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SCRIVERE AL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE.

Narrativa italiana dei


primi anni Duemila
Silvia Contarini

Introduzione

A partire dagli anni 90, ondate migratorie successive hanno trasformato un fenomeno episodico e
transitorio in una condizione strutturale dell’Italia contemporanea. I flussi migratori hanno grande
impatto sociale, politico, demografico, geografico e culturale. Si è assistito in immediata
coincidenza anche alla nascita di una produzione letteraria scritta da migranti, in lingua italiana,
composta agli inizi soprattutto di racconti e testimonianze, ma in seguito anche di opere di fiction
e poesia, tutto riunito sotto il nome di ‘letteratura italiana della migrazione’. Il primo pericolo è il
ghetto, cioè le logiche separatiste in cui si rischia di rinchiudere i testi e gli autori. Il secondo
pericolo è l’apriorismo critico che fa di ogni testo di cui sia autore un migrante esente da biasimo.
È necessario evitare la trappola del pregiudizio favorevole, dell’empatia, dell’apriorismo.

È l’era dei meticciati, tutto si mescola per produrre sintesi instabili. Il fenomeno della migrazione
su scala mondiale – dalla periferia verso il centro – costituisce una sfida alla presunta omogeneità
culturale degli stati-nazione europei. Territorialità, identità nazionale, circolazione delle merci e
saperi, nuovi rapporti di potere in un contesto globale. Le riflessioni su questi temi appartengono
anche agli studi postcoloniali, che hanno fornito strumenti per ripensare i margini
dell’appartenenza, i rapporti egemonici, le mobilità, la geopolitica della conoscenza e delle culture,
la nazione e la transnazionalità. E soprattutto gli effetti attuali della de/colonizzazione, in cui
rientrano le migrazioni globali, come quelle italiane. Negli anni 90, e ancor più anni 2000, si nota in
Italia una enorme attenzione alla storia coloniale italiana e agli studi postcoloniali. La riemersione
del passato coloniale in Italia è coeva ai movimenti migratori. Una conseguenza diretta dello
spostamento di focus dalle migrazioni alla colonizzazione è che scrittori che fino ad allora erano
considerati migranti, si rivendicano o sono riconosciuti come scrittori postcoloniali. Un esempio
sono le scrittrici italiane Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi e Cristina Ali Farah, che hanno legami
con i Paesi del Corno d’Africa, ex colonie italiane. Le loro opere spesso offrono una rivisitazione
della storia coloniale, proponendo contro-narrazioni, dando la parola agli ex colonizzati.

Il dibattito postcoloniale si sviluppa in Italia nel momento in cui il paradigma postcoloniale, la cui
elaborazione risale nei Paesi anglosassoni a 40 anni fa, viene considerato altrove esaurito e
destabilizzato da altri paradigmi, che si evolvono verso prospettive ‘trans’: transoceaniche,
transnazionali, transculturali, ecc. L’apparire in Italia di prospettive postcoloniali corrisponde alla
fase storica in cui l’Italia da paese di emigrazione diventa paese di immigrazione. Gli studi
postcoloniali invitano a un’etica della resistenza, a una politica identitaria rivendicativa, alla
specificazione culturale e linguistica contro ogni tentativo o tendenza di incorporazione o
marginalizzazione delle culture minori.

La rivista del Québec ViceVersa è la culla delle scritture migranti, una rivista transculturale in
opposizione al multiculturalismo, al nazionalismo e al neoliberismo. La rivista affronta temi come il
legame tra lingua e identità, la creolizzazione linguistica, l’iscrizione di un testo in una cultura
immigrata.

I. Migrazioni italiane

L’immigrazione di oggi in Italia viene descritto come fenomeno che si sostituisce


cronologicamente, a partire da fine anni 80, al movimento inverso, ovvero la massiccia
emigrazione italiana nel mondo che ha visto partire quasi 30mln di italiani nel corso di un secolo.
Le problematiche dell’immigrazione attuale vengono raramente messe in relazione con la
situazione dell’Italia con le sue grandi diaspore mondiali. Va fatto quindi un collegamento tra
migrazioni italiane, col senso di appartenenza, il legame con il paese d’origine e con il paese di
accoglienza, con le loro lingue e le loro culture; e il processo di interculturazione all’opera nel
campo letterario. È importante ricordare la proposta esplicitamente transculturale portata avanti
in Quebec, negli anni 80 e 90, da intellettuali di origine italiana, immigrati o figli di immigrati,
riuniti attorno alla rivista ViceVersa. Anticipano di diversi anni dei problemi discussi all’interno
della produzione critica e teorica sulla letteratura italiana della migrazione. La rivista militava per
una posizione transculturale, ed andava nel senso del movimento anti globalizzazione. Fu fondata
da tre intellettuali italo-canadesi, Fulvio Caccia, Bruno Ramirez, Lamberto Tassinari. Ha messo in
pratica la transculturalità e promosso le scritture migranti. In ViceVersa troviamo problematiche
teoriche che saranno affrontate un decennio dopo dagli studiosi italiani confrontati con una
produzione letteraria nuova, di scrittori in lingua italiana ma di origine straniera. ViceVersa anticipa
quindi alcune problematiche che dovranno superare scrittori e intellettuali che si rivendicano della
transcultura. La riflessione sull’appartenenza identitaria, sulla cultura di origine e sulla cultura
acquisita, su una cultura immigrata, sulla lingua straniera, sull’alterità, sulle minoranze,
sull’intersezione di elementi diversi, è il fondamento di ViceVersa. La rivista porta avanti la
transculturalità in un momento in cui in Canada e altrove 2 scuole di pensiero si affrontavano: la
multiculturalità e l’interculturalità. I collaboratori della rivista rifiutano tanto il multiculturalismo,
che identificano come la protezione disgiunta delle comunità maggioritarie anglofona e
francofona, quanto l’interculturalità, vista come una pratica di acculturazione. Gli editori e
collaboratori di Viceversa sono immigrati italo-quebecchesi che si interrogano spesso sul loro
rapporto con l’Italia. L’obiettivo della rivista è il superamento delle frontiere, anche in campo
artistico e culturale. Sono pubblicati molti testi sull’italianità degli immigrati e degli intellettuali
coinvolti nella rivista. Viceversa è considerata la culla delle scritture migranti, concetto poi
superato dalla transculturalità. Una transizione simile si osserva in Germania, dove la definizione di
letteratura transculturale è utilizzata sia per la produzione di lingua tedesca a opera di italiani
emigrati in Germania, sia per le attuali scritture migranti in Italia in lingua italiana. Il concetto di
transcultura riunisce quindi tutte le migrazioni italiane. Non è il caso dell’Italia, dove ancora oggi si
preferisce parlare di letteratura migrante per definire un corpus eterogeneo e un fenomeno che si
è notevolmente trasformato dopo la nascita negli anni 90. Gli studiosi concordano sulla distinzione
in 3 fasi. In origine si tratta di una produzione associata alle prime ondate migratorie, che
suscitano reazioni di razzismo, ma anche slanci di solidarietà e interesse dei politici. È una
produzione letteraria a vocazione testimoniale e autobiografica, ma che si presta anche
all’esotismo e fa scoprire agli italiani le condizioni di vita e la cultura di origine degli autori e più in
generale dei migranti. Diversi testi hanno un co-autore, è quindi una scrittura a quattro mani –
spesso un giornalista o uno scrittore italiano che presta al migrante la sua padronanza linguistica e
competenze letterarie. Questa letteratura ha favorito approcci a carattere più sociologico o
politico ideologico o puramente teorico. A causa di caratteristiche, finalità interculturali e spazi
dedicati, questa produzione si ritrova fin da subito confinata in una categoria a parte. La seconda
fase, definita carsica, di scomparsa apparente degli autori, l’interesse degli editori diminuisce: gli
autori e i testi si moltiplicano e si diversificano nel genere – poesia, romanzo, teatro. Gli scrittori si
allontanano progressivamente dal co-autore, ma la loro produzione resta segnata
dall’autobiografismo e dalla testimonianza. La terza fase si distingue per l’emergere di scrittori che
si rivendicano in quanto tali, spesso di seconda generazione, spesso figli di coppie miste, a volte di
recente immigrazione, i cui libri sono pubblicati anche presso editori prestigiosi. Sono Igiaba Scego,
Gabriella Ghermandi, Ali Farah, Gabriella Kuruvilla. Gli scrittori vogliono liberarsi dall’etichetta
migrante, non volendo essere stigmatizzati ma considerati scrittori a pieno titolo. Gli scrittori
afroitaliani esprimono spesso intenti più rivendicativi. Continuano a interessare critica e pubblico
ed editori grazie alla loro alterità, vengono considerati portavoce della loro comunità. La sua
biografia e le tematiche dei libri prevalgono sulla dimensione letteraria del testo, sono fissati in
una categoria che li naturalizza a vita. Si possono distinguere tre approcci: il primo è l’adesione
empatica e il sostegno per principio a scrittori e scrittrici migranti. Manca però la distanza critica. Il
secondo è quello di ignorare tale letteratura. Il terzo approccio, all’opposto, include il fenomeno in
un ambito più vasto, quello della globalizzazione e della postcolonialità: le riflessioni privilegiano
gli autori provenienti dalle ex colonie, interrogandosi sui rapporti di dominazione e di minorazione,
sulle dinamiche centro periferia, sulla contro narrazione. Per quanto riguarda la denominazione di
tale letteratura, la categoria ‘letteratura della migrazione’ comprende autori provenienti da
situazioni estremamente diverse. La pluralità di situazioni ha però messo in dubbio la pertinenza a
un’unica categoria. Gnisci parla di letteratura italiana della migrazione mondiale.

II. La lingua dell’altro

La letteratura italiana della migrazione vanta ormai una sua tradizione e una sua storia. Da poco si
è visto lo scoccare dei 20 anni dalla nascita della letteratura migrante, che la critica
convenzionalmente fa risalire al 1989. Nell’Italia degli anni 2000 i due problemi di fondo della
questione linguistica – l’uso dialettale e la mancanza di una lingua comune – sono risolti. Ormai
esiste una lingua media scritta e parlata. La pratica esclusiva del dialetto si perde anche nel Sud
Italia, soprattutto tra le nuove generazioni. Eppure l’uso letterario del dialetto ha conosciuto nuova
fortuna. La scelta di valorizzare i dialetti sembra avere una natura identitaria. Una valorizzazione
dialettale si nota dagli anni 90, in coincidenza con l’ampio dibattito sulla crisi dell’identità
nazionale e il diffondersi dell’immigrazione. Globale e locale diventano due aspetti correlati.
L’esibita appartenenza a un gruppo o a una comunità diventa elemento differenziale, un valore
aggiunto all’uniformità mondializzata. Il dialetto diventa quindi di funzione rivendicativa, come
affermazione delle radici, segno distintivo di resistenza all’assimilazione, per proteggere la
minoranza e i suoi diritti.

La denominazione letteratura della migrazione riunisce scrittori e scritture molto diversi. È


importante suddividere scrittori per i quali l’italiano è lingua straniera, imparata da adulti o
giovani, e scrittori di madrelingua italiana, ma non di madre o padre italiani – scrittori di seconda
generazione. Bisogna poi distinguere tra chi ha scelto l’italiano come lingua dell’intimità, chi la
considera lingua di oppressione, chi è costretto ad adottarla, chi ha abbandonato la propria lingua
madre, chi continua a praticare due lingue, ecc. L’italiano può quindi essere lingua dello
sradicamento e della perdita, una lingua imposta, o lingua del paese di accoglienza e di nuovo
attaccamento. Variano secondi i casi il rapporto psicoaffettivo e i livelli di padronanza. Un’altra
distinzione utile è tra storie ambientate in paesi di origine e in tempi remoti, spesso romanzi storici
o autobiografici, e storie ambientate nell’Italia di oggi, in genere fiction non autobiografiche, dove
la stratificazione linguistica si fa più complessa quando, oltre a innesti di lingua straniera, la lingua
italiana si declina in idioletti e dialetti.

Salsicce di Igiaba Scego (2006) è il racconto di esordio dell’autrice nata in Italia da genitori somali
rifugiati nel 1969. È scritto in un buon italiano letterario standard tendente al registro colloquiale.
Una giovane romana di origini somale racconta in prima persona una giornata particolare: in
attesa dei risultati di un concorso statale, decide di mangiare salsicce. Perché pur avendo la
cittadinanza italiana, viene continuamente messa in discussione. Per mettere alla prova la propria
identità, decide di trasgredire l’interdizione alimentare musulmana. Oltre all’italiano appare il
romanesco. Nella sfera privata spunta anche il somalo. Questa presenza di romanesco e somalo
indicano che la protagonista si sente integrata nella realtà in cui si trova senza rinnegare le origini
familiari. Indicano un doppio attaccamento: all’Italia che è territorio concreto e cultura del
presente, e alla Somalia che sopravvive negli usi domestici e nei ricordi. Si esprime così la visione
di un’Italia reale e ideale, plurilingue e multiculturale, capace di sintesi e coabitazione tra mondi
diversi.

Jadelin Mabiala Gangbo, arrivato a Bologna a 4 anni con i genitori congolesi, è cresciuto in un
istituto senza contatti né con la famiglia né con il paese di origine. Si sente italiano fino a quando
viene fatto sentire che italiano non può essere perché nero di pelle, e gli è rifiutata la cittadinanza.
Nel racconto Com’è giù se vuol dire KO?, i due 19enni Antonio e Aziz, a Bologna, parlano in un loro
idioletto che mescola parlato, slang e forme dialettali. È ambientato a fine anni 90 e niente
distingue il figlio dell’immigrato marocchino dal bolognese. Un paio di episodi di razzismo e il
controllo di identità rompono l’illusoria assimilazione di Aziz, negandogli ogni possibile italianità,
rinviandolo alla sola identità possibile del marocchino, quella di spacciatore. Aziz tenta di
difendersi dalla xenofobia e dal sopruso dei poliziotti con l’invenzione linguistica, improvvisando
uno show in freestyle in cui mescola italiano, bolognese, inglese, arabo e altro. Il testo è pieno di
anglismi, nomi di griffe, loghi e gruppi musicali internazionali, ma anche di nomi di strade e piazze
e bar bolognesi, perché la storia si svolge in luoghi, tempi e ambienti cui si sentono di appartenere
i due giovani protagonisti, l’italiano e lo straniero. Gangbo introduce temi identitari e sociopolitici
legati alla condizione di immigrato, nello stesso tempo, la sua lingua letteraria, di cui padroneggia
registri e modulazioni, rimanda alla scrittura giovanile.

Un altro caso, di pastiche identitario, è Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di
Amara Lakhous, scrittore di origine algerina arrivato a Roma a 25 anni, laureato in filosofia e
giornalista. È la riscrittura in italiano di un romanzo precedentemente pubblicato in arabo in
Algeria. È un giallo dai toni leggeri ambientato nella Roma popolare e multietnica di oggi. È
composto da undici diverse voci narranti dicendo ciascuna la propria verità sul caso da risolvere,
un omicidio. Peruviani, olandesi, nordafricani, milanesi, meridionali, tutti i personaggi abitano nel
quartiere di Piazza Vittorio. Lakhous si serve di registri diversi, compreso i dialetti. La questione
della lingua come elemento identitario è molto presente. Forse anche l’Italia è fatta di
microidentità, di disparità, di marginalità interne. L’italianità è un concetto poco identificabile in
cui gli italiani si riconoscono poco. Ma questo non facilita l’integrazione degli stranieri. Quando si
viene a sapere che il romano Amedeo in realtà si chiama Ahmed, quindi è straniero, malgrado il
mimetismo linguistico e fisico, lo si sospetta dell’omicidio. L’integrazione più perfetta non protegge
dai pregiudizi.

Il romanzo Il paese dove non si muore mai di Ornela Vopsi mostra un palese distacco dalla lingua
d’origine. L’autrice, albanese, è un caso linguistico curioso, perché arrivata in Italia a 23 anni nel
1991, residente in Francia dal 1997, ha scritto per un decennio nella lingua di un paese dove ha
vissuto appena qualche anno. Lingua italiana che ora ha abbandonato. I suoi ultimi romanzi sono
in francese. Il romanzo Il paese dove non si muore mai non è ambientato nell’Italia di oggi; una
bambina racconta infanzia e adolescenza nell’Albania di Hoxha, regime totalitario e società chiusa
e maschilista. Racconta con toni ironici e comici fatti talvolta drammatici. La lingua è semplice,
corretta, colloquiale, priva di riferimenti all’albanese. L’autrice ha scelto l’italiano come lingua di
scrittura perché nessun editore albanese l’avrebbe pubblicata, e per una ragione psicoartistica –
per raccontare il passato del suo paese. Distacco, separazione, lontananza, da un paese, da una
lingua e da un vissuto, si percepiscono nella scrittura.

Hamid Zirati, iraniano residente in Italia dal 1981, è autore di Salam, maman, dove si sente la
nostalgia della lingua del mondo perduto. Racconta le vicende dell’Iran prima e dopo la
Rivoluzione. Vicende politiche e pratiche si intrecciano. Spiccano i termini in iraniano per riferirsi a
oggetti di uso quotidiano dell’Iran di allora, cibi tradizionali, feste rituali, espressioni abituali,
appellativi famigliari. Ciò dà carica emotiva al doloroso sradicamento, alla lontananza, all’esilio.

Un altro caso è quello delle due scrittrici della letteratura postcoloniale, Gabriella Ghermandi e
Cristina Ali Farah. Entrambe figlie di coppie miste, una italo etiope e l’altra italo somala, bilingui e
vissute sia nel paese della madre che in quello del padre. Compiono scelte letterarie simili: il loro
primo romanzo, del 2007, è dedicato alla storia sofferta del loro paese africano e al difficile
rapporto dei protagonisti con l’ex potenza coloniale. Pur scrivendo in italiano, utilizzano numerose
forme lessicali della loro lingua al pari di quella italiana. In Regina di fiori e di perle, Ghermandi
fornisce la traslitterazione di suoni dall’amarico. Ali Farah, in Madre piccola, riunisce in un
glossario espressioni e termini somali. Si tratta di oggetti del quotidiano, locuzioni ricorrenti,
parole connotate da religione, storia e tradizione. Entrambi hanno una struttura polifonica e
pluralità di storie. Ghermandi inventa una protagonista che ha il dono di saper ascoltare, raccoglie
i racconti orali degli anziani e li riunisce in un proprio racconto, che è la storia dell’Etiopia, tra
colonizzazione, dittatura, guerra, una storia vista dagli sconfitti. Essa impara la lingua dei vincitori,
l’italiano, per poter dire la verità del suo popolo, si appropria della scrittura del colonizzatore per
lasciar traccia della memoria dei colonizzati. Anche Ali Farah fa parlare le voci della diaspora
somala. I tre protagonisti narrano le storie di altri personaggi che partono dal loro paese sconvolto
dalla guerra, tutti nomadi da un paese all’altro del mondo. Alla fine si ritrovano in Italia. I suoi
personaggi si confrontano con la necessità di riunire i pezzi sparsi di identità. La differenza
principale tra i 2 libri: l’intento di Ghermandi è rivendicare un’identità etiope negata, condannare il
colonialismo italiano e di conseguenza rivitalizzare la lingua, cultura e storia del passato. Ali Farah
invece, descrive un travagliato processo di pacificazione con un’identità italiana negata. Il suo
romanzo lascia indietro il passato e si concentra su tempi recenti, dagli anni 70 a oggi.

Queste sono 7 declinazioni identitarie diverse grazie a diverse appropriazioni della lingua italiana.
Tre fiction del tempo presente ambientate nell’Italia di oggi: Salsicce di Igiaba Scego, storia di
integrazione riuscita, la protagonista scrive e parla in italiano ma anche somalo e romanesco
secondo le circostanze; Com’è giù se vuol dire KO? Di Gangbo è la storia di un giovane figlio di
immigrati marocchini, ma identico a coetanei italiani per gusti, modo di fare e di esprimersi, il
quale viene respinto suo malgrado verso l’origine, verso un’alterità che non sente e non rivendica,
proponendo anche una commistione linguistica complessa; Scontro di civiltà per un ascensore a
Piazza Vittorio di Amara Lakhous, arrivato adulto ed esule in paese straniero, è una storia
raccontata a più voci ambientata in una Roma esotica e multiculturale, nella cui multiculturalità vi
sono anche diverse identità regionali e i loro idiomi che hanno diritto di esistenza, ma non le lingue
straniere dei numerosi protagonisti. Negli altri 4 romanzi, ambientati nel tempo passato, Hamid
Ziarati, esule, racconta la storia del paese in cui è nato e cresciuto vista dagli occhi di un bambino
con la sua ingenuità; usa la lingua italiana, del paese di adozione e di accoglienza, usando anche
parole straniere lontane. Ornela Vorpsi, non italofona, racconta la storia del paese in cui è nata e
cresciuta. Rifiuta la madrelingua e usa l’italiano. Infine Cristina Ali Farah e Gabriella Ghermandi,
figlie di coppie miste, cresciute tra 2 culture e 2 lingue, raccontano storie di guerra, separazione. I
loro personaggi sono vittime di separazioni, conflitti, persecuzioni, rigetto, in diaspora, in esilio. La
lingua italiana di scrittura è una scelta sofferta, perché tronca l’altra metà, una metà che però
torna ad affacciarsi con parole e frasi. In questa varietà di approcci e temi, i 3 testi ambientati
nell’Italia di oggi portano tracce di koiné dialettizzata- bolognese, romanesco, napoletano –
mentre 3 su 4 dei testi ambientati nel passato portano tracce di lingue straniere. Un denominatore
comune è la questione linguistico-identitaria che circola in ogni testo, esprimendo la doppia
esigenza degli scrittori: reinterpretare l’italianità e far riconoscere l’esistenza di altri italiani.

Per quanto riguarda la lingua, Igiaba Scego riflette sulla lingua di scrittura di due autrici in
situazioni simili alla sua, Gabriella Ghermandi e Cristina Ali Farah. Entrambe nate da un genitore
italiano e un genitore originario di un paese del Corno d’Africa, ex colonia italiana, e sono cresciute
in Italia. Situa le 2 scrittrici in una dimensione postcoloniale. Risalendo al 700 e 800, ripercorre il
periodo della tratta degli schiavi e della colonizzazione, del conflitto tra bianchi e neri, osservando
che gli scrittori neri e nordafricani nonché i personaggi coloniali hanno un rapporto complesso con
la lingua del padrone, della quale devono impossessarsi per potere prendere la parola e per poi
trasmettere la parola del loro popolo o della loro comunità ridotti al silenzio; questa lingua, che
resta quella dell’uomo bianco, occorre meticciarla, ibridarla, mescolarla. Scego propone una
rilettura postcoloniale dei 2 romanzi di Ghermandi Regina di fiori e di perle e di Ali Farah Madre
piccola, iscrivendoli in una tradizione non italiana e neanche somala o etiope, ma quella del
postcoloniale. Sottolinea anche l’influenza dell’oralità nella scrittura. Sottolinea che hanno lo
scopo di ridare voce al loro popolo, far capire ai loro colonizzatori la loro versione della storia.
Insiste sulla missione educatrice di queste scrittrici, sull’importanza pedagogica del messaggio che
trasmettono. Non scrivono in una monolingua, perché la loro lingua italiana ha assorbito tutte le
loro altre lingue. Questo è il carattere innovatore della loro lingua di scrittura. Secondo la logica di
Scego, ogni scrittore parzialmente o completamente di origine somala, eritrea o etiope, fosse
anche italiano di nascita, veicola in quanto soggetto postcoloniale delle istanze rivoluzionarie
nell’atto di scrivere e nell’uso della lingua italiana. Tutto quello che scrivono ha portata politica. La
sua vera lingua è la sua lingua di dominato, e l’italiano è la lingua altra, quella degli altri; anche
quando è lingua materna, non è la lingua del noi ma del loro, i dominatori. Secondo Barile, invece,
il discorso postcoloniale non può applicarsi al contesto italiano, perché a differenza dell’inglese o
del francese, imposte dal colonizzatore, l’italiano è per questi scrittori lingua scelta, lingua
d’amore, o di rinascita. Gli scrittori migranti non avrebbero quindi nessun conflitto con la lingua
italiana. Il loro appropriarsi dell’italiano ha come conseguenza una trasformazione positiva della
lingua. Anche Scego ritiene che l’impatto di queste scritture sull’italiano sia solo che positivo
perché scaturiscono da un movimento di decostruzione e poi di costruzione. Per Scego, i testi degli
scrittori migranti hanno un carattere innovatore intrinseco. Portelli osserva che se certe letterature
marginali o minoritarie vogliono resistere alla tentazione di entrare nel mainstream, gli scrittori
italiani della migrazione sembrano sforzarsi in senso contrario, volendo dimostrare la loro
padronanza linguistica, saper scrivere bene in un italiano standard, per provare la loro
integrazione. Così facendo la correzione linguistica è situata al di sopra dell’immaginazione
linguistica, e il risultato è uno stile convenzionale o pomposo. Portelli attribuisce a questo stile
diverse cause tra cui: il passato coloniale italiano, perché l’Italia a differenza di altri paesi non ha
avuto una vera e propria politica di penetrazione linguistica; l’ambizione degli scrittori che non
sono di madrelingua italiana di avvicinarsi a una lingua scritta ideale piuttosto che alla lingua
parlata che praticano; infine, la mancanza di libertà con la lingua scritta a causa della poca
padronanza della lingua. Gli scrittori migranti vogliono appropriarsi della lingua italiana e scrivere
bene. Nello stesso tempo, il possesso pieno di una lingua è accompagnato da un’impressione di
perdita dell’altra lingua.

Questa letteratura migrante è marginale rispetto alla cultura istituzionale italiana, si stabilisce tra
esse un rapporto centro-periferia e quindi un rapporto di potere. Riepilogando, un elemento
comune a questi scrittori molto diversi è la riflessione sulla lingua, sovrastimata dalla critica. Gli
scrittori della migrazione sono più consapevoli di altri della ricerca necessaria di una lingua di
creazione e potrebbero essere più predisposti di altri a forme di sperimentazione e innovazione
linguistica. È tuttavia sorprendente constatare che questa produzione è però più rispettosa delle
convenzioni che attenta alla ricerca formale, privilegia il conformismo piuttosto che la distinzione.
Alcuni sottolineano l’oralità e l’uso di parole straniere; tuttavia, l’oralità non è una costante nella
produzione narrativa; l’uso di parole straniere è più ricorrente e ha funzioni diverse – segno
identitario, effetto esotico o espressivo – ma il multilinguismo non è un fenomeno nuovo nella
letteratura italiana, gli italiani vivono da sempre situazioni di diglossia per cui l’italiano è lingua
altra anche per molti italiani. Inoltre l’uso di espressioni in lingua straniera o dialetto è una
tendenza forte della letteratura italiana da diversi decenni, come in Camilleri per esempio. Sempre
più spesso scrittori italiani usano parole straniere quando la storia si svolge all’estero o i
personaggi sono stranieri. È tuttavia da riconoscere l’affermazione secondo cui, quando popoli
colonizzati, immigrati, marginali, povero, donne si appropriano di una lingua che non appartiene
loro, che non è loro destinata, riuscendo a istruirsi, ad affermare la loro soggettività, si può
considerare che la scrittura sia in sé un atto politico di portata rivoluzionaria. Scego riconosce
inoltre alla letteratura postcoloniale un effetto di straniamento: attraverso tecniche letterarie,
artistiche, mira ad obbligare il lettore a prendere della distanza, a sentirsi straniero, a confrontarsi
con una visione strana, sconosciuta, nuova.

III. L’Italia postcoloniale e le sue differenze

Igiaba Scego, come altri scrittori della letteratura migrante, ha progressivamente rifiutato questa
categoria per sostituirla con quella postcoloniale. Diversi studiosi sostengono che per analizzare i
testi dei nuovi italiani si debba usare un paradigma postcoloniale perché permette di riflettere
sulle relazioni di potere instaurate dal colonialismo e attualizzate nelle nostre società
contemporanee. Viviamo quindi in un’Italia postcoloniale. Assistiamo ancora oggi a forme di
imperialismo culturale e di annessione dell’altro, a forme indirette di dominazione delle grandi
potenze che alcuni chiamano neocolonialismo. Ponendo l’accento sulla dimensione trans-
transnazionale, transculturale – si prendono in considerazione l’influenza della globalizzazione
sulla circolazione planetaria dei saperi, i processi di migrazione dell’altro e i rapporti di
dominazione tra le culture e le lingue. Si esaminano le dinamiche portatrici di disuguaglianza e di
nuovi rapporti di dipendenza. Il superamento del paradigma postcoloniale in direzione
antimondializzazione è sensibile tra gli studiosi delle aree anglofona e francofona. Assistiamo
ancora oggi a forme di annessione dell’altro e di imperialismo culturale, perciò il postcoloniale
resta per molti la prospettiva critica che permette di affrontare queste nuove sfide. L’evoluzione
degli studi postcoloniali in una prospettiva trans sono pertinenti per quanto riguarda la situazione
italiana, perché riflettendo su scala planetaria si possono problematizzare meglio i rischi
dell’inglobamento e dell’annessione delle realtà minori. La questione della salvaguardia della
diversità, compresa quella linguistica, tocca direttamente l’Italia, paese che in un contesto
mondiale rappresenta una realtà minore. Young ricorda che per opporsi alla tendenza del potere
di annettere le culture diverse, gli studi postcoloniali invitano a un’etica della resistenza, a una
politica identitaria rivendicativa, a un approccio alla letteratura che valorizzi il suo potenziale
politico e culturale. Per opporsi alle tendenze e tentativi di incorporazione o di marginalizzazione
delle culture minori, gli studi postcoloniali invitano quindi alla resistenza culturale e linguistica e
all’affermazione della propria differenza.

Per quanto riguarda il supposto ritardo italiano nello sviluppare un proprio postcoloniale, si
rimanda spesso al fatto che gli intellettuali e le istituzioni italiane abbiano tardato nello scrivere e
riscrivere il fatto coloniale. Le ragioni di questo ritardo sono individuate nella difficoltà di accettare
un passato coloniale e anche nello scetticismo italiano nei confronti di teorie elaborate altrove.
L’Italia, quindi, storicamente in ritardo nell’industrializzazione, nella corsa alle conquiste coloniali e
in altri conseguimenti, sarebbe oggi in ritardo nella sua consapevolezza postcoloniale. Una
caratteristica peculiare del postcoloniale italiano è il forte legame del postcoloniale col fenomeno
migratorio, più ancora che con la colonizzazione e la decolonizzazione. Per questo alcuni parlano di
postcolonialità indiretta, sottolineando che in Italia la maggior parte degli immigrati non proviene
dalle ex colonie. Quando si considerano le migrazioni italiane è importante ricordare anche le
emigrazioni di 25mln di italiani all’estero. Inoltre il postcoloniale italiano ha un altro tratto
distintivo: la presenza di un colonialismo endogeno. L’Italia ha una lunga storia di disunità, lo
spezzettamento territoriale, le dominazioni straniere, le diversità linguistiche che frantumano da
tempo l’idea di omogeneità nazionale. Come ricorda Lombardi-Diop occorre considerare, per
l’Italia, oltre alla globalizzazione delle migrazioni e alla questione del Sud, anche il periodo storico
della fine della guerra fredda. È il punto di avvio della postcolonialità italiana agli inizi degli anni 90,
nel momento in cui finisce l’impero sovietico e l’opposizione est/ovest, piuttosto che nel momento
della decolonizzazione e delle indipendenze. Il periodo coloniale propriamente detto per l’Italia è
quindi dissociato dall’inizio temporale della postcolonialità; inoltre, al problema del sud si unisce la
questione dell’est e del postcomunismo. La colonizzazione italiana si è svolta su un periodo
relativamente breve e su un territorio circoscritto, con un insediamento demografico limitato, per
cui una concezione ristretta al fatto coloniale non permette di misurare la vera condizione
postcoloniale italiana. L’Italia non ha vissuto guerre di decolonizzazione e non conosce
un’immigrazione direttamente legata alle sue conquiste coloniali. Senza sminuire la colonizzazione
italiana, il postcoloniale italiano non può esservi rigorosamente associato. Per la situazione
postcoloniale italiana, quindi, oltre alla colonizzazione vanno preso in considerazioni anche altri
elementi come le migrazioni, il sud, la fine della guerra fredda.

Una visione del postcoloniale italiano che lo ricollega non solo alla storia coloniale, ma alla storia
italiana su un lungo periodo che va dall’Unità fino agli anni 2000 trova conferma in studiosi
stranieri. Young sottolinea che il postcoloniale italiano è nato più nelle scienze sociali che negli
studi letterari. La produzione letteraria postcoloniale italiana ha visto luce tardivamente, con i
primi romanzi di Scego, Ghermandi e Ali Farah, pubblicati nel 2003 e 2007. Young dà varie
spiegazioni della specificità italiana:

1. La forte influenza di una cultura di sinistra. L’Italia è stata tra i primi paesi a sostenere i
movimenti anticoloniali dopo la seconda guerra mondiale.
2. Lo sviluppo oggi di teorie politiche molto dinamiche da parte di studiosi italiani.
3. La posizione dell’Italia nel Mediterraneo, che l’espone a intensi fenomeni migratori. La
presenza dei migranti non può che trasformare il paese.
Nella visione di Young, la diversità italiana sta nella geografia più che nella storia: l’Italia conosce il
multiculturalismo e la trasformazione non come conseguenza della sua storia coloniale ma a causa
della sua posizione geografica e degli effetti della globalizzazione. Riguardo all’influenza della
sinistra, Young insiste sul legame tra i partigiani italiani e i movimenti anticoloniali. Young risale
fino al Risorgimento, considerato in tutto il mondo come la prima grande lotta anticoloniale. Nel
secondo dopoguerra, il PCI era molto attento alla decolonizzazione fuori d’Italia, nell’ottica della
lotta antimperialista e anticapitalista. Questo ci permette di capire meglio il ritardo italiano, perché
il postcoloniale emerge nel campo culturale esattamente quando si esaurisce l’anticolonialismo
politico, a cui subentra. È anche il momento in cui all’emigrazione succede l’immigrazione, ovvero
il momento in cui l’immagine che gli italiani hanno di se stessi si capovolge: il paese povero e
dominato diventa un paese occidentale, a modo suo dominatore.

Riassumendo:

dopo la fine della guerra fredda, delle lotte di indipendenza e dell’emigrazione, l’Italia entra nelle
dinamiche globalizzate e conosce l’arrivo di flussi migratori. Inizia a pensarsi come un ex paese
coloniale e come paese postcoloniale. Riprende teorie elaborate in contesto anglosassone e si
proietta in una dimensione mondiale, trans. Il postcoloniale italiano sembra distinguersi per i
seguenti tratti:

1. La presenza di una sinistra forte che ha dato sostegno alle lotte terzomondiste,
anticapitaliste, antimperialiste e internazionaliste. Ciò ha condotto l’Italia e i suoi
intellettuali alla decolonizzazione politica degli altri, situandola dalla parte dei subalterni,
ma ostacolando la percezione di se stessa come paese coloniale.
2. Esiste una tradizione italiana di filosofia politica radicale, capace di pensare la diversità e la
soggettività, pensiero che però non è stato sfruttato nell’approccio italiano al
postcoloniale, il quale si fonda su concetti e idee provenienti dall’area anglofona.
3. Le guerre del Risorgimento hanno liberato l’Italia dagli oppressori e dalle potenze straniere,
creando però nuove situazioni di dominazione e di sfruttamento, un colonialismo interno.
Nel contesto postunitario nascono discriminazioni a carattere razziale. Il colonialismo
endogeno e la questione del Sud sono fondamentali.
4. I cicli migratori degli ultimi 150 anni hanno contribuito a trasformare l’Italia e gli italiani. La
transizione da paese di emigrazione a paese di immigrazione è stata rapida. Ma la
riflessione sulla post-transcolonialità non deve trascurare le comunità italiane
transnazionali, che comprendono le nuove emigrazioni di giovani e intellettuali.
5. Il confronto con il passato coloniale e la ricezione degli studi postcoloniali si sono fatti
inizialmente nell’ambito delle scienze sociali. La letteratura postcoloniale si è affermata di
recente e il corpus è ristretto.

L’Italia di oggi dev’essere pensata come un frammezzo, in equilibrio tra 2 condizioni: ex impero e
realtà minore, paese d’Europa e paese del Mediterraneo, paese occidentale e paese del Sud,
economicamente forte e debole, razzista e vittima di razzismo, indirizzato al globale ma anche al
locale.
IV. GENERE, ETNIA, CLASSE: INTERSEZIONALITà ASIMMETRICHE

I processi storico-politici di decolonizzazione, i flussi migratori, l’economia globale, la


comunicazione planetaria, la globalizzazione come moltiplicazione delle mobilità con
contaminazioni e dislocazioni sono fattori che influiscono sulle relazioni di potere, di dominazione
e sottomissione, di centralità e marginalità. In questo contesto di ridefinizione delle identità e dei
rapporti di forza, i Gender e postcolonial studies hanno insistito sull’emergere di nuove
soggettività connotate da vari elementi, tra cui il genere e l’appartenenza etnica o razziale. Sesso,
razza e classe costruiscono i soggetti all’interno di spazi e situazioni storicamente determinati.

La Straniera di Younis Tawfik è un romanzo emblematico, esemplare della complessa interazione


tra le differenze e delle interferenze tra passato e presente, noi e loro, uomo e donna, individuo e
collettività, integrati e subalterni. Pubblicato nel 1999, si distingue perché ha ottenuto in Italia
successo di pubblico e critica e anche perché si propone come romanzo, prodotto
dell’immaginario, e non come autobiografia in un periodo – gli anni 90 – in cui quasi tutta la
produzione migrante è autobiografico. Anche l’autore è atipico rispetto ad altri scrittori migranti:
di origine irachena, già poeta in patria, si è trasferito in Italia per proseguire gli studi nel 1979. È
intellettuale, professore di letteratura araba, autore di diversi libri scritti in italiano, lingua scelta
per affermare la propria integrazione linguistica, ma non quella culturale, che lui pone
nell’ibridismo. La Straniera racconta una storia d’amore impossibile nella Torino degli anni 90, tra
un ingegnere arabo 40enne, esiliato in Italia da anni e ormai integrato, e una giovane prostituta
marocchina, Amina, da poco arrivata in Italia come clandestina. Mostra come l’amore impossibile
tra due arabi oggi in Italia sottintenda l’impossibile superamento di differenze di genere e di classe,
oltre che di razza o etnia: i retaggi culturali che impediscono l’unione affondano in pregiudizi
sociali e sessuali, aldilà dell’appartenenza d’origine. Il principio dell’alternanza che mette in
parallelo due voci di stranieri, una maschile e una femminile, le quali evocano il mondo perduto e
la solitudine presente, si sviluppa piuttosto come principio di contrasto – opposizione uomo e
donna, opposizione passato presente, opposizione cultura di origine e cultura occidentale – una
dualità non ricondotta a unità, considerato l’epilogo drammatico che esprime impossibilità,
fallimento, morte. Il nodo è innanzitutto il confronto di genere. La storia di un’immigrata è
raccontata attraverso lo sguardo di un immigrato di sesso maschile – e da un autore di sesso
maschile. È più una storia di una donna che lotta contro i limiti imposti al suo genere dalla società,
specialmente marocchina ma anche italiana, in cui lei è costretta a prostituirsi. La situazione dei
due personaggi, benché entrambi immigrati, è molto diversa: Amina è un’emarginata sfruttata che
vaga in strade e stazioni, mentre l’ingegnere è integrato e gode di buona situazione economica, e
proprio perché ha raggiunto un equilibrio socioeconomico culturale, rifiuta Amina. I due
personaggi, malgrado la distanza sociale, hanno molto in comune: la lingua, la cultura, e un
sentimento di nostalgia dovuto alla loro condizione di immigrati. Sono stranieri e arabi.
L’insistenza sul divario tra noi – immigrati arabi – e loro – italiani – ha lo scopo di sottolineare la
prossimità tra Amina e l’architetto. I due protagonisti però vengono rinviati alla loro cultura araba
e ai codici di comportamento connessi, cultura presentata come omogenea in tutto il mondo
arabo, per tutti gli arabi, senza differenza di classe o genere, e a questa cultura vengono fissati.
Amina è quindi condannata a incarnare la donna araba, un modello ideale cui tuttavia non può più
corrispondere ma da cui le viene impedito di distanziarsi. Viene ignorata la differenza di
condizione – una povera clandestina senza diritti, un ricco e rispettato architetto – che invece
incide notevolmente sulla loro vita da stranieri. L’immigrato integrato è un architetto senza nome,
di famiglia benestante e anche in Italia conserva il suo rango. Quando è con Amina, l’architetto
insiste sul suo essere arabo, ma non quando incontra altri arabi o quando frequenta italiani, sono
anzi gli italiani a rimandarlo continuamente alle sue origini. Si muove in spazi pubblici, università,
studio, ecc. affronta temi politici che avvicinano la sua posizione a quella dell’esule. Incarna quindi
una figura dalle prerogative maschili. I suoi racconti si incentrano spesso su avventure sessuali: le
prime esperienze nel paese di origine – topos su sensualità e mistero delle donne arabe-, la prima
relazione stabile in Italia e altre relazioni occasionali – topos sulla libertà sessuale delle donne
occidentali. Le donne italiane sono pronte ad accasarsi con lui, aperte a mescolanze e ibridismi, è
l’architetto a mostrarsi restio per 2 ragioni: la donna italiana è troppo intraprendente e legarsi a lei
implica legarsi al nuovo paese. La sua apertura alla cultura occidentale quindi non va in profondità,
malgrado i discorsi sull’emancipazione delle donne, l’architetto ha una posizione di chiusura
rispetto alla cultura occidentale e la ragione è che ha paura di perdere, della cultura di origine, una
precisa suddivisione dei ruoli sessuali. Viene presentato come personaggio positivo, benestante e
integrato, ma anche nostalgico. È in cerca di un’anima gemella che può essere solo una donna
araba. La donna araba, ma non Amina, che non è esemplare, non è più pura, si unisce carnalmente
a uomini stranieri e ha anche un certo carattere. L’architetto non sopporta questo: una donna
povera, sottomessa e vergine può trovare un uomo che la sollevi dalla miseria e la sposi, ma per
una donna contaminata – dalla cultura occidentale e dagli uomini occidentali – un uomo come lui
può provare attrazione o compassione, ma non volerla come compagna. L’architetto è il
personaggio principale del romanzo, ha spazio di parola molto maggiore rispetto ad Amina. Amina
subisce nel romanzo tutte le sventure, accumula disgrazie tipicamente femminili, che ne fanno
simbolo di vittima: nata in famiglia povera, non può proseguire gli studi, subisce violenza sessuale
da adolescente, è incolpata della morte di un fratellino, perde il padre, la migliore amica. Decide di
sposarsi ed emigra, in Italia le esperienze drammatiche aumentano: tradita e abbandonata dal
marito, sfruttata e abbandonata dalla sua comunità, rigettata dagli italiani, diventa prostituta
illegale. È il prototipo della donna caduta in basso, bisognosa di sostegno, che va aiutata per
tornare sulla retta via, e suscita nel lettore una reazione paternalistica e colonialista. Eppure Amina
risulta una donna forte, cerca di fuggire alla predestinazione di vittima sottomessa connaturata al
suo essere donna, povera e araba. I suoi tentativi di emancipazione sono molteplici, da
adolescente si mascolinizza nel comportamento e nel nome, da giovane nubile trova lavoro e
diventa il sostegno della famiglia, da immigrata e prostituta si imbiondisce e si imbianca la pelle
per trasformarsi in italiana e avere una chance. Violentata, umiliata, misera, sola e senza casa,
trova la forza di cercare un lavoro e fare amicizia. Tuttavia, la libertà dura poco. Come se il genere
la condizionasse senza scampo, come se la condizione sociale iniziale fosse insuperabile. Amina
saprebbe cosa fare per uscire dai ruoli imposti, ma né la madre o il marito, l’architetto, i clienti
italiani, detentori della cultura patriarcale e delle convenzioni, glielo permettono. Neppure
l’autore, perché dal romanzo emerge una figura di donna che subisce il confinamento al cliché
esotico, accumulo di pregiudizi e proiezioni maschili. Alla fine del libro, quando Amina finalmente
trova la sua strada, muore per tumore al cervello.

Il romanzo elude questioni come cosa sia un’identità etnica o nazionale, come si costruisca una
identità personale. La storia, presentando dualità e impossibilità – la coppia mista, l’impossibile
emancipazione della donna araba, impossibile modificare i rapporti di dominazione o integrarsi
senza sofferenza – va contro l’avvento di un contesto multietnico o pluriculturale. Le figure
proposte non contribuiscono a forgiare un nuovo immaginario, ma rinforzano esotismo e
stereotipi. La contaminazione fallisce a causa della resistenza della cultura maschile e maschilista,
resistenza dell’uomo a disfarsi di prerogative di dominazione, fallisce a causa del rifiuto del
borghese intellettuale di mettersi al livello di poveri emarginati e rigettati, fallisce a causa della
volontà dell’arabo di restare attaccato a un noi fittizio e nostalgico che gli impedisce di vivere
positivamente il meticciato. La ragione del successo del romanzo nel lettorato italiano è dovuta ai
rassicuranti luoghi comuni: gli immigrati sono responsabili del loro destino, restano chiusi tra loro,
fermi sulla loro cultura. L’architetto è un uomo del passato che non mette in discussione né
tradizioni, radici o privilegi. È dovuto anche all’atmosfera di erotismo ed esotismo, e soprattutto al
melodramma finale, la punizione della prostituta. Tuttavia, il personaggio di Amina resta
commovente, perché è una figura di donna contro cui si accaniscono tutti ma che rifiuta di
assumersi come vittima. Contro cui si accanisce anche l’autore che non le ha dato una chance di
riuscire nel processo di emancipazione.

V. Dalla scrittura di sé alla riscrittura del mondo: Vorpsi, Kuruvilla, Ghermandi

La marginalità di genere è oggi associata da molti studiosi alla marginalità di razza e di classe. Le
immigrate mettono in gioco un doppio coefficiente di subalternità, femminile e migrante, e spesso
un triplo quando si aggiunge la classe sociale. Nella letteratura delle donne è particolarmente
importante l’autonarrazione. Il racconto di sé è uno strumento di autoconsapevolezza, di
affermazione di esistenza, di confronto col pubblico, come sono state le pratiche di auto
narrazione dei gruppi di autocoscienza femminista. Pezzarossa segnala che i testi femminili della
migrazione sono spesso d’eccellente qualità per il romanzo autobiografico. La ragione di questa
qualità autobiografica femminile, come nello specifico della scrittura femminile migrante italiana,
venuta alla luce inizialmente con una serie di libri testimoniali, e proseguita con la produzione di
romanzi i cui personaggi e trama ricalcano dati ed esperienze delle autrici. Un’altra spiegazione
risiede nelle pratiche auto narrative che, impostesi in discipline non letterarie, hanno effetti nelle
pratiche scrittorie. Il racconto come pratica sociale, come costruzione di storia collettiva a partire
dalla storia privata ha influenzato le scrittrici migranti in particolare nella fase iniziale. Tuttavia,
conclusa la prima fase in cui eccellevano le autobiografie, si osserva come alcune opere della
letteratura femminile migrante non intenda più rispondere a logiche testimoniali o rivisitative, ma
esprimono piuttosto scelte di modalità narrative che sfociano in forme fuori genere, eccentriche.
In particolare, La mano che non mordi di Ornela Vorpsi, E’ la vita dolcezza di Gabriella Kuruvilla, i
quali pur conservando tracce della auto narrazione superano il registro autobiografico e il racconto
della migrazione; come contro esempio, Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi,
considerato il testo fondatore della letteratura postcoloniale italiana.

La mano che non mordi di Ornela Vorpsi è un romanzo che si presenta in forma di diario di viaggio:
un’albanese ha lasciato il suo paese da anni e vive a Parigi, e racconta di un viaggio a Sarajevo. Va
a trovare un amico poeta, e si ritrova immersa nella sua cultura di origine, quella dei Balcani, dei
paesi dell’Est. Il viaggio, topos della letteratura migrante, è qui viaggio di ritorno. Il problema è qui
fare i conti con la consapevolezza di essere ormai una perfetta straniera. Vale la pena di rischiare
la propria vita per difendere culture subalterne, quelle dei Balcani. Il viaggio è quindi anche viaggio
politico. La sindrome dei Balcani, cioè la mescolanza di marginalità, complesso di superiorità e
rifiuto dell’Occidente, la vivono tutti i personaggi. La sua vicenda personale si allarga, il soggetto io
si trasforma in un noi, la scrittura di sé traccia un’autobiografia intellettuale e politica collettiva in
cui gli individui diventano popoli. C’è solidarietà tra i giovani dei Balcani e c’è la comprensione
della narratrice. La struttura del libro è circolare, si apre con la partenza e si chiude con il ritorno
della protagonista, ma il viaggio non è lineare: c’è un intrigo, ricordi, aneddoti, dialoghi,
spostamenti in altri momenti e luoghi, ecc. Il viaggio Parigi-Sarajevo è quindi una cornice
metaforica ad altri viaggi e gira sempre attorno ai temi della libertà, della contaminazione, della
condizione di straniero.

È la vita, dolcezza è il romanzo del 2008 di Gabriella Kuruvilla, figlia di coppia mista, nata a Milano
da padre indiano e madre italiana. Propone un montaggio narrativo sfaccettato, una quindicina di
racconti con rimandi interni a temi, personaggi o storie. Sono racconti in prima persona, i
protagonisti sono spesso donne, ma anche quando sono uomini le storie vertono su rapporti di
genere e problematiche maschile-femminile. Le storie, tutte ambientate nell’hinterland milanese
ai nostri giorni, hanno in comune un protagonista figlio di immigrati, figlio di coppie miste o egli
stesso immigrato, nello specifico indiano o di origine indiana. Li accomuna l’alterità di pelle, nera o
in varie sfumature, quindi la questione di razza si interseca alla questione di genere, il problema
delle origini negate o delle radici spezzate interagisce con lo sfruttamento femminile, della
sottomissione, del patriarcato, della violenza. I personaggi sono poco canonici: badanti, colf,
prostitute, indiane divorziate, ecc. Tutti vivono un incolmabile fossato tra due culture che
contraddistingue i rapporti tra uomo e donna, genitori e figli, ecc. Il primo racconto, Barbie, ha
come protagonista Mina, una 40enne di origini indiane che incontra un famoso designer
affascinato dall’India dove viaggia ogni anno. Mina si adatta al nuovo ambiente chic alternativo.
Rimane incinta e dopo il parto di 2 gemelli iniziano i malintesi. Lui le chiede di smettere di lavorare
per fare la mamma a tempo pieno. Declina poco a poco l’esotismo che li aveva uniti e lui la lascia
per mettersi con una giovane stagista americana. È l’uomo a rinsaldare la fissità di due culture
contrapposte, quella occidentale e quella indiana, scegliendo quanto più gli torna utile dell’una e
dell’altra, relegando la moglie indiana nella tradizione e nel folklore, preferendole una moderna
bambola bionda. Mina, qualche anno dopo il divorzio, riprende i propri abiti tipici. Il libro tratta
dell’essere a mezzo, italiano e indiano, che espone alla negazione di una parte di sé, ma anche dei
rapporti uomo-donna e rapporti di classe. È la vita, dolcezza propone una visione caleidoscopica di
rigetto, contestazione e rabbia. Non appartiene a un genere definito, la composizione è
frammentaria, la scrittura nervosa. Il triplice coefficiente di differenza, femminile, migrante e di
classe ha una funzione dirompente.

Regina di fiori e di perle è un esempio di senso contrario. Primo romanzo di Gabriella Ghermandi,
dedicato alla storia sofferta dell’Etiopia e al difficile rapporto con l’ex potenza coloniale, l’Italia.
Ghermandi, figlia di coppia mista, nata e vissuta in Etiopia fino a 14 anni, poi in Italia scrive la storia
del popolo e del paese della propria infanzia. Il libro oscilla tra autobiografia e romanzo storico.
Ghermandi tende a preservare la lingua del passato, la lingua della memoria, degli affetti,
assegnando all’italiano una funzione utilitaria e quasi strumentale. La protagonista Mahlet ha
imparato la lingua dei colonizzatori, l’italiano, per poter dire la verità del suo popolo, si è
appropriata della scrittura per lasciare traccia della memoria dei colonizzati. La scrittrice
Ghermandi stessa si attribuisce la funzione di cantora. La struttura del romanzo è polifonica.
Raccoglie i racconti orali degli anziani e li trasmette. Diventano la storia dell’Etiopia nel corso di
quasi un secolo. Si rinsaldano i legami generazionali, conferisce al paese unicità storica e culturale.
La cantora che riceve queste storie le tramanda e funge da custode della tradizione e della
continuità famigliare, dell’attaccamento alla religione e ai costumi. Nel raccontare la storia
dell’Etiopia, Malhet e con lei Ghermandi fanno opera di rivisitazione, rivendicazione e di memoria.
Il romanzo è di genere storico, caratterizzato dal dovere di memoria e da forte connotazione
edificatrice e talvolta politico ideologica – preservazione di lingua, cultura e storia dell’Etiopia,
rivalutazione dell’identità etiope negata, condanna del colonialismo e della dominazione italiana.
La parola di questo romanzo non è però parola di sé, parola femminile, ma parola di un popolo.
L’autobiografia ripercorre una storia personale, ma dai risvolti collettivi, transitando verso il
romanzo storico, per valorizzare una identità etnica e sociale che include l’autrice e i suoi familiari
e connazionali. Il sé funge da microstoria rispetto alla macrostoria. Il trattamento delle figure
femminili e dei rapporti di genere nel romanzo rivela che le storie di coppie miste risultano sempre
impossibili a causa del passato coloniale; in Italia le donne etiopi vengono sfruttate e l’attività
lavorativa ne rinforza la subalternità. L’Occidente di oggi non è la terra sognata dell’emancipazione
femminile, del progresso e della cultura: l’Africa, quella delle lotte anticoloniali, è invece il luogo
della liberazione dei popoli e delle donne, degli oppressi e degli sfruttati.

Kuruvilla e Vorpsi affermano altri modelli, altri canoni. Ghermandi si rifà all’autobiografia e al
romanzo storico, generi tipici per raccontare storie di ieri e del paese di origine, Kuruvilla fa uso di
strutture e forme più atipiche per trattare scissioni identitarie di oggi. Vorpsi crea un libro atipico
dove affronta il conflitto tra memoria e libertà. La cultura delle origini è nell’universo narrativo di
Ghermandi, che pur proponendo una visione storica in antitesi con quella ufficiale, non presenta
tratti innovativi rispetto ai canoni occidentali. Neanche la componente autobiografica è distintiva,
perché rimanda a una specificità femminile e della narrazione migrante: i primi testi di letteratura
dell’immigrazione e in particolare la produzione femminile sono di dimensione testimoniale e
autobiografica. Questo romanzo quindi smentisce il presunto carattere intrinsecamente
rivoluzionario della letteratura migrante. Ghermandi rivisita la storia per ristabilire giustizia e verità
per il suo popolo, Kuruvilla e Vorpsi si fanno carico del processo di ricomposizione identitaria. Il
gap con la cultura occidentale non è affrontato da Kuruvilla e Vorpsi nella prospettiva
dell’integrazione a ogni costo. Il meticciato, la mescolanza, l’ibridazione non sono presentati come
soluzioni, anzi sono non riusciti, non evitano la doppia esclusione – dalla comunità di origine e dal
paese di accoglienza, cui si aggiunge per le donne l’esclusione dalla società maschile.

VI. Controstorie albanesi

Il primo romanzo di Anilda Ibrahimi, Rosso come una sposa, e il secondo L’amore e gli stracci del
tempo, sono ambientati in precisi contesti storico politici. Analizzati nella prospettiva degli studi
femministi, si notano le genealogie femminili, il modello sociale matriarcale, la rivisitazione degli
eventi storici vissuti da donne. Si nota l’uso atipico del romanzo storico, il rapporto micro e macro
storia, l’articolazione tra invenzione e documento, gli incroci tra eventi reali e fiction. Ibrahimi
racconta in italiano, vivendo in Italia, una storia di guerre vissuta e subita dalle donne, ma la storia
che le donne vivono si svolge nelle montagne albanesi o nelle strade del Kosovo. I due romanzi
italiani di Ibrahimi non parlano direttamente di quanto accade in Italia, ma sono ambientati nei
Balcani: il primo romanzo rivisita la storia dell’Albania nel 900, il secondo sulla recente guerra del
Kosovo. L’autrice è di origine albanese e vive in Italia dal 1997. Anche la sua produzione andrebbe
inserita nella letteratura migrante, ma Ibrahimi rifiuta l’etichetta, osservando come questa fosse
inizialmente utile per definire opere di testimonianza, ma ormai poco giustificata perché riunisce
in un ghetto scrittori che nulla hanno in comune tra loro a parte il fatto di scrivere in italiano. Il
rifiuto dell’etichetta migrante, considerata peggiorativa e ghettizzante, sembra indicare però che
Ibrahimi sottovaluti ciò che distingue gli scrittori migranti e li accomuna tra loro, ovvero che sono
nati e cresciuti altrove, o da genitori nati e cresciuti altrove, e scrivono spesso di o da questo
altrove. Danno una rappresentazione diversa della realtà, anche di quella italiana. E poiché il loro
altrove è un luogo decentrato, un luogo di subalternità, il loro racconto si oppone a narrazioni
centralizzanti e dominanti.

Nei 2 libri di Ibrahimi, l’Italia è presente in quanto destinazione, terra di approdo di un’immigrata
economica nel primo romanzo, e di un rifugiato politico nel secondo; è anche co-protagonista,
perché interviene nella loro storia. Eppure, quanto accaduto in Albania o in Kosovo non sembra
riguardare la nostra storia. Come se le guerre dei Balcani, a differenza del muro di Berlino o
dell’attentato alle torri gemelle, non ci riguardassero, malgrado la prossimità geografica e
l’implicazione diretta. Gli eventi mondiali recenti percepiti influenti sulla storia e cultura italiana
sono per esempio l’11 settembre, considerato evento chiave per eccellenza, il cui risvolto sulla
nostra letteratura nazionale sarebbe la fine una letteratura postmodernista. Wu Ming suggerisce
che la attuale letteratura italiana epica sia opera di scrittori che, nella loro eterogeneità,
condividono archivi, hanno in comune riferimenti immaginari e di eventi, propongono narrazioni
che fanno i conti con la recente storia d’Italia. In altri termini, scrittori e narrazioni condividono gli
stessi eventi chiave e le stesse date di svolta della storia italiana e della storia occidentale-
europea-nordamericana. Questa idea della condivisione della storia è altamente problematica,
perché implica l’esclusione di chi non la condivida, di chi non l’abbia vissuta dalla stessa parte. Il
racconto della realtà italiana oggi può nascere dal confronto di prospettive, dalla diversità di voci,
piuttosto che dalla condivisione di un comune sguardo. Le narrazioni di Anilda Ibrahimi, la sua
storia, sono contributo essenziale a quanto accade in Italia.
VII. Eroismi coloniali e postcoloniali

Nonostante la storia coloniale italiana sia limitata nel tempo e nello spazio e nonostante non ci sia
stato un processo conflittuale di decolonizzazione, la rappresentazione letteraria delle guerre
coloniali italiane e delle violenze è un soggetto molto vasto su cui gli studi non sono numerosi. La
produzione coeva arriva agli anni 70, periodo detto neocoloniale, va distinta dalla letteratura
postcoloniale, produzione narrativa recente, opera di autori afroitaliani. Le opere si incentrano
raramente sulla guerra in quanto tale, prediligendo il carattere esotico dell’esperienza africana, i
rapporti e dinamiche di subalternità e sopraffazione tra popoli e sessi, ieri come oggi. Eppure la
produzione letteraria resta segnata dalla guerra: gli esordi della letteratura coloniale si collocano
tra le due guerre di Dogali nel 1887 e il disastro di Adua nel 1896. Il romanzo di Ennio Flaiano
Tempo di uccidere è esempio della consapevolezza del fatto coloniale, ambientato in tempo di
guerra e con protagonista un militare. Il romanzo emblema del postcoloniale italiano è Regina di
perle e di fiori di Gabriella Ghermandi, riscrittura della storia coloniale in Etiopia. C’è una certa
difficoltà oggi a rappresentare letterariamente le guerre coloniali, vi ritroviamo topoi di ogni
guerra e la relativa retorica: l’eroismo, la creazione e funzione degli eroi collettivi. Là dove ci si
aspetterebbe un’opposizione a logiche bellicistiche e un rigetto dell’eroismo che si riallaccia al
sentimento nazionale, si ritrovano stereotipi e mitologie guerriere che fungono da elementi di
coesione di popoli e culture.

Nel leggere le cronache dall’Etiopia scritte da Malaparte e da Buzzati poi, entrambe per il Corriere
della sera nel 1939, si nota la grande differenza di tono e di intenti, nonostante entrambi siano
tenuti a vantare gli effetti della colonizzazione, pena la censura. Malaparte propone le sue teorie
dell’Africa bianca, continuità ideale dell’antica Italia romana, esalta l’eroismo dei coloni civili,
l’eroismo delle azioni militari italiane e denigra il nemico. Buzzati predilige invece aspetti culturali e
descrizioni di paesaggi, limitando l’adesione ideologica e la propaganda, esaltando anch’egli
l’eroismo dei coloni ma non quello dei militari. Malaparte pensava di trovare un’Africa
rassicurante e bianca, pacificata, ma si trovava di fronte un’Africa nera e una situazione militare
diversa da quella vantata dal regime. Malaparte si sforza di dimostrare come la missione
civilizzatrice italiana sia riuscita a trasformare l’Africa selvaggia in una riproduzione dell’Italia
provinciale che avanza verso la modernità. All’interno, però, i paesaggi e gli uomini non
corrispondono affatto a quanto si aspettava, lo spaventano, nelle sue descrizioni il paesaggio
diventa surreale, disordinato, ostile, è spaesato, disorientato perché ha davanti un’alterità che non
vuole riconoscere come tale. Volge l’attenzione alle azioni militari e ai combattenti, che presenta
come grandi uomini valorosi, mentre i nemici sono trattati come bande di ladri di bestiame,
briganti e incivili. Crea quindi un polo di italiani brava gente e dell’altra i nemici locali. Risulta
quindi la seguente immagine: bravi padri di famiglia italiani, grazie al loro valore, pacificano la
regione da bande di ladri di bestiame. Gli italiani, sempre tranquilli e decisi, vincono grazie
all’inquadramento militare, a bravura, coraggio e armi migliori. Dino Buzzati, invece, non
manifesta un’adesione ideologica al regime, ma sa di dover rispettare alcune regole – nessuna
visione egualitaria degli indigeni, nessun riferimento alle azioni di resistenza. Molti suoi articoli
sono quindi più neutri, vertono sulla costruzione delle colonie demografiche – Bari d’Etiopia, dove
presenta i coloni pugliesi come pionieri del fatto coloniale, veri eroi nazionali – o come la
modernizzazione dell’Etiopia grazie all’Italia- costruzione di strade, ospedali, ecc. Altri reportage
sono dedicati a paesaggi o usi e costumi locali. Quando Buzzati menziona le operazioni militari
contro i ribelli, il nemico viene sconfitto e ucciso, ma la sua empatia va unicamente ai connazionali
periti.

Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi è un’esplicita riscrittura postcoloniale di Tempo di


uccidere. Propone dei writing back, un ribaltamento di varie situazioni. Il capo della ribellione
etiope, disprezzato da Malaparte, viene descritto da Ghermandi come ribelle ed eroico. Vediamo
quindi contrapposte propaganda filo coloniale e filofascista da una parte e mitizzazione del
guerriero patriota dall’altra. Ghermandi presenta gli etiopi resistenti come audaci e impavidi,
mentre gli italiani sono vili e pessimi soldati. Gli italiani vincono le battaglie solamente grazie a
metodi sleali, come bombardando con i gas. Se per Malaparte la supremazia degli italiani è sempre
frutto di coraggio e intelligenza, di superiorità culturale e tecnologica, per Ghermandi solo l’uso
sleale di gas ha permesso agli italiani di vincere contro soldati molto più valorosi e coraggiosi di
loro.

Una simile rappresentazione la ritroviamo in Memorie di una principessa etiope di Martha Nasibù.
Tratta della gloria dell’aristocrazia etiope, culturalmente aperta all’Europa, specie a Francia e
Russia, paesi di cui parlava la lingua. Questa élite, prima della guerra, viveva nel lusso. Nasibù non
procede a una rimemorazione, ma a un’operazione di riscrittura. Molti sono i riferimenti alla
battaglia di Adua del 1896, perché lì gli etiopi hanno mostrato la loro superiorità. Inoltre, se gli
italiani hanno vinto la guerra nel 1936 è solo grazie all’uso di gas. Sottolinea proprio che a fine
1935, malgrado la superiorità numerica, l’esercito italiano stava registrando insuccessi militari, per
cui Mussolini autorizzò l’uso dei gas, che saranno poi usati per 5 anni di guerra. La vittoria è quindi
attribuita alla quantità delle armi e alla slealtà degli italiani.

XX Battaglione eritreo di Indro Montanelli è una raccolta di frammenti e testi di natura diversa,
pubblicato nel 1936 e riedito nel 2013. Montanelli ha causato molte polemiche perché negava
l’uso dei gas in Etiopia, mentre Del Boca, con le sue ricerche in archivio svelava sempre di più le
atrocità commesse dagli italiani. Montanelli più che criticare la natura del colonialismo, constata
l’errore politico e storico dell’avventura coloniale fascista. La sua visione positiva della guerra e la
certezza della superiorità dell’uomo bianco e dei diritti dei conquistatori risultano con nettezza. Il
libro di Montanelli non accenna alla sua personale questione matrimoniale, ovvero l’acquisto e
rivendita di una sposa abissina dodicenne.

Nessuno di questi testi mette in causa la guerra in quanto tale, né l’eroismo che la anima.
Malaparte, Montanelli, Buzzati, Ghermandi, Nasibù descrivono i loro coraggiosi e intelligenti, gli
altri vili e inetti. L’operazione di Ghermandi e Nasibù è legittima, perché giusta contrapposizione,
impone un altro punto di vista e scardina la storia ufficiale dei colonizzatori.

Al contrario, Ennio Flaiano in Tempo di uccidere e Appunti per una canzonetta contribuisce a
demistificare la guerra. Le sue osservazioni non risparmiano nessuno: opportunismo, avidità, ecc.
VIII. Dagli africani ai sardi o viceversa: Savina Dolores Massa

La prossimità tra Italia meridionale e Africa, accomunate per arretratezza, povertà e inciviltà, ha
portato recentemente a evidenziare, nei Sud del mondo, una comune forma di subalternità e
anche comuni modalità di resistenza nella globalizzazione. Young oggi ravvicina il Meridione
italiano e l’Africa, posizionando la linea di demarcazione tra diverse civiltà più o meno sotto Roma.
In molti testi della letteratura migrante e postcoloniale vengono assimilati i destini di immigrati e
meridionali, un esempio è Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, romanzo di Amara
Lakhous, dove il razzismo degli italiani del Nord è identico sia esso rivolto contro gli immigrati o
contro i meridionali, i quali sono stranieri quanto gli extracomunitari. Sembra così unire
meridionali e africani, opponendoli all’Europa, al Nord, al ricco Occidente. Meridionali e africani
sono accomunati dall’inferiorità e dall’essere periferie del mondo. Sono proficuamente utilizzati gli
strumenti elaborati nel campo degli studi postcoloniali e sue diramazioni – Subaltern studies,
global studies, global south studies, ecc. – e un’attualizzazione della questione meridionale. 2 testi
recenti di Savina Dolores Massa, Undici e Ogni madre, sollevano questo genere di questioni,
proponendo una inedita articolazione della prossimità meridionale-africana. Il primo racconta di
emigrati africani morti in mare, dà loro parola, raccontano l’odissea che hanno vissuto. È una
scrittrice sarda ad assumere la parola degli africani, stabilendo un legame sud-sud. Undici sono le
storie di altrettanti africani partiti su un barcone per approdare in Europa e morti in mare. È
ispirato a un fatto di cronaca, il ritrovamento alle isole Barbados di una barca con 11 africani a
bordo. Massa dà loro la parola, ridà loro vita, togliendoli all’anonimato. Ognuno di loro in punto di
morte ricorda la sua storia. Le loro parole sono raccolte dal griot, il cui compito prima di morire è
trasmettere la memoria. Il registro di Massa è a tratti lirico, basso, improntato all’oralità. Qui i
subalterni parlano, lo fanno con modalità proprie, grazie alla scrittura di un altro soggetto
consapevole della subalternità, Savina Dolores Massa. La tradizione africana è riscontrabile nel
griot, la kora, i toni magici e leggendari.

Ogni madre ha una struttura particolare: 13 microstorie, piccole vite quotidiane vissute in
Sardegna nell’arco di un secolo, dal Risorgimento agli anni ’60. Ogni storia è preceduta da poche
righe del macrostorico. Con tono da realismo magico, è evidente il legame tra il contesto storico e
la vita individuale dei personaggi. Rappresenta figure ispirate a fatti reali ma cariche di leggenda,
mito e favola. Le interessano le conseguenze che scelte politiche ed economiche o eventi maggiori
hanno sulla vita ordinaria di piccola gente in piccoli paesi: i subalterni, la periferia subiscono
decisioni prese dal potere centrale e dalle classi dominanti.

È importante sottolineare la prossimità tra microstoria e subaltern studies. Questi ultimi hanno
avuto per ispirazione il pensiero di Gramsci e affermano la necessità di una letteratura che
smantelli l’approccio dominante della narrazione storiografica, recuperi il passato sottratto, dando
voce agli esclusi e ai sommersi della storia del mondo, la microstoria, affermatasi in Italia dagli anni
80; dare spazio ad avvenimenti singolari, alla storia locale, per rinarrare eventi minori. Per quanto
riguarda i generi letterari, la produzione sarda verte sul genere del romanzo storico. Ci sono varie
fasi del romanzo sardo a tema storico, con una prima fase tardiva rispetto alla tradizione
nazionale, tra fine 800 e i primi anni del 900, una seconda fase in cui le opere mirano a correggere
gli errori della storia, o al recupero dell’identità, situabile tra gli anni 70 e 80, considerata
etnocentrica, e una fase più recente, di opere a carattere storico ma leggibili in chiave di
postcoloniale endogeno. Ogni madre è leggibile come romanzo microstorico. Anche in Undici la
pluralità di storie e voci, portate dal griot, fa comunità. Lo sguardo è sul particolare, sul margine.
Permette di vedere il mondo dalla parte degli sfruttati da un sistema di dominio di stampo
coloniale che dura da secoli. In entrambi i libri, Massa compie un’operazione di riscrittura della
storia, dando la parola alle vittime della terra e del mare, un’operazione che negli studi
postcoloniali viene detta writing back, contro narrazione, letteratura di opposizione alla visione e
al canone egemonico. La scrittura di Massa, inoltre, non risponde ai canoni predominanti della
letteratura italiana, prediligendo generi e stili che si rifanno al fantastico, alla favola e alle leggende
popolari, mescolando registri alti e bassi, forme di dialetto italianizzato o parlato sgrammaticato,
creando una sorta di plurilinguismo implicito. Letti secondo una prospettiva postcoloniale, i libri di
Massa accomunano africani e sardi. Sono ancora due periferie del mondo, Africa e Sardegna,
vicine per un passato in cui hanno subito la dominazione e lo sguardo discriminatorio del Nord. In
epoca di mondializzazione, le classi subalterne, i Sud si spostano in massa e invadono,
destabilizzano e disturbano la cultura egemone. Il sud diventa pervasivo. Il sud è in movimento,
irrompono al Nord con modelli propri e interrompono la grande narrativa occidentale. Nel libro di
Massa Undici, gli uomini si spostano dal Sud al Nord, ma non approdano; approda però la loro
parola di trasmissione memoriale che, come la parole dell’autrice, è rivolta al Nord; sottolineando
le linee di continuità tra tratta negriera e immigrazione africana oggi. In Ogni madre c’è una
tensione diversa, interna. Sempre sotto accusa l’egemonia del Nord verso il Sud, ma le persone
restano strette nell’interno dei villaggi. La loro parola sembra rivolta verso di sé, come fosse un
dialogo tutto interiore alla Sardegna. Oppressione e miseria secolari hanno generato chiusure
identitarie insuperabili e insopportabili. Questa chiusura endogena viene denunciata da Massa. La
differenza è notevole: l’Africa si esporta, si confronta, si mescola; la Sardegna regola i propri conti,
è più chiusa.

IX. Disseminazioni del Sud

Il Sud può essere concepito come metafora e luogo immaginario, spazio politico e economico,
dimensione geografica. Il caso dell’Italia è emblematico, perché esistono almeno 3 diverse scale di
osservazione: quella dell’Italia tutta come Sud dell’Europa, che trova il suo apice con i viaggiatori di
700 e 800 e che ha riscontri ancora oggi; quella del Mezzogiorno, il Sud endogeno che dalla
questione meridionale postunitaria ai nostri giorni non smette di definirsi in opposizione al Nord
Italia e nella dialettica margine-centro, dominante-dominato; e infine la più contemporanea
visione di un’Italia tutta al Nord, parte integrante di quel ricco Occidente che il Mediterraneo
separa dai Sud del mondo. Ognuno di questi livelli necessita di un approccio specifico, diverso. È
difficile stabilire una linea del Sud, perché è mutevole secondo le epoche e le prospettive. Ancora
più complicato è quando il Sud del mondo approda, si disperde e si riunisce, oggi in Italia, paese
diventato per i migranti il Nord del loro Sud, porta d’accesso alla ricchezza occidentale. Quando le
classi subalterne si spostano in massa destabilizzano la cultura egemone, la presenza del migrante
sul territorio, l’evidenza fisica della sua povertà ha un effetto di destabilizzazione. La
disseminazione del sud e il tragitto del sud, vediamo la relatività del sud: migrando, il sud non è più
fermo ma è in movimento, continuamente ridistribuito. È necessario esaminare attraverso un
corpus narrativo la disseminazione del sud sul territorio italiano oggi. La parola letteraria che viene
dal sud prima di arrivare a noi conosce già ibridazioni, negoziazioni, sovrapposizioni, elaborazioni
letterarie che impediscono di considerarla mera testimonianza diretta del migrante. Questo svela
alcune contraddizioni di fondo con cui si confrontano gli scrittori migranti, che nell’affrontare la
tematica della pervasività del migrante, oscillano tra la voglia di raccontare la tematica della
pervasività del migrante e la necessità di esprimersi su un fenomeno collettivo e sociopolitico, tra
la necessità di normalizzare la presenza del migrante sul territorio e il desiderio di affermare la sua
singolarità e la sua soggettività. Due libri esempio della disseminazione del sud in Italia sono
Immigrato di Salah Methnani e Mario Fortunato, e Milano, fin qui tutto bene di Gabriella Kuruvilla,
pubblicati nel 1990 e nel 2012. Sono rappresentativi di due distinte fasi della letteratura della
migrazione, e di due fasi del fenomeno migratorio, inizialmente transitorio e ormai stanziale; ma
anche di due tendenze letterarie: autobiografismo e geospazialità.

Recepito nel 1990 come mera testimonianza, racconto autobiografico del tunisino Salah Methnani,
Immigrato è stato poi rivendicato da Mario Fortunato come suo romanzo, una sua storia.
Methnani lo rivendica ancora oggi come diario di viaggio, scritto da entrambi, basato su una sua
esperienza professionale, un reportage fatto tra immigrati. Il romanzo è la storia di un giovane
tunisino, laureato in lingue, che arriva in Italia a fine anni 80 in cerca di libertà come tanti giovani
convinti che l’Occidente riservi loro grandi opportunità. Il libro è strutturato a tappe, ogni capitolo
porta il nome di una città, la prima e l’ultima sono in Tunisia, le altre otto in Italia. È quindi un
viaggio in Italia, il cui viaggiatore Salah diventa progressivamente un clandestino; invece di
emanciparsi e liberarsi, a mano a mano che sale verso il Nord è respinto verso il suo essere un
reietto, un membro indesiderato del Sud del mondo. L’Italia è quell’Occidente ricco che si
immaginava quando era in Tunisia, ma non per quelli come lui. A Milano scopre che si è formata
una piccola borghesia di immigrati, scopre anche che anche gli italiani possono essere poveri e
emarginati, senza tetto e senza lavoro. Alla fine il narratore riesce ad ottenere il permesso di
soggiorno e stabilirsi in Italia; l’ultimo capitolo però si apre col ritorno del protagonista in Tunisia,
una visita di breve durata al padre prima di rientrare in quello che è diventato il suo paese di
approdo, l’Italia.

Immigrato non racconta come vive in Italia un ex clandestino ormai regolarizzato. La Milano
presentata è multietnica, riunisce varie generazioni di migranti e molte comunità. Nel melting pot
di decine di popoli, lingue, razze, in questa forma nuova di cosmopolitismo metropolitano,
permane qualche italiano, figlio o nipote di immigrati meridionali. Gli italiani in questi quartieri
milanesi sono fuori posto. Per alcuni questi quartieri sono un ghetto, per altri sono un modello di
convivenza possibile.

Il libro di Kuruvilla è provocatorio, ha un tono di revanche per voce di Samir, ex clandestino ora
lavapiatti. Afferma che nella poligamia musulmana, l’uomo per avere tante mogli deve poterle
mantenere tutte, mentre il maschio italiano ha delle amanti e talvolta si fa mantenere. Gli
immigrati hanno una sorta di diritto compensatorio di prendersi donne, spazi, ricchezze, stanno in
Italia e si mescolano con gli italiani per necessità, senza condividere valori e confidando in un
ritorno al paese di origine o quantomeno di restare in comunità. In Milano, fin qui tutto bene, gli
immigrati di oggi non sono di passaggio, nella città ci vivono, disseminano usi e culture. I poveri del
global south trasferendosi al Nord affermano la loro presenza. Presenza che destabilizza, perché
non si riscontra nessuna volontà di integrazione, anzi, il concetto è messo in discussione.

X. IMMIGRATE E PRECARIE

Immigrato di Methnani e Fortunato e Milano, fin qui tutto bene di Kuruvilla danno poca imporanza
al problema del lavoro. Il mondo del lavoro è uno sfondo economico e sociologico, ma l’attività
lavorativa non è presa in considerazione in quanto tale, come strumento di realizzazione di sé, di
emancipazione o di integrazione sociale e culturale. E ancora meno il tema del lavoro è articolato
con la questione di genere. Sessismo e razzismo come elementi di subordinazione nell’Italia della
globalizzazione non possono essere ignorati. La sociologia ha fornito inchieste e studi sul lavoro
femminile migrante, i cui risultati confermano che disoccupazione, lavoro nero, lavori meno
qualificati colpiscono in primis le immigrate. La letteratura italiana però non sembra interessata a
questa precisa realtà. Le opere e gli studi che tematizzano il rapporto tra lavoro, precariato e
immigrazione e donne sono rarissimi. Su questi temi si interrogano da anni femministe di
orientamenti diversi, tra cui quelle del femminismo postcoloniale, come Mohanty, che si interroga
sulle connessioni esistenti tra strutture sessiste, razziste e classiste a livello internazionale e sul
lavoro da donne. Anche il femminismo italiano si interessa alle nuovi accezioni del lavoro
femminile in connessione con precariato e migrazioni, nel contesto della globalizzazione e della
decolonizzazione. Pur non essendo un solido corpus letterario che proponga rappresentazioni e
narrazioni, temi e figure rappresentativi di una realtà così significativa delle trasformazioni in corso
nell’Italia degli anni 2000, qualche elemento fornito da testi ascrivibili alla letteratura
postcoloniale, in particolare quelli che mettono in scena la comunità somala, ci permettono di
approfondire la riflessione e mettere in evidenza contraddizioni e paradossi legati alla
femminilizzazione del lavoro e alla precarietà delle lavoratrici immigrate.

Nel romanzo Madre piccola di Cristina Ali Farah, scrittrice di madre italiana e padre somalo, vissuta
fino a 18 anni in Somalia poi fuggita in Italia a causa della guerra civile, racconta le vicissitudini
della diaspora somala, in particolare della comunità romana. Una delle protagoniste, Barni, da anni
immigrata a Roma, ostetrica, afferma che uomini e donne non vivono l’e-immigrazione nello
stesso modo, le donne si adattano meglio grazie all’abitudine al sacrificio di sé e alla dedizione;
inoltre, il tipo di attività che svolgono in patria, lavori domestici o di cura, è lo stesso che svolgono
nel nuovo paese di residenza. Questo succede nella fiction romanesca come nella realtà. Come un
leit motif, le donne somale raccontano che sono costrette a lavorare per mantenere mariti, figli,
fratelli, tuttavia si emancipano e si integrano, stanno godendo di un certo successo economico. Gli
uomini invece non si abbassano a fare lavori umilianti, e bighellonano nei luoghi di ritrovo
comunitari. Benché alla fine dipendano dalle donne, gli uomini continuano a considerarle loro
subordinate e pretendono di essere serviti. Questi comportamenti maschili e femminili
riproducono strutture patriarcali dominanti su scala transnazionale. Alle donne immigrate,
doppiamente subordinate, vengono doppiamente assegnati lavori di domesticità, di cura. Il
fenomeno delle domestiche della globalizzazione è particolarmente di rilievo in Italia, dove
l’immigrazione dagli anni 90 fino a pochi anni fa era caratterizzata da una forte presenza
femminile, spiegabile in gran parte con l’invecchiamento della popolazione e le carenze del
welfare. Le donne immigrate sono dedite in grande maggioranza a 3 attività: lavori domestici o di
assistenza familiare – colf, badanti, infermiere, ecc. -, lavoro casalingo – donne arrivate per
ricongiungimento familiare -, lavoro nell’industria del sesso. Le immigrate rimangono quindi
confinate a lavori di cura e di prostituzione, ossia attività convenzionalmente femminili. Si instaura
anche un divario tra le donne italiane, che svolgono fuori casa attività socialmente riconosciute, e
le donne immigrate, che le sostituiscono nei lavori domestici: alcuni sostengono che
l’emancipazione delle une si fa grazie al mantenimento delle altre in ruoli subordinati. Il lavoro di
cura diventa fonte di reddito: se tra le immigrate si perpetuano i ruoli di genere tradizionali, il
lavoro, sia pure quello domestico, umile e precario, rappresenta un momento di
autodeterminazione e strumento di autonomia economica; di conseguenza, l’immigrazione crea
una possibilità di svincolo dalle strutture familiari e dalla cerchia comunitaria, crea una possibilità
di transizione da una condizione fissa a un’altra precaria ma autonoma e in movimento. Il
cambiamento di ruoli tra uomini e donne, nei recenti flussi migratori, è percepito all’interno dei
gruppi immigrati e provoca tensioni e crisi. Nel caso dell’immigrazione dalla Somalia, il fattore
postcoloniale è centrale perché le eredità del colonialismo hanno giocato un ruolo fondamentale
nel controllo, nella etnicizzazione e nella discriminazione delle donne migranti nell’Italia
contemporanea. Si potrebbe vedere nelle colf e badanti del Corno d’Africa oggi in Italia una
variante neocoloniale delle donne a servizio nelle famiglie italiane ai tempi del colonialismo. Nel
romanzo Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi, la protagonista era meno sfruttata
quando lavorava come domestica in una famiglia italiana di Addis Abeba, di quanto lo sia quando
fa la badante in un paesino emiliano presso una famiglia che le fa subire anche umiliazioni di tipo
razzista e colonialista.

Si parla oggi di femminilizzazione del lavoro. La capacità di adeguarsi e consacrare se stesse rende
le donne appetibili per il mercato del lavoro, rende il lavoro non più appetibile a chi non voglia
adattarsi e femminilizzarsi. Il mondo del lavoro attuale richiede requisiti, come sacrificio di sé,
disponibilità totale, predisposizione alla cura, di cui le donne si avvarrebbero senza sentirsi
svalorizzate o perché già tali. La precarietà però contribuisce alla decostruzione identitaria, alla
degenerizzazione del lavoro. La precarietà va contro la dicotomia uomo-donna, il lavoro di oggi
andrebbe oltre il genere, oltre la classica divisione sessuale del lavoro. Uomini e donne, entrambi
precarizzati nel mondo globalizzato, subiscono le stesse condizioni e devono portare avanti la
stessa lotta e le stesse rivendicazioni. Tuttavia, nell’affermare ciò si appiattiscono le differenze.
Inoltre, il sacrificio di sé, la domesticità, la cura degli anziani, malati e bambini, non sono le migliori
fondamenta per un cambio positivo.

Connessioni precarie è un sito fondato da precari e migranti. Le connessioni tra migrazione,


precarietà e genere sono ribadite nel testo manifesto. Le 2 categorie che subiscono di più il
precariato e lo sfruttamento sono gli immigrati e le donne, perché ricattabili e oggetto di disprezzo
per la connotazione razziale e le altre perché storicamente confinate a lavori di cura. La cosiddetta
femminilizzazione del lavoro non rimanda a qualità specificamente femminili, ma è una modalità
di sfruttamento radicata in secolari rapporti di dominazione.

È necessario non semplificare la complessa articolazione dei rapporti di dominazione, in


particolare dei fattori di genere, etnia, classe, rimandando al dibattito in ambito femminista sul
concetto di intersezionalità. Quando si parla di care per farne la base della costruzione di un fare
comune o quando si parla di degenerizzazione del lavoro come superamento positivo della
divisione sessuale del lavoro, si rischia di sottovalutare il radicamento della polarizzazione
femminile-maschile, la determinazione di prerogative che culture secolari hanno assegnato a
donne e uomini. Il femminile di fatto resta fortemente ancorato alla negatività – degrado,
subordinazione, passività – squalificando il polo positivo, che implica affermazione, forza,
intelletto, dominio. Il fattore di genere come quello di razza rinviano a categorie interiorizzate di
valori, pratiche culturali che sono più insidiose, radicate, difficili da scardinare. Una riflessione sul
precariato che ignori l’impatto delle differenze è inevitabilmente parziale, incompleta.

Il romanzo Io sono con te. Storie di Brigitte di Melania Mazzucco dà voce letteraria a una
immigrata clandestina congolese. Scrive la vera storia di Brigitte a Roma. Ha subito sofferenze
fisiche, mentali e materiali che la portano sull’orlo della follia. Vedova, si è dovuta esiliare
lasciando il Paese, i 4 figli di cui non ha più notizie. Non ha lavoro, vive di assistenza.

Sempre a Roma, ai giorni nostri, è ambientato Senza permesso. Avventure di una badante rumena,
romanzo in forma di diario scritto da Cetta Petrollo, che dedica a donne venute da Filippine,
Ungheria, Polonia, Romania, Ucraina, Moldavia. È una scrittura sperimentale, una lingua
inventata, mescolanza di italiano, lingue straniere, dialetti. È un diario sgrammaticato e colorito di
una giovane rumena, Silvia, che arriva a Roma in cerca di lavoro e si ritrova a fare la badante,
senza permesso di soggiorno. La leggerezza del tono è gravata da un evento doloroso: ha dovuto
riportare nel suo paesino in Romania la figlia di pochi mesi e affidarla alla madre, per poter
lavorare a Roma e sottrarsi alle minacce dell’ex compagno violento.

Una badante rumena e sua figlia ormai grande sono le protagoniste di La badante. Una storia di
fantasmi, testo teatrale di Laura Forti. È una pièce teatrale drammatica, che mette in scena la
rumena Svetlana, chiamata Caterina dalla signora di cui è la badante da 10 anni. Svetlana ha una
figlia, Roxana, ormai 18enne che arriva a casa della signora. Vediamo una rottura generazionale e
affettiva. Roxana rinfaccia alla madre di averla abbandonata per inseguire un sogno di benessere.

La Romania appare anche in Se consideri le colpe, romanzo di Andrea Bajano, storia di un figlio
20enne che si reca al funerale della madre, trasferitasi anni prima a Bucarest per seguire la sua
fabbrica delocalizzata e il nuovo compagno che la gestisce. La narrazione è in 2° persona, un tu che
il figlio rivolge alla madre morta e non più rivista da anni. Muore a Bucarest sola, con i sensi di
colpa per aver lasciato il figlio. Mostra come la globalizzazione crea spaesamenti geografici e
affettivi.

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