un veicolo, non per spingerlo su per una ripida
collina (Ferrucci, 1982).
Potenziare la volontà ci consente di agire liberamente in accordo
con la nostra natura più profonda invece che spinti da una pulsione
esterna (Sliker, 1992), e questo ci fa riconnettere con il nostro potere-
dall’interno. Fulcro delle tecniche descritte da Assagioli per coltivare
la volontà è lo sviluppo della concentrazione. Piero Ferrucci, uno degli
allievi più autorevoli di Assagioli, cita il filosofo Hermann Keyserling
per spiegare perché la concentrazione è così importante:
La capacità di concentrazione è la forza propulsiva di tutto il meccanismo
psichico. Niente migliora la capacità di azione quanto il suo sviluppo. Qualsiasi
successo, in qualsiasi ambito, si può spiegare con l’uso intelligente di questa capacità.
Nessun ostacolo può frapporsi in modo permanente all’eccezionale potere della
concentrazione massima.
(citato in Ferrucci, 1982)
Imparare a concentrarsi, a focalizzare l’attenzione, è dunque il
primo passo per coltivare la volontà e recuperare il potere di agire. È
importante ricordare che la concentrazione è in sostanza una forma
mirata di attenzione e di consapevolezza. Come abbiamo visto, la
capacità di attenzione è anche il fulcro della compassione: essa ci
consente di espandere la nostra capacità di identificazione e di
abbracciare cerchi dell’essere sempre più ampli. Lo sviluppo della
volontà può dunque aiutarci ad approfondire il senso
dell’interconnessione con gli altri, e quindi la capacità di esercitare il
potere di concerto con gli altri.
Recuperare la visione e la finalità
Roberto Assagioli (1965 [1966]) individua cinque fasi nel processo
attraverso cui si esercita la volontà. Innanzitutto occorre definire un
obiettivo o una motivazione verso cui orientarsi, una visione che ci
ispiri e ci illumini. Solo allora si potrà passare alle altre fasi:
deliberazione (o discernimento), affermazione, pianificazione e
controllo dell’esecuzione del piano.
Cruciale nell’intero processo di esercizio della volontà e del potere
è la presenza di una visione e di una finalità ben definite. Se non si sa
in quale direzione muoversi si rimane paralizzati. Come spiega
Meredith Young-Sowers:
Se non abbiamo una visione, il nostro corpo e il corpo del pianeta non capiscono
se accettiamo o meno l’attuale stato di depressione, afflizione, malattia e
annientamento. Senza una visione, le energie interiori del nostro corpo e le emozioni
rimangono in sordina, e cominciano a resistere al movimento e al cambiamento. [...]
La paura nasce dal non avere un piano o una storia interiore che ci diano speranza. In
poche parole, una visione.
(1993)
David Korten insiste su questo punto. A suo avviso, molti di noi
hanno già un’idea abbastanza precisa dei cambiamenti indispensabili
per sopravvivere come specie e garantire l’integrità della biosfera.
Eppure «scongiurare l’estinzione non è una ragione sufficiente per
indurci a compiere i difficili cambiamenti che sono richiesti». Per
poter «fare una scelta di vita, serve una visione coerente che prospetti
nuove possibilità dotate di senso» (1995).
Abbiamo già provato a delineare per sommi capi questo tipo di
visione. Sicuramente essa dovrà comprendere un sistema economico
che promuova uno stile di vita semplice e dignitoso e che rispetti e si
prenda cura della “grande economia”, ossia la Terra e la sua rete della
vita. Dovrà inoltre prevedere nuove modalità di relazione tra gli
uomini e tra questi e tutti gli esseri che convivono con loro sul pianeta,
modalità che si allontanino dal patriarcato e dall’antropocentrismo
per orientarsi verso un nuovo modo di esercitare il potere creativo, in
armonia con il Tao. Questa visione dovrà anche aiutare a superare la
paralisi generata dall’oppressione interiorizzata, dalla negazione,
dalla disperazione e dalle dipendenze. Essa implicherà altresì
l’abbandono della nostra ecopsicosi e l’espansione del senso del sé
grazie a una nuova concezione dell’interconnessione e della
compassione.
Infine, fondamento di questa nuova visione deve essere una nuova
comprensione della realtà e una nuova concezione del posto che
l’umanità occupa all’interno del cosmo: sarà dunque richiesta una
cosmologia vivente e vitale. Scrive Jim Conlon:
Nella nostra psiche vi è creatività quando la nostra coscienza non è più
umanocentrica ma creatocentrica. Tale atto di creatività è una sorta di resurrezione
della psiche. Rende possibile il misticismo e ci salva da una visione del mondo
antropocentrica. Otto Rank, un collega di Freud, scriveva: «Quando la religione ha
perduto il cosmo, [l’umanità] è diventata nevrotica e ha inventato la psicologia…».
Il dottor Stanislav Grof, il profetico psichiatra autore del volume La mente
olotropica, vede la psiche come coestensiva all’universo. Il contesto della guarigione
diviene dunque il cosmo, non la persona. Ci rendiamo conto che noi siamo nel cosmo
e che il cosmo è in noi. La psiche non è un oggetto da sondare e analizzare: piuttosto,
è una fonte di meraviglia, di sacralità e di celebrazione.
(1994)
Nei capitoli seguenti esamineremo le nuove idee cosmologiche che
si fanno strada a partire dalla scienza moderna. Ci affacceremo così a
nuove, sorprendenti intuizioni sulla natura dell’universo e della
trasformazione. Ne risulterà un più profondo senso della finalità ed
emergeranno le linee guida di una visione organica che ci stimoli a
intraprendere un’autentica trasformazione.
21 David Suzuki e Peter Knudtson (1992), per esempio, rilevano: «Un gruppo di nativi
della Columbia Britannica ha tradotto la parola che nella loro lingua è la più prossima al
concetto occidentale di “risorse naturali” con questa brillante espressione: “Afferrare il
manico dell’intera Vita”. Per una società aborigena – passata o presente – con un’etica e un
vocabolario visceralmente legati al mondo naturale, i tentativi di avviare uno sviluppo
economico delle terre tribali sacre potrebbe rappresentare un processo molto più doloroso e
introspettivo di quanto non lo sia stato storicamente per l’Occidente».
22 Un esempio interessante di questo “tenere le cose lontano dagli occhi” è il
disboscamento delle foreste della British Columbia, in Canada: le compagnie forestali e il
governo hanno creato dei “corridoi scenografici” lungo le principali arterie stradali per
nascondere la devastazione. Solo percorrendo le strade secondarie o sorvolando la provincia
si può notare fino a che punto è giunta la deforestazione.
23 Nel 2006 il mercato USA era controllato da otto colossi mediatici, tre dei quali sono
“new media”: Yahoo, Microsoft e Google. Le altre cinque corporation in cima alla classifica
erano: Disney (ABC), AOL-Time Warner (CNN), Viacom (CBS), General Electric (NBC) e
News Corporation (FOX). Quasi tutte sono realtà molto potenti anche a livello globale.
24 La frammentazione della conoscenza avviene anche in altri ambiti: si ravvisa ad
esempio nel culto della specializzazione ormai diffuso ovunque, dalla scienza alla politica,
che impedisce di integrare tra loro le informazioni per desumerne un quadro complessivo.
25 Il piano discusso al Congresso USA nel giugno del 2009 prevedeva ad esempio una
riduzione entro il 2020 delle emissioni statunitensi di gas serra del 4 per cento rispetto ai
livelli del 1990: molto meno rispetto all’obiettivo del 7 per cento entro il 2012 fissato dal
Protocollo di Kyoto. In base al piano, le emissioni si dovrebbero ridurre in modo più
consistente nel lungo periodo (fino all’85 per cento dei livelli attuali entro il 2050), ma questa
riduzione, almeno per il momento, sembra procedere a rilento. Numerosi esperti sostengono
che dovremmo ridurre entro il 2020 le emissioni dell’80 per cento rispetto ai livelli attuali per
poter scongiurare gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico.
26 Si potrà obiettare che Internet è diverso dagli altri mezzi di comunicazione, se non altro
perché ci consente di metterci in contatto e di interagire con gli altri. Eppure anche in questo
caso le corporation inondano ormai la rete di pubblicità, di materiali che incoraggiano lo
sfruttamento sessuale delle donne e di giochi spesso pieni di violenza. L’uso costruttivo del
web si deve soprattutto a individui e organizzazioni popolari che riescono a piegare questo
nuovo medium a favore dell’azione trasformatrice.
27 Lo illustra bene una dichiarazione di Carol Herman, da anni vicepresidente della Grey
Advertising: «Non basta fare pubblicità in televisione. [...] Bisogna raggiungere i ragazzi a
ogni ora del giorno: a scuola, al centro commerciale [...], al cinema. Bisogna entrare a far parte
della loro vita» (citato nell’articolo “Selling America’s Kids: Commercial Pressures on Kids of
the 90’s” della Consumers Union).
28 Naturalmente molti – forse la maggioranza – non lo fanno volontariamente.
Probabilmente sono stati costretti a emigrare in città a causa delle condizioni economiche o
perché speravano in un’istruzione migliore. Eppure l’isolamento è lo stesso. I più colpiti sono
sicuramente gli abitanti dei sobborghi poveri, perché di rado varcano i confini della città e nei
loro quartieri l’ambiente è spesso degradato.
29 Va ricordato che Freud in altre sedi ha parlato della natura come di qualcosa di
«eternamente estraneo» che «ci distrugge con freddezza, crudelmente e inesorabilmente»
(citato in Roszak, 1995).
30 ‘Morte’ in greco. Thanatos era anche il dio greco della morte.
PARTE SECONDA
Cosmologia e liberazione
5. Riscoprire la cosmologia
Il Tao dà origine a tutte le cose,
il potere del Te le sostiene.
Ogni cosa assume una forma fisica,
modellata dal suo ambiente.
Ogni cosa onora il Tao,
e venera il Te,
non per costrizione,
ma per sua stessa natura.
Il Tao dà vita a tutti gli esseri,
il potere del Te li nutre,
li coltiva, guida la loro evoluzione,
li conforta e li protegge.
Creare senza possedere,
agire senza aspettative,
guidare senza controllare,
questo è il mistero del potere del Te.
TAO TE CHING §51
Per la maggior parte di noi la parola “cosmologia” evoca
l’immagine di qualcosa di astratto, slegato dalla nostra esistenza
quotidiana e certamente molto distante dalle grandi sfide di
trasformazione che l’umanità si trova a fronteggiare. Consideriamo la
cosmologia qualcosa che appartiene al regno dei filosofi, degli
astronomi e dei fisici. Quantunque possa essere un campo di ricerca
affascinante, sembra che nella migliore delle ipotesi essa possa
svolgere un ruolo alquanto marginale nella soluzione dei problemi
che attualmente affliggono il nostro pianeta.
Eppure noi tutti ci facciamo delle idee – sebbene perlopiù inconsce
– sulla natura stessa della realtà. Queste idee influenzano la nostra
capacità di percepire i problemi che abbiamo di fronte e possono
altresì limitare la nostra immaginazione, rendendo più difficile
individuare una via verso l’autentica liberazione. Nondimeno,
raramente mettiamo in discussione questi presupposti, anche perché
non siamo nemmeno consapevoli di possederli.
Ognuno di noi, tuttavia, ha imparato a vedere il mondo da una
prospettiva particolare. Ognuno di noi possiede una visione del
mondo, una visione del cosmo. Donde proviene? Quali sono gli
assunti di fondo che la sorreggono? Che tipo di rapporto c’è tra questa
visione e la nostra attuale comprensione scientifica dell’universo, da
un lato, e con il pensiero filosofico e religioso dall’altro? Sono tutti
interrogativi cosmologici.
La cosmologia può essere considerata un’indagine sull’origine,
l’evoluzione, il destino e il fine dell’universo. È una ricerca
probabilmente vecchia quanto l’uomo. Brian Swimme (1996) racconta
di come i nostri lontani antenati – circa trecentomila anni fa – abbiano
dato avvio all’impresa cosmologica riunendosi sotto il cielo stellato
per riflettere sui grandi misteri del mondo, raccontare storie e
celebrare rituali. Sicuramente si saranno posti le stesse domande
fondamentali che sono state poste nei secoli: come ha avuto origine il
mondo? Qual è il nostro posto nell’universo? Che relazione esiste con
gli altri esseri che abitano la Terra? E infine, come possiamo vivere in
armonia gli uni con gli altri e all’interno della più grande comunità
della vita di cui siamo parte?
La cosmologia è collegata ai concetti di visione del mondo e di
paradigma. Un paradigma, nel senso originariamente impiegato da
Thomas S. Khun, riguarda la «costellazione di concetti, valori,
percezioni e pratiche condivisa da una comunità, che forma una
particolare visione della realtà, visione che rappresenta la base del
modo in cui quella comunità si organizza» (Capra-Steindl-Rast, 1991
[1993, p. 47]). Se un paradigma dev’essere condiviso da una società,
una visione del mondo può anche appartenere solo a un singolo
individuo. Di contro, la cosmologia, quantunque sia più sistematica di
una visione del mondo soggettiva, dà meno importanza alla
diffusione delle concezioni sostenute da una società. Alla base della
cosmologia vi sono modelli scientifici, religiosi e filosofici – e,
soprattutto, un racconto delle origini dell’universo. Sotto molti aspetti,
la cosmologia è il mito fondativo del nostro modus vivendi, laddove
con “mito” s’intende una narrazione che fornisce un senso (che può
essere vero alla lettera o meno). Come tale, la cosmologia condiziona
profondamente la nostra percezione della realtà, ivi comprese le
nostre ipotesi sulla natura stessa del cambiamento. Inoltre, le sue
implicazioni per la prassi trasformativa sono fondamentali.
Thomas Khun ritiene che gli esseri umani non possano vivere
senza elaborare una cosmologia, perché è la cosmologia che ci assicura
una visione del mondo condivisa e onnipervasiva, dando senso alle
nostre esistenze (Heyneman, 1993). Storicamente, al cuore della
cultura umana vi è una cosmologia, la quale orienta e infonde a tale
cultura un’idea di fine. Eppure, come rileva Louise Steinman: «In
Occidente, non c’è più una sola Grande Storia a cui tutti crediamo e
che ci dica come è stato fatto il mondo, come ogni cosa è diventata
quel che è, come dovremmo comportarci per mantenere l’equilibrio in
cui coesistiamo con il resto del cosmo» (citato da Heyneman, 1993).
In realtà, è molto probabile che la cultura della modernità sorta in
Europa sia la prima cultura umana ad aver smarrito una cosmologia
funzionale. Questo processo ha inizio all’incirca quattrocento anni fa
con l’Illuminismo e la rivoluzione scientifica avviata da pensatori
come Copernico, Galileo, Cartesio e Newton. Martha Heyneman
mostra come il filosofo Immanuel Kant, riflettendo sulle leggi
scientifiche formulate da Newton, giunse in realtà alla conclusione che
era impossibile sapere se l’universo fosse finito o infinito e se avesse
avuto origine nel tempo. Nel far ciò Kant di fatto ha rinunciato
all’indagine cosmologica, considerandola inutile.
Nonostante le conclusioni di Kant, l’ortodossia scientifica del XIX
secolo arriva alla fine a pensare l’universo come infinito ed eterno.
Eppure, un siffatto universo non può essere considerato un cosmo,
per il semplice fatto che un’espansione infinita non ha forma. Di
conseguenza, in un simile universo noi non possiamo né orientarci né
sentirci a casa. Conseguenza ancora più importante, forse, è che la
natura statica ed eterna di un tale universo implica che esso può
altresì essere privo di storia, di mito e, in ultima analisi, di senso.
Fino a poco tempo fa, al di fuori degli scienziati esistevano poche
persone in grado di abbracciare in maniera incondizionata questa
concezione, che potremmo definire “pseudocosmologia”. Molti, anche
in Europa e in Nord America, hanno trovato nella religione quella
cosmologia alternativa che ha continuato a riempire di senso il
mondo. Ma nel momento in cui l’insegnamento della scienza moderna
è diventato sempre più diffuso, tante persone hanno inconsciamente
praticato una scissione tra le proprie convinzioni scientifiche e le
proprie credenze religiose. Nelle loro esistenze la cosmologia ha finito
per essere relegata alla “sfera religiosa”. Con l’avanzata del
secolarismo l’idea di un universo infinito e privo di scopo si è radicato
profondamente in un numero sempre maggiore di individui, tra cui
molti di coloro che detenevano l’enorme potere di influenzare le forze
politiche, economiche e ideologiche dominanti nel mondo.
Cosmologie tradizionali
Per comprendere meglio cosa significhi aver di fatto perso, nella
cultura della modernità, una cosmologia funzionale, può essere utile
prendere in considerazione il modo in cui le cosmologie tradizionali
hanno instillato un senso nel mondo. Occorre ricordare che in molte
culture tali cosmologie esercitano ancora una forte influenza. Se
prendiamo l’intera storia dell’umanità, è la cultura del capitalismo e
della tecnologia moderna ad aver costituito un’eccezione alla norma.
Naturalmente, nel mondo esiste una grande varietà di culture
indigene e tradizionali. Nel parlare di questi popoli e delle loro
cosmologie, poi, si corre il rischio di generalizzare troppo. Eppure, è
possibile individuare ampi modelli di caratteristiche comuni, sebbene
ci siano anche molte eccezioni. Così, pur riconoscendo i limiti di un
simile approccio, è comunque utile guardare agli aspetti più comuni
delle cosmologie dei popoli aborigeni, per confrontarli con la
pseudocosmologia che è oggi alla radice delle moderne società
industriali avanzate.
Al cuore della maggior parte delle culture indigene vi è la
creazione del mito. La storia della creazione degli irochesi, per
esempio, narra di una Donna del Cielo che scende dal cielo e viene
aiutata dagli animali del mare, i quali raccolgono del fango sulla
corazza della Grande Tartaruga per formare il continente del Nord
America. Nel mito degli aborigeni australiani, Madre Sole risveglia gli
spiriti delle creature e dà loro forma. Nel mito del !Kung-San
sudafricano le creature in un primo tempo vivono in pace sottoterra
insieme a Käng, il Sommo Padrone e Signore della Vita, finché sopra
non viene creato il mondo e la prima donna viene spinta fuori da un
buco posto accanto alle radici di un meraviglioso albero, seguita poi
da altre creature e persone.
La maggior parte di questi miti non narra solo di come tutto ha
avuto inizio, ma anche delle relazioni tra gli uomini, e tra questi ultimi
e il resto della creazione. Spesso le norme culturali scaturiscono in un
certo senso dalla creazione del mito: per esempio, gli Hopi raccontano
che la Donna Ragno assegnava responsabilità e ruoli specifici tanto
agli uomini quanto alle donne. La creazione di miti può inoltre
chiarire come la discordia e la disarmonia siano penetrati nel mondo,
e alludere a come ripristinare l’originario stato di equilibrio. Nella
maggior parte dei miti indigeni gli esseri umani sono visti come parte
di una famiglia più grande che include gli altri animali e che spesso si
estende fino ad abbracciare anche gli insetti, le piante e gli “esseri
geografici” come i fiumi, i mari o le montagne.
Come questi miti dimostrano, nella maggior parte delle culture
indigene la natura è concepita come una comunità strettamente
interconnessa di esseri viventi. Ogni cosa – sia essa animale, pianta,
roccia, fiume o montagna – ha uno spirito. Tutto ciò che è nel cosmo
viene considerato vivo. Il mondo possiede una natura incantata per cui
gli uomini si sentono a casa, sentono di essere parte di una più grande
comunità vivente. È pur vero che non tutti gli esseri viventi di questa
estesa comunità possono essere amichevoli, quantomeno non sempre;
eppure tutti sono allo stesso modo soggetti dotati di una dignità e una
collocazione, e non semplici oggetti da usare o da sfruttare. In siffatte
cosmologie gli esseri umani non sono osservatori distaccati, bensì
partecipanti attivi alla storia del cosmo (M. Berman, 1981). La Terra
stessa è vista come un organismo vivente. Infatti anche in Europa, per
tutto il Medioevo, si è pensato che il mondo avesse un’anima: l’anima
mundi.
In queste cosmologie animistiche viene posto l’accento sul rispetto
di tutte le cose viventi, non solo degli animali e delle piante, ma anche
delle rocce, dell’acqua, della terra e dell’aria. La Terra è spesso vista
come una madre che nutre, ma che merita altresì profondo rispetto (e
che, se maltrattata, può anche seminare distruzione). In una simile
visione del cosmo, scavare buche profonde nel terreno in cerca d’oro o
di pietre preziose equivale ad aprire le viscere dell’essere vivente che
sostiene l’intera vita. Inquinare un corso d’acqua significa corrompere
la linfa vitale della Madre Terra. Non a caso, fintanto che la Terra è
stata vista come qualcosa di vivo e di sensibile, c’è stata una naturale
inibizione a mettere in atto tutta una serie di comportamenti dannosi.
Ovviamente, i popoli che vivono di queste cosmologie tradizionali
hanno ancora bisogno di uccidere per sostentarsi, ma lo fanno solo
entro certi limiti. I cacciatori possono uccidere altre creature per
soddisfare un reale bisogno di cibo, ma lo fanno esprimendo un senso
di gratitudine e di rispetto e mai prendendo più di quello che davvero
serve per vivere; e poi utilizzano l’animale in ogni sua parte, avendo
cura di non sprecare nulla. Per esempio, nella cultura navajo del Sud
degli Stati Uniti i cacciatori tradizionalmente recitano una preghiera
quando devono uccidere un cervo:
Un navajo non recita una preghiera a una forma interiore di cervo per spiegare il
suo bisogno di cervo e per chiedere l’indulgenza al cervo solo perché è un atto buono
e gentile; egli lo fa per ricordare a se stesso il diritto alla vita del cervo e la necessità di
non essere esagerato o troppo indulgente nel fare uso del cervo, perché con un tale
eccesso il mondo intero rischierebbe di allontanarsi dall’armonia e dall’equilibrio e
ciò sarebbe pericoloso per la sua stessa sopravvivenza.
(G. Witherspoon, citato in Winter, 1996)
Infatti, nelle culture animistiche le idee di equilibrio, rispetto e
reciprocità sono spesso centrali. Nelle società basate su tecniche di
produzione di sussistenza il concetto di persona che lavora per il
proprio tornaconto economico a spese degli altri è visto come
un’aberrazione. Spesso, per redistribuire la ricchezza all’interno della
comunità, sono stati concepiti complicati rituali (come il potlatch tra le
popolazioni indigene della costa nordovest del Pacifico, sia del
Canada che degli Stati Uniti). Cooperazione e armonia vengono
preferiti rispetto alla competizione e al successo personale. È rara
l’idea di proprietà privata, o comunque molto limitata. Di certo, il
possesso della terra è un concetto che appartiene a quei popoli. Come
si può possedere la Terra o qualsiasi creatura che abiti su di essa, se
ogni cosa viene considerata un essere vivente degno di rispetto?
Ciò non vuol dire che le culture tradizionali e le cosmologie
animistiche siano perfette. Talvolta, l’idea che vi siano spiriti ostili può
indurre paure che paralizzano o che limitano le possibilità. La forte
esigenza di armonia può anche generare conformismo e perdita di
indipendenza e di libertà individuale. Allo stesso tempo, la maggior
parte delle cosmologie tradizionali non presenta un forte aspetto
evolutivo. Il tempo è pensato come un qualcosa cha ha natura ciclica.
Ciò, a sua volta, corrobora una tendenza conservatrice che a volte può
diventare opprimente. Per esempio, se una cosmologia giustifica la
sottomissione delle donne all’uomo o i privilegi di una classe sociale,
può essere molto difficile cambiare quello che viene percepito come
“l’ordine naturale”, per quanto sia intrinsecamente ingiusto. Quanto
detto serve solo per evidenziare che esistono grandi differenze tra
cosmologie e culture tradizionali, e che molte cosmologie hanno
determinato un livello di eguaglianza e di partecipazione al processo
decisionale alquanto elevato.
Traendo spunto dall’opera di Deborah Du Naan Winter (1996), e
integrandola con alcune nostre osservazioni, possiamo elencare sette
caratteristiche chiave proprie delle cosmologie tradizionali:
1. Al centro della cosmologia c’è il mito della creazione
(dell’origine e della fine del cosmo), che risponde a interrogativi
riguardanti il posto che occupa l’uomo nel mondo, le nostre relazioni
con le altre creature e tra di noi e il modo di ristabilire l’armonia
malgrado lo squilibrio.
2. La natura, compresa la Terra e l’intero cosmo, è vista come un
essere vivente, come una rete di esistenze interconnesse, e non come
qualcosa d’inerte costituito da unità distinte.
3. Gli essere umani si considerano parte della natura – il cosmo è la
nostra dimora – e pertanto si sforzano di operare in armonia con essa.
Una forte etica del rispetto pervade l’interazione dell’uomo con le
altre creature. La natura è qualcosa che va onorato – perfino riverito –
e non sopraffatta, sfruttata o addirittura “sviluppata”.
4. La terra è intesa olisticamente non come una porzione di
“terreno” o un insieme di “risorse naturali”31, ma come una comunità
di esseri viventi. Di conseguenza, la terra non può essere posseduta
ma è tenuta in comune. Le persone non posseggono la terra, vi
appartengono.
5. La società umana assegna un valore al senso di affinità, di
inclusione, di collaborazione e di reciprocità piuttosto che alla
competizione e al tornaconto economico personale.
6. Il tempo viene concepito fondamentalmente in maniera circolare
o ciclica, piuttosto che lineare. Il tempo segue l’avvicendarsi delle
stagioni e i cicli di nascita, morte e rinascita.
7. Lo scopo ultimo della vita è l’armonia, l’equilibrio e la
sostenibilità e non il progresso, la crescita e lo sviluppo economico.
Thomas Berry, analizzando le culture indigene, sintetizza l’essenza
della cosmologia animistica nel modo seguente:
L’universo, in quanto manifestazione di una primordiale grandiosità, è stato
considerato il referente ultimo di ogni interpretazione umana del meraviglioso
nonché spaventevole mondo che ci circonda. Ogni essere vivente ha raggiunto la sua
piena identità in virtù di un allineamento con l’universo stesso. Nel caso degli
indigeni del Nord America, ogni attività formale è stata in primo luogo posta in
relazione con le sei direzioni dell’universo, i quattro punti cardinali insieme alla volta
celeste in alto e alla Terra in basso. Solo così qualunque attività umana può essere
pienamente legittimata [...].
L’universo era un mondo di significati, referente fondamentale per l’ordine
sociale, la sopravvivenza economica, la guarigione dalla malattia. In questa ampia
cornice dimoravano le Muse, da cui proveniva l’ispirazione per la poesia, le arti e la
musica. Il tamburo, battito dell’universo stesso, scandiva i ritmi della danza, mentre
gli uomini entravano nell’incantevole movimento del mondo naturale. La
dimensione arcana dell’universo s’imprimeva nello spirito attraverso l’enormità dei
cieli e il potere rivelato nel tuono e nel fulmine, così come attraverso il primaverile
rinnovarsi della vita dopo la desolazione dell’inverno. Ma anche la generale
impotenza dell’essere umano davanti a tutte le minacce alla sua sopravvivenza
mostrava l’intima dipendenza dell’uomo dal generale funzionamento delle cose. Il
fatto che l’essere umano avesse un rapporto così intimo con l’universo circostante era
possibile solo perché era lo stesso universo ad avere un rapporto intimo e privilegiato
con l’uomo in quanto fonte materna da cui gli esseri umani hanno origine e in cui
trovano sostentamento nel corso dell’esistenza.
(T. Berry, 1999)
La perdita della cosmologia in Occidente
Per coloro che vivono nelle società moderne industrializzate la
prospettiva cosmologica può apparire insolita e assai remota, separata
da noi da un abisso di tempo e spazio psichico. Molti, infatti,
ritengono che l’umanità si sia gradualmente allontanata dalle
cosmologie animistiche più o meno nel corso degli ultimi cinquemila
anni, nel momento in cui emerse la cultura delle prime città-Stato.
Come abbiamo mostrato nell’analisi delle origini del patriarcato e
dell’antropocentrismo, con l’avvento di simili forme di cultura
l’ideologia del dominio e dello sfruttamento si radicò in maniera
sempre più profonda. Crebbero anche le stratificazioni sociali, le
forme di oppressione legate al genere, la schiavitù e, in molti casi,
pratiche ecologiche distruttive. Sarebbe semplicistico affermare che i
cambiamenti in queste società furono generati dai cambiamenti nelle
loro cosmologie, ma sicuramente cambiando le strutture sociali sono
cambiate anche le credenze e le visioni del mondo. L’una trasforma e
rafforza l’altra. Insomma, senza una cosmologia che in un certo senso
autorizzi la distruzione delle altre vite per generare e accumulare
ricchezze è difficile capire come simili pratiche di sfruttamento
possano aver acquisito tanto potere.
Dopo la caduta dell’Impero romano l’Europa si trasformò
decisamente in una civiltà fatta di piccole comunità rurali influenzate
sia dal cristianesimo che dalle antiche visioni del mondo. Nella
cosmologia medioevale il mondo era concepito come un qualcosa
dotato di anima – l’anima mundi – e il cosmo era immaginato come una
serie di sfere avvolte dai regni celesti. In altre culture, e in altre zone
del mondo, esistono ovviamente cosmologie molto differenti tra loro,
ma l’idea di un cosmo conchiuso e ordinato si è mantenuta quasi
universalmente fino agli albori dell’era scientifica, appena
quattrocento anni fa. Anche allora le nuove idee sull’universo e sulla
natura della realtà penetrarono lentamente nella coscienza popolare, e
si diffusero ampiamente solo attraverso la combinazione di processi di
migrazione, rivoluzione industriale, urbanizzazione e sistemi di
istruzione moderni.
Oggi, tuttavia, coloro che vivono nelle società industrializzate
hanno in larga misura smarrito il senso della Terra in quanto entità
vivente. La materia è stata di fatto liberata dallo spirito per essere
concepita ormai come una semplice “cosa” inerte da consumare. Il
regno celeste che una volta avvolgeva la Terra si è trasformato in
un’estensione infinita di freddi spazi con stelle e galassie distanti (in
effetti, coloro che vivono nelle grandi città illuminate di notte di rado
riescono a vedere il cielo stellato, e così è difficile che siano toccati
dall’arcana maestosità delle stelle e dei pianeti). Morris Berman parla
a tal proposito di un processo di progressivo «disincanto»
caratterizzato da una rigida separazione tra soggetto e oggetto che ci
priva del senso di reale partecipazione al dipanarsi della storia del
cosmo. Raramente facciamo esperienza dell’unione estatica con
l’universo, forse solo durante i brevi momenti trascorsi nella natura,
quando il vecchio senso di connessione trova un varco in noi,
illuminandoci di meraviglia.
La nostra “normale” esperienza, nondimeno, riguarda un mondo
che si è trasformato in un insieme di oggetti e non è più una comunità
di esseri viventi. L’oggettivazione del mondo, però, ci ha reso a nostra
volta oggetti. Come ha osservato Morris Berman: «Il mondo non è una
mia creazione; del cosmo non m’importa nulla, e non avverto alcun
senso di appartenenza a esso. Ciò che provo, in realtà, è un profondo
malessere spirituale» (1981). Martha Heyneman, analizzando questo
processo di disincanto, sottolinea:
Da una sorta di cattedrale piena di vita, luce e musica il nostro mondo è stato
magicamente trasformato – come quegli edifici fatti saltare con la dinamite che per
un momento vediamo sospesi a mezz’aria prima che esplodano in miliardi di
frammenti e si accascino al suolo – in ciò che Alfred North Whitehead definì in
maniera così precisa «una cosa noiosa, senza suoni, senza aromi né colori,
semplicemente un’accozzaglia di materia, infinita e senza senso».
(1993)
Brian Swimme ritiene che l’interrogativo cosmologico
fondamentale possa, in realtà, essere formulato così: «L’universo è un
luogo accogliente?». Per le persone che vivono fuori da una
cosmologia animistica la risposta a questo interrogativo può essere un
insieme di cose, e senza dubbio dipende dalla cultura tradizionale a
cui facciamo riferimento. In linea di massima, però, l’animismo
avrebbe probabilmente risposto che, se siamo ben disposti nei
confronti del cosmo, se lo rispettiamo e ci sforziamo di vivere in
armonia con esso, il cosmo a sua volta sarà altrettanto ben disposto
nei nostri riguardi, almeno nella maggior parte dei casi.
Per quelli che hanno adottato la pseudocosmologia di un universo
sconfinato, eterno e amorfo, la risposta è probabilmente molto più
pessimistica. Il matematico e filosofo Bertrand Russell, per esempio,
riflettendo su quello che a suo avviso è un universo guidato dal caso e
privo di un fine, conclude che «la dimora dell’anima» può essere
costruita in modo sicuro solo «sulla base di un’incrollabile
disperazione». Più di recente, il biologo premio Nobel Jacques Monod
ha osservato che siamo soli «nell’immensità indifferente dell’universo,
da cui [siamo] emersi per caso. Il [nostro] dovere, come il [nostro]
destino, non è scritto in nessun luogo». Allo stesso modo il fisico e
premio Nobel Steven Weinberg, che considera la vita il semplice
risultato del caso, conclude che viviamo in un «universo
estremamente ostile» e che quanto più esso ci appare comprensibile
tanto più si mostra senza scopo (citazioni da Roszak, 1999).
Nelle civiltà industrializzate, dunque, gli essere umani sono come
dei vagabondi, alla deriva nello spazio e nel tempo. Abbiamo smarrito
una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un
posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in
cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in
mezzo a tutta l’insensatezza che ci circonda. Tutto ciò ha profonde
implicazioni per lo spirito umano. Perché, come chiosa Heyneman:
Qualunque cosa sia un’immagine cosmologica per un fisico in quanto fisico o un
astronomo in quanto astronomo, essa è per noi tutti l’ossatura su cui poggia l’ordine
della nostra psiche, la pelle dell’immaginazione che tutto avvolge e il contenitore
della nostra conoscenza. È la dimora dello spirito in cui tutti noi, membri di una data
cultura, viviamo. In ogni istante, noi ci orientiamo all’interno di certe immagini della
totalità delle cose, facciamo congetture su ciò che è reale, decidiamo cosa è possibile e
cosa non lo è. L’immagine cosmologica rappresenta il nostro mondo interiore. Tutto
ciò che sappiamo o immaginiamo è contenuto, consciamente o meno, al suo interno.
Se il contenitore va in frantumi e l’immagine perde forma, le impressioni non hanno
più alcun significato. Non le vogliamo più – non c’è dentro di noi alcun posto in cui
trattenerle. Siamo immersi in esse, scorrono sulla nostra superficie come un flusso
incessante, ma noi non siamo in grado di ricavarvi alcun nutrimento da aggiungere
alla struttura e alla sostanza di una comprensione di noi stessi, su cui radicare una
vita coerente e consapevole.
(1993)
Cosmologia e trasformazione
Come risultato della perdita di una cosmologia viva in grado di
nutrire e sostenere in maniera autentica il nostro spirito, ci siamo
aggrappati al vuoto – invece di provare a riempirlo – attraverso una
cosmologia dell’acquisizione e del consumo che ne è surrogato. Nel
corso di questo processo, come ho evidenziato in precedenza, siamo
diventati sempre più autistici nei nostri rapporti con gli altri esseri
viventi nonché gli uni con gli altri. Non siamo più capaci di sentire la
voce degli alberi, delle montagne, dei fiumi e del mare; né riusciamo a
sentire il grido dei poveri e degli emarginati nelle società umane.
Siamo ormai pieni di disperazione e abbiamo smarrito una visione in
grado di ispirarci e di motivarci per fronteggiare la crescente crisi in
cui siamo immersi.
La pseudocosmologia nata dalla scienza dal XVII al XIX secolo,
insieme al surrogato cosmologico del consumismo, ci ha menomati, in
un modo che Brian Swimme (1985) paragona a una lobotomia: siamo
ormai incapaci di provare quel timore reverenziale, quello sgomento e
quel rispetto che la vera natura del cosmo istintivamente evoca. Allo
stesso tempo, la nostra immaginazione e la nostra creatività sono state
fortemente limitate. È diventato difficile immaginare un modo
radicalmente diverso di vivere, ed è pressoché impossibile vedere
come possano realmente verificarsi quelle profonde trasformazioni di
cui abbiamo bisogno. Nelle parole di Fritjof Capra, tutte le crisi
mondiali non sono che «sfaccettature diverse di un’unica crisi, che è in
gran parte una crisi di percezione. [...] Le soluzioni per i maggiori
problemi ci sono; alcune sono perfino semplici. Ma richiedono un
mutamento radicale nelle nostre percezioni, nel nostro modo di
pensare, nei nostri valori» (Capra, 1996 [2006, p. 14]).
Per illustrare questa idea, Ed Ayres (1999a) narra la storia del
primo incontro che James Cook ebbe con gli aborigeni australiani.
Quando la nave Endeavour entrò nella baia di Botany, sulla costa
orientale dell’Australia, stando alle parole dello storico Robert Hughes
era «un oggetto così imponente, complesso e talmente alieno da
sfidare la capacità di comprensione degli indigeni». In effetti,
sembrerebbe che gli aborigeni semplicemente non videro la nave nel
porto perché non erano in grado di far rientrare quel tipo di oggetto
nella loro visione del mondo. Fu solo dopo che i membri
dell’equipaggio dell’Endeavour furono saliti a bordo delle loro
scialuppe da sbarco diretti verso la riva che quasi tutti gli aborigeni
scapparono nascondendosi in mezzo agli alberi, ad eccezione di due
guerrieri che rimasero piantati lì. Solo una volta viste le imbarcazioni
più piccole – qualcosa che rientrava nella loro esperienza – gli
aborigeni furono in grado di reagire.
Forse noi ci troviamo in una situazione simile. Ayres fa ricorso a
quell’esempio per mostrare la nostra capacità di ignorare le prove
schiaccianti della crisi che ci circonda: «I sei miliardi di abitanti della
Terra [...] si trovano a fare i conti con qualcosa di così totalmente
alieno dalla nostra esperienza collettiva che in realtà finiamo per non
vederla, anche quando le prove sono schiaccianti» (1999a). Eppure,
probabilmente è altrettanto vero che siamo anche incapaci di
individuare una via verso una sostenibilità e un equilibrio autentici,
perché la nostra immaginazione è stata limitata da una determinata
comprensione della realtà, dalla nostra cosmologia.
Ma cosa accadrebbe se la natura della realtà fosse radicalmente
diversa da ciò che siamo abituati a credere? Cosa accadrebbe se non
vivessimo in un universo infinito ed eterno governato dalle leggi della
matematica e dal cieco caso, bensì in un cosmo che si evolve in
maniera creativa? Cosa accadrebbe se l’evoluzione fosse mossa non
dalla spietata competizione ma dalla cooperazione e da una spinta
verso la complessità, e forse perfino la mente e la coscienza? Cosa
accadrebbe se non vi fosse una rigida divisione tra materia, mente e
spirito, bensì un forte intreccio e una mescolanza? Cosa accadrebbe se
il rapporto di causa ed effetto fosse molto più misterioso e creativo di
quanto abbiamo mai immaginato? Come potrebbe un simile
cambiamento delle nostre percezioni e delle nostre credenze creare
nuove possibilità che mai siamo stati in grado di concepire prima
d’ora?
Come afferma Lewis Mumford: «Ogni trasformazione sociale [....]
poggia sempre su basi metafisiche e ideologiche nuove; o meglio, su
sommovimenti e intuizioni più profondi la cui espressione razionale
assume la forma di una immagine del cosmo e della natura
[dell’umanità]» (citato in Goldsmith, 1998). Oggi, forse come mai
prima, necessitiamo di una nuova visione del cosmo che sappia
ispirare e guidare le profonde trasformazioni necessarie alla
sopravvivenza delle forme di vita complesse sulla Terra.
Per molti aspetti, la nuova visione del cosmo deve recuperare
alcuni degli elementi chiave che hanno dato forma alle cosmologie
tradizionali per oltre il 99 per cento della storia umana. Come
abbiamo visto, l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo
vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto.
Come afferma Morris Berman: «Il rovesciamento completo di questa
percezione avvenuto appena quattrocento anni fa ha distrutto la
continuità dell’esperienza umana e l’integrità della sua psiche. Ha
quasi distrutto il pianeta. L’unica speranza, o almeno così mi pare, è in
un re-incantamento del mondo» (1981).
Eppure, è difficile immaginare che le persone finiscano per fare
semplicemente ritorno a una visione animistica, quantomeno alle sue
forme tradizionali. Siamo stati segnati dalla rivoluzione scientifica, e le
nostre coscienze sono mutate per sempre, probabilmente sia nel bene
che nel male. È difficile, per esempio, immaginare che coloro i quali
vivono nelle moderne società industrializzate siano capaci di
assimilare, in modo significativo, i miti tradizionali che hanno ispirato
le culture indigene. Abbiamo bisogno di andare avanti, non di tornare
indietro, anche se questo avanzamento alla fine integrerà numerosi
elementi di una concezione più tradizionale.
Heyneman utilizza la metafora del diluvio per descrivere
l’insensatezza e la mancanza di un fine dell’universo nel quale stiamo
andiamo alla deriva – a diversi livelli – da quattrocento anni.
Nondimeno, più ottimisticamente, l’autrice lascia intendere che
potrebbe anche darsi «che stiamo attraversando un oceano, come i
nostri avi attraversarono l’oceano per raggiungere una terra nuova e
inesplorata» (1993). Nel corso del secolo scorso dalla scienza stessa è
emersa una nuova visione del cosmo, una visione che sotto molti
aspetti è radicalmente differente dalla pseudocosmologia del XIX
secolo, come anche dalla cosmologia dell’animismo.
Il cosmo è nuovamente concepito come qualcosa dotato di una
forma e di un principio, e alcuni scienziati arrivano perfino a parlare
di qualcosa che può essere descritto solo in termini di finalità, o
perlomeno di orientamento. Adesso possiamo guardare indietro nello
spazio e nel tempo, a una distesa di circa quattordici miliardi di anni
luce32 per scrutare l’origine dell’universo. È solo ora, in quest’epoca,
che abbiamo sviluppato la sensibilità – attraverso i mezzi della scienza
moderna – per farlo. Eppure, come osserva Swimme (1996), la traccia
dell’inizio è sempre stata presente, piovendoci addosso nei fotoni
della luce presenti fin dal primo bagliore della deflagrazione avvenuta
parecchi eoni fa. Contrariamente alla pseudocosmologia dello spazio
eterno e delle leggi deterministiche, la storia del cosmo che
cominciamo a intravedere è segnata dall’evoluzione e dalla nascita –
un processo di sviluppo fatto di passaggi unici e spesso irripetibili.
Come è mutata la nostra visione del macrocosmo, così anche il
microcosmo ha subito un profondo cambiamento. Gli atomi e le
particelle subatomiche non sono più considerati la pura e semplice
“materia” [stuff] inanimata, i “mattoni” della materia [matter]. Il
microcosmo è un mondo di attività dinamiche che sfugge alla
descrizione di ogni linguaggio umano. Alcuni fisici paragonano le
entità subatomiche a pensieri o idee che possono solo essere descritti
matematicamente, ma mai visualizzati chiaramente. Il microcosmo
mostra una fondamentale unità: ogni “particella” è in un certo senso
collegata a tutte le altre, fino a risalire ai primi momenti
dell’avventura cosmica. Causa ed effetto non sono più intesi in senso
lineare, ma si mescolano e s’informano a vicenda. Non esiste
nemmeno una stretta distinzione tra l’osservatore e l’osservato, i quali
interagiscono formando un sistema. Il pensiero e la materia stessa
sembrano essere misteriosamente intrecciati in un modo tale che è
arduo capire se il pensiero emerga in qualche modo dalla materia o
viceversa la materia dal pensiero; o forse coemergono in qualche
modo insieme?
Riguardo al nostro pianeta e alla vita che ha generato, la nuova
cosmologia evoca dinamiche sempre più complesse circa l’evoluzione
e la nascita dell’universo. In un certo senso, sembrerebbe che la Terra
funzioni in modo analogo a un unico organismo – Gaia – che ha
attentamente conservato e regolato le condizioni ideali per la vita.
Sebbene la competizione tra organismi svolga un ruolo importante,
collaborazione e simbiosi sembrano di gran lunga più importanti, così
come lo sono la spinta verso la complessità e la diversità. Una volta
ancora la Terra, con le rocce, l’acqua e l’aria, ci appare in un certo
senso come qualcosa di vivo, qualcosa che forse è persino pervaso di
ciò che potremmo chiamare un’“anima”.
Di primo acchito la nuova cosmologia emersa dalla scienza può
apparire disorientante. Certamente vi sono dei misteri che non
possono essere disvelati in virtù di semplici spiegazioni. Molte cose
possiamo esprimerle sono ricorrendo alla lingua del paradosso, e
spesso sembra che tentando di cogliere concetti che oltrepassano la
nostra comprensione brancoliamo nel buio. Eppure c’è anche una
profonda speranza nella creatività che emerge in un cosmo non più
governato dal determinismo meccanicistico e nemmeno dal cieco caso.
Entrano in gioco ovunque concetti come comunità, relazione,
complementarietà e reciprocità.
La nuova cosmologia scaturita dalla scienza è in grado di
ravvivare la nostra immaginazione e fornirci una nuova speranza?
Sicuramente si tratta di un’importante risorsa per una nuova visione,
soprattutto se integrata da intuizioni provenienti da altre fonti di
saggezza. Come evidenzia Swimme:
La nostra epoca ha l’opportunità di integrare la comprensione scientifica
dell’universo con le più antiche intuizioni sul senso e il destino dell’uomo. Dietro
quest’opera c’è la promessa che attraverso una tale impresa la specie umana nel suo
insieme potrà iniziare ad abbracciare un significato condiviso e un programma di
azione coerente.
Un modo per comprendere il significato di ciò che sta avvenendo è affermare che
la scienza oggi è entrata in una fase di saggezza [...]. La sfida che abbiamo davanti è
comprendere il significato dell’attività umana all’interno di un universo in
evoluzione. Dall’esito di questa sfida dipende la vitalità di tanta parte della Comunità
della Terra, compresa la qualità della vita di cui tutti i figli venturi potranno godere.
(1996)
Nel corso dei prossimi capitoli indagheremo più
approfonditamente la nuova cosmologia sorta dalla scienza, e al
contempo delineeremo i rapporti con le più antiche fonti di saggezza
che arricchiscono e animano ciò che si sta rivelando. A tal fine,
dobbiamo riconoscere che il semplice studio della cosmologia in sé
non sarebbe sufficiente al nostro scopo. In ultima analisi, un
mutamento nella nostra visione del cosmo richiede un’autentica
“rivoluzione del pensiero”, una svolta interiore, una conversione
profonda. Deve, fondamentalmente, riorientare il nostro modo di
essere al mondo, il nostro modo di relazionarci alle altre creature e la
nostra comprensione dello stesso cambiamento.
In primo luogo, però, dobbiamo individuare in maniera più chiara
le caratteristiche e le radici della pseudocosmologia che attualmente
esercita una così forte influenza sulle persone nelle società industriali.
Così facendo speriamo di poter abbattere il muro che imprigiona la
mente e limita la nostra creatività. Solo allora potremo davvero
cominciare ad apprendere un nuovo modo di vedere e una
comprensione nuova della realtà.
31 David Suzuki e Peter Knudtson (1992), per esempio, rilevano: «Un gruppo di nativi
della Columbia Britannica ha tradotto la parola che nella loro lingua è la più prossima al
concetto occidentale di “risorse naturali” con questa brillante espressione: “Afferrare il
manico dell’intera Vita”. Per una società aborigena – passata o presente – con un’etica e un
vocabolario visceralmente legati al mondo naturale, i tentativi di avviare uno sviluppo
economico delle terre tribali sacre potrebbe rappresentare un processo molto più doloroso e
introspettivo di quanto non lo sia stato storicamente per l’Occidente».
32 L’attuale stima più precisa dell’età dell’universo è di 13,73 ± 0,12 miliardi di anni,
ovvero circa 14 miliardi di anni.
6. La cosmologia della dominazione
Pensi di poter imporre il tuo ordine al cosmo?
Cerchi di plasmare il mondo per migliorarlo?
Non si può!
Il cosmo è il recipiente sacro del Tao.
Non può essere migliorato.
Se provi ad alterarlo lo rovinerai.
Se tenti di governarlo lo distruggerai.
TAO TE CHING §29
Il nostro senso comune non proviene direttamente dalla nostra
esperienza, e nemmeno è qualcosa di arbitrario e accidentale.
Al contrario, la nostra visione del mondo è forgiata da secoli di
tradizioni culturali, così completamente radicata nelle nostre
istituzioni educative e sociali che spesso è difficile apprezzarla
e apprezzarne gli effetti.
(Winter, 1996)
Di primo acchito, probabilmente è difficile, se non impossibile, per
chiunque di noi definire in maniera esauriente le caratteristiche della
nostra visione del mondo. I presupposti, per loro stessa natura, sono
difficili da identificare. Consideriamo la nostra concezione della realtà
come qualcosa di assiomatico e dato. Sebbene le opinioni che ci
facciamo siano per molti aspetti uniche, abbiamo assorbito un
mucchio di convinzioni dal milieu culturale in cui siamo immersi. In
un certo senso, la cosmologia può essere insegnata, ma i suoi
insegnamenti avvengono perlopiù a livello inconscio. In genere,
adottiamo una cosmologia attraverso un processo che assomiglia più a
un’osmosi che a una forma classica di apprendimento.
Eppure, se è vero che la moderna cosmologia dominante
circoscrive la nostra immaginazione e limita la possibilità di
determinare quelle trasformazioni radicali che l’attuale crisi richiede,
allora dobbiamo cominciare col nominare e definire questa visione del
mondo in maniera quanto più chiara possibile. Quali sono le sue
caratteristiche principali? E come sono arrivate a prendere forma?
Non esiste probabilmente un solo termine in grado di cogliere
appieno la visione del cosmo che attualmente domina nelle moderne
società industrializzate. C’è chi parla di “materialismo scientifico”,
altri di “meccanicismo”, altri ancora di “riduzionismo”. Sebbene siano
tutte definizioni valide, e tutte parzialmente descrivano ciò di cui
parliamo, nessuna tuttavia è completa. Per adesso, nondimeno, la
chiameremo “cosmologia della dominazione”33, perché, come
vedremo nel corso di questo capitolo, tale visione del mondo ha in
larga parte autorizzato la “sottomissione della Terra” nonché lo
sfruttamento e il depredamento del pianeta. Attingendo alle opere di
Theodore Roszak (1999) e David Toolan (2001), possiamo cominciare a
delineare le caratteristiche fondamentali di questa pseudocosmologia
come segue:
1. C’è una realtà oggettiva che esiste al di fuori della propria
mente. Anche gli altri hanno i loro centri di coscienza unici.
2. Mente e materia, così come mente e corpo, sono entità
separate34.
3. L’universo è composto di materia, una sostanza inanimata e
senza vita formata di minuscoli atomi, in genere indivisibili, e di
particelle elementari ancora più piccole e immutabili.
4. Tutti i fenomeni reali possono essere percepiti dai sensi, spesso
con l’ausilio di strumenti. Qualunque cosa non possa essere percepita
in questo modo – fatto salvo forse la mente stessa – è considerata
illusoria, o al massimo soggettiva. Spirito e anima sono perciò scartati,
ignorati o confinati in una sfera personale o al piano emotivo. Il
mondo reale è ridotto al mondo materiale e questo mondo può essere
misurato e quantificato. Riprendendo le parole di Galileo: «Il libro
della natura è scritto in lingua matematica» (citato in Roszak, 1999).
5. La modalità di pensiero privilegiata è di natura discorsiva e
analitica, vale a dire è un approccio che categorizza, divide in parti e
poi circoscrive. La realtà viene studiata più accuratamente attraverso
un’osservazione rigorosa e obiettiva nonché ricorrendo
all’applicazione della logica. Più distaccato è l’osservatore e più
accurata sarà l’osservazione.
6. La natura e il cosmo sono considerati in termini meccanicistici.
L’universo in sé assomiglia a un gigantesco orologio esemplificato dal
movimento dei pianeti e delle stelle.
7. Poiché la natura della realtà è meccanicistica, possiamo ottenere
una conoscenza completa del tutto penetrando i suoi elementi
costituenti – o riducendo il tutto a essi – e studiandoli singolarmente
(questo approccio viene in genere chiamato “riduzionismo”).
8. La natura o il cosmo non hanno un fine. Ci sono, però, leggi
eterne e immutabili che governano e dispongono ogni cosa da sempre.
Date le stesse condizioni di partenza, dunque, un esperimento
produrrà sempre il medesimo risultato.
9. Il tempo procede come una linea retta, in modo che la causa
preceda sempre l’effetto. Ogni effetto ha una causa precisa o un
insieme di cause, e la sequenza delle cause è strettamente
unidirezionale.
10. Il cosmo è essenzialmente deterministico, basato su cause
meccanicistiche. Se si riuscisse ad avere una conoscenza completa
dello stato attuale delle cose, allora sarebbe possibile prevedere il
futuro con certezza. Vere e proprie novità sono essenzialmente
impossibili35.
11. L’universo ha una natura eterna e immutabile36, come
mostrano le sue leggi immodificabili. Preso nell’insieme, l’universo
non cambia nel tempo. L’evoluzione sulla Terra viene considerata
un’anomalia isolata, non la norma.
12. Tutta la vita sulla Terra è impegnata in un’inesauribile lotta per
la sopravvivenza. L’evoluzione è guidata dalla supremazia, la
“sopravvivenza del più adatto”. Il cambiamento, quando si verifica (e
sempre nei rigidi confini del determinismo), è guidato dalla
competizione o addirittura dalla violenza.
Se veramente andassimo ad analizzare in maniera critica ciascuna
delle tesi summenzionate, ci renderemmo subito conto che non stiamo
parlando di verità inoppugnabili; eppure, la maggior parte delle
persone, nelle moderne società industrializzate, in un modo o
nell’altro le accetta come tali. Di sicuro, fino a poco tempo fa, le basi
della scienza poggiavano su tutti questi principi, con relativamente
pochi cambiamenti nel corso degli ultimi secoli. E perfino gli scienziati
moderni continuano ad accettare molti di questi assunti con scarsa
coscienza critica.
Eppure, come mostra Roszak (1999), la sola logica non impone che
si debbano accettare queste tesi. I buddhisti, basandosi sulla loro
analisi estremamente logica dell’esperienza, giungono a conclusioni
totalmente differenti (per esempio credono che il senso del sé
individuale, e la maggior parte di ciò che normalmente consideriamo
realtà, sia in un certo senso illusorio – o al limite qualcosa che abbiamo
in un certo modo costruito noi stessi). In effetti, se esaminiamo la
nuova cosmologia nata dalla scienza nel corso degli ultimi secoli,
appare sempre più chiaro che molte di queste tesi possono essere
contestate; che molte di queste tesi sono, nel migliore dei casi,
discutibili, e che alcune, alla luce della nostra attuale conoscenza,
paiono del tutto false. Eppure, buona parte di queste credenze
continuano a essere le idee dominanti che informano la visione della
realtà degli individui nelle società post-tradizionali, per quanto anche
altre tesi, come quelle provenienti dalle credenze religiose, giochino
indubbiamente un ruolo di primo piano.
Presumibilmente questi assunti alterano anche la nostra capacità di
percepire la realtà in maniera chiara e di agire creativamente.
Vandana Shiva considera la cosmologia della dominazione qualcosa
di fondamentalmente riduzionista, non solo perché frammenta il tutto
in parti più piccole, ma anche perché riduce «la capacità degli esseri
umani di conoscere la natura» attraverso l’esclusione sia degli «altri
agenti di conoscenza sia di altre vie di conoscenza», e perché
«manipolando la natura come materia inerte e frazionata, ne riduce la
capacità di rigenerarsi creativamente e di rinnovarsi» (1989 [2002, p.
28]).
Le metafore meccaniciste del riduzionismo hanno ricostruito socialmente la
natura e la società. Contrariamente alle metafore organiche, in cui i concetti di ordine
e potere si basavano sul collegamento e sulla reciprocità, la metafora della natura
come macchina si basava sull’assunto della divisibilità e della manipolazione. [...] [Il
dominio sulla natura e sulla donna] è intrinsecamente violento, nel senso che viola
l’integrità. La scienza riduzionista è una fonte di violenza contro la natura e le donne
perché le assoggetta e ne espropria la produttività, l’energia e la potenzialità.
(1989 [2002, pp. 28-29]).
Thomas Berry fa notare che questa visione meccanicista del cosmo
ha contribuito allo «sviluppo dell’invenzione tecnologica e del
depredamento industriale» e ritiene che il suo obiettivo sia stato
«rendere le società umane quanto più possibile indipendenti dal
mondo naturale e il mondo naturale quanto più possibile soggetto alle
decisioni umane» (1999). Non dovrebbe sorprendere allora la scoperta
che la cosmologia della dominazione ha guadagnato un consenso
sempre più ampio perché posto al servizio delle esigenze delle classi
governanti che volevano promuovere il capitalismo, il colonialismo e
l’espansione economica. Ha saputo conquistarsi un rapido consenso
perché si adatta alle esigenze economiche e alle politiche di chi è al
potere. Inoltre, ha guadagnato sempre maggiore consenso all’interno
delle società perché le classi dirigenti sapevano come «convincere le
persone che la manipolazione del mondo fisico avrebbe prodotto una
vita migliore e più felice». Conclusione: «Il trionfo della scienza fu in
ultima istanza politico» (Lerner, 1986).
Una cosmologia meccanicista e riduzionista non è un fatto
scientifico dimostrato, tanto meno qualcosa che deriva direttamente
da un insieme di leggi eterne dell’universo. È invece una costruzione
sociale. Se arriviamo a comprendere questo fenomeno più
chiaramente, se arriviamo a capire le forze storiche e ideologiche che
hanno contribuito alla sua genesi, possiamo anche cominciare a
decostruirla e a interrompere così il suo potere di distorcere le nostre
percezioni. Per fare ciò dobbiamo passare ad analizzare alcune delle
persone, delle idee e delle forze economiche che hanno forgiato la
pseudocosmologia che ha finito per dominare il pensiero e le
percezioni di così tanti individui nelle società moderne.
Dall’organismo alla macchina: la morte del cosmo vivente
Nel corso della storia, in quasi tutte le culture umane, il mondo è
stato considerato un organismo vivente con al centro un’anima o uno
spirito. La materia era concepita come qualcosa di dinamico – e,
almeno in un certo senso, di vivo. La parola “materia” infatti deriva
dall’indoeuropeo mater, che vuol dire ‘madre’. Materia era dunque la
sostanza vivente proveniente dal corpo della Terra, la nostra madre.
Non esisteva una rigida separazione tra coscienza umana e regno
materiale, e non esisteva alcuna pretesa di pura oggettività.
In Europa questa forma di consapevolezza è durata per tutto il
Medioevo e oltre, fino agli albori dell’età scientifica. Morris Berman
analizza questa condizione facendo riferimento alla visione del
mondo dell’alchimia. Per l’alchimista non esisteva una netta
distinzione tra fenomeno mentale e fenomeno materiale. Ogni cosa, in
un certo senso, era simbolica perché ogni processo materiale aveva un
equivalente psichico simultaneo. Berman fa notare che «se fosse mai
possibile immaginare lo stato mentale [dell’alchimista]» dovremmo
«dire che l’alchimista non sta di fronte alla materia, bensì la permea»
(1981). In un tono molto simile, Jamake Highwater parla della capacità
degli aborigeni di «conoscere qualcosa trasformandosi
temporaneamente in essa» (citato in Heyneman, 1993). Berman arriva
a sostenere che le persone non si limitavano semplicemente a credere
che la materia possieda uno spirito; per costoro in un certo senso era
proprio così. La visione animistica del mondo era pienamente efficace
per coloro che vivevano di essa:
I nostri antenati costruirono la realtà in un modo che normalmente produceva
risultati verificabili, e questa è la ragione per cui la teoria della proiezione di Jung è
sbagliata. Se la nostra consapevolezza subisse un’altra rottura pari a quella
rappresentata dalla rivoluzione scientifica, coloro che si trovassero in questa nuova
condizione potrebbero concludere che la nostra epistemologia in una certa misura è
un meccanicismo “proiettato” nella natura.
(M. Berman, 1981)
La visione animistica in Europa si trovava non solo nell’alchimia
ma anche nella filosofia scolastica di Tommaso d’Aquino (1225-1274),
che dominò la Chiesa Cattolica per secoli. Secondo l’Aquinate tutta la
natura è viva e una grande varietà di esseri viventi possiede l’anima,
sebbene egli credesse che solo quella dell’uomo fosse immortale. La
sua filosofia attinge dall’opera di Aristotele, il quale riteneva che ogni
cosa in natura avesse un’anima immanente da cui trae il suo scopo e
da cui è condotto verso il suo obiettivo. L’anima di una quercia dirige
lo sviluppo di quest’ultima dal seme all’arboscello, fino all’albero
maturo. Anche una roccia cade al suolo perché la sua anima la
conduce verso il suo luogo, la Terra.
Nel corso del Rinascimento, tuttavia, si ebbe in Europa un rilancio
del pitagorismo e degli studi platonici. I pitagorici erano affascinati
dalla matematica e dai numeri. Ritenevano che ogni numero avesse
una propria natura unica dotata di qualità mistiche. Ma ancor di più,
la matematica era considerata una chiave per comprendere il cosmo.
Platone, che attinse da questa tradizione, concluse che sebbene il
mondo stesso fosse pervaso dal cambiamento, il regno delle idee, delle
forme e della conoscenza era immutabile ed eterno.
Questa concezione filosofica ispirò i primi scienziati in Europa.
Niccolò Cusano (1401-1464), per esempio, riteneva che il mondo
affondasse le radici in un’infinita armonia basata su proporzioni
matematiche misurabili. Cusano credeva che «la conoscenza è sempre
misura» (citato in Sheldrake, 1988 [2011, p. 36]). Parimenti, Copernico
(1473-1543), fautore del modello eliocentrico del cosmo (che mutua dai
pitagorici), credeva che l’intero universo fosse composto di numeri.
Dunque, ciò che è vero per la matematica deve esserlo anche nel
mondo della realtà oggettiva, ivi compresa l’astronomia.
Dapprincipio l’idea copernicana di un cosmo eliocentrico ebbe un
impatto relativamente modesto, in parte perché non esistevano prove
empiriche per puntellare tale concezione. Copernico non fondò la sua
tesi su osservazioni scientifiche, ma semplicemente sul fatto che gli
sembrava la più razionale e perché conduceva a una maggiore
«armonia geometrica del cielo» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 36]).
Ovviamente i matematici furono attratti dalle sue idee, ma il suo
modello era ancora basato su congetture, e non su dati scientifici (va
detto, in ogni caso, che anche in una prospettiva geocentrica le orbite
dei pianeti e il moto del sole possono essere descritti
matematicamente, solo che il moto diventa molto più semplice da
comprendere e da descrivere dal punto di osservazione eliocentrico).
Fu Giovanni Keplero (1571-1630) a fornire un solido fondamento
alle idee copernicane attraverso una teoria matematica del moto dei
pianeti basata sui dati forniti dall’osservazione dei cinque pianeti
all’epoca conosciuti. Nella sua teoria Keplero concepisce tre “leggi”
del moto dei pianeti. Ancora una volta l’ispirazione per questo lavoro
giunge dalla filosofia di Platone. Infatti Keplero scoprì, «per la sua
felicità, che le orbite dei pianeti avevano una certa somiglianza con le
sfere ipotetiche che potevano essere iscritte nei, e circoscrivere i,
cinque solidi regolari platonici». Per Keplero «l’armonia matematica
scoperta nei fatti osservati [era] la causa di quei fatti, la ragione del
loro essere in quel modo. Dio ha creato il mondo in accordo con il
principio dei numeri perfetti» (Sheldrake, 1988 [2011, pp. 37-38]).
Galileo (1564-1642), utilizzando il telescopio da lui inventato per
osservare le stelle e i pianeti, finì per avallare le teorie di Copernico e
di Keplero. Come loro fu influenzato da una visione matematica del
cosmo. Postulò che l’ordine dell’universo fosse governato da leggi
immutabili che la natura non trasgredisce mai. Egli credeva anche che
«ciò che non può essere misurato e riportato ai numeri non è reale»
(citato in Goldsmith, 1998).
La nuova visione del cosmo esposta da Copernico, Keplero e
Galileo mise fortemente in discussione l’intera sintesi aristotelico-
tomistica illustrata dalla filosofia scolastica (sebbene Copernico
continuasse ad accettare molte delle idee aristoteliche). La Terra non
era più al centro dell’universo e, di conseguenza, non era più il centro
dell’azione di Dio e il suo fine. L’intera visione di un mondo
circondato dalle sfere celesti in alto e dall’inferno in basso cominciò a
sgretolarsi, per quanto si trattò di un processo lento che impiegò secoli
prima di penetrare nella cultura popolare. Allo stesso tempo, cominciò
a frammentarsi e a sgretolarsi quella visione integrale della realtà che
per più di un millennio aveva permeato le culture europee
caratterizzate dall’idea di avere un posto nell’universo. Parlando di
questo processo, Martha Heyneman commenta:
La rivoluzione del sedicesimo secolo, privando l’universo nel suo insieme di ogni
forma immaginabile, soppresse l’immagine di una scala di sfere che l’anima
individuale poteva aspirare a risalire dalla terra fino al cielo; privò Dio e gli angeli
delle loro dimore; li mise, per così dire, alla porta. Ma costoro potrebbero aver
continuato a soggiornare da qualche parte fuori nello spazio infinito [...] se non fosse
stato per un altro processo che si stava verificando al contempo. Tale processo, che
E.J. Dijksterhuis definisce “la meccanizzazione dell’immagine del mondo” e Carolyn
Merchant “la morte della natura”, trasformò il mondo in una macchina che
funzionava da sola, che non necessitava di angeli e anime per render conto dei suoi
movimenti, e Dio in un “ingegnere in pensione”.
(1993)
Mano a mano che si affermava l’idea che l’universo fosse
governato da leggi eterne, si cominciò a eliminare anche quella che
tutte le cose possedessero un’anima. Le leggi universali mitigarono la
necessità di un’anima individuale che guidasse ogni cosa verso il
proprio fine. Tra il 1596 e il 1623, per esempio, Keplero decise di
apportare un cambiamento al suo Misterium cosmographicum
sostituendo, in riferimento ai pianeti, il termine “anima” con “vis”. In
questo modo sembra passare dal concetto di natura in quanto essere
divinamente animato a un essere che assomiglia decisamente a un
orologio, o a una macchina. Eppure Keplero era ancora una figura di
transizione, poiché continuò a credere in un’anima del mondo «in cui
è impresso il Sembiante divino» (Heyneman, 1993).
È stato Cartesio (1596-1650) ad aver formulato la prima vera
cosmologia meccanicista. Per Cartesio la mente trascendente
dell’uomo è posta al di sopra della materia. L’anima è composta di
una sostanza pensante che è completamente separata dal corpo e la
cui natura è eterna. Ciò che distingue gli esseri umani da qualunque
altra cosa è la loro capacità di ragionare: «Penso dunque sono». Le
emozioni appartengono alla sfera corporea e non fanno altro che
contaminare il puro regno della razionalità rappresentato dalla mente.
Il mondo fisico può essere compreso attraverso l’applicazione della
matematica ed è governato da leggi immutabili che provengono
direttamente da Dio. Parte della dignità della mente, infatti, sta nella
sua «capacità, simile a quella divina, di comprendere l’ordine
matematico del mondo» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 39]). La stessa
verità è concepita come una conoscenza matematica.
Per Cartesio l’intera realtà – fuori dal regno trascendente della
mente (in cui Cartesio include Dio) – ha una natura
fondamentalmente meccanica. Ogni altra cosa è semplicemente
materia inanimata. Perfino gli animali sono “automata”, solo
apparentemente sono vivi, ma di fatto altro non sono che macchine
complesse. Poiché non hanno un’anima non possono veramente
provare dolore o gioia, e dunque gli uomini possono usarli come
meglio desiderano.
La cosa stupefacente è che molti cristiani ancora oggi danno
ampiamente per scontata la visione cartesiana del mondo, ritenendo
che gli uomini siano i soli a possedere un’anima. Eppure, quando
apparve per la prima volta, quest’idea strideva con la visione, in
seguito divenuta ortodossa, di un mondo vivo abitato da creature
viventi create da Dio. Come sottolinea Rupert Sheldrake : «Cartesio
proponeva insomma una forma di monoteismo ancora più estremo di
quello della dottrina ortodossa della Chiesa. Riteneva questa
concezione più elevata di Dio» (1988 [2011, p. 40]). Eppure, nel corso
dei secoli la stessa Chiesa sembrò aver inconsciamente adottato buona
parte del pensiero cartesiano come sua nuova ortodossia.
È altresì difficile immaginare una visione del mondo più
brutalmente antropocentrica di quella proposta da Cartesio. Gli esseri
umani – in particolare la mente umana – appartengono a una realtà
completamente distinta da quella delle altre creature e dall’intero
regno materiale. Essi hanno mano libera per esercitare il loro potere
sulla Terra e su ciò che essa contiene, anche se questo significa
arrivare a distruggere altri organismi (che sono solo “automata”, non
veri e propri esseri viventi). Allo stesso tempo, la preferenza accordata
a questa forma di conoscenza “razionale” – o, per essere più precisi,
discorsiva –, insieme alla svalutazione sia delle emozioni che del
corpo, sembra altresì aver corroborato il patriarcato, soprattutto in
virtù del fatto che le donne sono sempre state tradizionalmente
identificate con la sfera emotiva e con la natura stessa. L’affermazione
della superiorità della mente sul corpo, inoltre, conferisce maggiore
dignità alla ricerca intellettuale (della quale fanno parte la matematica
e la scienza) – condotta in genere dagli uomini di elevata condizione
sociale – rispetto al lavoro manuale, generalmente svolto da individui
appartenenti agli strati più poveri e dalle donne. La visione del
mondo cartesiana diventa così una giustificazione del dominio e dello
sfruttamento sugli altri esseri viventi da parte degli uomini e altresì
dell’uomo sulla donna.
Sir Isaac Newton (1642-1727) partì dal pensiero cartesiano e lo
applicò alla scienza, arrivando a formulare le leggi meccaniche del
moto e della gravitazione, verificabili attraverso la sperimentazione e
l’osservazione. Utilizzando queste leggi Newton poté prevedere
matematicamente il moto delle stelle e dei pianeti. Il successo delle
teorie di Newton aprì la strada a una diffusa accettazione della visione
del mondo meccanicista fondata sull’ordine matematico. Come
sottolinea Deborah Du Naan Winter:
L’opera di Newton fornisce le basi per l’odierna visione del mondo: la materia è
qualcosa di intrinsecamente inerte, composta di oggetti mossi unicamente da forze
esterne, le cui direzioni e i cui movimenti possono essere previsti con certezza di
risultato come palle del biliardo. Sebbene convenisse con Cartesio che solo Dio può
aver creato un universo così magnificamente ordinato, Newton contribuisce a
spianare la strada alla nostra visione del mondo secolare dimostrando con quale
ordine e quale precisione siano prevedibili i movimenti degli oggetti.
(1996)
La sintesi cartesiano-newtoniana ha progressivamente conquistato
terreno – innanzitutto nel mondo della scienza, ma alla fine nella
società in generale. In questo modo anima e spirito sono stati
effettivamente estirpati dal mondo. Il cosmo, che un tempo era una
specie di cattedrale di luce, si è trasformato in un preciso quanto
ottuso orologio. La Terra da madre ricca di vita è diventata materia
inanimata, un mero deposito di materie prime che aspettano di essere
sfruttate dall’uomo. Persino gli animali, i nostri più vicini compagni
creaturali, hanno finito per trasformarsi in stupide bestie incapaci di
veri sentimenti o di emozioni. Il mondo, senza dubbio, è diventato più
prevedibile, e forse anche un luogo su cui la scienza può esercitare i
suoi poteri di controllo, si è trasformato in un luogo addomesticato e
meno spaventoso; eppure, paradossalmente, il mondo si è tramutato
in una dimora ancora più fredda e minacciosa, allorché l’uomo ha
cominciato a percepirsi come isolato, separato dalla più grande
comunità della vita e davvero, per la prima volta, senza una casa.
Ridurre il tutto in parti: materialismo atomico
Colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è
ha abbandonato il sentiero della saggezza.
(Discorso di Gandalf,
in J.R.R. Tolkien, 1999 [2000, p. 327])
Sostituire una visione organicista del cosmo con una meccanicista
ha avuto profonde ripercussioni sulla nostra comprensione della
realtà. Siamo passati da una dimora vivente ricca di mistero a una
macchina più simile a un orologio, che attende solo di essere sezionata
e controllata. Il mondo è diventato comprensibile in un modo nuovo,
un modo che favorisce il predominio dell’uomo sulla natura. Come
evidenzia Diarmuid O’Murchu, quella nuova visione del mondo era
«nitida, efficiente e facile da comprendere» (1997). Per illustrare
alcune delle sue caratteristiche salienti O’Murchu ricorre all’esempio
del funzionamento di un televisore.
Innanzitutto, causa ed effetto si susseguono in maniera semplice,
diretta e lineare. Se spingo il pulsante la TV si accende. Succede
qualcosa perché qualcos’altro lo ha causato. Analogamente, non vi
sono anime che dirigono la crescita di una quercia, ma meri processi
biologici governati da sostanze chimiche dette geni.
In secondo luogo, l’universo è prevedibile e deterministico. Se
spingo il bottone la TV si accenderà sempre, salvo guasti o mancanza
di elettricità. Premere il pulsante ON non darà luogo, per esempio, a
un cambiamento del canale o a una modulazione del colore. Le cose
funzionano in modo prevedibile e predeterminabile. Allo stesso
modo, un esperimento scientifico dovrebbe sempre produrre risultati
coerenti e ripetibili.
Alla fine, ogni insieme è composto di parti più piccole. Se qualcosa
non va con la TV, basta trovare la parte o le parti difettose e sostituirle,
e tutto tornerà a funzionare come prima. Utilizzando la stessa logica
possiamo comprendere come funziona un televisore studiando il
funzionamento di ciascuna delle sue parti e osservando poi come
ognuna di esse si relaziona alle altre. Lo stesso discorso vale per tutte
le cose del cosmo: scomponiamo qualcosa di complesso in parti
semplici per comprenderlo.
Quest’ultima caratteristica della cosmologia materialistica classica
è detta riduzionismo, e rappresenta un momento fondamentale
dell’approccio scientifico alla realtà. Stando al pensiero riduzionista,
per comprendere le leggi fondamentali dell’universo bisogna andare
alla ricerca dell’elemento più piccolo che compone la materia. Questo
elemento piccolissimo, indivisibile e indistruttibile è l’atomo. Newton
e altri scienziati dell’epoca postularono l’esistenza degli atomi non
perché fossero riusciti a provarne l’esistenza attraverso dati
sperimentali ma perché siffatta idea era per loro filosoficamente
seducente. In un mondo in cui ogni cosa può essere scomposta in parti
più piccole e semplici, gli atomi semplicemente dovevano esistere,
sebbene fosse impossibile osservarli.
L’idea degli atomi, nondimeno, è molto più vecchia di Newton e
dei suoi contemporanei. Il filosofo greco Anassagora (500-428 a.C.),
seguito poi da Leucippo e Democrito (460-370 a.C.), fu il primo a
ipotizzare che la materia fosse composta di piccolissimi atomi eterni.
Essendo fisicamente indivisibili, gli atomi erano dunque eterni e
indistruttibili. La realtà era composta di atomi e dallo spazio in cui
questi si muovevano spostandosi in tutte le direzioni, urtandosi come
palle di biliardo o aggregandosi quando erano dello stesso tipo, per
andare poi a congiungersi per formare le sostanze. Nell’elaborare
questa concezione, tali filosofi presero come punto di partenza la
filosofia di Parmenide di Elea (inizio del V secolo a.C.), secondo il
quale la realtà era permanenza e immutabilità – in contrasto con
Eraclito (ca. 535-475 a.C.), che considerava la realtà come qualcosa di
dinamico, simile a un flusso continuo in costante divenire. Per gli
atomisti il cambiamento era semplicemente movimento e
ricombinazione di particelle reali e indivisibili. Alla base di tutta la
realtà c’erano dunque gli atomi eterni e immutabili.
Theodore Roszak (1999) pone un interessante interrogativo: perché
l’atomismo attrasse così tanto i filosofi greci? Per Roszak il motivo va
ricercato principalmente nel fatto che l’atomismo li liberava dalla
necessità di dover credere al capriccio degli dèi. «L’atomo
impersonale, sottoposto alla legge, ci rende sicuri: nessuno
sull’Olimpo ce l’ha con noi». Insomma, è probabile che «l’atomo
avesse fatto il suo ingresso nella storia come un minuscolo
tranquillante filosofico, una soluzione di ordine intellettuale alle
nostre più profonde paure emotive [...]. Si tratta di terapia, non di
scienza».
Per i materialisti greci che postulano l’esistenza degli atomi,
dunque, non c’era bisogno né dello spirito né degli dèi. Gli esseri
umani erano entità materiali come tutte le altre. Gli atomisti della
prima rivoluzione scientifica, tuttavia, coniugarono l’atomismo con il
concetto platonico di forme eterne, traducendolo nella nozione di
leggi universali. Dio creò gli atomi e poi impresse il moto all’universo
affinché fosse governato dalle leggi che egli aveva stabilito. Come
sottolinea Rupert Sheldrake, questo «dualismo di realtà fisica e leggi
matematiche» formulato in principio da Isaac Newton «è sempre stato
implicito nella visione del mondo della scienza» (1988 [2011, p. 42]).
L’atomismo newtoniano differiva dalla cosmologia di Cartesio,
secondo il quale lo spazio era pieno di vortici di materia sottile. Per
Newton, come per Leucippo e Democrito, gli atomi si muovono nel
vuoto. Ciò significa che la forza di attrazione gravitazionale doveva
agire misteriosamente a distanza attraverso lo spazio. Secondo
Newton la gravitazione dipende perciò direttamente da Dio, ed è
espressione della volontà divina. Successivamente, tuttavia, gli
scienziati attribuirono direttamente alla materia la forza di attrazione
gravitazionale. Quel che «rimase all’interno di uno spazio e di un
tempo matematici assoluti, fu un mondo meccanico, contenente forze
inanimate e materia, e totalmente governato da leggi matematiche
eterne» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 43]).
L’atomismo continuò a svilupparsi. Nel XIX secolo il chimico
inglese John Dalton (1766-1844) utilizzò la nozione di atomo per
garantire un fondamento matematico alla chimica. Se gli atomi
possono essere pesati e contati, allora possono anche fornire una base
per il calcolo delle formule chimiche. Questo, insieme alla tavola
periodica di Dmitrij Mendeleev, portò l’atomismo di Newton a uno
stadio nuovo. La sola differenza negli elementi fu una differenza di
quantità – il peso dei rispettivi – e non una differenza di qualità. Come
evidenzia Roszak:
Era tutto meravigliosamente semplice. Gli atomi davano al mondo visibile un
fondamento puramente fisico. Si pensava che rispondessero alle stesse leggi
meccaniche che descrivevano accuratamente i movimenti dei corpi celesti. Con
l’unica differenza, ovviamente, che i corpi celesti potevano essere osservati e gli
atomi no. Ma gli atomi offrivano qualcosa di molto più prezioso della visibilità. Gli
atomi offrivano la finalità. Erano il sostrato della realtà. Gli scienziati con tendenze
religiose erano liberi di credere che Dio avesse creato gli atomi e che li avesse messi
in movimento, ma gli atei erano altrettanto liberi di affermare che gli atomi erano
eterni e non necessitavano di alcun Dio che li creasse e li mettesse in movimento. In
ogni caso, non c’era null’altro in natura da chiarire al di là e al di sotto degli atomi.
(1999)
Alla fine, ovviamente, si scoprì che gli atomi (o quantomeno le
entità a cui abbiamo dato questo nome) non erano in realtà gli
elementi più piccoli che componevano la materia. Furono scoperte
altre “particelle elementari”; ma si scoprì anche che queste particelle
erano divisibili. Oggi i fisici continuano ad andare a caccia di
particelle di materia sempre più piccole facendo uso di macchinari
sempre più grandi. Ogni volta che scoprono una nuova particella,
tuttavia, la loro ricerca sembra farsi più evanescente. Alla fin fine non
sembra esserci alcun fondamento ultimo, ma solo una realtà
misteriosa che sfugge a qualsiasi tentativo di descrizione in base alla
nostra esperienza normativa. Atomi e particelle subatomiche
sembrano addirittura eludere alle leggi della meccanica descritte da
Newton, per seguire qualcosa di più strano e insolito. Gli atomi, se
ancora possiamo dire che esistono, sono qualcosa di totalmente
diverso da ciò che avevano immaginato Leucippo, Democrito o
Dalton.
Soggiogare la natura: la ricerca del controllo
Dietro l’originale teoria dell’atomismo sta il desiderio di un mondo
prevedibile e deterministico. Come i primi filosofi greci cercavano
tranquillità e sicurezza, così gli scienziati furono attratti da una
concezione degli atomi che avrebbe garantito loro la comprensione, la
prevedibilità e in ultima analisi il controllo delle forze della natura.
«Una volta scoperto il frammento originario», sottolinea Diarmuid
O’Murchu, «sapremo come ha avuto inizio l’universo, come è
destinato a funzionare, come le diverse forze al suo interno possono
essere conquistate e poste sotto controllo, e come potrà alla fine
terminare» (1997).
Se immaginiamo l’universo come un’immensa macchina composta
di semplici “mattoni” che funzionano in modo deterministico,
possiamo acquisire un certo controllo sulla natura nella misura in cui
raggiungiamo la conoscenza delle leggi universali che governano tutte
le cose. Concependo il cosmo come un essere composto di materia
inerte e inanimata – e postulando anche che le altre creature viventi
non sentano dolore –, i vincoli etici al dominio e allo sfruttamento
vengono per la maggior parte rimossi. Ma fino a che punto la
formulazione e l’adozione di una cosmologia meccanicista è stata
realmente motivata dal desiderio di controllare, dominare e persino
sfruttare la natura?
Francesco Bacone (1561-1626) viene in genere considerato il
“padre” del metodo scientifico. Per Bacone l’universo è
essenzialmente un problema in attesa di soluzione. Nei suoi scritti egli
afferma che «il sapere è potere» e che la verità, in alcuni casi, può
essere considerata l’equivalente dell’utile. Edward Goldsmith (1998)
osserva che la sostituzione operata da Bacone dei tradizionali valori di
bene e male con quelli di “utile” e “inutile” autorizzò di fatto lo
sfruttamento proprio nell’epoca in cui l’espansione coloniale nel
Nuovo Mondo cominciava a offrire opportunità quasi infinite di
spoliazione, schiavizzazione e di profitto economico.
Ne La grande instaurazione Bacone scrive che la natura svelerebbe i
suoi segreti più facilmente se solo fosse «costretta e tormentata [...]
rimossa a forza dal suo stato ordinario e premuta e forgiata mediante
l’arte e il ministero umano». Parimenti, ne Il parto mascolino del tempo
egli scrive: «In tutta verità vengo a portarti la natura con tutti i suoi
figli per costringerla al tuo servizio e renderla schiava». Il tono
patriarcale di questi brani salta all’occhio. La natura è vista come una
donna, “lei”, che dev’essere premuta, forgiata, legata e schiavizzata
dall’”uomo”.
Non sorprende che molti autori femministi considerino Bacone un
misogino. Egli viene spesso accusato di usare metafore che hanno a
che fare con la tortura come «mettere la natura alla ruota», anche se
sembra improbabile che questa frase così spesso citata sia davvero
stata utilizzata da Bacone37. Eppure, è evidente che la concezione che
Bacone ha della scienza è di uno strumento per mezzo del quale
l’“uomo” potrebbe soggiogare in maniera violenta la natura
“femminile”. Rosemary Radford Ruether sostiene che Bacone ricorre
al racconto cristiano della caduta e della redenzione per corroborare
questo concetto:
Attraverso il peccato di Eva la “natura” è caduta al di fuori del controllo
dell’“uomo”, ma attraverso la conoscenza scientifica questa caduta sarà superata e la
“natura” sarà restituita al dominio del maschio quale rappresentante del dominio di
Dio sulla terra. Per Bacone la conoscenza scientifica è fondamentalmente uno
strumento di potere, la capacità di sottomettere la “natura” e di governarla.
(1992 [1995, p. 280])
Anche la filosofia di Cartesio ha contribuito a rimuovere i vincoli
etici contro lo sfruttamento indiscriminato. Ruether ritiene che la
separazione dualistica tra mente e materia operata da Cartesio
consenta anche una separazione tra valori e fatti. La verità scientifica è
qualcosa di “oggettivo” e di “privo di valore”. Etica e valori, a loro
volta, sono relegati nella sfera tutta privata dell’anima. Questa
scissione dell’etica dalla scienza è utile poiché consente agli scienziati
di indagare liberamente, senza doversi preoccupare delle implicazioni
religiose delle loro scoperte. Allo stesso tempo, però, l’aver confinato
l’ambito etico alla sfera privata consente di affrancare molte altre
attività “materiali” da considerazioni di carattere etico. Sicuramente,
distruggere tutto ciò che non è dotato di mente – tutto tranne l’uomo –
non ha una reale rilevanza etica. Ma anche quando l’etica potrebbe
entrare in gioco – come nel caso dell’uomo – coloro che svolgono
attività materiali (le donne e gli strati sociali inferiori) possono
implicitamente trovarsi ad avere meno valore rispetto a coloro che
svolgono attività intellettuali.
Nel caso della fisica newtoniana, la creazione di una struttura
cosmologica basata su un ordine rigido e su leggi universali sembra
essere legata, almeno in certa misura, al personale bisogno di
sicurezza di Newton. Egli era nato diversi mesi dopo la morte di suo
padre, e quando sua madre si risposò fu mandato via per essere
cresciuto dai nonni. Nella sua giovinezza veniva descritto come un
pensatore sobrio e taciturno, con pochi amici. All’università i suoi
interessi riguardavano non solo la matematica e la filosofia naturale
ma anche l’alchimia.
Molte delle principali scoperte di Newton, inclusa l’invenzione del
calcolo, lo sviluppo della teoria della gravitazione e i primi studi sulla
natura della luce, avvennero tra il 1665 e il 1667, quando l’università
di Cambridge fu chiusa a causa di un’epidemia di peste. Senza dubbio
il tempo trascorso in solitudine lo aiutò a stimolare il suo genio
creativo, ma il clima generato dalla peste e dalla morte che vedeva
intorno a sé può anche aver impercettibilmente guidato il corso del
suo pensiero. Certamente, l’immagine di un universo ordinato che
funziona come un orologio sarà stata di conforto in un periodo simile.
Morris Berman ritiene che l’evoluzione del pensiero newtoniano
sia stato influenzato dai suoi bisogni psicologici, oltre che dalla
moralità puritana fondata sull’«austerità, la disciplina, e soprattutto la
colpa e la vergogna» (1981). La vita di Newton, in particolare la sua
giovinezza, fu segnata da un clima per molti versi ostile. Per Newton,
infatti, l’universo non era un “luogo ospitale”, bensì qualcosa che
aveva bisogno di essere controllato e disciplinato. «Una delle fonti
principali del bisogno di conoscenza di Newton era la sua
inquietudine e la paura dell’ignoto [...]. Un sapere che poteva essere
matematizzato pose fine ai suoi tormenti [...]. [Il fatto] che il mondo
obbedisse alle leggi matematiche fu la sua tranquillità» (F.E. Manuel,
citato in M. Berman, 1981).
Berman conclude che Newton, per quanto non psicotico, rasentò la
follia. E sottolinea altresì che i dipinti che lo ritraggono nel corso della
sua vita sembrano testimoniare un processo di progressivo
irrigidimento. Da giovane ha un aspetto delicato, quasi etereo, indice
di una certa sensibilità. Fattosi adulto – mentre le sue idee
diventavano sempre più meccaniciste e riduzioniste – pare assumere
una sorta di “indole corazzata” che alla fine cancella quell’immagine
iniziale di uomo dotato di un animo sensibile.
L’adozione da parte di Newton del meccanicismo e dell’atomismo
va altresì collegato al contesto sociale nel quale viveva. Sembra
evidente che l’alchimia esercitasse su di lui un’enorme attrazione,
probabilmente mai svanita del tutto. Le nozioni alchemiche, però,
passarono in secondo piano e alla fine furono espunte dalle sue opere
pubblicate. Berman osserva che la ritrattazione delle sue concezioni
giovanili avvenne negli anni che precedettero la Gloriosa Rivoluzione,
quando gli animi sia dei Livellatori che dei Repubblicani
cominciavano a infiammarsi. L’idea, presente nei suoi primi lavori,
che la natura fosse «in continua trasformazione e infinitamente
feconda» sollevò inquietanti parallelismi politici che rischiavano di
farli apparire pericolosi. Alla fine, a partire dal 1706, quando il suo
discepolo Samuel Clarke lavorava alla traduzione dell’Ottica in latino,
frasi come: «Non possiamo dire che tutta la Natura non sia viva» furono espunte
prima che le bozze andassero in stampa; e, cosa più importante, Newton adottò la
posizione secondo cui la materia era considerata qualcosa di inerte, posizione che
modificò in maniera non dialettica (cioè interiormente), ma solo attraverso un
processo formale. Di conseguenza, nell’Ottica [...] Newton aveva posto che «la natura
potrebbe essere durevole», in altre parole, che poteva essere stabile, prevedibile,
regolare – come dovrebbe esserlo anche l’ordine sociale. Da giovane Newton era stato
affascinato dalla fecondità della natura. Ora in qualche modo contava la sua presunta
rigidità.
(M. Berman, 1981)
Se il bisogno di sicurezza e di prevedibilità di Newton plasmò
inconsciamente la sua scienza, le motivazioni dei suoi contemporanei
come Robert Boyle erano molto più esplicite. Boyle scorse chiaramente
che uno dei principali vantaggi della nuova filosofia materialista
consisteva nella sua capacità di dare potere all’umanità – o forse, più
precisamente, all’”uomo” – e di rimuovere i vincoli etici, trasformati
dallo scienziato in meri “scrupoli di coscienza”:
La venerazione di cui sono pervasi gli uomini verso ciò che essi chiamano natura
ha scoraggiato e impedito il dominio dell’uomo sulle creature inferiori a Dio. Molti
infatti non solo l’hanno considerata una cosa impossibile da realizzare, ma
addirittura un sacrilegio tentare di rimuovere quei limiti che la natura sembra aver
posto e stabilito tra sue creazioni; e mentre essi guardano a lei come a una cosa così
degna di venerazione, altri sono colti come da uno scrupolo di coscienza tanto
dinanzi all’impegno di emulare le sue opere quanto a quello di esaltarle.
(Robert Boyle, citato in Roszak, 1999)
Per Boyle non era sufficiente conoscere semplicemente la natura;
bisognava “renderla utile” per qualche scopo particolare. Sicché,
ovviamente, per Boyle e altri come lui la scienza doveva essere
utilizzata come un metodo di controllo e di dominio.
Questa ricerca del potere attraverso la scienza – pensata come
“potere su”, ovvero potere dominante dell’”impero dell’uomo” –
esiste tuttora. Nonostante la nuova visione del mondo propria di
discipline come la fisica quantistica e la teoria dei sistemi, gli scienziati
continuano a far urtare tra loro le particelle elementari nella speranza
di trovare il Santo Graal del “fondamento” ultimo della natura. Nel
campo della biologia i geni attualmente svolgono una funzione simile
a quella degli atomi della fisica classica. I geni vengono codificati
deterministicamente e meccanicisticamente per specifici tratti, forse
anche per specifici comportamenti. Tutto è riducibile ai geni, così, se
fossimo in grado di tracciare una mappa completa del genoma e di
comprendere le singole funzioni di ogni singolo gene, potremmo
allora magicamente scoprire tutti i segreti della vita e riuscire a
riplasmare gli organismi come meglio crediamo. La psicologia
comportamentale estende il meccanicismo al regno stesso della mente:
il cervello è solo una macchina e i comportamenti possono essere
compresi in termini di reazioni stimolo/risposta senza complicati
rimandi alla coscienza, alle motivazioni o all’etica. Manipolando il
comportamento possiamo plasmare e riprogrammare la stessa psiche.
Rifacendosi a Roszak, lo psicologo Abraham Maslow ritiene che
l’intero progetto scientifico moderno «sia inconsciamente dominato da
un metodo di ricerca fondato sulla paura e di conseguenza guidato
dal bisogno di controllo» (Roszak 1999). Per Maslow, se questa
esigenza viene spinta troppo oltre, potrebbe provocare una specie di
“patologia cognitiva” che di fatto «distorce più di quanto non
chiarisca». È interessante notare come, per esempio, la fisica classica si
sia limitata a ignorare il problema dei sistemi non-lineari e caotici,
giacché non potevano essere compresi in termini di prevedibilità e
nell’ambito della scienza meccanicista.
Analogamente, Aldous Huxley una volta fece notare che la
concezione della natura in Europa nasce dalla prospettiva privilegiata
di un giardino ben curato piuttosto che dalla misteriosa complessità di
una foresta tropicale. Anche Huxley vide nella paura una delle
principali motivazioni che governano la scienza eurocentrica: «È la
paura del flusso labirintico e della complessità dei fenomeni che ha
spinto l’uomo verso la filosofia, la scienza, la teologia – la paura della
realtà complessa che spinge gli uomini a inventare storie sempre più
semplici, ragionevoli e quindi consolanti» (citato in Roszak, 1999),
compresa, ad esempio, la confortante storia di universo-orologio
riducibile ai suoi atomi inerti.
Arrivati a questo punto è importante evidenziare una delle
caratteristiche più lampanti dell’impresa scientifica fino almeno alla
fine del XIX secolo, e sicuramente per buona parte del XX: la scienza era
una prerogativa quasi esclusivamente maschile. La scienza, per
definizione, era una scienza “maschia”. Roszak osserva che alle donne
è stata tradizionalmente assegnata la responsabilità delle caotiche
incombenze della vita quotidiana: accudire i figli, cucinare e pulire.
Questa realtà «le ha portate ad aspettarsi poco quanto a pulizia,
ordine o chiarezza nella vita. Forse non possono fare a meno di
coltivare una sagace consapevolezza circa i lati oscuri, le sottili
sfumature e le relazioni imperfette. Potrebbero persino imparare ad
accettare il disordine come parte integrante del mondo reale» (1999).
Roszak fa poi notare che la recente tendenza della scienza a
contemplare l’ipotesi della “teoria del caos” al fine di comprendere i
fenomeni non-lineari potrebbe essere dovuta unicamente all’ingresso
nella comunità scientifica di una presenza femminile più nutrita.
Dato il pregiudizio maschilista della scienza classica, non deve
sorprendere che la scienza sia stata tanto segnata da metodi e
comportamenti chiaramente patriarcali. Come mostra Jane Goodall,
questa “scienza maschia” escluse dai suoi metodi qualità “femminili”
come «la sensibilità, la delicatezza, il calore umano, la compassione e
l’intuizione» (Roszak, 1999). L’esclusione di queste qualità dalla
scienza finì per rimuovere anche quei vincoli etici che limitano l’uso
della violenza e delle tecniche di sfruttamento, come testimonia
l’eccessivo ricorso alle sperimentazioni sugli animali, eseguite sovente
per ricerche di dubbia natura.
Se, da un lato, le tendenze patriarcali della scienza possono essere
tranquillamente considerate il risultato della divisione sessuale del
lavoro tipica dell’epoca, dall’altro un simile approccio possedeva
anche un che di cosciente e intenzionale. Henry Oldenburg, per
esempio, il primo segretario della Royal Society inglese, affermò che la
priorità per la società doveva essere l’affermazione di una “filosofia
maschile”. «La donna che è in noi», disse, è «un’Eva tanto funesta
quanto la Madre delle nostre miserie» (Roszak, 1999).
Data la piega patriarcale della scienza occidentale, non deve
dunque sorprendere che il filosofo francese Michel Serres arrivi alla
conclusione che la fisica classica sia la «strategia assassina» dove tutto
è «stabile, immutabile, ridondante» e dove «non c’è nulla da imparare,
da scoprire, da inventare [...] C’è solo e sempre morte» (citato in
Toolan, 2001). Anche Vandana Shiva (1989 [2002]), come abbiamo in
precedenza osservato, ritiene che la scienza patriarcale sia stata
determinante nel favorire il processo d’industrializzazione
convertendo la Terra da terra mater in una macchina inanimata e in un
deposito di materie prime abolendo così di fatto tutti i vincoli etici allo
sfruttamento, il quale, da parte sua, ha condotto a nuovi modelli di
dominazione sulle donne e alla loro esclusione, in quanto partner, sia
dalla scienza che dallo sviluppo socio-economico.
Eternità, determinismo e perdita di scopo
Mentre l’idea di un universo-orologio meccanicista acquisiva
potere, anche la concezione scientifica del cosmo si faceva sempre più
deterministica e immutabile. Sebbene l’ispirazione del nuovo modello
fosse stata ampiamente platonica, il suo Dio era il motore immobile di
Aristotele, impassibile, onnipotente e immutabile. All’inizio questo
Dio serviva per “dare la carica all’orologio” e mettere di volta in volta
tutto in moto, ma all’inizio del XIX secolo il cosmo era diventato una
specie di macchina dal moto perpetuo.
Il fisico francese Pierre Laplace (1749-1827) credeva infatti che se si
fosse riusciti a conoscere tutte le forze che agiscono nell’universo,
nonché la precisa posizione di ogni corpo in un dato momento nel
tempo, sarebbe stato teoricamente possibile elaborare un’unica
formula che avrebbe consentito di vedere tutto il passato e di
prevedere in maniera infallibile tutto il futuro, senza alcun margine di
dubbio. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole: tutto è fissato, tutto è
determinato. Come afferma Rupert Sheldrake:
Il meccanismo era eterno e avrebbe sempre funzionato, così come aveva sempre
fatto, in modo totalmente deterministico e prevedibile, o almeno prevedibile in linea
di principio da un’intelligenza sovrumana onnisciente, sempre che un’intelligenza
del genere fosse esistita. [...] Dio non era più necessario per “caricare” le cose e per
metterle in moto. Era diventato un’ipotesi superflua. Le sue leggi universali
rimanevano, ma non più come idee nella sua mente eterna. L’esistenza delle cose non
aveva una motivazione ultima: non vi era bisogno di alcuno scopo perché esse
esistessero. Tutto, compresi gli stessi fisici, era materia inanimata che agisce in
dipendenza di leggi fisiche.
(1988 [2011, p. 18])
Nucleo di questa concezione deterministica è l’idea di una
causalità lineare o di “trasformazioni unitarie”. Se ogni evento
nell’universo è il risultato delle cause che lo hanno preceduto, allora
«il presente si sviluppa incessantemente dalle brume del passato e
contiene in sé tutto ciò che potrà accadere nel futuro» (Peat, 1991).
Questo flusso unidirezionale della causalità è lineare perché gli input
determinano direttamente gli output.
La linearità, a sua volta, è collegata al riduzionismo: le variabili
sono ridotte a quelle che possono essere di volta in volta controllate,
isolate e verificate. Anche se tale metodo ha dato risultati importanti,
resta comunque limitato fintanto che la complessa interazione di
variabili non potrà essere esaminata nella maniera adeguata.
L’obiettivo è analizzare, controllare e prevedere i risultati, i quali
presuppongono una causalità a senso unico (Macy, 1991a). Il bisogno
di un universo lineare era così forte nella scienza classica che i sistemi
non-lineari, come abbiamo già mostrato, furono ampiamente ignorati
fino al XX secolo. Eppure, anche nei sistemi planetari – che in origine
avevano ispirato l’universo-orologio – possono esservi dinamiche
caotiche e non-lineari, allorché interagiscono tre o più corpi.
Verso la fine del XIX secolo la concezione del cosmo della scienza
occidentale si fece ancora più sconfortante. Il mondo non poteva più
essere considerato una macchina dal moto perpetuo perché le nuove
leggi della termodinamica avevano dimostrato che una macchina
siffatta non era possibile: tutto tendeva a uno stato di equilibrio
energetico; tutto si muoveva gradualmente verso uno stato di maggior
disordine. Alla fine, l’intero universo sarebbe morto di morte termica,
diventando niente di più che un brodo informe di materia ed energia.
Ancora nel XX secolo l’idea di un universo statico ed eterno era così
profondamente radicata che portò Albert Einstein a “truccare” le
equazioni di campo nella sua teoria della gravitazione universale. Le
equazioni che per primo Einstein sviluppò fornirono solo soluzioni
non-statiche, che indicavano che il cosmo doveva essere in
espansione. Einstein, credendo che ci fosse un errore, “fissò” le sue
equazioni aggiungendovi una “costante cosmologica” per offrire una
soluzione statica. In seguito, Einstein stesso l’avrebbe definita la più
grande cantonata della sua vita. La cosa, tuttavia, illustra bene quale
potere possano avere idee forgiate per distorcere la scienza, perfino
nel caso di un pensatore originale come Einstein.
Una volta confermato che l’universo era in espansione, la teoria
della creazione continua ha contribuito a fornire un modo per
immaginare il cosmo in una sorta di costante “stato stazionario”. I
modelli statici dell’universo in realtà continuarono a dominare la
fisica fino agli anni Sessanta. In una siffatta visione del mondo, novità
e cambiamento avevano poco spazio. L’universo era privo di fini o
scopi. La vita, e perfino la mente, erano considerati meri accidenti
cosmici senza alcun reale significato. Ancora oggi gli scienziati sono
estremamente attenti a rimuovere ogni traccia di finalismo dalle loro
descrizioni della realtà. Qualsiasi traccia di “teologia” – o di una
qualche sorta di fine ultimo – è inesorabilmente espunta dalle teorie
scientifiche. Perfino gli organismi viventi devono essere considerati
privi di obiettivi o di mire, salvo forse la mera sopravvivenza.
Ovviamente, questo tipo di credenze influenza il nostro modo di
pensare il cambiamento. In un universo deterministico e privo di un
fine, idee quali la rivoluzione e la trasformazione radicale non trovano
posto. Ciò che sarà è determinato da ciò che fu. La creatività autentica,
ogni sorta di genuina manifestazione della novità, è essenzialmente
impossibile. Questa visione disperata forse può essere meglio
sintetizzata citando per esteso le parole di Bertrand Russell già
menzionate in precedenza:
Che l’uomo è il prodotto di cause prive di previsioni circa le loro finalità; che la
sua origine, le sue speranze e le sue paure, i suoi amori e le sue credenze, non sono
altro che il risultato di collisioni accidentali di atomi; che nessun ardore, nessun
eroismo, nessuna intensità di pensiero o sentimento, possono preservare la vita
individuale al di là della tomba; che tutte le fatiche delle varie età, tutta la devozione,
tutta l’ispirazione e tutto lo splendore del genio umano sono destinati all’estinzione
alla morte del sistema solare; e che l’intero tempio dell’opera dell’Uomo sarà
inevitabilmente sepolto sotto i detriti di un universo crollato; tutte queste cose,
benché non esenti da disputa, sono una certezza così chiara che nessuna filosofia che
vi si opponga può sperare di reggersi. Solo con l’impalcatura di queste verità, solo sul
solido fondamento di un’inflessibile disperazione, si può costruire la dimora
dell’anima.
(citato in Sheldrake, 1988 [2011, pp. 20-21])
L’assenza di un fine del cosmo non solo scaturisce dall’idea che la
scienza sia scevra da preoccupazioni etiche, ma corrobora un tale
assunto. L’etica diventa del tutto superflua, o al massimo una mera
convenzione sociale: «L’universo “lì fuori”, salvo che per gli esseri
umani, è intrinsecamente privo di valore e di scopo. Il valore è il
prodotto della sola mente umana e di conseguenza non può essere un
aspetto oggettivo del cosmo» (Haught, 1993). Come dimostra Martha
Heyneman, in una simile visione anche gli esseri umani finiscono in
ultima istanza per perdere il loro senso dello scopo:
Se immaginiamo l’universo come una “cosa” – un universo fatto di “materia
inanimata e cieche forze” – anche in noi qualcosa si spegne e diventa cieco. Possiamo
dedicarci senza rimorsi (fino a che non comprendiamo che la nostra stessa esistenza è
minacciata) alla totale distruzione della natura. Ma se per di più immaginiamo un
universo senza scopo, ci coglie allora, nella delusione che segue l’esaltazione
temporanea di aver raggiunto un obiettivo immediato, un confuso sentimento di
depressione. Se l’universo non ha un senso, la mia vita può mai avere un qualunque
significato ultimo? Se il tutto non ha uno scopo, può averlo la parte?
(1993)
Interesse privato, progresso e sopravvivenza del più adatto
Il vuoto di senso proprio della visione del mondo meccanicista,
insieme alla ricerca del controllo sulla natura da parte della scienza, ha
portato alla formulazione di quella che potremmo definire la prima
“cosmologia surrogata”. In un universo inanimato e ostile l’umanità
troverebbe il suo scopo migliorando le proprie condizioni di vita per
mezzo dell’accumulazione della ricchezza e dello sviluppo del
“progresso” economico e sociale. Nel tempo, questi obiettivi sono stati
integralmente fusi nel perseguimento della “crescita” economica.
Morris Berman (1981) osserva che, per la maggior parte della storia
umana, lo sforzo cosmologico è stato guidato da interrogativi sul
“perché” di tale impresa, poiché consideravamo il cosmo qualcosa di
vivo, con i suoi scopi e i suoi fini. Ma nel corso della rivoluzione
scientifica siamo passati al “come”, e l’universo è stato trasformato in
un insieme di atomi senz’anima che si muovono meccanicisticamente
senza scopo. Abbiamo sostituito a un approccio basato sulla qualità un
approccio basato sulla quantità. Perfino il fine dell’uomo, sempre che
ne esista uno, finisce per essere descritto in termini quantitativi:
Atomismo, quantificabilità e l’atto deliberato di concepire la natura come
un’astrazione da cui ci si può distanziare, tutto questo schiude quella possibilità che
Bacone dichiarò essere il vero obiettivo della scienza: il controllo. Il paradigma
cartesiano o tecnologico [...], l’equazione tra verità e utilità, con la deliberata
manipolazione dell’ambiente [...]. Non l’olismo, ma la dominazione della natura; non
il ritmo eterno dell’ecologia, ma la consapevole gestione del mondo.
(M. Berman, 1981)
Considerato l’approccio quantitativo del meccanicismo, non è
sorprendente che bisognasse trovare un modo per misurare la
manipolazione, il controllo e il dominio stesso. Il denaro rappresenta
lo strumento più adatto a tale scopo.
Nell’indagine sui legami tra economia capitalista e cosmologia
della dominazione occorre evidenziare che la crescita dell’economia
monetaria fu fortemente collegata all’inizio della rivoluzione
scientifica. È durante il Rinascimento che finanza e accumulazione del
capitale divengono le dinamiche motrici in Europa. Il sociologo
tedesco Georg Simmel sostiene che un’economia fondata sul denaro
crea «l’ideale di un calcolo numerico esatto» che a sua volta porta
«all’interpretazione matematicamente esatta del cosmo» come
«controparte teorica dell’economia monetaria» (citato in M. Berman,
1981). La capacità, apparentemente infinita, del denaro di riprodursi
«ha anche avvalorato la nozione di universo infinito» (M. Berman,
1981), che infine, a sua volta, dà sostegno all’idea di sviluppo e di
crescita economica illimitata.
I mercanti che acquisivano potere nella nuova economia
arrivarono a considerare il calcolo finanziario un modo d’intendere
l’intera realtà, compreso il cosmo. La “quantificazione” ha finito per
essere considerata «la chiave del successo personale, poiché si pensava
che solo la quantificazione potesse garantire il controllo sulla natura
attraverso la comprensione razionale delle sue leggi». Giacché denaro
e matematica non avevano un “contenuto tangibile”, potevano allora
essere «piegati a qualsiasi scopo» e «in ultima analisi, divennero essi
stessi lo scopo» (M. Berman, 1981).
Berman sottolinea, inoltre, che durante quello stesso periodo
penetrò nella coscienza europea una visione quantitativa del tempo.
Gli orologi divennero un oggetto d’uso comune e il tempo passò da
una concezione ciclica a una lineare. L’idea che il “tempo è denaro”,
associata all’economia monetaria, fu formulata per la prima volta nel
XVI secolo. Berman conclude che «la nascita del tempo lineare e del
pensiero meccanicista», così come «l’identificazione tra tempo e
denaro e tra orologio e ordine mondiale, furono parte della stessa
trasformazione, e ogni elemento contribuì a rafforzare gli altri» (1981).
L’idea di un tempo lineare è anche strettamente collegata al concetto
di trasformazioni unitarie e, a sua volta, alla concezione deterministica
della realtà.
In maniera analoga, la nascita dell’individualismo che segna
l’inizio dell’era moderna ha indubbiamente reso più seducente agli
occhi dei primi scienziati il riduzionismo e l’atomismo. Ciò rafforzò
altresì l’idea che gli essere umani fossero distinti dalla natura e che gli
scienziati dovessero avere il ruolo di osservatori distaccati. Eppure,
allo stesso tempo, questi stessi principi scientifici servirono a
rafforzare nozioni legate all’individualismo, alla proprietà privata e ai
diritti individuali. L’idea che la materia sia inerte e senza vita e che la
natura non fa che attendere la mano trasformatrice dell’”uomo” per
essere migliorata si fece strada all’interno di ideali politici ed
economici di un’Europa impegnata nello sfruttamento coloniale.
John Locke (1632-1704), per esempio, nel suo concetto di proprietà
fondiaria utilizza l’“etica” di Bacone. Per Locke la terra inutilizzata è
terra sprecata. I popoli indigeni non possiedono realmente le terre che
abitano perché non le hanno mai “coltivate”. La terra incolta è
semplicemente “terra vergine” in attesa di essere sfruttata. La
proprietà privata della terra è dunque per il filosofo inglese un diritto
dato da Dio e una responsabilità: «Dio, comandando di lavorare la
terra, ha concesso l’autorità di appropriarsene» (citato in Winter,
1996). Locke propugnava l’uso del lavoro per “recintare” la terra al
fine di sottrarla alla “condizione comune”, opponendosi a ogni forma
collettiva di proprietà. Nella concezione della democrazia di Locke,
solo i proprietari terrieri potevano votare perché solo loro, attraverso
l’opera di “coltivazione della terra”, meritavano di avere voce in
capitolo per il governo.
L’idea odierna di individui in competizione gli uni con gli altri può
aver avuto origine da un filosofo ancor precedente, Thomas Hobbes
(1588-1679), il cui pensiero precede, e in un certo senso sopravanza,
quello di Locke, sebbene inizialmente le sue idee non siano state
accolte con favore. Hobbes propende per una visione del cosmo
completamente meccanicista in cui ogni cosa, incluso l’uomo, la mente
e le idee, possiede una natura completamente materiale. Per Hobbes
l’uomo è costantemente impegnato in una lotta con gli altri uomini,
sia per il potere che per l’accaparramento dei beni materiali. Gli esseri
umani per sopravvivere devono lottare anche contro la natura, la
quale è minacciosa e caotica. «Dunque, Hobbes considerò l’interesse
personale basato sulla competizione la radice della natura umana; e
poiché gli individui sono intrinsecamente in competizione gli uni con
gli altri, per creare una parvenza di ordine sociale sono costretti a
stipulare un contratto» (Winter, 1996). Tutto è basato sull’interesse
personale. Per Hobbes gli esseri umani non devono nulla alla società.
L’individualismo propugnato da Hobbes fu rafforzato da Adam
Smith (1723-1790), il quale credeva che se agli individui fosse stato
consentito di accumulare ricchezze senza alcun intervento dello Stato,
il risultato sarebbe stato il benessere sociale. In sostanza:
«Comportandosi nel modo più egoistico possibile noi massimizziamo
non solo il nostro interesse materiale ma anche quello della società nel
suo complesso – una filosofia ottimista che ha razionalizzato
l’individualismo e l’egoismo che segnarono il crollo della società
durante la rivoluzione industriale» (Goldsmith, 1998). Nel corso del
tempo, la stessa felicità fu vista come qualcosa che poteva essere
misurata: il valore di una proprietà e il possesso dei beni materiali.
Massimizzare l’accumulazione della ricchezza significava quindi
massimizzare anche la felicità.
Eppure, se da un lato si decantava l’accumulazione della ricchezza,
dall’altro l’uso di questa ricchezza per acquistare beni di lusso veniva
scoraggiato dall’influenza del protestantesimo, in particolare del
calvinismo. Secondo Deborah Du Naan Winter, «una delle poche cose
che in coscienza si poteva fare con i risparmi era “reimpiegarli
nell’azienda”; in altre parole: investire. In questo modo il calvinismo
incoraggiò la perfetta combinazione di duro lavoro e
autoannullamento ascetico che consentì al capitalismo di diffondersi»
(1996). Il calvinismo promosse altresì l’accumulazione del capitale
considerando le ricompense materiali un segno dell’approvazione di
Dio. Di contro, la povertà fu vista come una punizione per coloro che
avevano profuso scarso impegno. «Nel modernismo protestante il
lavoro e la ricchezza sono il bene; il tempo libero e la povertà il
peccato» (Winter, 1996).
In questa nascente cosmologia surrogata, dunque, l’individualismo
e l’accumulazione del capitale furono considerati una responsabilità
comune. La natura aveva valore solo nella misura in cui era “lavorata”
– o, come si sarebbe detto in seguito, “sviluppata”. Invece di avere
delle responsabilità verso la società nel suo insieme, abbiamo voluto
dotarci di diritti e libertà inalienabili e individuali. Come osserva lo
storico Richard Tarnas:
Mentre la visione del mondo della Grecia classica aveva individuato il fine
dell’attività intellettuale e spirituale dell’uomo nell’essenziale unificazione (o
riunificazione) dell’uomo con il cosmo e la sua intelligenza divina, e mentre il fine
cristiano stava nel riunire uomo e mondo con Dio, il fine moderno consisteva nel
generare la maggiore libertà possibile per l’uomo: libertà dalla natura, da strutture
politiche, sociali o economiche oppressive, da credenze religiose o metafisiche
restrittive.
(citato in Winter, 1996)
Le idee di libertà e di dignità individuali rappresentate dal
concetto di “diritti umani”, ovviamente, non sono negative in se
stesse. Certo, anche la liberazione dalle oppressive strutture politiche,
economiche, sociali e religiose sembra essere un obiettivo encomiabile.
Eppure, questi obiettivi si sono talmente individualizzati che il
benessere della società, e senz’altro anche il benessere delle altre
creature ed ecosistemi, è stato ampiamente obliato. Inoltre, l’obiettivo
di essere “liberi da” è una specie di fine per negazione. Può essere
chiaro ciò da cui ci si vuole allontanare, ma verso dove si desidera
andare? Bastano l’accumulazione della ricchezza e i beni personali?
I valori della competizione individuale e del guadagno personale
promossi da Adam Smith e dai suoi seguaci alla fine hanno trovato il
loro corrispettivo scientifico nella forma della teoria dell’evoluzione di
Charles Darwin (1809-1882), fondata sulla competizione e sulla
“sopravvivenza del più adatto”. Edward Goldsmith (1998) rintraccia
forti parallelismi tra la “mano invisibile” di Smith e la “selezione
naturale” di Darwin, poiché entrambe possiedono proprietà quasi
magiche che sfociano nel progresso e nel bene comune attraverso la
promozione di interessi individualistici.
Ovviamente Darwin aveva bisogno di spiegare per quale motivo
in un cosmo senza scopo che tende verso un’eventuale morte
termodinamica si dovrebbe verificare qualcosa come l’evoluzione.
Perché dei semplici organismi dovrebbero evolversi verso una
maggiore complessità in un simile universo? Darwin aveva bisogno di
una spiegazione che non implicasse nessun tipo di scopo o disegno
recondito – ciò che viene definito “teologia” – poiché qualsiasi traccia
di una siffatta teologia sarebbe stata, ovviamente, “non scientifica”.
L’idea delle variazioni casuali e della “sopravvivenza del più adatto”
fornirono al tempo una risposta coerente al paradigma scientifico ed
economico. Come osserva Rupert Sheldrake:
La teoria darwiniana dell’evoluzione degli organismi viventi non include nessuna
tensione finalistica, e neppure un processo concepito o guidato da una divinità; al
contrario, gli organismi mutano imprevedibilmente, i loro figli tendono a ereditare
queste mutazioni e, attraverso il cieco operare della selezione naturale, le varie forme
di vita evolvono senza alcuno scopo o finalismo, conscio o inconscio. Occhi e ali,
alberi di mango e uccelli tessitori, colonie di formiche e termiti, il radar dei pipistrelli
e tutti gli aspetti della vita sono venuti in essere mediante l’attività meccanicistica di
forze inanimate, attraverso il puro caso e la selezione naturale.
(1988 [2011, p. 20])
La competizione tra individui senza un vero scopo, quindi, porta a
un progresso dell’intera specie. Oggi, l’idea darwiniana che sia una
lotta basata sulla competizione a guidare l’evoluzione continua a
esercitare una forte influenza. Richard Dawkins, infatti, biologo
riduzionista militante, in realtà considera gli stessi geni in
competizione tra loro. Li definisce persino “egoisti”, paragonandoli
sia a giocatori di “giochi di guerra” che a “gangster” (Roszak, 1999).
La cosa più incredibile è che gli scienziati paiono prendere sul serio
simili spiegazioni. Secondo Theodore Roszak, si può anche accettare
di attribuire motivazioni egoistiche ai geni, i quali sono in realtà solo
molecole complesse; eppure, se si avanzasse l’ipotesi che gli organismi
viventi hanno intenzioni o sono mossi da uno spirito di cooperazione
o dall’altruismo, si sarebbe immediatamente tacciati di non
“scientificità”!
Il pensiero evoluzionistico darwiniano ispirò anche altri pensatori,
tra cui il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903), a promuovere
un’idea di progresso sociale correlata a quella teoria. Secondo questa
prospettiva, le società e le economie evolvono dal semplice al
complesso, proprio come le specie. Le società di cacciatori-raccoglitori
progrediscono verso società agrarie, e quelle agrarie verso società
industrializzate. I popoli partono come semplici “selvaggi” e si
evolvono fino a diventare “civilizzati”. Come si può immaginare,
questa teoria del progresso funse da comoda giustificazione alla
colonizzazione. Attraverso l’espansione dell’impero, l’Europa portò la
civiltà alle società più “arretrate”. Per gli Stati Uniti d’America
quest’idea di progresso servì a nutrire la fede nel “destino manifesto”
di espansione verso ovest e di conquista sia dei “selvaggi” che delle
“terre vergini” da questi abitate. In tal modo, è facile vedere come
questa stessa etica del “progresso” possa essere utilizzata per
giustificare il razzismo facendo appello alla “civilizzazione” delle
razze arretrate o “inferiori”.
L’idea di progresso è stata spesso associata alla precedente
concezione di Locke di “sfruttamento” della terra e al concetto di
proprietà privata. Come osserva Winter: «Si ha progresso quando gli
individui applicano la tecnologia» – e, potremmo aggiungere, il lavoro
umano – «per convertire la terra in guadagno» (1996). Col tempo,
l’idea di convertire la terra è stata estesa fino a includere tutti i tipi di
“materie prime” o di “risorse naturali”.
Il progresso divenne così sinonimo di “crescita economica”,
espresso dall’incremento del PIL. L’intera idea è intimamente legata
alla nostra cosmologia e alla nostra concezione del potere. Come
conclude Winter:
Il progresso, attraverso il possesso della terra e la crescita economica, è un tratto
fondamentale della nostra visione del mondo. L’idea che la vita dell’uomo stia
appollaiata sul tempo lineare, contrassegnato dal progresso verso una condizione
migliore, si riflette tal quale nella concezione greca e cristiana dell’uomo appollaiato
su un ordine di potere lineare. Nella tradizionale visione del cosmo occidentale Dio
regna sull’uomo, il quale a sua volta regna sulla donna, i bambini, le piante e la
materia inorganica, in quest’ordine.
(1996)
Una cosmologia dello sfruttamento e della disperazione
La cosmologia della dominazione che si è sviluppata in Occidente
nel corso degli ultimi quattro secoli circa è una cosmologia che
autorizza l’oppressione e lo sfruttamento, promuove l’individualismo
e la competizione e dà luogo a una sorta di disperazione esistenziale
generata da un senso d’inutilità. Questa cosmologia, comunque, non è
ineluttabile e nemmeno è la sola cosmologia “razionale” e “obiettiva”
che può essere concepita data la nostra attuale conoscenza delle
società umane, della Terra, dei suoi organismi viventi e del cosmo che
tutto avvolge. Piuttosto, la cosmologia della dominazione è un
costrutto sociale creato in un determinato contesto storico per
sostenere una determinata visione del mondo, che pare funzionale a
chi detiene il potere. In quanto tale, una simile cosmologia può essere
decostruita e sostituita. Per quanti desiderassero un cambiamento
radicale, invece, la cosmologia della dominazione deve essere
sostituita.
Come abbiamo visto, la cosmologia della dominazione –
soprattutto quella che si è sviluppata negli ultimi quattrocento anni38
– ha soppiantato una cosmologia più antica che considerava la Terra, e
anzi l’intero cosmo, un organismo vivente pieno di vita e dotato di un
fine. Al suo posto è subentrato un universo che somiglia a un’enorme
macchina composta di materia inerte e inanimata. Quest’universo
funziona in base ai principi della forza cieca e delle leggi universali.
Comprendendo queste forze e queste leggi l’umanità – generalmente
pensata come “uomini” – avrebbe potuto dominare e controllare la
natura, piegandola ai propri interessi. Il cosmo non era più una
comunità di soggetti, bensì una collezione di oggetti senza vita.
Theodore Roszak ritiene che l’idea di un universo morto possa
condurre a uno “stupro della natura” e che lo stupro, in questo caso,
non sia una semplice metafora. Lo stupro è radicato nella «mentalità
che autorizza la dominazione» e «la brama di potere tutt’altro che
metaforici [...]. Lo stupro trae origine da uno stato mentale preciso che
non cambia nel caso in cui la vittima sia una donna o la foresta
pluviale. Lo stupro comincia nel momento in cui si negano alla vittima
dignità, autonomia e sentimenti. Gli psicologi chiamano questo
comportamento “oggettivazione” della vittima» (1999).
Roszak sostiene che lo stupro nasce da un «bisogno compulsivo di
controllo, di controllo completo», e che ciò a sua volta proviene da un
senso d’inadeguatezza dello stupratore nei confronti della donna. Alla
paura subentra la rabbia e il desiderio di punire o di soggiogare.
Parimenti, il bisogno di sottomettere e controllare la natura scaturisce
dalla paura che nasce da un senso d’inferiorità o di inadeguatezza. La
donna difficile dev’essere plasmata secondo il volere dell’uomo e
messa sotto controllo. Per ottenere ciò, viene trasformata in un oggetto
e «marchiata con l’immagine del suo padrone» (1999). In tutto questo,
entra in gioco un senso di diritto dell’”uomo” sia al corpo della donna
che ai frutti della natura. Nel caso della natura, non abbiamo bisogno
di scusarci o di ringraziare per quello che prendiamo o distruggiamo,
perché il mondo è essenzialmente qualcosa di morto. La morte della
natura significa che noi abbiamo diritto di prendere ciò che vogliamo
senza alcun rimorso morale. Siamo liberi di stuprare la Terra.
Come abbiamo visto nell’analisi dell’ecopsicosi, la paura della
natura che pare aver motivato il passaggio da una visione del cosmo
in cui essa era considerata un essere vivente e fecondo a una in cui si è
trasformata in qualcosa di morto, in materia inerte, può essere in parte
collegata alla morte nera provocata dall’epidemia di peste bubbonica
che sterminò quasi un terzo della popolazione europea tra il 1347 e il
1350. Inoltre, l’inizio della “piccola era glaciale” nel XIV secolo
contribuì sicuramente a rafforzare il desiderio di controllo sulle forze
della natura considerate distruttive. Come abbiamo avuto già modo di
dire, il clima di caccia alle streghe e l’uso della tortura può aver fatto
la sua parte nella formazione di un atteggiamento “inquisitorio” nei
confronti della natura vista in termini femminili. La natura doveva
essere “tartassata” affinché fosse “lei” a svelare i suoi segreti; e solo
poi sarebbe stata modellata secondo le esigenze e i fini dell’”uomo”.
La cosmologia del meccanicismo e della materia inanimata
rimuove la gran parte, se non tutti, dei vincoli etici che si frappongono
allo sfruttamento del mondo naturale. Allo stesso tempo, la rigida
separazione tra mente e materia, che concerne il paradigma
cartesiano, ha portato a una svalutazione di tutto il regno organico,
compreso il corpo umano. In questo modo, viene svalutato anche il
lavoro fisico e chi lo svolge. Ne consegue che viene favorita
l’oppressione delle donne, degli schiavi e di tutti coloro che
appartengono alle classi operaie.
Intanto, l’idea che la materia sia composta di piccoli atomi, distinti
e indivisibili, non fa che rafforzare una concezione individualistica
della realtà, in cui la relazione reciproca e la cooperazione finiscono
per perdere ogni reale importanza. In un universo senza scopo non c’è
posto per l’altruismo o la compassione. Tanto l’evoluzione quanto il
progresso sono guidati da una spietata competizione che fa sì che solo
il più adatto sopravviva. Gli esseri umani, come gli animali, sono
impegnati in un’interminabile lotta per la sopravvivenza che si svolge
in un mondo freddo e ostile. I più adatti acquisiscono ricchezza – e la
ricchezza è segno della benedizione divina –, mentre coloro che sono
meno capaci di adattarsi vivono nella povertà, che è indice di
svogliatezza e inferiorità.
In un universo-orologio tutto può essere previsto se solo siamo in
grado di acquisire sufficienti conoscenze delle leggi eterne che
governano il moto e la materia. Nessuna vera novità è davvero
possibile. L’evoluzione sulla Terra è, al massimo, una curiosa
anomalia. Ciò che sarà viene determinato da ciò che è stato. Come
osserva Michael Lerner:
Se gli esseri umani sono davvero come le complesse leggi della fisica [classica],
allora è alquanto ridicolo lottare per cambiare le cose. Le nostre stesse battaglie
diventano prevedibili, e come hanno sempre fallito nel passato, così falliranno nel
futuro. «Si citi una sola rivoluzione che abbia prodotto una vera e propria
trasformazione», ci dicono provocatoriamente. «Non potete farlo, e la ragione è che la
scienza sociale ha già stabilito che questo genere di cambiamenti radicali è
impossibile. Dunque, smettetela di prendervi in giro».
(1986)
Lerner ritiene che «l’inconscio sociale» – basato sui presupposti
profondi che formano la nostra cosmologia – sia infatti alla radice di
ciò che egli definisce «surplus di impotenza», ossia «l’insieme delle
nostre credenze e idee su come è il mondo e come può essere
cambiato». Persino il marxismo, che è considerato la «più profonda ed
efficace critica alla società capitalista», alla fine ha fallito, poiché aveva
le sue radici in quella cosmologia meccanicista che legittima l’idea
secondo cui l’essere umano è qualcosa che «può essere soggetto alle
leggi scientifiche» (1986).
Secondo Kirkpatrick Sale la nuova concezione scientifica della
realtà trovò in Europa un’accoglienza così immediata perché
soddisfaceva le esigenze di coloro che erano al potere: «Forniva inoltre
la struttura intellettuale e il meccanismo pratico per la costruzione
dello Stato/Nazione – oltre il localismo feudale – nella direzione di un
capitalismo mercantile e industriale e in vista di un progetto di
colonizzazione e sfruttamento globali» (1985 [1991, p. 36]). Per
esempio, il nascente nazionalismo trovò nella nozione di leggi
immutabili l’idea giusta per imporre l’autorità. Nel frattempo il
capitalismo poté prosperare – o meglio, essere considerato naturale e
inevitabile – in un universo materialistico governato dalle forze della
competizione e dell’iniziativa individuale. Il processo di
colonizzazione fu sostenuto dalla ricerca scientifica volta al controllo e
alla sottomissione della natura, laddove la teoria dell’evoluzione alla
fine apportò un’ulteriore giustificazione per lo “sviluppo delle terre
vergini” e la “civilizzazione” dei “selvaggi”.
La cosmologia della dominazione non solo rimuove i limiti etici
allo sfruttamento, ma giustifica di fatto lo sfruttamento e lo fa apparire
“naturale” e “scientifico”. Non si tratta semplicemente di
un’osservazione storica, perché la stessa cosmologia continua a
sostenere gli sforzi di coloro che vogliono continuare a trasformare la
Terra da organismo vivente a capitale morto e inanimato.
Continuiamo a vivere nel retaggio della cosmologia della
dominazione, anche se molti dei suoi fondamenti “scientifici” si sono
da tempo polverizzati.
Oltre il meccanicismo
La vera trasformazione sociale richiede che si modifichino le
nostre categorie di pensiero fondamentali, che si cambi l’intera
struttura intellettuale con cui formuliamo la nostra esperienza
e le nostre percezioni. Dobbiamo, in effetti, cambiare completamente
la nostra “mentalità”, imparare un nuovo linguaggio.
(Zohar-Marchall, 1994)
Se da un lato bisogna riconoscere i limiti del progetto scientifico e
della relativa visione del mondo – allorché riconosciamo il ruolo che
esso ha nella legittimazione del patriarcato, della colonizzazione, del
consumismo e della distruzione ecologica –, dall’altro occorre però
anche riconoscerne i contributi positivi. Nelle società moderne in
pochi desidererebbero far semplicemente ritorno, per esempio, allo
stile di vita dell’Europa medioevale. A pochi piacerebbe vivere in una
struttura sociale rigida con poche comodità e molti rischi per la vita.
La maggior parte di noi apprezza l’ideale democratico e i diritti
umani, i quali faticosamente hanno guadagnato consenso. La scienza
ha portato dei benefici concreti alla società umana, sebbene ai benefici
si siano mischiati i guai (e nonostante i suoi effetti sullo stato di salute
del nostro pianeta siano stati quasi del tutto nocivi). Esiste un modo
per preservare alcuni dei benefici associati alla scienza e alla
cosmologia che ha contribuito a farla nascere mitigando o eliminando
al contempo i suoi aspetti nocivi?
Il filosofo Ken Wilber (1996) indica tre caratteristiche principali che
considera costitutive della “dignità della modernità” – quel che
chiama il “Grande Albero”. In primo luogo, la differenziazione del sé
individuale o “io” dalla propria cultura o dalla società che ha
contribuito a dare origine alle moderne istituzioni democratiche,
inclusi i governi eletti e i diritti umani. In secondo luogo, la
differenziazione della mente dalla natura può davvero aver
contribuito ai movimenti di liberazione, nella misura in cui la
“possibilità biologica” o la forza bruta non poterono più fungere da
giustificazione alla dominazione. In ultimo: la differenziazione della
cultura dalla natura ha rappresentato il fondamento della scienza
empirica in cui la verità non era più sottomessa alle ideologie dello
Stato o alla religione. Dal punto di vista di Wilber la «cosa buona è che
la modernità aveva imparato a differenziare il Grande Albero» – il che
vuol dire: differenziare il sé dalla cultura, la mente dalla natura e la
cultura dalla natura; «quella cattiva era che la modernità non aveva
ancora capito come integrarle» (1996). In realtà, invece di una mera
differenziazione, siamo arrivati a una vera e propria dissociazione.
Conclude Wilber:
L’ecocrisi è in gran parte il risultato di una continua dissociazione del Grande
Albero. Non possiamo allineare natura, cultura e coscienza; non possiamo allineare
natura, principi morali e mente. Siamo tutti frammentati in questa modernità che sta
lentamente perdendo il senno.
(1996)
Parimenti, Morris Berman lamenta la nostra perdita di coscienza
partecipativa, la capacità di identificarsi con qualcosa – di diventarlo,
per così dire –, che chiama “mimesis”. Fino al Rinascimento «l’io
coesisteva con la partecipazione più di quanto non provasse a negarlo,
e per molti secoli questo comportamento lo aveva reso una struttura
vitale. Negando la partecipazione, però, l’ego nega la sua stessa fonte,
perché [...] esso non dispone di risorse energetiche autonome e
separate. L’inconscio è il fondamento dell’essere» (1981).
La nostra attuale fissazione sull’io e sull’analisi è un’oscillazione
esagerata che si traduce in tendenze distruttive perché non integra la
coscienza partecipante. Tuttavia Berman non sostiene che dovremmo
semplicemente abbandonare la capacità di analisi e di
differenziazione. Mostra invece come le società caratterizzate da una
forte componente di coscienza non partecipativa, come l’antica Grecia
e il Rinascimento italiano, abbiano prodotto culture di uno «splendore
meraviglioso». In tutto il Medioevo non si sono prodotti artisti e
pensatori della statura di Michelangelo, Shakespeare o Leonardo da
Vinci. La strada per un’autentica salute psichica e una vera fecondità,
dunque, si trova nell’integrazione delle modalità mimetiche e analitiche
della coscienza:
Il dualismo cartesiano e la scienza eretta sulle sue false premesse sono in linea di
massima l’espressione cognitiva di un profondo disturbo biopsichico. Portati alla loro
logica conclusione, essi hanno finito per rappresentare la cultura più antiecologica e il
tipo di personalità più distruttivo che il mondo abbia mai visto. L’idea di dominio
sulla natura e quella di razionalità economica non sono che impulsi parziali
nell’essere umano, che nell’epoca moderna sono diventati principi di organizzazione
dell’intera esistenza umana. Per riconquistare la nostra salute ed elaborare
un’epistemologia più accurata non serve tentare di distruggere la nostra
autocoscienza, ma piuttosto, come suggerisce Bly, un processo che implichi una
fusione tra coscienza materna e paterna o, più precisamente, un sapere mimetico e
cognitivo. È per questa ragione che considero il tentativo contemporaneo di creare
una scienza olistica il grande progetto, e il grande dramma, della fine del XX secolo.
(M. Berman, 1981)
Certo, durante il secolo scorso abbiamo assistito alla nascita in
diverse discipline di una nuova cosmologia, a cominciare dalla fisica
fino ad arrivare oggi alla biologia, all’ecologia e alle scienze sociali.
Può essere che ci troviamo sulla soglia di un modo del tutto nuovo di
vedere la realtà, una “nuova grande sintesi” che considera il cosmo
come un processo in evoluzione, «il fenomeno dinamico complesso
ma olistico di un universale dispiegarsi di un ordine che diventa
manifesto in molti modi, in quanto materia ed energia, informazione e
complessità, consapevolezza e autoriflessione» (Jantsch, 1980). Sotto
molti aspetti, per la cosmologia meccanicista, così ben radicata in noi,
sarebbe difficile immaginare un’antitesi più sorprendente, eppure
questa nuova prospettiva è già comprovata in molte delle sue
sfaccettature.
Non dobbiamo sorprenderci se questa nuova cosmologia è
praticamente sconosciuta alla maggior parte delle persone, inclusi
parecchi di coloro che hanno un elevato livello di istruzione. Come la
vecchia cosmologia meccanicistica e determinista fu promossa dalle
élite dominanti per il sostegno che offriva ai loro interessi, così la
nuova cosmologia può essere ignorata (o anche sottilmente repressa)
per il suo potenziale sovversiva nei confronti del sistema dominante.
Perfino nella stessa comunità scientifica il meccanicismo continua a
predominare in quasi ogni disciplina, eccezion fatta per la fisica
quantistica e la teoria dei sistemi, quantunque in tutti i campi ci siano
pionieri che cominciano ad adottare approcci non meccanicisti. La
riluttanza degli stessi scienziati ad abbracciare il cambiamento è
dovuta in parte alla natura autoalimentantesi dei paradigmi, i quali
filtrano ciò che possiamo e non possiamo vedere. L’errore di Einstein,
che stava nell’architettare una “costante cosmologica” per generare un
cosmo statico, è un esempio emblematico, come lo è la tendenza della
scienza a ignorare, fino a pochissimo tempo fa, i sistemi non-lineari.
In effetti, una cosmologia più olistica potrebbe rivelarsi
profondamente minacciosa per l’attuale dis-ordine sociale. Come
osserva Edward Goldsmith, finché considereremo la natura, e
l’umanità stessa, come una macchina complessa, potremo sostenere
che i nostri bisogni siano solo materiali e tecnologici – in modo tale
che la crescita economica e lo “sviluppo” possano continuare a
soddisfarli tutti e noi continuare a seguire la pseudocosmologia del
consumismo. D’altra parte, se la realtà è davvero fatta di relazioni e
tutta la natura è viva, allora possiamo concludere che i nostri reali
bisogni – «quelli biologici, sociali, ecologici, spirituali e cognitivi – sono
sempre meno soddisfatti dal progresso o dallo sviluppo economico»
(1998).
Nonostante le resistenze, però, dalla scienza sta nascendo una
nuova cosmologia. Sotto molti aspetti si tratta di una cosmologia
particolarmente degna di nota, perché emerge nonostante i secolari
pregiudizi e le distorsioni della vecchia visione del mondo scientifica.
«Come nel dispiegarsi di un’immagine frattale, così l’universo
continua a schiudersi senza posa, mostrando più di quanto non possa
essere studiato. Quanto più la scienza studia il mondo tanto più trova.
E a ogni livello, scopre strutture sottili e relazioni complesse» (Roszak,
1999).
Questa nuova cosmologia offre un terreno fertile per la nostra
immaginazione, aprendoci a nuove prospettive e nuove possibilità.
Integrata con le intuizioni provenienti dalle più antiche fonti di
saggezza, questa nascente cosmologia può offrire stimoli
completamente nuovi alla lotta che portiamo avanti per la liberazione
integrale. Al posto di un universo atomistico composto di particelle
discrete che possono essere comprese solo smembrando ciò che è
complesso in parti più piccole e più semplici, il cosmo si mostra
sempre di più come qualcosa di relazionale e interconnesso, un tutto
molto più grande della somma delle sue parti. Infatti, la natura della
materia stessa, intesa come qualcosa di statico e senza vita, a un esame
più attento si dissolve, lasciando il posto a una danza dinamica di
energia e di relazionalità. La Terra, e l’intero cosmo, cominciano
nuovamente ad assomigliare a un organismo vivente, un organismo
segnato da accessi sorprendenti di creatività e di insorgenza della vita,
un organismo nuovamente colmo di una profonda e durevole finalità
– da non intendersi però come destinazione finale o modello statico,
ma come una direzionalità che manifesta la saggezza di fondo del Tao.
33 Nell’usare questo termine non intendiamo sostenere che si tratti dell’unica cosmologia
che storicamente abbia favorito la dominazione e lo sfruttamento. Potrebbe benissimo essere
vero, però, che la pseudocosmologia che stiamo analizzando possa averlo fatto in una
maniera molto più ampia rispetto a qualunque altra cosmologia del passato.
34 Anche se, nelle interpretazioni più recenti, la mente viene talvolta vista in termini
puramente materiali, come l’emergere di un epifenomeno nel cervello, il quale a sua volta è
considerato in termini meccanicistici.
35 Secondo un modello più recente anche il cieco e insensato caso gioca un ruolo,
soprattutto a livello atomico e molecolare.
36 Quando la termodinamica iniziò a indicare la graduale morte dell’universo e si scoprì
che il cosmo era in espansione, per preservare la natura eterna dell’universo si avanzò l’idea
di una “creazione continua”.
37 È interessante notare, tuttavia, che Bacone fu accusato di aver torturato un prigioniero
mentre era al servizio del Lord Cancelliere d’Inghilterra, il che fa pensare che metafore tratte
dalla tortura possano aver giocato un ruolo nel suo pensiero.
38 Come abbiamo evidenziato, la moderna cosmologia della dominazione è coesistita con
cosmologie di transizione che non erano né totalmente animistiche né del tutto
meccaniciste/riduzioniste. L’attuale processo di allontanamento dall’animismo ha
probabilmente impiegato millenni, come mostrano i nostri riferimenti alle versioni greche
dell’atomismo. Eppure gli ultimi quattrocento anni hanno segnato l’apice dell’allontanamento
dalle antiche cosmologie animistiche.
7. Trascendere la materia
Il microcosmo olistico
Il Tao è come un vuoto vorticoso,
sempre all’opera e tuttavia inesauribile.
È come un abisso senza fondo,
origine di tutte le cose,
e principio guida che plasma tutti gli esseri.
Smussa la lama tagliente,
scioglie i nodi che avviluppano.
Attenua il bagliore della luce,
spazza via la polvere, lasciando tranquillità.
È nascosto ma sempre presente,
Non si può dire da dove venga,
Esisteva prima della creazione stessa.
TAO TE CHING §4
Gli atomi sono formati da particelle, e queste particelle non
sono fatte di alcuna sostanza materiale. Quando li osserviamo,
non vediamo mai alcuna sostanza; quel che osserviamo sono
strutture dinamiche che si trasformano di continuo l’una
nell’altra: la danza continua dell’energia.
(Capra, 1982 [1990, p. 78])
Verso la fine del XIX secolo la scienza meccanicista e materialista
sembrava aver raggiunto il suo culmine, soprattutto nel campo della
fisica. Alcuni professori addirittura scoraggiavano gli studenti
dall’intraprendere gli studi di fisica, poiché vedevano poche
opportunità di apportare un contributo davvero originale in quel
campo. Lord Kelvin, uno dei fisici più autorevoli al tempo, scorgeva
solo due “piccole nuvole” all’orizzonte che restavano irrisolte. Per il
resto, la nostra comprensione del regno materiale sembrava
praticamente completa. Non poteva sapere Lord Kelvin che queste
due “piccole nuvole” avrebbero portato a scoperte che avrebbero
dissolto le certezze del meccanicismo per rivelare una nuova, e forse
molto più misteriosa, visione della realtà.
Una di queste “piccole nuvole” riguarda la possibilità di predire la
distribuzione dell’energia radiante a differenti frequenze dai
cosiddetti “corpi neri”39 – un problema che avrebbe presto schiuso un
nuovo campo d’indagine, quello della fisica quantistica. La seconda
“nuvola” riguardava il fallimento dell’esperimento di Michelson-
Morley volto a individuare l’”etere”, attraverso cui si credeva che la
luce e altre forme di radiazioni dovessero viaggiare. Questa “piccola
nuvola” divenne l’ispirazione per la teoria della relatività speciale di
Einstein.

Secondo la fisica newtoniana la velocità della luce varia a seconda


che l’osservatore si muova in direzione della sorgente di luce o se ne
allontani. La luce, come ogni genere di onda, richiede un mezzo
attraverso cui viaggiare e quel mezzo – l’ipotetico etere – deve esso
stesso muoversi (o restare fermo) rispetto al “sistema di riferimento”
dell’osservatore. Per fare un esempio, se ci si muove verso una
sorgente di luce si ha la sensazione di spostarsi più velocemente
rispetto a quando ci si allontana da essa.
Nel 1881, grazie allo sviluppo di nuove strumentazioni, Albert
Michelson cercò di verificare questa teoria, ma non riscontrò
differenze nella velocità della luce indipendentemente dal movimento
dell’osservatore. Nel 1887 Michelson ripeté lo stesso esperimento con
Edward Morley utilizzando strumenti ancora più accurati, ma anche
questa volta ottennero lo stesso risultato. Ma come era possibile? In un
universo governato dalle leggi di Newton era una cosa del tutto
assurda.
Nel 1905 Albert Einstein (1879-1955) postulò che non vi fosse alcun
etere e che la velocità della luce nel vuoto fosse costante,
indipendentemente da quanto veloce un osservatore si muovesse in
direzione della sorgente di luce o se ne allontanasse. Al contempo,
Einstein sostenne che tutti gli osservatori che si muovono a una
velocità costante devono osservare le stesse leggi fisiche.
Combinando questi due postulati, Einstein dimostrò che gli
intervalli di tempo e le lunghezze dovessero cambiare in base alla
velocità del sistema in moto relativo al punto di vista dell’osservatore,
o che dovesse cambiare il “sistema di riferimento”, sebbene questi
effetti diventassero apprezzabili solo in sistemi in moto vicini alla
velocità della luce (come per le particelle subatomiche). Secondo la
sua teoria della relatività speciale, le osservazioni possono cambiare in
base al sistema di riferimento dell’osservatore.
Da questa nuova visione dell’universo scaturiscono strani
paradossi. Per fare un esempio: un corpo che accelerando si allontana
dall’osservatore e che poi, parimenti accelerando, ritorna verso
l’osservatore apparentemente invecchierà molto più lentamente di
quest’ultimo. Quest’effetto è stato poi dimostrato attraverso un
orologio atomico estremamente preciso, anche se il fenomeno diventa
significativo solo a velocità che rasentano la velocità della luce. Inoltre,
due corpi che in assenza di moto sono della stessa lunghezza
appariranno di misure differenti se uno dei due si muovesse rispetto
all’altro a velocità prossime a quelle della luce. Per di più, quale dei
due corpi appaia più lungo dipende dal proprio sistema di riferimento
(per esempio dal “punto di vista” del corpo dal quale si osserva).
Dimostrando questo tipo di effetti, la teoria della relatività cominciò a
minare l’idea di osservazione obiettiva che è alla base della scienza
occidentale classica.
Un’altra implicazione della teoria di Einstein è che la materia e
l’energia siano essenzialmente intercambiabili, come dimostra la
famosa equazione E=mc2 (l’energia è uguale alla massa moltiplicato
per la velocità della luce al quadrato). È così che la relatività mette in
crisi quella visione statica e immutabile della materia che ha dominato
la fisica classica. La materia è semplicemente una forma particolare di
energia, e gli atomi stessi non possono più essere considerati eterni e
indivisibili.
Inoltre, secondo la relatività, anche il tempo è un continuum con lo
spazio. Einstein parla del cosmo come di una quarta dimensione
geometrica in cui il tempo è considerato in maniera analoga alle altre
dimensioni spaziali. In tal modo, emergono nuove modalità di
percezione dell’universo che modificano l’idea stessa di moto e
cambiamento.
Con l’elaborazione, nel 1916, della teoria della relatività generale,
Einstein propose che la gravitazione non fosse più considerata una
forza che agisce a distanza, ma una curvatura dello spazio-tempo. Il
tempo scorre molto più lentamente, dunque, se è posto sotto
l’influenza di un campo gravitazionale. La teoria della relatività
generale è in grado di spiegare l’apparente deviazione dell’orbita di
Mercurio che la fisica newtoniana non aveva previsto. Arthur
Eddington fornì anche un puntello sperimentale alla teoria della
relatività generale, allorché osservò una stella la cui traiettoria
luminosa era stata “deviata” dal campo gravitazione del sole durante
l’eclissi del 1919 (fenomeno dovuto alla curvatura dello spazio-
tempo).
Secondo le teorie relativistiche, la massa e la dimensione degli
oggetti – e perfino lo stesso scorrere del tempo – non sono più concetti
assoluti, ma dipendono dal sistema di riferimento dell’osservatore.
Con la relatività, la concezione di una realtà regolare, ordinata, di
“buon senso” di Newton cominciò a sgretolarsi. Al contempo,
subentrarono nuove dinamiche della totalità, che comprendevano
l’unità dello spazio e del tempo e la complementarità della massa e
dell’energia.

È nel campo della fisica subatomica e della teoria dei quanti,


tuttavia, che le scoperte scientifiche hanno minato più profondamente
la sintesi newtoniana-cartesiana. Il mondo dell’estremamente piccolo
– il microcosmo – sembra essere una realtà che mette in discussione la
nostra immaginazione a ogni livello. Semplicemente, non possiamo
visualizzarlo o concepirlo nei termini della nostra esperienza
quotidiana. Per molti aspetti ci appare una realtà fatta
d’imperscrutabili koan, i paradossi logici utilizzati nel buddhismo zen
per portare la meditazione a un nuovo stadio di consapevolezza che
trascenda il pensiero discorsivo. Perfino gli scienziati sembrano
spiazzati dal comportamento del mondo subatomico, in cui viene
utilizzato il campo della meccanica quantistica per descrivere la realtà.
Pare, per esempio, che il premio Nobel Richard Feynman abbia
dichiarato: «Penso di poter tranquillamente affermare che nessuno
capisce la meccanica quantistica».
Di fondo, la fisica quantistica esordisce affermando che l’energia è
composta di piccoli pacchetti chiamati quanti. Come abbiamo già
detto, fino alla fine del XIX secolo si riteneva che la luce e le altre forme
di energia elettromagnetica consistessero di onde, le quali si
muovevano presumibilmente attraverso uno specie di medium sottile
chiamato etere. Gli esperimenti sulle radiazioni dei corpi neri (che
avevano il compito di esaminare il modo in cui i corpi che assorbono
radiazioni emettono calore) e l’effetto fotoelettrico (in cui la luce che
colpisce un metallo genera il passaggio di corrente elettrica), tuttavia,
portarono a una nuova concezione. Max Planck (1858-1947) fu il
primo a dimostrare che la radiazione di un corpo nero viene emessa in
multipli discreti di una minima quantità di energia, che egli definì
“quanti”. Successivamente, Einstein dimostrò che si produce un
effetto fotoelettrico quando quanti di luce (chiamati “fotoni”)
colpiscono la superficie di un metallo, trasmettendo la loro energia
agli elettroni ivi presenti, e così generando elettricità. Queste scoperte
prepararono il terreno per lo sviluppo della teoria dei quanti durante
la prima metà del XX secolo.
Nick Herbert identificò tre caratteristiche chiave della fisica
quantistica che contribuiscono a distinguerla in modo chiaro dalla
visione del mondo classica della fisica newtoniana. È interessante
notare che furono proprio queste caratteristiche a turbare Einstein:
«Einstein rimase colpito dal successo della teoria dei quanti, ma non
riusciva ad accettare il concetto che in fondo il mondo fosse un
fenomeno aleatorio, non fosse fatto di cose e che presentasse
connessioni che sembravano in un certo senso mettere alla prova tanto
il senso comune quanto la sua stessa teoria della relatività» (Herbert,
1993).
La prima caratteristica del mondo subatomico della fisica dei
quanti può essere definita inconsistenza. Atomi, elettroni e altre
particelle subatomiche non posseggono attributi oggettivi di per sé
fintanto che non vengono osservati. Fino al momento
dell’osservazione esistono, per così dire, solo come modelli di
probabilità: li si potrebbe quasi immaginare come entità potenziali,
non ancora manifeste nella realtà. Il modo in cui li si osserva influenza
anche ciò che si andrà a scoprire. Si può misurare la posizione di una
particella, ma in questo caso non si può determinare il suo momento, e
viceversa. Inoltre, entità come le particelle subatomiche e i fotoni si
comportano sia come onde che come particelle. Per dirla in altri
termini, la materia è stata elevata al livello di “campi e forze
immateriali”, in cui la materia stessa risulta essere “un’idea defunta” o
un “non concetto”. Come Karl Popper affermò una volta, nel nuovo
universo quantistico, «la materia ha trasceso se stessa» (Roszak, 1999).
Una seconda caratteristica del microcosmo quantistico
strettamente collegata a quanto detto è l’aleatorietà o indeterminazione.
In un mondo fatto di modelli di probabilità semplicemente non c’è
modo di sapere con certezza quale possibilità si realizzerà. Come
sottolinea Nick Herbert, un altro modo per comprendere questo
aspetto è affermare che «situazioni identiche possono dare risultati
differenti. Nel mondo newtoniano identiche situazioni portano
sempre a identici risultati, ma nel regno quantistico due atomi
fisicamente identici sotto ogni aspetto possono mostrare
comportamenti differenti» (Herbert, 1993). Di fatto, con questa nuova
realtà il mondo del determinismo lineare si dissolve, se non altro
quando tocca la dimensione subatomica.
Infine, il mondo dei quanti è caratterizzato da inseparabilità,
relazionalità ed entanglement. Una volta che due oggetti interagiscono
restano connessi a un certo livello (o entangled) per sempre. Per di più
questa connessione è istantanea indipendentemente dalla distanza,
cosa che a un primo sguardo sembra violare il divieto posto dalla
relatività circa la possibilità di comunicazioni che oltrepassino la
velocità della luce. Per quanto davvero misteriosa sia una simile
connessione tra particelle – e in realtà inutile dal punto di vista della
comunicazione proprio a causa del suo elemento aleatorio –, essa
esiste. Il cosmo non è una semplice collezione di oggetti discreti, ma
una rete di sottili relazioni intrecciate. Come osserva Fritjof Capra:
Nella fisica moderna l’immagine dell’universo [cartesiano-newtoniano] è stata
trascesa nella condizione che vede in esso un tutto indivisibile, dinamico, le cui parti
sono essenzialmente interrelate e possono essere intese solo come strutture di un
processo di vastità cosmica. Al livello subatomico le interrelazioni e le interazioni fra
le parti che compongono il tutto sono più fondamentali delle parti stesse. [...] c’è
un’attività ma non ci sono attori; non ci sono danzatori, c’è solo danza.
(1982 [1990, p. 79])
Nei paragrafi successivi esploreremo le caratteristiche del
microcosmo quantistico in maniera più approfondita, attingendo delle
idee lungo il precorso. Nel far ciò proveremo ad avvicinarci a questa
strana realtà come faremmo con un paradosso creativo o un koan, con
la consapevolezza che, se da un lato potremmo non essere in grado di
comprendere il mondo che si rivela attraverso l’analisi, dall’altro, se
saremo in grado di adottare una forma di comprensione più intuitiva
e olistica, ci troveremo davanti a un mondo suggestivo e creativo.
Inconsistenza
Dalla seconda metà del XIX secolo la scienza ha dimostrato che
l’atomo newtoniano non era che un parto dell’immaginazione
teoretica. Non è mai esistito; e non ci sono mai stati motivi fondati
per credere che esistesse. Il nucleo dell’atomo ha dato prova
di essere sempre più poroso, così come ogni sua nuova parte
ha rivelato una struttura interna ancora più profonda. «Gli atomi,
come la galassie», racconta lo storico della scienza Timothy
Ferris, «sono cattedrali di spazio cavernoso». E come le cattedrali
hanno un’architettura splendidamente complessa che diventa
vieppiù barocca quanto più in profondità andiamo a cercare. O
forse una metafora più adatta sarebbe che l’atomo si è schiuso
per rivelare un mondo infinitesimale altrettanto complesso quanto
qualunque altro ecosistema presente nella natura macrocosmica.
Si potrebbe quasi pensare che gli atomi abbiano un’ecologia,
una struttura coerente di parti connesse tra loro.
(Roszak, 1999)
La materia sembra non essere altro che un’energia effimera che
scorre con mirabile coerenza per produrre forme d’onda dotate
di stabilità dinamica e di un’apparente solidità.
(Elgin, 1993)
La maggior parte di noi ha studiato l’immagine tradizionale
dell’atomo. Ci è stato insegnato a immaginarlo come una palla
compatta composta di piccole sfere – protoni e neutroni – circondata
da altre sfere orbitanti chiamate elettroni. Già quest’atomo è diverso
da quello di Newton, il quale sicuramente non concepì mai particelle
più piccole dello stesso atomo. Per Newton gli atomi erano, per
definizione, il frammento di materia più piccolo e per sua stessa
natura indivisibile.
Verso la fine del XIX secolo, però, J.J. Thomson scoprì l’elettrone,
una piccola particella carica negativamente e di gran lunga più piccola
di un atomo. Thomson propose quello che oggi chiamiamo il modello
atomico “a panettone”, un modello cioè composto da elettroni
conficcati sulla superficie esterna del nucleo carico positivamente. Nel
1911 Ernest Rutherford scoprì che la carica positiva al centro
dell’atomo doveva essere concentrata in un piccolo nucleo, ed elaborò
così un’immagine dell’atomo formato da un denso nucleo e da
elettroni che gli orbitano intorno. Nel 1914 Niels Bohr spiegò che gli
elettroni dovevano orbitare in gusci distinti a seconda del loro livello
di carica. In seguito Arnold Sommerfeld e Wolfgang Pauli
determinarono la forma delle orbite e il comportamento degli elettroni
al loro interno. Ma fu nel 1919 che Rutherford scoprì il protone, una
particella con una massa 1,836 volte quella dell’elettrone. Nel 1936
James Chadwick scoprì il neutrone, con una massa leggermente più
grande di quella del protone.
Tutte queste scoperte e modelli hanno fatto progredire la nostra
conoscenza dell’atomo, ma sono tutte immagini in un certo senso
fuorvianti, specialmente se volessimo darne una rappresentazione o
disegnarle. Tanto per cominciare, nessun diagramma può catturare la
pura spaziosità di un atomo. In media oltre il 99,99999999999 per
cento del volume di un atomo è spazio vuoto. Visto da un’altra
prospettiva, se il nucleo dell’atomo avesse il diametro di un pisello
(circa 4 mm), il suo diametro sarebbe di circa 100 m (l’estensione di un
campo da football o da calcio). Se consideriamo che anche gli elettroni
sono molto, molto più piccoli del nucleo, possiamo cominciare a
comprendere la prima cosa fondamentale: la gran parte dell’atomo è
composto da spazio vuoto. Già così sembra che non vi sia che
pochissima “roba” solida e dura.
Ma cosa dire delle stesse “particelle”? Anche queste entità, che
normalmente rappresentiamo come sfere compatte, hanno una natura
essenzialmente eterea. Nel 1924 Louis de Broglie ottenne l’equazione
del dualismo onda-particella (grazie all’utilizzo dell’equivalenza di
Einstein tra massa e energia E=mc2), dimostrando in tal modo che le
particelle potevano anche essere pensate come onde. Come oggi
sappiamo, le particelle non sono realmente delle “cose”, così come
normalmente possiamo intenderle. Sono piuttosto “pacchetti di onde”
o addirittura dei semplici “eventi”. Theodore Roszak osserva anche
che «nella teoria delle superstringhe, una delle più esoteriche scuole di
pensiero della fisica, le particelle sono concepite come vibrazioni di
piccole stringhe avviluppate in dieci dimensioni». A partire da questa
immagine, possiamo rappresentare le particelle «come note musicali
che “ci” sono, in maniera palpabile, come “c’è” un accordo suonato su
un pianoforte» (Roszak, 1999). E in effetti, per il grande fisico Werner
Heisenberg il cosmo era composto da qualcosa che somigliava molto
di più alla musica che non alla materia o all’energia.
Secondo lo studioso sufista e mistico Neil Douglas-Klotz, la
cosmologia mediorientale tradizionale rispecchia un’idea prossima a
quella del dualismo onda-particella in cui vibrazione e manifestazione
concreta sono viste come due aspetti di una sola realtà. Per esempio,
in aramaico la parola “cielo” (shemaya) evoca l’immagine di “una
vibrazione sacra (shem) che si propaga in tutto l’universo manifesto
(aya)”, mentre la parola utilizzata per dire “terra” (ar’ah) può riferirsi
all’”intera natura dotata di una forma individuale, dalla pianta a una
stella”. Nella Genesi entrambi questi archetipi sono creati in principio,
ma non hanno una natura dualistica quanto piuttosto complementare.
«Dal punto di vista della “terra” noi siamo una serie di esseri
infinitamente diversi e unici. Dal punto di vista del “cielo” siamo in
contatto con ogni essere nell’universo attraverso un’onda di luce o di
suono» (Douglas-Klotz, 1999). Siamo completi solo quando possiamo
riunire entrambe le visioni della realtà. In un certo senso, il “cielo” è
un regno di possibilità, potenzialità e visioni, mentre la “terra” è un
regno di forme che si sono manifestate in un luogo e in un tempo
concreti.
Una concezione della realtà simile si riscontra nella fisica
quantistica. Non solo le particelle non sono “cose” nel senso classico
del termine, ma in un certo senso non sono nemmeno qui o lì finché
qualcuno non le osserva. Secondo il principio d’indeterminazione di
Heisenberg è impossibile sapere allo stesso tempo la posizione e il
momento di una particella. Quanto più accuratamente conosciamo un
attributo, meno precisamente conosciamo l’altro. In un certo senso ciò
è dovuto alla natura stessa dell’osservazione scientifica. Per osservare
qualcosa dev’essere utilizzato almeno un quanto di energia. Per fare
un esempio: usiamo la luce – composta di fotoni – per vedere qualcosa
o localizzarla con uno strumento. I quanti di energia che usiamo –
quand’anche si trattasse di un singolo quanto – influenzeranno ciò che
osserviamo perché le particelle con cui abbiamo a che fare sono così
piccole che i quanti di energia andranno a disturbarle. Così, se
determiniamo la posizione di una particella con precisione, avremo
influito durante il processo sul suo momento, e viceversa.
Eppure il principio di indeterminazione di Heisenberg comporta
implicazioni più profonde che oltrepassano i limiti della nostra
capacità di misurazione a livello subatomico. La natura ondulatoria
delle particelle è costituita da onde di probabilità. In un certo senso,
finché non viene osservata, una particella esiste in maniera potenziale
ma non in un luogo in particolare: semplicemente è la probabilità di
sapere dove potrebbe trovarsi. L’atto stesso dell’osservazione
costringe, in un certo senso, la particella a manifestarsi in un luogo
determinato (e imprevedibile). Come osserva Nick Herbert:
Per decidere quale attributo si vuole misurare e per utilizzare lo strumento
adeguato, si invita quell’attributo, ma non il suo attributo partner, a manifestarsi nel
mondo reale. In un mondo inosservato di pure possibilità possono esistere senza
contraddizione attributi incompatibili [come posizione e momento], ma nel mondo
della realtà c’è posto solo per uno dei due attributi. La descrizione quantistica non
specifica quale dei due appaia, lo decide il tipo di misurazione [l’osservatore].
(1993)
Se è vero che le particelle hanno una natura ondulatoria, è
altrettanto vero che anche l’energia, e dunque la luce, possiede una
natura particolare. Pertanto entità come gli elettroni e i fotoni esistono
simultaneamente sia come onde di energia che come particelle. In
entrambi i casi si applica il principio di indeterminazione:
Non si può mai dire con sicurezza se erano particelle o onde di energia, né se
esistevano in determinati momenti e luoghi o se sarebbero esistite come onde di
probabilità. Oggi si tende a vederle come onde non-lineari, conosciute col nome di
solitoni, la cui stessa esistenza ha senso solo in virtù del mezzo di propagazione, e
cioè della ricchezza di informazioni del campo sub-quantico, secondo la definizione
data da Laszlo (1993): i quanta sono flussi osservabili simili ai solitoni all’interno
mezzo sub-quantico altrimenti non osservabile.
(O’Murchu, 1997)
Un’altra implicazione del principio di indeterminazione di
Heisenberg è che, nel microcosmo subatomico della fisica quantistica,
non può esservi una rigida distinzione tra osservatore e osservato,
poiché essi formano un unico sistema. In un certo senso l’atto stesso
dell’osservazione determina il “collasso” della funzione d’onda di
probabilità, costringendo una particolare realtà a manifestarsi o come
onda o come particella. Il fisico Wolfgang Pauli (1900-1958) sosteneva
che ogni osservazione implica tanto la scelta quanto il sacrificio:
scegliendo di conoscere una cosa sacrifichiamo la conoscenza
dell’altra (Wilber, 1985). Allo stesso tempo, ciò che troviamo dipende
da ciò che stiamo cercando. Il che implica un’epistemologia – o una
forma di sapere – profondamente diversa da quella della fisica
classica. Scrive Erwin Schrödinger (1887-1961), uno dei principali fisici
coinvolti nell’indagine sul dualismo onda-particella dei fenomeni
quantistici:
A quanto pare l’idea di soggettività è molto antica e nota. Quel che c’è di nuovo
nel contesto attuale è questo: non solo le impressioni che riceviamo dall’ambiente
dipendono moltissimo dalla natura e dallo stato in cui si trovano i nostri sensi, ma,
inversamente, l’ambiente stesso che desideriamo cogliere viene da noi modificato,
soprattutto dai dispositivi che abbiamo predisposto per osservarlo [...].
Il mondo mi è offerto una sola volta, non c’è separazione tra mondo reale e
mondo percepito. Il soggetto e l’oggetto sono una sola cosa. Non possiamo dire che la
barriera tra loro sia stata infranta a causa dei recenti progressi della fisica, poiché
quella barriera non esiste.
(Wilber, 1985)
Niels Bohr (1885-1962), riflettendo sul principio di
indeterminazione di Heisenberg, riteneva che fosse sbagliato
sostenere che entità subatomiche come l’elettrone potessero avere
anche una traiettoria, una posizione o una velocità. Secondo Bohr «il
concetto stesso di traiettoria è ambiguo a livello quantistico» (Peat,
1990). In questa prospettiva più radicale
il mondo dei quanti è reale – le cose vi accadono davvero – ma non è concreto, nel
senso che non contiene res, cose, così come noi le percepiamo e le identifichiamo nei
vari aspetti della realtà. «Secondo la scuola di Copenaghen», scrive Thompson (1990),
«fino a che non viene eseguita l’osservazione, le particelle si trovano in uno stato
ambiguo, “fantasmatico”, l’osservazione non fa che “ridurre” le particelle agli stati
particolari che osserviamo [...]». Zohar (1993) adotta un punto di vista simile allorché
considera la realtà come un vasto mare di potenzialità rispetto al quale lo scienziato
(e in realtà ciascuno di noi) si comporta come una levatrice, portando fuori a ogni
istante uno o più aspetti del vasto potenziale sottostante.
(O’Murchu, 1997)
Per la maggior parte di noi l’idea che una singola entità esista
come un’onda di probabilità fino a quando non si manifesta come una
particella è una cosa che sfida l’immaginazione. Un fenomeno
correlato può servire a illustrare quanto strana sia la realtà dei quanti.
Si tratta del famoso esperimento della doppia fenditura. In
quest’esperimento la luce viene fatta passare attraverso una singola
fenditura molto stretta per poi colpire un pezzo di pellicola
fotografica, su cui resterà impresso un singolo fascio di luce. Se però
abbiamo due fenditure poste una accanto all’altra, le onde di luce
allora si sovrapporranno, rafforzandosi l’un l’altra in alcuni punti e
cancellandosi in altri, in modo da formare un modello di interferenza
a più fasci. Tutto ciò è perfettamente comprensibile dal punto di vista
della fisica classica.
Cosa accadrebbe però se si indebolisse l’intensità della luce in
modo da emettere solo un fotone per volta? È quello che è stato fatto,
rilevando la luce attraverso una pellicola fotografica. Come previsto,
con una singola fessura emerge uno schema in cui appaiono dei
piccoli punti lì dove ogni singolo fotone – un indivisibile quanto di
luce – ha colpito la pellicola, come volevasi dimostrare. Adesso, però,
ripetiamo l’esperimento emettendo sempre un solo fotone alla volta,
ma con due fessure. Poiché ogni fotone è indivisibile, dovremmo
aspettarci due fasci di puntini, ciascuno dietro ognuna delle due
fessure. Ma non è quello che accade. Accade invece che si genera uno
schema di interferenza. Com’è possibile? Se ogni fotone è stato emesso
individualmente, come può interferire con l’altro? Non c’erano altri
fotoni nei paraggi con cui interferire!
L’inevitabile conclusione è che la teoria dei quanti ha gettato alle ortiche il senso
comune e che i fisici sono stati costretti a riconoscere che i fotoni singoli e indivisibili
si comportano come se potessero passare al contempo attraverso due fessure ed essere
in due posti diversi nello stesso tempo. Oppure che siamo di fronte a qualche nuova e
misteriosa comunicazione che sembra poter informare un fotone che si trova in una
determinata parte dell’universo di ciò che accade in altre parti.
(Peat, 1990)
I risultati dell’esperimento sono identici se, invece della luce,
utilizziamo una “particella” come l’elettrone. L’esperimento della
doppia fenditura non solo dimostra quanto strano sia il mondo del
dualismo onda-particella, ma può altresì indicare la presenza di una
qualche profonda, sottostante unità che guida il comportamento delle
parti. Come abbiamo sottolineato in precedenza, l’esperimento della
doppia fenditura sembra anche implicare la possibilità che una
particella o un quanto di energia sia, nello stesso tempo, in più luoghi.
In un certo senso, la cosa non dovrebbe sorprenderci. Se una particella
non si trova in nessun luogo in particolare finché non viene osservata,
vuol dire che in un certo modo è presente – almeno potenzialmente –
in molti posti contemporaneamente40.
In effetti, nozioni come traiettoria e posizione hanno poco senso
quando abbiamo a che fare con fenomeni quantistici. Per esempio: è
effettivamente possibile per un’entità quantistica spostarsi da un
posto a un altro senza mai occupare lo spazio intermedio tra i due
luoghi. Questo capita, ad esempio, quando un elemento radioattivo
emette una particella elementare dal suo nucleo. Un momento prima è
nel nucleo e il momento successivo schizza via ad alta velocità, eppure
non si trova mai nel processo di fuga. Ma c’è di più: il salto è
istantaneo. È come se la particella scomparisse dal nucleo e
riapparisse semplicemente fuori di esso.
Niels Bohr sosteneva che non possiamo rappresentare o creare
modelli del mondo atomico perché ogni volta che lo facciamo
intervengono le nostre concezioni di fisica classica e le percezioni della
nostra realtà quotidiana. Come scrive David Peat: «Tutto ciò che ha a
che fare con traiettorie, orbite e proprietà intrinseche rappresenta un
retaggio del pensiero classico e del modo tradizionale di immaginare
l’universo. Non appena proviamo a formarci un’immagine
dell’atomo, subentrano siffatte idee e il risultato è il paradosso e la
confusione». La cosa migliore che possiamo fare è ricorrere
all’approccio della complementarità, per il quale non esiste «una
singola e chiara descrizione del mondo dei quanti» (Peat, 1990).
Dobbiamo usare coppie di parole come spazio e tempo, o particella e
onda. Una particella elementare ha sia la forma individuale e
localizzata che la forma diffusa e ondulatoria; ovvero, secondo la
concezione della cosmologia mediorientale, è contemporaneamente
parte del regno dello shemaya (‘cielo’) e parte del regno dello ar’ah
(‘terra’).
Sul piano della realtà subatomica, dunque, sembrano non esserci
cose nel senso in cui normalmente le intendiamo. Il premio Nobel
Steven Weinberg conclude: «Dalla fusione della relatività con la
meccanica quantistica si è sviluppata una nuova visione del mondo,
quella in cui la materia ha perso la sua centralità» (citato in Roszak,
1991). Parimenti, come abbiamo avuto modo di osservare, Werner
Heisenberg giunse alla fine a vedere l’universo come qualcosa che è
composto di musica, più che di materia e di energia. Parlando delle
particelle subatomiche Heisenberg osservò: «Le unità più piccole della
materia non sono, in effetti, oggetti fisici nel senso classico del
termine; sono piuttosto forme, strutture o – in senso platonico – Idee»
(Wilber, 1985). In una conversazione con David Peat, Heisenberg
affermò che «i “mattoni della materia” costituivano una
rappresentazione fuorviante e confusa della natura della realtà
quantistica. Si trattava piuttosto di manifestazioni superficiali di
processi quantistici sottostanti. Le simmetrie erano la cosa più
fondamentale [...], non le particelle» (Peat, 1994). Un altro fisico, David
Bohm (1917-1992), ha descritto le particelle subatomiche come
«concentrazioni e nodi in un campo fondamentale e continuo» (citato
in Roszak, 1999). Sono entità che in un certo senso modellano e danno
solidità alla materia, ma che in se stesse sono prive di sostanza. Al suo
fondamento il cosmo non si compone di “cose” o di “sostanze”, ma di
strutture dinamiche e relazionali derivanti da qualcosa di ancor più
profondo e sottile.
Relazionalità radicale
Per i fisici dopo Einstein divenne fluida anche la distinzione tra
esistente e non esistente. Modelli ondulatori posti in rapporto
interdipendente mostravano probabili “tendenze a esistere” come
eventi o come particelle. Anziché decomporre il mondo in
entità ultime come “blocchi da costruzioni”, gli scienziati
arrivarono a un tessuto di relazioni simile al vuoto in cui gli eventi
sorgono collegati gli uni agli altri. Questo tessuto relazionale
è coestensivo all’interno del cosmo, in cui tutto è connesso
con tutto, non solo attraverso lo spazio, ma anche attraverso
il tempo.
(Ruether, 1992 [1995, p. 59])
Nel regno del microcosmo quantistico il mondo delle cose si
dissolve in un mondo di processi e di rapporti. «Una particella
elementare», scrive il fisico Henry Stapp, «non è un’entità [...] dotata
di un’esistenza indipendente. Essa è, essenzialmente, un insieme di
rapporti protesi all’esterno verso altre cose» (citato in Capra, 1982
[1990, p. 70]). Analogamente, Stapp descrive l’atomo come «una rete di
relazioni in cui nessuna parte può sussistere da sola; ogni parte deriva
il suo significato e la sua esistenza unicamente dal posto che occupa
nell’insieme» (citato in Roszak, 1999).
Le prove sperimentali sulla natura profondamente relazionale del
microcosmo ci giungono in parte dall’enorme acceleratore utilizzato
per scindere le particelle subatomiche. Più piccole sono le particelle
che scopriamo, più forte sembra che diventi la forza della relazione
che le lega.
Le particelle subatomiche che chiamiamo quark41, per esempio,
coesistono in famiglie saldamente unite. Persino ricorrendo a una
forza titanica è possibile separarli solo per un istante – meno di un
milionesimo di miliardesimo di secondo – prima che ritornino
nuovamente al loro stato di partenza. Basandosi su quest’esempio,
Roszak osserva: «La complessità dei modelli d’insieme a livello
atomico e subatomico si sta dimostrando più tenace e resistente alla
rottura di qualunque altra cosa costruita a partire da essi. È quasi
come se la natura provasse a dirci che la relazionalità viene prima e
non può essere significativamente ridotta a qualcosa di ancor più
fondamentale» (1995).
La rete di relazioni alla base del cosmo esiste anche attraverso
quelle che vengono chiamate connessioni “non-locali”, le quali sono
allo stesso tempo istantanee e indipendenti dalla distanza. Questo
fenomeno, chiamato talvolta entanglement quantistico, avviene se due
particelle interagiscono tra loro. Da quel momento le due particelle
restano misteriosamente in contatto: lo stato dell’una resta collegato
per sempre con quello dell’altra.
Le implicazioni di questo tipo di entanglement furono discusse per
la prima volta nel 1935, allorché Einstein, insieme a Boris Podolsky e
Nathan Rosen, pubblicò un saggio in cui si affermava che la
meccanica quantistica era incompleta. Nel saggio fecero ricorso a un
“esperimento mentale” con cui dimostrarono che la teoria dei quanti
implica che la misurazione di un attributo di una singola particella
influenza necessariamente ogni altra particella che si trovi
“intrecciata” (entangled) con essa attraverso una precedente
interazione. Poiché un simile effetto dovrebbe essere tanto istantaneo
quanto indipendente dalla distanza che separa le due particelle,
Einstein e i suoi colleghi conclusero che qualcosa nella teoria
quantistica doveva essere errato, poiché tale comunicazione istantanea
e non-locale tra due particelle sembrava violare il divieto, sancito dalla
teoria della relatività, che vi siano comunicazioni che oltrepassano la
velocità della luce.
Nel 1964 John Bell (1928-1990) ribaltò la tesi di Einstein e dei suoi
colleghi proponendo il cosiddetto “teorema di Bell”. Invece di ritenere
impossibili le connessioni non-locali, egli affermò che siffatte
connessioni esistono realmente. Se si osserva una particella e quindi si
fa “collassare la sua funzione d’onda”, costringendola a manifestarsi
in un determinato modo, anche la funzione d’onda di un’altra
particella a essa intrecciata dovrà simultaneamente collassare.
Esperimenti effettuati in seguito hanno confermato questo fenomeno.
Tali connessioni istantanee sono tuttavia sottili e non implicano
comunicazioni significative, perché accadono sotto la superficie
manifesta delle cose. Possiamo dimostrare l’esistenza di tali
connessioni, ma non possiamo vederle direttamente.
Le connessioni tra le particelle trascendono non solo lo spazio, ma
anche il tempo. Come evidenziano Robert Nadeau e Menas Kafatos,
esistono esperimenti che dimostrano come «il passato si mescoli
inesorabilmente al presente e [come] perfino il fenomeno del tempo
sia legato a specifiche scelte sperimentali» (1999).
Il teorema di Bell e il fenomeno dell’entanglement suggeriscono una
più profonda e soggiacente unità che connette l’intero cosmo al livello
della realtà quantistica. Infatti, date le nostre attuali conoscenze
sull’origine del cosmo, in cui energia, spazio e tempo si dispiegano
insieme nel cosiddetto Big Bang, sembra lecito pensare che tutte le
entità quantistiche abbiano in realtà interagito l’una con l’altra,
diventando entangled:
Il fisico N. David Mermin ha dimostrato che l’entanglement quantico cresce
esponenzialmente in base al numero delle particelle coinvolte nello stato quantistico
originale e che in teoria non esiste un limite al numero di queste particelle entangled.
Se così stanno le cose, a un livello molto elementare l’universo potrebbe essere
un’enorme rete di particelle, le quali restano in contatto l’una con l’altra a qualsiasi
distanza, in una dimensione “senza tempo” e in mancanza di passaggio di energia o
di informazione. Ciò suggerisce, per quanto strano e bizzarro possa sembrare, che
tutta la realtà fisica è un unico sistema quantistico che risponde all’unisono alle
nuove interazioni. [...] La non-località e la non-separabilità [...] si possono tradurre in
una nozione molto più ampia di non-località, o non-separabilità, in quanto
condizione effettiva dell’intero universo.
(Nadeau-Kafatos, 1999)
L’idea di connessioni non-locali, anche se di natura estremamente
ineffabile, fu un tale choc per Einstein e i suoi colleghi che
semplicemente non riuscirono ad accettarla. La non-località, infatti,
mette profondamente in discussione alcune delle tesi più care alla
scienza fin dai tempi di Cartesio e Newton. Intendere l’universo come
un’enorme macchina significava pensare un cosmo di oggetti che si
urtano gli uni con gli altri. Le cose si muovono perché qualcos’altro
agisce su di esse. La causalità non era solo lineare; era anche locale e
sostanzialmente meccanicista.
Eppure, nel caso dell’entanglement quantico, non c’è nulla che
spinga direttamente un’altra cosa. Tutto il rapporto di causa-effetto
diventa più misterioso e complesso. In un certo senso, infatti, è l’intero
regno dei quanti che sembra essere governato dal cieco caso e della
probabilità – condizione che uno scienziato come Einstein trova
difficile da accettare: «Non posso credere che Dio giochi a dadi con
l’universo» (citato in Herbert, 1993). Eppure l’esistenza di connessioni
non-locali schiude nuove possibilità di pensare la causalità sul piano
del regno quantistico:
Nella teoria dei quanti gli eventi individuali non sempre hanno una causa ben
definita. Per esempio, il salto di un elettrone da un’orbita atomica a un’altra, o la
disintegrazione di una particella subatomica, possono aver luogo spontaneamente,
senza alcun singolo evento che li causi. Noi non possiamo mai predire quando e in
che modo un evento del genere si verificherà; possiamo predirne solo la probabilità.
Ciò non significa che gli eventi atomici si verifichino in modo completamente
arbitrario, ma solo che non sono determinati da cause locali. Il comportamento di una
qualsiasi parte è determinato dalle sue connessioni non-locali al tutto, e poiché noi
non conosciamo con precisione tali connessioni, dobbiamo sostituire l’angusta
nozione classica di causa ed effetto col concetto più ampio di causalità statistica.
(Capra, 1982 [1990, p. 74])
Forse, invece di “causalità statistica” sarebbe meglio parlare di
“causalità olistica”. Viviamo in un cosmo le cui fondamenta poggiano
su una relazionalità profondamente radicata, o radicale. A un livello
più impercettibile, ogni cosa ne influenza un’altra. Causa ed effetto
non sono né lineari né locali, e non sono nemmeno semplicemente
aleatori; sono invece entrambi misteriosi e creativi. L’immagine
dell’universo come un orologio è andata in frantumi, e ciò che emerge
al suo posto è qualcosa che possiede una natura di gran lunga più
olistica, qualcosa che somiglia molto di più a un enorme organismo
che non a una macchina.
Il vuoto gravido
La trama dello spazio-tempo è [...] coinvolta nella danza della
creazione. Il cosiddetto spazio vuoto non sarà più visto come un
vuoto informe, così com’era concepito nella fisica classica. Lo
spazio non è una semplice assenza di forma che attende di essere
riempita dalla materia; lo spazio è invece una presenza dinamica,
piena di un’incredibile e complessa architettura.
(Elgin, 1993)
Nella fisica classica il corrispettivo della dura e solida materia era il
vuoto dello spazio. Come abbiamo visto, la dura materia di Newton e
dei suoi seguaci ormai si è dissolta in qualcosa di molto più sottile ed
etereo. Gli atomi stessi sono composti di scintillanti forme d’onda;
somigliano molto più a vortici dinamici che a qualcosa di sostanziale.
Gli elettroni vibrano quasi cinquecento miliardi di volte al secondo,
tante oscillazioni quante ne può effettuare il ticchettio di un orologio
in sedici milioni di anni. Ha scritto il fisico Max Born (1882-1970): «Più
a fondo andiamo e più irrequieto diventa l’universo; tutto turbina e
vibra in una danza selvaggia» (citato in Elgin, 1993).
Eppure, non solo la fisica moderna ha mutato la nostra concezione
della materia, ma anche lo spazio e il tempo hanno finito per
intrecciarsi, per formare un’unità dinamica. In ogni momento, e in
maniera spontanea, una particella e la sua antiparticella possono
improvvisamente emergere da questo apparente vuoto, e il momento
successivo annullarsi reciprocamente. Da dove vengono? Sembrano
nascere dal vuoto – eppure non è chiaro se quel vuoto sia
semplicemente lo spazio-tempo così come lo percepiamo o una realtà
nascosta da cui lo stesso spazio-tempo proviene. In ogni caso, questo
“vuoto gravido” sembra essere una specie di enorme oceano di
energia che ribolle di possibilità. Alcuni fisici ipotizzano addirittura
che, talvolta, onde di energia possano unirsi nel vuoto e che questo
breve impulso possa dar vita a un universo del tutto nuovo.
La fisica classica ci ha insegnato a considerare la materia come
qualcosa di fondamentale; lo spazio era solo una specie di tela su cui
esisteva e si muoveva la materia. Nondimeno, nella nuova concezione
del cosmo è lo spazio ad aver assunto una posizione preminente: «Lo
spazio non è un vuoto statico, ma un processo di continua apertura
che fornisce l’ambito affinché la materia possa manifestarsi. Poiché lo
spazio-tempo è inseparabile dal movimento, e il movimento è un altro
modo per descrivere l’energia, ne consegue che occorrono enormi
quantità di energia per generare l’apertura degli enormi volumi di
spazio-tempo che esistono nel nostro cosmo» (Elgin, 1993).
Secondo la teoria quantistica dei campi ciò che noi percepiamo
come “spazio vuoto” in realtà contiene un’elevata quantità di “energia
di punto zero”, che proviene dalla combinazione di tutti i campi
quantistici che include. È il vuoto “vuoto”, non la materia, a essere
fondamentale: la materia è semplicemente una piccola perturbazione
in un immenso oceano di energia. Secondo alcune stime c’è più
energia in un singolo centimetro cubo di vuoto (o di spazio che
diventa manifesto dal vuoto) di quanto se ne potrebbe generare se
tutta la materia conosciuta nell’universo si disintegrasse (Bohm-Peat,
1987).
La stessa natura dell’atomo può offrire delle prove di questo vasto
oceano di energia. Nella fisica classica ci si aspetterebbe di vedere un
elettrone emettere energia e poi gradualmente muoversi a spirale
verso l’interno e cadere nel nucleo. Eppure, ciò non accade. Questo è
uno dei problemi che fin dall’inizio hanno ispirato la teoria
quantistica: gli elettroni sono trattenuti in determinate orbite, o livelli
di energia. Il che significa che gli elettroni non emettono
costantemente energia fino a quando non saltano da un’orbita a
un’altra. In quel caso, emetteranno energia come multipli discreti di
un singolo quanto.
Ciò tuttavia non spiega esattamente perché gli elettroni ai più bassi
livelli di energia alla fine non cadano nel nucleo. La risposta che in
genere viene data è semplice: perché non possono. Una teoria che
offre una risposta alternativa – e forse più soddisfacente – proviene da
Harold Puthoff, un fisico dell’Università del Texas. Puthoff ritiene che
gli atomi attingano costantemente all’energia presente nel vuoto per
compensare quella emessa dagli elettroni. Rifacendosi a Duane Elgin
(1993), Puthoff sostiene che «la stabilità dinamica della materia
dimostra l’esistenza nascosta di un oceano di energia d’immensa
potenza e presente ovunque».
Alcuni fisici parlano anche di un nuovo tipo di cosmologia della
creazione continua. Poiché la materia si comprende meglio se pensata
come un processo in continuo svolgimento – «modelli che si
perpetuano; vortici d’acqua in un fiume che scorre incessantemente»,
come dice il matematico Norbert Wiener (1894-1964) –, gli oggetti
materiali possono essere intesi come «modelli di risonanza costruiti in
maniera dinamica che esistono all’interno di un più ampio modello di
risonanza di quell’”onda stazionaria” che è il nostro cosmo» (Elgin,
1993). Da questo punto di vista, in ogni istante l’intero universo è un
continuo guizzare dentro e fuori l’esistenza. Noi percepiamo la
materia come qualcosa di solido solo perché le oscillazioni avvengono
in maniera troppo rapida. La realtà è come una vibrazione che
scaturisce dal vuoto gravido, onde in un vasto oceano di energia.
Brian Swimme paragona il vuoto all’«oscurità superessenziale di
Dio», che è «il fondamento di tutto l’essere» (citato in Scharper, 1997).
Zohar e Marshall (1994) lo paragonano al concetto buddhista di
sqnyatb, un vuoto pieno di pura potenzialità. Lo possiamo paragonare
allo stesso Tao:
Il Tao è come un vuoto vorticoso,
sempre vivo e tuttavia inesauribile.
È come un abisso senza fondo,
origine di tutte le cose,
e principio guida che plasma tutti gli esseri.
(Tao Te Ching §4)
Riflettendo sull’immensa energia presente nel vuoto gravido,
vengono alla mente le parole di Thomas Berry citate all’inizio di
questo libro: «Non ci mancano certo le forze dinamiche per costruire il
futuro. Viviamo immersi in uno sconfinato oceano di energia. Ma
questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per
invocazione » (1999). Magari Berry non si riferiva all’energia di punto
zero della teoria quantistica dei campi, ma in un certo senso le due
immagini sembrano coincidere. È possibile invocare la vasta energia
presente nel vuoto per realizzare nuove possibilità? Come possiamo
farlo? Ovviamente non è questione di forza di volontà, poiché non
possiamo sperare di dominare o controllare simili enormi energie.
Nondimeno, esistono modi per evocarla, per portare alla luce queste
nuove possibilità dal vuoto gravido?
Forse la chiave di questo processo è nelle pratiche tradizionali di
meditazione, ideate per condurci in uno stato di vuoto ricettivo. In
ogni caso, riflettere sul grande potenziale presente intorno a noi può
offrire una nuova speranza alla possibilità di muovere verso una
liberazione profonda e radicale, che cambierebbe in maniera
sostanziale il nostro rapporto con il cosmo, la Terra e tutte le comunità
di esseri a cui apparteniamo.
L’immanenza della mente
Oggi vi è un ampio consenso, che nella fisica raggiunge quasi
l’unanimità, sul fatto che il flusso della conoscenza si stia dirigendo
verso una realtà non meccanica; l’universo comincia a somigliare
più a un grande pensiero che non a una grande macchina.
La mente non appare più come un intruso che accidentalmente
è entrato nel regno della materia; si comincia a sospettare che
dovremmo invece salutarla come creatrice e governatrice di tutto
questo regno – non parliamo, ovviamente, della nostra mente
individuale, ma della mente in cui gli atomi a partire dai quali
le nostre menti individuali si sono sviluppate esistono come pensieri.
(Sir James Jeans, citato in Wilber, 1985)
La visione del mondo cartesiana fu costruita sullo stretto dualismo
che separava la mente dalla materia. La fisica dei quanti, tuttavia,
sembra in gran parte dissolvere questa distinzione. La natura della
materia è stata trasformata in ciò che il fisico Arthur Eddington (1882-
1944) ha definito “materia mentale” (Wilber, 1985). Il principio di
indeterminazione di Heisenberg dimostra che ciò che viene osservato
è influenzato dalle scelte dell’osservatore. L’atto dell’osservazione non
solo interferisce con ciò che viene misurato, ma in realtà sembra
invitarlo a manifestarsi in un determinato modo; o forse, per dirla in
forma più poetica, lo chiama a essere. Heisenberg sostiene che, fino al
momento dell’osservazione, le entità quantistiche come gli atomi e le
particelle elementari «formano un mondo di potenzialità e di
possibilità piuttosto che un mondo di oggetti o di fatti» (citato in Peat,
1990). A partire da quest’idea, il matematico John von Neumann
(1903-1957) pensò che l’intero mondo fisico si trovasse in uno stato di
pura possibilità (ad esempio come onde di probabilità) finché una
mente cosciente non «decise di elevare una porzione del mondo dal
suo stato usuale di indefinitezza alla condizione di esistenza reale»
(Herbert, 1993). Ecco come Nick Herbert definisce la concezione di
Neumann:
L’idea generale di von Neumann e dei suoi seguaci è che il mondo materiale di
per se stesso non è affatto materiale, non potendo consistere che di possibilità
vibratorie inesorabilmente irrealizzate. Fuori da questo mondo di pura possibilità,
interviene la mente per concretizzare tali possibilità e per assegnare al mondo
fenomenico che ne scaturisce quelle proprietà di solidità, valore singolo e affidabilità
tradizionalmente associate con la materia.
(1993)
Nella concezione di von Neumann, la coscienza
fondamentalmente non fa che portare la realtà all’esistenza. È un’idea
intrigante, che ci rimanda a una questione filosofica profonda: in
mancanza di un centro di coscienza possiamo dire che è stato
osservato qualcosa? Per fare un esempio: uno strumento che emette
un quanto di energia per rilevare la posizione di una particella
elementare di per sé non può realmente “collassare una funzione
d’onda” più di quanto un qualunque fotone di luce non possa
collidere con la medesima particella. Dev’esserci un osservatore in
carne e ossa che registri la misurazione, e ciò implica la coscienza.
Dunque, se la coscienza è considerata una conditio sine qua non per
l’osservazione, la tesi di von Neumann sarebbe una logica
conseguenza del principio di indeterminazione di Heisenberg. Come
osserva Morris Berman (1981), questo genere di interpretazione della
meccanica quantistica implica una nuova forma di coscienza
partecipante, qualcosa che è più prossimo alla visione del mondo
dell’alchimia che alla scienza classica.
Alcuni hanno definito tale concezione “animismo quantistico”.
Questa prospettiva – e cioè che la nostra mente in qualche modo renda
manifesta o determini una realtà – coincide con quella propria di
molte religioni e filosofie orientali. Ma una simile idea non sembra
profondamente antropocentrica? Privilegiando questa forma di
coscienza non stiamo assegnando all’uomo un ruolo centrale? Sì, ma
solo se crediamo che mente e coscienza siano attributi appannaggio
esclusivo dell’essere umano. In realtà, non ci sono ragioni per credere
che gli animali, per esempio, non abbiano una qualche forma di
coscienza. Di fatto, è pressoché impossibile dimostrare se qualcosa
possiede o meno una coscienza. Noi stessi sappiamo di possederla
solo perché ne abbiamo un’esperienza diretta. Riteniamo che anche gli
altri l’abbiano perché sostengono di possederla, altrimenti non ne
avremmo alcuna prova diretta. Non potrebbe darsi che la coscienza
sia molto più diffusa di quanto si possa pensare? Certamente,
potrebbero esistere diverse forme di coscienza in diversi tipi di esseri,
ma cosa esclude che anche le piante non abbiano un qualche genere di
coscienza? Non possiamo sapere con certezza se sia così o meno.
Se, come sosteneva James Jeans (1877-1946), il cosmo stesso
assomiglia a un grande pensiero, non può essere che esiste una mente
immanente al cosmo? Come approfondiremo nel capitolo 10, oggi
sembra molto improbabile che l’universo abbia preso forma per puro
caso o in seguito a una cieca mescolanza di particelle, energia e
materia nascente. Non potrebbe darsi, dunque, come credeva Jeans,
che la mente possa essere concepita come l’autore e il creatore
dell’intero regno della materia o addirittura dell’intero cosmo? Se non
altro, se consideriamo la coscienza, inclusa quella autoriflessiva, come
una proprietà che emerge dall’intero processo evolutivo del cosmo,
allora possiamo affermare che l’universo stesso è in un certo senso
cosciente. Sicuramente gli esseri umani rappresentano quantomeno un
aspetto del cosmo divenuto cosciente; ma se tale coscienza è emersa
negli esseri umani allora potrebbe benissimo essere emersa anche in
molte altre specie, inclusi gli altri organismi terrestri (ancorché in
forme diverse, che possono variare nella loro capacità autoriflessiva).
Come scrive Roszak:
Finché si ritiene che il tempo abbia avuto un inizio, e dunque che la scienza, in un
certo senso, non abbia ancora trovato un linguaggio per fare luce su ciò, la mente che
uso per scrivere queste parole, la mente che usiamo per leggerle, è lì da sempre,
avviluppata nella prima radiazione che si è sprigionata per creare lo spazio. Le leggi
e i modelli di sviluppo erano lì, l’impulso strutturante del tempo era lì, per arrivare a
questa conclusione. Ora, quando riguardando alla storia del cosmo per studiare le
radiazioni di fondo dello spazio profondo o il violento proiettarsi dei più lontani
corpi celesti noi facciamo ricorso a una coscienza nata da quello stesso processo,
cogliamo ciò che vediamo come un’idea: l’idea del cosmo.
(1992)
David Spangler sottolinea che le culture intrise di cosmologia
meccanicista hanno finito col concepire la mente e la coscienza come
qualcosa di effimero, laddove in alcune tradizioni mistiche e
animistiche è l’esatto contrario: la realtà fisica, materia compresa, era
considerata una proiezione della coscienza; era la mente che poneva in
essere la realtà. Quest’ultima concezione sembra richiamare da vicino
quella dell’animismo quantistico. Eppure, sebbene la mente costruisca
in un certo qual modo le nostre percezioni della realtà fisica, non lo fa
nel modo del controllo e del dominio: «La mente non è “oltre” la
materia (né la materia “oltre” la mente). Ciascuna modella e influenza
l’altra in una danza universale che crea e dissolve forme e modelli»
(Spangler, 1996). Allo stesso modo, il filosofo Peter Koestenbaum
scrive: «Non esiste un confine preciso oltre il quale la mente diventa
materia [...]. L’area di collegamento è molto più simile a una nebbia
che gradualmente si addensa» (citato in M. Berman, 1981). Mente e
materia si compenetrano: l’una dà origine all’altra; o forse entrambe
sono semplicemente manifestazioni complementari di qualcosa che
esiste a un livello ancora più sottile.
Sulla base di questa interpretazione della mente e della materia, il
fisico Wolfgang Pauli sosteneva che il corpo e la mente dovessero
essere considerati come «aspetti complementari della stessa realtà».
Morris Berman ritiene che la fisica quantistica implichi che il rapporto
tra corpo e mente possa essere pensato come una specie di campo,
«diafano e solido allo stesso tempo» (1981).
In effetti, proprio come la materia può essere considerata in una
certa misura una costruzione della mente, così la mente può emergere
dalla materia; o, più esattamente, dai processi quantistici del cervello.
Come osservano Danah Zohar e Ian Marshall, semplicemente non c’è
processo meccanicistico che possa spiegare il senso fortemente
unitario dell’”Io” generato dall’interazione di un centinaio di miliardi
di neuroni presenti nel cervello; di contro, forse lo potrebbe fare una
nuova «struttura quantistica olistica» (1994). Gli autori ritengono che il
nostro cervello sia in grado di generare ciò che va sotto il nome di
“condensato di Bose-Einstein”, o quantomeno un fenomeno simile. I
condensati di Bose-Einstein si trovano nei laser, in cui i fotoni
diventano correlati nello stesso stato ottico, e nei superconduttori,
dove gruppi di elettroni legati detti “coppie di Cooper” occupano
identiche possibilità quantistiche. Il fisico inglese Herbert Fröhlich ha
teorizzato che i sistemi viventi possono anche essere in grado di
ospitare questo stesso tipo di processi ricorrendo al fenomeno della
ferroelettricità. A sua volta, Marshall crede che questo genere di
sistema ferroelettrico possa esistere anche nel cervello (Herbert, 1993).
I condensati di Bose-Einstein sono caratterizzati sia da un ordine
fluido e in continua evoluzione che da stati di unità altamente
correlati. Un simile processo può giustificare l’unità interna
dell’esperienza della coscienza: il risultante campo elettrico ad alta
coerenza, generato dal cervello, può formare una sorta di sostrato di
coscienza, fornendoci così il senso di un “io” unitario. Questo sostrato
sarebbe analogo a uno specchio d’acqua sul quale i nostri pensieri, le
emozioni, i ricordi e le immagini si propagano come piccole
increspature.
Un’altra ragione per credere che il cervello possa implicare
processi quantistici some quelli di un condensato di Bose-Einstein è
che ciò giustificherebbe le sue impressionanti capacità di elaborazione.
Un neurobiologo ha calcolato che un computer standard seriale o
parallelo, per elaborare un solo evento percettivo, necessiterebbe di un
tempo superiore a quello trascorso dall’inizio del cosmo. Di contro, se
il cervello utilizzasse processi quantici sarebbe in grado di esaminare
tutte le varie combinazioni possibili di dati simultaneamente,
consentendogli di produrre istantaneamente un senso unitario
dell’esperienza (Zohar-Marshall, 1994).
Se in qualche modo la mente operasse sul piano della realtà
quantistica, sarebbe in grado di interagire direttamente con altri
fenomeni quantistici? Potrebbe essere addirittura in grado di agire
direttamente su ciò che normalmente chiamiamo realtà fisica? Da una
ricerca approfondita condotta da Robert Jahn e Brenda Dunne è
emerso che la mente è in grado di influenzare il funzionamento di un
generatore di numeri casuali. L’effetto è estremamente esiguo,
purtuttavia è misurabile. Dopo sette anni di lavoro, l’effetto
complessivo di psicocinesi è stato così significativo che vi era una sola
possibilità su un milione che il risultato fosse dovuto a cause
puramente aleatorie. «Se gli esperimenti di questo tipo», concluse
Nick Herbert, «fossero stati condotti ininterrottamente fin dall’età
della pietra, non si sarebbe presentato che un singolo risultato, dovuto
al caso, così tanto lontano dalla media» (1993).
Un altro esperimento accuratamente ideato dimostra che menti
separate possono essere collegate tra loro in un modo che sfida
qualsiasi spiegazione fisica ordinaria. William Braud e Donna Shafer
hanno separato coppie di persone in due edifici diversi. Un soggetto
poteva vedere l’altro attraverso lo schermo di un televisore collegato a
una telecamera. Ogni trenta secondi alla persona osservata veniva
chiesto se la persona nell’altro edificio la stesse guardando o meno. In
base alle probabilità avrebbero dovuto rispondere correttamente solo
la metà delle volte, e questo è stato il risultato effettivamente
raggiunto; tuttavia, la risposta cutanea galvanica apparsa sul
rilevatore indicava che nelle persone osservate vi era un aumento
anomalo del livello di stress, segnalando una reazione il 59 per cento
delle volte che le persone venivano osservate, ben al di là dunque del
50 per cento che ci si attendeva. Al livello del subconscio, dunque, i
soggetti avvertivano di essere osservati, anche se forse non lo erano al
livello conscio. La conclusione di Herbert è che «questi esperimenti
sembrano suggerire che menti separate possono collegarsi attraverso
connessioni che oltrepassano le nostre spiegazioni meccaniche
ordinarie. La connessione in questo caso sembra realizzarsi al di sotto
del livello della mente conscia, registrato da una minima risposta
corporea piuttosto che da una piena percezione conscia» (1993).
Questo può essere forse indizio di una qualche specie di connessione
non-locale che opera a livello quantistico.
Un terzo esperimento, che riguarda la relazione tra preghiera e
guarigione, sembra indicare che pensiero e intenzione possano
influenzare a distanza i processi biologici. Randolph Byrd, un
cardiologo, ha suddiviso all’incirca quattrocento pazienti malati di
cuore in due gruppi grosso modo uguali. I nomi di metà di questi
pazienti sono stati dati a dei gruppi di preghiera sparsi in tutti gli Stati
Uniti. Per questi pazienti pregavano quattro-sette persone, ma né i
pazienti né i loro medici ne sapevano nulla. Ebbene, alla fine
dell’esperimento si è scoperto che il gruppo di pazienti che aveva
ricevuto le attenzioni dei gruppi di preghiera aveva cinque volte meno
probabilità di dover fare uso di antibiotici e tre volte meno probabilità
di essere affetti da liquido nei polmoni. Nessuno dei pazienti per i
quali si era pregato ha avuto bisogno dell’intubazione endotracheale
per favorire la respirazione, laddove nell’altro gruppo è stata
necessaria per dodici persone. Allo stesso tempo, l’effetto della
preghiera sembrava completamente indipendente dalla distanza
(Herbert, 1993). Di certo, questo fenomeno può essere attribuito in
egual modo all’intervento divino, ma anche una simile spiegazione
sfugge a qualsiasi spiegazione basata su cause puramente
meccaniciste. O la mente degli individui che pregavano ha influenzato
i malati o ha agito una mente più grande.
Se intenzione e pensiero interagiscono in qualche modo con la
realtà fisica, allora vi sono importanti implicazioni sul piano
dell’azione trasformativa. La liberazione dev’essere una liberazione
dalle strutture sociali oppressive e da modi di pensare oppressivi.
Visione e intenzione possono avere effetti davvero concreti e diretti
sul nostro lavoro in difesa della salute e del benessere del pianeta. In
una certa misura, visione e intenzione possono avere un ruolo diretto
nel determinare il cambiamento. Ciò non vuol dire che l’azione e
l’organizzazione politica non siano importanti o necessarie; ma solo
che agiscono su ciò che potremmo considerare il livello d’intenzione
(o di spiritualità) che dovrebbe accompagnare tutte le azioni volte a
trasformare le strutture di dominio e di oppressione. Non dovrebbe
dunque esservi tra loro alcuna dicotomia o dualismo.
Se la mente e la realtà fisica in qualche modo si compenetrano, che
implicazioni ha tutto questo sul posto che l’uomo occupa nel cosmo?
Tornando all’interrogativo di Brian Swimme – l’universo è un luogo
ospitale? –, James Jeans osserva:
Questo nuovo concetto ci costringe a rivedere l’impressione che abbiamo di essere
capitati in un universo del tutto indifferente nei confronti della vita, se non
addirittura ostile. Il vecchio dualismo mente-materia, che era il principale
responsabile di questa presunta ostilità, sembra quasi scomparire, non tanto perché la
materia diventa in qualche modo più irreale e inconsistente di quanto non fosse
prima, e nemmeno perché la mente si risolve in una funzione operante della materia,
ma perché la materia si risolve essa stessa in una creazione e in una manifestazione
della mente.
(Wilber, 1985)
Ovviamente, il rapporto tra la mente e ciò che normalmente
concepiamo come realtà fisica è qualcosa di complesso. Ciò che
emerge, però, è che il vecchio dualismo cartesiano che divide la mente
dalla materia, alla luce delle nostre conoscenze di fisica quantistica,
semplicemente non è più sostenibile. La coscienza sembra se non altro
capace di far “collassare la funzione d’onda”, inducendo la realtà
quantica a manifestarsi in un determinato modo. Al livello dei
fenomeni quantistici, la mente sembra in un certo senso porre in
essere la realtà. Allo stesso tempo, può essere possibile che la mente
stessa funzioni anche in una dimensione quantistica. Sembra
probabile che mente e materia interagiscano in modi alternativi, modi
che ancora non abbiamo compreso; e sembra altresì che possano
perfino esistere connessioni tra mente e mente. In ogni caso, un
approccio integrale alla liberazione deve tentare seriamente di unire
pensiero, visione e intenzione con gli approcci più tradizionali per
l’organizzazione e l’azione trasformativa.
Il cosmo olografico
Nel cielo di Indra, si dice che esista una rete di perle, raccolte
in modo che guardandone una tutte le altre vi si riflettano, e se
ci si addentra in una qualunque sua parte si sente il suono delle
campane che riecheggia in ogni angolo della rete, in ogni parte
della realtà. Allo stesso modo ogni individuo, ogni oggetto
nel mondo non è solo se stesso, ma coinvolge ogni altro individuo
e ogni altro oggetto e, in verità, da un certo punto di vista
è ogni altra persona e oggetto.
(parafrasi della Avatamsakasutra di Houston, 1982)
Nel regno dei quanti, una realtà specifica sembra
momentaneamente emergere da un vasto oceano di possibilità.
Sembra che la mente e la coscienza giochino un ruolo diretto in questo
processo di manifestazione. Esiste tuttavia una realtà più profonda,
“dietro il velo”, per così dire, a partire dalla quale le particelle
elementari e le onde diventano manifeste? La mente, l’energia, la
materia, lo spazio e il tempo possono emergere a un altro livello
ancora, un livello che noi non possiamo percepire direttamente, bensì
solo attraverso delle inferenze?
James Jeans credeva che la conseguenza più importante della fisica
quantistica fosse che gli scienziati, per la prima volta dopo secoli,
erano costretti a riconoscere che avevano avuto a che fare solo con
l’ombra della realtà e non con la realtà in sé. Schrödinger concorda
allorché scrive: «Si noti che il recentissimo progresso della fisica
quantistica e relativistica non si trova nel mondo di quella stessa fisica
che ha acquisito questo carattere di irrealtà, ma esisteva fin dai tempi
di Democrito di Abdera e perfino prima, solo che non ne eravamo
consapevoli; pensavamo di avere a che fare con il mondo in sé» (citato
in Wilber, 1985). Tuttavia, se è vero che abbiamo a che fare in un certo
senso con delle ombre, cos’è che proietta le ombre che percepiamo?
Una delle teorie più affascinanti che tenta di rispondere a
quest’interrogativo riguarda la nozione di “analogia olografica”
proposta dal fisico David Bohm. Un ologramma è un sistema di
interferenza prodotto su una lastra fotografica da due laser, uno
riflesso dall’oggetto che viene registrato, l’altro, il fascio di
riferimento, che colpisce direttamente la lastra. Sebbene l’immagine
prodotta sulla lastra sia indecifrabile per l’occhio, viene riprodotta
un’immagine tridimensionale dell’oggetto originale quando un laser
passa attraverso il film sviluppato. Ma la cosa principale è che anche il
più piccolo frammento di lastra fotografica può riprodurre l’intera
immagine in dimensioni ridotte. Come le perle di Indra descritte nella
sutra buddhista all’inizio del paragrafo, così ogni parte
dell’ologramma contiene l’essenza del tutto.
L’analogia olografica postula l’esistenza di un livello esplicato e di
un livello implicato della realtà. L’ordine implicato, come l’immagine
sulla lastra fotografica, è una realtà “avviluppata”; in sostanza, il
terreno unificante da cui emergono tutti i fenomeni, il vuoto amorfo a
partire dal quale la realtà percepita diventa manifesta (che potremmo
interpretare come lo stesso Tao). Di contro, ciò di cui normalmente
facciamo esperienza è l’ordine esplicato, o manifesto, dello spazio e del
tempo.
L’ordine implicato ha una natura olistica e non-locale, mentre
quello esplicato corrisponde al mondo delle apparenze composto dai
singoli oggetti. Possiamo pensare all’ordine implicato come a un
fiume e all’ordine esplicato come al movimento sulla sua superficie,
effettivamente creato e sostenuto dal fiume stesso:
Il gorgo o vortice in un fiume, per esempio, ha una collocazione definita nello
spazio e nel tempo. È anche possibile generare nel fiume un tipo particolare di onde,
che sotto molti aspetti si comportano come particelle – perfino nella misura in cui
collidono l’una con l’altra. Eppure questi vortici e solitoni non hanno un’esistenza
indipendente dal fiume che li sostiene. I vortici esistono nell’atto di essere
costantemente creati.
(Peat, 1990)
Il concetto di ordine implicato, dunque, equivale forse sotto molti
aspetti a quello di vuoto gravido che abbiamo poc’anzi esaminato. Per
David Bohm l’ordine implicato abbraccia lo spazio, il tempo, la
materia e l’energia. L’ordine esplicato – il mondo delle nostre
percezioni normali – è in realtà solo una piccola porzione della realtà.
Le forme che vediamo sono semplicemente un palesarsi temporaneo
dell’ordine implicato, che soggiace al tutto e lo sostiene. È interessante
notare che nella ricerca di un modello matematico per descrivere
l’ordine implicato, Bohm e il suo collega Basil Hiley si rifecero
all’algebra di Grassman, originariamente formulata per definire la
natura del pensiero stesso (Peat, 1994).
Collaborando con Bohm, il neurologo Karl H. Pribram ipotizzò che
la stessa mente poteva esistere – se non altro in alcune delle sue
dimensioni – nell’ordine implicato, trasformandolo poi nell’ordine
esplicato attraverso un processo matematicamente simile alle
trasformazioni di Fourier (Peat, 1987). Come il laser che riluce su una
lastra fotografica in un sistema d’interferenze costruisce un
ologramma, così il centro della coscienza costruisce una percezione
della realtà. In sé la mente è analoga a un ologramma avviluppato in
un universo olografico. Diversamente da un ologramma, tuttavia,
realtà e mente sono elementi dinamici. Per questo motivo David Bohm
preferisce usare il termine “oloflusso” (o “olomovimento”) per
definire questo concetto (Weber, 1982).
La teoria della mente che funziona in maniera analoga a un laser
diventa molto più intrigante se la associamo all’idea secondo cui il
cervello genera una specie di condensato di Bose-Einstein, lo stesso
tipo di fenomeno effettivamente operante in un laser. Come osservano
Zohar e Marshall (1994), un ologramma è semplicemente un tipo di
increspatura o modulazione del campo uniforme del laser. Parimenti,
i pensieri e le percezioni nella mente possono costituire increspature
sul condensato di Bose-Einstein generato dal cervello. Uno stato
profondamente meditativo, di contro, riporta la mente a una
condizione di coscienza pura e indisturbata, simile allo specchio
d’acqua di un calmo laghetto o al laser non disturbato da un
ologramma.
Se la mente è in un certo senso simile a un ologramma, ci
aspetteremmo che mostri la stessa dinamica olistica che consentirebbe
a ogni sua parte di includere il tutto. La natura della memoria ne è un
esempio calzante. Come ha sottolineato Karl Pribram, la memoria non
pare localizzata all’interno del cervello ma piuttosto, e in un modo
misterioso, sembra essere distribuita. Un danno al cervello non
comporta la perdita della memoria selettiva, anche se il danno è molto
esteso. David Peat (1990) si chiede se in questo fenomeno non siano
implicate correlazioni non-locali, suggerendo che forse potrebbe
essere in azione una sorta di processo quantistico. Altri hanno pensato
che la memoria non sia depositata in nessun luogo, ma che la mente
sia in qualche modo capace di guardare indietro nel tempo a eventi ed
esperienze passate. Oppure ancora, se la mente esiste nell’ordine
implicato, forse possiede modi di immagazzinare i ricordi al di fuori
del cervello fisico. Magari il cervello serve solo da strumento di
accesso ai ricordi, ma non a immagazzinarli effettivamente.
Esistono interessanti analogie tra l’idea di un ordine implicato – o
di vuoto gravido, a cui sembra corrispondere ampiamente – e le
credenze spirituali di molti popoli. Gli aborigeni australiani, per
esempio, ritengono che l’universo abbia due lati: uno corrisponde alla
realtà “ordinaria” (o all’ordine esplicato) e l’altro, dal quale è sorto il
mondo fisico, viene chiamato “tempo del sogno”. Il tempo del sogno,
che possiamo considerare corrispondente all’ordine implicato, celebra
la realtà materiale esistente, comprese rocce, fiumi, alberi, animali ed
esseri umani. Tutto viene costantemente sostenuto dal tempo del
sogno (Elgin, 1993). Parimenti, stando alla tradizione buddhista
tibetana, i fenomeni vengono dal vuoto e ogni cosa è transitoria. Lama
Govinda scrive: «Questo mondo apparentemente solido e sostanziale
[è] [...] un turbinio di forme che sorgono e si disintegrano
incessantemente» (citato in Elgin, 1993). Tali credenze riguardano
anche il concetto di creazione continua discusso in precedenza.
L’analogia olografica, infatti, implica che il mondo dei fenomeni sia
continuamente sostenuto, e continuamente creato, al di fuori
dell’ordine implicato.
Sebbene le complessità della teoria olografica siano difficili da
comprendere e sotto molti aspetti ancora troppo speculative, vale la
pena di prendere in considerazione alcune implicazioni di tale teoria,
molte delle quali coincidono con le nostre precedenti osservazioni
sulla natura della realtà quantistica. Innanzitutto, sembra che non
esista qualcosa come una pura energia o una pura materia. Ogni
aspetto dell’universo esiste come una specie di espressione
vibrazionale – qualcosa che coincide, ovviamente, con l’idea di
dualismo onda-particella e con il principio di indeterminazione.
Questa concezione si avvicina molto alla cosmologia sufi, la quale
considera la realtà in termini di vibrazione:
La vita assoluta dalla quale è scaturito tutto ciò che si sente, si vede e si percepisce
[corrispondente all’ordine esplicato], e in cui nel corso del tempo tutto nuovamente si
fonde, è una vita silente, immota ed eterna che i sufi chiamano zat [corrispondente
all’ordine implicato]. Ogni movimento che scaturisce da questa vita silente è una
vibrazione a sua volta creatrice di vibrazioni.
(Inayat Khan, 1983)
In secondo luogo, ogni aspetto del cosmo è un sistema
onnicomprensivo che contiene tutte le informazioni su se stesso.
Eppure, al tempo stesso, ogni aspetto è anche parte di un tutto più
grande, l’ordine implicato che pervade ogni cosa. Poiché tutti gli
eventi vibratori si mescolano all’interno di “oloflussi” unificanti, ogni
aspetto contiene anche informazioni sul tutto. Questa parte
dell’analogia olografica coincide con il concetto di connessioni non-
locali proprie del teorema di Bell, ma altresì lo amplifica e lo estende.
Torna alla mente ancora una volta l’immagine delle perle di Indra:
ogni parte della realtà in un certo modo rispecchia il tutto.
In terzo luogo, il tempo nell’universo olografico non si limita al
flusso lineare, ma può esistere in una forma pluridimensionale, che
scorre in differenti direzioni simultaneamente. La vecchia cosmologia
meccanicista era deterministica, e considerava tutti gli eventi
all’interno di una struttura di causa ed effetto. Se da un lato tali
spiegazioni possono risultare utili, dall’altro però non sono affatto
complete, come dimostra il verificarsi di molte “sincronicità” (termine
introdotto da Jung per indicare coincidenze misteriosamente
significative). Nel modello olografico, entrano in gioco l’unità del
regno fisico e del regno materiale: la sincronicità si verifica allorché la
mente funziona nel suo vero ordine e il suo potenziale creativo è
realizzato (Talbot, 1991). Ciò non vuol dire che la realtà sia
un’illusione, ma che la nostra psiche può interagire direttamente con
l’ordine esplicato.
Una cosmologia olografica implica parimenti che ogni cosa sia in
un certo senso causata da ogni altra, e che tutti gli eventi siano in
qualche modo collegati. Ciò non implica predeterminazione, in
quanto ogni istante include nuova creatività. E infatti le intuizioni di
un nuovo campo di studi scientifico, la teoria dei sistemi, dimostrano
che anche la più piccola azione in un sistema complesso può
comportare effetti estremamente rilevanti. Ecco come conclude Peat:
Nell’affermare che “ogni cosa causa ogni altra cosa”, si ipotizza che i diversi
fenomeni dell’universo provengano dal flusso del tutto, e che siano meglio descritti
da una “legge del tutto”. Mentre la causalità lineare può funzionare abbastanza bene
per sistemi limitati, meccanicistici e ben isolati, in genere serve qualcosa di più sottile
e complesso per descrivere la straripante ricchezza della natura.
(1987)
Dunque, la cosmologia olografica ci introduce al vero mistero della
trasformazione e ci libera dal freddo determinismo. Le scelte e le
azioni individuali possono avere un impatto reale e durevole; anzi,
nelle giuste circostanze una minima azione si può amplificare e può
diventare molto più potente di quanto non si pensi. All’interno del
modello olistico gli individui sono stimolati a vivere le loro piene
potenzialità e a rapportarsi alla realtà in maniera creativa. Quest’idea
rafforza di conseguenza le potenzialità creative sia del potere-
dall’interno che del potere-con. Un cambiamento liberatorio è
possibile. La chiave per un’azione efficace non si trova nel potere di
dominio e di controllo, ma nel saper mantenere la giusta intenzione e
nel discernere l’azione giusta al momento e nel luogo giusti.
In ultima analisi, una cosmologia olografica include la coscienza e
la spiritualità come parti integranti della realtà. Come osserva Marilyn
Ferguson:
Nella teoria è infatti implicito il presupposto che gli stati di coscienza e armoniosi
e coerenti siano maggiormente in sintonia con il livello primario della realtà, una
dimensione, appunto, di ordine e di armonia. Vi sono implicazioni legate
all’apprendimento, all’ambiente, alla famiglia, all’autoguarigione. Che cosa è che ci
riduce in frammenti? Che cosa è che ci rende inerti?
Le descrizioni di un senso di flusso, di cooperazione con l’universo, nel processo
creativo, nelle prestazioni atletiche eccezionali e talvolta nella vita quotidiana,
riflettono l’unione con la fonte?
[...] Il modello olografico aiuta anche a spiegare lo strano potere dell’immagine, il
motivo per cui gli eventi sono influenzati da quello che immaginiamo e
visualizziamo.
(1987 [1999, pp. 223-224])
In questo modello cosmologico sarà fondamentale incoraggiare gli
atteggiamenti di amore, gioia, timore reverenziale e profondo rispetto.
L’importanza dell’arte, della visualizzazione creativa e delle pratiche
di meditazione risulta evidente.
Una cosmologia olografica valorizza altresì il ruolo dell’intuizione.
L’intuizione non è vista come uno stato “particolare” o alterato della
coscienza, bensì come «un accesso diretto a ciò che è implicito, che
opera [in maniera analoga a] una scansione di un’interferenza di tipo
olografico con un’attenzione diffusa che non impone nozioni
preconcette su di essa» (Welwood, 1982). In altre parole, l’intuizione è
vista come una comprensione diretta dell’ordine implicato da parte
della mente. L’intuizione non è irrazionale; è semplicemente una
forma di razionalità distinta dal pensiero discorsivo. Coloro che sono
coinvolti nella lotta per la liberazione e la salvaguardia dei sistemi
vitali della Terra, dunque, dovrebbero lavorare allo sviluppo della
facoltà intuitiva e darle maggiore rilievo. Questo comunque non
significa che la logica lineare debba essere accantonata. La concezione
olografica della realtà, infatti, è contraria alla creazione di dualismi e
cerca di integrare tutti gli aspetti della mente.
In sintesi, la metafora olografica ci costringe a considerare la
mente, la materia e lo spirito come un tutto inseparabile: «La materia è
riempita dallo spirito, e lo spirito si cinge di materia. Non sono realtà
separate» (Weber, 1982). La mente è una specie di interfaccia tra lo
spirito e la materia: è essa stessa parte dell’ordine implicato, il
fondamento dell’essere che corrisponde allo spirito, ma che interpreta
la realtà sul piano dell’ordine esplicato. L’autentica prassi liberatoria,
dunque, deve cercare di integrare mente, materia e spirito in un tutto
operativo.
Olismo quantico
Ogni atomo non fa altro che rivelare le potenzialità presenti nel
modello di comportamento degli altri atomi. Ciò che troviamo,
pertanto, non sono realtà elementari di spazio-tempo, ma una
rete di relazioni in cui nessuna parte può stare da sola; ogni parte
riceve il suo significato e la sua esistenza solo dal posto che
occupa all’interno del tutto.
(Henry Stapp, citato in Nadeau-Kafatos, 1999)
Indipendentemente dal fatto che l’analogia olografica si riveli o
meno una metafora adeguata della realtà microcosmica, è evidente
che le intuizioni della fisica quantistica non fanno che sgombrare il
campo da ogni possibilità di interpretazione del cosmo in termini
puramente meccanicisti o materialisti. L’universo-orologio di Newton
e Cartesio si è dissolto in una visione del mondo molto più complessa
e misteriosa, e altresì olistica. Heisenberg una volta disse che il cosmo
doveva essere visto come «una complessa trama di eventi, in cui si
alternano, si sovrappongono e si combinano rapporti di diverso tipo,
determinando la struttura del tutto» (citato in Nadeau-Kafatos, 1999).
Gli atomi e le particelle elementari non sono più cose – e in effetti
contengono ben poco della “dura materia” – ma eventi o processi,
come i vortici in una corrente. Se è mai possibile affermare che la
materia esiste, allora esiste non più in quanto sostantivo ma in quanto
verbo. Come scrive David Peat:
I fisici ci dicono che una roccia è composta da un numero enorme di atomi. E
questi stessi atomi, che a un livello quantistico sono avvolti nell’ambiguità, sono tutti
coinvolti in una grande danza la cui manifestazione collettiva è una roccia. La roccia
è pura danza. La sua rocciosità, la sua inerzia, la sua voce tutta interiore, sono
manifestazioni di questo flusso e di questo costante movimento.
(1991)
Il regno quantico mostra di avere una natura profondamente
relazionale. Ad esempio, che cos’è in sé e per sé un quark quando si
rifiuta ostinatamente di essere isolato e analizzato? Un quark esiste
solo in relazione ad altri quark? In altre parole, come possiamo
definire qualunque tipo di particella elementare in sé e per sé? Ogni
particella rimanda a tutte le altre particelle attraverso connessioni
non-locali, il che, ancora una volta, implica che non si possa esaminare
una particella in maniera isolata. In un cosmo siffatto, in cui tutto è in
un certo senso causato da ogni altra cosa, possiamo comprendere le
parti solo in relazione le une alle altre. Materia, energia, spazio e
tempo coesistono in una rete dinamica di relazioni. Infatti, tutte queste
manifestazioni della realtà possono benissimo scaturire da un livello
più profondo di unità, il vuoto gravido, il vasto oceano di energia che
crea e sostiene queste manifestazioni momento per momento.
Per di più, su una scala quantistica, le entità con cui abbiamo a che
fare non sembrano nemmeno avere una posizione, una traiettoria e un
momento. Finché una particella elementare non viene osservata, esiste
in uno stato di pura potenzialità e possibilità, come una specie di onda
di probabilità. Le sue qualità specifiche divengono manifeste solo
quando la particella viene osservata. L’osservatore non può mai essere
considerato indipendente da ciò che è osservato. La coscienza sembra
cogliere solo un certo aspetto, affinché diventi manifesto. Il regno
quantistico ha una natura olistica, dunque, che comprende anche la
mente e la coscienza. Parimenti la relatività ha dimostrato che la
struttura di riferimento dell’osservatore influenza ciò che viene
osservato. Una volta ancora l’osservatore non può essere indipendente
da ciò che osserva.
La natura olistica del regno quantistico è testimoniata anche dalla
sua complementarità. Una particella è anche un’onda; lo spazio e il
tempo coesistono come parti di un tutto più grande; materia ed
energia sono due aspetti di una sola realtà. Ciò sembra rispecchiare
l’idea di complementarità dello yin e dello yang nel taoismo o dello
jemal e dello jelal nel sufismo (un analogo del femminile e del
maschile, o del ricettivo e dell’assertivo). Una tensione dinamica di
apparenti opposti crea un’unità dinamica. Altrimenti detto: possono a
loro volta essere manifestazioni complementari di qualcosa di più
profondo da cui scaturiscono.
La fisica quantistica rivela un autentico olismo in cui il tutto è più
grande della somma delle sue parti e in cui anche le parti manifestano
il tutto. Ecco come Nadeau e Kafatos descrivono questo genere di
olismo:
In un tutto autentico i rapporti tra le parti costituenti devono essere “interni e
immanenti” alle parti, in contrapposizione a un tutto più spurio in cui le parti
sembrano rivelare un’interezza dovuta a rapporti esterni alle parti. L’insieme delle
parti che avrebbe formato il tutto in una fisica classica è un esempio di un tutto
spurio. La parti formano un tutto vero se il principio ordinante universale è interno
alle parti e quindi adegua ognuna di loro a tutte le altre, di modo che si colleghino e
diventino reciprocamente complementari. Ciò non solo definisce il carattere del tutto
mostrato sia dalla teoria della relatività che dalla meccanica quantistica, ma è anche
coerente con la maniera in cui abbiamo cominciato a pensare la relazione tra le parti e
il tutto nella moderna biologia.
(1999)
Il cosmo scoperto dalla moderna fisica della meccanica quantistica
e della teoria della relatività, dunque, è di natura profondamente
olistica. Il mondo della materia inerte e del cieco determinismo
dell’universo-orologio newtoniano è superato. È altresì superata la
rigida separazione tra mente e materia. La mente e la materia
sembrano essersi fuse in modo misterioso e perfino giocoso. La
coscienza, potremmo dire, evoca una particolare manifestazione della
realtà quantistica, essendo forse essa stessa l’espressione di un
fenomeno quantistico; o probabilmente dovremmo dire che la mente e
la realtà fisica coscaturiscono da qualcosa che è allo stesso tempo più
profondo e più sfuggente.
La visione che sta emergendo del cosmo è profondamente
relazionale e perciò, per definizione, ecologica. Ogni cosa, se non altro
a certi livelli, è connessa con ogni altra. Anche la coscienza sembra
essere immanente al cosmo. Gli esseri umani, dunque, non possono
ritenersi distinti dal mondo che li circonda. Siamo chiamati a fare
nostra questa visione a un tempo nuova e antica del mondo e a tentare
di vivere la consapevolezza di questa interconnessione nell’esperienza
quotidiana.
Allo stesso tempo, il freddo e logico razionalismo della fisica
classica ha lasciato il posto a qualcosa cha possiede una natura molto
più paradossale. Risulta impossibile formarci un’immagine chiara del
regno quantistico. Perfino il vocabolario della fisica è diventato
bizzarro, facendo ricorso a termini come sapore, colore, charm (tutte
qualità dei quark), gluoni e wimp. I fisici stessi affermano che se
comprendiamo ciò di cui stanno parlando, allora vuol dire che non
abbiamo capito nulla!
Per alcuni la fine di un cosmo prevedibile, deterministico e
comprensibile può essere motivo di disperazione; ma se consideriamo
il mistero e la complessità come qualcosa di creativo, possiamo in
realtà assumere un atteggiamento opposto. Forse il determinismo è un
punto di vista comodo per chi desidera che le cose non cambino mai,
ma se vogliamo cambiare radicalmente il modo in cui gli esseri umani
vivono sulla Terra, allora la natura paradossale e sorprendente del
cosmo, così come appare nella fisica quantistica, può in realtà essere
vista come un segnale di speranza.
39 I corpi neri sono oggetti che assorbono tutta la radiazione elettromagnetica che li
colpisce. Nessuna radiazione li attraversa o viene riflessa; eppure teoricamente questi corpi
emettono ogni possibile lunghezza d’onda di energia. Nonostante il nome, i corpi neri non
sono letteralmente neri, poiché emettono anche luce, soprattutto ad alte temperature.
40 Per chiarire, un possibile modo per comprendere ciò che accade è che ogni singolo
fotone (o elettrone) quando raggiunge le due fenditure è ancora semplicemente un’entità
potenziale, in quanto non è stato ancora osservato. Così, un aspetto potenziale del fotone
passa attraverso entrambe le fenditure e interferisce con il suo altro aspetto potenziale prima
di raggiungere la pellicola dove sarà finalmente osservato. È solo raggiungendo la pellicola
che viene costretto a manifestarsi, ma per allora l’interferenza si sarà già verificata nel regno
potenziale, di modo che quel che osserveremo sarà uno schema di interferenza.
41 Protoni e neutroni sono in realtà composti di quark. Esistono quark di diversi “sapori”,
tra cui i quark up e down così come i quark charm, strange, top e bottom!
8. Complessità, Caos e Creatività
Il Tao genera l’uno.
L’Uno genera il due.
Il Due genera il tre.
Il Tre genera tutta la diversità delle cose.
Tutti gli esseri ritornano allo yin e abbracciano lo yang
e l’interazione di queste due forze vitali
riempie il cosmo.
Eppure solo nel punto di quiete,
tra inspirazione ed espirazione,
possiamo cogliere queste due forze in perfetta
[armonia.
TAO TE CHING §42
Agisci senza fare,
lavora senza faticare,
assapora senza gustare.
Ingrandisci il piccolo,
incrementa il poco.
Rispondi con gentilezza quando ricevi uno sgarbo.
Affronta i problemi
prima che diventino troppo difficili.
Risolvi le situazioni complesse
con una serie di piccoli passi.
TAO TE CHING §64
Nell’agire, la tempestività è tutto.
TAO TE CHING §8
[Si immagini] un universo in cui ogni atomo, roccia e stella si abbeveri alla stessa
inesauribile fonte della creatività. La natura è una sinfonia in cui temi, armonie e strutture
nuove sono in perenne svolgimento. Queste strutture e questi processi restano in costante
comunicazione reciproca e sono coinvolti in una danza di forme. La vita nuota in un oceano di
senso, in un’attività e una coerenza che stempera le differenze tra ciò che è animato e ciò che è
inanimato, tra pensiero e materia. Nuovi valori si sviluppano da questa mappa, poiché, in
quanto partecipi di un universo vivente, siamo chiamati a un nuovo modo di agire e di essere.
(Peat, 1991)
Siamo all’inizio di una nuova grande sintesi. Il soggetto non è una corrispondenza
di strutture statiche, ma una connessione di dinamiche di autoorganizzazione – della
mente – a più livelli. Possiamo immaginare l’evoluzione come un fenomeno dinamico
complesso – e tuttavia olistico – di un ordine che si dispiega universalmente e che
diventa manifesto in molti modi, in quanto materia ed energia, come informazione e
complessità, come coscienza e autoriflessione.
(Jantsch, 1980)
Sebbene la concezione del microcosmo che emerge dalla fisica
quantistica sia affascinante e suggestiva per la visione del cosmo che
rivela, essa può sembrarci piuttosto lontana dalla nostra esperienza
quotidiana. È vero, ovviamente, che i fenomeni quantistici giocano un
ruolo fondamentale nelle nostre vite: per esempio, tutto ciò che
vediamo è generato dall’interazione tra i fotoni e le nostre retine.
Eppure il regno subatomico sotto molti aspetti è probabilmente
troppo misterioso e alieno per incidere in maniera diretta sulla nostra
cognizione della realtà. Anche i fisici che hanno a che fare
quotidianamente con esso sostengono di non essere in grado di
comprendere fino in fondo la sua natura paradossale. Al massimo,
forse, la visione del mondo quantistica potrà penetrare lentamente
nella nostra coscienza, pervadendoci dell’implicita consapevolezza
che la nostra percezione della realtà “solida” proviene da un’intricata
danza di vivaci modelli di energia che interagiscono con la mente in
maniera impercettibile.
Le dinamiche relazionali e olistiche presenti nel microcosmo,
comunque, sono osservabili in egual misura nel complesso sistema
che rende il mondo accessibile ai nostri sensi. Tuttavia, a causa della
visione del mondo che ci è stata tramandata, non sempre si riesce a
essere consci di queste dinamiche. Tendiamo ancora a percepire la
realtà in termini meccanicisti, come parti materiali che interagiscono
in un modo relativamente semplice, il cui rapporto causa-effetto è
diretto e intellegibile.
In realtà, invece, la fisica classica è in grado di avere a che fare solo
con sistemi relativamente semplici, isolati e lineari che agiscono vicino
all’equilibrio. Eppure si tratta quasi sempre di idealizzazioni; tali
sistemi sono approssimazioni che corrispondono al mondo reale solo
in casi molto specifici. Per esempio, le leggi del moto di Newton
descrivono magistralmente l’interazione tra due pianeti, ma
l’interazione di tre o più corpi celesti si traduce in equazioni non-
lineari che mettono in crisi qualsiasi semplice soluzione matematica,
rendendo impossibile prevedere le loro traiettorie con precisione. Allo
stesso modo, l’oscillazione del pendolo in un range abbastanza breve
può essere facilmente analizzata, ma un pendolo con oscillazioni più
ampie produce comportamenti caotici che non possono essere
previsti.
I limiti della fisica classica sono ancora più evidenti quando
tentiamo di applicare i suoi schemi a sistemi aperti (come gli
organismi viventi) che scambiano materia ed energia con l’ambiente
che li circonda. Secondo le leggi della termodinamica formulate nel XIX
secolo, l’entropia dovrebbe crescere costantemente, il che significa che
i sistemi dovrebbero sempre tendere a uno stato di maggiore
disordine. Eppure, gli organismi viventi in realtà creano e
mantengono un ordine, e anzi evolvono verso forme più complesse.
Infatti, perfino quei sistemi che non sono organismi viventi – inclusi i
sistemi fisici come i laser – danno prova di dinamiche di
autoorganizzazione che non possono essere comprese utilizzando gli
schemi della fisica classica.
Gli scienziati sono da tempo consapevoli di queste limitazioni, ma
fino a poco tempo fa semplicemente avevano scelto di ignorarli. Di
fatto, avevano escluso la maggior parte dei sistemi del mondo reale
dalle loro indagini, perché non potevano essere compresi all’interno
dei loro schemi meccanicistici e deterministici.
Tuttavia, nel corso degli ultimi cinquant’anni circa, è emersa una
nuova prospettiva – detta “teoria dei sistemi” – che tenta di
comprendere i sistemi complessi. Sotto molti aspetti la teoria dei
sistemi non è affatto una teoria nel senso classico del termine, bensì
«un insieme coerente di principi applicabili a tutti gli insiemi
irriducibili» (Macy, 1991a); o, secondo le parole di Ludwig von
Bertalanffy, uno dei fondatori della teoria dei sistemi, di un nuovo
“modo di vedere” il mondo. Ciò ha generato, in effetti, tutta una serie
di teorie applicabili a un’ampia varietà di campi. Per questa ragione
alla prospettiva sistemica vengono associate svariate denominazioni,
inclusa teoria del caos, dell’emergenza, della complessità e
dell’autoorganizzazione.
Anche se talvolta possiamo prendere in considerazione sistemi più
semplici, il nostro interesse cade perlopiù su quelli in cui si
configurano dinamiche di autoorganizzazione e di evoluzione che
alcuni definiscono “sistemi viventi”. I sistemi viventi comprendono
chiaramente gli organismi, ma anche gli ecosistemi, e a volte il termine
viene esteso fino a includere le organizzazioni e le società. La Terra
stessa può essere vista come un sistema vivente – cosa che andremo a
esaminare più nel dettaglio nel capitolo 10, quando parleremo
dell’ipotesi di Gaia – e c’è chi considera anche il cosmo, preso nel suo
complesso, un sistema vivente. «I sistemi viventi sono essenzialmente
dinamici (da non confondersi con quelli statici). Crescono, cambiano e
si adattano. Posseggono una volontà di vivere e una sorprendente e
affascinante capacità di rigenerarsi, solitamente attraverso il ciclo
nascita-morte-nascita» (O’Murchu, 1997).
Alcuni estendono l’idea di sistema vivente a fenomeni che di per
sé non sono normalmente associati alla vita, in particolare ad altri
sistemi aperti che mantengono la loro coerenza dissipando energia.
Senz’altro questi sistemi rivelano molto spesso dinamiche
autoorganizzative. In linea di massima, comunque, ci concentreremo
in primo luogo su quei sistemi più chiaramente vivi nel senso
tradizionale del termine, inclusi gli organismi, gli ecosistemi e le
società umane. Rifacendoci alle opere di Joanna Macy (1991a) e di
Diarmuid O’Murchu (1997) possiamo individuare alcune delle
caratteristiche principali di questi sistemi viventi:
1. In siffatti sistemi l’insieme è spesso più grande della semplice
somma delle parti. Un sistema non può essere ridotto alle sue parti
costituenti senza alterare la sua struttura caratteristica. Diversamente
da un semplice sistema chiuso (come un muro di mattoni), le parti
possono essere comprese solo nel contesto e in funzione del sistema
nel suo insieme. Se un organismo viene dissezionato cessa di essere
un essere vivente, e la sua stessa identità cambia. In un certo senso la
struttura, più che le singole parti, è l’essenza del sistema vivente42.
2. Ogni sistema vivente è non solo un insieme, ma una parte di un
tutto più grande; ogni sistema vivente è un sottosistema di un sistema
più ampio (eccetto, forse, quando consideriamo il cosmo stesso in
quanto sistema vivente). Tali sistemi, pertanto, sono analoghi agli
alberi, dove i rami (sistemi) si dividono in rami più piccoli
(sottosistemi), i quali a loro volta si dividono in rami più piccoli
ancora e in ramoscelli.
3. I sistemi viventi sono omeostatici, si stabilizzano nel corso del
tempo attraverso processi di retroazione negativa in cui l’output è
costantemente regolato per corrispondere all’input. Materiale, energia
e informazione vengono scambiati costantemente con l’ambiente
circostante, e purtuttavia l’ordine e il modello complessivo del sistema
vengono mantenuti. In altre parole, i sistemi viventi esistono sempre
in uno stato molto lontano dall’equilibrio termodinamico; infatti un
tale equilibrio viene raggiunto solo quando il sistema muore ed
effettivamente si scompone.
4. I sistemi viventi si autoorganizzano e si autorigenerano. Se gli
input e gli output non possono essere pareggiati, il sistema cerca
nuovi modelli attraverso cui funzionare. Questo significa che, laddove
può emergere una vera novità, i sistemi viventi sono capaci di
sviluppo e di evoluzione; vale a dire che i sistemi viventi mostrano
dinamiche creative autonome.
5. L’autoorganizzazione è al tempo stesso un processo di
apprendimento, o un “processo cognitivo”. Per esempio, un sistema
immunitario che ha respinto un’infezione “ricorderà” come farlo
nuovamente. Questo processo di apprendimento non richiede un
cervello o un sistema nervoso: è una caratteristica innata di ogni
sistema vivente.
Come appare immediatamente evidente scorrendo questo elenco,
la teoria dei sistemi condivide molti punti con la fisica quantistica,
anche se vi arriva operando sulla natura di un diverso tipo di
fenomeno. Per esempio, in una prospettiva sistemica le dinamiche
relazionali e organizzative contano molto di più degli elementi
materiali. Inoltre, i sistemi viventi mostrano di possedere una
dimensione creativa che si traduce in quello che qualcuno potrebbe
considerare un processo mentale – o perfino una forma di mente –
anche quando non è coinvolto alcun sistema nervoso. Certo è che i
sistemi hanno una prospettiva organica e olistica piuttosto che
meccanicista e riduzionista. Cosa ancor più importante forse è che un
sistema può riplasmare completamente il nostro modo di concepire la
relazione tra causa ed effetto, nonché il nostro potere di trasformare le
strutture complesse. Per capire come ciò possa avvenire, andremo ad
analizzare la teoria dei sistemi in modo più approfondito.
Analisi della teoria dei sistemi
La moderna teoria dei sistemi è sorta più o meno nel secolo scorso
in diversi campi di studio, uno dei quali è la biologia. Nel corso del XIX
e del XX secolo molti biologi cercarono di comprendere gli organismi
viventi in termini strettamente meccanicisti – tentativi che, potremmo
dire, proseguono tutt’oggi con gli approcci più riduzionisti della
genetica. Nondimeno, le interpretazioni riduzioniste hanno cozzato
contro limiti molto forti, in particolare per quel che riguarda lo
sviluppo e la differenziazione cellulare.
In contrapposizione a questa concezione, nel XIX secolo alcuni
scienziati avanzarono teorie basate sul vitalismo, in base alle quali per
riuscire a comprendere la vita era necessario integrare forze o entità
non fisiche alle leggi della chimica e della fisica. I vitalisti sostenevano
anche che il funzionamento degli organismi viventi dovesse essere
colto come un tutto integrato, in cui l’attività di ogni parte diventava
comprensibile solo all’interno del più ampio sistema in cui era situata.
Nel corso degli ultimi ottant’anni è stata elaborata una terza
alternativa per l’interpretazione degli organismi viventi: l’organicismo.
Al pari del vitalismo, l’organicismo ritiene che la vita debba essere
interpretata in maniera olistica, ma a differenza del vitalismo non
postula alcun tipo di forza o entità esterna. Sostiene invece che per
comprendere le dinamiche della vita sono sufficienti i processi fisici e
chimici insieme alla capacità di “rapporti organizzati”. «Poiché questi
rapporti organizzati sono schemi di relazioni insiti nella struttura
fisica dell’organismo, i biologi organicisti sostengono che non c’è
bisogno di alcuna entità separata e immateriale per la comprensione
della vita» (Capra, 1996 [2006, p. 36]). L’idea di rapporti organizzati
viene ormai ampiamente interpretata in termini di dinamiche
autoorganizzative.
Sul piano filosofico l’organicismo attinge dalle idee di pensatori
come Aristotele, Goethe e Kant. Secondo Aristotele, per esempio, ogni
ente, inclusi gli organismi viventi, possiede un proprio sistema di
organizzazione – una specie di anima immanente che egli chiama
entelechia – che unisce forma e sostanza. Il moderno organicismo porta
avanti questa tradizione in maniera nuova, sforzandosi di superare il
vecchio dualismo cartesiano tra mente e materia, un dualismo che è
ancora presente sotto varie forme sia nel meccanicismo che nel
vitalismo. Contrariamente ad Aristotele, tuttavia, l’organicismo e le
teorie dei sistemi che esso ha contribuito a ispirare hanno una natura
dinamica ed evolutiva: attraverso il processo dell’autoorganizzazione
sorgono nuove forme e nuovi modelli. C’è chi estende la concezione
organismica all’intera realtà, affermando che, in effetti, siffatto
ampliamento sia implicito nella prospettiva organismica. Ecco cosa
sostiene, per esempio, Rupert Sheldrake:
Dalla prospettiva organismica, la vita non è qualcosa che emerge dalla materia
inerte e che richiede di essere spiegata attraverso i fattori vitali aggiuntivi del
vitalismo. Tutta la natura è viva. I principi organizzativi degli organismi viventi
differiscono in grado ma non in tipo dai principi organizzativi delle molecole, delle
società, delle galassie. «La biologia è lo studio degli organismi più grandi, mentre la
fisica è lo studio degli organismi più piccoli», come scrive Whitehead. E alla luce
della nuova cosmologia, la fisica è anche lo studio dell’organismo cosmico totale e gli
organismi galattici, stellari e planetari che sono venuti in essere al suo interno.
(1988 [2011, p. 69])
Un secondo filo conduttore che contribuisce allo sviluppo della
moderna teoria dei sistemi è di natura più filosofica. All’inizio del XX
secolo, Aleksandr Bogdanov – scienziato, filosofo, economista, fisico e
rivoluzionario marxista vissuto in Russia tra il 1873 e il 1928 – fece il
primo tentativo di formulare una teoria generale dei sistemi, che
chiamò “tectologia”, ovvero “scienza delle strutture”. La tectologia
prova a delineare in maniera sistematica i principi dell’organizzazione
tanto dei sistemi viventi quanto di quelli non viventi. Dimostrando
come una crisi di organizzazione possa condurre al crollo di una
struttura vecchia e alla nascita di una nuova, Bogdanov anticipa di
mezzo secolo il lavoro di Ilya Prigogine. Egli riconosce in maniera
esplicita, e per la prima volta, che i sistemi viventi sono entità aperte
che operano in uno stato molto lontano dall’equilibrio termodinamico.
Alla fine, Bogdanov formulò un concetto di regolazione simile al
meccanismo di retroazione che sarebbe poi divenuto centrale per il
futuro campo della cibernetica.
Per quanto profetica sotto molti aspetti, l’opera di Bogdanov in
Occidente fu anche largamente dimenticata, mentre in Russia – a
causa delle sue divergenze politiche con Lenin – fu per molti anni
messa ai margini. A partire dagli anni Quaranta fu Ludwig von
Bertalanffy (1901-1972) a formulare la celebre teoria generale dei
sistemi, che culminò nel 1968 nella pubblicazione della Teoria generale
dei sistemi.
L’intento di Bertalanffy era interpretare l’evoluzione della vita alla
luce dei principi della termodinamica. La seconda legge della
termodinamica afferma che ogni sistema chiuso e isolato tende a
passare da uno stato di ordine a uno stato di crescente disordine. Ciò
introduceva nella scienza il concetto di “freccia del tempo”, poiché i
processi meccanici dissipano energia sempre sotto forma di calore, e
quest’energia non può mai essere completamente recuperata. Dunque,
l’intero universo avanza in ultima analisi verso una “morte termica” a
cui non c’è modo di sfuggire. Di contro, la teoria dell’evoluzione
dimostra che gli organismi viventi sono evoluti in stati di essere
vieppiù complessi e ordinati. Ma com’è stato possibile?
Bertalanffy postulò che gli organismi viventi mal si adattassero alla
classica definizione di sistema chiuso sancita dal secondo principio
della termodinamica; piuttosto, si tratta di sistemi aperti che
funzionano in condizioni lontane dall’equilibrio e che mantengono
uno “stato stazionario” attraverso un flusso continuo di energia e
materia. Individuò poi nel metabolismo il processo che conserva lo
stato stazionario, che egli definì “equilibrio fluente”. Nei sistemi aperti
l’entropia (o disordine) può effettivamente diminuire, ma a costo di un
aumento dell’entropia dell’ambiente circostante. Pertanto, fermo
restando il secondo principio della termodinamica, gli organismi
viventi riescono a passare a un crescente stato di ordine assumendo
energia e cibo dall’esterno ed espellendo al contempo rifiuti e calore
(aumentando l’entropia) nell’ambiente circostante.

Il terzo principale aspetto coinvolto nella genesi della moderna


teoria dei sistemi proviene dal campo della cibernetica, una disciplina
che ha cominciato a svilupparsi nel corso degli anni Quaranta. La
cibernetica ha a che fare con sistemi di input-output e sta alla radice
della moderna tecnologia computeristica. La cibernetica tenta di
creare modelli di organismi viventi nel senso di complesse “macchine
che elaborano informazioni”. Come sottolinea Fritjof Capra «questa
scuola di pensiero rappresenta ancora una teoria dei sistemi
meccanicistica», ma «è un meccanismo molto sofisticato» (Capra-
Steindl-Rast, 1991 [1993, p. 83]).
John von Neumann, un genio matematico (di cui abbiamo parlato
a proposito della sua riflessione sulla fisica quantistica, la coscienza e
la costruzione della nostra percezione della realtà), fu uno dei pionieri
in questo campo. Von Neumann è considerato l’inventore del
computer – e in effetti il computer è un’ottima metafora per
comprendere l’approccio alla teoria della cibernetica.
Quando negli anni Cinquanta gli scienziati iniziarono a costruire
modelli di sistemi binari basati sulla cibernetica, rimasero sorpresi
nello scoprire che l’attività casuale, in un arco di tempo relativamente
breve, tendeva a risolversi in modelli discernibili. La natura non-
lineare dei sistemi costituiti da anelli di retroazione sfociava in una
sorta di ordine che emergeva dal caos apparente. Questa nascita
spontanea di un ordine divenne nota alla fine come fenomeno
dell’”autoorganizzazione”.
Norbert Wiener, uno dei primi pensatori della cibernetica, utilizzò
un approccio un po’ differente, concentrandosi di più sulle dinamiche
dei sistemi di autoorganizzazione, come ad esempio gli organismi
viventi. Laddove von Neumann tentava di illustrare attraverso un
modello matematico l’azione del cervello in termini di logica, Wiener
era più concentrato sulla comprensione dei sistemi viventi naturali.
«Mentre von Neumann cercava il controllo, un programma», afferma
Capra, «Wiener apprezzava la ricchezza dei modelli naturali e cercava
una sintesi concettuale completa» (Capra, 1996). Il pensiero di Wiener
ispirò il lavoro di Gregory Bateson (1904-1980), il quale si avvicinò alla
teoria dei sistemi da una prospettiva umanistica.
Inizialmente, la scuola della teoria dei sistemi di Wiener basata
sull’autoorganizzazione fu perlopiù trascurata a favore della
cibernetica che si rifaceva a Neumann, che aveva un’ispirazione molto
più meccanicistica. Durante gli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, si
ebbe una rinascita dell’approccio organicista, arricchito dalla
prospettiva di pensatori come Ludwig von Bertalanffy. Tra i
personaggi più autorevoli coinvolti in questo nuovo approccio
integrato figuravano Ilya Prigogine (1917-2003), James Lovelock, Lynn
Margulis, Humberto Maturana e Francisco Varela (1946-2001).
Il concetto di autoorganizzazione che emerge da questo lavoro ha
una portata molto più ampia di quello che era emerso dalle prime
opere sulla cibernetica. Anziché limitarsi a guardare l’ordine
proveniente dal caos nelle reti di anelli di retroazione, le nuove teorie
prevedono «la creazione di strutture e di modi di comportamento
completamente nuovi nei processi di sviluppo, apprendimento e
evoluzione» (Capra, 1996 [2006, p. 100]). Inoltre, le nuove teorie si
focalizzano sui sistemi aperti che operano in condizioni lontane
dall’equilibrio, in cui materia, energia e informazioni vengono
scambiate costantemente. Infine, tutte le teorie si basano su sistemi che
prevedono anelli di retroazione per regolare l’attività del sistema
stesso, che a loro volta si traducono in una complessa
interconnessione e interazione tra tutte le parti del sistema.

Secondo Ludwig von Bertalanffy tutti i sistemi viventi


condividono due proprietà fondamentali. La prima è la
“conservazione biologica”, attraverso la quale gli organismi
salvaguardano se stessi per mezzo di processi di omeostasi o
attraverso la stabilità legata al cambiamento continuo. Questa può
essere considerata una proprietà autoaffermativa o di
soggettività/soggettivazione, proprietà che Humberto Maturana e
Francisco Varela chiamano “autopoietica”, ossia letteralmente della
“creazione di sé”.
La seconda proprietà si trova in una specie di tensione dialettica
con la prima. Von Bertalanffy la considerò una proprietà di
organizzazione gerarchica, l’idea cioè che ogni sistema sia un
sottosistema di un sistema più grande e a sua volta sia composto di
sottosistemi ancora più piccoli. La si può immaginare come una
proprietà di comunione, relazionalità e anche di contestualità. In un
certo senso «parti e totalità in senso assoluto non esistono affatto»
(Capra, 1982 [1990, p. 39]). L’idea della relazionalità è di fatto
intrecciata nel significato stesso della parola “sistema”, che proviene
dal greco synhistanai e significa ‘mettere insieme’. «Capire le cose in
maniera sistematica significa letteralmente porle in un contesto,
stabilire la natura delle loro relazioni» (Capra, 1996, [2006, p. 38]).
Riferendosi all’esistenza di queste due proprietà apparentemente
contrapposte, alcuni parlano della natura “bifronte” del sistema,
alludendo a Giano, l’antica divinità romana con due facce. Possiamo
pensare questo aspetto in termini più taoisti rifacendoci allo yin e allo
yang. Le due tendenze – autoaffermazione (yang) e comunione (yin) –
devono essere in equilibrio e nella giusta tensione perché un sistema
vivente possa prosperare.

Come osservato in precedenza, i sistemi conservano la loro identità


– la loro soggettività – attraverso il processo di omeostasi, che può
essere visto sia come una specie di stasi in movimento che come una
forma di stabilità nel bel mezzo della corrente e del cambiamento.
Contrariamente alla vecchia concezione materialista della fisica
classica, un sistema è definito non tanto dalla sostanza bensì dal
modello di organizzazione. L’immagine di un vortice può chiarire
questo punto: l’acqua che scorre attraverso un vortice cambia
continuamente, ma il vortice in sé – il suo modello di organizzazione –
resta sostanzialmente il medesimo. Detto con le parole di Norbert
Wiener: «Non siamo che vortici nell’eterna corrente di un fiume»
(1950).
Strettamente legato all’idea di omeostasi è il concetto di autopoiesi,
ovvero «la caratteristica dei sistemi viventi di rinnovarsi
incessantemente e di regolare questo processo in modo che l’integrità
della propria struttura resti immutata» (Jantsch, 1980). In un sistema
vivente ogni parte del sistema reticolare opera per sostenere,
trasformare e sostituire le altre parti di modo che il sistema possa
continuamente rigenerarsi. Negli organismi umani, per esempio, il
pancreas sostituisce quasi tutte le sue cellule nell’arco di un giorno e
quasi tutte le proteine nel cervello (il 98 per cento) completano un
ciclo nel giro di un mese. Eppure, nonostante questi cambiamenti, i
modelli generali di organizzazione restano stabili (Capra, 1996).
I sistemi viventi conservano la propria struttura incamerando
energia: le piante che assorbono la luce del sole, per esempio, e gli
animali che si nutrono di altri organismi. Ciò li porta in uno stato
lontano dall’equilibrio. Ilya Prigogine, alludendo ai sistemi aperti che
conservano l’ordine utilizzando energia, parla di “strutture
dissipative”. Sul piano della termodinamica, un sistema vivente
diminuisce la propria entropia interna (creando ordine) aumentando
l’entropia nell’ambiente che lo circonda (aumentando il disordine):
«Nel mondo vivente, ordine e disordine sono sempre creati
simultaneamente» (Capra, 1996 [2006]).
Un processo fondamentale coinvolto nel mantenimento della
struttura è l’uso degli anelli di retroazione negativi. Per fare un
esempio: quando una persona si accalda troppo, entra in gioco un
processo che provoca l’emissione da parte delle ghiandole sudoripare
di acqua, la quale, attraverso l’evaporazione, raffredda il corpo.
Parimenti, quando aumenta il livello di zuccheri nel sangue, il
pancreas produce più insulina per consentire al corpo di sintetizzare
lo zucchero e convertirlo in energia. Attraverso questo genere di
processi i sistemi viventi possono conservare il loro modello di
organizzazione generale, anche se scambiano costantemente energia,
materia e informazioni con l’ambiente circostante.

Sebbene il processo di autopoiesi consenta ai sistemi viventi di


conservare la propria identità nel bel mezzo di un flusso costante, è
anche vero che una tale identità è sempre condizionata dalla relazione
del sistema tanto ai suoi sottosistemi quanto al sistema più grande di
cui, a sua volta, è parte. In altre parole, i sistemi non hanno proprietà
intrinseche ma caratteristiche che emergono dal proprio sistema di
relazioni. Si tratta qui della natura contestuale o relazionale dei
sistemi. Un sistema non può essere dissezionato o ridotto alle sue
componenti senza che la sua integrità – la sua vera identità – venga
distrutta: «Anche se siamo in grado di discernere singole parti in
qualsiasi sistema, la natura del tutto è sempre diversa dalla mera
somma delle sue parti» (Capra, 1982 [1990, p. 222]).
Nei sistemi le proprietà emergono in un modo che talvolta può
sembrare misterioso. Tale fenomeno può essere osservato anche a
livello degli atomi, in cui le stesse particelle elementari collaborano
alla creazione di quasi un centinaio di elementi naturali differenti. I
sottosistemi coinvolti – ossia i protoni, i neutroni e gli elettroni – sono
essenzialmente gli stessi (sebbene variino di numero), ma in virtù di
differenti modelli di organizzazione producono elementi con
proprietà totalmente diverse. Allo stesso modo, idrogeno e ossigeno
uniti insieme formano molecole d’acqua che posseggono proprietà
molto differenti da quelle dei loro elementi costitutivi. Organismi
biologicamente complessi – differenti specie di mammiferi, per
esempio – possono avere sottosistemi (organi) simili, ma il modo in
cui sono configurati indica che ogni specie può, in realtà, essere molto
diversa dalle altre.
Vale la pena sottolineare che, nel caso di organismi viventi, è in
gioco un alto livello di simbiosi. Lynn Margulis ha mostrato che le
cellule eucariotiche (quelle dotate di nucleo) in realtà posseggono più
di una sequenza di DNA e probabilmente si sono originariamente
formate attraverso un processo che Margulis chiama di
“simbiogenesi”, in cui due o più microbi distinti si sono uniti per
formare una cellula nuova e più complessa (Capra, 1996 [2006]). Su
scala più vasta, quasi il 50 per cento del peso del corpo umano è
prodotto da organismi “non umani”, come gli enterobatteri e i lieviti
che ci consentono di metabolizzare il cibo e di fabbricare le vitamine,
senza i quali sarebbe impossibile per noi sopravvivere. «Ogni cellula e
microorganismo presente nel nostro corpo è un’entità individuale che
si autogoverna, eppure insieme essi sono in grado di funzionare come
un essere singolo, con capacità ben superiori a quelle delle sue parti»
(Korten, 1999). La nostra identità, dunque, è una questione che non
riguarda solamente la sostanza – almeno non per ciò che concerne la
nostra composizione genetica – quanto piuttosto il modello
complessivo di relazioni che costituisce il nostro sistema vivente.
Possiamo comprendere la natura relazionale dei sistemi viventi a
partire da ciò che Arthur Koestler ha chiamato “oloni”. Gli oloni sono
sottosistemi che al contempo rappresentano una totalità e una parte.
Ogni olone ha sia la tendenza ad associarsi che ad affermare se stesso.
Questo modello di organizzazione, che possiamo indicare con il nome
di “olarchia”, somiglia in un certo modo al concetto di gerarchia, e
sovente le due nozioni vengono confuse (non a caso Ludwig von
Bertalanffy assegna la proprietà della relazionalità in termini
gerarchici). L’olarchia, comunque, si basa non sulla posizione o sulla
capacità di dominare, bensì su livelli crescenti di inclusione e di
profondità. Il sistema più grande include e trascende i sistemi più
piccoli che lo compongono. I sottosistemi, a loro volta, non sono
dominati dal sistema più grande, ma sono da esso sostenuti e, in
cambio, lavorano per esso.
In una concezione gerarchica i sistemi erano immaginati come
strutture rigide e piramidali. Viceversa, la concezione olarchica dei
sistemi è come l’immagine dei cerchi all’interno di cerchi più grandi, i
quali a loro volta sono compresi in cerchi ancora più estesi. In
alternativa, l’olarchia può essere immaginata come i rami di un albero
che si dividono in sottosistemi sempre più piccoli. L’intero sistema (il
tronco) deve il suo stato di salute alle ramificazioni – e la salute
dell’albero a sua volta dipende dalla salute dell’ecosistema in cui è
inserito. Quantunque vi sia una certa stratificazione d’ordine, tuttavia
essa non è mai fondata sull’esercizio di un controllo che viene
dall’alto, o del potere-su. Al contrario, nutrimento, informazione ed
energia scorrono in entrambe le direzioni, conservando un’interazione
dinamica tra sistemi e sottosistemi. In sostanza, nei sistemi il potere
testimonia della relazionalità e dell’interdipendenza di un’influenza
reciproca – o di un potere-con – piuttosto che del potere-su insito in
molte gerarchie umane.
Questa differenza tra prospettive gerarchiche e sistemiche diventa
ancora più evidente se esaminiamo un’altra caratteristica dei sistemi
viventi: la differenziazione. Joanna Macy mostra che, dal punto di
vista dei sistemi,
ordine e differenziazione vanno di pari passo. I sottosistemi si possono integrare
mentre si differenziano (come le cellule nervose del cervello). Ciò è in netto contrasto
con la concezione meccanicista e patriarcale che presuppone un ordine uniforme, per
meglio subordinarsi a una volontà superiore e separata. In questo caso, invece,
l’ordine si manifesta all’interno dei sistemi stessi, laddove le parti si diversificano
mentre interagiscono e rispondono all’ambiente.
(1983)
Pertanto nei sistemi aperti la salute e l’integrità sono sostenuti e
potenziati dalla differenziazione, in netto contrasto con l’ideologia
della monocoltura. Un ecosistema vario, per esempio, è
intrinsecamente più stabile di uno semplice. Dinamiche di dominio e
di omogeneizzazione, viceversa, indeboliscono il sistema e lo rendono
più rigido e più esposto alla distruzione.
Infatti, per quanto la visione della realtà contenuta nella teoria dei
sistemi sia in sé certamente olistica, forse sarebbe più giusto definirla
ecologica. «Essa non solo», dice Capra, «coglie il suo oggetto come un
intero, ma riconosce anche come questo intero sia inserito in entità
globali più ampie. [...] Al livello più profondo, la consapevolezza
ecologica è una consapevolezza della fondamentale interrelazione e
interdipendenza di tutti i fenomeni, e del loro inserimento nel cosmo»
(Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993, pp. 79-80]).
David Suzuki e Amanda McConnell fanno notare che questa
coscienza ecologica ci costringe a trasformare il modo stesso di
percepire e di comprendere il mondo che ci circonda: «Il nostro
linguaggio non è all’altezza delle nostre percezioni, a causa del modo
in cui ci è stato insegnato a vedere il mondo. Apparteniamo al mondo
che ci circonda – e ne siamo composti –, e vi corrispondiamo in modi
che vanno al di là della nostra comprensione» (1997). Gli autori
propongono di provare a considerare un albero in un modo nuovo, e
cioè in rapporto a tutto ciò che lo circonda. L’idea stessa di confine
comincia a sgretolarsi. Come dice Neil Evernden in The Natural Alien:
Un albero è più di un semplice ritmo di scambio o magari un centro di forze
organizzative. La traspirazione causa un flusso d’acqua ascendente e scioglie le
sostanze, agevolando l’afflusso dal terreno. Se siamo consapevoli di ciò piuttosto che
del sembiante albero, allora possiamo considerare l’albero come il centro di un campo
di forza verso cui l’acqua viene aspirata. [...] L’oggetto a cui noi attribuiamo
significato è la configurazione delle forze necessarie a essere un albero [...]
un’attenzione rigorosa ai confini può oscurare l’atto stesso dell’essere.
(citato in Suzuki-McConnell, 1997)
L’emergere della creatività e della mente
Questo spontaneo emergere di un nuovo ordine in prossimità
di un punto critico di instabilità è uno dei concetti più importanti
nell’ambito della nuova visione della vita. Spesso ci si riferisce
ad esso semplicemente come a una “emergenza”, anche
se – in un linguaggio più tecnico – viene indicato come
“auto-organizzazione”. Esso è stato riconosciuto come l’origine
dinamica dello sviluppo, dell’apprendimento e dell’evoluzione.
In altri termini, la creatività – la generazione di nuove forme
– è una proprietà chiave di tutti i sistemi viventi. E dato che questo
emergere di nuove forme costituisce una parte integrante
della dinamica dei sistemi aperti, possiamo concludere che tali
sistemi si sviluppano e si evolvono. Una conclusione, quest’ultima,
di particolare importanza, che ci dice che la vita si sviluppa
ininterrottamente in realtà sempre nuove.
(Capra, 2002 [2012, p. 41])
L’emergere di realtà nuove e della creatività è forse l’intuizione più
suggestiva e sorprendente derivante dallo studio dei sistemi aperti che
operano lontano dall’equilibrio. Il cosmo non è destinato a ripetersi
eternamente, costretto in un solco tracciato dalle leggi universali.
L’universo, invece, evolve e cambia. Genera incessantemente nuove
forme. Il cosmo non è più destinato a morire, condannato a una lenta e
incurabile morte termica, ma appare piuttosto creativo e prolifico. In
effetti, la stessa mente sembra essere una qualità emergente
dell’universo.
Da un punto di vista matematico, questa creatività è strettamente
collegata alla natura non-lineare dei sistemi che operano lontano
dall’equilibrio. In tali sistemi «ciò che accade in una regione dipende
sensibilmente da ciò che accade in un’altra regione e, a sua volta,
esercita una retroazione su essa; [...] parti diverse si comportano in
modo da cooperare: [...] la totalità è coinvolta in una specie di danza»
(Peat, 1991).
Come abbiamo visto, gli anelli di retroazione negativi aiutano a
mantenere la stabilità regolando il sistema e mantenendo le funzioni
all’interno di uno spettro limitato. Sul piano matematico, il tipo di
stabilità-in-flusso sostenuta dagli anelli di retroazione negativa può
essere compresa facendo ricorso al concetto di “attrattori”. Un
attrattore può essere rappresentato come una regione nello spazio (un
insieme di punti) verso cui un sistema “è attratto” o tende a spostarsi
nel tempo.
Più precisamente, se si traccia una specie di grafico della posizione
e della velocità di un sistema durante un intervallo di tempo – come,
ad esempio, il movimento di un pendolo – emergerà un’immagine del
suo “spazio delle fasi” in cui si palesa un modello. Possiamo
immaginare tale modello come un “bacino di attrazione” che può
essere tanto un singolo punto (nel caso di un sistema semplice a
riposo) quanto una curva o un collettore. Spesso nei sistemi non-
lineari vi sono molti di questi “bacini”, ognuno con il proprio
attrattore.
Talvolta un attrattore può assumere la forma di un frattale, una
forma geometrica complessa in cui le parti assomigliano a versioni in
piccolo dell’insieme. Questo tipo di “strani attrattori” è associato a ciò
che in matematica può essere definito un’attività “caotica”. Eppure
questo caos non è un mero disordine, in quanto l’attività a esso
associata non è né casuale né erratica. Piuttosto, si tratta di un ordine
estremamente complesso, quantunque non deterministico. Il
comportamento di un sistema caotico non può essere previsto con
precisione, tuttavia si mantiene effettivamente entro un certo limite,
ovvero all’interno del suo bacino di attrazione, caratterizzato dai suoi
attrattori.
Metaforicamente possiamo immaginare gli attrattori come
qualcosa che “attrae” o modella il sistema, eppure in realtà non vi
sono impiegate delle forze. L’attrattore è interno al sistema stesso e
non è qualcosa che lo orienta dall’esterno: si tratta di una caratteristica
del sistema. In un certo senso, possiamo immaginarlo come un
modello del sistema, sebbene questo modello possa essere molto
complesso e, per quanto ordinato, non sempre prevedibile o
deterministico.
Accanto alle dinamiche che conservano la stabilità, tuttavia,
possono entrarne in gioco altre – caratterizzate da anelli di retroazione
positiva –, in particolare quando un sistema è sottoposto a stress.
Invece di attenuare le fluttuazioni, le retroazioni positive in realtà le
amplificano, generando spesso cambiamenti rapidi e sorprendenti.
Per esempio, gli anelli di retroazione positiva sono immediatamente
evidenti nei fenomeni di cambiamento climatico. All’inizio di un’era
glaciale l’aumento della superficie di ghiaccio e di neve fa sì che la
Terra rifletta una maggiore quantità di radiazioni verso lo spazio,
raffreddando il pianeta e portando alla formazione di ulteriore
ghiaccio. Viceversa, quando il pianeta comincia a riscaldarsi, gli
incendi boschivi possono diventare più frequenti, e poiché il
permafrost si scioglie vengono rilasciate maggiori quantità di diossido
di carbonio nell’atmosfera, accelerando l’effetto serra e il
riscaldamento globale.
Nel corso di iterazioni successive, la retroazione positiva può
rapidamente moltiplicare gli effetti dei cambiamenti relativamente
piccoli. La “retroazione fuori controllo” è stata sempre considerata un
evento distruttivo nella teoria cibernetica, ma Prigogine scoprì che
non sempre questo vale anche per i sistemi aperti e dissipativi. È vero
che, quando il flusso di materia e di energia raggiunge un punto
critico – in matematica si dice “punto di biforcazione” –, il sistema
diventa instabile. A quel punto gli attrattori del sistema possono, in
realtà, scomparire del tutto, e il sistema collassare. Ma esiste anche
un’altra possibilità: gli attrattori possono trasformarsi, consentendo al
sistema di avanzare verso un ordine del tutto nuovo, un ordine che
spesso è molto più complesso del precedente.
Dal punto di vista dei sistemi viventi ciò significa che forme di
stress (ad esempio nuove condizioni presenti nell’ambiente
circostante, o nel sistema più ampio che include il sottosistema)
possono portare al collasso come morte del sistema, ma possono
anche sfociare nell’evoluzione in forme completamente nuove. Questo
avanzamento verso nuove forme non è deterministico – il sistema in
un certo senso “sceglie” tra più percorsi possibili di trasformazione.
La scelta che verrà compiuta, tuttavia, non è prevedibile, sebbene
dipenda sia dalla storia del sistema che dal modo in cui lo stress
proveniente dall’esterno guida la trasformazione.
La natura non lineare dei sistemi naturali, evidenziata sia dalla
loro stabilità “caotica” che dal loro “saltare” a nuovi stati una volta
giunti al punto di biforcazione, significa che abbiamo a che fare con
sistemi straordinariamente sensibili ai minimi cambiamenti. Questa
“vulnerabilità”, tuttavia, non è una debolezza quanto piuttosto un
punto di forza, poiché consente un rapido adattamento alle nuove
condizioni. D’altra parte, ciò vuol anche dire che quando abbiamo a
che fare con sistemi complessi non possiamo mai prevedere il futuro.
Un esempio è dato dal cosiddetto “effetto farfalla”, enunciato per
la prima volta dal meteorologo Edward Lorenz (1917-2008) negli anni
Settanta. Nel tracciare un semplice modello matematico dei sistemi
meteorologici basati su tre equazioni concatenate e non-lineari, Lorenz
scoprì con sorpresa che le soluzioni a queste equazioni erano
straordinariamente sensibili al punto di partenza da lui posto
all’inizio. Infatti, partendo da due serie di condizioni iniziali solo
lievemente differenti, si otteneva nel corso del tempo una genesi
completamente diversa del sistema. Previsioni a lungo raggio, perfino
in un sistema così semplice, diventavano impossibili. Se si applica
questo esempio al clima, diventa teoricamente possibile che l’azione
delle ali di una farfalla possa dopo un mese “provocare” una tempesta
dall’altra parte del mondo.
Se da un lato i sistemi complessi segnano la fine del determinismo,
dall’altro aprono la via a un impegno creativo. Il fatto che siffatti
sistemi siano straordinariamente sensibili significa che perfino
l’azione di un singolo individuo può avere un effetto, sebbene
quest’effetto non possa mai essere predetto. Eppure, una simile
interpretazione può essere estremamente stimolante e ricca di
speranza. Per di più, l’argomento secondo cui «niente può accadere
che non sia già accaduto prima» perde di senso. Come scrive Capra:
«Vicino all’equilibrio troviamo fenomeni ripetitivi e leggi universali.
Come ci allontaniamo dall’equilibrio, passiamo dall’universale
all’unico, andiamo verso la ricchezza e la varietà» (1996). Il mondo
non è condannato a ripetere il passato in eterno, l’effettiva novità,
l’autentica trasformazione, sono sempre una possibilità, anche se il
processo attraverso cui si verificano conterrà sempre un elemento di
mistero e di sorpresa.
La capacità dei sistemi dissipativi di creare spontaneamente nuove
strutture li fa apparire dotati, in un certo senso, di una volontà
autonoma. Sicuramente l’autoorganizzazione dei sistemi sembra
possedere un’intrinseca creatività, che normalmente saremmo spinti
ad associare a fenomeni tipici della mente. Gregory Bateson, per
esempio, riferendosi a questo fenomeno parlò di un “processo
mentale” all’opera. Capra osserva che, per Bateson, «la mente non è
una cosa, è un processo. E questo processo mentale è un processo
dell’auto-organizzazione, il processo stesso, in altre parole, della vita.
Quindi a tutti i livelli il processo della vita è un processo mentale»
(Capra-Steindl-Rast, 1991 [1993, p. 113]). Parimenti, Humberto
Maturana e Francisco Varela (Capra, 2002 [2012]) immaginano il
processo della vita come un processo di conoscenza, o “processo
cognitivo”. Tutte le interazioni dei sistemi viventi con i loro ambienti
sono in un certo senso atti cognitivi, quindi la mente, in quanto
processo mentale, è qualcosa di immanente alla vita, e dunque a ogni
sistema vivente, a tutti i livelli.
Per comprendere quest’idea in maniera più chiara, dobbiamo
prendere in considerazione il processo di autoorganizzazione nei
sistemi viventi. Un organismo risponde al proprio ambiente attraverso
trasformazioni strutturali, e un organismo al tempo stesso influenza e
modifica il proprio ambiente. Come abbiamo visto, nel fenomeno
della biforcazione la scelta della nuova struttura non è predeterminata
ma creativa. Sottolinea Capra:
I sistemi viventi, dunque, rispondono autonomamente agli stimoli dell’ambiente
mettendo in atto una serie di cambiamenti strutturali, ossia modificando il proprio
modello di connettività. Secondo Maturana e Varela, non possiamo mai dirigere un
sistema vivente: possiamo soltanto disturbarlo fornendogli degli stimoli. Inoltre, il
sistema vivente non solo stabilisce da sé i propri cambiamenti strutturali; ma
stabilisce anche quali stimoli provenienti dall’ambiente devono attivare tali cambiamenti. In
altri termini, un sistema vivente conserva la libertà di decidere a che cosa porre
attenzione e che cosa sarà in grado di disturbarlo. Si tratta di un punto chiave della
teoria di Santiago della cognizione. I cambiamenti strutturali all’interno del sistema
sono atti cognitivi. Specificando quali stimoli ambientali attiveranno i cambiamenti, il
sistema viene a delimitare i confini del proprio ambito cognitivo: esso fa «emergere
un mondo», come sottolineano Maturana e Varela.
(2002)
Analogamente, nella concezione di Bateson la mente implica
processi come la memoria, l’apprendimento e la capacità decisionale.
Questi processi, tuttavia, cominciano sempre molto prima che un
cervello o un sistema siano presenti, come abbiamo potuto osservare
poc’anzi nell’esempio del sistema immunitario che impara a
rispondere a un’infezione, ne conserva memoria e decide poi quando
occorre fornire una nuova risposta. Tutta la vita, fin dalla sua forma
più semplice, è associata a questo genere di processi. Per Maturana la
cognizione non è la rappresentazione di una qualche forma di realtà
esterna, ma una specie di modo di “far emergere il mondo” attraverso
l’atto di specificare una determinata realtà, compiendo una scelta.
Questo “far emergere il mondo” (o far essere una specifica realtà) è
parte integrante del processo stesso di autoorganizzazione, e dunque
tutti i sistemi viventi possono essere considerati sistemi cognitivi
dotati di un processo mentale attivo.
L’idea di “far emergere il mondo”, tuttavia, non dev’essere intesa
come se il mondo “materiale” non esistesse, sebbene la nostra analisi
sulla realtà quantistica dovrebbe averci chiarito che quanto
percepiamo in termini di realtà materiale somiglia molto di più a una
complessa danza di energia o di forme d’onda. L’intuizione di
Maturana e Varela è in sostanza analoga. Per esempio, il modo in cui
una mucca percepisce un filo d’erba sarà molto diverso dal modo in
cui lo percepisce un lombrico. Anche gli individui della stessa specie
percepiranno le cose in modo differente, sebbene non nella stessa
misura. Come sottolinea Capra, quando vediamo un oggetto non
evochiamo una realtà dal vuoto, «ma i modi in cui delineiamo oggetti
e identifichiamo schemi attraverso l’infinità di stimoli sensoriali che
riceviamo dipende dalla nostra costituzione fisica. Come direbbero
Maturana e Varela, le maniere in cui ci possiamo accoppiare
strutturalmente al nostro ambiente, e quindi il mondo che generiamo,
dipendono dalla nostra struttura» (1996 [2006, p. 271]). Analogamente,
ma da una prospettiva buddhista43, afferma Joanna Macy:
Noi creiamo il nostro mondo, ma non lo facciamo in maniera unilaterale, poiché la
coscienza è condizionata da ciò di cui si nutre, e soggetto e oggetto sono indipendenti
[...] L’esperienza sensoriale ci modella e così noi la modelliamo a nostra volta. Vi è un
condizionamento reciproco. Il mondo non si dà mai indipendentemente
dall’osservatore, né l’osservatore indipendentemente dalla percezione, poiché la
cognizione è transitiva.
(1991a)
Come per la teoria quantistica, dunque, anche la concezione
sistemica della mente implica l’impossibilità di un autentico
osservatore “oggettivo”, indipendente dalla realtà che osserva. Da una
prospettiva sistemica, gli osservatori sono sempre parte del sistema
che osservano, e la loro interazione con il sistema influenza
inevitabilmente le loro percezioni. «Ciò che osserviamo non è la
natura in sé, ma la natura offerta al nostro metodo d’indagine»; e,
potremmo aggiungere, la natura vista dalla prospettiva dell’unicità
del posto che occupiamo in un sistema più grande e di cui,
nondimeno, siamo parte.

Se la mente – o al limite il processo mentale – appartiene a tutti i


sistemi viventi, i pensatori sistemici come interpretano la coscienza?
Di certo in una visione del mondo sistemica si sosterrebbe che la
«natura dinamica è irriducibile dell’attività psichica», e non può essere
equiparata o ridotta a «fenomeni osservati dall’esterno» (Macy,
1991a). Ma allora come nasce esattamente la coscienza?
Humberto Maturana ritiene che la coscienza non possa essere
compresa in termini chimici o fisici, ma solo in termini di linguaggio e
contesto sociale. Eppure, se da un lato il suo rifiuto di una visione più
meccanicista della coscienza sembra encomiabile e in linea con la
prospettiva sistemica, dall’altro appare altresì troppo limitato. Come
può, per esempio, una simile teoria spiegare l’esperienza della
coscienza a quegli individui che pensano per immagini, o per mezzo
di altre impressioni sensoriali, piuttosto che con il linguaggio? E come
spiegherebbe quello che nelle esperienze mistiche molti esperiscono
come “stati alterati della coscienza”, in cui parole e linguaggio
vengono completamente trascesi? Alla fine, con l’enfasi che pone sul
linguaggio, questa concezione della coscienza appare decisamente
antropocentrica: possono anche le altre creature, soprattutto i
vertebrati più complessi, sperimentare un qualche tipo di coscienza,
sebbene in forma diversa da quella umana?
In un tale contesto, l’interpretazione della coscienza di Francisco
Varela sembra più utile. Per Varela tutti i vertebrati superiori
esperiscono probabilmente forme di coscienza che implicano uno
“spazio mentale unitario”, anche se potrebbe non ancora possedere
una natura autoriflessiva. Mentre «gli stati mentali sono transitori:
sorgono e scompaiono di continuo», sensazioni e pensieri sono
formati da «un singolo, coerente stato mentale composto di percezioni
sensoriali, ricordi e emozioni». (Capra, 1996 [2006, p. 321]). Varela
ritiene che questo stato coerente derivi dall’oscillazione ritmica e
unitaria della rete neurale, sia nella corteccia cerebrale che in altre
parti del sistema nervoso. Ciò sembra supportato da prove
sperimentali che dimostrano la sincronizzazione di rapide oscillazioni
nella rete neurale che montano e calano rapidamente. Eppure
quest’esperienza non è «identificata nei termini di strutture neuronali
specifiche. È invece la manifestazione di un processo cognitivo
particolare: una sincronizzazione transitoria di circuiti neuronali
diversi che oscillano ritmicamente» (Capra, 1996 [2006, p. 322]).
Se da un lato lo stesso Capra sembra respingere qualsiasi
spiegazione quantistica della coscienza, dall’altro la sua analisi della
teoria di Varela somiglia molto, in un certo modo, a quella delle reti
neuronali che generano una specie di condensato di Bose-Einstein
(come quelli coinvolti nei laser) che abbiamo già visto nel paragrafo
“L’immanenza della mente” (nel capitolo 7). Questa coincidenza
diventa sempre più significativa allorché pensiamo i condensati di
Bose-Einstein come sistemi di autoorganizzazione che esistono
lontano dall’equilibrio. È impossibile allo stato attuale confermare se
un condensato di Bose-Einstein sia o meno effettivamente coinvolto, o
se non sia in atto un altro fenomeno analogo estremamente correlato
che implichi dei sistemi dinamici. In ogni caso, però, le due teorie
sembrano avere indubbiamente molti punti in comune.
Complessità e trasformazione
Spesso è a causa della nostra concezione della causalità (ossia dalla
relazione che intercorre tra causa ed effetto) che abbiamo difficoltà a
comprendere l’interazione tra sistemi viventi da un lato e mente e
coscienza dall’altro. La cosmologia meccanicista ci ha insegnato a
considerare la causalità in termini lineari: così, o il mondo della realtà
materiale deve in qualche maniera generare la mente (come
postulerebbe una scienza puramente materialista) o la mente deve in
qualche maniera far apparire la realtà (come potrebbe postulare un
certo tipo di idealismo). Ma cosa accade se entra in gioco qualcosa di
più creativo e misterioso? Cosa accade se i sistemi in qualche modo
condizionano il processo della mente e il processo della mente a sua
volta condiziona i sistemi? Cosa accade se la causalità diventa in un
certo senso reciproca?
La natura della causalità è una questione centrale per la prassi
trasformativa. La causalità riguarda «il modo in cui le cose accadono,
come avviene il cambiamento» (Macy, 1991a). Per quanto la teoria
quantistica metta in discussione il determinismo della causalità lineare
proprio della fisica classica, è tuttavia incapace di formulare
un’autentica e soddisfacente alternativa. Joanna Macy osserva che il
«gioco cieco e senza scopo degli atomi» e delle particelle subatomiche,
governato dalle leggi del caso, se non altro è “deprimente” al pari del
determinismo dell’universo-orologio (1991a).
Sebbene dunque le connessioni non-locali mostrate dal teorema di
Bell indichino la possibilità di una concezione della causalità più
misteriosa e olistica (in cui ogni cosa può in un certo senso essere
causa di qualunque altra), questa concezione offre ancora poche idee
concrete su come il cambiamento possa davvero aver luogo. La teoria
dei sistemi, di contro, fornisce una visione più chiara del rapporto tra
causa ed effetto, con interessanti implicazioni per la prassi liberatoria.
In sostanza, rappresenta una sorta di “via di mezzo” tra il
determinismo e il caso, laddove il caso sia considerato sì misterioso,
ma non aleatorio quanto piuttosto creativo.
Diversamente dai sistemi lineari, dove gli input determinano gli
output, le dinamiche non-lineari dei sistemi viventi producono una
relazione estremamente complessa tra causa ed effetto. Come abbiamo
visto in precedenza, in simili sistemi gli anelli di retroazione e i
comportamenti caotici conducono a elevati livelli di sensibilità,
dimodoché quanto accade in una regione finisce per influenzare tutte
le altre regioni in modo non deterministico, facendo sì che l’intero
sistema cooperi alla creazione di una sorta di “vortice duraturo”. A
causa di queste dinamiche olistiche, causa ed effetto interagiscono tra
loro in modo che l’effetto diventi a sua volta causa e viceversa. L’idea
di anello di retroazione è utile per comprendere il tipo di causalità
circolare e interattiva in atto. La causalità, dunque, non è qualcosa di
lineare e unidirezionale, ma di reciproco, o anche di circolare. I
risultati sono determinati meno dagli input che dalle complesse
dinamiche del sistema stesso.
In Mutual Causality in Buddhism and General System Theory: The
Dharma of Natural Systems, Joanna Macy (1991a) offre un’acuta analisi
delle implicazioni della teoria dei sistemi per la comprensione della
causalità, integrandola con analoghi concetti tratti dal buddhismo. E
poiché, dunque, la causalità è il fondamento su cui poggia la nostra
concezione della trasformazione e del cambiamento, è necessario
esaminare più nel dettaglio la sua analisi.
Nel buddhismo la nozione di Dharma si riferisce non tanto a una
sostanza o a un’essenza, ma al modo in cui “funzionano le cose” o al
“processo ordinato stesso” – un’idea molto prossima al Tao. Come
nella teoria dei sistemi, anche in questo caso tutti i fenomeni sono
considerati interdipendenti, e pertanto anche l’esperienza è vista come
qualcosa di più ampio che può essere utilizzata. Al cuore di tutto ciò
c’è la dottrina del paticca samuppada, che significa ‘coproduzione
condizionata’, ossia la reciproca o mutua causalità. Questa nozione
corrisponde alla concezione ecologica e autoorganizzativa propria
della teoria dei sistemi, secondo cui la realtà è un processo che
coinvolge modelli autoorganizzativi di eventi fisici e mentali. Nella
teoria dei sistemi, come nel buddhismo, causa ed effetto derivano da
«circuiti di contingenza intrecciati».
Mente e spirito non sono avulsi dalla causalità interattiva della
teoria dei sistemi e del buddhismo. Entrano qui in gioco le dinamiche
intraviste attraverso l’analogia olografica. Materia e mente
interagiscono e si influenzano reciprocamente. Quest’idea diventa
ancora più chiara se la integriamo con le intuizioni del paticca
samuppada:
Parte integrante del concetto di coproduzione condizionata è la convinzione che
siano i preconcetti e le predisposizioni della mente stessa a forgiare la realtà
percepita. Ciò è in contrasto con le nozioni di senso comune appartenenti a un
mondo che è “lì fuori”, un mondo distinto e indipendente dall’atto stesso della
percezione. Una comprensione autentica della causalità reciproca prevede che si
trascenda la tradizionale dicotomia tra io e mondo, una trasformazione del nostro
stesso modus vivendi, il che equivale a una revisione delle nostre convinzioni più
radicate. Il paticca samuppada non è una teoria a cui si dà il proprio assenso, e
nemmeno una verità che siamo invitati a esperire, un’idea che siamo esortati a
guadagnarci attraverso la disciplinata introspezione e una profonda attenzione al
sorgere e allo svanire dei fenomeni mentali e fisici.
(Macy, 1991a)
La nuova concezione della causalità che emerge dalla teoria dei
sistemi, con l’aggiunta delle nozioni provenienti dal buddhismo,
rivela un mondo in cui le novità diventano realmente possibili. I
sistemi aperti, in risposta alla più ampia realtà in cui sono immersi,
possono cambiare in maniera radicale – e lo fanno. Vengono rigettati
tanto il determinismo dell’universo-orologio quanto l’insensato gioco
delle probabilità del meccanicismo statistico della teoria quantistica.
Al loro posto subentra una concezione della causalità che ammette sia
la possibilità di un’autentica trasformazione che la nostra capacità di
partecipare a essa in modo significativo.
Finché la causalità era confinata o al determinismo o al cieco caso,
il nostro potere di cambiare il mondo poteva apparire al massimo una
pia illusione. Anzi, le nostre convinzioni inconsce sulla causalità
possono benissimo essere alla radice di quel senso di disperazione che
molti di noi avvertono di fronte alla crisi globale:
In una visione della realtà gerarchica, e nella causalità lineare e a senso unico cui
questa visione conduce, sia il valore che il potere sono attribuiti a un assoluto –
un’entità o un’essenza che sia –, il quale non è minimamente toccato dal gioco dei
fenomeni. [...] Anche quando la fede in un assoluto si sgretola, il modo di pensare
generato da quella visione unidirezionale continua a persistere nell’idea che il potere
sia qualcosa che deriva dall’alto. In un momento in cui assistiamo a forme sempre
maggiori di devastazione del pianeta e di povertà, una simile idea è particolarmente
pericolosa. Gli individui sono portati a credere che la libertà personale si
contrapponga alla sopravvivenza collettiva, e che l’ordine sia imposto dall’alto. In
realtà il fanatismo politico e il fondamentalismo religioso del nostro tempo danno
voce alla convinzione che il volere comune e l’azione coordinata esigono la
sottomissione a un determinato leader o divinità.
(Macy, 1991a)
Il concetto di causalità reciproca e interattiva che deriva dalla
prospettiva sistemica modifica questo presupposto. La nostra capacità
di influenzare la realtà non dipende più dalla forza bruta del nostro
intervento, ma dalle sottili reti di relazionalità proprie dell’esercizio
del potere-con. Nella concezione sistemica «l’ordine non è imposto
dall’alto, da una mente che esercita il suo volere [ossia la forza di
volontà] sulle mute forze materiali; esso appartiene alla natura
autoorganizzativa dello stesso mondo fenomenico» (Macy, 1991a).
Infatti, questo potere intrinseco di autoorganizzazione può essere
visto come la fonte del potere-dall’interno. Per questa ragione,
l’efficacia di un’azione dipende dalla sua qualità (il tempo, il luogo
ecc.) piuttosto che dalla quantità della sua “forza”. Detto con le parole
del Tao Te Ching: «Nell’agire, la tempestività è tutto» (§8).
Non solo le nostre azioni hanno un potenziale d’impatto, ma i
nostri stessi pensieri e le nostre intenzioni possono influenzare la
realtà. In un certo senso, la nostra percezione dei cambiamenti della
realtà produce un effetto sul sistema in cui viviamo. Il nostro potere di
cambiare il mondo diventa reale. Non ci resta dunque che scoprire il
modo di renderlo efficace. Come afferma Macy: «Se riconosciamo la
nostra partecipazione ai suoi modelli di coproduzione, possiamo
rivendicare il nostro potere di agire. Possiamo allora, attraverso le
nostre scelte, dare voce ed efficacia all’opera di coordinamento
presente in tutte le forme di vita» (1991a).
Secondo la visione buddhista, la tendenza ad aggrapparsi «alle
forme e alle categorie fisse create dalla mente invece di accettare la
natura temporanea e transitoria di tutte le cose» è la radice della
sofferenza umana. Tutte le forme fisse, infatti – siano esse concetti,
categorie o cose – sono una specie di velo di maya, un’illusione: «A
causa dell’ignoranza (a-vidya), noi dividiamo il mondo delle
percezioni in oggetti separati che consideriamo immobili e
permanenti, ma che in realtà sono transitori e continuamente
mutevoli. Cercando di rimanere aggrappati alle nostre categorie rigide
invece di cogliere la fluidità della vita, siamo destinati a sperimentare
una frustrazione dopo l’altra» (Capra, 1996 [2006, p. 324]).
Quest’analisi della sofferenza, sostiene Macy, è altresì la chiave per
comprendere il processo di liberazione, in particolare la liberazione
dalla nostra stessa impotenza interiorizzata nella forma della
negazione, della disperazione, della dipendenza e dell’oppressione
interiorizzata:
La nostra sofferenza è causata dall’interazione di questi fattori e in particolare
dall’illusione, la brama e l’avversione che derivano dal loro fraintendimento. Siamo
fautori della nostra stessa schiavitù perché ipostatizziamo e ci aggrappiamo a quanto
ha una natura contingente e transitoria. Le reificazioni che produciamo falsificano
l’esperienza, ci imprigionano in un ego che noi stessi ci siamo forgiati, condannano la
nostra vita a un incessante circuito di acquisizione e ansia. Considerate le cause, la
nostra sofferenza non è endemica – e non è inevitabile.
(Macy, 1991a)
Secondo il buddhismo, uno dei principali modi per superare la
nostra schiavitù è attraverso la pratica della meditazione, sviluppando
cioè uno stato di aperta e pura consapevolezza o di piena coscienza.
Questa pratica è anche fondamentale per lo sviluppo di una profonda
intuizione della natura della coproduzione condizionata stessa, e un
modo quindi di impegnarsi creativamente nella trasformazione. La
mente «si libera non allontanandosi dalla dimensione fenomenica, ma
aumentando la propria consapevolezza di essa. Questa rigorosa
attenzione offre una visione rivelatrice della coproduzione
condizionata dei fenomeni» (Macy, 1991a).

Riflettendo su causalità, potere e dinamiche dei sistemi complessi,


possiamo ricavare moltissime informazioni sulla natura delle
trasformazioni economiche, sociali e culturali. Innanzitutto, occorre
sottolineare che nessun sistema aperto – a prescindere da quanto sia
grande e complesso – è immutabile. Spesso possiamo sentirci
sopraffatti dalla totale complessità dei sistemi che vorremmo
cambiare. La possibilità di un singolo individuo, o anche di un singolo
movimento sociale, di contribuire veramente e in maniera significativa
al cambiamento può essere estremamente esigua.
Eppure la teoria dei sistemi ci dice che le cose non stanno del tutto
così. Più complesso è il sistema e più esso diventa sensibile al
cambiamento. Se il sistema è sano e funziona bene, vuol dire che sarà
in grado di adattarsi facilmente, rispondendo in modo positivo con i
necessari cambiamenti. Viceversa, se il sistema non è più capace di
adattarsi alle esigenze del momento – come sembra nel caso del nostro
attuale sistema economico e politico – le dinamiche di retroazione
positiva possono costringerlo a raggiungere un punto di biforcazione
in cui le strutture esistenti possono rapidamente essere sostituite da
nuove strutture che meglio si adattano alle mutate condizioni. Questo
è quello che accade esattamente nel processo evolutivo: pressioni
esterne conducono a salti improvvisi – spesso con sorprendente
rapidità – attraverso un fenomeno chiamato “evoluzione punteggiata”
(che affronteremo in modo approfondito nel prossimo capitolo).
Quando agiamo per trasformare i sistemi economici, sociali e
culturali – compreso il paradigma comune che questi sistemi possono
condividere – dobbiamo ricordare che un sistema è spesso più
sensibile nei punti in cui è sottoposto a maggiori pressioni. Come è
possibile che nuove specie appaiano in un ecosistema sottoposto a
stress – ad esempio in aree considerate ai margini –, così la medesima
cosa può avvenire nelle società umane; dobbiamo pertanto
rintracciare la creatività alla periferia dei nostri sistemi sociali,
economici e culturali, perché potrebbe essere proprio in quelle aree
che le strutture e i paradigmi stanno cominciando a farsi strada
creativamente verso nuove forme.
Nel lavorare per l’autentica liberazione, dobbiamo altresì
considerare le crisi come un’opportunità in vista di un cambiamento
radicale. Nella concezione sistemica, le crisi rappresentano potenziali
punti di biforcazione in cui una struttura sociale, un sistema
economico o un paradigma culturale può essere particolarmente
sensibile al cambiamento. Come osservano Ilya Prigogine e Isabelle
Stengers:
Sappiamo che le società sono sistemi immensamente complessi che implicano un
numero potenzialmente enorme di biforcazioni simboleggiato dalla varietà di culture
che si sono sviluppate in un intervallo relativamente breve della storia dell’uomo.
Sappiamo che tali sistemi sono estremamente sensibili alle fluttuazioni. Ciò conduce
a una speranza e, al contempo, a una minaccia: una speranza, perché perfino le
piccole fluttuazioni possono espandersi e cambiare la struttura generale. Di
conseguenza, l’attività individuale non è destinata a cadere nel vuoto. Dall’altro lato,
si tratta anche di una minaccia, poiché nel nostro universo la sicurezza di leggi stabili
e permanenti sembra ormai svanita per sempre. Viviamo in un mondo minaccioso e
incerto che non ispira cieca fiducia.
(1984)
Se in un siffatto mondo la sicurezza può essere irraggiungibile,
non è così per la speranza in una profonda e radicale trasformazione.
Tenendo conto del fenomeno della causalità reciproca e degli effetti di
amplificazione della retroazione positiva, i pensieri, le motivazioni e le
azioni di ciascun individuo hanno in sé tutto il potenziale per
realizzare cambiamenti significativi. In un simile quadro, il ruolo degli
individui, delle organizzazioni e dei movimenti sociali può diventare
fondamentale. Come evidenzia Macy, da una prospettiva sistemica i
nostri sistemi sociali, economici e politici – e, per estensione, i nostri
sistemi di valore e la nostra visione del cosmo – non formano un
ordine statico e prestabilito a cui i soggetti devono adeguarsi. Sono
piuttosto modelli fluidi, a cui partecipiamo e che influenziamo. Le
dinamiche della coproduzione condizionata entrano sempre in gioco.
Come scrisse Margaret Mead una volta, non dobbiamo «mai dubitare
del fatto che un piccolo gruppo di cittadini impegnati e consapevoli
possa cambiare il mondo. In realtà, è l’unica cosa che lo abbia mai
fatto» (citato in Suzuki-McConnell, 1997).
La nostra capacità di realizzare il cambiamento non dipenderà,
comunque, dalla semplice forza e dalle dimensioni di un movimento,
sebbene in alcune circostanze possa essere necessario creare una certa
quantità di “massa critica” per avere successo. La cosa fondamentale,
però, resta la nostra capacità di compiere la giusta azione con la giusta
intenzione al momento e nel luogo giusti. Se una buona analisi può
svolgere un ruolo in questo processo, la contemplazione, intuizione e
creatività possono essere persino più importanti. Per influenzare una
situazione abbiamo bisogno di cogliere le tendenze latenti in atto e
utilizzarle, reindirizzando gradualmente il flusso del sistema in una
nuova direzione. Questo tipo di azione sottile e intuitiva può
richiedere l’utilizzo di pratiche come la meditazione, la
visualizzazione, l’arte e altri metodi normalmente associati ai percorsi
spirituali.
Possiamo illustrare questo tipo di comprensione intuitiva
attraverso la storia del cuoco che macella un bue nel testo taoista del
Chuang Tzu:
Tagliare un bue
Un cuoco squartava un bue per il principe Wen Hui.
A ogni contatto della mano,
a ogni sollevarsi della spalla,
a ogni movimento dei piedi,
a ogni spinta della ginocchia,
si staccava un pezzo senza alcun rumore.
Il coltello vibrava con un sibilo
e tutto si svolgeva con un ritmo perfetto.
Come se Ting eseguisse la danza del boschetto di gelsi,
come una musica d’altri tempi.
Il principe Wen Hui esclamò: «Ah, meraviglioso!
La tua destrezza giunge a tanto?».
Il cuoco posò il coltello e rispose:
«Io seguo il Tao,
che è oltre ogni destrezza.
Quando ho cominciato a tagliare a pezzi i buoi,
non vedevo altro che il bue.
Tre anni dopo,
non vidi più il bue.
Oggi lo considero con lo spirito,
piuttosto che vederlo con gli occhi.
I miei sensi sono inattivi
mentre mi faccio guidare dalla volontà della mente.
Procedo in sintonia con le leggi della natura,
attacco in grandi interstizi,
mi apro la via verso le grandi cavità,
seguendone il corso naturale.
Persino i luoghi in cui i tendini si legano alle ossa
non offrono resistenza,
per non parlare delle ossa più grandi!
Un buon cuoco consuma un coltello all’anno,
perché egli taglia.
Un cuoco medio consuma un coltello al mese,
perché egli rompe.
Ho usato questo coltello per diciannove anni.
Ho squartato migliaia di buoi,
ma la sua lama è come appena affilata.
Tra le articolazioni vi sono degli interstizi,
e la lama non ha spessore,
basta far entrare questa lama senza spessore nelle aperture,
ed essa vi passerà sibilando,
con grande comodità!
Questo è il motivo per cui dopo diciannove anni,
la lama è sempre come appena affilata.
Ogni volta che incontro un punto difficile,
analizzo le difficoltà,
faccio attenzione, sono prudente,
fisso lo sguardo su ciò che faccio,
mi muovo lentamente,
muovo il coltello con la massima precisione,
ed ecco si separa.
Il bue non sa nemmeno che è morto,
e cade al suolo come una zolla di terra.
Io stringo ancora il coltello,
e mi guardo intorno.
Sono soddisfatto.
Pulisco il coltello e lo metto via».
Il principe Wen Hui disse: «Eccellente!
Ho ascoltato le tue parole,
e ho imparato una regola di vita».
E se ci accostassimo all’arte della prassi liberatoria nello stesso
modo in cui il cuoco si accosta alla macellazione di un bue? E se
intuissimo il Tao nello stesso modo e agissimo di conseguenza? Nel
caso della trasformazione sociale e culturale, la sfida è ancora più
grande, poiché ci troviamo dinanzi a una serie di sistemi di
autoorganizzazione connessi tra loro in maniera complessa e in
costante cambiamento. Eppure, serve lo stesso spirito: una
comprensione intuitiva dell’insieme, attraverso cui cercare di scegliere
il giusto approccio per affrontare la situazione da fronteggiare.
È interessante notare che anche la versione aramaica della
Preghiera di Gesù (“La preghiera del Signore” o “Il Padre Nostro”)
può arricchire le nostre idee per arrivare a un’azione adeguata. La
parola che Gesù utilizza per “buono” (taba) essenzialmente significa
‘maturo’, mentre la parola che usa per “male” (bisha) significa
‘immaturità’ o ‘marcio’. Così, avvalendosi delle antiche radici delle
parole aramaiche, la frase normalmente tradotta con «non indurci in
tentazione, ma liberaci dal male» potrebbe forse essere resa più
precisamente come «non farci ingannare dalla superficialità o sedurre
dalle apparenze, ma liberaci dalle azioni non appropriate (e
infruttuose)», o persino «non farci essere prigionieri dell’incertezza, e
nemmeno aggrapparci ad attività inutili».
Come Neil Douglas-Klotz (1990; 1999) sottolinea, qui si tratta
soprattutto di trovare l’azione giusta per il momento presente:
«Coloro che sono “buoni” sono nel posto giusto al momento giusto
con l’azione giusta. In questo senso, sono preparati per ogni tipo di
evento, sono pronti, pienamente presenti nel momento». Di contro, il
male implica che si sia «caduti fuori dal ritmo con la Sacra Unità». Può
essere che l’azione non «sia ancora pronta per lo scopo a cui è
destinata» (non è ancora abbastanza matura) o che l’azione «non sia
più matura: in un determinato tempo e luogo era appropriata, ma ora
si è allontanata dal ritmo del sacro “Io Sono” ed è diventata marcia,
per così dire» (Douglas-Klotz, 1999).
Per incarnare un’autentica prassi liberatoria, dunque, occorre
diventare estremamente sensibili al momento presente e mantenere
una vigile ricettività nei suoi riguardi. Ciò significa entrare nel mistero
della causalità reciproca, riconoscere che il pensiero discorsivo e
analitico da solo non può mai scandagliare gli abissi della complessità.
Significa anche utilizzare il potere della relazionalità e della creatività
come energia per inaugurare un viaggio di trasformazione. E infine
significa superare le illusioni che imprigionano la nostra mente,
spezzare i fili di un’impotenza interiorizzata che ci irretiscono e ci
legano.
La liberazione è un’arte, un processo di autoorganizzazione in cui
ciascuno di noi è chiamato a discernere e ad agire tramite la
contemplazione, la creatività e l’impegno relazionale. L’esito di un
simile processo non è mai prevedibile, ma il valore di ogni individuo,
di ogni comunità e di ogni movimento non deve mai essere
sottovalutato. Come afferma Macy: «All’interno del contesto di un
corpo più grande – o rete vivente – i nostri stessi sforzi individuali
possono apparire trascurabili. È difficile misurarne la portata. Eppure,
a causa della natura sistemica e interattiva della rete, ogni atto si
riverbera in essa secondo modalità che non ci è dato vedere. E ognuno
di noi può essere fondamentale per la sopravvivenza della rete»
(1983).
42 Un altro esempio può chiarire ulteriormente questo concetto: il corpo umano è un
sistema aperto che scambia costantemente materiale con l’ambiente circostante. In media,
nell’arco di sette anni, ogni singolo atomo del corpo viene sostituito attraverso un processo di
continua rigenerazione (il 98 per cento degli atomi del corpo, infatti, viene ricambiato ogni
anno!). Da un punto di vista strettamente materialista, dunque, ogni sette anni siamo persone
completamente differenti; eppure, da una prospettiva sistemica, rimaniamo gli stessi, perché
la struttura generale della nostra esistenza rimane inalterata, anche se in alcuni aspetti è
cambiata a causa della crescita e dell’invecchiamento.
43 Curiosamente, Francisco Verala è diventato un buddhista tibetano negli anni Settanta.
Forse è stata proprio la sua visione buddhista ad aiutarlo a forgiare le proprie teorie sul
“creare un mondo”.
9. Memoria, risonanza morfica ed emergenza
Lo guardi e non può essere visto.
Lo ascolti e non può essere ascoltato.
Lo afferri e non può essere toccato.
Nell’unicità si fonde,
elude i sensi.
Dall’alto, non è luminoso.
Dal basso, non è oscuro.
Come un filo ininterrotto che non può essere
[descritto,
esso ritorna al vuoto.
Forma senza forma, che include tutte le forme,
immagine senza sostanza,
sottile, oltre ogni concetto.
Avvicinati a ciò che è al di là degli inizi,
segui ciò che non ha fine.
Aderisci al Tao senza tempo,
e muoviti al ritmo del momento presente,
e si potrà cogliere l’origine nel filo ininterrotto del
[Tao.
TAO TE CHING §14
Le regolarità della Natura somigliano più ad abitudini che a leggi
[...] non sono state fissate dall’origine dei tempi. Sono
;abitudini che si sono evolute con la Natura. La Natura, più che una
mente matematica eterna, possiede una specie di memoria interna.
Ogni cosa possiede una memoria collettiva di ciò che l’ha
preceduta. [...] La memoria dipende dal processo che io definisco
risonanza morfica, l’influenza del simile sul simile attraverso
lo spazio e il tempo. Simili modelli di attività o di vibrazioni
vengono trasmessi da precedenti modelli simili.
(Fox-Sheldrake, 1996a)
La teoria dei sistemi rappresenta un eccellente punto di partenza
per cominciare a comprendere la natura della trasformazione nei
sistemi complessi. Eppure il fenomeno dell’emergenza a un certo
livello resta misterioso. Gli anelli di retroazione positiva e le
matematiche del caos ci aiutano a definire alcuni dei principali
fenomeni coinvolti, ma non spiegano con precisione perché sembra che
la creatività sia insita nella trama stessa del cosmo. E nemmeno
chiariscono alcuni degli aspetti più enigmatici dell’emergere della
creatività; in particolare, come nuovi comportamenti e nuovi saperi
sembrino “godere di vita propria”, diffondendosi così rapidamente da
mettere in discussione i nostri abituali modi di concepire
l’apprendimento e il cambiamento.
Uno degli esempi più interessanti di questa specie di trasmissione
misteriosa dell’apprendimento può essere osservato in una serie di
esperimenti condotti da William McDougall ad Harvard nel 1920
(Sheldrake, 1988). Sperando di trovare prove della trasmissione
ereditaria dell’apprendimento, McDougall addestrò un gruppo di
cavie da laboratorio ad attraversare un complesso labirinto pieno
d’acqua e con due sole uscite: una era illuminata (e lì le cavie
ricevevano una scarica elettrica) e un’altra era buia (ed innocua).
L’uscita illuminata veniva periodicamente spostata. Nel corso del
tempo le cavie avevano imparato che era sicuro uscire dal varco buio e
che dovevano evitare quello illuminato.
La prima generazione di cavie scelse l’uscita illuminata circa
centosessantacinque volte prima di imparare che andava
regolarmente evitata. La generazione successiva di topi, invece,
imparò a evitare l’uscita illuminata dopo appena venti tentativi,
nonostante McDougall avesse scelto i topi meno intelligenti tra quelli
della seconda generazione per avviare la generazione successiva. Lo
scienziato concluse che doveva agire un qualche tipo di memoria
ereditaria, la quale apportava un sensibile miglioramento
nell’apprendimento della seconda generazione.
Successivamente, a Edimburgo, uno scienziato cercò di replicare
l’esperimento di McDougall, partendo con un gruppo di cavie
completamente nuovo; la sua prima generazione, però, imparò molto
più velocemente di quella di McDougall, evitando regolarmente
l’uscita illuminata dopo soli venticinque errori. Allo stesso modo, un
altro gruppo di scienziati a Melbourne, in Australia, scoprì che la loro
prima generazione aveva imparato molto più velocemente di quella di
McDougall. Per di più, dopo aver lavorato con oltre cinquanta
generazioni di topi per un periodo di vent’anni, il livello di
apprendimento continuava ad aumentare, anche nel caso di topi di
controllo che non discendevano direttamente dalla generazione
precedente. L’apprendimento delle generazioni successive di cavie –
anche quelle prive di un collegamento diretto con le cavie della
generazione precedente – continuò a migliorare con l’andare del
tempo.
Si tratta certamente di un esperimento interessante, che potrebbe
avere importanti implicazioni per la prassi trasformativa. Come
vedremo nel prosieguo di questo capitolo, non si tratta semplicemente
di un episodio isolato, ma di un esempio particolarmente chiaro e
scientificamente rigoroso di un fenomeno più diffuso. Che natura ha
un tale processo? La sola teoria dei sistemi non sembra fornire una
valida spiegazione. Le connessioni quantiche non-locali del teorema di
Bell possono suggerire alcune possibilità, ma non è immediatamente
evidente il ruolo che tali connessioni possono giocare nella
trasmissione dell’apprendimento. Più promettente potrebbe essere
l’idea di ordine implicato, soprattutto perché sottende che mente e
memoria non siano fenomeni locali, ma che sia semplicemente il
cervello ad avere accesso alla memoria, la quale a sua volta esiste
nell’ordine implicato – o, se si preferisce dirlo con altre parole – nel
vuoto gravido.
Come abbiamo visto nella nostra analisi della teoria dei sistemi, la
mente – così come il processo della memoria – non ha affatto bisogno
di essere associata al sistema nervoso. Il sistema immunitario, per
esempio, ricorda per decenni la configurazione di una sostanza
estranea (come un virus o un batterio) una volta identificata. Come
evidenzia Diarmuid O’Murchu, possiamo pensare al sistema
immunitario come a una sorta di campo di memoria. Parimenti, il DNA
delle cellule può essere immaginato come una specie di sistema di
stoccaggio per il trasferimento delle informazioni:
Il DNA non si sposta mai nemmeno di un millimetro dalla sua precisa struttura,
perché ciascuno dei tre miliardi di genomi – frammenti d’informazione nel DNA –
ricorda dove va ogni cosa. Questo fatto ci fa capire che la memoria deve essere più
stabile della materia. Di conseguenza, una cellula può essere definita come una
memoria che ha costruito della materia intorno a sé, dando vita a un modello
specifico. Il veicolo d’informazioni, quindi (e osiamo aggiungere noi, di significato), è
la memoria, non la materia.
(1997)
In questa visione i concetti di forma e di memoria sono
strettamente connessi. Come abbiamo visto, nella prospettiva
sistemica la forma prevale sulla materia. Nella misura in cui la forma
richiede una costante rigenerazione attraverso dinamiche di stabilità-
di-flusso simili a vortici, possiamo allora dire che un sistema è una
specie di manifestazione della memoria. Eppure, allo stesso tempo, la
natura della causalità reciproca (e della coproduzione condizionata)
implica che il sistema a sua volta crei continuamente (o ricrei) la
memoria, o al limite contribuisca a ricrearla.
In questo capitolo esploreremo più nel dettaglio le dinamiche della
memoria. Nel far ciò, vedremo come la memoria, che di per sé può
essere considerata un aspetto del concetto più ampio di mente, sembri
appartenere a tutti i sistemi, e non solo a quelli che normalmente
consideriamo “viventi”. Per esempio, le molecole proteiche e i cristalli
chimici possono essere considerati dotati di memoria, come anche le
società e gli ecosistemi. Nell’indagine su queste teorie, attingeremo a
piene mani dall’opera di Rupert Sheldrake, un biochimico inglese
molto poco convenzionale. Se da un lato le teorie di Sheldrake non
vengono considerate “mainstream” poiché differiscono molto dalle
visioni ortodosse oggi accettate, dall’altro esse spiegano una serie di
interessanti fenomeni che molti scienziati sembrano aver ignorato,
forse a causa della sfida che pongono al pensiero scientifico
tradizionale. Per lo meno, le teorie di Sheldrake sollevano eccellenti
interrogativi e forniscono indizi che possono portare a una nuova
comprensione della memoria e allo sviluppo di nuove abitudini e di
nuovi comportamenti. Inoltre, le sue teorie sembrano indicare un
nuovo modo di concepire la realtà, che può avere importanti
ripercussioni sulla prassi trasformativa.

Il nucleo della tesi di Sheldrake è contenuto nella sua teoria della


“causalità formativa”, in cui si afferma che la memoria è intrinseca
alla natura ed è contenuta o compresa in “campi morfici” (dal greco
morphe, che significa ‘forma’), i quali sono immateriali (e, in un certo
senso, sia locali che non-locali), eppure in qualche modo “fisici”:
I campi morfici, come i campi della fisica, sono aree non materiali di influenza che
si estendono nello spazio e nel tempo. Sono localizzati dentro e attorno ai sistemi che
organizzano. Quando un particolare sistema organizzato cessa di esistere, ad
esempio quando un atomo si scinde, un fiocco di neve si fonde e un animale muore, il
suo campo organizzativo scompare in quel luogo. Eppure, in un altro senso, i campi
morfici non scompaiono: sono modelli organizzativi potenziali e possono riapparire
fisicamente in altri momenti e altri luoghi, quando e dove le condizioni materiali
siano adatte. Questo è possibile perché contengono al proprio interno la memoria
delle loro precedenti esistenze fisiche.
(Sheldrake, 1988 [2011, p. 12])
Sotto molti aspetti i campi morfici corrispondono all’idea di
“organizzazione delle relazioni” (o di “dinamiche di auto-
organizzazioni”) della filosofia dell’organicismo44; Sheldrake ritiene
infatti la sua teoria un’estensione o un’elaborazione della prospettiva
organicista. Per Sheldrake il campo è immanente al sistema, proprio
come l’idea di anima di Aristotele (in contrapposizione al concetto
platonico di forme eterne e trascendenti). Nonostante ciò molti critici,
incluso Fritjof Capra, considerano le idee di Sheldrake una forma
elaborata di vitalismo, interpretazione che lo stesso Sheldrake
respinge con forza.
In riferimento all’accusa che nella teoria di Sheldrake siano
presenti tendenze vitalistiche, occorre ricordare che i vitalisti insistono
sul fatto che il loro concetto di “forza vitale” appartiene unicamente
agli organismi viventi, qualcosa di distinto dai campi morfici che si
ritiene operino in tutti i sistemi del cosmo. Come abbiamo evidenziato
in precedenza, Sheldrake ritiene che «dalla prospettiva organismica, la
vita non è qualcosa che emerge dalla materia inerte e che richiede di
essere spiegata attraverso i fattori vitali aggiuntivi del vitalismo. Tutta
la natura è viva. I principi organizzativi degli organismi viventi
differiscono in grado ma non in tipo dai principi organizzativi delle
molecole, delle società, delle galassie» (1998 [2011, p. 69]).
Inoltre, i campi morfici di Sheldrake sono altrettanto “fisici” degli
altri campi della fisica (come quello gravitazionale o elettrico),
sebbene la loro natura sia altresì in un certo senso qualcosa di unico.
Va sottolineato, poi, che i campi morfici e i sistemi interagiscono
attraverso una causalità reciproca, il che vuol dire che la creatività in
un sistema interagisce anche con il suo campo morfico, aggiungendo
di fatto nuove conoscenze e nuove esperienze al campo collettivo
della memoria.
Secondo la teoria della causalità formativa, il ricordo – «il processo
mediante il quale il passato diventa presente» – avviene attraverso la
“risonanza morfica”, che implica la «trasmissione di influssi formativi
causali attraverso lo spazio e il tempo» (Sheldrake 1988 [2011, p.
12])45. Poiché i ricordi contenuti in un campo morfico si accumulano
nel corso del tempo, le cose diventano sempre più abituali. Nel caso
del “comportamento” di cose come atomi, molecole e particelle
elementari, siamo di fronte a elementi che ripresentandosi per un arco
di tempo tanto esteso oggi possono apparirci immutabili. Eppure le
cosiddette “leggi eterne” dovrebbero in realtà essere interpretate come
abitudini molto radicate della natura.
Anche se la risonanza morfica può far sì che alcune abitudini
appaiano quasi immutabili, lo spirito della teoria della risonanza
morfica è interamente di natura evolutiva e dinamica. I campi morfici
possono cambiare nel corso del tempo (e lo fanno), e quando ciò
accade spesso si producono improvvise esplosioni di creatività46. Alla
radice della teoria della risonanza morfica, infatti, c’è la convinzione
che, in un cosmo in evoluzione, possano non esserci leggi eterne o
fisse. Ogni cosa, compreso lo stesso campo di organizzazione del
cosmo, deve evolvere temporalmente.
Nel corso di questo capitolo esploreremo diverse aree in cui la
teoria della risonanza morfica può contribuire alla nostra
comprensione di una nuova cosmologia. In particolare, esamineremo
in che modo i campi morfici possono offrire una prospettiva unica
della natura della memoria – come della stessa mente – che ci consente
di scoprire nuove idee sull’apprendimento e sulle dinamiche di
autoorganizzazione e della creatività. Inoltre, vedremo come la
prospettiva morfica ci consenta di andare oltre la concezione
meccanicistica dei geni, in modo da poter cogliere lo sviluppo e
l’evoluzione degli organismi viventi sotto una nuova luce.
Analizzeremo anche come i campi morfici ci aiutino a concepire
un’autentica cosmologia evoluzionistica, una cosmologia in cui le
leggi eterne non regnano più come una sorta di “motore immobile”
che governa il cosmo. In conclusione, vedremo come la risonanza
morfica possa aiutarci a far emergere nuove idee nella prassi
trasformativa.
I riverberi della memoria
Ciò che impariamo e ciò che pensiamo può influenzare le altre persone
per risonanza morfica. La nostra anima è legata a quella degli
altri e al mondo che ci circonda. L’idea di una mente all’interno
della nostra testa, di una piccola entità portatile isolata nell’intimità
dei nostri crani è straordinaria. Nessuna cultura nel passato
ha avuto questa idea, ed è sorprendente che la cultura più colta
e sofisticata mai esistita (come ci piace pensarla) possa averla.
(Fox-Sheldrake, 1996a)
La maggior parte di noi considera il proprio cervello sia la sede
della coscienza che il contenitore dei ricordi. Di certo il cervello è un
organo meraviglioso, così complesso che siamo ben lontani dall’aver
compreso tutte le misteriose dinamiche in esso presenti. Tuttavia, la
ricerca della sede della memoria all’interno del cervello è stata finora
fallimentare.
I neuroscienziati che operano al di fuori del paradigma puramente
materialista hanno postulato che la memoria dovrebbe essere
concepita come una sorta di modificazione fisica o chimica del sistema
nervoso – una “traccia” materiale – presumibilmente collocata nel
cervello. Per trovare prove di questa traccia gli scienziati hanno
condotto esperimenti su animali a cui, dopo aver insegnato qualcosa,
venivano asportate parti del cervello – in alcuni casi oltre il 60 per
cento – per vedere quando l’animale cessava di ricordare. I risultati di
questi esperimenti, tuttavia, nel migliore dei casi non hanno prodotto
risultati: determinati ricordi non possono essere eliminati rimuovendo
determinate parti del cervello. La memoria sembra essere in qualche
modo distribuita in tutto il cervello – è ovunque in generale, ma anche
in nessun luogo in particolare (Sheldrake, 1990 [1993]).
Non è un caso che le persone colpite da amnesia a seguito di
traumi al cervello normalmente perdano i ricordi in modo olistico
piuttosto che determinati segmenti di memoria. Se la memoria viene
recuperata, spesso ritorna in un ordine cronologico, e il ricordo più
vecchio viene ritrovato per primo. Questo sembra contrario, ancora
una volta, all’idea di “tracce mnestiche” localizzate e immagazzinate
nel cervello.
Rupert Sheldrake suggerisce che le tracce mnestiche possano
anche, in realtà, non esistere affatto. Il cervello potrebbe non serbare
ricordi, ma piuttosto semplici accessi alla memoria, così come un
televisore si sintonizza all’interno di un campo di radiazioni
elettromagnetiche (un segnale radio). I danni al cervello possono
sicuramente influenzare la sua capacità di sintonizzarsi in un campo
di memoria, sfociando o nell’incapacità di richiamare la memoria del
passato (ricevere) o nell’impossibilità di serbare un nuovo ricordo
(trasmissione). Non è possibile, tuttavia, trovare le tracce mnestiche:
«Se cercaste nel vostro televisore tracce dei programmi che avete visto
la settimana scorsa, per lo stesso motivo non trovereste nulla:
l’apparecchio non è in grado di sintonizzarsi su una determinata
frequenza per trasmettere programmi che tuttavia non registra» (1990
[1993, p. 113]).
Sheldrake ritiene che la memoria sia contenuta in campi morfici e
che funzioni attraverso il processo della risonanza morfica, e non
come una sorta di deposito mnestico materiale:
La risonanza morfica si basa sulla somiglianza. Agisce sulla base di analogie. Più
un organismo rassomiglia a un proprio simile vissuto in passato, e più la risonanza è
stata specifica ed efficace. In generale qualsiasi organismo tende a essere simile a se
stesso in passato, ed è quindi particolarmente soggetto alla risonanza morfica
specifica del proprio passato.
(1990 [1993, p. 113])
Ciò non significa che i disturbi chimici o fisici nel sistema nervoso
non possano influenzare il comportamento, ma solo che questi
disturbi sono analoghi ai guasti che possono danneggiare l’hardware
di un computer e non i suoi programmi (i software). Infatti, la capacità
del cervello di guarire da una perdita di memoria dovuta a un trauma
può essere spiegata attraverso i campi morfici:
Anche in caso di danni a parti del cervello, questi campi possono organizzare le
cellule nervose di altre aree perché svolgano le stesse funzioni. La capacità delle
abitudini apprese di sopravvivere a gravi danni cerebrali può essere dovuta alle
proprietà auto-organizzative dei campi, proprietà che si esprimono nel regno della
morfogenesi nella rigenerazione e regolazione embrionale.
(Sheldrake 1988 [2011, p. 198])
L’idea che la memoria sia conservata in campi morfici è
strettamente collegata all’idea dello psicologo Carl Jung di “inconscio
collettivo”, una sorta di campo collettivo di memoria condiviso da
tutta l’umanità che si esprime in simboli comuni o “archetipi” nei miti
e nei sogni. Jung credeva che tutti gli individui condividessero un
gruppo di archetipi comuni, ma allo stesso tempo che determinate
culture potessero anche condividere una serie di ricordi inconsci più
specifici. Marie-Louise von Franz ha ulteriormente sviluppato
quest’idea, immaginando l’inconscio collettivo in modo olarchico, in
cui l’inconscio individuale si trova nidificato in quello del clan, della
cultura ecc., in cerchi sempre più grandi. Per questa ragione, le
mitologie di ciascuna cultura possono avere elementi unici come pure
elementi condivisi con le culture limitrofe o elementi comuni
all’umanità stessa (Sheldrake, 1988 [2011])47.
Possiamo immaginare i campi morfici mnemonici in modo simile,
e cioè come un sistema di olarchie nidificate che raggiungono cerchi
sempre più ampi. È plausibile che questi cerchi possano spingersi al di
là della stessa umanità fino ai ricordi delle altre specie, sebbene le
nostre capacità di risonanza con quei campi si indebolisca
progressivamente col diminuire delle somiglianze.
L’idea di una memoria contenuta in campi morfici può spiegare in
parte i “ricordi di una vita passata” che alcune persone hanno e che
attraverso l’ipnosi sembrano diventare più chiari. Può darsi che, per
via di somiglianze nella personalità o nella struttura fisica, si possa in
qualche modo “risuonare” con i ricordi di alcuni individui vissuti nel
passato, potendo così accedere ed esperire i loro ricordi più
facilmente.

Lo stesso concetto di campi può sembrare di primo acchito


misterioso. Si tratta solo di una specie di astrazione metafisica, un’idea
o qualcosa di più concreto? Persino nel porre questa domanda
dobbiamo esaminare con attenzione i nostri presupposti materialisti.
Come abbiamo già visto, anche realtà “fisiche” come le particelle
subatomiche somigliano a danze di energia o a onde di probabilità che
nuotano nel vuoto gravido. C’è un modo, in effetti, per esprimere la
natura ondulatoria della materia: sono i “campi quantici” (o “campi
quantici di materia”). Come sottolinea Sheldrake: «In questi campi
quantici di materia non c’è dualismo fra campo e particella, nel senso
di un campo in qualche modo esterno alla particella. La realtà fisica è
divenuta piuttosto un insieme di campi, e i campi specificano le
probabilità di trovare dei quanti in punti particolari dello spazio. Le
particelle sono manifestazioni della realtà sottostante dei campi» (1988
[2011, p. 135]). Nella nuova fisica, dunque, possiamo immaginare i
campi (entità organizzative o formative) come qualcosa di più
essenziale della materia o della sostanza. Anzi, la nozione di campi
morfici va considerata in quest’ottica: i campi morfici possono
comportare fenomeni quantistici.
Un modo di pensare i campi morfici è vederli come campi di
informazione, analoghi in un certo senso al concetto di programma
nell’uso convenzionale che se ne fa in biologia. Allo stesso tempo, i
campi morfici sono di natura probabilistica, proprio come i campi
quantici di materia (infatti, per quanto riguarda gli atomi e le entità
subatomiche, Sheldrake suggerisce che quanto descritto nella teoria
quantistica dei campi può benissimo equivalere al campo morfico
degli atomi e delle particelle subatomiche). In termini di fenomeni
biologici, questa natura probabilistica è dimostrata dal fatto che non
esistono due organismi o due sistemi biologici identici, anche quando
si sviluppano in condizioni simili, e persino quando sono
geneticamente indistinguibili. C’è sempre un elemento di
indeterminazione che entra in gioco. Al contempo, però, il campo
morfico crea una sorta di confine per i comportamenti e le forme. Da
questo punto di vista, i campi morfici sono paragonabili agli
“attrattori” della teoria dei sistemi, sebbene nella teoria dei sistemi gli
attrattori non siano in alcun modo fattori causativi.
Anche il fenomeno della risonanza morfica contribuisce alla natura
probabilistica dei campi morfici. Un campo morfico entra in risonanza
con innumerevoli campi provenienti da organismi o sistemi simili
vissuti nel passato, eppure vi è variazione anche in tutti questi campi
passati. Ancora una volta, tali variazioni creano una sorta di confine
composito che delinea uno spettro di forme o di comportamenti in
modo probabilistico. Pertanto, un campo morfico non può essere di
natura strettamente deterministica: è sempre una struttura
probabilistica (sebbene in alcuni casi – come quello di determinati
fenomeni fisici – lo spettro possa essere così piccolo da risultare
impercettibile).
La risonanza morfica, diversamente dalla maggior parte delle
forme di risonanza fisica (come quella nucleare-magnetica o quella
acustica), non implica il trasferimento di energia tra i sistemi, ma
piuttosto un “trasferimento di informazioni non energetico”. Non è
escluso che la risonanza morfica possa anche somigliare ad altri
fenomeni di risonanza, ma solo nella misura in cui «si verifica su
modelli ritmici di attività», come ad esempio le vibrazioni di atomi, le
oscillazioni di attività cellulari, le onde dell’attività elettrica nel
sistema nervoso e gli innumerevoli cicli degli organismi viventi.
Secondo l’ipotesi della causalità formativa, la risonanza morfica avviene tra
queste strutture ritmiche di attività sulla base della similarità, e mediante questa
risonanza i passati modelli di attività influenzano i campi di sistemi simili successivi.
La risonanza morfica include una sorta di azione a distanza nello spazio e nel tempo.
Secondo questa ipotesi, questa influenza non diminuisce con la distanza temporale o
spaziale.
(Sheldrake, 1988 [2011, pp. 125-126])
I campi morfici ricordano le entelechie aristoteliche, giacché non
esistono come ideali trascendenti indipendenti dagli organismi o dai
sistemi reali. Sono molto diverse, per esempio, dal concetto platonico
di forme ideali, che plasmano la realtà in maniera deterministica e
univoca. Nel caso dei campi morfici, l’informazione non fluisce
semplicemente dal campo alla forma, ma anche dalla forma al campo
in modo interattivo e reciproco. I campi morfici sono perciò di natura
dinamica ed evoluzionistica.
Considerando il modo in cui i campi morfici trasmettono le
informazioni attraverso lo spazio e il tempo, Sheldrake ritiene che non
abbiamo bisogno di postulare alcuna specie di “etere morfogenetico”
o di fenomeno che operi in altre dimensioni, ma dobbiamo «pensare al
passato come schiacciato, per così dire, contro il presente, e come
potenzialmente presente ovunque» (1988 [2011, p. 129]).
Quest’idea può apparire strana, ma dobbiamo ricordare che il
concetto newtoniano di leggi immutabili è parimenti misterioso e
forse perfino più strano; è solo che ci siamo abituati a pensare in
questa maniera e non mettiamo in discussione le nostre convinzioni:
Siamo così abituati al concetto di leggi fisiche immutabili che le diamo per
scontate, ma se riflettiamo sulla loro natura, queste leggi si rivelano profondamente
misteriose. Non sono materiali e non sono energia. Trascendono lo spazio-tempo e
sono, almeno in potenza, presenti in tutti i luoghi e in tutti i momenti.
Benché la risonanza morfica sembri misteriosa, le teorie convenzionali non lo sono
di meno se facciamo un passo indietro e consideriamo i presupposti su cui si basano.
L’ipotesi della causalità formativa non è una bizzarra speculazione metafisica che si
contrappone a una teoria meccanicistica empirica, rigorosa e realistica. La teoria
meccanicistica si basa su presupposti ancora più metafisici del concetto di causalità
formativa.
(Sheldrake, 1988 [2011, p. 129])
Come abbiamo detto, la nozione di campi morfici può facilmente
essere collegata alla teoria dei sistemi allorché consideriamo questi
campi in maniera analoga all’idea di attrattore, che costituisce una
sorta di confine per i comportamenti e le forme. Sostanzialmente
possiamo immaginare un attrattore come una specie di descrizione
matematica di un campo morfico. Allo stesso tempo, i concetti di
campo morfico e di risonanza morfica sono anche collegati alla teoria
dell’ordine implicato e dell’analogia olografica. In un certo senso,
l’intera olarchia nidificata dei campi morfici presa nel suo complesso
potrebbe essere intesa come corrispondente all’ordine implicato.
David Bohm, uno degli ideatori della prospettiva olografica, considera
tale relazione nel modo seguente:
L’ordine implicato può essere pensato come una superficie al di là del tempo, una
totalità, dalla quale ogni istante viene proiettato nell’ordine esplicato. Per ogni
momento proiettato nell’ordine esplicato ci sarebbe un altro movimento in cui quel
momento verrebbe iniettato o “introiettato” all’interno dell’ordine implicato. Se si
dispone di un gran numero di ripetizioni di questo processo, si potrà iniziare a
costruire una componente abbastanza costante di questa serie di proiezioni e
introiezioni: verrebbe cioè stabilita una disposizione fissa. Il fatto è che, attraverso
questo processo, forme passate tenderebbero a essere ripetute o replicate nel
presente, il che è qualcosa di molto simile a ciò che Sheldrake chiama campo
morfogenetico [o morfico] e risonanza morfica. Inoltre, tale campo non sarebbe
situato ovunque. Quando si proietta indietro nella totalità (l’ordine implicato), poiché
lì spazio e tempo non hanno rilevanza, tutte le cose della medesima natura
potrebbero connettersi e risuonare nella totalità. Quando l’ordine esplicato si ripiega
nell’ordine esplicato, che non ha alcun tipo di spazio, tutti i luoghi e tutti i tempi
sono, per così dire, fusi insieme, in modo che ciò che accade in un luogo compenetra
in ciò che accade in un altro luogo.
(citato in Sheldrake, 1988)
L’idea che la memoria sia contenuta nei campi morfici diventa
molto più chiara quando prendiamo in considerazione esempi
concreti che sembrano dimostrare questo fenomeno. Se questi esempi,
da un lato, non forniscono prove sperimentali definitive sulla
risonanza morfica, dall’altro suggeriscono che c’è qualcosa che opera
oltre i ricordi che fisicamente vengono serbati nel cervello.
Uno di questi esempi riguarda l’acquisizione del linguaggio.
Noam Chomsky ha ipotizzato che per spiegare la rapidità con la quale
i bambini apprendono il linguaggio non basta semplicemente
chiamare in causa un modello di apprendimento comportamentale.
Per Chomsky il linguaggio si sviluppa nella mente e le strutture di
organizzazione del linguaggio sono essenzialmente innate. Di
conseguenza ha ipotizzato che vi sia una sorta di grammatica
universale, che egli ritiene essere in qualche modo geneticamente
programmata.
Una spiegazione alternativa a questo fenomeno, tuttavia, può
essere rintracciata nella teoria della risonanza morfica. Se
consideriamo i campi morfici di tutti gli esseri umani che hanno
parlato lingue diverse nel passato, la risonanza morfica dovrebbe
favorire l’apprendimento di queste lingue. Secondo Sheldrake «la
risonanza morfica generale dà ai bambini la tendenza generica ad
apprendere un linguaggio, ma appena iniziano a parlare una lingua
specifica, supponiamo lo svedese, i bambini entrano in risonanza
morfica con le persone che parlano svedese; l’apprendimento del
vocabolario e della grammatica di questa lingua è facilitato da questa
risonanza» (Sheldrake, 1988 [2011, p. 220]).
Rispetto a qualsivoglia programmazione genetica, la risonanza
morfica sembra in effetti offrire una spiegazione più soddisfacente
della facilità con la quale siamo in grado di apprendere il linguaggio.
Se avessimo a che fare con una programmazione genetica, dovremmo
attenderci molta meno diversità e molta più rigidità nella struttura
linguistica rispetto a quanto in realtà riscontriamo. D’altro canto, la
risonanza morfica può dar conto sia di un grado di regolarità nelle
lingue – le caratteristiche comuni alle lingue come le parole e le frasi –
ma altresì consentire una grande diversità dei sistemi linguistici.
Rupert Sheldrake ha ideato un esperimento linguistico che illustra
in che modo, nell’acquisizione del linguaggio, entri in gioco la
risonanza morfica. Egli ha chiesto a un poeta giapponese di fornirgli
tre filastrocche: la prima era una filastrocca tradizionale recitata da
generazioni di bambini in Giappone; delle altre due, che
assomigliavano alla prima, una in giapponese aveva senso, l’altra no.
Queste tre filastrocche sono poi state insegnate a dei bambini
statunitensi e britannici che non conoscevano il giapponese. Posto che
le tre filastrocche fossero equivalenti per difficoltà, circa i due terzi dei
bambini hanno imparato con più facilità la filastrocca autentica,
risultato che dal punto di vista statistico è molto significativo.
Ancorché non decisivo, quest’esperimento suffraga l’idea che la
risonanza morfica favorisca l’acquisizione del linguaggio: la
ripetizione di una filastrocca per generazioni di bambini creerebbe un
campo di memoria forte, che diventerebbe accessibile attraverso il
fenomeno della risonanza morfica. Altri esperimenti, legati al
riconoscimento diretto o indiretto di parole scritte, reali o inventate, in
lingue sconosciute ai soggetti su cui veniva condotto l’esperimento,
hanno offerto ulteriore sostegno alla teoria della risonanza morfica
(Sheldrake, 1988 [2011]).
La risonanza morfica può anche spiegare il potere dei rituali
tradizionali, dei canti e dei mantra nelle tradizioni religiose del
mondo. I riti religiosi ripetuti più e più volte – talvolta per migliaia di
anni – creano un potente campo morfico di memoria collettivo. Per
questa ragione, siffatti rituali avrebbero accumulato una specie di
potere spirituale (associato alla condizione spirituale di coloro che
hanno sperimentato tali rituali in passato) che i più recenti rituali non
possono avere. Analogamente, i mantra tradizionali – parole di
preghiera ripetute più e più volte da milioni di persone su lunghi
periodi di tempo – dovrebbero assumere un grande potere attingendo
alla memoria degli stati meditativi di innumerevoli individui nel corso
dei secoli. È per questo motivo che i mantra tradizionali posseggono
una capacità unica di favorire la meditazione.
La risonanza morfica potrebbe anche spiegare la rapida diffusione
di nuove abitudini nelle popolazioni animali. Un caso particolarmente
interessante che illustra questo processo può essere quello della
cinciarella, una specie di volatile che vive nell’Europa dell’Ovest.
Dagli anni Venti fino agli anni Quaranta si diffuse in tutto il Regno
Unito l’abitudine della cinciarella di aprire i tappi delle bottiglie di
latte, sebbene raramente le cinciarelle si spostino di oltre venticinque
chilometri dalle loro dimore. Sul piano geografico l’abitudine non si
diffuse con continuità, ma spuntò in maniera indipendente in località
differenti (le bottiglie di latte furono introdotte per la prima volta in
Inghilterra nel 1880, quindi ci sono voluti quasi quarant’anni prima
che avvenisse la prima scoperta da parte di una cinciarella). Stando a
Sheldrake (1988 [2011]), resoconti dettagliati dimostrano che
quest’abitudine si diffuse sempre più rapidamente col passare degli
anni, e che fu scoperta indipendentemente da almeno ottantanove
cinciarelle differenti nell’arco dei decenni in questione. Inoltre,
l’abitudine si diffuse in Olanda, in Danimarca e in Svezia. Nel caso
olandese, dove il latte in bottiglia praticamente scomparve durante la
seconda guerra mondiale, l’abitudine riapparve rapidamente dopo la
fine della guerra, anche se l’occupazione tedesca dell’Olanda (e la
sospensione della distribuzione del latte) era durata molto più a lungo
della vita media di una cinciarella.
L’ipotesi della risonanza morfica è in grado di spiegare perché
l’abitudine di aprire le bottiglie di latte sembrava diffondersi più
rapidamente col passare del tempo. Più gli uccelli adottava tale
abitudine, più la risonanza morfica facilitava l’acquisizione della
nuova abitudine, con nuove e indipendenti scoperte vieppiù
frequenti.
Il fenomeno dei campi morfici può anche estendersi ben oltre la
memoria, fino ad abbracciare altri aspetti di ciò che siamo
normalmente abituati a considerare la mente. Si tenga presente, per
esempio, il complesso comportamento collettivo delle termiti, che
consente loro di costruire immense strutture fatte di escrementi e
saliva. I nidi delle termiti sono estremamente complessi: per esempio,
un nido africano di termiti a forma di fungo può raggiungere i tre
metri di altezza e ospitare due milioni di abitanti. I nidi sono
progettati in maniera ingegnosa per diffondere calore e mantenere
un’adeguata ventilazione. Come osserva E.O. Wilson:
Non è agevole concepire come un membro della colonia possa sorvegliare più di
un’esigua frazione del lavoro di costruzione, o immaginare nella sua totalità il
progetto di un simile prodotto finito. Il completamento di questi nidi richiede molte
generazioni di operaie e ogni nuova aggiunta deve in qualche modo adattarsi
opportunamente alle parti precedenti. L’esistenza di simili nidi porta inevitabilmente
a concludere che le operaie interagiscono in modo ordinato e prevedibile. Come
possono le operaie comunicare in maniera così efficace per periodi di tempo tanto
lunghi? Inoltre, chi ha il progetto del nido?
(citato in Sheldrake, 1988 [2011, p. 284])
Altri naturalisti hanno osservato come le termiti siano capaci di
coordinare le loro attività per armonizzare ai lati opposti delle grandi
aperture le due parti della struttura, anche se tra loro non è possibile
alcuna comunicazione fisica (per esempio, dopo l’inserimento di una
grande lastra d’acciaio tra le due parti).
Sebbene non sia stata fornita per questi fenomeni una spiegazione
meccanicistica soddisfacente, le ipotesi dell’esistenza di campi morfici
e della risonanza morfica potrebbero fornire un modo per
comprendere ciò che è accaduto. Sheldrake suggerisce che la struttura
del nido delle termiti sia organizzata attraverso campi morfici sociali
presenti in tutta la colonia. In un certo senso, si tratta di qualcosa di
simile a una specie di mente collettiva condivisa dall’intera colonia.
Un simile fenomeno può operare anche nei grandi banchi di pesci, i
quali sono capaci di coordinare i loro movimenti con sorprendente
rapidità, meno di un cinquantesimo di secondo. Infatti, esperimenti
sui pesci mostrano che anche quelli che sono stati privati della vista
attraverso l’applicazione di speciali lenti a contatto sono capaci di
muoversi come unità coordinate. Una volta ancora, un campo morfico
sociale – una sorta di mente collettiva – può essere in grado di dare
ragione di quanto accade come una teoria meccanicistica non riesce a
fare.
Oltre il determinismo genetico
La teoria della risonanza morfica – o della causalità formativa –
offre un nuovo nonché affascinante modo di concepire la memoria e,
in realtà, la mente stessa. Come abbiamo visto nell’analisi della teoria
dei sistemi, tuttavia, il nostro concetto di mente dev’essere ampliato
fino a includere tutti i tipi di vita, e non solo gli organismi dotati di
sistema nervoso. La memoria e la mente, infatti, appartengono a tutti i
sistemi viventi, e forse, volendo allargare ancora di più il raggio, a
tutti i sistemi naturali.
Un’area specifica in cui questa concezione ampliata della memoria
e della mente entra in gioco è il processo ereditario negli organismi
viventi. L’attuale ortodossia scientifica attribuisce ai geni un ruolo
preponderante nel determinare lo sviluppo della forma di un
organismo – la sua morfogenesi – così come lo stesso meccanismo
dell’ereditarietà. Se da un lato la teoria della risonanza morfica non
trascura l’importante ruolo dei geni, dall’altro attribuisce loro funzioni
molto più modeste. In questo paragrafo esploreremo i limiti
dell’attuale teoria genetica ed esamineremo in che modo i campi
morfici e la risonanza morfica possono fornire una spiegazione
alternativa – e magari più soddisfacente – del processo ereditario e
dello sviluppo biologico.
Anzitutto, potrebbe sembrare strano contestare l’attuale teoria
genetica. Di certo la genetica ha avuto un notevole successo e ha
elaborato una teoria preziosa, in grado di spiegare tutta una serie di
processi biologici. Molti sostengono infatti che stiamo vivendo l’alba
di un’“era genetica” caratterizzata da potenti tecniche come
l’ingegneria genetica, che potrebbero tranquillamente riconfigurare il
nostro pianeta sotto molti importanti aspetti.
Ma si può anche sostenere che la genetica – o la biologia
molecolare – sia diventata una delle discipline più atomistiche e
riduzioniste della scienza moderna. È quanto sostiene infatti Theodore
Roszak, secondo cui i geni oggi svolgono nella biologia un ruolo
analogo a quello degli atomi nella fisica del XIX secolo e sono, per
molti versi, niente di più che una proiezione mentale che i biologi
applicano alla realtà. Alcuni biologi molecolari arrivano addirittura a
proiettare sui geni tratti di egoismo48.
Questo, forse, non è poi così sorprendente se prendiamo in
considerazione le origini del progetto genetico moderno. In Cloning the
Buddha Richard Heinberg (1999) sostiene che agli albori della biologia
molecolare vi erano due correnti che procedevano parallele. La prima,
finanziata da alcune facoltose famiglie negli Stati Uniti, si fondava sul
pensiero eugenetico e ha provato a dimostrare come tutto fosse
geneticamente determinato. Una conseguenza di questa prospettiva è
che i miglioramenti sociali non provengono da cambiamenti politici o
economici – e nemmeno dal cambiamento dei paradigmi – bensì da un
miglioramento del “corredo genetico” dell’umanità. Se uno è povero,
commette un crimine o soffre di alcolismo o di un disturbo
psicologico, i geni, e non le condizioni sociali, ne sono i responsabili.
La scienza, e non le trasformazioni sociali, possiede le chiavi per
risolvere questi problemi. Ovviamente, una simile corrente di
pensiero può essere confortante per chi appartiene alle élite dominanti
(il quale, ovviamente, è membro dell’élite perché geneticamente
superiore!).
La seconda corrente proviene – e la cosa non sorprende – dalla
fisica newtoniana. Due studiosi di matematica applicata, Max Mason
(1877-1961) e Warren Weaver (1894-1978), lavorarono con la
Fondazione Rockefeller per ricostruire la biologia lungo direttrici
riduzioniste e meccaniciste. Secondo Philip Regal, professore di
Ecologia, evoluzione e comportamento all’Università del Minnesota,
Mason e Weaver,
erano ancor più fortemente impegnanti a sviluppare un’ideologia deterministica e
riduzionistica di quanto non lo fossero i biologi. I biologi erano attratti dall’idea, ma
Mason e Weaner ne furono veramente travolti. Tutto questo ha a che vedere con la
ragione per cui abbandonarono la fisica: erano disgustati dalla fisica quantistica.
L’idea d’indeterminatezza era completamente contraria alla loro natura. Loro
conservavano questa vecchia idea newtoniana di un universo-palla da biliardo: una
volta compreso il meccanismo, ci baseremo su di esso e tutto sarà ridotto alla
meccanica.
(citato in Heinberg, 1999)
Regal prosegue sottolineando come i biologi in un primo momento
respinsero il metodo riduzionista introdotto da Mason e Weaver (e
anche molti chimici e fisici che entrarono nel campo della biologia
molecolare negli anni seguenti fecero la stessa cosa). Tuttavia i
meccanicisti avevano una “corsia preferenziale” per ottenere
finanziamenti sia privati che pubblici, e ciò alla fine portò la biologia
verso paradigmi meccanicisti.
Considerate dunque le origini della biologia molecolare,
dovremmo, forse, nutrire dei sospetti sui suoi apparenti successi.
Mason e Weaver, e coloro che la pensavano come loro, infatti,
ritenevano che con il passare del tempo la teoria quantistica si sarebbe
dimostrata piena di difetti, cosa che invece non è ancora avvenuta. Se
accettiamo che la fisica non ha una natura meccanicista, sarebbe
davvero strano scoprire che la biologia, i cui processi chimici e fisici
coinvolgono a certi livelli fenomeni quantistici, sia meccanicista e
riduzionista. Se non altro, considerata la crescente complessità (e non-
linearità) dei sistemi coinvolti, ci si dovrebbe aspettare che la biologia
sia invece la disciplina meno meccanicista e riduzionista di tutte.
Paul Weiss (1898-1989), uno dei primi biologi a proporre l’idea dei
campi morfogenetici (essenzialmente campi morfici che governano lo
sviluppo degli organismi viventi), sostiene che è ridicolo ascrivere
attributi mentali ai geni. Egli accusa i biologi molecolari di
mascherare la difficoltà del problema attribuendo al gene la facoltà della
spontaneità, il potere di “imporre”, “informare”, “regolare”, “controllare” ecc. il
processo che mette ordine nel suo ambiente non organizzato, «in modo da
trasformare quest’ultimo in un gruppo di lavoro coordinato che culminerà nella
formazione di un organismo completo. Ma non spiegano mai come ciò venga
realmente fatto».
(citato in Goldsmith, 1998)
In realtà, il ruolo accertato dei geni è molto più modesto: i geni
(specifiche sezioni della molecola del DNA) codificano per la struttura
delle proteine di un organismo, compresi i suoi enzimi, fungendo in
un certo senso da calco per le proteine attraverso l’azione mediatrice
della molecola dell’RNA. Tuttavia, come vedremo nel prosieguo della
nostra analisi, si tratta di un processo niente affatto semplice e lineare
come lo abbiamo appena descritto. In ogni caso, però, abbiamo a che
fare con un ruolo assai diverso dall’”imporre, informare, regolare e
controllare” un organismo.
Infatti, se i geni da soli determinassero la struttura e il
comportamento di un organismo, allora le cellule con identica
composizione genetica dovrebbero essere a tutti gli effetti identiche.
Eppure non è così. Le cellule del fegato, le cellule del sangue e le
cellule delle ossa presenti nel nostro corpo condividono tutte gli stessi
geni, ma possiedono diverse strutture e diverse funzioni. I nostri
organi hanno tutti la stessa composizione genetica, ma sono molto
differenti gli uni dagli altri. Come evidenzia Sheldrake, ritenere che
«in presenza dei geni giusti, e quindi delle giuste proteine e dei
sistemi adeguati per il controllo della sintesi proteica, l’organismo
dovrebbe in qualche modo assemblarsi automaticamente» è «più o
meno come trasportare i materiali edili giusti in un cantiere nei
momenti giusti e pretendere che la casa cresca da sé» (1990 [1993, p.
105]).

La teoria meccanicistica dei geni che costituisce il fondamento


della biologia molecolare – e dell’ingegneria genetica in particolare –
si basa in gran parte su ciò che spesso viene definito il “dogma
centrale” della genetica, che fu proposto per la prima volta da Francis
Crick (1916-2004), uno degli scienziati che scoprirono la struttura a
doppia elica del DNA. Nella sua forma più elementare, il dogma
afferma che un gene specifico (essenzialmente una porzione della
molecola di DNA), tramite l’azione mediatrice di una molecola di RNA,
codifica per una proteina specifica, che alla fine si manifesta
nell’organismo come tratto. Per questa ragione dovrebbe esserci una
corrispondenza uno a uno tra il numero dei geni che un organismo
possiede e il numero delle sue proteine. Il percorso dai geni alle
proteine è sempre lineare, e cioè il DNA determina la struttura della
proteina in maniera unidirezionale.
DNA>RNA>PROTEINA>TRATTO
Sebbene molti biologi molecolari concordino sul fatto che questa
versione del dogma sia ormai considerata in certa misura
semplicistica, l’idea di fondo che i geni – specifiche porzioni della
molecola del DNA – determinino in ultima analisi i tratti in maniera
lineare e diretta costituisce, di fatto, il fondamento della moderna
“ingegneria genetica”, la quale prova ad aggiungere o a eliminare
specifici tratti di un organismo inserendo i geni attraverso la
cosiddetta tecnologia del “DNA ricombinante”.
Infatti, se da una parte il “dogma centrale” può risultare
affascinante per la sua semplicità, dall’altra si tratta al più di un “caso
particolare” che non può essere applicato universalmente. Basandosi
sul numero di proteine presenti nel corpo umano, per esempio,
secondo i genetisti nel genoma umano dovrebbero esserci all’incirca
centomila geni che codificano per le proteine. In realtà, sembra che
questi geni raggiungano il numero di venti-venticinquemila (grosso
modo simile alla cifra dei diciannovemila geni trovati negli ascaridi).
Ovviamente, quindi, non esiste un rapporto di uno a uno tra geni e
proteine.
Oggi è altresì chiaro che il modo in cui i geni codificano per le
proteine è in genere molto, molto più complesso di quanto non si
credesse in principio. Contribuisce a questa complessità il processo
dello splicing (‘giunzione’) alternativo, che consente a un gene di
codificare per molteplici proteine. Per esempio, un singolo gene che
codifica per una proteina presente nell’orecchio interno dei polli può
dare vita a cinquecentosettantasei proteine differenti, mentre un
singolo gene presente nel moscerino della frutta può codificare per
oltre trentottomila variazioni di molecole proteiche (Commoner,
2002). Come Barry Commoner spiega:
Lo splicing alternativo ha un impatto devastante sulla teoria di Crick: rompe il
presunto isolamento del sistema molecolare che trasferisce informazioni genetiche da
un singolo gene a una singola proteina. Riorganizzando la sequenza nucleotide in
una molteplicità di nuove sequenze di RNA messaggeri, ciascuno dei quali diversi
dagli rna-unspliced originari, possiamo dire che lo splicing alternativo genera nuove
informazioni genetiche.
(2002)
Il processo dello splicing alternativo contraddice il dogma centrale
anche in un altro modo, in quanto implica proteine “spliceosome” che
influenzano il modo in cui l’informazione genetica viene trasmessa:
«Questa conclusione si scontra con la seconda ipotesi di Crick,
secondo cui le proteine non possono trasmettere informazioni
genetiche all’acido nucleico (in questo caso all’RNA messaggero), e
frantuma l’elegante logica della doppia elica delle tesi genetiche di
Crick» (Commoner, 2002), secondo cui i geni codificano per le
proteine in una corrispondenza di uno a uno e l’informazione si
muove sempre dal gene alla proteina in maniera unidirezionale.
Secondo Commoner, lo stesso Crick ha affermato che abbiamo a che
fare con «“la scoperta di un nuovo tipo di cellula” in cui le
informazioni genetiche passano dalla proteina all’acido nucleico e
dalla proteina alla proteina, “scoperta che sconvolgerà l’intero
impianto concettuale della biologia molecolare”» (2002).
Infatti i geni, da soli, non sono neanche responsabili della fedeltà
della loro replicazione: proteine specializzate intervengono per evitare
che si compiano molti errori. Così, se i geni giocano un ruolo chiave
nel determinare la forma delle proteine, anche le proteine, da parte
loro, svolgono un ruolo nel determinare il modo in cui l’informazione
genetica viene replicata e trasmessa, suggerendo una sorta di causalità
reciproca (e non lineare). Il successo della replicazione del DNA, infatti,
dipende olisticamente dall’intero ambiente cellulare (o dal “sistema
epigenetico”).
La tesi che un gene specifico prelevato da un organismo
funzionerà allo stesso modo in un altro organismo in molti casi è falsa.
Per esempio, diversi geni associati al cancro nei topi non lo sono negli
esseri umani (Capra, 2002 [2012]). Lo stesso gene può svolgere compiti
completamente diversi in specie differenti. Il funzionamento dei geni
sembra dipendere dal contesto genetico complessivo (e forse cellulare)
in cui essi si trovano. Il ruolo di geni singoli in quanto unici
trasmettitori dell’ereditarietà, dunque, è stato notevolmente esagerato.
In effetti, si potrebbe arrivare a mettere in discussione l’intera
nozione di “geni”. L’idea di una sezione specifica della molecola del
DNA che codifica per una determinata proteina – e ancor di più,
determina un tratto – semplicemente in molti casi non corrisponde al
vero. Non solo un gene può codificare per più di una proteina
(contribuendo alla nascita di più tratti), ma a volte un singolo tratto
sembra essere determinato da più geni, che si trovano talvolta in
cromosomi completamente differenti (Capra, 2002 [2012]). Forse è
priva di senso l’idea stessa di separare e di delimitare specifiche
sezioni del DNA e chiamarle “geni”? Di certo il materiale genetico
sembra funzionare in maniera molto più olistica di quanto non si fosse
in un primo tempo ipotizzato.
L’intera questione del cosiddetto DNA spazzatura – che in maniera
più appropriata dovremmo chiamare “DNA misterioso” – dovrebbe
essere considerata in questa luce. Nel caso degli esseri umani,
all’incirca il 97 per cento del materiale genetico sembra non svolgere
alcun ruolo nella codifica delle proteine. Qual è il ruolo di questo DNA?
Alcuni biologi lo considerano un prodotto del materiale genetico non
più in uso, ma allora perché lo conserviamo? E perché esistono tante
sequenze genetiche ridondanti? È possibile che questo DNA possegga
alcune funzioni che semplicemente non comprendiamo ancora?
Sicuramente, dato che lo stesso gene può avere differenti ruoli in
differenti organismi, non è irragionevole pensare che quest’ampio
“contesto genetico” svolga delle funzioni nell’organismo.
Ciò che appare chiaro è che il ruolo dei geni – o forse, detto più in
generale, il ruolo del DNA – è molto più complesso di quanto all’inizio
la biologia molecolare avesse supposto. L’idea di una corrispondenza
uno a uno tra geni e proteine (molto meno tra geni e tratti) sembra se
non altro semplicistica, un caso piuttosto particolare a partire dal
quale non possiamo generalizzare. Adesso sembra, per fare un
esempio, che solo il 2 per cento delle malattie umane siano associate a
singoli geni. L’idea che possiamo estrarre un gene da una specie e
inserirlo a caso in un’altra e che una volta lì esso funzioni
normalmente – la premessa dell’ingegneria genetica basata sulla
tecnologia di ricombinazione del DNA –, sembra nella gran parte dei
casi fallace. Solo circa l’1 per cento, infatti, degli esperimenti genetici
di questo tipo ha successo (Capra, 2002 [2012]) e normalmente
coinvolge tratti piuttosto semplici. Ma anche in questo caso, dato che
il DNA dipende da processi cellulari complessi per garantire la sua
fedele replica, non possiamo sostenere che un DNA estraneo continuerà
a replicare fedelmente nelle generazioni future. Se, in effetti, i geni
funzionano olisticamente all’interno del più ampio contesto del loro
“DNA misterioso”, occorre allora sollevare la questione anche per
quanto riguarda il modo in cui un DNA estraneo potrebbe
impercettibilmente distorcere il genoma complessivo di un
organismo, generando forse effetti non immediatamente apprezzabili.

Se l’idea di geni che determinano proteine in maniera lineare e


unidirezionale è problematica, l’idea di un “programma genetico” che
determini i tratti, la forma e lo sviluppo di un organismo sembra
ancora più difficile da accettare. Come abbiamo evidenziato, in un
organismo le cellule condividono un genoma comune, eppure si
sviluppano e funzionano in modi differenti. Anche i gemelli identici
che condividono lo stesso genoma sono concordanti solo al 90 per
cento, allorché si comparano le dieci principali caratteristiche fisiche
(Hillman, 1996 [2013]). Per esempio Sydney Brenner, professore
associato di biologia al Salk Institute, sottolinea che
all’inizio si diceva che la risposta alla comprensione dello sviluppo stava per
giungere dalla conoscenza dei meccanismi molecolari di controllo genetico. Dubito
che si possa ancora credere a ciò. I meccanismi molecolari sembrano noiosamente
semplici, e non ci dicono quello che vogliamo sapere. Dobbiamo cercare di scoprire i
principi di organizzazione.
(citato in Sheldrake, 1988)
Una spiegazione di questi principi di organizzazione può essere
fornita, in realtà, attraverso i campi morfici. Il concetto di campo
morfico ha origine dallo studio dello sviluppo dell’embrione – o
morfogenesi –, in cui l’idea di campo “morfogenetico” fu proposta da
scienziati come Hans Spemann (1869-1941), Alexander Gurwitsch
(1874-1954) e Paul Weiss per spiegare in che modo le cellule con la
stessa eredità genetica si differenziano e si sviluppano in maniera
diversa. Essi sostennero che il campo morfogenetico fosse il
responsabile sia dell’organizzazione dello sviluppo dell’organismo
che del processo di rigenerazione successivo a una lesione.
Nella teoria dei campi morfici di Sheldrake i geni giocano un
ruolo, ma quel ruolo è limitato alla codifica delle proteine e non
attiene alla programmazione della forma e allo sviluppo dell’intero
organismo (data la complessità del processo di codifica delle proteine
e il rapporto di causalità reciproca implicato, infatti, i campi morfici
potrebbero svolgere un ruolo nella formazione delle proteine). Questo
ruolo nel caso dei geni – quantunque importante – è molto più
modesto di quanto la maggior parte dei biologi molecolare pensi.
Dalla prospettiva dei campi morfici sembra più facile comprendere
come gli esseri umani possano condividere tra il 96 e il 99 per cento
del loro genoma con gli scimpanzé. Una tale somiglianza non significa
che la nostra forma è quasi identica (sebbene ovviamente vi sia una
strettissima parentela), ma piuttosto che le nostre proteine (e cioè la
nostra composizione chimica) sono quasi identiche. Il 29 per cento dei
nostri geni, infatti, codifica per le stesse proteine, e persino le proteine
che differiscono variano in genere solo leggermente dai loro omologhi
negli scimpanzé.
Un possibile ruolo aggiuntivo che i geni possono svolgere è
rappresentato per Sheldrake dalla loro possibilità di “sintonizzarsi”
con il campo morfico, come una radio o un televisore. Ciò potrebbe
anche suggerire un possibile ruolo del DNA misterioso, che
rappresenta una così ampia porzione del genoma degli organismi
viventi. In ogni caso, dalla prospettiva della risonanza morfica, i soli
geni non determinano la forma e lo sviluppo, ma interagiscono con
l’olarchia nidificata dei campi morfici che contiene informazioni
formative. Questo processo interattivo potrebbe tranquillamente
coinvolgere fenomeni quantistici. Come suggerisce David Peat, per
esempio:
La stessa molecola di DNA sarebbe costantemente informata su ciò che la
circonda e, a sua volta, alcune delle sue “informazioni nascoste” potrebbero, per
esempio, essere attivate. È anche possibile che l’intera cellula agisca in maniera
intelligente, provocando modificazioni all’interno del proprio DNA. In altre parole,
una mutazione dell’organismo sarebbe la risposta di tipo cooperativo a qualche
cambiamento complessivo nel contesto globale in cui vive la cellula, piuttosto che un
evento meramente casuale e privo di scopo. L’evoluzione diventerebbe un processo
di cooperazione, il risultato di un costante dialogo tra altre forme di vita e il loro
ambiente.
(1991)
Nella prospettiva dei campi morfici, dunque, i geni conservano un
ruolo, ma non sono più visti come agenti meccanicistici che
contengono un programma per la formazione e lo sviluppo
dell’organismo. Sheldrake ritiene infatti che i geni – proprio come il
cervello – siano stati sopravvalutati. Sicuramente sia il cervello che i
geni sono importanti, ma fungono da interfaccia tra l’organismo e i
campi morfici. Primario è il fenomeno della risonanza morfica,
evidente nelle dinamiche di autoorganizzazione e della memoria, e
non gli agenti materialistici e meccanicistici come i geni e il cervello.
Dalle leggi eterne alle abitudini in evoluzione
Come abbiamo visto nell’analisi della natura della mente e dei
limiti del determinismo genetico, la risonanza morfica mette in
discussione l’interpretazione meccanicistica della memoria, della
mente, dell’ereditarietà e dello sviluppo biologico. Un’altra
caratteristica fondamentale dei campi morfici, già vista in precedenza,
è data dalla loro natura dinamica ed evolutiva. I campi morfici nel
corso del tempo cambiano. Nuove informazioni vengono aggiunte, la
memoria collettiva cresce ed emergono nuovi campi.
In effetti, secondo la teoria della risonanza morfica, il cosmo ha
una natura intrinsecamente evolutiva. Questa prospettiva confligge
con la visione dualistica che abbiamo ereditato dal XIX secolo e che
immagina la vita sulla Terra come un processo evolutivo, continuando
però a concepire il resto dell’universo in quanto fondamentalmente
statico e governato da leggi eterne. Da allora i fisici hanno
gradualmente compreso che la stessa struttura del cosmo è qualcosa
che si evolve; eppure l’idea di leggi eterne e matematiche persiste,
praticamente indiscussa.
Ciononostante, la credenza nelle leggi eterne non è altro che
questo, una credenza, qualcosa che non è mai stato oggetto di un serio
esame. Dato che si tratta di un principio che ha avuto origine nella
scienza della rivoluzione newtoniana, ci sono fondate ragioni per
domandarsi se questa credenza corrisponda, di fatto, alla realtà. Per
molti versi, essa sembra provenire da una concezione teologica che
vede in Dio il “motore immobile” e l’eterno legislatore. Che cosa
succederebbe se le leggi eterne in realtà non esistessero? Cosa
succederebbe se fossero solamente delle proiezioni filosofiche imposte
al mondo affinché abbia un senso e, magari, per controllarlo?
Se accettiamo la teoria cosmologica moderna secondo cui
l’universo è sorto da un improvviso dispiegarsi di spazio e tempo in
quello che generalmente viene chiamato Big Bang, allora il vuoto che
precedette la genesi del cosmo è privo di materia, energia, spazio e
tempo. Forse la mente – nella forma che molti di noi concepiscono
come Dio – esisteva in quel “vuoto gravido” (o ordine implicato)
pieno di possibilità. Ma pensarla così significa voler credere che le
leggi della fisica siano state fissate in anticipo, e che non cambieranno
mai? Non sembra che tutto ciò sia in contrasto con quella natura
evolutiva che pare intrecciata nella trama stessa del cosmo? Come
afferma Sheldrake:
Il presupposto di leggi della natura eterne è l’ultima grande eredità della vecchia
cosmologia, di cui siamo raramente consapevoli. Ma, se consideriamo attentamente
questo presupposto, vediamo che è solo una tra le tante possibilità. Forse le leggi
della natura sono venute in essere nell’istante del Big Bang, oppure sono sorte per
gradi, per poi rimanere invariate in seguito. Ad esempio, le leggi che governano la
cristallizzazione dello zucchero possono essere venute in essere quando le molecole
dello zucchero si sono cristallizzate da qualche parte dell’universo, e possono essere
divenute invariabili e universali a partire da quel momento. Oppure, le leggi della
natura si sono evolute assieme alla natura. Forse stanno ancora evolvendo. O forse
non sono leggi, ma abitudini. Forse lo stesso concetto di “leggi” è impreciso.
(1988 [2011, pp. 26-27])
Se immaginiamo il cosmo come una specie di sistema vivente,
come qualcosa che somiglia più a un organismo che a una macchina,
allora l’idea di un cosmo dotato di memoria e di abitudini contenute
in un campo morfico in evoluzione apparirebbe plausibile almeno
quanto le leggi eterne e immodificabili. Sicuramente, tra le possibilità
che Sheldrake delinea, l’idea di abitudini o leggi che evolvono
sembrerebbe quella più coerente con una prospettiva evolutiva.
In effetti, l’intero concetto di leggi fisiche – a un esame più attento
– sembra sotto molti aspetti ben più misterioso di quello di campi
morfici. Sappiamo che esistono campi di varie specie, e in una
prospettiva quantistica, infatti, i campi sembrano essere addirittura
più importanti della materia o dell’energia. Le leggi, d’altro canto,
sono molto più ineffabili. Perché allora dovremmo credere che
debbano esistere le leggi della fisica?
Nel contesto del XVII secolo, naturalmente, la metafora della legge
sembra abbastanza comprensibile. Se Dio è considerato il legislatore
eterno e immutabile, allora delle leggi eterne devono governare il
cosmo. Su un piano più ideologico, quello di leggi eterne e immutabili
è un concetto utile anche ai potenti, a coloro che cercano conforto e
sicurezza in un universo plasmato a immagine di un bel giardino
inglese.
Nell’ottica del XX secolo e della fisica moderna, invece, tale visione
è molto meno “naturale” di quanto si potrebbe supporre. Perfino nel
campo della teologia, l’idea di un Dio legislatore eterno e immutabile
appartiene agli elementi più conservatori delle diverse tradizioni
religiose. Il Dio dei mistici, il Dio che continuamente crea e rinnova, il
Dio che è compassione, il Dio che ascolta le invocazioni dei poveri e
che risponde, il Dio liberatore è in contrasto con il Dio che impone
rigide leggi eterne.
Tornando al campo della fisica, sicuramente possiamo dire che
nella natura sembrano esserci delle regolarità. Il cosmo possiede una
forma e un ordine riconoscibili di cui la mente può dare una
spiegazione, almeno in una certa misura. Ma, come osserva Sheldrake:
«Non c’è nessuna base per supporre che queste regolarità siano eterne.
Le regolarità all’interno dell’universo in evoluzione evolvono: questo
è il significato dell’evoluzione» (1988 [2011, p. 28]). Invece di leggi, il
cosmo può tranquillamente avere abitudini, alcune delle quali
profondamente radicate, ma tutte aperte alla possibilità di evolversi
nel tempo.
L’idea di abitudini che evolvono, più che di leggi eterne, non è del
tutto nuova. Si deve pensare che per popoli tradizionali che vedono il
cosmo come un organismo vivente una simile idea è naturale, anche
se non esplicitata. All’inizio del XX secolo, alcuni filosofi come Charles
Peirce (1839-1914) e Friedrich Nietzsche (1844-1900) cominciarono ad
avanzare l’ipotesi che l’evoluzione delle abitudini fosse un’estensione
naturale della teoria evoluzionistica. Per Peirce il cosmo intero doveva
essere considerato un’entità vivente con una mente e, come ha detto
egli stesso, «la legge dell’abitudine è la legge della mente». Anche la
materia è pervasa dalla mente, sebbene nella materia la mente sia stata
«indebolita dallo svilupparsi di abitudini sino al punto in cui
infrangere queste abitudini diventa molto difficile» (citato in
Sheldrake, 1988 [2011, p. 29]). Nietzsche credeva che le “leggi” della
natura si fossero evolute e fossero state sottoposte a una qualche
forma di selezione naturale.
In realtà, furono molti i filosofi che tra la fine del XIX secolo e gli
inizi del XX ragionarono sull’evoluzione delle abitudini del cosmo o
delle leggi. Secondo Sheldrake (1988 [2011]), queste idee persero
gradualmente d’interesse, in quanto i fisici, tra cui anche Einstein49,
insistevano sul fatto che la natura dell’universo fosse eterna e le sue
leggi immutabili. Eppure, da quel momento i fisici stessi modificarono
le loro concezioni, se non altro in termini di evoluzione e di sviluppo
della struttura del cosmo su larga scala. Ormai non si ritiene più che la
vita sulla Terra sia un’eccezione in un universo statico. Sono le leggi
eterne, invece, a essere un’eccezione. Eppure, se il carattere di fondo
del processo cosmico sembra essere evoluzionistico, l’idea di una
natura che ha abitudini che mutano nel tempo (anche se preferiamo
chiamarle “leggi dell’evoluzione” per rendere il termine più appetibile
alla nostra mentalità consolidata) sembra più logica e coerente
nell’ambito della visione del cosmo emersa negli ultimi decenni.
È interessante notare che un mondo governato a un livello
profondo da leggi eterne è un mondo che ha una natura
essenzialmente conservatrice e statica. Una cosmologia basata su leggi
eterne – a un livello profondo e, forse, inconscio – non fa che
perpetuare le solite tesi sui limiti di un’autentica trasformazione.
Siamo arrivati a credere che quello che sarà sarà sempre, nel migliore
dei casi, una riorganizzazione di ciò che c’è stato prima. Un’autentica
novità sembra impossibile: cambiamenti radicali nell’ordine del
mondo semplicemente non possono avvenire.
Ovviamente, una visione del mondo evoluzionistica mette in crisi
alcune di queste tesi conservatrici – ma non completamente, almeno
non fino a quando le leggi eterne resteranno alla base di tutto. Di
contro, il concetto di abitudine è molto più promettente. È vero che le
abitudini possono essere difficili da cambiare, specialmente se sono
radicate, tuttavia la possibilità di cambiamento esiste sempre. Inoltre,
un gruppo di persone che lavorano insieme possono sempre plasmare
comportamenti diversi e dar vita a nuove abitudini. L’autentica novità
è sempre una possibilità, ciò che sarà non è prestabilito da ciò che è
stato.

Nel caso dei fenomeni generalmente associati alla fisica, è difficile


provare effettivamente che siano all’opera abitudini consolidate
piuttosto che leggi eterne, poiché le abitudini consolidate, per loro
stessa natura, appaiono immutabili, in particolare per quanto riguarda
quel piccolo frammento di tempo che è stato lo sviluppo della scienza
moderna. Ciononostante, ci sono alcuni interessanti esempi che
corroborano l’idea di un cosmo ordinato attraverso campi morfici che
contengono abitudini anziché leggi eterne.
Esistono prove, per esempio, del fatto che molte costanti
fondamentali della fisica variano nel tempo, anche se di poco. Per
esempio la costante gravitazionale (in genere designata dalla lettera
G) normalmente corrisponde a (6.674±0,003) x 10-11 m3 kg-1 s2.
Eppure, nel 1986, dei ricercatori in Australia hanno determinato che G
fosse 6.674±0,002, e altre misurazioni negli Stati Uniti, in Germania, in
Nuova Zelanda e in Russia hanno mostrato variazioni anche più
significative. Esiste, naturalmente, la possibilità che questi dati siano
ricondotti a qualche difetto negli apparecchi usati per l’esperimento,
eppure nelle molte misurazioni della costante G si è fatto uso sempre
dello stesso tipo di apparecchio (Sheldrake, 1995).
Parimenti, in base ad alcune indicazioni la stessa velocità della luce
(c) può variare nel tempo. In particolare, risulta che la velocità della
luce possa essere calata di 20km/s durante il periodo che va dal 1928 al
1945, prima di ritornare al suo valore consueto (Sheldrake, 1995).
Questo dato è particolarmente interessante perché diversi scienziati,
in quello stesso arco di tempo, utilizzando metodi differenti ottennero
gli stessi risultati. Una volta ancora, non si possono prendere tali dati
come prove del fatto che le costanti, di fatto, cambino, ma sicuramente
questo tipo di piccole variazioni sono più coerenti con l’idea
dell’esistenza di abitudini che si sono consolidate che con quella della
presenza di leggi eterne.
Nel campo della chimica, la prova della natura evolutiva delle
abitudini si mostra in maniera più netta, forse in parte perché
continuano a essere sviluppate nuove strutture e sostanze chimiche, il
che forse fa sì che le abitudini relative non abbiano il tempo necessario
per radicarsi. Sheldrake (1988 [2011]) osserva che i nuovi composti
chimici sintetizzati sono spesso estremamente difficili da cristallizzare,
impiegando molte settimane per formare una soluzione supersatura.
Col passare del tempo, però, diventa sempre più facile cristallizzare il
composto in qualunque parte del mondo. Sembrerebbe che, una volta
che l’abitudine della cristallizzazione si sia stabilita, il cristallo in
questione diventi più facile da sintetizzare.
Avvicinandosi al campo della biologia, il fenomeno del
ripiegamento proteico sembra essere altresì coerente con i campi
morfici e l’idea di un’attività abituale. Una volta che una proteina è
denaturata (cioè sciolta in una catena flessibile di polipeptidi,
perdendo la sua forma originaria), essa si riavvolge rapidamente nella
sua precedente configurazione. Eppure il modo in cui le catene
polipeptidiche possono distendersi è praticamente illimitato. Per
esempio, una proteina formata da circa un centinaio di aminoacidi ha
pressappoco 10100 (uno seguito da cento zeri, o “googol”) di possibili
configurazioni. Se per una proteina fosse necessario tentare a caso
ciascuna di queste combinazioni, per trovare la sua forma
impiegherebbe un intervallo di tempo di molto superiore all’intera
storia del cosmo. Eppure, in realtà, il processo richiede solo una
manciata di secondi. Sembra che la proteina in qualche modo abbia
“memoria” della corretta configurazione, pur tra le innumerevoli
possibili. Come ciò possa avvenire non è del tutto chiaro. Nessuno ha
ancora trovato l’informazione necessaria codificata nella proteina. La
teoria della risonanza morfica è in grado di offrire una possibile
spiegazione per la conservazione di una memoria collettiva delle
proteine: si tratta in sostanza di un’abitudine formatasi nel tempo.
Come osserva Sheldrake:
I campi [...] incanalano il processo di ripiegamento verso un punto finale
caratteristico [...] Tra i molti, possibili modi di ripiegamento e le molte, possibili
forme finali. [...] I campi morfici sono a loro volta stabilizzati dalla risonanza morfica
con innumerevoli strutture precedenti dello stesso tipo. Un lungo processo evolutivo
ha stabilizzato le strutture che si sono rivelate adatte e sono state quindi favorite dalla
selezione naturale; e il grande numero di queste molecole precedenti esercita un forte
effetto stabilizzante sui campi per risonanza morfica.
(1988 [2011, p. 145])
A ulteriore sostegno dell’ipotesi della risonanza morfica, Sheldrake
osserva che molte proteine hanno strutture simili anche se i loro
componenti aminoacidi variano parecchio, il che farebbe pensare che
l’informazione per il distendersi della proteina sia contenuta in un
campo morfico piuttosto che negli aminoacidi stessi. Per esempio, le
molecole di emoglobina trovate in molti animali e in alcune piante
condividono una struttura comune, ma solo tre su centoquaranta-
centocinquanta aminoacidi sono stati riscontrati costantemente nelle
molecole di emoglobina di specie differenti.
La risonanza morfica può anche spiegare le similarità riscontrate
negli ecosistemi composti da specie molto differenti tra loro. Per
esempio, Tim Flannery osserva che quindici milioni di anni fa la fauna
della savana nordafricana aveva una sorprendente somiglianza con
quella presente nell’Africa odierna:
Alcuni ricercatori hanno cercato spiegazioni nell’idea della coevoluzione. Costoro
sostengono che ogni specie sulla Terra è stata formata dalle interazioni con le altre
specie nel suo ambiente e che nella savana le scelte possibili per le varie specie in
competizione sono limitate. I grandi erbivori che si cibano di foglie, dicono questi
ricercatori, dovevano avere le fattezze delle giraffe per raggiungere il cibo in cima
agli alberi, mentre sarebbe stato meglio che gli erbivori che si cibano di erbe fossero
stati veloci e migratori come i cavalli, semiacquatici come gli ippopotami o enormi e
ben corazzati come i rinoceronti bianchi. Altri ricercatori contestano questa tesi,
spiegando che eventuali somiglianze possono essere dovute a una coincidenza.
(2001)
Un esempio ancora più sorprendente si trova nella storia evolutiva
dell’Australia, dove i marsupiali hanno assunto una grande varietà di
forme incredibilmente simili a quelle assunte altrove dai mammiferi
placentati. Per esempio, il petauro marsupiale è molto simile allo
scoiattolo volante, il lupo della Tasmania è molto simile a un lupo
placentare. In un’ottica leggermente diversa, possiamo dire che
l’occhio del polpo è strutturalmente molto simile all’occhio umano,
sebbene si sia evoluto separatamente.
Questo tipo di “evoluzione convergente” è facile da spiegare se si
considera la memoria come qualcosa che è contenuto nei campi
morfici, i quali portano a forme che, una volta affermatesi, tendono a
ripetersi. Ciò spiega anche perché l’evoluzione possa avvenire
attraverso “salti” (una rapida esplosione di nuove specie seguita da
lunghi periodi di relativa stabilità). Una volta che nuove abitudini,
forme e tratti si sono affermati, essi cominciano rapidamente a
diffondersi, ma il primo emergere di un nuovo tratto richiede molto,
molto più tempo, poiché il suo campo morfico non è ancora emerso.
Creatività e cambiamento
Se da un lato nella natura il concetto di abitudine è più dinamico
ed evolutivo rispetto alle leggi eterne, dall’altro implica ancora un
elemento conservatore che sembra condizionare la prassi
trasformativa. I fenomeni fisici devono seguire modelli riconoscibili, e
gli organismi devono comportarsi e svilupparsi lungo linee
prestabilite. Ciò non vuol dire che, tuttavia, la novità non emerga di
tanto in tanto. L’intera natura evolutiva della vita sulla Terra – nonché
l’intero dramma dell’evoluzione cosmica – indica che è all’opera
un’innata creatività.
Dalla prospettiva della risonanza morfica emergono due ordini di
creatività. Il primo – e il più debole dei due – agisce nell’ambito dei
campi morfici esistenti. In questo caso c’è un livello di adattabilità, di
flessibilità e anche d’intraprendenza che contribuisce all’evoluzione
del campo morfico, ma gli attrattori (o modelli di comportamento)
caratteristici del campo restano essenzialmente gli stessi. Questo
fenomeno è evidente nell’esempio della cinciarella che contrae una
nuova abitudine (aprire le bottiglie di latte) che le consente di
adattarsi meglio al proprio ambiente.
Allo stesso tempo, esiste anche un ordine più alto di creatività,
evidenziato dall’emergere di campi completamente nuovi e con tutta
una nuova serie di attrattori. La sintesi di un composto chimico del
tutto nuovo è un esempio di questo fenomeno. Anche un “salto” nel
processo evolutivo, o l’emergere di un nuovo tipo di organizzazione
sociale nella società umana, è prova di quest’ordine di creatività più
elevato.
Ciò che appare evidente dal punto di vista della risonanza morfica
è che i cambiamenti di forma influenzano il campo morfico e il
cambiamento del campo morfico a sua volta influenza la forma.
Entrambi coevolvono nel tempo in maniera reciproca. Sheldrake (1988
[2011]) sintetizza così le caratteristiche di questo processo da una
prospettiva morfica:
1. L’apparire di nuove forme – o di nuovi modelli di
organizzazione (o anche di nuovi paradigmi) – è sempre associato
all’emergere di un nuovo campo morfico.
2. Non tutti i campi morfici che emergono continueranno a esistere
nel futuro: i campi morfici sono soggetti a processi di selezione
naturale. Quelli che non sono realizzabili scompaiono, mentre quelli
che hanno successo si stabilizzano nel corso del tempo.
3. L’ereditarietà negli organismi viventi si ha in primo luogo
attraverso l’ereditarietà dei campi morfici, mediante la risonanza
morfica, e non tramite modificazioni selettive dei geni.
4. I campi morfici si differenziano e si specializzano nel tempo,
alcuni diventano più probabili e stabili degli altri.
Per fornire un esempio tangibile di questo processo evolutivo
Sheldrake cita il fenomeno dell’evoluzione punteggiata, in cui sembra
che l’evoluzione subisca improvvisi salti per poi stabilizzarsi:
Molti paleontologi hanno dedotto dagli studi sui fossili che, quando inizia una
nuova linea evolutiva (quando appaiono nuove strutture fisiche), avviene spesso una
«forte irradiazione di tipi, una “fase esplosiva”, nella prima parte della loro
filogenesi; ma poi solo un numero limitato di rami continua a svilupparsi, e a velocità
sempre minore» (Rensch 1959). Un esempio è l’esplosione adattiva dei mammiferi
dopo l’improvvisa estinzione dei dinosauri 60 milioni di anni fa. La maggior parte
dei mammiferi comparve entro circa 12 milioni di anni: carnivori, balene, delfini,
roditori, marsupiali, formichieri, cavalli, cammelli, elefanti, pipistrelli e molti altri. E
la maggior parte di questi mammiferi esiste ancora oggi.
(1988 [2011, p. 345])
Dal punto di vista dei campi morfici, il fenomeno dell’evoluzione
punteggiata è facilmente comprensibile. I campi morfici sono
normalmente abbastanza stabili, ma quando si ha un avanzamento
verso una forma completamente nuova (per esempio quando si
raggiunge un punto di biforcazione), il nuovo campo morfico che lo
accompagna inaugura tutta una nuova serie di modelli o di
“variazioni sul tema” che si verificano attraverso il fenomeno della
risonanza morfica. Nel corso del tempo, grazie al processo della
selezione naturale, alcuni nuovi campi morfici vengono eliminati,
mentre altri si stabilizzano, diventando via via sempre più abituali.
Ciò non significa, naturalmente, negare che si verifichi anche un
processo di selezione naturale a livello genetico. Quegli organismi le
cui forme si sono meglio adattate al proprio habitat avranno maggiore
successo, e i loro geni, ovviamente, si diffonderanno più rapidamente
e col tempo diventeranno più comuni, mentre i geni di quelli che
hanno avuto meno successo diminuiranno di conseguenza. La
selezione genetica, insomma, avviene; ma dalla prospettiva della
risonanza morfica il processo fondamentale in atto a livello evolutivo
è la selezione naturale e la stabilizzazione dei campi morfici e delle
loro forme o modelli di organizzazione corrispondenti. Sheldrake
osserva che, sebbene questo modo di concepire l’evoluzione si accordi
con la teoria di Darwin, nel senso che riconosce il potere
dell’abitudine, se ne distingue nella misura in cui consente che
avvengano cambiamenti sia repentini che graduali nel corso del
tempo. Di contro, la teoria di Darwin spiega i cambiamenti graduali
abbastanza bene, ma non può spiegare i “salti” improvvisi che
caratterizzano la “fase esplosiva” dell’evoluzione.
La prospettiva morfica sembra guadagnare ulteriore credito se
consideriamo il fatto che l’”evoluzione punteggiata” si verifica non
solo negli organismi ma anche in altri fenomeni. Come osserva
Sheldrake: «Fasi esplosive simili potrebbero essere avvenute
nell’evoluzione dei modelli di comportamento istintivo,
nell’evoluzione dei linguaggi umani, e delle forme sociali, politiche e
culturali» (1988 [2011, p. 383]).
Perché avviene ciò? Innanzitutto, quando siamo in presenza di un
nuovo tema o di una nuova forma, vi è un’ampia sperimentazione con
variazioni – ma c’è anche un numero limitato di varianti veramente
nuove che possono essere sperimentate. Col tempo, alcune di queste
variazioni danno prova di essere migliori di altre. Parecchie vengono
scartate o si estinguono, mentre le poche che hanno successo
prendono il sopravvento. Queste versioni diventano poi via via
sempre più abituali.
Inoltre, i campi morfici sembrano avere una sorta di tensione yin e
yang tra abitudine e creatività. Da un lato, i modelli o gli attrattori del
campo hanno una natura conservatrice. Dall’altro, anche all’interno
dei comportamenti abituali, come abbiamo avuto modo di vedere
nell’analisi sulla teoria dei sistemi, una certa misura di adattabilità e di
flessibilità è essenziale. Ciò corrisponde al comportamento di un
sistema intorno a un attrattore. Non è mai prevedibile, ma viene
costretto in determinati limiti creati dall’attrattore stesso.
Eppure, sporadicamente, avviene un “salto”, e sorge un attrattore
completamente nuovo, così come un campo del tutto nuovo. Che cos’è
che genera questo evento? Ancora una volta, rifacendoci alla nostra
analisi della teoria dei sistemi, possiamo vedere che un forte stress
può spingere un sistema oltre i limiti del suo vecchio attrattore, campo
o paradigma. In alcuni casi questo stress può causare l’eliminazione a
titolo definitivo del vecchio campo morfico e delle forme che vi si
accompagnano, ma in altri può sorgere un campo totalmente nuovo,
organizzato intorno a un attrattore o a un modello nuovi.
Dal punto di vista della teoria della risonanza morfica, la creatività
incarnata da questo tipo di salti viene vista come una proprietà
intrinseca ai campi morfici. Non bisogna credere, tuttavia, che i nuovi
campi siano in qualche modo presenti dall’eternità, come le forme
platoniche, in attesa che una forma le incarni. Piuttosto, i campi
evolvono e sono essi stessi dinamici. In quest’ottica, dunque, nulla è
predeterminato; l’autentica creatività appartiene alla natura stessa del
cosmo. Questo non significa che non possa esserci una meta ultima o
un fine nella storia del cosmo, ma il percorso verso una simile meta
non è certo predeterminato. È possibile, inoltre, che le stesse mete
possano col tempo mutare.
Risonanza morfica e prassi trasformativa
Il punto di vista morfico ha importanti implicazioni per la prassi
trasformativa. Da un lato, la natura conservatrice dei campi morfici
mostra le difficoltà di superamento di abitudini ben radicate. Eppure,
l’autentica creatività e i “salti” qualitativi verso nuove forme,
paradigmi e pratiche rappresentano spesso anche una possibilità, in
particolare nei momenti in cui le vecchie forme sono sottoposte a forti
sollecitazioni e non sono più capaci di far fronte alla realtà in tempo di
crisi.
Un cosmo in cui sono in gioco campi morfici – come il cosmo della
teoria dei sistemi – è un cosmo in cui non regnano né il rigido
determinismo della causalità lineare né il cieco caso, ma un cosmo in
cui l’emergere della creatività è sempre possibile. La forma influenza
il campo, e il campo influenza la forma a sua volta. La causalità,
quindi, diventa qualcosa di complesso e creativo. Nemmeno le leggi
della fisica sono davvero statiche e immodificabili, tutte le abitudini
sono aperte al cambiamento. L’autentica trasformazione è sempre
possibile; un cambiamento veramente liberatorio può sempre
accadere.
Come abbiamo visto, i campi morfici ci consentono di
comprendere il fenomeno dell’evoluzione punteggiata in maniera
nuova. Se questo fenomeno è governato dalla nascita di nuovi campi
morfici, lo stesso tipo di “salto creativo” può verificarsi (e si verifica)
in ambiti nuovi. Sheldrake stesso ha osservato che la natura
conservatrice dei paradigmi rappresenta un ottimo esempio del
carattere abitudinario dei campi morfici, ma che la natura creativa ed
evolutiva dei campi morfici dimostra anche che un salto verso nuovi
paradigmi è sempre possibile. Un simile salto, infatti, può avere una
natura sia improvvisa quanto profondamente creativa. Riferendosi al
paradigma scientifico, Sheldrake osserva:
La comparsa di nuovi campi morfici e di nuovi paradigmi non può essere
completamente spiegata con quello che c’era prima. I nuovi campi cominciano come
idee, salti intuitivi, ipotesi o congetture. Somigliano ai cambiamenti mentali. Nuove
associazioni o modelli di connessione vengono in essere improvvisamente attraverso
una specie di “cambiamento gestaltico”. Gli scienziati spesso usano l’espressione “far
cadere le bende dagli occhi” o parlano di “lampo” che “illumina” un problema che
era precedentemente impenetrabile, di modo che venga visto per la prima volta in un
modo nuovo e dunque risolto.
(1988)
Su un piano più spirituale, ciò che il buddhismo zen definice satori
(‘illuminazione’) sembra corrispondere a questo stesso tipo di salto
creativo. Dopo anni di meditazione e d’intensa pratica spirituale, una
persona può improvvisamente avanzare verso un modo totalmente
nuovo di percepire la realtà e di vivere nel mondo. L’aspetto
interessante di questo esempio è che le pratiche zen in realtà sono
pensate per incubare una sorta di crisi interiore – facendo perlopiù
ricorso a paradossi chiamati koan –, che fondamentalmente costringe a
spingersi oltre il modo abituale di percepire il mondo. Dalla
prospettiva morfica è come se il proprio personale campo morfico
improvvisamente saltasse in un nuovo stato.
È possibile che avvenga un salto così creativo al livello sociale?
Può l’essere umano – con sorprendente rapidità e radicalità – passare
a nuove abitudini, magari anche a livello planetario? Cosa occorre per
provocare un simile cambiamento? Non esistono risposte semplici a
questi interrogativi, ma di certo la prospettiva morfica implica la
possibilità che avvenga davvero un cambiamento radicale in maniera
più rapida di quanto sulle prime ci si possa attendere.
In quest’ottica, il fenomeno della risonanza morfica sembra
particolarmente incoraggiante. Come abbiamo visto, la risonanza
morfica implica che nuovi saperi e nuove abitudini si diffondano nella
comunità molto più velocemente – e forse misteriosamente – di
quanto si sia mai immaginato. Esistono modi per amplificare questo
fenomeno? Come possono coloro che si battono per un mondo più
giusto e sostenibile usare la risonanza morfica per realizzare il
cambiamento?
Ancora una volta, non ci sono risposte semplici, ma l’idea di creare
delle “comunità della visione” può essere un modo per farlo. È solo
nella misura in cui cerchiamo di vivere in modi nuovi quel modello di
futuro che desideriamo creare che possiamo dare vita a nuove
abitudini e a nuovi modi di essere che – attraverso la risonanza
morfica – renderanno progressivamente più facile per gli altri fare
altrettanto. È come se più le persone mettono in pratica nuove
abitudini o nuovi modi di vivere, più il campo morfico in virtù di tali
comportamenti si rafforza.
Il fenomeno della risonanza morfica, quindi, evidenzia
l’importanza di ciò che viene definito “fiducia preventiva”, e cioè
essere fedeli a ciò che desideriamo avvenga. Una parte fondamentale
di questo processo potrebbe benissimo essere rappresentata dalla
stessa capacità di concepire e di immaginare un modo differente di
vivere; ma la prospettiva dei campi morfici ci porterebbe a ipotizzare
che questa visione di una nuova vita debba in ultima analisi
cominciare a cambiare il nostro abituale modo di essere – il quale deve
innanzitutto essere messo in pratica – al fine di influenzare veramente,
e in maniera più decisiva, gli altri.
La teoria della risonanza morfica può anche aiutarci ad
approfondire la nostra riflessione sulla natura del potere relazionale. Il
potere-con è rafforzato non solo dalla nostra relazione con gli altri, ma
anche dalla nostra interazione con un campo morfico collettivo? Le
nostre relazioni, dal momento in cui creano una specie di comunità,
sviluppano un campo morfico che, attraverso la risonanza, aumenta la
loro forza? Se è così, la forza di tale potere relazionale potrebbe
dipendere non solo dalla quantità di relazioni coinvolte ma, cosa più
importante, anche dalla qualità delle relazioni che tengono insieme la
comunità.
Un’ultima serie di domande che meritano un’ulteriore riflessione
riguarda il Tao stesso. Quale relazione vi è tra “la Via” – il Dharma, il
Malkuta – e la risonanza morfica? Se i campi morfici sono pensati
come un’olarchia di campi nidificati, che relazione esiste tra il Tao e
questa olarchia, qual è il ruolo che gioca nel formare tali campi? Forse
possiamo immaginare il Tao come una sorta di attrattore universale (o
forse come un campo morfico generale che attrae) che orienta
l’evoluzione cosmica in una direzione generale, senza predeterminare
i particolari percorsi evolutivi intrapresi – la «forma senza forma, che
include tutte le forme» (Tao Te Ching §14). Se è così, il Tao potrebbe
essere considerato l’incarnazione del principio creativo che opera – o
meglio ancora, che è in gioco – nel cosmo.
44 Come detto in precedenza (si veda p. 343), l’organicismo sostiene che i processi fisici e
chimici, insieme all’”organizzazione delle relazioni”, siano sufficienti per comprendere le
dinamiche della vita e, in contrasto con il vitalismo, non postulino l’operato di alcun tipo di
forza o di entità. L’idea di organizzazione delle relazioni comincia ormai a essere perlopiù
interpretata in termini di dinamiche di autoorganizzazione.
45 D’ora in avanti utilizzeremo prevalentemente l’espressione “teoria della risonanza
morfica” al posto di “causalità formativa”, perché quest’ultima sembra evocare l’immagine di
campi che “inducono” una forma a nascere in un modo lineare e unidirezionale. Di contro, il
termine “risonanza” è fortemente connotato nel senso della reciprocità, e quindi più coerente
con un’interpretazione complessa della causalità.
46 In base alla nostra esperienza con la teoria dei sistemi, possiamo tranquillamente
affermare che più il sistema è complesso più il suo campo morfico è suscettibile di
cambiamento.
47 Parimenti, i campi morfici sono collegati all’idea di “inconscio ecologico” – che Roszak
(1992) chiama la «piccola intelligenza ecologica consolidata della nostra specie» – di cui
abbiamo parlato sopra, p. 206.
48 Si veda, per esempio, Richard Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere
vivente, trad. di G. Corte e A. Serra, Milano, Mondadori, 2009.
49 Come abbiamo visto in precedenza (cfr. p. 275), Einstein in realtà “trucca” le sue
equazioni di campo, inserendo una “costante cosmologica” per ottenere una soluzione statica
– cosa che in seguito riconoscerà come uno dei suoi errori più grossolani. Più di recente, la
costante cosmologica è stata ripresa, ma con l’aggiunta di un piccolo valore positivo, non per
fornire una soluzione statica ma per dare una soluzione che corrisponda a un’espansione che
in realtà sta accelerando la sua corsa a causa della presenza di “energia oscura”.
10. Il cosmo come rivelazione
All’inizio era la Madre del cosmo.
Se conosci la Madre,
conosci anche le sue creature.
Se conosci le sue creature,
ritorni alla Madre,
e ti liberi dalla paura e dalla pena.
TAO TE CHING §52
Il grande Tao scorre ovunque,
raggiunge ogni direzione,
pervade ogni cosa.
Tutti gli esseri da esso dipendono
ed esso non ne respinge alcuno.
Realizza il suo fine,
eppure non chiede riconoscimento.
Nutre ogni essere nel cosmo,
eppure non cerca di determinarne il corso.
È privo di desiderio e sembra piccola cosa,
eppure è la dimora a cui tutti gli esseri ritornano.
Anche così, non rivendica alcuna signoria
[per se stesso,
non persegue la grandezza,
eppure compie grandi cose.
TAO TE CHING §34
Quando riveriamo la Terra per ciò che è, creiamo la possibilità
di un’azione culturale profetica. Abbiamo sperimentato che cosa
è successo quando la cultura non riesce a capire la realtà della
storia della Terra: essa viene separata dai popoli e dal pianeta.
È a questa morte culturale che siamo ora: siamo di fronte alla
rovina e alla devastazione del pianeta. Questo momento di
svolta del collasso culturale risveglia in noi l’opportunità di una
nuova comprensione e di nuova salute.
C’è una nuova storia da raccontare. Questa storia parla
dell’universo. Non abbiamo saputo comprendere che l’universo è
vivo. Il modo migliore per entrare in contatto con l’immenso
concetto di universo vivente è la storia. In questo modo
possiamo arrivare a comprendere che la storia dell’universo è,
in realtà, la nostra stessa storia.
(Conlon, 1994)
Questa storia, come racconta la sua espansione galattica, la sua
formazione della Terra, la sua nascita della vita e la sua stessa
coscienza autoriflessiva, adempie nella nostra epoca al ruolo che
avevano i racconti mitologici di un universo che esisteva fin
dall’inizio dei tempi, quando la conoscenza umana era dominata
da una forma di consapevolezza spaziale. Siamo passati dal
cosmo alla cosmogenesi, dal viaggio mandala verso il centro
di un mondo duraturo a un viaggio irreversibile dello stesso
universo, simile al sacro viaggio primordiale. Questo viaggio
dell’universo è il viaggio di ogni singolo essere nell’universo.
(T. Berry, 1999)
L’intera natura dell’universo si rivela nelle sue azioni.
(T. Berry-Swimme, 1992)
Una delle più importanti rivoluzioni nella conoscenza scientifica
degli ultimi cinquant’anni è stata il passaggio da una visione statica ed
eterna del cosmo a una dinamica ed evolutiva. La maggior parte degli
scienziati concorda ormai sul fatto che l’universo ebbe inizio circa
quattordici miliardi di anni fa e che da quel momento non ha mai
cessato di espandersi e di trasformarsi. Possiamo pensare il cosmo non
tanto come una cosa, quanto piuttosto come un’entità vivente in
divenire o in continua evoluzione.
In effetti, la stessa idea di spazio-tempo in quanto realtà singola
sembra confortare questa visione. Il cosmo che ha un inizio, un cosmo
che cambia nel tempo, è un cosmo che ha anche una storia. E la storia
dell’universo che ci viene rivelata dalla scienza è, forse, il più
maestoso, grandioso e misterioso mito cosmologico di tutti i tempi; ed
è un mito non perché sia in qualche modo falso, ma perché è una
storia che ci consente di comprendere il posto che occupiamo
nell’universo. In questo senso, il cosmo non è solo la nostra dimora,
non è solo la nostra storia, ma anche un processo continuo di
rivelazione che può guidare e orientare le nostre vite. Il cosmo è il
nostro maestro.
Come sottoliena David Peat (si veda p. 338), gli esseri umani sono
partecipanti attivi in questa storia: partecipiamo attivamente a questo
processo di evoluzione e di rivelazione. In quanto soggetti che
partecipano attivamente in un cosmo vivente, non possiamo
considerarci semplici spettatori, e nemmeno possiamo accontentarci di
usufruire dei frutti della natura, come se fossimo in un certo senso dei
parassiti o, peggio ancora, un cancro. No, noi siamo chiamati a essere
molto più di questo. Come partecipanti a pieno titolo al cosmo, anche
la nostra consapevolezza, la nostra creatività e le nostre idee fanno
parte di un più grande processo cosmico di autoriflessione e di
scoperta. Siamo chiamati, dunque, a cercare di capire il cosmo, a
cercare di trovare il nostro posto in esso e a partecipare al suo
processo creativo.
Impegnandoci in quest’impresa di proporzioni mitiche, in realtà
non facciamo che ritornare all’antico sforzo cosmologico che è stato
parte dell’intera storia dell’umanità – salvo, forse, per l’anomala
cultura scientifica occidentale degli ultimi cinquecento anni circa. Così
facendo, forse riusciremo a sanare la frattura tra noi e il resto della
comunità cosmica: l’autismo culturale che ci ha imprigionati in un
mondo da noi stessi creato e che ci ha reso ciechi alla realtà del nostro
attuale rovinoso cammino. Possiamo cominciare a prestare ascolto,
ancora una volta, alle voci della natura, presenti tanto nella
sfolgorante furia di una supernova quanto nel tocco carezzevole di
una brezza primaverile.
Per aprirci veramente a queste voci, abbiamo bisogno di una
cosmologia viva; abbiamo bisogno di vivere la storia nei nostri cuori,
nel nostro sangue, nelle nostre stesse ossa. Non basta riflettere sulla
storia, abbiamo bisogno di viverla per comprendere davvero che fa
parte di noi e che noi siamo parte di essa. E, in realtà, al di fuori della
storia cosmica noi non abbiamo un vero e proprio significato. Come
osserva Jim Conlon: «Noi esseri umani siamo quella dimensione di
questa storia attraverso cui l’universo emerge come coscienza di sé.
[...] Io non posso sapere nulla della mia cultura al di fuori del
dispiegarsi dell’universo. Attraverso il racconto della storia della
Terra sono arrivato a comprendere di essere profondamente connesso
a una comune avventura evolutiva» (1994).
Siamo fortunati a vivere proprio nell’epoca in cui abbiamo
sviluppato, come osserva Brian Swimme, la capacità di percepire, per
la prima volta, l’eco stessa della nascita del cosmo. Forse non si tratta
di una pura coincidenza, quanto piuttosto di una felice sincronicità;
forse abbiamo bisogno di questa rivelazione a questo punto della
storia umana per aiutarci a intraprendere un nuovo cammino verso la
salute e l’integrità, un cammino che ci permetta di operare in armonia
con il Tao mentre ci conduce verso il dispiegarsi del suo fine ultimo.
Non solo ora siamo in grado di percepire i riverberi della
deflagrazione primordiale, ma siamo anche arrivati a comprendere
con maggiore chiarezza la serie di passaggi irripetibili che delineano il
profilo della storia cosmica. Questa storia ha un cominciamento
preciso e può anche avere una determinata fine, sebbene ciò non sia
ancora chiaro. Nelle sue varie fasi, possiamo anche cogliere una sorta
di trama, un modello, un attrattore o una forza attrattiva che dà forma
al cosmo nel suo avanzare verso il futuro. Nel suo dispiegarsi, il
cosmo sembra muoversi verso una maggiore complessità, varietà e
relazionalità. Alcuni, infatti, vedono all’opera una sorta di finalità, una
“Via” che sembra orientare la storia cosmica. Come osserva Theodore
Roszak:
Mentre la natura che ci circonda si sviluppa rivelando sempre maggiori livelli di
complessità strutturata, cominciamo ad accorgerci che abitiamo un universo
ecologico estremamente ramificato in cui nulla è “solo” una semplice cosa isolata e
scollegata. E nemmeno qualcosa di accidentale. La vita e la mente, se viste come
singolari eccezioni alle leggi dell’entropia, attraverso le loro strutture fisiochimiche
affondano le radici nelle condizioni iniziali seguite al Big Bang.
(1992)
Nel corso di questo capitolo analizzeremo la natura e il significato
della storia cosmica così come oggi appare, e in particolare la storia
del nostro pianeta e della comunità della vita che costituisce la
biosfera. Cercheremo così di scorgere la direzione, la finalità, la Via o
il Tao che sembra essere intessuto nella trama stessa del cosmo. Non si
tratta di una serie di leggi eterne ma di qualcosa di più profondo, di
più dinamico e creativo. Che cos’è questa saggezza che il cosmo ci
rivela? Cosa ha da dirci sul nostro ruolo, in quanto esseri umani,
all’interno di una storia più grande? Ma l’interrogativo principale,
forse, è il seguente: come possiamo aprirci al mistero del Tao in modo
da diventare davvero soggetti che partecipano in maniera creativa e
armoniosa al dipanarsi della storia cosmica?
Cosmogenesi
È molto semplice. Ecco tutta la storia in un rigo. [...] Si prende
l’idrogeno e lo si lascia tranquillo, e lui si tramuta in roseti,
giraffe e uomini.
(Swimme, 2001)
Il Big Bang è una sorta di orgasmo primario, il momento
generatore, o l’attimo in cui si schiuse l’uovo cosmico. Il cosmo è
come un organismo in crescita che forma nuove strutture al
proprio interno. La storia è affascinante in parte perché ci fa
capire che tutto è correlato. Tutto deriva da una fonte unica,
tutte le galassie, le stelle e i pianeti; tutti gli atomi, le molecole
e i cristalli, tutti i microbi, le piante e gli animali, e tutti gli
uomini di questo pianeta. Noi stessi siamo correlati, in forma
più o meno diretta, con tutti gli altri, con ogni organismo
vivente e, infine, con tutto ciò che è ed è stato.
(Sheldrake, 1990 [1993, p. 121])
All’inizio non c’era nulla, non c’erano cose; e nemmeno c’erano il
tempo, lo spazio, l’energia. Che cosa c’era allora? Un vuoto gravido, il
fondamento dell’essere, il pensiero generativo, che è oltre il pensiero e
le cose e l’essere: il Tao. Non possiamo dire con esattezza che cosa
fosse, poiché nessuna definizione, nessuna concettualizzazione può
afferrarlo. È il mistero dietro ogni mistero che pone tutto in essere.
Gli scienziati non sanno cosa c’era prima della nascita del cosmo.
In realtà, la stessa parola “prima” potrebbe non avere alcun significato
in questo caso. Quando il cosmo venne all’essere, il tempo nacque con
esso. Stephen Hawking, utilizzando una terminologia matematica,
parla del cosmo come di qualcosa dotato di confini aperti, privo in un
certo senso di un chiaro cominciamento e di un termine50. Se ciò è
vero, possiamo spingerci sempre più vicino al momento iniziale della
nascita del cosmo, ma non potremo mai raggiungere l’effettivo istante
in cui il cosmo schizzò fuori dal vuoto gravido. Eppure, esiste ancora
un inizio da cui tutto ciò che è scaturì, un momento iniziale che
Martha Heyneman chiama «il punto o l’accesso zero tra l’assenza di
tempo e il tempo, l’assenza di spazio e lo spazio» che è «anche qui e
ora, ovunque e sempre» (1993).
Le nostra immaginazione e la nostra comprensione sono messe a
dura prova quando proviamo a figurarci i primi istanti della nascita
del cosmo, ciò che comunemente chiamiamo Big Bang.
Quest’espressione alquanto infelice evoca l’immagine di chi osserva
da lontano lo scoppio di un’enorme esplosione nello spazio, forse
qualcosa che può somigliare a una supernova, ma su scala molto più
grande.
Eppure un’immagine del genere è fuorviante. Non c’era un “fuori”
da cui osservare l’evento. Non c’era spazio “vuoto”; tutto ciò che era
era intrappolato nella tempesta primordiale. Il fisico Stephen
Weinberg la descrive come «un’esplosione che avvenne
simultaneamente ovunque» (citato in Heyneman, 1993). Non solo
l’energia ma anche lo spazio e il tempo sono nati in quel primordiale
momento generativo. Il calore e la furia di quell’istante sfidano la
nostra comprensione. Quel che è certo è che questa nascita è stata in
un certo senso eccessivamente violenta – almeno dalla nostra
prospettiva di organismi viventi che non potrebbero sopravvivere in
simili condizioni –, ma si è trattato di una violenza più simile al dolore
e alla fatica della nascita che a un cataclisma dirompente. Come
osservano Thomas Berry e Brian Swimme osservano:
In quella realtà primordiale le più maestose montagne himalayane si
dissolverebbero più velocemente di quanto non farebbe un castello di sabbia fatto da
un bambino nell’impatto con uno tsunami. La solidità della Terra diventa fumo
all’inizio. In quel momento primordiale, la più rapida fantasticheria umana, un
guizzo inosservato della mente in un giorno d’estate, corrisponde all’intervallo di
tempo in cui la deflagrazione nucleare primordiale risuona con mille annichilazioni
dell’universo e altrettante rinascite.
Al cuore della serena foresta tropicale c’è quest’urgano cosmico. Al cuore della
colonna dell’alga marina del tempo c’è lo scoppio a trilioni di gradi di temperatura
che dà inizio a tutto. Tutto ciò che esiste nell’universo trae origine da questo
eccezionale, inafferrabile evento germinale, un microscopico granello, una realtà
stratificata con il potere di scagliare un centinaio di miliardi di galassie nella vastità
degli abissi in un volo che dura da quindici milioni di anni. La natura dell’universo e
di ogni essere che esiste è integralmente collegata alla natura di questa primordiale
deflagrazione. L’universo è un unico sviluppo multiforme in cui ogni evento è
intessuto insieme a tutti gli altri nella trama del continuum spaziotemporale.
(1992)
La potenza e il mistero della tempesta primordiale incutono un
tale sgomento che sembrano richiedere tutto un immaginario
spirituale per riuscire a coglierlo. Le grandi tradizioni religiose del
mondo, infatti, spesso evocano il ricordo dell’inizio nelle loro frasi più
sacre. Per esempio, nell’islam la prima parola del Sura Fâtiha (il
capitolo, o sura, iniziale del Corano) – e in realtà di ogni singola sura –
evoca l’immagine di una nascita cosmica: Bismillâh, generalmente
tradotto con ‘Nel nome di Allah’, evoca l’immagine del SM (‘nome’,
‘luce’, ‘suono’, ‘vibrazione’) che scaturisce da Allah, il quale può
essere interpretato come l’Uno, l’”Unità Cosmica” che è «l’estrema
forza che sta dietro l’essere e il nulla» (Douglas-Klotz, 1995). Allo
stesso modo, il primo verso della preghiera di Gesù in aramaico evoca
l’immagine dello shem (ancora una volta ‘nome’, ‘luce’, ‘suono’ o
‘vibrazione’) che emana (o è insufflato) dall’Uno, l’unità, che dà
origine a tutto (Douglas-Klotz, 1990 [2002, p. 41]). Sia il Corano che la
preghiera di Gesù (comunemente chiamata “Preghiera del Signore” o
“Padre Nostro”), dunque, ricordano in un certo senso il primo
momento di scaturigine del cosmo così come l’unità sostanziale che
lega tutte le cose e tutti gli esseri tra loro.
In effetti, ogni volta che ricordiamo il momento dell’inizio, non
facciamo che affermare la fondamentale unità del cosmo. Noi tutti
scaturiamo dalla stessa fonte. Tutte le cose e tutti gli esseri hanno
un’origine comune. Eppure, quest’unità non è un ricordo ma una
realtà vivente. Riprendiamo per un attimo la nostra analisi del
teorema di Bell (cfr. pp. 311-312): il fenomeno quantistico
dell’entanglement implica che tutte le particelle elementari
nell’universo restino in qualche modo collegate attraverso misteriose e
istantanee connessioni. Una fondamentale unità lega tutti. Come
osservano Berry e Swimme: «L’esplosione da cui tutto è scaturito si
manifesta come un quintilione di particelle separate e le loro
interazioni, ma la natura di queste particelle narra di un universo che
è un tutto indivisibile. Nessuna parte del presente può essere isolata
da nessun’altra parte del presente, del passato o del futuro» (1992).
Dopo essersi sprigionato dal seme generativo, dopo solo un
centesimo di secondo circa, il cosmo si raffreddò rapidamente
arrivando a una temperatura di appena cento milioni di gradi e
diventando una poltiglia di energia e materia (in forma di nucleo
d’idrogeno, cioè di protoni liberi). Dopo tre minuti, i primi nuclei di
elio cominciarono a organizzarsi. In quei tre minuti, la gran parte della
materia primordiale – idrogeno e nuclei di elio – era venuta all’essere
e, allo stesso tempo, l’universo era diventato per la prima volta
trasparente (la luce, cioè, poteva viaggiare liberamente attraverso di
esso). Occorsero altri settecentomila anni di espansione e di
raffreddamento, tuttavia, per creare condizioni che permettessero la
formazione di atomi stabili costituiti da nuclei ed elettroni. Alla fine
del primo miliardo di anni, i semi della galassie erano stati piantati.
Nei successivi quattro miliardi di anni si formarono le grandi
nebulose galattiche, seguite dalle prime stelle. Queste stelle
costituiscono il crogiolo per la formazione di forme di materia più
complessa, ma è solo con le prime supernovae che elementi come il
carbonio e l’ossigeno – e tutti gli elementi pesanti come l’elio – sono
stati immessi nell’universo per la prima volta. La seconda e la terza
generazione di stelle, come la nostra, si formarono a partire dai residui
delle esplosioni di queste supernovae. Infatti, è solo in questi sistemi
stellari composti dall’ultima generazione di stelle che la vita organica
come noi la conosciamo ha potuto alla fine formarsi. Il nostro intero
sistema solare – compresi noi stessi – è composto di questa antica
polvere stellare.
Questa storia cosmica rivela un’incessante creatività e una
continua evoluzione. Se da una parte la deflagrazione primordiale
preparò il terreno per ciò che sarebbe dovuto venire in seguito,
dall’altra l’universo continuò a generare nel tempo nuove forme di
creatività. La creazione non avviene una volta per tutte; piuttosto, la
creatività è un processo continuo che si manifesta in una serie – spesso
irripetibile – di passaggi o di stadi.
C’è stato, per esempio, un solo momento in cui le galassie
potevano formarsi. Se quest’opportunità non avesse prodotto risultati,
il nostro cosmo sarebbe rimasto un informe brodo di energia e di
materia primordiale senza una vera forma o una struttura. In un
cosmo simile, la vita e la mente non sarebbero mai emerse.
E parimenti, le galassie non avrebbero mai avuto bisogno di dar
vita alle stelle. Ci sono attualmente due tipi di galassie. Le galassie a
spirale, come la nostra, che sono in grado di partorire una stella.
Tuttavia, la maggior parte delle galassie sono di un altro tipo: si tratta
delle galassie ellittiche. Queste mancano di struttura interna e in esse
non si formano nuove stelle. Se una galassia ellittica collide con una
galassia a spirale, la capacità di generare nuove stelle della galassia
che ne risulta può risultare compromessa. Le stelle gradualmente si
consumano e muoiono, e nessuna nuova stella prende il loro posto.
La creatività, dunque, non è inevitabile. La creatività del nostro
cosmo, infatti, viaggia sul filo di una lama immaginaria. Ci sono due
forze fondamentali che si contrappongono, che si mantengono in un
delicato equilibrio che ha permesso alla struttura di evolvere: una
forza che contrae creata dall’azione della gravità sulla materia e una
forza che espande che scaturisce dalla deflagrazione primordiale.
Queste forze costituiscono il fondamentale yin e yang della fisica del
cosmo.
Se la forza di gravità fosse stata solo leggermente maggiore,
l’intero universo si sarebbe rapidamente contratto su se stesso, per
finire inghiottito in un buco nero. Se la forza di gravità fosse stata solo
leggermente più debole, il cosmo non sarebbe mai stato in grado di
formare galassie o qualunque tipo di struttura. Una differenza di
appena uno su 1059 (10 seguito da cinquantanove zeri!), ovvero meno
di un trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo dell’1
per cento in entrambi i casi, e il cosmo con le sue galassie, i suoi
pianeti e la vita non sarebbero mai esistiti.
Thomas Berry ritiene che questo delicato equilibro tra attrazione (o
limitazione) ed espansione (o vitalità selvaggia) sia la «prima
espressione e il modello primordiale della disciplina artistica». Egli
considera «il selvaggio e il disciplinato» come «le due forze costituenti
dell’universo, la forza espansiva e la forza che contiene, legate in un
singolo universo e presenti in ogni essere dell’universo» (1999). È da
questo yin e yang che tutte le espressioni della creatività nel cosmo
sono nate.
Stranamente, la quantità di materia conosciuta nell’universo non
tiene conto dell’opera dell’attrazione gravitazionale. Si ipotizza che la
maggior parte del cosmo sia invisibile – o “oscuro” –, poiché
consisterebbe di particelle ed energia che difficilmente interagiscono
con le cose visibili, e dunque non sono rilevabili dagli strumenti
scientifici. Attualmente si stima che la materia oscura formi il 22 per
cento dell’universo e che l’energia oscura tocchi il 74 per cento, il che
significa che appena il 4 per cento del cosmo può essere percepito
direttamente. Rupert Sheldrake osserva: «È come se la fisica avesse
scoperto l’inconscio. Proprio come la mente consapevole galleggia –
per modo di dire – sulla superficie dei processi mentali inconsci, il
mondo fisico galleggia su un oceano cosmico di materia oscura» (1990
[1993, p. 74]).
Il delicato equilibrio tra espansione e contrazione suggerisce che la
natura del cosmo non è il risultato del puro caso. Le forze
fondamentali del cosmo e tutte le “leggi” della fisica, infatti, sembrano
essere state scelte per consentire la possibilità che emergesse un cosmo
in grado di autoorganizzarsi. È possibile che nei suoi primi
baluginanti istanti, quando gli universi furono creati e annientati
innumerevoli volte, sia stato selezionato tra quei pochi il cosmo – forse
l’unico – capace di rendere possibile l’autentica creatività? O che le
abitudini del cosmo, i suoi campi morfici, si siano evolute in modo da
consentire la creatività? Esamineremo nel dettaglio queste questioni
più avanti nel capitolo, per adesso basti osservare che la spinta alla
creatività e alla complessità sembra essere intrecciata nella trama
stessa del cosmo fin dall’inizio.
Paul Davies (1988) sottolinea che esiste una differenza tra
predestinazione e predisposizione. Il cosmo non era “predestinato” a
generare le galassie, le stelle, la vita o la mente. Non erano
conseguenze inevitabili delle condizioni iniziali della deflagrazione
originaria; piuttosto, la possibilità dell’autoorganizzazione – e anche,
forse, una direzione o inclinazione – era qualcosa di già presente. Il
cosmo era “predisposto” a ospitare la creatività e la nascita ma, come
l’esempio delle galassie ellittiche dimostra, le dinamiche
autoorganizzative non sono inevitabili. La vera libertà esiste. Come è
detto nel Tao Te Ching (§34), il Tao «realizza il suo fine. [...] Nutre
ogni essere nel cosmo, eppure non cerca di determinarne il corso».
Brian Swimme crede che il momento in cui viviamo sia una
congiuntura critica nella storia del cosmo, o almeno nella storia della
Terra. Abbiamo una scelta da compiere in quanto esseri umani, ma il
tempo a nostra disposizione per compiere questa scelta è in un certo
qual modo limitato. Una volta trascorso, non tornerà più. È come
l’istante in cui si sono generate le prime galassie:
C’era un momento in cui le galassie poterono formarsi, non prima e non dopo. È
lo stesso momento che adesso viviamo noi, credo. È il momento che il pianeta si
risvegli per opera dell’umanità, di modo che le effettive dinamiche dell’evoluzione
abbiano la possibilità di risvegliarsi e di cominciare a funzionare a quel livello. Ecco,
non poteva succedere prima. E la cosa sorprendente è che probabilmente non potrà
succedere neanche dopo. Se non operiamo questa transizione, molto probabilmente
la creatività del pianeta si troverà in uno stato di tale degrado che non saremo più in
grado di compiere quel passo. La cosa agghiacciante è che, nell’universo, i luoghi
veramente creativi possono perdere la loro creatività. [Per esempio] le galassie
ellittiche stanno lì, e le stelle al loro interno muoiono una a una, e così è. Insomma, ci
si può realmente allontanare dalla sequenza principale della creatività nell’universo.
(Swimme, 2001)
Se da un lato la creatività e la nascita non sono, dunque, inevitabili
– e vi siano scelte concrete da compiere –, dall’altro c’è anche
un’immensa speranza che traspare dalla storia del cosmo. Nonostante
tutte le previsioni in senso contrario, la creatività ha prevalso. Non
possiamo sapere, ovviamente, quali possibilità sono andate per
sempre perdute, ma sappiamo che il sorgere creativo delle cose
prosegue e che l’universo sembra continuare a tendere verso una
maggiore complessità e, in ultima analisi, forse, verso una maggiore
bellezza e una maggiore profondità della mente.
In un certo senso, adottando questa prospettiva ci pare di
comprendere meglio l’intero cosmo e di intenderlo come un essere
vivente, un organismo che cresce e si sviluppa nel tempo.
Sicuramente, le dinamiche dell’emergenza che la storia moderna del
cosmo rivela chiariscono che il cosmo non somiglia in nulla a una
macchina. Piuttosto, esso è un’entità vivente con la sua libertà e le sue
dinamiche creative. Ciò diventa ancora più evidente se consideriamo
la storia del nostro pianeta, la Terra vivente, di cui noi stessi siamo
parte.
Il dispiegarsi della vita
L’evoluzione avviene non in risposta alla domanda di
sopravvivenza, ma come gioco creativo e necessità di cooperazione di
un universo intero che evolve.
(Lemkow, 1990)
La forza che dirige l’evoluzione va ricercata non negli eventi
fortuiti delle mutazioni casuali, bensì nella tendenza intrinseca
della vita a creare novità, nella manifestazione spontanea di
un ordine e di una complessità crescenti.
(Capra, 1996 [2006, p. 252])
L’aiuto reciproco è una legge della vita animale tanto quanto la
lotta reciproca, ma [...] come fattore di evoluzione, ha probabilmente
un’importanza maggiore, in quanto favorisce lo sviluppo di
abitudini e caratteri che assicurano la conservazione e l’ulteriore
sviluppo della specie, assieme alla massima quantità di benessere
e godimento della vita per l’individuo, con il minimo spreco di energia.
(Peter Kropotkin, citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 219])
Riteniamo ingenua la prima concezione darwiniana di una “natura
dai denti e gli artigli insanguinati”. Ormai ci consideriamo
il prodotto di una collaborazione tra cellule, cellule costruite
da altre cellule. Le cooperazioni tra cellule che un tempo furono
estranee se non nemiche le une alle altre è alla radice
stessa del nostro essere.
(Lynn Margulis, citato in Suzuki-Knudtson, 1992)
La vita non prese il sopravvento del globo nella lotta,
ma istituendo interrelazioni.
(Capra, 1996 [2006, p. 256])
Le dinamiche della creatività e dell’emergere della vita intessute
nella trama del cosmo sono rivelate, forse con maggiore chiarezza per
noi, nella storia dell’evoluzione della vita qui sulla Terra. La storia del
nostro pianeta mostra una tendenza verso una sempre maggiore
complessità, consapevolezza e bellezza che non può essere spiegata
completamente con la dominante teoria evoluzionistica
neodarwiniana, fondata sulle mutazioni casuali, sulla competizione e
sulla sopravvivenza del più adatto. Qualcosa di più sottile sembra
essere all’opera, qualcosa che allude a un obiettivo o, al limite, a una
direzione verso la quale la vita stessa sembra spingersi.
L’origine della vita sul nostro pianeta resta per molti aspetti velata
dal mistero. Le teorie più recenti sostengono che le molecole organiche
fondamentali come gli aminoacidi si formarono in qualche modo nel
brodo primordiale e che i lipidi diedero origine alle prime membrane
cellulari. In seguito, sorsero RNA e proteine, e alla fine le prime forme
cellulari. Ad oggi, tuttavia, nessuno è stato in grado di produrre una
cellula vivente in laboratorio. Non escludo affatto che la ricerca possa
portare i suoi frutti in questo settore, ma ci sono davvero grosse
difficoltà a immaginare quali processi potrebbero aver dato origine
alle complesse molecole organiche necessarie alla nascita della vita, e
ancor di più alla creazione delle cellule vitali. Per questa ragione,
alcuni scienziati si chiedono se la vita – o almeno i suoi immediati
precursori – non possa avere avuto un’origine extraterrestre,
arrivando fin qui attraverso la collisione di una cometa o di qualche
altro corpo celeste con la Terra. Perfino questa teoria, tuttavia, si limita
in un certo senso a sollevare il problema senza risolverlo. Ad ogni
modo, “il cieco caso” da solo non pare sufficiente a spiegare la nascita
dei primi organismi viventi.
Quello che sembra chiaro, invece, è che i batteri primitivi si
evolverono molto rapidamente sul nostro pianeta: solo mezzo
miliardo di anni dopo la formazione della Terra nacquero i primi
procarioti (cellule senza nucleo). Nel giro di altri cento milioni di anni
le cellule svilupparono il processo della fotosintesi, che permetteva
loro di sfruttare l’energia del sole. Attraverso la fotosintesi, però,
queste cellule produssero ossigeno libero, che in realtà, per via delle
concentrazioni troppo elevate, le uccise. La fotosintesi, infatti, alterò
profondamente la chimica dell’atmosfera, degli oceani e del suolo
terreste. Inoltre, l’emissione di gas serra nell’atmosfera consentì al
pianeta di raffreddarsi considerevolmente, il che portò alle prime ere
glaciali, circa 2,3 milioni di anni fa.
Ci vollero quasi due milioni di anni dallo sviluppo della fotosintesi
perché le cellule imparassero a fare uso dell’ossigeno, quel gas
pericoloso che oggi è essenziale per la nostra vita. Nello stesso arco di
tempo nacquero le prime cellule eucariotiche (dotate di nucleo).
Occorse un altro miliardo di anni circa perché la vita riuscisse a
sviluppare la riproduzione sessuale. All’incirca nello stesso periodo,
sorsero i primi eterotrofi, ossia organismi che si nutrono di altri
organismi per procacciarsi la propria fonte di energia. Trecento
milioni di anni dopo (ovvero settecento milioni di anni fa) apparve il
primo organismo pluricellulare. Da questo momento in poi il ritmo
dell’evoluzione sembra accelerare rapidamente (T. Berry-Swimme,
1992).
Qual è la forza che muove quest’esplosione di creatività e
diversità? Perché gli organismi evolvono in forme più complesse? E
quali processi fanno sì che avvengano questi cambiamenti? Charles
Darwin ritiene che vi siano variazioni naturali nei singoli organismi di
ogni specie data. Alcune di queste variazioni sono più vantaggiose di
altre. Per esempio, un certo colore nella pigmentazione della pelle può
consentire a una specie di lucertole di confondersi con l’ambiente in
maniera più efficace, come la pelle verde al posto di quella marrone
nelle lucertole che vivono in una foresta. La pigmentazione verde
rende le lucertole meno vulnerabili ai predatori, e anche la loro
progenie, che eredita queste caratteristiche, ha maggiori probabilità di
sopravvivere e di riprodursi. La “sopravvivenza del più adatto”
significa che, nel corso del tempo, la pelle di colore verde diventa più
frequente, almeno in habitat come le foreste e le praterie, in cui
garantisce una mimetizzazione più efficace. Alla fine, la popolazione
di lucertole verdi in questi habitat può diventare una specie distinta
dalle lucertole marroni, le quali, ad esempio, potrebbero continuare ad
avere maggior successo di sopravvivenza nel deserto, dove la loro
pelle si confonde meglio con l’ambiente circostante.
La teoria darwiniana della selezione naturale venne alla fine fusa
con la teoria dei geni di Mendel, e questa nuova sintesi è conosciuta
come neodarwinismo. Secondo questa prospettiva, tutte le variazioni
nelle specie insorgono in virtù di mutazioni genetiche spontanee.
Molte di esse non apportano alcun beneficio, ma di tanto in tanto si
verificano delle mutazioni utili. Nel caso dell’esempio
summenzionato, il gene che codifica la pigmentazione della pelle
marrone muta e si traduce invece in un gene che codifica la
pigmentazione verde. I geni che codificano tratti che riscontrano
maggior successo vengono trasmessi più frequentemente, in modo che
– attraverso il processo della selezione naturale – diventano col tempo
più comuni. Sicché, in base a tale concezione, la combinazione di caso
(mutazioni spontanee) e necessità (la sopravvivenza del più adatto)
guida l’evoluzione. Per usare le parole di Jacques Monod: «Soltanto il
caso è all’origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera»
(citato in Capra, 1996 [2006, p. 249]).
Il neodarwinismo è ancora la teoria dell’evoluzione più studiata
nelle scuole. Per molti aspetti si tratta di una teoria brillante nella sua
semplicità, ma nondimeno soffre di gravi carenze. Innanzitutto, l’idea
di una semplice mutazione genetica sembra assumere una
corrispondenza uno a uno tra geni e tratti. Sicuramente, in alcuni casi,
una tale corrispondenza esiste anche, tuttavia, come abbiamo visto,
non è sempre così. Spesso è tutta una serie di geni – talvolta situati in
cromosomi diversi – a essere collegata alla manifestazione di un
singolo tratto. Nella concezione neodarwiniana, questi geni
dovrebbero presumibilmente mutare in maniera spontanea, per poi
tradursi in un tratto utile che possa diventare più comune attraverso
la selezione naturale. È difficile credere che questo sia un evento
abbastanza probabile da diventare la chiave del processo evolutivo.
Allo stesso modo, un gene può influire su più tratti. Se
sopravviene una mutazione spontanea, uno di questi tratti può
risultare vantaggioso, ma è improbabile che tutte le modifiche
apportate al tratto di rivelino utili. È molto più probabile che la
maggior parte sarà dannosa, di modo che sarà estremamente difficile
che la mutazione spontanea di quel gene possa mai tradursi in un
evidente vantaggio per l’organismo. Alla fine, dunque, la maggior
parte delle mutazioni genetiche in un organismo avrebbe bisogno di
essere altamente coordinata all’interno del genoma per funzionare. A
complicare le cose, oggi sappiamo che gli errori casuali nella
replicazione genetica sono molto più rari di quanto non si pensasse un
tempo (Capra, 1996 [2006]). Per di più, quando avvengono siffatte
mutazioni, esistono dei meccanismi cellulari che eliminano questi
errori.
Mettendo insieme queste osservazioni, possiamo dire che la
mutazione spontanea – nel senso dei cambiamenti genetici casuali e
fortuiti – appare un processo estremamente improbabile per spiegare
l’adattamento e l’emergere di nuovi tratti utili. Nel caso dei batteri,
almeno, le mutazioni non sembrano essere per nulla casuali, bensì
decisamente orientate. Il biologo dell’università di Harvad John
Cairns e Berry Hall della Rochester University sono giunti alla
conclusione che «alcune mutazioni nei batteri avvengono più
frequentemente quando risultano utili ai batteri che quando non lo
sono» (Goldsmith, 1998). Qual è il processo che decide quali
mutazioni devono avvenire? Non è ancora chiaro, ma sembra essere
all’opera qualcosa di molto più selettivo delle mutazioni casuali,
qualcosa, si potrebbe dire, di molto più intenzionale.
In secondo luogo, il neodarwinismo non spiega affatto
l’evoluzione degli organismi complessi pluricellulari. Dal punto di
vista della “sopravvivenza del più adatto”, non ci sono dubbi sul fatto
che i batteri siano l’organismo di maggior successo del pianeta. I
batteri, infatti, sono in grado di scambiare a piacimento il loro
materiale genetico con altri batteri, cosa che consente loro di adattarsi
molto più rapidamente rispetto agli organismi più complessi. Il
batteriologo Sorin Sonea arriva a ipotizzare che i batteri non
dovrebbero essere divisi in specie separate perché, fondamentalmente,
attingono tutti a uno stesso set di geni. Ogni “singolo” batterio cambia
in genere circa il 15 per cento del proprio materiale genetico ogni
giorno, il che porta Sonea ad affermare che «un batterio non è un
organismo unicellulare, è una cellula incompleta [...] che appartiene a
differenti chimere a seconda delle circostanze». In un certo senso,
dunque, «tutti i batteri fanno parte di un’unica trama di vita
microcosmica» (citato in Capra, 1996 [2006, p. 254]).
Dal punto di vista dell’adattabilità e della sopravvivenza, si può
certamente affermare, dunque, che la rete batterica è il più vecchio, il
più adattabile e il più riuscito organismo della Terra. Non avevano
“bisogno” di evolvere in eucarioti o di svilupparsi in organismi che
utilizzano la riproduzione sessuale, e ancor meno in quelle che
vengono comunemente considerate forme di vita pluricellulari. È
chiaro, poi, che la competizione e la lotta per la sopravvivenza non
possono da sole guidare il processo evolutivo verso una maggiore
complessità.
Una terza obiezione al neodarwinismo riguarda la sua incapacità
di spiegare l’evoluzione di adattamenti più complessi. Questa teoria, è
vero, può spiegare i piccoli cambiamenti come il colore della pelle, di
cui abbiamo parlato in precedenza. Analogamente, la teoria
neodarwiniana potrebbe spiegare l’emergere di un tratto che consente
alle piante di resistere al glifosato erbicida (controllato da un gene),
ma cos’è che dà conto dell’evoluzione di strutture molto più
complesse come l’occhio o l’orecchio? Si potrebbe immaginare che una
cellula fotosensibile sia emersa spontaneamente (sebbene la sua utilità
per un organismo più grande sembri dubbia senza una connessione a
un qualche tipo di sistema nervoso), ma riesce più difficile pensarlo
per tutte quelle strutture di supporto che collaborano al
funzionamento di un occhio. Allo stesso modo, un orecchio non può
funzionare senza tutta una serie di strutture che lavorano di concerto:
i nervi acustici, gli ossicini dell’orecchio medio, il timpano e anche
l’orecchio esterno. Eppure queste strutture – finché non sono complete
e lavorano insieme in maniera coordinata – non danno alcun
vantaggio a un organismo. Perché, allora, si sono sviluppate? Persino
Darwin trova questo dato in contrasto con la sua teoria:
Supporre che l’occhio, con tutti i suoi inimitabili congegni per l’aggiustamento del
fuoco a differenti distanze, per il passaggio di diverse quantità di luce, e per la
correzione dell’aberrazione sferica e cromatica, possa essersi formato per selezione
naturale sembra, lo ammetto francamente, del tutto assurdo.
(citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 180])
In quarto luogo, se il neodarwinismo bastasse da solo a spiegare
l’evoluzione, ci aspetteremmo di rinvenire reperti fossili che mostrino
come sono avvenuti i graduali cambiamenti delle specie del tempo.
Eppure, in realtà, ciò che vediamo è un fenomeno di “evoluzione
punteggiata” caratterizzata da lunghi periodi di relativa stabilità
seguiti da periodi relativamente brevi di creatività esplosiva e di
sperimentazione evoluzionistica. Cosa fa sì che in certi periodi vi
siano così pochi cambiamenti mentre in altri assistiamo a cambiamenti
che avvengono in maniera molto più rapida di quanto ci si potrebbe
attendere? Come abbiamo visto, sia la teoria dei sistemi sia le ipotesi
dei campi morfici offrono spunti preziosi per la comprensione di
questo tipo di fenomeno. Di contro, l’evoluzione punteggiata sembra
essere quasi del tutto in contrasto con le spiegazioni fornite dalla
teoria neodarwiniana.
Edward Goldsmith osserva infatti che il neodarwinismo rischia di
porre troppo l’accento sul cambiamento e non abbastanza sulla
stabilità. Che cosa spiega la costanza delle specie, una costanza che
abbraccia periodi di centinaia di migliaia, se non milioni, di anni?
Nella prospettiva neodarwiniana, i cambiamenti graduali – piccoli
aggiustamenti degli organismi – costituirebbero un processo continuo
e sempre in corso. Eppure raramente è così. In parte, ciò si spiega
attraverso quei processi di stabilità genetica di cui abbiamo parlato. Le
mutazioni vengono in gran parte riparate prima che si diffondano, e
quelle che non vengono riparate sono quasi sempre dannose e
possono persino condurre alla morte dell’organismo. L’ipotesi dei
campi morfici può schiudere una prospettiva nuova: il campo di un
organismo ha una natura abitudinaria e cambia con molta difficoltà. È
solo quando sorge una nuova condizione di stress – una crisi che
minaccia l’esistenza di una vecchia forma abituale – che una nuova
forma può emergere. Nella prospettiva sistemica, uno stato caotico
alla fine conduce alla formazione di attrattori completamente nuovi, e
con essi, all’apparizione di nuove forme. Poi, può benissimo entrare in
gioco la selezione naturale, mettendo alla prova le nuove forme che
sono emerse e contribuendo a determinare quali siano le più adatte
per la sopravvivenza sul lungo periodo.
Un’obiezione finale al neodarwinismo riguarda i suoi assunti di
fondo. Come abbiamo notato in precedenza, Darwin fu parecchio
influenzato dalle teorie economiche del tempo, nella fattispecie le
“leggi” della popolazione di Thomas Malthus (1766-1834), che
immagivano la vita come una competizione per l’accaparramento
delle risorse. Come evidenzia Theodore Roszak:
Tutti gli assunti rigidi e basati sulla competizione di Malthus e della scuola di
Manchester sono stati incorporati nei fondamenti della biologia darwiniana. Lungi
dal vedere l’ethos della giungla nella società civile, Darwin viceversa vide l’ethos del
capitalismo nella giungla, arrivando alla conclusione che la vita doveva essere quello
che era diventata nelle prime città industriali: una crudele “lotta per la
sopravvivenza”.
(1992)
Non tutti i biologi coevi di Darwin o dei suoi successori credettero
che la competizione fosse la forza motrice dell’evoluzione. Lo zoologo
Pëtr Kropotkin (1842-1921), per esempio, riteneva che le complesse
dinamiche cooperative tra gli animali fossero molto più importanti.
Persino l’azione dei predatori può essere compresa da questa
prospettiva cooperativa. Attraverso l’eliminazione dei più deboli e
malati, essi rafforzano la loro preda e contribuiscono ad assicurare che
le risorse di cibo non vengano mai a esaurirsi. In realtà, le intricate
relazioni tra le specie così come le dinamiche degli ecosistemi
complessi sono oggi molto più chiare per la maggior parte di noi di
quanto non lo fossero ai tempi di Darwin (con la fondamentale
eccezione, naturalmente, dei popoli indigeni, che in genere sono ben
consapevoli di tali relazioni).
Per esempio, quando furono reintrodotti i lupi nel Parco di
Yellowstone, negli Stati Uniti, si scoprì che l’alce era molto meno
propenso a pascolare vicino agli alberelli lungo gli argini dei fiumi,
dove era facile preda dei nuovi cacciatori introdotti. Ne conseguì la
riduzione dell’erosione del suolo lungo i corsi dei fiumi, il che
provocò la comparsa di famiglie di pesci più sane nei fiumi e nei
torrenti. Per quanto strano possa sembrare, i lupi giocarono un ruolo
fondamentale nella prevenzione dell’erosione del suolo e della salute
dei pesci d’acqua dolce.
In effetti, nuove ricerche scientifiche ipotizzano che la
collaborazione e la simbiosi siano dinamiche centrali del processo
evolutivo. Come abbiamo visto, i batteri condividono abitualmente il
loro materiale genetico, costituendo una rete di vita microcosmica. Ciò
non toglie però che singoli batteri possano, in un certo senso,
competere tra loro per il cibo e altre necessità; ma in genere sono
organismi che cooperano, condividendo, in un certo qual modo,
conoscenze ed esperienze attraverso gli scambi genetici. I batteri
possono condividere, di fatto, l’intero patrimonio di informazioni
genetiche nel giro di pochi anni. È questa rete batterica ad aver in
realtà creato le condizioni di base per la nascita di forme di vita più
complesse sulla Terra:
Durante i primi due miliardi di anni dell’evoluzione, i batteri erano gli unici
abitanti della Terra, e l’emergere di forme di vita più complesse deve essere associato
alla creazione di reti e alla simbiosi. Dunque, in questi due miliardi di anni i
procarioti, gli organismi composti di cellule senza nucleo (ossia i batteri),
trasformarono la superficie della Terra e l’atmosfera. Fu l’interazione di questi
semplici organismi a dare origine ai complessi processi di fermentazione, fotosintesi,
respirazione dell’ossigeno ed eliminazione del gas [CO2] dall’aria. Siffatti processi
non si sarebbero sviluppati, tuttavia, se questi organismi fossero stati isolati in senso
darwiniano, o se la forza d’interazione tra le parti fosse esistita solo al di fuori dalle
parti.
(Nadeau-Kafatos, 1999)
Lynn Margulis ha dimostrato recentemente che tutte le cellule
eucariotiche sono in sé il risultato di un’alleanza simbiotica di
organismi semplici. Ciò è particolarmente evidente nel caso del
mitocondrio, l’organello che consente alla cellula di utilizzare energia
attraverso reazioni chimiche che richiedono ossigeno. Il mitocondrio
in realtà ha un proprio DNA distinto da quello del nucleo cellulare.
Sembra plausibile che gli eucarioti siano il risultato di un’alleanza tra i
primi batteri che bruciavano ossigeno (i quali andarono a formare i
mitocondri) e altri organismi, dando vita così a insiemi simbiotici più
complessi. Forse i batteri mitocondriali inizialmente invasero o
“infettarono” le cellule ospite, ma in seguito rinunciarono alla loro
indipendenza in cambio di protezione e di un costante rifornimento di
sostanze nutritive. Gli altri organelli cellulari possono aver avuto
origini simili.
Margulis arriva a vedere nelle cellule dotate di nucleo dei
“collettivi microbici” o “confederazioni di batteri” che «collaborano e
accentrano, e così facendo formano nuovi tipi di governo cellulare»
(citato in Roszak, 1999). Come osserva Fritjof Capra, questa «teoria
della simbiogenesi comporta uno spostamento radicale di percezione
nell’ambito del pensiero evolutivo. Mentre la teoria convenzionale
vede nel dispiegarsi della vita un processo in cui le specie si limitano a
divergere una dall’altra, Lynn Margulis sostiene che la formazione di
nuove entità composite per mezzo della simbiosi di organismi
precedentemente indipendenti ha rappresentato la forza evolutiva più
potente e significativa» (1996 [2006, p. 256]).
Le simbiosi esistono non solo all’interno delle cellule, ma anche
all’interno degli organismi pluricellulari. Come abbiamo detto in
precedenza (si veda p. 352), quasi il 50 per cento del peso del nostro
corpo è composto da altri organismi – soprattutto batteri –, molti dei
quali necessari alla nostra stessa sopravvivenza. Ogni essere umano,
ma altresì ogni organismo pluricellulare, è una specie di
confederazione coesa di organismi differenti. Noi dipendiamo da tutta
una rete di organismi – molti dei quali microscopici – per mantenere
quelle condizioni di fondo che alla fine servono a rendere possibile la
vita. Tutti gli organismi sulla Terra vivono in questa specie di
relazione simbiotica. Tutti gli esseri viventi non solo si adattano al loro
ambiente, ma modificano e trasformano il loro habitat. Gli esseri
viventi, in particolare gli organismi microbici, hanno sensibilmente
alterato la composizione chimica dell’atmosfera, la geologia e il clima
sul nostro pianeta.
Su un altro piano, le singole specie, come il lupo del Parco
Nazionale di Yellowstone, svolgono un ruolo spesso sorprendente nel
contribuire a mantenere la salute e la vitalità di altre specie con le
quali hanno apparentemente solo interazioni minime. È possibile,
dunque, che tutta l’evoluzione sia in realtà una specie di
coevoluzione? Come osserva lo studioso di mammiferi marini Victor
Scheffer: «Mai dall’epoca degli achei un essere vivente si è evoluto da
solo. Tutte le comunità si sono evolute come se fossero un grande
organismo. Dunque, tutta l’evoluzione non è altro che una
coevoluzione e la biosfera è oggi una confederazione di reciproche
dipendenze» (citato in Suzuki-Knudtson, 1992).
Sulla base di questa prospettiva, occorre reinterpretare l’intera idea
di “sopravvivenza del più adatto”, che equivale non tanto alla
capacità di uccidere e distruggere le altre specie ma a quella di
adattarsi e contribuire al resto della comunità biotica. Ciò non vuol
dire che la competizione non giochi alcun tipo di ruolo, ma che il suo è
un ruolo complementare – e in genere secondario – a quello della
cooperazione. La competizione sembra svolgere un ruolo più decisivo
nei primi ecosistemi, in quanto contribuisce a creare maggiore spazio
tra gli organismi viventi e a favorire nel tempo lo sviluppo di una
maggiore diversità. «Con l’evoluzione degli esseri viventi, con lo
sviluppo degli ecosistemi dai loro stati iniziali verso condizioni di
climax [...] la competizione lasciò il posto alla cooperazione [...] e, di
conseguenza, aumentò anche l’omeostasi» (Goldsmith, 1998).
L’idea di coevoluzione può aiutarci a pensare la relazione tra la
farfalla e il fiore. I fiori si sono evoluti per attrarre insetti impollinatori
come le farfalle, mentre le farfalle dipendono dal nettare dei fiori per il
loro sostentamento. Gli uni non possono esistere senza le altre. Chi,
dunque, viene prima? Non hanno avuto bisogno di evolversi insieme?
Come dobbiamo considerare la loro relazione? Il fiore ha in qualche
modo ingannato la farfalla costringendola a impollinare o viceversa è
la farfalla che ha in qualche modo ingannato il fiore costringendolo a
offrirle il nettare? Potremmo decidere di considerare le cose in questo
modo: supporre che ciascun organismo sia concentrato sulla propria
sopravvivenza e sui propri bisogni.
Ma non potrebbe essere altrimenti? Non potrebbe essere che il
fiore, in un certo qual modo, ci tenga alla sopravvivenza e al benessere
della farfalla, e viceversa? Non potrebbe operare in questo caso
qualcosa di simile all’amore? Molti lo considererebbero un punto di
vista “non scientifico”; eppure c’è qualche valida ragione per
sostenere che l’egoismo e l’esclusivo interesse personale siano più
“scientifici” dell’amore, della compassione e della cura reciproca? Se
la cooperazione e la simbiosi sono davvero più fondamentali della
competizione e della “lotta per la sopravvivenza”, forse l’amore – o al
limite una qualche specie di attrazione, di adescamento o di cura – è
magari più essenziale – o al limite altrettanto essenziale –
dell’autoaffermazione o dell’egoismo.
La concezione creativa e cooperativa dell’evoluzione che emerge
tanto dalla teoria dei sistemi quanto dalla teoria della simbiogenesi
sotto molti aspetti differisce profondamente dalla prospettiva
neodarwiniana. L’evoluzione non viene più vista come il risultato di
una mera combinazione di caso (mutazioni casuali) e necessità
(sopravvivenza del più adatto). Sembra infatti che agisca una spinta
verso una cooperazione, una complessità, una diversità e perfino una
consapevolezza maggiori. Anche lo scambio mondiale di informazioni
genetiche in tutta la microcosmica rete batterica in qualche modo
evoca l’immagine mentale della condivisione di “memorie” e di
“esperienze” genetiche.
Come è stato possibile, dobbiamo chiederci ancora una volta, che
la miriade di cambiamenti interconnessi necessari allo sviluppo di
strutture complesse come l’occhio o l’orecchio si sia verificata? Di
certo, questo tipo di evoluzione sembra aver richiesto una serie di
mutazioni genetiche altamente coordinate perché si generasse
qualcosa che fosse veramente funzionale. Eppure, come abbiamo
visto, i geni da soli potrebbero tranquillamente non determinare una
forma. Se davvero esistono i campi morfici, o qualcosa di simile, non
potrebbero aver avuto un ruolo nel coordinamento delle
trasformazioni necessarie? Ciò potrebbe aiutarci a spiegare come mai
un occhio, una volta che si è evoluto, possa essersi più facilmente
sviluppato in un’altra specie completamente indipendente, come
abbiamo visto nella nostra analisi sull’evoluzione convergente. Ma il
necessario coordinamento per l’evoluzione del primo occhio in
assoluto – o di qualunque altra struttura complessa simile – come ha
fatto inizialmente a verificarsi?
Se da un lato non ci sono ancora risposte chiare a tale
interrogativo, sembra tuttavia che siano avvenuti una serie di
cambiamenti che hanno condotto a un determinato obiettivo, ossia lo
sviluppo di un occhio. Un obiettivo che sembra richiedere una sorta di
finalismo o, al limite, una direzione. È interessante notare che
l’originaria teoria dell’evoluzione fu proposta sia da Alfred Russel
Wallace (1823-1913) che da Charles Darwin. Sebbene i due
concordassero sul processo di selezione naturale, Wallace col passare
del tempo si discostò da Darwin, poiché non credeva che il cieco caso
da solo potesse dare ragione dei cambiamenti che guidavano
l’evoluzione, ritenendo invece che essa fosse guidata da una qualche
intelligenza creativa, da lui concepita come un coordinamento di
spiriti, analogo in un certo senso all’idea di campi morfici (Sheldrake,
1988).
Questo non significa che abbiamo bisogno di adottare una qualche
forma di “disegno divino”, che evoca l’immagine di un piano
predisposto fin dall’inizio dei tempi. Le intuizioni della teoria dei
sistemi ci aiutano a immaginare qualcosa di più creativo. Essa però
sembra richiedere una specie di attività consapevole che opera al
centro del cosmo, qualcosa in grado di guidare l’evoluzione verso una
maggiore complessità e diversità, qualcosa che possiamo chiamare
Tao, Dharma o Malkuta. Comunque lo si voglia immaginare, si tratta
di qualcosa che è intrecciato nella trama stessa dell’universo. Non si
tratta, tuttavia, di un che di statico al pari di una “legge”, ma di
qualcosa di dinamico, che può evolvere e dispiegarsi nel corso del
tempo.
Possiamo concepire tale attività cosciente pensando il cosmo come
qualcosa che si muove verso un attrattore, o ancor meglio verso una
visione, che in quanto tale può evolvere ulteriormente. Somiglia
all’idea del gesuita paleontologo Pierre Teilhard de Chardin (1881-
1955), il quale postulò che l’evoluzione non fosse «orientata nei suoi
singoli dettagli da un qualche progetto preesistente, ma che invece nel
suo complesso è plasmata in modo da convergere verso uno stadio
superiore e finale ancora-da-raggiungere, chiamato “punto Omega”»
(Davies, 1988). Non possiamo dire con esattezza a cosa somiglierà
questo punto Omega, ma sembra chiaro che il procedere verso di esso
coinvolge livelli di complessità, di interrelazioni, di diversità e di
autocoscienza sempre maggiori.
Gaia: la Terra viva
L’intera gamma della materia vivente presente sulla Terra, dalle
balene ai virus e dalle querce alle alghe, si può considerare
come costitutiva di un’unica entità vivente, capace di manipolare
l’atmosfera terrestre in modo da soddisfare i suoi bisogni
complessivi, e dotata di facoltà e poteri assai superiori a quelli
delle parti che la costituiscono.
(James Lovelock, citato in Goldsmith, 1992 [1997, p. 107])
L’ipotesi di Gaia afferma che le condizioni della superficie
della Terra sono regolate dalle attività della vita. [...] Questa
manutenzione ambientale viene effettuata dalla crescita e dalle
attività metaboliche dell’insieme degli organismi, e cioè il
biota. L’ipotesi implica che se la vita dovesse scomparire, le
condizioni della superficie della Terra tornerebbero a quelle
interpolate di un pianeta che si trova tra Venere e Marte. Sebbene
i meccanismi specifici di controllo della superficie della Terra
siano poco conosciuti, essi coinvolgono interazioni tra circa tre
milioni di specie di organismi.
(Lynn Margulis, citato in Joseph, 1990)
Le dinamiche cooperative, evidenti nell’evoluzione della biosfera
della Terra, hanno portato James Lovelock e Lynn Margulis a
ipotizzare che il clima sul pianeta, gli oceani e la composizione
dell’atmosfera siano in realtà regolati dagli organismi viventi, i quali
operano insieme in maniera coordinata per conservare le condizioni
necessarie alla vita. Secondo la versione più accreditata della teoria,
questo coordinamento avviene attraverso complessi anelli di
retroazione cibernetica, come quelli che abbiamo incontrato
nell’analisi della teoria dei sistemi. Questo sistema di conservazione
della vita comprende l’intera biosfera della Terra (o ecosfera)51, cioè i
suoi organismi viventi con in più l’acqua, l’aria e il suolo con cui la
vita interagisce. James Lovelock arriva a dichiarare che questo sistema
funziona in realtà come un’unica entità vivente. Margulis e Lovelock
chiamano questa entità “Gaia”, dal nome della divinità greca della
Terra.
Sotto molti aspetti, il rapporto tra la biosfera e il pianeta nel suo
complesso può essere paragonato a un albero. C’è solo un sottile
strato esterno di cellule viventi in un albero, poiché il 97 per cento di
esso è composto in realtà di legno inerte. Allo stesso modo, la biosfera
è come un sottile rivestimento che avvolge il pianeta; se il pianeta
fosse grande quanto un pallone da pallacanestro sarebbe più sottile di
una patina di vernice. La biosfera è composta sia da organismi
biologici che da rocce, suolo, aria, oceani, fiumi e falde acquifere, in
cui questi organismi abitano. Si estende insomma nelle profondità
degli oceani e per diversi chilometri all’interno della crosta terrestre, e
raggiunge quasi dieci chilometri d’altezza nell’atmosfera.
Proprio come la corteccia protegge dai possibili danni il sottile strato del tessuto
vivo dell’albero, la vita sulla Terra è circondata dallo strato protettivo dell’atmosfera,
che ci fa da scudo contro la luce ultravioletta e altri influssi nocivi, e mantiene la
temperatura del pianeta al livello giusto perché la vita fiorisca. Né l’atmosfera sopra
di noi né le rocce sotto di noi sono vive, ma entrambe sono state foggiate e
trasformate in misura notevole dagli organismi viventi, esattamente come la corteccia
e il legno dell’albero. Lo spazio esterno e l’interno della Terra fanno entrambi parte
dell’ambiente di Gaia.
(Capra, 1996 [2006, p. 238])
La biosfera agisce come un sistema vivente integrato più grande
della semplice somma delle sue parti. Come rimarca Lovelock: «Gaia,
in quanto organismo totale planetario, ha proprietà che non sono
necessariamente riconoscibili attraverso l’osservazione di singole
specie o di popolazioni di organismi che vivono insieme» (Lovelock,
1988 [1991, p. 35]). Da una prospettiva sistemica, l’autoregolazione è
v