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ADDITIVE MANUFACTURING
L’Additive Manufacturing (AM), spesso indicato come stampa 3D (anche sa dal punto di vista tecnologico e
funzionale ha poco a che vedere con stampanti classiche, laser o a getto di inchiostro), è un processo che
consente di realizzare un oggetto solido tridimensionale di qualsiasi forma partendo da un modello digitale.
PRINCIPI
si parte da un modello digitale che deve essere creato attraverso il disegno classico di un progettista
oppure tramite la reverse engineering, la quale consente di
rilevare digitalmente vari punti del particolare ( da una
fotografia fatta con opportune telecamere o utilizzando dei
sondini) per realizzare poi il disegno finale;
in tutti questi processi il materiale viene applicato strato dopo
strato, con una stratificazione successiva che consente la
crescita del manufatto; le caratteristiche dipendono dalla
specifica tipologia di AM utilizzata (stampante a fascio laser o
elettronico oggetto di polvere ecc.);
le tecniche di lavorazione tradizionali utilizzate per la
realizzazione di componenti con specifiche funzionalità meccaniche (taglio e fresatura) vengono
realizzate con rimozione di materiale: si parte sempre dal blocco in metallo e mediante asportazione
di materia riusciamo ad ottenere il componente finito, mentre nel caso dell’ AM c'è la crescita del
pezzo strato dopo strato.
Nella tecnologia tradizionale di asportazione di truciolo non vi è solo la necessità di dover scrivere un part
program complesso per le macchine utensili a controllo numerico, ma bisogna programmare il tipo di
utensile, il suo percorso e i parametri di taglio per ottenere, in seguito all'esportazione, una quantità di
truciolo
notevole che
va a scarto.
Invece
usando il
processo di
additive non
si parte più
dal blocco di
materiale, ma
dalla polvere
che viene
depositata
strato dopo
strato, e
attraverso questo processo di sinterizzazione si ottiene uno stesso prodotto, ma con uno scarto molto limitato.
La sinterizzazione qui menzionata non va confusa con la classica sinterizzazione già in voga nel secolo
scorso e nella quale comunque si parte da materiale in polvere, ma configurato in maniera diversa: nella
sinterizzazione classica si parte dalla polvere metallica la quale si distribuisce in modo abbastanza ordinato
costituendo una sorta di reticolo(questa è una tecnologia comunque antica, parto da una polvere che deve
essere compressa in uno stampo che ha la stessa configurazione in negativo della parte che voglio produrre).
Segue un processo di compattazione meccanica (o pressatura); poi posso estrarre il pezzo dallo stampo. Il
processo deve essere realizzato in modo tale da poter mantenere la configurazione del pezzo stesso una volta
estratto dallo stampo e quindi vi è la necessità di applicare una pressione tale che i granelli di polvere
metallica possano collegarsi. La forza da applicare deve indurre una deformazione plastica permanente.
Supponiamo di voler realizzare un componente cilindrico metallico: lo stampo in questo caso deve essere
costituito da un pistone di chiusura e devo applicare con un altro pistone superiore una forza. Immaginiamo
che il cilindretto abbia un diametro di 30 mm, la superficie sulla quale agisce il pistone sarà:
π
S= 302 =225 π≃650 mm 2
4
Se pensiamo che la polvere sia costituita da acciaio al carbonio la sollecitazione necessaria per produrre
deformazione plastica risulta approssimativamente:
N
Rp02=300 Mpa=300
mm 2
La forza che dobbiamo applicare sarà:
Quando applico una forza F con il pistone superiore una forza uguale e contraria viene applicata anche da
quello inferiore. Poiché non è un materiale rigido mi aspetto che la forza applicata (e quindi la pressione) non
sia distribuita in maniera uniforme in tutto il componente, ma le zone più vicine all'applicazione del carico
sono quelle che vengono maggiormente addensate mentre nella parte centrale la compattazione è minore
rispetto alle parti inferiore e superiore, direttamente a contatto con le forze (questo succede poiché il
comportamento non è idraulico). Restano così dei pori, anche se compattando si riduce il volume iniziale. Il
processo di sinterizzazione classica si esegue dopo l'estrazione del pezzo dallo stampo: c'è bisogno che quei
contatti ancora molto instabili tra una particella e l'altra si amplino attraverso un trattamento termico; i
manufatti vengono quindi posti in forno (in atmosfera controllata per evitare ossidazione) e vengono portati
ad una temperatura inferiore a quella di fusione, temperatura alla quale si passa allo stato liquido e si perde la
configurazione.Operando ad una temperatura inferiore a quella di fusione il collegamento tra una particella e
l'altra avviene attraverso un processo di diffusione allo stato solido. A causa della differente curvatura tipica
di alcune zone si determinano fenomeni di tensione superficiale. Vi e poi una porosità residua, dopo il
trattamento, pari al 5-10% dell'intero volume: non ottengo materiale spugnoso ma un materiale che ha
comunque molte porosità al suo interno, concentrate nella zona centrale, dove era stato minore anche l'effetto
delle forze di compressione. Con la sinterizzazione le particelle tendono a collegarsi meglio le une alle altre:
nelle zone alte e basse in cui la porosità già era bassa il collegamento tra le particelle fa sì che in queste parti
non vi sia una grande contrazione; nella zona centrale con porosità maggiore, a seguito del processo di
sinterizzazione,si verifica un restringimento e si ottiene una configurazione a clessidra. Occorre comunque
fare un’operazione finale di calibratura:il pezzo sinterizzato viene posto in un altro stampo e viene deformato
plasticamente mediante l'applicazione di forze che lo portano ad assumere la forma finale. Il problema è che
andare al di sotto di una porosità residua del 5-10%(la quale implica minore resistenza) è un'operazione
difficile e costosa. Dal punto di vista delle caratteristiche meccaniche di un componente realizzato con il
classico processo della sinterizzazione possiamo dire che la resistenza meccanica (resistenza a trazione) è
simile a quella che avrebbe uno stesso oggetto realizzato con asportazione di truciolo; invece è molto più
basso l’allungamento a rottura perché si tratta di un materiale abbastanza fragile per il fatto che mantiene
questa porosità residua. L'allungamento (ipotizziamo di parlare di un acciaio al carbonio) che per il materiale
massivo é del 25-30%, nel caso di un sinterizzato arriva al 2- 3% massimo. Siriduce, in un sinterizzato
tradizionale, la resistenza a fatica. Per i componenti assoggettati a cicli di forze variabili oa cicli termici
questa è una situazione complessa. Ci sono dei componenti che sono irrealizzabili attraverso la tecnologia
classica.
Conl’AMstrutturo il componente strato dopo strato, quindi si realizza una fusione per la parte di interesse: lo
strato, caratterizzato da un piccolissimo spessore,fonde e, rimanendo sul posto, si raffredda rapidamente e
solidifica. Ottengo così un componenteesente da porosità o caratterizzato da una porosità minima. Ladensità
di tale componente arriva anche al 98- 99 % del massivo; i pori che restano sono di piccole dimensioni e non
danno problemi né dal punto di vista della resistenza a fatica né per quanto riguarda la fragilità del
materiale.
ORIGINE ED EVOULZIONE
Intorno al 1970 l’AM era stato originariamente identificato come uno concetto legato alla produzione di
prototipi (RP=prototipazione rapida); questo era un concetto strettamente legato al campo automotive dove
senza la necessità di stampi e macchine utensili si procedeva prima con una prototipazione rapida per
realizzare dei componenti che dovevano essere testati per capire se bisognava effettuare modifiche o meno,
senza però cambiare il ciclo produttivo, ma semplicemente verificando direttamente su un manufatto di
prova che somigliasse molto a quello che doveva essere il manufatto finale.La prima commercializzazione di
una stampante per AMplastica risale al 1987. Successivamenteè sorta la necessità di realizzare parti
metalliche importanti per il settore ad alto contenuto tecnologico. Nel 1995 è stato introdotto un primo
sistema per la stampa AM di metalli di tipo commerciale. Gli utilizzatori del sistema iniziano ad utilizzare
l‘AM per la Rapid manufacturing ( RM ) diretta per i vari componenti che vengono così realizzati ed
utilizzati.
Dalle stampanti in plastica attraverso la realizzazione di prototipi si arriva alla realizzazione delle anime per
la fonderia (RAPID CASTING). Nel 1995 si passa al RAPID TOOLING, che consente di realizzare in una
maniera semplice delle attrezzature di produzione (nelle industrie per realizzare il manufatto non basta solo
la macchina utensile, ma ci vogliono anche i sistemi di bloccaggio, per esempio, che facilitano la
produzione). Intorno al 2000 si è introdotto il metal AM che permette di realizzare prodotti complessi fino ad
arrivare ai giorni nostri con un incremento notevole delle macchine funzionanti nel mondo e degli oggetti
ottenuti mediante AM( sia metallico che non). Sipensa che fino al 2025 la crescita annua di tale produttività
sarà superiore al 10%. Da qui si giustifica l'interesse per la ricerca accademica e per la formazione di
personale adeguato in grado di gestire e comprendere il funzionamento di tali macchine. Usando l’AM
l’obiettivo è quello di ottenere un prodotto qualitativamente e funzionalmente superiore, con costi contenuti,
aspetto quest'ultimo non ancora realizzabile.
Esiste una progettazione specifica per l’AM, la quale consente, oltre che ridurre gli scarti tipici di altri
processi produttivi, di intervenire nella riparazione di altri manufatti che non superano inizialmente la fase di
collaudo e garantisce la possibilità di combinare più funzionalità all’interno dello stesso componente. È
possibile quindi :
ridurre il peso
usare il materiale base solo dove strettamente necessario
ridurre i componenti complessivi della parte
combinare le funzioni
Si sviluppa un redesign per sviluppare appieno le potenzialità della tecnologia additive, quali per esempio la
possibilità di creare delle strutture tali da avere un certo numero di vuoti che possano garantire
l’allegerimento della parte. Si tratta di strutture reticolari di tipo lattice:
abbiamo lastruttura a griglia, ad X, a stella, esagonale, colonnare e quella piena. Si tratta di strutture in cui
c’è la ripetizione di una unità di base, e dovendola realizzare mediante AM, sussiste la necessità di tener
conto che occorre eliminare il surplus di materiale non utilizzato nella realizzazone del prodotto (se impiego
la tecnologia a letto di polvere, dovo procedere strato dopo strato, e solo una piccola parte dello strato viene
fusa attraverso la tecnologia usata; la gran parte del materiale, che non è scarto,non viene usata e deve essere
recuperata. Solo una piccola parte è scarto.)
Questi sono alcuni esempi di come è possibile operare con il redesign (la fibietta è stata riprogettata in titanio
con un peso di 70g, che è quasi la metà rispetto il peso di una fibbietta convenzionale; ogni grammo in meno
consente di risparmiare circa 2milioni di euro ull’intero ciclo di vita dell’aereo).
Nel momento in cui si deve realizzare un prodotto occorre fare uno studio di fattibilità: verificare quando è
ipotizzabile
impiegare
l’AM in
sostituzione
delle tecnologie
convenzionali.
Se riportiamo
sulle ordinate i
costi (in termini
di unità
prodotte ) e
sulle ascissse la
complessità
della parte, si
vede che se ci
troviamo in una
condizione in
cui i volumi di
produzione non
sono elevati e
c’è la possibilità di effettuare delle varianti sul particolare da realizzare, ci troviamo nella zona in cui l’AM è
meno costoso rispetto una tecnologia tradizionale quando i pezzi sono molto complessi , se la produttività è
notevole (produzione di massa) e la complessità è modesta le tecniche tradizionali (asportazione di truciolo,
fonderia, deformazione plastica etc.) la fanno da padrona. Se il numero di partida produrre, la cui
complessità è notevole,è mediamente alto, c’è una competizione tra tecniche tradizionali e additive: bosigna
capire se facendo delle varianti progettuali sulla parte possa essere conveniente effettuare le lavorazioni
mediante additive (anche con volumi mediamente alti).
Ci sono alcuni stadi fondamentali che devono essere seguiti durante la relizzazione di una parte.
Si parte da un modello 3D, dal quale si crea un file .STL. In questo file tutte le parti, specialmente le
superfici, vengono trasformate in una serie di traingoli interconessi. Segue l’operazione di slicing
(affettatura) ; il disegno in STL può essere facilmente manipolato da software: si generano diversi strati,
fissando la distanza che si vuole tra uno
strato e l’altro. Si ottiene un disegno in cui
il pezzo è rappresentato da un insieme di
strati. Si passa poi alla produzione della
parte per finire con le operazioni di
completamento del pezzo (finitura,
operazione questa sempre presente in
qualsiasi processo manifatturiero). Nel
caso dell’AM le operazioni di finitura
sono molto delicate, in quanto sono quelle
che consentono di ottenere le piene
funzionalità del pezzo.
E’ possibile ottenere la parte da un’idea
progettuale oppure utilizzando dei sistemi
scansione, che a seconda dei casi
permettono odi rilevare le coordinate ola forma del particolare.
Il secondo step consiste nella realizzazione del file STL, che inizialmente significava STereoLithography,
mentre ora significa linguaggio standard di triangolazione e come detto consente di trasformare i contorni e
le superfici in triangoli, che determinano l’accuratezza del pezzo: se la zona è molto complessa i triangolini
che vengono generati sono molto piccoli per poter consentire una migliore definizione dell’oggetto. Questo
file può essere ottenuto direttamente mediante software che consentono di salvarlo come file STL o
attraverso dei software che ne consentano la trasformazione. Prima di effettuare lo slicing bisogna effettuare
delle operazioni preliminari:
Verifivare i problemi che si possono essere generati nel file stl
Definire le strutture di supporto (appoggio per la parte che cresce con il procedere dell’AM, tenendo
conto che la parte deve essere facilmente staccabile dal supporto e inoltre considerando che
eventuali parti a sbalzo devono essere debitamente sostenute).
Posizionamento del componente nello spazio.
Per quanto riguarda l’eliminazione di eventuali imperfezioni , le situazioni che si possono verifivare sono tre:
Le strutture ausiliarie di supporto sono necessarie durante la lavorazione per due motivi principalmente:
Una direzione ottimale per l’accrescimento e il posizioanmento può essere decisa tenendo conto di multipli
obiettivi:
Nell’immagine si vede come in dipendenza del posizionamento dello spazio si poò realizzare la base di
supporto.
Per esempio nella configurazione verticale si vede come il numero di strati da realizzare sia maggiore
che negli altri posizionamenti e il tempo di costruzione è molto alto.
Sia che
si tratti
di
plastica
che di
metallo,
il fatto
che la
costruzione avvenga strato per strato fa si che si realizzi una configurazione a gradino. Per ovviare al
problema, invece di fare uno slicing uniforme, posso pensare di realizzare uno slicing di spessore
variabile, in funzione della complessità del pezzo. In questo caso parliamo di uno slicing adattativo, il
quale diventa inutile se ho una macchina che costruisce layers dello stesso spessore.
Lo step
successivo
è la
produzione
del pezzo.
Posso
generare la
parte in
plastica,
metallo,
ceramica o
materiali
organici. A
seconda del
materiale si
possono
usare
diverse
tecnologie. Per la plastica si possono usare la stereolitografia, il letto di polvere, la stampa 3D; per i metalli il
laser o il letto di polvere; per i ceramici una speciale stereolitografia, la stampa 3D o il laser (si preferisce
usare polveri costituite da ceramici ed altri materiali con più basso punto di fusione, per ovviare alle
difficoltà tecniche che i processi termici hanno sui ceramici). Tra queste manca la tecnologia metallica con
filo, il quale con una sorgente ad elevata energia fonde e si deposita secondo quanto prevede il manufatto.
Il post processing fa riferimento a tutte le operazioni che devono essere svolte dopo la manifattura del
pezzo per eliminare eventuali anomalie e condizioni indesiderabili per il funzioanmento del pezzo. Segue
sempre un processo di trattamento termico che ha lo scopo di rilassare le tensioni residue (derivanti dal
fatto che gli strati depositati uno dopo l’altro tendono a raffreddarsi e solidificarsi subito). Da considerare
è anche la rimozione del supporto ausiliario: se il pezzo è in titanio può anche essere rimosso
manualmente, se è di acciaio la situazione è più complessa. Le operazioni di finitura suoerficiali devono
sempre essere realizzate, soprattutto per le zone in cui il pezzo era a contatto con la base di supporto
(sabbaitura, letto di polveri abrasive).
VANTAGGI:
SVANTAGGI
Per fare una stampa 3d polimerica possiamo utilizzare il materiale sotto forma di POLVERE SOLIDO LIQUIDO.
Con il LIQUIDO abbiamo la stampa a getto Polyjet e Multijet, con il SOLIDO possiamo avere l’incollaggio
(LOM crescita additiva per sovrapposizioni di strati fino allo stato finale) o estrusione che è quella più
utilizzata (FDM), infine con la POLVERE abbiamo il selective laser sintering e il 3D printing che è un metodo
più legante.
Andiamo a capire nel dettaglio i costituenti della macchina e come funziona, andiamo a capire cosa
otteniamo dalle diverse tecnologie.
MATERIALI POLIMERICI
La plastica è un oggetto leggero ha peso specifico molto basso (es. auto parti in plastica ottenuto tramite
stampaggio). Con l’acciaio la lavorazione avviene nell’alto forno, i minerali vengono presi in natura, con la
temperatura elevata si eliminano le impurezze e si ottengono così ferro, ghise e a seconda della percentuale
di carbonio l’acciaio. Con la plastica invece non abbiamo minerali in natura, bensì si ottiene in laboratorio, si
sintetizzano insieme dei monomeri costituenti, formati da carbonio idrogeno e ossigeno. Le prime
applicazioni sono del periodo bellico per creare dei materiali non conduttivi, sono inoltre economici perche
provengono dagli scarti del petrolio. Mediante i processi di sintesi sono ottenute attraverso catene
ramificate, sono delle piccole unità che si vanno a ripetere e vengono tenute assieme da legami covalenti.
PLASTICA CON ALLIGANTI (es. giubbino) abbigliamento che può essere indossato.
Difetti: non possono essere usate le plastiche nei casi strutturali, hanno una bassa resistenza rispetto al
materiale metallico e la temperatura d’esercizio è molto bassa (100/150° C), esiste però il TEFLON che
resiste fino a 300°C.
MECCANISMI DI POLIMERIZZAZIONE
Le plastiche sono costituite da un insieme di piccole unità, MONOMERI, che danno origine a lunghe catene
che possono essere utilizzate in svariate applicazioni (es. bottiglie di plastica).
Partiamo da un numero semplice di molecole che sono unite fra loro senza scarti, si unisco l’uno rispetto
all’altro
Queste singole unità si vanno ad unire fra loro dalla rottura del doppio legame attraverso la pressione e la
temperatura, anziché del doppio legame lo abbiamo singolo e avrà questa configurazione:
Processo:
Il Teflon (plastica trasparente) ha 4 atomi di fluoro, ha alto coefficiente di attrito. Queste molecole si vanno
ad unire l’una rispetto l’altra senza nessun ostacolo.
In questo caso vengono espulse delle molecole semplici non polimeralizzabili ( i materiali formati da
FENOLO FORMALDEIDE sono i manici delle pentole da cucina).
Quando ho due molecole di fenolo, se elimino due atomi di H che stanno alla fine del fenolo ci metto un
atomo di C
Ho la bakelite
Ho come scarto una
molecola d’acqua non polimerizzabile.
POLIMERI TERMOPLASTICI
Un materiale è termoplastico quando sono costituiti da catene lineari o ramificate. Questi materiali
assumono la consistenza dei corpi solidi a partire dalla solidificazione dello stato LIQUIDO. La plastica a
differenza dei metalli non ha il reticolo cristallino ha una struttura più amorfa
POLIMERI TERMOINDURENTI
Ci sono legami forti tra le molecole, il processo mediante il quale le catene si saldano le une alle altre si dice
RETICOLAZIONE.
CRISTALLINITA’
All’interno del materiale plastico ci sono regioni amorfe in cui le catene sono disordinate e alcune parti del
reticolo sono invece ordinate, c’è una disposizione di atomi in maniera precisa.
STEREOLITOGRAFIA
Il processo stereolitografico (SLA) coinvolge 4 differenti tecnologie: laser, ottica, chimica dei fotopolimeri, e
software.
Nella parte interna l’oggetto non è polimerizzato, il che riduce di molto il tempo di solidificazione, cioè lo
faccio avvenire solo nella parte esterna, avrò una struttura per cui la stampa è più semplice, più rapida
invece di farla avvenire strato per strato come nei metalli sennò ci vorrebbe più tempo.
La stampante 3D del metallo e della plastica lavora da sola senza l’ausilio di personale che sorvegli.
In questo caso la sorgente laser è fissa e il fascio laser, che deve andare a colpire il fotopolimero in un punto
preciso, viene movimentato con un sistema di specchi.
I fasci laser inviati sulla superficie del pezzo sono fasci di bassa potenza, perché devono consentire la
solidificazione solo del polimero.
Essendo questa una tecnologia additiva consente di avere una serie di vantaggi ma risulta essere una
lavorazione molto lunga, in quanto il pezzo che si vuole ottenere viene costruito strato dopo strato (si ha
una sovrapposizione di strati).
Per migliorare la finitura superficiale del particolare in plastica che è stato ottenuto si possono usare diversi
metodi:
- Pezzo finito con ottime finiture superficiali (se sono stati ottimizzati i parametri prima elencati),
tolleranze geometriche e dimensionali.
- Ottenimento di elevate resistenze meccaniche soprattutto se è stata eseguita la fase di post-
trattamento con una fotopolimerizzazione anche della parte interna del particolare ottenuto.
- È sempre necessario il post-trattamento con una lampada UV per completare la polimerizzazione del
particolare.
- I macchinari sono molto costosi e i polimeri non sono economici.
- È necessario lavare il pezzo per eliminare il polimero liquido in eccesso.
- Asportazione degli eventuali supporti.
Comunque si tratta di una tecnologia utilizzata in larga parte e che consente di ottenere risultati abbastanza
soddisfacenti partendo da un polimero allo stato liquido.
POLYJET (PJ)
Tecnologia che si basa sullo stesso principio di funzionamento di una stampante a getto d’inchiostro. Al
posto dell’inchiostro, però, c’è un polimero che viene spruzzato. Il polimero è allo stato liquido e viene
fotopolimerizzato con l’utilizzo di lampade UV che si trovano direttamente sulla macchina.
Nell’immagine si notano i due contenitori all’interno dei quali si trova il polimero allo stato liquido. Si
utilizzano due colorazioni diverse, una per i supporti e l’altra per il materiale in costruzione.
Il PJ è sempre un processo che avviene per strati: il fotopolimero viene spruzzato, potenti lampade UV al
bordo dell’ugello iniziano a polimerizzarlo, il fotopolimero si deposita sul pezzo e conclude la reticolazione.
Da notare che sullo stesso supporto ci sono sia le lampade UV, sia gli ugelli che spruzzano il polimero allo
stato liquido.
VANTAGGI PJ
- Essendo che si lavora direttamente con le lampade UV, in questo caso non è necessaria la fase di post-
trattamento.
- Si possono ottenere oggetti 3D aventi una grande varietà di colori, utilizzando polimeri provenienti da
contenitori differenti. Questo è interessante soprattutto nella realizzazione di modelli concettuali e
modelli per la validazione.
SVANTAGGI PJ
La tecnologia alla base della stampa 3D fu inventata negli anni 80 e brevettata dalla Stratasys Inc. e
commercializzata nei primi anni 90. La tecnica utilizzata si chiamava FDM. Solo nel 2009 il brevetto risulta
scaduto e disponibile al libero mercato. Ed è proprio dopo il 2009 che si è assistito a un boom di compagnie,
progetti opensource, e una vera e proprio rivoluzione tecnologica che ha fatto abbassare i prezzi in maniera
vertiginosa e ha permesso a chiunque di poter comprare una stampande 3D. Oggigiorno chi vuole comprare
la stampa 3D a filo dovrebbe usare il nome FFF o Fused Filament Fabrication.
IL PROCESSO FDM
È sempre un processo di costruzione di parti in plastica. La differenza sostanziale con il processo precedente
è che adesso si passa alla costruzione mediante un materiale allo stato solido.
Le stampanti 3D con tecnologia FDM costruiscono le parti strato per strato, dal basso verso l’alto, mediante
riscaldamento del polimero allo stato solido ed estrusione di un filamento termoplastico.
È sempre prevista la costruzione di supporti che, anche in questo caso, vanno poi eliminati.
È presente la piattaforma che abbassandosi consente la creazione di tutta la struttura del particolare.
È poi prevista una differente colorazione per i supporti e per le parti piene che si vanno a costruire.
Ci sono due bobine che entrano nella testa di estrusione, nella quale si trovano due testine diverse per
poter costruire i supporti e il componente.
Con la tecnologia FDM si possono realizzare modelli concettuali, prototipi funzionali, parti finite con
termoplastiche standard.
- Come è stato detto, si utilizza materiale allo stato solido. In particolare si utilizzano materiali termoplastici
come ABS, policarbonato ed elastomeri (materiali plastici chiamati in questo modo perché hanno una
capacità di allungamento molto più elevata rispetto agli altri materiali plastici; sotto sforzo, raggiungono
dimensioni quasi il doppio di quelle iniziali senza che si verifichi una rottura).
- Lenta lavorazione (tempi abbastanza lunghi per la produzione dei pezzi). Questo dipende dalla dimensione
minima dello spessore di ciascun strato che compone il pezzo, pari a 0.1 mm. Si utilizza uno spessore così
piccolo per ottenere una migliore precisione del pezzo finale.
Queste sono caratteristiche generali che vanno poi ottimizzate, di volta in volta, a seconda del tipo di
lavorazione che si vuole ottenere.
Estrusione.
La geometria dell’ugello determina la forma e la dimensione del filamento estruso. Un ugello più grande
consente una costruzione più rapida ma con una minore precisione. Il diametro dell’ugello determina anche
la dimensione minima di parete che si può creare.
Deposizione su percorso predefinito e in modo controllato.
Il filamento estruso viene depositato sul pezzo e quindi abbiamo la deposizione lungo un percorso preciso. Il
filamento depositato, a causa della gravità e della tensione superficiale, varia in forma e dimensioni. Il
materiale inoltre si contrae durante il raffreddamento generando tensioni sul componente e distorsioni, da
controllare riducendo i gradienti termici (camera di lavoro riscaldata) o il percorso di deposizione.
È necessario che ci sia adesione del materiale allo strato sottostante. Durante la deposizione del filamento,
l’energia termica residua è sufficiente ad attivare le superfici delle aree adiacenti garantendo l’adesione tra
gli strati. Il controllo della temperatura all’ugello è fondamentale: un’energia insufficiente potrebbe unire gli
strati adiacenti pur lasciando una superficie d’interfaccia che rappresenta una superficie di possibile
delaminazione; un’energia eccessiva comprometterebbe la definizione della geometria del componente.
La tecnologia a filo richiede strutture di supporto che possono essere realizzate con lo stesso materlia del
componente o con un materiale ausiliario (due camere di estrusione). Tali strutture devono essere
facilmente rimovibili nella parte di finitura del pezzo.
Con questa tecnologia bisogna prestare attenzione alla traiettoria che segue l’estrusore e capire bene qual è
la strategia migliore da utilizzare, in quanto si potrebbero avere dei problemi soprattutto nella costruzione
di pezzi con geometria abbastanza complessa.
L’ugello costituisce un elemento inerziale, per cui qualsiasi cambiamento di direzione implica una
decelerazione e accelerazione. La portata di materiale deve corrispondere a questo cambiamento di
velocità. La strategia comune è quella di generare il contorno della parte (che conferisce la precisione
geometrica e rappresenta un vincolo di contenimento per il riempimento) a velocità costante. Il motivo di
riempimento interno può essere costruito più velocemente.
FINITURE
Questo processo è preferito rispetto alla SLA in quanto non è necessaria la fase di post-processo con
esposizione del pezzo a raggi UV.
Nonostante questo è possibile applicare un post-trattamento alle parti per migliorare la finitura superficiale.
Tra i vari trattamenti ricordiamo:
- Sabbiatura; come avviene per i metalli con i quali però si utilizza sabbia abrasiva. Nel caso dei materiali
plastici è previsto l’utilizzo di perline di plastica.
- Sigillatura
- Incollaggio di parti
- Lisciatura
- Verniciatura
- Galvanoplastica
Il trattamento di finitura superficiale è scelto in funzione dell’utilizzo che bisogna fare della parte.
CARATTERISTICHE
VANTAGGI
È sicuramente una tecnologia molto competitiva. Il punto di forza di questa tecnologia è la capacità di
realizzare parti di grandi dimensioni e di geometria complessa, dunque oggetti non semplici. Inoltre
consente di realizzare particolari con materiale colorato. Vediamo infatti che ci sono diverse tecniche
tradizionali che consentono di realizzare oggetti in plastica, ma si sceglie la stampa 3D quando bisogna
realizzare oggetti particolari.
Molto importante è l’assenza delle polveri, utilizzate per la produzione dei particolari metallici. È quindi una
produzione pulita, non c’è inquinamento come nel caso della produzione dei metalli in cui bisogna sempre
prestare attenzione alla sicurezza degli operatori che lavorano con le polveri. In precedenza le polveri
venivano compattate tramite l’applicazione di una certa pressione ad una determinata temperatura. Ma
ormai questa tecnica è stata abbandonata ed oggi, nella produzione additiva, le polveri vengono fuse e poi
solidificate nuovamente, il che elimina quasi totalmente i problemi di porosità che possono essere presenti
in oggetti metallici.
Inoltre questa tecnologia consente di ottenere particolari che possono essere lavorati meccanicamente in
un secondo momento (tornitura, fresatura, filettatura).
Altri vantaggi sono la possibilità di inserire inserti/boccole nei particolari, la ripetibilità dei pezzi (è una
tecnologia altamente ripetibile), e la tracciatura del processo costruttivo e del materiale utilizzato per la
realizzazione dei pezzi (possiamo tenere sotto controllo il processo).
SVANTAGGI
- Rugosità superficiale dei pezzi finiti, in quanto la plastica viene estrusa e quindi il pezzo finale ha
bisogno di trattamenti che vadano a migliorare la finitura superficiale.
- Non impermeabilità dei pezzi salvo trattamenti di post-produzione (impregnazione).
APPLICAZIONI
La tecnologia FDM può essere utilizzata in campo ortopedico per la realizzazione di modelli di ossa o per la
creazione di tutori personalizzati. Questo perché tale lavorazione consente di ottenere parti che si adattano
al corpo di ciascun paziente. Inoltre, essendo il pezzo realizzato ad hoc, questo consente di ridurre
notevolmente la durata di un intervento.
VANTAGGI FDM
- È un sistema semplice ed economico, sia per quanto riguarda la realizzazione die componenti sia per
quanto riguarda il costo del macchinario stesso.
- Velocità di produzione maggiore rispetto alla SLA.
- Nessun trattamento finale necessario (se non la rimozione di eventuali sostegni), né di pulizia né di
eventuali sabbiature dei pezzi stampati.
SVANTAGGI FDM
- Si ottiene sempre un pezzo che presenta delle porosità al proprio interno, questo perché l’estrusore
deposita un cilindro continuo di polimero fuso il che comporta inevitabilmente la creazione di
intercapedini tra i vari filamenti estrusi e solidificati. Le porosità influenzano poi i carichi che i pezzi
realizzati possono sopportare.
- Possibilità di utilizzare solo due colori alla volta in quanto ci sono solo due testine per problemi di
ingombro ed inerzie tra gli estrusori.
- Si possono ottenere delle bave e sbavature sulla superficie. Sono tanto minori quanto maggiori sono i
controlli sugli estrusori e sulla loro velocità.
Una volta che il laser ha tracciato il contorno dello strato, la piattaforma si muove verso il basso in modo
tale che un nuovo foglio di materiale può essere arrotolato in posizione. Quando il nuovo materiale è in
posizione, la piattaforma ritorna nella sua posizione precedente per continuare la lavorazione.
SELECTIVE LASER SINTERING (SLS)
Questa tecnologia è simile a quella dei materiali metallici, infatti utilizza materiale termoplastico di partenza
allo stato solido sotto forma di polveri. Una macchina SLS è costituita da due polveriere su entrambi i lati
della zona di lavoro. Il contenitore a destra rappresenta il serbatoio nel quale viene immessa la plastica sotto
forma di polvere, quello a sinistra è quello che tiene il materiale in eccesso.
C’è poi l’innalzamento del serbatoio e con l’aiuto del rullo si fa in modo che uno strato di polvere venga
steso con cura sulla piattaforma in modo da creare un piano uniforme. Successivamente il fascio laser è
indirizzato (ancora mediante l’utilizzo di specchi) in alcune zone causando la fusione delle polveri e creando
così una struttura continua.
Dopo che il primo strato è stato creato c’è nuovamente il passaggio del rullo che consente così di raccogliere
la polvere non sintetizzata nel serbatoio di sinistra.
Poi c’è un abbassamento della piattaforma, per abbassare l’oggetto in lavorazione e consentire al rullo di
muoversi e continuare la lavorazione.
Il pezzo viene costruito, dal basso verso l’alto, nella parte centrale della piattaforma.
Prima di partire con la lavorazione è necessario eseguire una fase di pre-processo con orientazione della
parte, costruzione di supporti, realizzazione del modello CAD e conversione dello stesso in un file che possa
essere utilizzato dalla macchina per poi partire con la lavorazione.
Con questo tipo di lavorazione è possibile utilizzare polimeri rinforzati con fibre di vetro o di alluminio per
ottenere una maggiore resistenza del materiale polimerico.
LEZIONE DEL 19/10/2016 ALFIERI
Dobbiamo capire quali sono le fonti da utilizzare per portare a fusione il materiale. Andiamo a studiare il
fascio laser, il fascio elettronico e le tecnologie di lavorazione dei metalli per l’additive manufacturing.
Prima di capire come si utilizza un fascio laser dobbiamo capire quali sono le caratteristiche del laser in
modo da comprendere perché il fascio laser può portare dei vantaggi rispetto alle lavorazioni tradizionali.
Utilizzare un fascio laser vuol dire concentrare le radiazioni luminose in una zona ristretta (se utilizzo una
lente di ingrandimento e concentro i raggi del sole io riesco ad esempio a bruciare la carta; se immagino di
concentrare raggi a potenza dell’energia più alta della radiazione solare magari, invece di bruciare la carta,
posso anche fondere un metallo). L’dea di concentrare delle radiazioni luminose non è recente ma è qualcosa
che parte da lontano.
IERI…
Si dice che Archimede, utilizzando degli specchi e concentrando le
radiazioni luminose, riusciva a respingere le navi romane per
difendere Siracusa. Si prevedeva di utilizzare più specchi affinchè
le radiazioni luminose riuscissero a bruciare le vele delle navi.
OGGI…
Ma come si è arrivato, oggi, all’utilizzo del laser per applicazioni industriali?
1915: il primo passo fondamentale sono stati gli studi di Einstein sull’emissione stimolata.
1958: venne pubblicato un articolo in una rivista scientifica che parlava di MASER (progenitori dei laser)
che parlava di come si poteva utilizzare praticamente ciò che aveva scoperto Einstein.
1960: venne sviluppato il primo prototipo di laser, il laser a RUBINO, una barretta di rubino che viene
utilizzata per emettere il fascio laser.
1961-1965: furono realizzati i laser ad ELIO NEON, a SEMI-CONDUTTORI e a CO 2.
1975: stampante laser.
1976: un passaggio importante avvenne in questo con il debutto della fibra ottica per il trasporto dei segnali,
a Chicago, in quanto il laser si può trasportare grazie alla fibra ottica.
1990: laser in medicina.
1994: laser a disco.
2000: laser in fibra.
FASCIO LASER
LASER è un acronimo delle parole “amplificazione della luce per effetto dell’emissione stimolata". Il laser
non è niente altro che una radiazione luminosa (come già detto prima, concentro le radiazioni in una zona
ristretta).
Ma allora, perché non posso effettuare le lavorazioni con i raggi luminosi che emette una lampadina? Perché,
la radiazione di una lampadina ha diverse lunghezze d’onda, i raggi sono incoerenti perché presentano
ognuno una frequenza e una lunghezza d’onda diversa dall’altro ed è multidirezionale.
Il fascio laser, invece, è direzionale, monocromatico (le radiazioni che hanno la stessa lunghezza d’onda sono
anche dello stesso colore) e le radiazioni sono coerenti nel tempo e nello spazio.
Possiamo disegnare una radiazione luminosa come un fenomeno ondulatorio (quindi se voglio disegnare uno
qualsiasi dei fasci luminosi che compongono un laser devo disegnare un’onda). Su questa onda si può andare
a calcolare la lunghezza d’onda λ che sarà la lunghezza d’onda delle radiazioni luminose.
In figura, a sinistra sono riportate le onde incoerenti (lunghezza d’onda diversa, frequenza diversa, ampiezza
diversa) che si ottengono da una lampadina e che quindi non vanno bene per l’utilizzo industriale, mentre a
destra sono riportare le onde del laser coerenti nel tempo (le onde hanno la stessa fase di oscillazione in ogni
istante di tempo) e nello spazio (se più onde raggiungono uno stesso punto ben determinato, devono arrivarci
con la stessa fase).
SPETTRO ELETTROMAGNETICO
Andiamo a vedere adesso come si produce un fascio laser, cioè come faccio a produrre quelle radiazioni
luminose che presentano quelle caratteristiche (monocromatiche, direzionali e coerenti) tali da essere
classificate come laser.
ASSORBIMENTO
Sappiamo che si possono produrre degli atomi negli stati eccitati a partire dallo stato di base. Negli atomi si
producono stati eccitati in quanto un elettrone che si trova nell’orbita più vicina possibile al nucleo (significa
che si trova ad un livello energetico E0 ) viene portato dal livello energetico più basso E0 fino ad un’altra
orbita più lontana e cioè al livello energetico E1 ; l’atomo viene quindi definito in condizioni di stato eccitato.
Come fa l’elettrone a passare dal livello E0 al livello E1 ? Grazie ad un fotone chiamato INCIDENTE che
viene inviato su un atomo. Questo fotone deve avere delle caratteristiche ben precise, altrimenti non si
verifica il salto, che sono la frequenza ʋ e la lunghezza d’onda λ, le quali nei fenomeni ondulatori non sono
indipendenti ma sono legate dalla velocità della luce c nel vuoto e sono inversamente proporzionali (o
ragioniamo in termini di ʋ o in termini di λ è la stessa cosa).
Il fenomeno che abbiamo appena descritto (per portare l’elettrone da E0 a E1) è chiamato ASSORBIMENTO,
che è la base per produrre il fascio laser ed è il primo meccanismo fondamentale di interazione tra laser e
materia.
Attenzione! L’atomo passo allo stato eccitato dallo stato di base mentre l’elettrone passa al livello energetico
superiore.
EMISSIONE SPONTANEA
Il secondo fenomeno fondamentale è quello dell’EMISSIONE SPONTANEA.
Quando l’elettrone produce uno stato eccitato (non stabile) dell’atomo, l’elettrone stesso tende a tornare
spontaneamente al livello energetico più basso (verso la condizione di stabilità) e quindi tende a passare dal
livello E1 al livello E0.
Si chiama emissione perché l’elettrone per scendere al livello E0 emette il fotone che gli era stato inviato;
spontanea perché l’elettrone scende spontaneamente al livello energetico più basso.
La frequenza e la lunghezza d’onda del fotone emesso saranno rispettivamente ʋ e λ. E 1-E0 si chiama salto
energetico o differenza di banda energetica.
EMISSIONE STIMOLATA
Il terzo meccanismo è quello dell’EMISSIONE STIMOLATA.
Partendo da una condizione di atomo che si trova in uno stato eccitato (dopo l’assorbimento) e quindi da un
elettrone che si trova al livello E1, se fornisco un fotone dall’esterno succede che, anziché caricare
ulteriormente l’elettrone, l’elettrone ritorna al livello E0 e quindi si ottiene il fenomeno opposto.
In uscita avrò due fotoni, quello dell’emissione spontanea (il fotone tale da poter scaricare quell’energia che
l’elettrone aveva in più) e quello che è stato fornito dall’esterno, che hanno la stessa lunghezza d’onda
perché hanno la stessa frequenza.
Affinché ci sia l’emissione stimolata è necessario prima l’assorbimento perché l’elettrone deve passare ad un
livello energetico maggiore e poi l’emissione spontanea in quanto questi meccanismi devono avvenire
contemporaneamente, all’interno dello stesso materiale.
Qualsiasi fotone emesso ha la stessa fase, lunghezza d’onda e direzione del fotone in ingresso perché le
relazioni di base sono sempre le stesse (λ e ʋ).
L’emissione stimolata è quel fenomeno fondamentale che permette di ottenere un fascio laser ( per questo
LASER è l’acronimo di “amplificazione della luce per effetto dell’emissione stimolata”).
Vale la relazione ʋ02>ʋ10 λ02<λ10 siccome la frequenza e la lunghezza d’onda sono inversamente
proporzionali (la lunghezza d’onda della radiazione di pompaggio è sempre minore della lunghezza d’onda
operativa). Le radiazioni che devono produrre il fascio laser avranno sempre questa caratteristica.
RISONATORE OTTICO
mezzo attivo
Il risonatore ottico viene utilizzato per permettere alla luce di spandersi lungo un percorso chiuso.
Per capire come viene utilizzato il mezzo attivo (rettangolo colorato in figura), che forma ha, e dove sta,
affinchè può procurare un fascio laser, consideriamo un risonatore ottico e una luce laser che viene prodotta
all’interno del mezzo attivo.
Il mezzo attivo viene portato allo stato eccitato col fenomeno dell’assorbimento producendo una luce
luminoso e, inoltre, deve essere contenuto tra due specchi che si guardano a vicenda affinchè si possa
beneficiare delle caratteristiche del fascio laser.
La luce laser, generata all’interno del mezzo attivo, viene riflessa avanti e indietro tra i due specchi. Questa
riflessione tra gli specchi contribuisce ad uniformare le radiazioni (a renderle direzionali, monocromatiche e
coerenti). Le radiazioni a mano a mano che si verificano tra i due specchi cominciano ad allinearsi e quindi
quello che mi trovo in uscita dal mezzo attivo è effettivamente una radiazione che posso definire radiazione
laser.
La condizione fondamentale da rispettare è che la distanza tra i due specchi sia uguale a nλ dove n deve
essere un numero intero e λ la lunghezza d’onda operativa, altrimenti anziché migliorare le caratteristiche
della radiazione laser le peggioro perché la radiazione deve percorrere questa distanza ben precisa.
I due specchi non sono uguali: a sinistra lo specchio è totalmente riflettente mentre a destra è parzialmente
riflettente (ne riflette solo una parte mentre l’altra la trasmette) quindi avrò una percentuale della radiazione
laser che si è prodotta con il mezzo attivo e l’altra percentuale della radiazione che non attraversa lo specchio
di destra ma torna indietro per restare all’interno del mezzo attivo perchè dobbiamo avere l’emissione
stimolata.
L’emissione stimolata, dopo che l’ho fatta partire da una fonte esterna, deve essere prodotta dalle radiazioni
stesse le quali, restando all’interno del mezzo attivo, avranno una certa lunghezza d’onda, frequenza e una
certa direzione e cioè sono dei fotoni che mi permettono di produrre l’emissione stimolata all’interno del
mezzo attivo. Proprio per questo motivo, non posso propagare tutta la radiazione a valle in quanto una parte
di essa deve restare nel mezzo attivo affinchè resista l’inversione di popolazione e cioè una percentuale del
fascio laser viene riflessa nel risonatore per mantenere attiva l’inversione di popolazione.
Se vogliamo completare il disegno dobbiamo raffigurare il fascio laser che esce dallo specchio parzialmente
riflettente perché una parte viene riflessa (torna indietro) e un’altra parte va a valle e cioè viene trasmessa,
mentre attraverso lo specchio di sinistra non passa niente.
Quale è la percentuale di radiazione che resta dentro e quella che viene trasmessa? Dipende dal tipo di mezzo
attivo, cioè dal tipo di laser.
Gli atomi viola sono gli atomi che si trovano al livello di base i cui elettroni si trovano al livello energetico
più basso. Ci troviamo di fronte alla condizione che viene chiamata di NON-LASING e cioè il mezzo attivo
non è in grado di emettere perché gli atomi si trovano al livello più basso possibile.
La luce quando si accende determina un invio di fotoni, i quali iniziano a produrre l’assorbimento
producendo quello che si chiama il pompaggio del mezzo attivo; alcuni atomi, quindi, da viola diventano
verdi il che significa che sono atomi che si trovano nello stato eccitato.
Il primo fenomeno che si verifica è l’emissione spontanea (come si vede nella figura le freccette vanno dove
vogliono perché l’emissione spontanea non è ancora un fascio laser).
Ad un certo punto si verifica l’emissione stimolata. Grazie al movimento degli atomi, le radiazioni vanno
avanti e indietro tra i due specchi producendo così un’ amplificazione della radiazione luminosa; le
radiazioni si uniformano in maniera tale da far avvenire l’emissione stimolata con le caratteristiche di
monocromaticità, direzionalità e coerenza. Quando mi trovo in questa condizione significa che
effettivamente posso produrre un fascio laser.
Gli atomi ancora viola sono gli atomi che ritornano allo stato di base.
Alla fine, dopo tutti questi passaggi all’interno della cavità risonante e del sistema intero, quando si supera
una certa soglia e si vincono le resistenze passive si riesce ad emettere effettivamente un fascio laser a
regime.
Ripetizione
Per l’additive manufacturing devo passare dalla plastica ai metalli e se voglio lavorare con i metalli devo
pormi il problema di definire una sorgente di energia per lavorare questi metalli affinchè venga trasferito il
calore per modificarli.
Le sorgenti di energia devono esser ad alta energia. Il laser e il fascio elettronico sono sorgenti di energia
concentrate.
Il vantaggio di usare il laser è che riesco ad ottenere la concentrazione dell’energia in una zona localizzata
quindi mi aspetto che le alterazioni prodotte sul materiale siano ridotte.
Le radiazioni laser devono avere delle caratteristiche ben precise che si ottengono con i fenomeni che aveva
previsto Einstein e cioè l’assorbimento, l’emissione spontanea e stimolata.
La condizione che mi permette effettivamente di ottenere un fascio laser con inversione di popolazione è
quella di avere un mezzo attivo con almeno tre livelli.
Dalla condizione a tre livelli posso passare alla condizione a 4 livelli che può essere visto come un laser a
quasi tre livelli se i due livelli sono molto vicini.
SBOBBINA PAC 21-10
SORGENTI LASER
Vediamo nel dettaglio alcune sorgenti laser tipiche, partiamo dalla prima generazione di laser, i
laser a rubino.
Il laser a rubino è costituito da un mezzo attivo che è una barretta di rubino avvolta all’interno di
una spirale. Il rubino deve essere portato al livello energetico superiore affinchè possa emettere le
radiazioni; il ruolo nel pompaggio del mezzo attivo è affidato ad una lampada che è avvolta intorno
alla barretta. I componenti principali sono:
Classificazione dei laser in base allo stato di aggregazione del mezzo attivo:
- A stato solido
- A stato liquido
SBOBBINA PAC 21-10
- A stato gassoso
Nella tabella riportata sopra, per i laser ad eccimeri, c’è un range per le lunghezze d’onda operative
e non un unico valore perché gli eccimeri sono miscele di gas nobili e quindi il valore della
lunghezza d’onda dipende dai tipi di gas utilizzati e dalle %. La lunghezza d’onda operativa dipende
solo dalla differenza energetica tra i livelli tra i quali avviene l’emissione stimolata.
La sigla YB:YAG vuol dire: YAG è un cristallo di ittrio (Y) e alluminio (A) quello che c’è prima
(YB) è l’elemento drogante.
I diodi sono laser di potenza più bassa che inviano radiazioni luminose con lunghezza
d’onda opportuna affinchè ci sia il pompaggio.
Nd:YAG indica un cristallo di ittrio e alluminio drogato con niodimio.
Una lunghezza d’onda di 0.1 µm e una lunghezza d’onda di 10 µm differiscono molto tra loro
nell’ambito delle applicazioni industriali. A seconda del materiale che deve essere trattato c’è
bisogno di usare un laser con una certa lunghezza d’onda.
SBOBBINA PAC 21-10
Andiamo a vedere ora i componenti di base di una stazione laser. Per effettuare una lavorazione c’è
bisogno di:
- Una sorgente laser che è una scatola all’interno della quale c’è il mezzo attivo che viene
pompato e deve emettere il fascio laser
- Testa laser per fare una scansione, per saldatura, per AM, per taglio (anche foratura)
- Gas di assistenza (gas inerte) va sulla stazione di lavoro, serve per instaurare un’ atmosfera
inerte per proteggere il metallo dall’ossidazione
- Elettronica di controllo, interfaccia con la sorgente (dice al laser quando emettere o meno),
con l’utensile( comanda la movimentazione) e con il gas di assistenza (c’è bisogno di un
segnale che attivi il gas solo quando occorre)
- Unità di raffreddamento: deve raffreddare la sorgente e la testa (all’interno di essa passano
radiazioni luminose ad energia elevata), si raffredda sempre con aria compressa o acqua)
UNITA’ DI
RAFFREDDAMENTO
SORGENTE
ELETTRONICA DI
LASER
CONTROLLO
TESTA LASER
GAS DI
ASSISTENZA
Supponiamo che il trasporto venga effettuato per fibra ottica. La fibra ottica avrà un suo diametro
(Df), finchè il laser sta dentro la fibra ottica, è un cilindro di luce, quando esce dalla fibra, le
radiazioni vanno per conto proprio mantenendo le caratteristiche di monocromaticità, però
comincia a venire meno la direzionalità.
SBOBBINA PAC 21-10
Definiamo un angolo, detto angolo di divergenza a monte (ϴ c), è l’angolo che si misura dagli
asintoti dalla curva di divergenza del fascio. Devo concentrare le radiazioni in un punto, prima di
concentrarle, c’è bisogno di una lente che serve per collimarle, la prima lente è appunto detta lente
di collimazione che si pone ad una distanza dall’uscita della fibra pari a f c, è la lunghezza focale che
ci dice dove la lente posiziona il fuoco delle radiazioni che lo attraversano (sono misure note).
Dopo la lente di collimazione, il fascio laser si dice collimato cioè le radiazioni vengono rese
parallele. Tra le due lenti viene a crearsi un fascio di diametro D L. Si pone un’altra lente di
focalizzazione che serve per focalizzare il fascio laser, anche questa ha una sua lunghezza focale (f f).
Fc ed ff potrebbero essere uguali. La lente di focalizzazione concentra le radiazioni ad una distanza
pari alla lunghezza focale. In questo punto si incontra il collo o il ventre del fascio laser che è una
zona in cui il fascio laser ha il D minimo (D o). Superata la lunghezza focale, le radiazioni
divergeranno nuovamente. Anche a valle si può calcolare l’angolo di divergenza partendo dal
centro del fascio si tracciano gli asintoti e si individua l’angolo ϴ( angolo di divergenza del fascio
laser). Il blocco centrale si chiama unità di collimazione che contiene entrambe le lenti e il fascio
laser sarà collimato (diametro costante).
Piano focale: piano ortogonale all’asse di propagazione dove viene a posizionarsi il fuoco del fascio
Fuoco del fascio: punto in cui il fascio avrà diametro minimo
Se la lente focale è convergente la lunghezza focale è positiva
GEOMETRIA DEL FASCIO
Andiamo ad analizzare il fascio dopo la focalizzazione, nel punto in cui lo andiamo ad usare. Il
fascio laser è simmetrico rispetto al ventre prima e dopo il collo, quindi ϴ lo misuro uguale a se
stesso anche dopo il punto di fuoco. Z è l’asse di propagazione del fascio laser. Il fascio laser è
qualcosa di tridimensionale, è un iperboloide di rotazione che si ottiene facendo ruotare un
iperbole intorno ad una retta (asse di propagazione).
SBOBBINA PAC 21-10
Questa relazione dice che se mi metto dove z è 0 cioè nel collo (punto di fuoco) il diametro è
proprio D0 se mi allontano dal fuoco (z cresce) allora il diametro sta crescendo. Siccome questa
relazione è complessa può semplificarsi e utilizzare una relazione approssimata:
D
θ
2 θ ~
z
=tan () 2
2
Questa relazione nel campo vicino se pongo z=0 la retta mi dice che il D è 0 e cioè è palesemente
sbagliato. Siccome teta è molto piccolo, la tangente dell’angolo si può confondere con l’angolo
stesso.SOLO D
VALIDA ( z ) =θz
NEL CAMPO LONTANO
Devo stabilire correttamente dove inizia il campo lontano e quindi dove si può accettare questa
approssimazione.
SPOT: si ottiene se interseco il fascio laser con un piano generico e il fascio deve avere simmetria
circolare, è qualcosa di bidimensionale, è un’area; se il piano di intersezione è ortogonale al fascio
e il fascio ha simmetria circolare lo spot sarà un cerchio, se il piano di intersezione passa per il
fuoco, abbiamo uno spot focale.
SBOBBINA PAC 21-10
Vediamo come si calcolano m e n per una distribuzione gaussiana. Per individuare il numero di
minimi mi devo porre su due assi ortogonali, supponiamo x e y. Percorro x, quanti minimi incontro?
Ne incontro 0. Percorro y, ne incontro 0. Questo profilo verrà detto TEM 00, cioè la distribuzione di
irradianza che caratterizza una gaussiana. TEM 10, dato da due gaussiane che si combinano tra loro e
hanno una zona di minimo in comune. M e n si possono calcolare anche come il numero di
massimi -1, si ottiene lo stesso risultato. TEM 11 è ottenuto accostando 4 guassiane, avrò un minimo
in una direzione e uno nell’altra. Queste sono le equazioni di irradianza in funzione della distanza
dall’asse di propagazione. TEM00 si chiama modo fondamentale, gli altri modi vengono detti di
ordine superiore perchè sono ottenuti combinando più modi fondamentali.
Se si arriva sul materiale con un fascio laser che ha una distribuzione di energia a campana, mi
aspetto di ottenere un foro più profondo al centro, come se fosse una gaussiana, nella realtà è
leggermente appiattita perché non esistono fasci laser che hanno una distribuzione perfettamente
gaussiana.
Restiamo sul modo fondamentale, andiamo a vedere com’è fatto il profilo di energia.
L’irradianza è quella grandezza che, integrata sull’area dello spot, mi deve dare la potenza del
laser. Non va confusa l’irradianza con la potenza specifica; la potenza specifica è la potenza diviso
la sezione (P/πR2).
SBOBBINA PAC 21-10
Distanza dall’asse di propagazione nel quale vado a valutare l’intensità del fascio laser: r
Raggio del fascio laser alla quota z, raggio dell’iperboloide di rotazione:R
Questa relazione mi dice che se mi metto a r=0 ottengo I(r,z)=Io che è l’irradianza massima
Se mi metto a r= ∞ , l’irradianza è 0.
SBOBBINA PAC 21-10
Su questo grafico si mette in ascissa il raggio relativo che è quel termine che sta nell’esponenziale
dell’eq. Di irradianza e in ordinata l’energia all’interno dello spot. Quando il raggio relativo è =1 ,
dentro all’iperboloide c’è l’86.5% dell’energia. Se voglio inglobare tutta l’energia mi devo mettere
ad una distanza infinita dall’asse di propagazione.
PARAMETRI FONDAMENTALI DEL FASCIO LASER
In teoria l’angolo di divergenza tra monte e valle del blocco di collimazione è diverso. C’è una
relazione fondamentale che resta sempre verificata a prescindere dalla lente di utilizzo che deve
dipendere dalle caratteristiche elettromagnetiche delle radiazioni che sto trattando.
(relazione fondamentale)
D0 θ=kλ/ N
SBOBBINA PAC 21-10
N= indice di rifrazione del materiale attraverso cui si propaga la luce (adimensionale), è una misura
quantitativa della riduzione di velocità e della variazione della direzione di propagazione (indice di
rifrazione per l’aria = 1.003)
Questa relazione mi dice che se il termine a destra dell’uguale è costante, se voglio una
focalizzazione molto spinta cioò D0 molto piccolo, devo per forza perdere qualcosa in termini di
divergenza cioè ϴ sarà più grande per far rimanere il prodotto costante. Viceversa se voglio un
fascio laser con una bassa divergenza, non riuscirò a concentrarlo al di sotto di un certo diametro
minimo.
Di solito la relazione fondamentale si trova scritta senza la N poiché il suo valore è approssimabile
a 1. Per cui avremo:
D0 θ=kλ
Questa relazione fissa il parallelismo tra l’approccio ottico ( a sinistra dell’eq.) e quello
elettromagnetico ( a destra dell’eq).
Fissato il mezzo attivo è fissata λ e avrò una certa distribuzione di irradianza (k); a prescindere
quindi da quello che il laser troverà nel blocco di collimazione, il laser ha delle caratteristiche
fissate ovvero k e λ , la lente invece incide su Do e ϴ cambia di conseguenza, affinchè il prodotto
sia costante.
Se voglio utilizzare in maniera proficua un fascio laser, devo lavorare nel punto di fuoco e mi
interessa che D0 sia più piccolo possibile, di conseguenza si avrà ϴ maggiore e questo significa che,
se c’è una minima variazione della superficie dal punto di fuoco, il diametro cambierà molto.
Se la distribuzione di irradianza è gaussiana, k è nota e si indica con un pedice g e vale 4/π. Siccome
il fascio gaussiano è il fascio ideale, la k deve essere quella ideale. I valori di k per fasci non
gaussiani sono sicuramente più grandi. Al di sotto di 4/π non esistono valori di k perché non è
fisicamente possibile.
Allora posso andare a calcolare anche la divergenza del fascio guassiano che verrà chiamata ϴ G:
kG λ
θG = =4 λ/ π D 0
D0
Per un dato mezzo attivo e per un dato diametro di fuoco, l’angolo di divergenza è il minimo
quando il fascio è gaussiano (perché la k è la minima possibile)
Fascio gaussiano viene chiamato a diffrazione limitata (divergenza limitata), il potenziale ad essere
focalizzato è il più alto possibile (possibilità di avere teta piccola)
SBOBBINA PAC 21-10
D F θ C =D0 θ
Le lunghezze focali nel blocco di collimazione (ff e fc) regolano il diametro D0 nella zona di lavoro.
Vogliamo far comparire dalla relazione precedente le lunghezze focali, ciò che interessa ricavare è
D0 poiché il diametro con cui lavoro sul pezzo, per cui avremo:
D0
Ricordando che: θ=tan (
−1
) DL =ϴCfC e D L =ϴfF
FF
Il laser arriva sulla lente di collimazione quando gli asintoti approssimano già la caustica e quindi si
può far riferimento all’equazione nel caso lontano. Se mi metto ad una distanza z= F c ottengo il
diametro DL , per z=FF ottengo sempre D L .
Quindi ho trovato che DO dipende dal diametro della fibra di trasporto e dal rapporto tra le
lunghezze focali del blocco di collimazione
Ff/fc = fattore di crescita
Esercizio
ϴ= 400 mrad
Df= 0.5 mm
Fc=Ff
SBOBBINA PAC 21-10
Devo stabilire questa iperbole che crescita ha prima e dopo, so già che il fascio laser è
simmetrico. Possiamo fare dei calcoli per stabilire quando finisce il campo vicino e inizia
quello lontano.
Per il campo lontano come sappiamo vale la relazione D(z)=ϴz
Per esempio, poniamoci ad una distanza lungo l’asse di propagazione di 200 mm. Vado a
calcolare dalle due relazioni D(z):
2 2 2 2 2
D ( z )=θ z + D0=80.0015mm (radice di D )
D ( z ) =θz=80 mm
Vediamo quanto vale la differenza per capire se questo fascio laser a 200 mm dal fuoco può
considerarsi nel campo vicino o fuori da esso. Possiamo ritenere di essere nel campo
lontano.
Calcoliamo adesso ad una distanza di 1mm
2 2 2 2 2
D ( z )=θ z + D0=0.4 mm(radice di D )
SBOBBINA PAC 21-10
D ( z ) =θz=0.64 mm
La relazione approssimata mi dice che a distanza 1 mm dal fuoco, si avrà un diametro più
piccolo di quello focale quindi ci troviamo nel campo vicino poiché tale equazione non ha
validità.
SBOBBINA PAC 21-10
LEZIONE DEL 26 OTTOBRE 2016
UTILIZZO PRATICO DEI LASER
SVANTAGGI
Tale metodo è tecnicamente complesso per setup e manutenzione ciò significa che periodicamente
va controllato il posizionamento degli specchi in quanto una minima variazione, rispetto al fascio di
propagazione del laser, comporta una variazione molto significativa della direzione del fascio laser
sulla stazione di lavoro; questo è noto come PROBLEMA DI ALLINEAMENTO DEL FASCIO LASER.
Essendo una cosa molto difficile da mettere a punto è anche una cosa molto costosa.
Affinché il fascio laser si propaga in maniera opportuna da uno specchi all’altro bisogna rispettare
una DISTANZA ASSEGNATA TRA SPECCHIO E SPECCHIO. (Per rispettare tale distanza assegnata,
questo significa che il percorso di trasporto del fascio laser potrebbe essere molto lungo, quindi
potrebbe essere significativa e non trascurabile l’impronta a terra della macchina.)
Il fascio laser è formato da radiazioni luminose, le radiazioni quando incontrano una superficie vengono
deviate.
Il principio per trasportare il fascio laser all’interno della fibra ottica è il PRINCIPIO DELLA RIFLESSIONE
TOTALE.
Tale principio considera il valore dell’INDICE RIFRAZIONE (N); se faccio in modo che il fascio laser arrivi su
una superficie , all’esterno della quale c’è un indice di rifrazione più basso, il fascio laser resta all’interno del
mezzo che lo sta propagando.
Inoltre, l’ANGOLO DI INCIDENZA non deve superare una soglia critica altrimenti se la curvatura della fibra
ottica è troppo pronunciata (arco molto stretto) negli archi ci sarà un’intensificazione della riflessione.
L’intensificazione delle riflessioni può sollecitare la fibra ottica e portarla alla rottura.
La vera fibra è il cuore della fibra il cui diametro è dell’ ordine dei decimi di millimetro.
La fibra è rivestita da un materiale a basso indice di rifrazione, altrimenti non funziona la propagazione.
C’ è poi un rivestimento metallico con funzione di:
La guaina esterna in materiale plastico conferisce flessibilità per effettuare percorsi complessi.
PUNTO 2: POSIZIONAMENTO DEL FASCIO LASER
Il puntamento è il posizionamento del fascio laser. (Per posizionamento si intende come si fa a posizionare il
fuoco ovvero il punto con il quale voglio eseguire la lavorazione su una superficie).
POSIZIONAMENTO MECCANICO
Sono due concetti molto diversi ma che si possono combinare tra di loro (vedi i 4 disegni:
situazione ideale è presente nell’ ultimo disegno).
SVANTAGGI
Tali caratteristiche dipendono dalla massa dei robot e dalla sua inerzia; se queste due sono elevate
ne risentono l’accuratezza e la ripetibilità.
VANTAGGI
Il robot può muoversi su un arco di lavoro più grande e può avere accesso a componenti più
complessi.
POSIZIONAMENTO OTTICO
Il posizionamento ottico avviene utilizzando delle TESTE SCANNER ossia dei sistemi di puntamento
ottico; tale tipo di puntamento non prevede alcuna movimentazione meccanica.
Il fascio laser entra all’interno della testa scanner (freccia dal basso); all’interno della testa c’è uno
SPECCHIO GALVANOMETRICO che serve per muovermi lungo una direzione. Se ad esempio ci sono
due specchi galvanometrici uno muove lungo x e l’altro lungo y e quindi riesco a spostare il fascio
laser su un piano.
COME FUNZIONA TALE SPECCHIO?
Il fascio laser arriva (in alto a destra) e colpisce il primo specchio che è montato su un
galvanometro.
SPECCHIO + GALVANOMETRO= SPECCHIO GALVANOMETRICO
La bobina genera un campo magnetico ed è questo campo che fa muovere lo specchio.
Il fascio laser si riflette poi sul secondo specchio (sempre montato su un galvanometro).
Il principio è sempre lo stesso; il campo magnetico generato dal secondo galvanometro fa muovere
gli specchi nell’altre direzione; in questo modo il fascio laser arriva sopra al pezzo.
LA lente f-theta è il componente fondamentale: una testa che non è abbinata ad essa è inutile , infatti ci
consente di ottenere la lavorazione.
Se devo traportare il fascio su una superficie ampia è opportuno che il fascio abbia stesse caratteristiche su
tutta l’ area di lavoro.
Sotto la lente f- teta c’è il piano di lavoro per cui muovendo gli specchi muovo il fascio laser sul piano di
lavoro.
Lavorazione uniforme sul piano: devo investire tutti i punti dell’area di lavoro con la STESSA RADIANZA e ci
devo arrivare con la STESSA VELOCITÀ.
Per Ɵ>0 la velocità sarà maggiore ma sarò più lontano dall’asse di propagazione.
Potrei agire su ω ma ciò è molto complicato. Allora si utilizza la cosiddetta LENTE F-THETA (figura 3), questa
lente risolve i problemi di radianza e velocità.
La lente f-theta è una lente a campo piatto (i fuochi si trovano sul piano) però il fascio laser attraverso le
riflessioni arriva in modo sempre ortogonale sul piano di lavoro.
Il percorso avanza con velocità ω costante che non dipende da Ɵ, ovvero prescinde dalla posizione
sull’area di scansione. Arrivo su tutti i punti dell’area di lavoro con la stessa radianza (perche sto usando una
lente a campo piatto) e con la stesso velocità (trattamento uniforme della superficie).
Precisione di percorso e costanza di velocità: mi posso spostare anche in aree lontane in quanto non ho
problemi di inclinazione.
La velocità è maggiore rispetto al braccio robotizzato.
Si può programmare un movimento degli specchi opportuno per un certo percorso, con i robot potrebbe
essere molto più complesso.
Anche nelle macchine manufacturing additive troviamo queste lenti.
La situazione ideale è montare una testa scanner su un robot combinando i vantaggi di entrambe
le soluzioni.
Le radiazioni del fascio laser quando arrivano sul materiale possono essere riflesse. Quindi non
vengono assorbite e non si ha l’aumento di temperatura necessario per la fusione e la lavorazione.
I metalli sono materiali molto riflettenti: la riflessività è funzione della lunghezza d’onda della
radiazione incidente. Tendenzialmente aumenta al crescere della lunghezza d’onda λ.
GRAFICO1
Consideriamo l’acciaio (steel).
Nel passare da λ=1µm a λ=10 µm la riflettività aumenta dal 60% al 90%. Significa che con λ tipica
YbYAG, si assorbe il 40% dell’energia emessa. Con una λ=10 µm, tipica dei laser a CO 2, viene
assorbita una quantità di radiazione che è solo del 10% (essendo il 90% la riflessività). Quindi
considerando il costo dei laser e i costi in termini energetici per il funzionamento delle attrezzature
ausiliare, la perdita ulteriore in riflessività rappresenta un problema significativo.
Un modo per risolvere il problema è quello di tener conto della temperatura. Variando la
temperatura si vuole vedere come varia la rifletività data λ=1µm. Si vede che all’aumentare della
temperatura la riflettività diminuisce.
PUNTO 4: SICUREZZA
I laser ad applicazione industriale hanno potenza elevata , sono concentrati, emettono nel campo del non
visibile. Quindi non vediamo le lavorazioni riflesse (possono andare dovunque). Per questo motivo si
utilizzano le cabine, cioè apposite-stazioni di lavoro e vi è una normativa che prevede di non lavorare con la
cabina aperta.
Quando i metalli arrivano a fusione possono provocare degli SPRUZZI METALLICI o dei VAPORI (si il metallo
vaporizza). Questi spruzzi e questi vapori tendono a salire verso la lente di focalizzazione e per proteggere
quest’ultima si usano dei VETRINI. Il vetrino è trasparente e quindi non ostacola il passaggio del laser. Il
vetrino, nel caso in cui si danneggia per spruzzi metallici o per il vapore, può essere facilmente sostituito e il
costo di quest’ultimo è sicuramente più basso del costo della lente di focalizzazione.
Per aiutare l’azione di protezione a valle della lente di focalizzazione e del vetrino si può usare un getto di
area compressa. L’area compressa serve ad allontanare gli spruzzi metallici e i vapori; inoltre l’area
compressa non deve interferire con il metallo altrimenti quest’ultimo si ossida.
LEZIONE DEL 28/10/2016 SERGI
CARATTERISTICHE IDEALI
- Bisogna avere una composizione chimica controllata e assenza di gas intrappolati nelle singole
particelle.
- Le particelle (grani di polvere) devono avere un buon assortimento di dimensioni per fare in modo
che venga assicurato anche una buona scorrevolezza, devono muoversi liberamente l’una rispetto
all’altra. Le tipiche distribuzioni di dimensioni vanno dai 50 µm ai 100 µm, ma questo dipende dalla
macchina che viene utilizzata nell’ AM. In alcuni casi si scende anche fino a 10 µm.
- Le particelle dovrebbero avere forma sferica perché questo facilita il processo di scorrevolezza delle
polveri
- Devono essere disponibili con una grande varietà di leghe in modo da poter realizzare manufatti di
tipologia diversa.
In questo grafico vediamo quali sono i parametri fondamentali che caratterizzano la polvere e su che cosa
questi parametri hanno influenza. In particolare tali parametri sono:
Ad esempio possiamo vedere come la porosità influenza sia la sinterizzabilità che le proprietà meccaniche.
DIAGRAMMA DI ISHIKAWA
Un altro diagramma che possiamo vedere è quello di ISHIkAWA, ovvero un diagramma causa effetto.
Caus e Effect
eeee
Ad es. il processo di produzione delle polveri influisce sulle caratteristiche delle singole particelle e questo
stesso processo produce delle forme, che possono essere regolari o fortemente irregolari.
A partire da ciò dobbiamo tener conto della distribuzione delle dimensioni delle particelle, per arrivare alla
polvere ovvero la massa di polvere che viene considerata per il processo. E di questa dobbiamo considerare
la densità sciolta (bulk density), ovvero la densità della polvere così come viene versata in un recipiente, e la
più elevata che si ottiene scuotendo il recipiente e facendo assestare i granelli di polvere. Questo significa
che se si sono generati dei ponti abbiamo la possibilità di romperli e fare in modo che la polvere aumenti la
sua densità.
Altre caratteristiche di tipo chimico-fisiche sono la composizione della lega e quindi la presenza di fasi
addizionali, la presenza di elementi di alligazione oppure le proprietà ottiche quali la riflessione e
l’assorbimento di una radiazione. Tutte le cause appena elencate caratterizzano l’effetto, cioè le proprietà
del manufatto ottenuto per AM.
1. Metodi meccanici
2. Metodi fisici e fisico-chimici
3. Metodi chimici
METODI MECCANICI
Durante il processo di riduzione delle dimensioni delle particelle, possono avvenire diversi fenomeni:
1. Impatto: le particelle di grosse dimensioni vengono in contatto le une con le altre e con dei corpi
macinanti e attraverso gli urti che si generano vedono ridurre le loro dimensioni;
2. Attrito: a causa dell’attrito si possono staccare dei frammenti come truciolo e quindi avere delle
particelle aggiuntive molto piccole rispetto a quelle che stiamo trattando.
3. Scorrimento: a causa delle forze applicate si generano delle forze di taglio e per cui le particelle
possono slittare piani su piani e staccarsi.
4. Infine una volta prodotte, le particelle possono essere sottoposte a forze di compressione
all’interno di questi macchinari, ciò può portare all’adesione di una particella con l’altra e quindi ad
un aumento delle dimensioni.
- Micro-forgiatura: ovvero una deformazione plastica delle particelle con uno schiacciamento delle
stesse nella direzione ortogonale all’applicazione delle forze.
- Frattura si generano delle cricche che si propagano e abbiamo la separazione.
- Agglomerazione: a causa di urti può capitare che una particella di dimensioni più piccole si va a
collegare ad una più grande perché viene schiacciata su quest’ultima.
- De-agglomerazione: processo inverso al precedente.
Questi fenomeni appena visti possono avvenire contemporaneamente e quindi ci può essere
l’agglomerazione di alcune particelle e al contempo il distacco di altre.
MILLING EQUIPMENT
- FRANTOI (crushers)
- MULINI (mills)
Sono utilizzati per materiali diversi: i FRANTOI vengono utilizzati per gli OSSIDI METALLICI (MINERALI), visto
che i minerali sono abbastanza fragili le forze in gioco non sono elevate. I MULINI vengono utilizzati per
metalli abbastanza reattivi con l’atmosfera come il titanio, lo zirconio ma anche per materiali non metallici.
2. Frantoio rotativo: nella sua forma più semplice presenta due tronchi di cono,
un tronco di cono esterno con l’interno vuoto e un tronco di cono interno
pieno. Fra questi due tronchi di cono si genera un’intercapedine. Quello che si
fa, poi, è fare in modo che il materiale venga immesso dall’alto. Dato che i due
tronchi non sono paralleli, lo spazio fra l’uno e l’altro va via via riducendosi,
permettendo che tra la parte interna ruotante e la parte esterna fissa, per
compressione e per attrito i grani vengano ridotti di dimensioni.
3. Mulino per attrito ci sono queste due stelle, blocchi di metallo che
ruotando l’uno contro l’altro e abbassandosi tendono a schiacciare il materiale.
1. Rod mill: all’interno del mulino Invece di avere delle sfere come corpi
macinanti ci sono delle barre, le quali sono sempre composte di
materiali ad alta resistenza meccanica e all’usura; in sostanza
invece di avere “palle” sferiche abbiamo dei cilindri, che
cadendo comportano lo schiacciamento e la riduzione di
dimensione del materiale in lavorazione.
3. Il Mulino planetario viene utilizzato raramente per la scarsa produttività, tuttavia è utilizzato per
ottenere polveri di piccole dimensioni, per mantenere la produttività, poi, anziché un unico mulino
di grosse dimensioni, si hanno 4 mulini più piccoli all’interno di un unico contenitore. Il nome
planetario deriva dal fatto che abbiamo due tipi di rotazione che si
combinano per avere un miglioramento delle caratteristiche della
polvere che si ottiene.
Consideriamo una sferetta, posizionata nel punto X, essa può essere un corpo macinante oppure una
particella che deve essere sottoposta a comminuzione, se il mulino ruota con velocità angolare ω questa
sfera avendo una sua massa sarà sottoposta alla forza di gravità.
Ragioniamo in termini di accelerazione per liberarci dalla massa e operare indipendentemente dal fatto
che la sfera sia ad esempio d’acciaio o alluminio.
La particella è sottoposta all’accelerazione di gravità. Tuttavia data la rotazione, detto D il diametro del
cilindro, essa è sottoposta ad un’accelerazione centrifuga:
D
a c=ω2 R=ω 2
2
Per cui se nel punto più alto del cilindro abbiamo l’uguaglianza fra:
D
ω2 =g sinα
2
Se invece non siamo in questa condizione di centrifugazione e abbiamo che il valore di:
D
ω2 < g sinα
2
Sergi: “Questo significa che per un certo angolo α io posso avere l’uguaglianza fra l’accelerazione
centrifuga e la componente radiale dell’accelerazione di gravità. Immaginiamo che sia proprio questo il
punto (“presumo intenda quello più gravoso in alto 2”). Quando siamo in questa condizione significa,
che per angoli più piccoli, abbiamo la condizione che la sfera sale e si sposta con il materiale, arrivati in
quella condizione si stacca, non è più legata dall’uguaglianza fra la forza centrifuga e centripeta. Allora
cosa succede? Cade? o accade qualche altra cosa?” vt
C’è una velocità tangenziale, per cui nel momento in cui si ha quest’uguaglianza ω2 D/2=g sinα ,
per quel valore di α, la particella parte come un proiettile e segue una traiettoria che va verso l’alto e poi
verso il basso. Cadendo tale particella assume velocità e colpisce il materiale da macinare che trovo
nella zona bassa, qui troverò anche altri corpi macinanti, per questi non succede niente, mentre il
materiale da macinare verrà ridotto in polvere. La macinazione potrà avvenire per compressione,
rottura, frattura, scorrimento o per deformazione delle particelle che sono all’interno.
Ci sono dei fori per cui man mano che la polvere viene macinata quando raggiunge dimensioni tali da
poter passare attraverso questi fori la ritrovo nel basso del recipiente e la posso raccogliere per
successive applicazioni.
In tutta questa relazione la massa non c’è da nessuna parte né sono indicate le dimensioni della
particella per cui questo iter viene ottenuto sia per i corpi macinanti ma anche per le particelle di
polvere che devo macinare sia grosse che piccole, indipendentemente dalla loro densità. Per cui le
particelle seguiranno sempre queste traiettorie e avrò una serie di questi andamenti e le sferette ad un
certo punto si staccheranno seguendo una traiettoria parabolica, cadono e cadendo frantumano le
particelle.
Abbiamo un contenitore cilindrico di solito si tratta di un cilindro retto (il diametro è uguale all’altezza
del cilindro).
- Il processo di atomizzazione consiste nel far investire con un getto fluido (acqua, gas…) una vena di
metallo liquido. Lo spruzzo di fluido in pressione provoca la rottura della vena liquida con la
produzione di goccioline le quali poi man mano trascorre il tempo si raffreddano solidificandosi
almeno esternamente, senza collegarsi più alle altre.
- La deposizione elettrolitica: con questo metodo, vengono scelte delle condizioni di trattamento tali
che metalli di elevata purezza vengono precipitati da una soluzione acquosa sul catodo di una cella
elettrolitica.
- Decomposizione termica: della polvere metallica può essere prodotta mediante decomposizione
termica dei composti di ossido di carbonio.
Tra questi processi ci concentreremo in particolare sull’atomizzazione che serve a produrre il 99.9%
delle polveri impiegate per l’A.M.
ATOMIZZAZIONE
Nel processo di atomizzazione viene utilizzato un flusso (di gas o di liquido) per poter ottenere la
frantumazione del getto. Quindi il processo usa un fluido ad alta pressione, che investe una vena liquida,
che viene frantumata in tante piccole goccioline, le quali poi si spostano dalla zona di atomizzazione vera e
propria e progressivamente si raffreddano venendo convogliate all’interno di un cilindro. Le particelle
raffreddandosi almeno nella parte esterna raggiungono il fondo del recipiente ad una temperatura tale da
garantire che non vi sia coalescenza tra le varie particelle di polvere realizzate.
Per cui una delle condizioni di progetto sarà quella di fare in modo che il tempo che intercorre tra la
formazione delle goccioline e la loro raccolta, sia tale da portare ad un raffreddamento di queste goccioline,
per poi avere particelle solide. Molte volte all’interno del recipiente dove cadono le particelle si aggiunge
del gas inerte per fare in modo che si origini un movimento elicoidale, che allunga il percorso delle particelle
per permettere loro di essere solidificate quando raggiungono il fondo del recipiente.
Tipi di atomizzatori:
- Atomizzatori ad acqua: il getto è costituito da uno spruzzo d’acqua che investe la vena liquida.
- Atomizzatore a gas: possiamo avere anche il mantenimento sottovuoto del recipiente nel quale la
polvere viene raccolta.
- Atomizzatore centrifugo
- Atomizzazione a disco rotante
- Atomizzazione a ultrasonico…
Meccanismo di Atomizzazione: negli atomizzatori più classici che sono a gas o ad acqua il metallo liquido
viene introdotto sotto forma fusa da un recipiente/serbatoio dal quale viene immesso attraverso un ugello
(canale a sezione ristretta) verso il basso; per caduta libera la vena liquida si sposta verso il basso e viene
investita da un getto d’acqua o di gas che ne produce la rottura.
Le fasi che intervengono sono quelle di formazione di una superficie ondulata, la vena liquida si increspa, a
partire da queste increspature si vengono poi a creare delle lingue di fluido separate le une dalle altre, alla
fine sempre grazie a fluttuazioni dovute al getto di gas si ha il restringimento di queste lingue e la rottura
sotto forma di più parti. Dopo che si è avuta questa rottura in base alla tensione superficiale più o meno
elevata le gocce inizialmente allungate tendono ad assumere il volume minimo, tendono a formare delle
sfere.
I tipi di atomizzatori vengono classificati in base al mezzo utilizzato per frantumare la vena liquida:
- Atomizzatori ad acqua: uno spruzzo di acqua in pressione investe la vena liquida frantumandola,
questo tipo di atomizzatore è il meno costoso tuttavia poiché coinvolge acqua e quindi ossigeno si
possono avere delle reazioni di ossidazione sulla superficie di queste particelle, per cui bisogna
pensare ad un trattamento termochimico, successivo al processo di atomizzazione, per eliminare
l’ossidazione, ovvero trattamenti con idrogeno, questo ovviamente comporta un aggravio dei costi
se noi volessimo particelle prive di ossidazione.
- Atomizzazione a gas: in sostituzione dell’acqua si utilizza un getto ad alta velocità di gas (Argon,
Azoto o Elio), in questo modo si ottengono delle polveri di forma sferoidale non ossidate che
presentano caratteristiche particolarmente adatte all’impiego per AM.
- Atomizzazione a vuoto: questo tipo di atomizzatore funziona in modo diverso dai precedenti il
recipiente di atomizzazione (cilindro) è mantenuto sotto vuoto, mentre il metallo liquido è
addizionato a gas, il tutto per avere del metallo liquido con del gas intrappolato al suo interno, nel
momento in cui iniettiamo ciò attraverso un ugello nel recipiente sotto vuoto, il gas tenderà ad
espandersi, l’espansione brusca del gas comporta la rottura della vena liquida e quindi la
formazione delle goccioline. Le quali poi come nei casi già visti in precedenza seguono un percorso
di caduta per solidificare. Questo processo dà una polvere altamente pura. Solitamente è usato
come gas idrogeno o una miscela d’idrogeno e argon.
- Atomizzatore centrifugo: una estremità della barra metallica viene riscaldata e fusa per essere
portata a contatto con un elettrodo di tungsteno non fusibile, che ruota longitudinalmente a
velocità molto elevate. La forza centrifuga creata fa sì che il metallo sia gettato via verso l'esterno.
Questo sarà poi solidificato in particelle sferiche all'interno di una camera sottovuoto. La polvere di
titanio può essere realizzata utilizzando questa tecnica.
- Atomizzatore a disco rotante: il flusso di metallo fuso incide sulla superficie di un disco in rapida
rotazione. Questo provoca l’atomizzazione meccanica del flusso di metallo e le goccioline sono
spinte ai bordi del disco. Le particelle sono di forma sferica e la loro dimensione diminuisce con
l'aumentare della velocità del disco.
- Solidificazione ultrarapida: c’è un abbassamento rapidissimo della temperatura, da cui si ottengono
delle strutture cristalline metastabili o amorfe, che vengono utilizzati per scopi diversi dall’AM.
Atomizzatore a gas: in alto in figura vediamo il recipiente contenente il metallo liquido che è stato
precedentemente fuso e portato a una temperatura più alta di
quella di fusione, tale metallo viene versato in una sorta d’imbuto
che nella parte bassa presenta l’ugello che inietta la vena liquida,
abbiamo poi gli ugelli di spruzzamento del gas (possono essere di
due tipologie), infine una volta avuta la rottura della vena liquida
come già detto in precedenza le goccioline scendono verso il basso
fino a raggiungere una temperatura tale da impedire la
coalescenza, tali goccioline saranno poi rimosse dal recipiente sul
fondo.
Atomizzatore ad acqua: più semplice del precedente e meno
costoso, ma con un funzionamento molto simile, c’è sempre
il metallo liquido che è versato dall’alto, poi, invece di avere
un getto di gas abbiamo un getto d’acqua per rompere la
vena liquida e ottenere così le particelle volute. Poiché viene
impiegata l’acqua le particelle si raffreddano più velocemente
rispetto all’impiego del gas, per cui possiamo raccogliere le
particelle in modo più semplice semplicemente con uno
scivolo.
- Stazione di atomizzazione: dove si effettua la fusione e il surriscaldamento del metallo liquido, che
viene fatta attraverso forni tradizionali, forni sottovuoto o forni a induzione a seconda del materiale
trattato, il metallo liquido con una secchia viene trasferito al sito di atomizzazione.
- La camera di atomizzazione: in tale camera è sempre presente un ugello attraverso cui il metallo
liquido deve passare e assume una certa configurazione, ad esempio nello schema precedente dove
si evidenziavano le ondulazioni per avere la configurazione voluta della vena liquida, l’ugello si
presentava a sezione rettangolare, per cui non deve essere necessariamente a sezione circolare. La
camera di atomizzazione viene poi riempita di gas inerte per evitare l’entrata di aria dall’esterno ed
prevenire l’ossidazione delle polveri. Quindi tale camera può trovarsi alcune volte in condizioni di
sovra-pressione.
- Collettore polvere: è un sistema di raccolta della polvere, serve quindi a raccogliere le goccioline
una volta che si sono solidificate e diventate polvere metallica. La raccolta deve esser continua per
garantire appunto la continuità dell’intero processo.
SERGI: “Molte volte l’unità di atomizzazione è tenuta sottovuoto, per fare in modo che l’eventuale gas
intrappolato, specialmente negli atomizzatori a gas dove c’è quel getto di gas che rompe la vena liquida, può
capitare che del gas rimane intrappolato nelle particelle, per poterlo eliminare si utilizza il sistema di
mantenere sottovuoto la camera di atomizzazione, la pressione è intorno ai 10^-3 mmHg, questo consente
al gas intrappolato nelle goccioline di potersi espandere e favorire ancora di più il processo di
frantumazione”.
La prima tipologia prevede due ugelli contrapposti con un certo angolo che investono la vena liquida e
producono la frantumazione.
La seconda tipologia di ugello invece è un ugello per così dire coassiale, cioè un ugello ricavato con un
vuoto tra due tronchi di cono, in tale passaggio c’è il flusso di gas che avvolge completamente il materiale e
in funzione dell’angolo di apertura di questo cono ci sarà una certa posizione in cui questo fascio converge e
rompe la vena liquida. Questo tipo di ugello rispetto all’alto è più costoso, consente anche una sorta di
protezione, perché c’è questo gas che avvolge la vena liquida e ne impedisce il contatto con i residui
dell’ambiente esterno, vedi l’ossigeno che comporta ossidazione.
Dalla figura possiamo evidenziare in sezione dei cerchietti in alto essi sono delle serpentine che riscaldano
per induzione le secchie di raccolta del metallo liquido, servono ad evitare che il metallo liquido si raffreddi.
Molto spesso infatti non si opera in pressione, il metallo liquido scende per gravità, per cui il tempo Serpentine
di
permanenza del metallo liquido nei contenitori può essere relativamente lungo e bisogna evitare che il
metallo si solidifichi, perciò le serpentine.
Tipologia 1 Tipologia 2
CARATTERISTICHE SISTEMA DI
ATOMIAZZAZIONE AD ACQUA
Parametri importanti
1. Pressione dell'acqua: all’aumentare della pressione dell'acqua => diminuisce la dimensione delle
particelle => perché ho un maggiore impatto;
2. spessore del getto d’acqua: all’aumentare dello spessore => particelle più fini => aumenta il volume di
atomizzare medio;
3. Angolo l’angolo di impatto tra l’ugello da cui è spruzzata l’acqua e la direzione principale della vena liquida
di metallo.
In figura è presentata la classica unita di atomizzazione ad acqua, sono visibili il contenitore pieno di metallo
fuso, il sistema di riscaldamento a induzione, il metallo liquido che cade, il getto incrociato che porta alla
rottura della vena liquida, la prima zona in cui le goccioline iniziano a formarsi, sotto si apre a ventaglio
cadono le goccioline che diventeranno polvere. Tale polvere verrà poi viene trasportata verso l’esterno. È
presente anche un sistema di filtraggio per selezionare e quindi eliminare eventuali particelle più grossolane
di polvere. In figura vediamo anche una pompa che alimenta l’acqua in pressione a 70MPa.
In un’altra figura viene illustrato il sistema di atomizzazione a gas, è ben evidente il getto di gas, notiamo
inoltre come la camera di atomizzazione sia abbastanza
grande per far sì che le goccioline abbiano il tempo di
solidificare completamente prima di raggiungere il fondo.
È presente inoltre un sistema di coclea che trasporta la
polvere verso l’esterno.
Questa selezione ci permette di ottenere il cuore della polvere tra una dimensione minima e una
dimensione massima che vogliamo.
È presente anche un processo di miscelazione della polvere, perché ad esempio tra lotti di polvere ci
possono essere differenze di composizione chimica e distribuzione granulometrica e quindi c’è bisogno di
miscelare la polvere di lotti diversi. Ad esempio se ho tre atomizzatori che svolgono la stessa lavorazione io
miscelo i lotti prodotti per avere una composizione standard, senza preoccuparci di fluttuazioni nel processo
produttivo dovuti a fattori casuali.
Poi deve esserci una parte di analisi e di test, per verificare se quello che è stato fatto è corretto e cioè che le
caratteristiche richieste alla polvere siano possedute dalla stessa e quindi di poter preparare un certificato di
accompagnamento. Segue l’impacchettamento, l’immagazzinamento e la spedizione delle polveri.
Le polveri vengono impacchettate in contenitori di polietilene o metallici in cui si immette una certa
quantità di gas inerte in sovra-pressione, per creare uno strato di separazione con l’ambiente esterno in
quanto un po’ di ossigeno può sempre infiltrarsi.
METODI FISICI E FISICO-CHIMICI
Deposizione Elettrolitica
La deposizione elettrolitica si utilizza solo per alcuni materiali al fine di ottenere dei metalli puri o quasi puri.
Esempio: deposizione di Rame a partire da una soluzione di solfato di rame (CuSO 4) e acido solforico
(H2SO4), il solfato di rame si scioglie in una soluzione acquosa di acido solforico, il solfato di rame (CuSO 4) si
dissocia in Cu++ e SO4--.
SO4—sta per i fatti suoi, il rame passa dall’anodo da rame, a ione rame, dopo di che attraverso questa
soluzione che serve da convettore, perché quello che voglio fare è ottenere una purificazione, al catodo lo
ione rame reagisce con due elettroni si scarica dando rame metallico.
Il rame metallico che si deposita sul catodo è come una polvere, non si lega stabilmente al catodo, per cui
alla fine togliendo il catodo e scuotendolo si ottengono questi piccoli granelli di rame che si sono formati
durante il processo. Ovviamente tali granelli vanno poi purificati da una parte della soluzione in cui la
reazione è avvenuta.
Nel caso di polveri d’acciaio abbiamo un anodo costituito di acciaio dolce, il catodo è acciaio inossidabile e si
ha quindi la formazione di polvere di ferro al catodo che poi viene separata attraverso il sistema di
scuotimento, perché non c’è un’adesione stabile, poi attraverso un sistema di mulini a martello si può
ridurre la dimensione di questa polvere che essendosi depositata lentamente risulta spugnosa e porosa.
La deposizione elettrolitica viene usata anche per ottenere polvere di magnesio, quindi allo scopo di
ottenere una purificazione. Per cui si parte già da qualche lega di magnesio o da un suo sale allo scopo di
aver magnesio puro, ad esempio per motivi sperimentali.
Decomposizione termica
Nella decomposizione termica viene utilizzato un solvente con polveri di ferro o nichel, in pratica si utilizza
del ferro sotto forma di truciolo, proveniente da lavorazioni meccaniche come fresatura, tornitura dopo di
che questo ferro viene trattato in un reattore con ossido di carbonio.
14MPa,200°C
Fe+5 CO Fe (CO)5
0.1MPa,240°C
Se notiamo dalle slide abbiamo una pressione di 14MPa e una temperature di 200 °C, in queste condizioni
di pressione e temperatura si forma un composto chiamato ferro pentacarbonile, tale composto ha una
consistenza liquida, per cui può essere facilmente portato via dal reattore in cui avviene tutto il processo.
Una volta preso tale liquido lo si immette in un altro reattore in cui la temperatura è leggermente più alta
ma la pressione è paragonabile a quella atmosferica, quindi più bassa, ciò comporta una reazione di
dissociazione per cui dal ferro pentacarbonile si ritorna ad ossido di carbonio e ferro, in questo caso il ferro
che si forma è una polvere di piccole dimensioni che può essere utilizzata per processi successivi.
Per quanto riguarda la polvere di nichel la procedura è del tutto analoga ovviamente cambiano temperatura
e pressione ma del resto il processo è molto simile.
I METODI CHIMICI
Tra i processi più importanti il processo di riduzione degli ossidi (oxide reduction), tale processo è un
processo economico, che però è utilizzato con forni continui in cui il minerale subisce un processo di
riduzione.
Ad esempio partiamo da minerali ossidi di ferro quali la magnetite, tali minerali possono essere frantumati
con i sistemi già visti in precedenza per ottenere una pezzatura molto piccola dell’ordine di qualche decina
di millimetro al massimo, poi, si passa ai mulini per ottenere della polvere di ossido e quindi di minerale di
dimensione dell’ordine delle decine o centinaia di micrometri, dopo di che in un forno continuo la polvere di
minerale è trattata con ossido di carbonio, che reagisce con il minerale, da ossido diventa anidride carbonica
e estrae ossigeno dal minerale e forma del ferro, però siccome questo ferro veniva da un granello di
minerale una volta tolto l’ossigeno quello che rimane è il ferro e al posto dell’ossigeno? L’ossigeno è andato
via e rimangono dei pori, per cui il materiale che si ottiene, questi granelli sono di forma spugnosa, contiene
all’interno una rete di vuoti, che ovviamente per il processo di Additive Manufacturing non vanno bene, ma
sono largamente utilizzati nell’industria di sinterizzazione classica ( ovvero si prende la polvere, la si
comprime in stampi ad elevata pressione per cui ottengo il prodotto nella forma definitiva attraverso questi
stampi, dopo di che in forno si attiva un processo di diffusione, non si arriva alla fusione, si arriva ad
esempio per gli acciai ad una temperatura di 1100 °C 1200 °C e questo consente, tenendo il manufatto per
molto tempo nel forno , di fare in modo che tra le varie particelle esterne ci sia un processo di diffusione, si
creano dei collegamenti stabili.
Con la sinterizzazione classica sono realizzati tantissimi componenti, che vengono utilizzati ad esempio nei
compressori dei frigoriferi, nelle automobili, nelle boccole ecc. tuttavia poiché si devono creare degli stampi
della stessa forma dell’oggetto da realizzare, il costo di produzione delle attrezzature è elevato, per cui la
sinterizzazione classica è adatta alla produzione di massa dove devo realizzare un componente centinaia di
migliaia di volte.
Nella sinterizzazione classica si raggiungono temperature elevate per il processo di diffusione, tuttavia se c’è
un elemento alligante in piccola quantità, può agire da legante, fondendo lui stesso lega ancor di più le
particelle preponderanti di altro materiale che fondono invece a più alta temperatura. Ad esempio per la
polvere d’acciaio da riduzione si può usare polvere di rame, il rame ha una temperatura di fusione più bassa
di quella dell’acciaio, per cui se realizzo una miscela al 98% di ferro e al 2% di rame, questo 2% di rame
fonde e forma un velo liquido tra le varie particelle di ferro per agevolare il processo di diffusione.
La precipitazione da soluzione è impiegata anch’essa per ottenere metalli abbastanza puri. Nella
precipitazione da soluzione, anche detta idrometallurgia, si parte da un materiale metallico di risulta, come
scarti di produzione, trucioli di altre lavorazioni, i quali, poi, vengono immessi in una soluzione contenente
acidi per molto tempo, per fare in modo che questi rottami e frammenti vengano disciolti nella soluzione,
ottenuta la dissoluzione in questo liquido reagente, avviene il processo di precipitazione, che si può fare
aggiungendo un altro sale per fare in modio di catturare anioni o cationi e quindi fare in modo che ci sia una
la precipitazione del metallo.
La corrosione intergranulare è utilizzata solo per alcuni particolari metalli, in particolare per gli acciai i quali
sono soggetti alla corrosione. Si usa principalmente per gli acciai perché quando abbiamo una lega
metallica, indipendentemente dal processo che utilizzo all’interno della lega non c’è una continuità, ma vi
sono delle discontinuità, esistono infatti i grani cristallini per via del processo di solidificazione, inoltre c’è la
segregazione, cioè alcuni componenti basso fondenti tendono a distribuirsi (segregarsi) al bordo dei grani,
per cui il bordo dei grani può essere sede d’instabilità.
In questi processi si studia proprio questo, se non c’è questa impurezza, però il bordi dei grani c’è sempre, se
io immetto del materiale metallico sotto forma di trucioli (elementi di piccole dimensioni) in una soluzione
cosiddetta di digestione, cioè una soluzione in cui questi elementi aggressivi riescono a concentrarsi al
bordo dei grani creando una corrosione, che avviene essenzialmente al bordo dei grani, che è una zona
sede di componenti basso fondenti e di maggiore attiva, cioè a maggiore energia, rispetto alle zone interne,
in queste zone c’è una corrosione che infragilisce.
Se osservo dopo 15 giorni questi rottami, che sono stati infragiliti attraverso questa corrosione
intergranulare nel bagno di sensibilizzazione, che a volte viene fatto anche con temperature abbastanza
elevate per accelerare il tutto, non mi accorgo di quello che è avvenuto, tuttavia i rottami sono diventati
estremamente fragili. Per cui con un sistema di frantumazione o macinazione non devo andare a rompere,
già sono rotti internamente, stanno solamente collegati l’uno all’altro e ottengo delle particelle, delle
dimensione dei grani cristallini, siccome i grani cristallini sono dell’ordine di qualche micrometro, ottengo
delle polveri molto sottili, per cui per alcuni casi particolari può essere opportuno usare questo metodo e
ovviamente bisogna utilizzare un materiale che sia sensibile alla corrosione.
Morfologia:
- Riguardo alla morfologia della polvere un primo problema è quello del campionamento,
nel momento in cui ho realizzato, attraverso un sistema di atomizzazione 100 Kg di polvere
ad esempio, non posso controllare ogni singolo granello, per cui devo pensare ad un
campionamento. Come prelevare una porzione significativa di questo campione. Dobbiamo
tener presente che le polveri hanno un comportamento molto simile per alcuni versi ai
liquidi, se una polvere ha particelle molto grandi e particelle molto piccole, nel momento in
cui la polvere è lasciata a deposito, le particelle più grandi tendono a cadere verso il basso e
quelle più piccole a flottare verso l’alto, per cui se prelevo un cucchiaio di polvere in alto dal
recipiente ottengo caratteristiche, che non si riferiscono all’intero barattolo, ma solo della
porzione che sto esaminando, allora bisogna pensare a come effettuare il campionamento
per prelevare una porzione significativa della polvere.
- Definire la dimensione: come faccio a dire quanto misura una particella? Se la particella è
sferica è sufficiente il diametro o il raggio, ma se la particella non è sferica come facciamo?
Bisogna vedere come definire le dimensioni; quali forme possono avere queste particelle e
a che cosa sono dovute? Dopo di che bisogna definire metodi per la misura delle
dimensioni, in particolare se ho tante particelle diverse, devo poter stabilire un metodo per
avere la misura in tempi rapidi di centinaia di migliaia di particelle per poter avere poi una
distribuzione delle dimensioni, sapere se quella polvere che ho realizzato ha tutta un unico
diametro oppure se c’è un assortimento, che è necessario alle volte che ci sia, perché se le
particelle fossero tutte uguali gli spazi vuoti fra le varie particelle adiacenti sarebbero
notevoli, per cui necessitiamo di particelle piccole per riempire i vuoti. C’è bisogno di un
assortimento granulometrico.
- Le proprietà della polvere sono diverse ad es. di tipo ottico o termico, ma quelle che ci interessano
maggiormente sono la densità, la porosità e la scorrevolezza, cioè se una polvere può essere
facilmente convogliata attraverso condotti da una parte all’altra.
SISTEMA DI CAMPIONAMENTO
Esistono delle normative specifiche per il campionamento, in genere sono delle normative o della ASTM o
delle norme ISO, che prevedono le metodologie da utilizzare.
a) Piano inclinato: in figura vediamo un piano inclinato sul quale sono presenti dei setti deviatori, per cui
immetto la polvere dall’alto, questa polvere viene divisa in diversi flussi, poi convogliata per poter
raccogliere sul fondo una parte di quello che ho immesso. Per cui ho prelevato un campione
significativo.
b) Un altro metodo prevede un sistema di ripartizione in due macro serbatoi, poi in ognuno di questi c’è un
sistema di divisione del flusso; la polvere viene immessa dall’alto, poi, attraverso questi setti la polvere è
convogliata casualmente nelle vasche di raccolta.
c) L’altro sistema lo possiamo definire per così dire “a giostra”, vediamo la polvere immessa in una sorta di
imbuto, poi vi è un nastro convogliatore vibrante, per cui la polvere tende a mescolarsi, in basso vi sono
delle vaschette che ruotano velocemente. In questo modo si può raccogliere nelle vaschette, la polvere
che discende in intervalli diversi, questo è un modo per fare un campionamento significativo, cioè
prelevare una porzione significativa dell’ordine dei 50-100g del lotto che voglio esaminare.
DEFINIZIONE DELLA DIMENSIONE
Nel caso in cui la particella non sia sferica posso pensare a una pluralità di metodi per misurare la
dimensione, alcuni sono metodi di tipo geometrico, per cui mi fermo su alcune caratteristiche geometriche
della particella e definisco una dimensione.
Oppure ci sono diametri equivalenti, ad esempio un diametro equivalente si può ottenere considerando il
diametro di una sfera avente lo stesso volume della particella o la stessa superfice; o ancora avere un
diametro cosiddetto “idraulico”, per cui si fa cadere la particella in un liquido si verifica qual è la velocità
raggiunta ad una certa quota e si assegna a quella particella il valore del diametro di una sfera che
raggiunge la stessa velocità della precedente.
L’importante è sapere che esistono una pluralità di metodi, per cui nel momento in cui la particella non è
sferica, non basta dire il diametro di questa particella è 10μm devo dire come è stato misurato.
Fra i diametri il più classico è il diametro dello STACCIO, cioè la larghezza dell’apertura minima della maglis
attraverso cui la particella passerà. Lo staccio non è altro che un setaccio con delle maglie, per cui io posso
definire il diametro come il diametro dello staccio, cioè la dimensione del setaccio attraverso cui quella
particella passa.
Per cui se ho una particella come quella in figura, qual è la dimensione del setaccio? La cosa più semplice è
considerare la luce netta, ad es. se sono maglie quadrate è il lato del quadrato.
Analogia Prof.: pensate all’auricolare che ho in mano, quali maglie pensate occorrano? L’auricolare ha
dimensioni 40mm, 20mm, 18mm, allora se faccio uno staccio la cui luce netta è 50mm, indipendentemente
da come metto l’auricolare/particella questo passa, se però faccio uno staccio con luce netta 21mm e
appoggio semplicemente l’auricolare questo non passa, tuttavia se lo faccio vibrare e faccio in modo che la
particella prima o poi trova la posizione tale da poter passare, essa dopo un certo tempo riuscirà a passare,
allora questo è il diametro attraverso una setacciatura, in pratica quella che va a misurare la dimensione più
piccola della particella. In pratica la devo orientare nello spazio fino trovare la dimensione più piccola e
posso dire questa è la dimensione attraverso la stacciatura.
- Il diametro di Martin, ovvero la lunghezza media della corda che divide l’aria proiettata in due parti
uguali;
- Il diametro di Feret: è definito come la distanza tra le due parallele tangenti al perimetro dell'area
proiettata dalla particella.
- Il diametro dell’area proiettata: cioè io vedo l’area proiettata e associo quest’area a quella di una
sfera che avrebbe la stessa area proiettata e quindi vado a calcolare il diametro;
- Diametro dinamico è il diametro idraulico già detto prima, cioè il diametro di una sfera avente la
stessa densità e la stessa velocità finale della particella che è fatta cadere in un fluido della stessa
densità e viscosità.
In pratica già vediamo descritti i due metodi che utilizzeremo per la misura delle dimensioni, per dividere in
varie classi le dimensioni delle particelle che abbiamo prodotto, uno è quello degli stacci, per cui se
abbiamo una serie di stacci di dimensioni diverse, posso utilizzarli per vedere quanto ce ne sta di diametro
tra 10μm e 15μm, 15μm e 20μm e così via. L’alto metodo fa riferimento all’area proiettata. Perché l’area
proiettata? Se prendo della polvere l’attacco a del nastro adesivo, e la metto sotto un microscopio quella
che vedo è l’area proiettata. Per cui se faccio un’analisi delle immagini attraverso microscopia devo utilizzare
come metodo di misura l’area proiettata, non posso misurare altro. Le atre dimensioni come diametro della
particella sferica non le vedo ho bisogno di altri metodi. Per cui a seconda della metodologia impiegata c’è
bisogno di utilizzare un certo metodo di misura del diametro e bisogna essere anche bravi a saperli correlare
uno all’altro altrimenti ottengo informazioni parziali e conflittuali.
Nello schema in figura vediamo i diversi metodi di calcolo del diametro a partire dall’area proiettate:
- Un primo metodo è quello di trovare le due dimensioni tra loro ortogonali che conducono alle
massime dimensioni o della lunghezza o della larghezza, tra le due scelgo quella massima.
- Diametro di Feret: è definito come la distanza tra le due parallele tangenti al perimetro dell'area
proiettata dalla particella.
- Diametro di Martin: la corda che divide la superficie proiettata in due parti uguali.
- …
Lezione 2/11/16 (Sergi)
PARTICELLE NON SFERICHE
Per le particelle che non sono di forma sferica esistono diverse metodologie per individuare il
diametro della particella stessa. Troviamo diverse definizioni, ciascuna con la propria validità,
spesso legate alle applicazioni alle quali queste forme sono destinate. Il metodo più semplice è
quello del diametro misurato attraverso la dimensione degli stacci. Poi troviamo il diametro di
martin e il diametro di feret che si riferisco alla misura della VOLTA della particella e sono legati
essenzialmente all’analisi delle immagini attraverso metodi di microscopia. Altro metodo è il
diametro dell’area proiettata: diametro di una sfera avente la stessa area proiettata della particella.
Dopodiché troviamo altre tre definizioni: 1) diametro di superficie: diametro di una sfera avente la
stessa superficie di una particella; 2) diametro di volume: diametro di una sfera avente lo stesso
volume di una particella; 3) diametri dinamici: (tra questi troviamo il diametro di Stokes) si valuta
la velocità con la quale una particella cade in un fluido, dopodiché si associa a questa particella il
diametro di una sfera che a una certa distanza dal filo libero assume la stessa velocità della
particella che stiamo considerando (DA SLIDE: diametro di una sfera avente la stessa densità e la
stessa velocità terminale della particella in un fluido della stessa densità e viscosità).
Essenzialmente ci riferiremo al diametro attraverso stacciatura che è il metodo più standardizzato.
Per cui vediamo che se la linea in tratto grosso (in figura sotto) è la sagoma della particella che
stiamo sondando, attraverso misure microscopiche (microscopio ottico o meglio con un
microscopio elettronico) andiamo a misurare la circonferenza che rappresenta la stessa area della
superficie proiettata della particella; oppure misurare il diametro di Feret che è quello che individua
la massima dimensione della particella “(quindi ci fa ruotare delle tacche le quali possono ruotare
fino ad abbracciare quella che è massima rispetto alla particella stessa (viene fatto in automatico dai
sistemi di analisi))”.
FORMA DELLE PARTICELLE
La forma di tipo acidulare (ad ago) è tipica della decomposizione chimica. Le forme irregolari,
allungate come una barretta, vengono un po' da decomposizione chimica e un po' da comminuzione
meccanica (frantumazione e macinazione). Molte volte si trovano anche delle particelle (Flake) che
sono frastagliate e piuttosto schiacciate e vengono sempre da comminuzione meccanica. Le
particelle Dendritic hanno delle ramificazioni e vengono invece da processi elettrolitici.
Le particelle di forma quasi sferica si ottengono da quelle reazioni attraverso l’ossido di carbonio
(ferro pentacarbonile e nichel tetracarbonile). Ancora da processi di atomizzazione troviamo forme
abbastanza irregolari sia per le dimensioni e sia per la frastagliatura della superficie. Un po' meno
irregolari sono le Rounded derivanti da atomizzazione e decomposizione chimica. Poi troviamo la
forma porosa, i granuli di polvere all’interno formano usa sorta di “spugna”.
In questa scala vediamo un po' quali sono le dimensioni delle particelle che possono arrivare anche
all’ordine dei nanometri, ovviamente le applicazioni non sono tutte relative all’additive
manufacturing. Nell’additive manufacturing ci orientiamo con dimensioni delle particelle che vanno
dai 10 micrometri fino a 100-150 micrometri.
“Vengono poi indicati i metodi per l’analisi di queste particelle. Per particelle di grandi dimensioni
abbiamo risoluzioni ottiche. Si impiegano gli stacci, quindi quella separazione che vedremo più
approfonditamente. Oppure si passa con particelle che sono dell’ordine della decina di micrometri
attraverso un’analisi al microscopio o rifrazione laser fino ad arrivare a particelle di tipo elicoidale
che interessano l’ambito prevalentemente medico.”
STACCIATURA
La stacciatura è il metodo più semplice. È basato solo sulla dimensione, è indipendente dall’aspetto
esterno delle particelle (non bisogna tener conto di proprietà ottiche o se le particelle sono più o
meno scabre), e quello che si ottiene è la realizzazione di questi stacci che usualmente sono ottenuti
attraverso dei fili di seta e vengono incrociati in modo tale da avere delle aperture quadrate. Questi
fili e l’apertura degli stacci non sono arbitrari, ma ci sono due serie statunitensi: la serie Tyler
Standard e V.S. Series ASTM Standard. Nel nostro continente si usa molto spesso la serie Tyler.
Le caratteristiche che hanno questi stacci è che la distanza tra un filo e il successivo che dà
l’apertura della maglia. Generalmente seguono un rapporto radice di due in modo da avere che uno
staccio di dimensioni più grandi rispetto a uno precedente abbia l’area della maglia pari al doppio
della precedente.
Misura degli stacci: 1) si va a misurare la distanza interna tra due fili, questa distanza viene detta
anche luce retta ed è un modo per poter valutare le dimensioni. 2) altro modo è valutare la
dimensione della maglia attraverso la distanza tra il centro di un filo e il centro del filo
immediatamente antecedente. Siccome questi fili sono normati, quindi hanno tutti la stessa
dimensione, e siccome questa dimensione parte del certificato dello staccio, viene detto anche il
diametro del filo che è stato utilizzato per la sua realizzazione. 3) altro metodo è quello di misurare
il numero di maglie presenti in un pollice lineare. Il numero di maglie per pollice lineare si
chiamano MESH. Conoscendo la misura delle MESH per pollice lineare possiamo tranquillamente
passare, noto il diametro del filo, sia alla dimensione nominale di apertura dello staccio, che qui è
espressa in pollici, oppure attraverso una disegnazione standard secondo il sistema internazionale in
millimetri o frazioni di esse.
Nella rifrazione laser si ha un laser che investe le particelle che si trovano all’interno del fluido. Se
questo fluido è un liquido il metodo viene detto “wet” (bagnato), se invece è un gas si chiama “dry”
(a secco).
Le particelle vengono investite e ci sono sistemi di captazione (detector) che vanno a valutare di
quanto il fascio di luce monocromatico è stato deviato. Questa deviazione dipende dalla superficie
della particella che viene investita ed indica una sorta di misura rispetto all’area proiettata che è su
quella che la luce viene deviata. Il metodo è abbastanza robusto e insieme a quello della
microscopia ottica hanno dei sistemi software per poter tradurre una dimensione in un metodo di
misura.
Questo sistema viene indicato per particelle di piccole dimensioni, quindi dell’ordine di decine di
micrometri o meno, invece i sistemi di analisi delle immagini usano un microscopio a scansione o
ottico che riesce ad osservare le particelle di polvere libere e ne vede l’area proiettata che viene
misurata automaticamente e si ha una valutazione del diametro della particella sferica che ha
un’area proiettata identica a quella della particella oggetto di studio ed ovviamente viene assimilata
la particella ad una forma sferica. Per cui una volta che è stato misurato il diametro questo viene
associato a quello di una sfera per poter valutare il volume.
Dunque, questi due metodi, rifrazione laser e microscopia con analisi delle immagini, misurano il
volume delle particelle, ovvero attraverso il diametro calcolano il volume. Perché avviene questo?
Perché le particelle non sono tutte della stessa dimensione, avranno una propria distribuzione che
viene detta distribuzione granulometrica oppure semplicemente granulometria, per dire che è stato
fatto questo tipo di analisi.
Allora il numero di particelle ha una distribuzione abbastanza vicina a una distribuzione gaussiana a
campana, per cui ci sono poche particelle di piccole dimensione e poche particelle di dimensioni
molto grandi. Per poter sintetizzare con qualche numero, ovviamente si possono impiegare tutti i
metodi che si hanno per quanto riguarda una grandezza che è variabile, e quindi utilizzare media,
mediana, varianza, deviazione standard, ecc. Però usualmente per quanto riguarda la distribuzione
granulometrica, vengono individuati in pratica due valori di D10 e D90. D10 rappresenta il decimo
percentile o il primo decile, cioè significa che essendo l’area sotto la curva di distribuzione unitaria
per definizione, quest’area viene divisa in dieci parti uguali ognuna con la stessa area. Allora
possiamo individuare il decimo percentile e il novantesimo percentile e dare quelli che sono i valori
dei diametri corrispondenti al decimo e al novantesimo.
Ad esempio, considero questi due numeri: 125 e 280. Il primo numero dice che c’è il 10% di
particelle che ha dimensioni inferiori a 125 micrometri e il 10% ha dimensioni superiori a 280
micrometri. Quindi questi sono D10 e D90, ovvero i diametri che lasciano uno a sinistra e uno a
destra il 10% della distribuzione, e questo mi consente di avere un’idea della dispersione.
Ovviamente se pensiamo che questa è una distribuzione perfettamente gaussiana, il 50esimo
percentile si troverà al centro, altrimenti, per definizione, è la media (essendo una distribuzione
simmetrica media e mediana coincidono).
Di seguito vediamo una tipica struttura di una analisi attraverso stracciatura. Questo è un caso in cui
ci sono sei stacci e un sotto staccio (recipiente che raccoglie). Indicando con d1, d2, d3 .. quelle che
sono le luci rette degli stacci: d1>d2>d3 e così via; per cui gli stacci più grossi stanno in alto.
Dopodiché una volta che ho fatto questa stacciatura (ho posizionato questi 100 grammi di polvere;
ho messo un coperchio per evitare che vadano fuori; utilizzo un’apparecchiatura che mi consenta di
fare scorrimenti e rifrazioni; decido di arrestare il processo dopo qualche decina di minuti; riapro
l’apparecchio e rimuovo dai singoli stacci la polvere che è rimasta), ci sarà r1=residuo sullo staccio
1, r2= residuo sullo staccio 2, .., r7=residuo nel secchiello di raccolta della polvere molto fine. Se
sommo tutti i residui (da r1 a r7) dovrò avere che questa quantità di polvere sarà uguale a quello che
ho versato; quello in meno è quella che eventualmente è andata perduta perché bloccata nelle
maglie degli stacci.
A questo punto, chiamando con Rtot la somma di tutti i residui sugli stacci, compreso l’ultimo sotto
staccio. Usualmente Rtot è 100, probabilmente quando vado a fare questa misura trovo che è 99 –
99,1 circa. Dopodiché calcolo le seguenti frazioni indicate con lettera R maiuscola:
R1 è la frazione in massa di polvere che ha un diametro maggiore di d1. R2 è la frazione in massa di
polvere che ha dimensioni maggiori di d2. La stessa cosa viene fatta con gli altri. Ovviamente R7
sarà la quantità di polvere che ha diametro maggiore di zero.
Quindi ho calcolato questi sei valori R1,R2.., che sono i residui su uno staccio se non ci fossero
stati gli stacci precedenti. Questi numeri R1,R2,.. sono crescenti, quindi R2 sarà maggiore o al più
uguale ad R1 e così via; essendo delle frazioni saranno minori di uno (perché abbiamo diviso per
Rtot).
Dunque, esiste una correlazione tra i residui degli stacci e la luce retta dello staccio stesso. Questa
legge è detta distribuzione di Rosin-Rammler e ci dice che il residuo su uno staccio di dimensione
D è correlato ad essa da questa relazione:
n è un esponente che “dà ragione della dispersione della distribuzione”;
F è detta finezza e rappresenta il diametro virtuale di uno staccio sul quale rimarrebbe una
frazione in massa pari ad 1/e=0,3679. È la dimensione di uno staccio virtuale sul quale
rimarrebbe il 36,8 % della polvere.
Se non ho questo diagramma, partendo dalla “1” (slide sotto-legge di Rosin-Rammler) posso fare il
logaritmo naturale di entrambi i membri ed ottengo la “2”, dopodiché per fare il logaritmo un’altra
volta devo cambiare di segno entrambi i membri “3”, a questo punto posso fare il logaritmo del
logaritmo “4”, infine posso “spacchettare il logaritmo al secondo membro “5”.
Indicando con lnln(1/R)=y, ottengo y=mx+cost che è una relazione lineare, per cui “posso fare
questa condizione: se opero in questo modo facendo il doppio logaritmo dell’inverso dei residui e il
logaritmo naturale del diametro degli stacci, posso sapere che questa è una legge lineare”.
Osservazione: i punti rappresentativi delle coppie R1-d1, R2-d2,.., dopo aver fatto il doppio
logaritmo e il logaritmo, si trovano abbastanza prossimi ad una retta. L’inclinazione della retta mi
darà la pendenza n (esponente della legge di Rosin-Rammler), dopodiché o calcolo la costante, e,
calcolata la costante, calcolo la finezza facendo il prodotto di n per il logaritmo della finezza;
oppure un’altra cosa che posso fare, siccome abbiamo visto che la finezza è quel diametro virtuale
sul quale rimarrebbe un residuo del 36,79%, questo residuo sarà il logaritmo del logaritmo di
1/0,3679, vado a vedere dove sta sulla linea che ho fatto, trovo l’intercetta in giù e trovo la finezza.
Quindi ho trovato i due parametri: n ed F.
Questo non capita in due casi: quando c’è stata una manipolazione della distribuzione o quando
vengono unite polveri realizzate con diversi atomizzatori per poter avere un unico lotto abbastanza
omogeneo.
Sopra vediamo una rappresentazione in cui in ordinate abbiamo la percentuale in volume.
Ovviamente la % in volume o in massa sono tra loro simili, sono espressi da numeri diversi
singolarmente però tenendo conto che per passare dal volume alla massa non dobbiamo fare altro
che moltiplicare per la densità possiamo scrivere o la % in volume o in massa.
Sopra vediamo due tipi di diagrammi che sono due tipi di distribuzioni, sono due modalità di
rappresentazione. Quello in basso è un diagramma cumulativo, che è quello che viene rappresentato
dalla legge di Rosin-Rammler.
Se invece avessi utilizzato quei valori dei residui resi ovviamente frazionari (dividendo per Rtot), in
quel caso avrei avuto una curva di frequenza, quindi una curva in cui vedo questo andamento che
non è proprio gaussiano, tenendo anche presente che l’ascissa è in scala logaritmica. Così come nel
diagramma in basso, che rappresenta la cumulata, non è una retta per il fatto che l’asse verticale è
lineare; se avessi utilizzato un asse doppio logaritmico avrei potuto osservare la linearità dei punti
selezionati di volta in volta.
Attraverso l’analisi delle immagini quello che riesco usualmente a calcolare è il numero di particelle
che hanno un certo diametro. Il numero e la massa sono due cose completamente diverse. Infatti nel
seguente esempio, vediamo un caso emblematico. Immaginiamo di avere una distribuzione
costituita da nove particelle: tre hanno diametro di 1 micrometro, tre di 2 micrometri e tre di 3
micrometri. Il volume che sarà rispettivamente: 0.52, 4,2 e 14,1. Il volume totale sarà 18,8
micrometri al cubo. Per cui posso calcolare la frazione in volume (es: 0,52/18,8 ecc.).
Vicino troviamo due diagrammi a barre. In uno (quello di sopra) c’è la distribuzione per frazione in
numero, siccome sono nove particelle e di ogni tipologia troviamo 1/3, queste tre barre (1
micrometro, 2 micrometri, 3 micrometri) hanno tutte la stessa altezza, quindi è una distribuzione
uniforme. Se facciamo la stessa cosa per la frazione in volume (o massa) quello che vedo è che la
distribuzione è completamente asimmetrica: è molto piccola la frazione in massa delle particelle di
piccole dimensioni, mentre quello che è prevalente è la frazione in masse delle particelle di
dimensione più grande. Le particelle più grosse pesano di più rispetto a quelle più leggere. “Per cui
bisogna stare attenti, e questo lo fanno direttamente i software abbinati con i sistemi di analisi delle
immagini o tutti quei sistemi che si basano sul conteggio delle particelle aventi un certo diametro,
che attraverso la condizione di poter assimilare le particelle a delle sfere avendone calcolato il
diametro, da questo risalgono o al volume o alla massa per poter avere una rappresentazione più
immediata e più vicina a quelle che si possono ottenere con gli stacci che è una delle misure più
usate.”
DENSITÀ BULK
La densità Bulk è la densità che posso ottenere versando liberamente una certa quantità di polvere
in un recipiente, senza applicazioni di scosse. Di solito si utilizzano dei sistemi standardizzati sia
per quanto riguarda il contenitore nel quale la polvere deve essere raccolta e sia il sistema di
distribuzione (cioè l’imbuto nel quale la polvere deve fluire). Se l’imbuto non fosse standardizzato e
utilizzassi, ad esempio, un imbuto “domestico”, mettendolo molto in alto avremo che la polvere
cadendo “consuma” energia cinetica; contrariamente, se l’imbuto lo metto molto vicino al recipiente
di raccolta l’energia sarà molto più bassa. Nel primo caso si avrebbe una certa forza applicata che
tenderebbe ad assestare le particelle.
La densità Bulk è la più importante, perché viene utilizzata quando la polvere viene versata o su un
letto di polvere per poter fare additive manufacturing, oppure se devo realizzare un pezzo attraverso
la sintetizzazione classica o attraverso pressatura e stampo, la quantità di polvere è quella che io
raccolgo con questa modalità.
Il dispositivo è fatto in questo modo:
DENSITÀ TAPPED
La densità Tapped è una densità che viene calcolata applicando delle scosse così come abbiamo
visto per il sistema di setacciatura. Si applicano delle scosse, di frequenza normata, che consentono
alla polvere di assestarsi e quindi occuperà un volume minore per cui avrà una densità maggiore.
Il dispositivo è rappresentato in fugura:
Vediamo che c’è un cilindro graduato nel quale è stata versata la polvere. Dopodiché vengono
applicate delle scosse, attraverso l’albero, al recipiente cilindrico e la polvere tende ad assestarsi.
Una volta che si è assestata, attraverso queste tacchette vado a misurare l’altezza raggiunta dalla
polvere e quindi ne conosco il volume, la massa è quella inserita inizialmente e quindi posso
calcolare la densità.
Il fluometro, che abbiamo visto prima, viene usato anche per misurare la scorrevolezza: si mettono
nell’imbuto 50 grammi di polvere, dopodiché si lascia scorrere questa polvere e il tempo che viene
impiegato dalla polvere per scorrere, espresso in secondi, ne rappresenta la scorrevolezza. Se per
caso una porzione di polvere non passa (si blocca), si assegna a quella polvere scorrevolezza
infinita. Per quale ragione potrebbe capitare ciò? “Verso delle particelle di polvere nel recipiente, ad
un certo punto si possono formare dei ponti che fanno sì che la polvere non possa addensarsi verso
l’esterno. Quindi abbiamo delle specie di “cupole” che impediscono alla polvere di andare nelle
zone vuote, per cui quello che misuro è una densità della polvere più bassa che è quella che si
ottiene come densità Bulk. Nel momento in cui applico delle vibrazioni al recipiente, la polvere è
costretta a muoversi e quindi ad occupare tutti gli spazi disponibili. Quindi si avrà un addensamento
della polvere e quindi un valore della densità più alto rispetto al precedente. La stessa cosa capita
ancora di più se penso che ci sia questo fluometro in cui all’interno ci sono i 50 grammi di polvere,
quello che si utilizza è un sistema, una specie di stecchetta a punta che si infila nel foro e si fa in
modo che rimanga chiuso. Dopodiché quando sono pronto con il cronometro per misurare il tempo
o far fluire la polvere nel contenitore per la misura della densità Bulk, estraggo con delicatezza
questo otturatore e la polvere scorre. In questo modo, nel momento in cui tolgo lo stecchetto può
capitare che si formino delle VOLTE per cui la polvere non scorre. Questo capita soprattutto quando
la polvere è umida o quando la polvere è stata “trattata male”, cioè che è stata sottoposta a
strisciamenti per cui si è caricata elettrostaticamente per attrito. Quindi in queste condizioni so che
la polvere non scorre bene per cui devo intervenire prima di avere dei problemi (fermata impianto).
Viste queste ultime caratteristiche, quello che rimane da considerare è che le polveri, ottenute da
processi di atomizzazione o altri tipi di processi, possono contenere dei gas disciolti che
rappresentano delle impurezze, per cui è opportuno riscaldare la polvere ad alte temperature, senza
arrivare però a quella di fusione, per fare in modo che gli eventuali gas che sono rimasti intrappolati
nei granelli di polvere possano allontanarsi e quindi rendere la polvere esente da questi difetti che
possono provocare fragilità dopo il processo di sintetizzazione.
Altre cose che possono avvenire e motivo di fare questi trattamenti termici è per ricottura di
addolcimento, cioè fare in modo che se c’è un processo di deformazione plastica a freddo che hanno
subito le particelle specialmente quelle che provengono da processi di macinazione, non da
atomizzazione, è necessario far sì che la polvere rilassi queste tensioni e quindi questo processo di
ricottura è utile per rilassare queste tensioni interne.
Effettuato il trattamento termico, usualmente polveri provenienti da vari siti produttivi vengono
mescolate insieme. Di seguito vediamo dei miscelatori in cui la polvere viene immessa. Il più
semplice è quello a cilindro.
Questi vengono posti in rotazione e dopo alcuni minuti si arriva ad un completo rimescolamento
della polvere. La miscelazione viene adottata quando devo mescolare due polveri di tipologia
diversa per ottenere un manufatto particolarmente complesso, quindi avente due tipi di polveri
mescolati insieme per poter avere una sorta di lega che non potrei ottenere per le normali vie di
fusione.
Altro aspetto da valutare è la tossicità delle polveri. Non solo per la tossicità delle polveri sottili che
vengono inalate, ma anche per il fatto che possono essere tossiche proprio per la tipologia di
metallo che si ingerisce (anche in piccole quantità), per cui bisogna sempre usare guanti protettivi,
maschere di respirazione, tute.
Bisogna tener conto anche del fatto che le polveri hanno caratteristiche di possibile piroforicità, cioè
una polvere può incendiarsi da sola. Quando riduco in polvere un materiale quello che aumenta
moltissimo è la superficie esposta. Siccome la superficie è esposta a processi di ossidazione,
l’ossidazione è una reazione esotermica, per cui ci possono essere degli incendi non voluti. Le
polveri devono quindi essere tenute in depositi che non siano facilmente accessibili all’aria,
significa avere dei contenitori in cui si immette sotto pressione per fare in modo che non ci siano
delle rientrate di aria che possono portare a questa piroforicità.
Allo stesso modo bisogna evitare che si siano cariche elettrostatiche. Se si utilizzano sistemi
metallici per versare la polvere si crea attrito tra la polvere e il recipiente metallico e questo può
provocare cariche elettrostatiche e lo scoccare di scintille.
Inoltre, bisogna tener presente che l’aggiunta di umidità può provocare un deterioramento della
polvere, ma anche la presenza di composti che possono danneggiare sia i recipienti che contengono
la polvere e sia l’ambiente circostante.
Siccome la polvere, dopo che è stata utilizzata in queste apparecchiature, deve essere setacciata per
eliminare le particelle che eventualmente si sono fuse fra loro nel processo, allora queste operazioni
vanno fatte in ambiente chiuso e quindi in separatori sigillati in cui c’è la presenza di un gas inerte
per evitare che durante le operazioni di setacciatura ci possano essere dispersioni verso l’ambiente
esterno.
Ed infine, uno dei problemi fondamentali è la dimensione delle polveri. Siccome i sistemi di
produzione mediante additive manufacturing sono fatti in modo da impiegare polveri che in genere
stanno oltre i 10 micrometri, questo per evitare che ci possano essere delle frazioni molto piccole e
che durante la manipolazione essendo molto leggere possano essere trasportate nell’ambiente; oltre
a tutti i problemi che ci possono essere in termini di inquinamento ambientale dovuti alle particelle
disperse nell’ambiente.
LEZIONE DEL 4/11/2016 CARDAROPOLI/ALFIERI
FASCIO ELETTRONICO
Oggi si sta sviluppando sempre di più l’uso del fascio elettronico. Il fascio elettronico è connesso ad
un flusso di elettroni , sfruttando la loro energia cinetica, cioè l’energia connessa con la velocità con
la quale si muovono. Affinché sia possibile il moto dell’elettrone è necessario trovarsi in un campo
elettrico, e più è elevato il campo elettrico e maggiore sarà l’energia di cui dispongono gli elettroni
e quindi la loro velocità. Quando il fascio elettronico colpisce un materiale l’energia cinetica
posseduta dagli elettroni viene ceduta al materiale e si trasforma in parte in calore e in parte viene
dispersa. Quindi avviene una reazione chimica radiativa.
E' abbastanza facile controllare la reazione ( lo sviluppo del fascio è connesso ad un campo
elettrico quindi basta spegnere il campo elettrico per interrompere il flusso di elettroni).
La macchina che genera il fascio elettronico è detta anche cannone elettronico. La possibilità di
gestire gli elettroni con elevate energie connesse fa pensare di usare il fascio elettronico per
applicazioni tecnologiche, quindi si passa dalla fusione ( perché l’energia cinetica si trasforma in
energia termica) alla foratura, saldatura o trattamenti termici superficiali. Queste applicazioni sono
adottate già dagli anni 50 per il fascio elettronico.
Nella macchina si distinguono tre zone principali che costituiscono il cannone elettronico:
3) camera di lavorazione .
All’interno della macchina deve essere presente il vuoto perché se ci fosse aria si realizzerebbe
la collisione degli elettroni con le molecole del gas che portano a una riduzione di energia
posseduta dagli elettroni e una dispersione del fascio con una conseguente riduzione di energia
specifica posseduta dal fascio stesso.
Gli elementi che costituiscono la macchina possono anche trovarsi in differenti condizioni di
vuoto, in quanto ci sono zone più delicate come quella di generazione del fascio dove è
richiesto un alto vuoto o addirittura un vuoto spinto ( dell’ordine di 10^-5 - 10^-9 mbar) perché
il fascio viene generato al suo interno quindi non ci deve essere aria, mentre nella camera di
lavoro ci possono essere vuoti meno spinti ( dell’ordine di 10^-1 - 10^-3, in realtà sotto certe
condizioni si può lavorare addirittura a pressioni atmosferiche).
Il vuoto viene realizzato tramite pompe. I differenti livelli di vuoto sono associati a pompe
diverse.
Ci sono pompe rotoriche che realizzano un vuoto di medio livello ( 3*10^-3 mbar) che
presentano un rotore all’interno attraverso la cui rotazione si genera il vuoto. Siccome ci sono
organi meccanici in movimento c’è rumore e c’è l’usura, ma sono economiche.
Per avere un vuoto maggiore si usano le pompe a diffusione, dove il vuoto si genera usando
olio i cui vapori presentano un valore estremamente basso di pressione di vapore. Non
essendoci organi in movimento sono più affidabili, hanno una durata maggiore però sono più
costose delle pompe a rotazione.
Un altro sistema per realizzare un alto valore di vuoto sono le pompe turbomolecolari, le quali
funzionano come un piccolo motore di aereo ( sistema turbina-compressore che consente di
realizzare il vuoto) e consentono rapidamente di raggiungere elevati livelli di vuoto. Il mezzo
per realizzare il vuoto è l’aria. Qui ci sono organi in movimento quindi si possono realizzare
delle rotture catastrofiche dovute alle sollecitazioni legate alle elevate velocità degli organi in
movimento.
Un'altra possibilità è quella di usare pompe criogeniche. Sono pompe pulite che realizzano
elevati valori di vuoto abbastanza rapidamente. Però queste pompe lavorano a temperature
100 K ( -170 °C) quindi devono usare un fluido refrigerante che deve essere rigenerato
periodicamente (generalmente si usa azoto liquido).
Il cannone elettronico può generare potenze dell’ordine di 100 kw. La generazione del fascio
avviene sotto vuoto spinto e gli elettroni vengono emessi da un catodo, sono focalizzati e poi
accelerati attraverso l’utilizzo di campi elettrici. Non ci può essere aria altrimenti si genera una
rapida divergenza del fascio con una riduzione notevole della sua potenza.
In genere nei metalli ci sono elettroni liberi. La corrente che si realizza nei metalli causa un
flusso di questi elettroni liberi. Quando un metallo viene riscaldato aumenta la mobilità di
questi elettroni e se l’energia ceduta è sufficiente può accadere che questi elettroni vengono
emessi. Se il metallo si trova in un campo elettrico esso rappresenta il catodo (polo negativo),
quindi gli elettroni si muoveranno verso l’anodo (polo positivo). Il metallo è un filamento
(tungsteno). Una volta che gli elettroni sono rilasciati siccome sono in un campo elettrico
vengono accelerati mentre si spostano verso l’anodo.
A ciascun elettrone sarà associata una certa energia connessa alla tensione che c’è tra i capi del
nostro circuito. Il catodo è costituito da tungsteno perché presenta una elevata temperatura di
fusione (circa 3400 gradi) e quindi il filamento si può riscaldare, emettendo elettroni, senza
portarlo a fusione. La corrente può passare direttamente nel filamento o si può avere il
filamento avvolto su un conduttore nel quale passa la corrente, quindi in questo caso si parla di
generazione indiretta di elettroni connessa alla trasmissione del calore. La tensione e la forma
degli elettrodi sono importanti. Gli elettroni emessi sono tutti dotati di cariche negative e una
volta emessi tendono a divergere (perché sono tutti caricati con lo stesso segno) quindi è
necessario un altro elettrodo chiamato cilindro di Wehnelt che consente di evitare la
dispersione degli elettroni mantenendo il fascio focalizzato. Questo cilindro funge anche da
barriera in quanto consente il passaggio dal catodo all’anodo solo di una certa quantità di
elettroni per regolarne il flusso.
FLUSSO DEGLI ELETTRONI
Il filamento di tungsteno raggiunge temperature molto elevate, quindi il contatto con l’ossigeno
causa il suo degrado istantaneo (l’ossidazione rompe il filamento).
Gli elettroni raggiungono velocità di 100000 Km/s in funzione della tensione che opera la loro
accelerazione. L’anodo è forato perché attira gli elettroni però poi li fa passare nella zona
successiva che è la zona di manipolazione e formazione del fascio.
Altro parametro importante è la corrente che passa nel filamento. La potenza che si ottiene è
perciò funzione della corrente e della tensione. Siccome gli elettroni sono tutti carichi allo
stesso modo tenderebbero a divergere all’uscita dell’anodo e per questo è necessario avere un
sistema di focalizzazione che mantiene il fascio focalizzato. Ci sono dei sistemi che inoltre
evitano l’astigmatismo del fascio e lo mantengono focalizzato in una certa direzione. Queste
lenti di focalizzazione sono una serie di campi magnetici che regolano il moto del fascio e sono
costituite da una serie di avvolgimenti di rame nei quali scorre una corrente che genera campo
magnetico che regola il flusso degli elettroni.
È necessario poter indirizzare il fascio sulla parte in lavorazione. Quindi è necessario un sistema
per la manipolazione del fascio simile ai sistemi di focalizzazione ( cioè ci sono sempre degli
avvolgimenti nei quali scorre corrente che genera un campo magnetico). È importante notare
che lo spostamento del fascio avviene immediatamente non appena si opera sulla corrente che
circola negli avvolgimenti.
L’impatto degli elettroni sul materiale rilascia energia, cioè l’energia cinetica si trasforma in
energia termica. Questa energia inizialmente è limitata a pochi micron , successivamente si
trasmette l’energia termica che si propaga nel pezzo. Questa energia ceduta fonde e vaporizza il
materiale. Una volta che si verifica la vaporizzazione il fascio può penetrare più all’interno del
pezzo quindi aumenta l’altezza che viene lavorata. L a cavità che si forma è pari al diametro del
fascio elettronico. In seguito al contatto degli elettroni con la parte in lavorazione si generano
dei raggi x che sono dannosi e quindi le macchine che effettuano questa lavorazione devono
essere schermate (generalmente si usa rivestimento al piombo e camice d’acciaio per
protezione).
Ci sono una serie di parametri che caratterizzano l’energia degli elettroni e la potenza specifica
che si realizza:
- Tensione di accelerazione
- Tensione di corrente che attraversa il filamento
- Corrente che attraversa le lenti che consentono la focalizzazione
- Il segnale di deflessione del fascio ( che regola l’eventuale funzionamento ad impulsi del
fascio)
- Pressione di lavorazione
Tensione di accelerazione: può variare tra 10 e 150Kv. Più è elevata questa tensione e più basse
sono le forze repulsive tra gli elettroni e quindi si contrasta di più la divergenza e aumenta anche la
distanza focale.
Corrente che consente la generazione del fascio: influenza la potenza del fascio. Varia tra 25 e 100
mA . Determina la capacità di penetrazione del fascio nel materiale.
Corrente delle lent: è compresa tra 0 e 5 A. Variando questa corrente varia il campo magnetico
che consente la focalizzazione. A volte è necessaria una certa divergenza del fascio per alcune
applicazioni ( il fascio può passare da 10 micron al millimetro).
Segnale di deflessione del fascio ( fino a 2000 Hz): serve per impartire delle oscillazioni alla forma
del fascio ( si può variare la larghezza, la forma o la frequenza in base alle lavorazioni che bisogna
effettuare)
Pressione di lavorazione: è possibile avere nella zona di lavorazione pressioni differenti fino ad
arrivare a pressioni atmosferiche. Se si lavora sotto vuoto anche in zona di lavorazione si hanno
densità specifiche maggiori, se invece l’area di lavorazione presenta condizioni di vuoto meno
spinte il fascio tende a divergere e quindi si riduce la distanza di lavoro.
VUOTO SPINTO
VUOTO MENO SPINTO
Per la saldatura e la foratura si lavora con densità di potenza dell’ordine di 10^8 W/cm2
ALFIERI
La lavorazione del metallo per tecnica additiva si può fare in due modi:
2) deposizione indiretta
Si può lavorare in entrambe le modalità sia con il laser che con il fascio elettronico.
Il processo funziona così: si DEPOSITA e si FONDE (cioè si produce la cosiddetta pozza fusa di
metallo e contemporaneamente viene aggiunto metallo ( additive metal), ovvero si parte da un
substrato che è fuso e aggiungo metallo che fonde insieme al substrato e in fase di solidificazione si
ottiene una costruzione additiva).
Materiale grezzo
Quindi la classificazione della tecnologia DED si può fare in base a queste tre cose:
-materiale
-sorgente
- feeder
Ad esempio in base alla sorgente si può avere deposizione metallica con electron beam o
deposizione con il laser o si può usare l’arco elettrico per fondere il materiale o ancora il plasma
(pistola con gas ionizzato) che fonde il materiale.
Altra classificazione è in base al tipo di materiale metallico che sto aggiungendo che può essere
sotto forma di filo ( wire feeding) o di polvere( powder feeding).
Altra classificazione è in base al modo di come aggiungo materiale: materiale coassiale alla fonte
di energia (coaxial) o in maniera fuori asse (off axial) alla sorgente di energia (per esempio se il
fascio laser è al centro il materiale arriva lateralmente).
Materiale in polvere Materiale in forma di filo
SO
RG
ENT
I
Variabili di base:
Deposizione laser metallica di filo
Deposizione laser di polvere
Additve manifacturing
COATING ( rivestmento)
Se una superficie è usurata viene rivestita con un materiale più resistente ( quindi substrato e
materiale di apporto sono diversi). IL materiale che va a rivestire è uno strato molto sottile.
Le proprietà della superficie e del substrato sono modificate dal materiale depositato. Il substrato
si comporta come un materiale composito con proprietà incrementate perché c’è l’aggiunta di un
materiale con caratteristiche diverse ( si può fare con arco o plasma).
Principio di base del Coating: il materiale resistente all’usura e alla corrosione si usa solo per il
rivestimento ( non si realizza tutto il pezzo con questo materiale altrimenti sarebbe troppo
costoso).
APPLICAZIONI COATING
Paletta di turbina di aerei può subire danni da urto ( esempio urto con uccelli).
Si aggiunge materiale solo nella zona danneggiata ( quindi è diverso dal rivestimento perché si
mette materiale omologo a quello originale in quanto si deve garantire continuità).
La riparazione è conveniente per tutti quei componenti con alto valore aggiunto proprio
come le palette di turbina o altri utensili o qualunque componente aerospaziale o militare
(in quanto qui si usano componenti costosi).
Slitta che scorre sul piano si usura (usura nominale), cioèsi riduce lo spessore, quindi vado
ad aggiungere materiale per ripristinare le dimensioni nominali ( di progetto ) della slitta.
Ovviamente bisogna usare lo stesso materiale della slitta perché è una riparazione.
Qualunque azione di revisione e riparazione di nuove parti prima che queste diventino
operative
Esempio. Motore aeronautico
In foto c’è una girante del motore dell’aereo (componente con costo altissimo quindi se si verifica
un danno locale in fase di produzione deve essere riparato tramite aggiunta di materiale altrimenti
si compromette tutto il sistema).
TECNICHE CONVENZIONALI CHE VANNO BENE PER L’MRO (ma non vanno bene per l’additve
manifaturing)
- Elettrolisi: è un processo di natura chimica, cioè è una reazione non spontanea, consistente
nel fatto che se ho due elettrodi, uno positivo e uno negativo, si fa in modo che ci sia
passaggio di corrente in modo tale che il moto degli elettroni sposta materiale dal polo
negativo al polo positivo. Quindi il pezzo in lavorazione si metterà al polo positivo. Questa
lavorazione va bene per fare i rivestimenti ma non per fabbricare. Questo fenomeno è
casuale in quanto si aggiunge materiale ma poi bisogna effettuare altre lavorazioni per
dargli una forma. Quindi non si presta ad additive manifacturing.
Inoltre il processo è molto lento.
- Placcatura meccanica metallica: nel serbatoio c’è il pezzo e il materiale di apporto sotto
forma di polvere o truciolo, si gira il tutto insieme e alla fine il materiale di apporto passa
sul pezzo in lavorazione “per placcatura”. Anche questa lavorazione va bene per fare
rivestimento ma non per fare fabbricazione.
- DED con plasma e arco elettrico: si aggiunge materiale di apporto sotto forma di polvere o
di filo usando come sorgente di energia una torcia al plasma o un arco elettrico. Nella zona
di contatto dove si verifica l’arco elettrico si fonde il filo e il substrato e quindi si aggiunge
materiale.
(Plasma generator: si fornisce gas che deve essere ionizzato per diventare plasma)
Perché DED con fascio elettronico e con laser? Perché bisogna risolvere alcuni problemi
tradizionali
Per questo motivo si usano sorgenti concentrate come il fascio laser o il fascio elettronico che
vanno bene sia per MRO che per fabbricazione
(Tecnologia a filo)
Deposito precedente
Fascio laser
(Tecnologia con deposizione di filo)
L’ugello che porta il filo (nozzle) è inclinato di un certo angolo rispetto al fascio laser (laser-wire
angle). Si può calcolare anche l’angolo tra l’ugello e la posizione longitudinale (feeding angle).
Il parametro di processo su cui lavorare è il posizionamento della punta del filo rispetto al fascio
laser ( e quindi la sua distanza da esso).
Alimentazione di filo frontale (il filo sta di
fronte al laser)
La parte rossa è la traccia di quello che sta fondendo il laser (la scia dietro indica la parte che si sta
solidificando)
Alimentazione coassiale
Ci sono tre fasci che si concentrano sulla punta del filo (il fascio è comunque generato
singolarmente poi c’è una unità che lo separa in tre parti in modo che possono essere distribuiti in
modo circonferenziale sul filo).
È un sistema più complesso e più costoso perché è necessaria questa unità che deve separare il
fascio laser.
EB: lavorazione sotto vuoto per evitare una dispersione di energia del fascio (SVANTAGGIO in
quanto bisogna generare il vuoto)
Laser: la lavorazione avviene a pressione atmosferica quindi si riduce il lead time (in quanto non si
deve generare il vuoto) (VANTAGGIO)
EB: emissione di raggi x (SVANTAGGIO perché i raggi x provocano l’oscillazione del fascio quindi
la lavorazione non è precisa)
Laser: non c’è questa problematica in quanto il laser è formato da fotoni (non si generano i raggi x)
(VANTAGGIO)
Laser: si può lavorare sia con polvere che con filo (VANTAGGIO)
Laser: minori costi di attrezzatura ma maggiori costi operativi ( in quanto c’è il gas di protezione)
DED CON DEPOSIZIONE DI POLVERE (LASER)
- la polvere può essere somministrata sia in maniera coassiale che fuori asse
FILO: l’ambiente è più pulito e si produce meno scarto in quanto io fondo solo il filo che mi serve
POLVERE: si perde più materiale e l’ambiente non è pulito (la polvere è dannosa per la salute)
IN COMUNE: ci sono difetti come pori e cricche (che si formano in fase di raffreddamento)
Nel campo dell’additive manifacturing si va nella direzione della polvere perché si possono
realizzare forme più complesse.
DED (Directed energy
deposition)
Parametri su cui agire sono riportati in figura. I due fuochi(fuoco del laser e del
cono di polvere) coincidono ma sulla superficie si lavora in condizioni di
sfocalizzazione positiva perché il fuoco sta al di fuori della superficie).
Sfocalizzazione positiva per aver un fascio laser più largo e un getto di polvere
più largo in modo tale che con una sola traccia di deposizione riesco a
depositare polvere e quindi aggiungere materiale su una superficie più larga e
dunque la lavorazione è più veloce.
Parametri collegati all’ugello:
angolo di apertura del cono di polvere (Beta, variabile su cui non posso
intervenire in quanto caratteristica di costruzione);
diametro del fascio di polvere (dp), (1-3mm quello minimo nel punto di
fuoco che aumenta lavorando a una certa distanza dal fuoco);
distanza tra la bocca dell’ugello (nozzle tip) e il fuoco (fp)(solitamente
caratteristica costruttiva);
distanza tra la bocca dell’ugello e il pezzo da lavoro(l), variabile su cui
posso intervenire chiamata nel gergo tecnico stand-off.
Vantaggi e Svantaggi
Questo tipo ti ugello è consigliabile per lavorazioni complesse perché il
fascio laser e il getto di polvere sono coassiali (quindi non devo
movimentare due elementi distinti, più semplice questa movimentazione),
inoltre siccome il diametro del getto di polvere è piccolo conviene utilizzarlo
per lavorazioni accurate di riparazioni locali o fabbricazioni di parti. Tutto
questo è complesso e costoso (trasporto sia del fascio laser che della
polvere)
1) La polvere non fonde nel fascio laser ma soltanto quando arriva sulla
massa fusa. Questo è un principio fondamentale dell’additive
manufacturing a getto di polvere, la velocità con cui la polvere viene
iniettata nel fascio laser evita che essa fonda al suo interno, fonde solo
per il calore ricevuto dalla pozza.
2) E 3) Per quanto riguarda le altre due domande, per questi due fenomeni
di parla di “Catchment” ovvero Captazione. Uno degli output era
l’efficienza della captazione ovvero quanta polvere utilizzata viene
effettivamente raccolta dalla pozza fusa e quindi determina la traccia
(tutto quello che non è captato dalla pozza fusa è materiale che sto
perdendo). Con il laser a filo non ho perdita di materiale perché tutto il
filo è fuso. Si introduce l’efficienza della captazione “eta”, si definisce
come il rapporto tra la sezione della pozza fusa e la sezione del flusso di
polvere. Poiché il diametro del flusso di adduzione di polvere(al
denominatore) è maggiore del diametro del fascio laser con cui lavoro,
sicuramente questa grandezza sarà minore di uno e una certa
percentuale di polvere si perde.
Ricorda che diametro della pozza fusa è uguale al diametro del fascio
laser(sezione è un cerchio). “Dp” stava sugli schemi degli ugelli ovvero
diametro del fascio di polvere con cui lavoro. L’efficienza di captazione è una
variabile di output, ma definita in questo modo sembra un input in quanto
per scrivere il modello ci serve fare un’ipotesi per quantificarla e alla
confrontarla con il valore ipotizzato.
L’obiettivo del bilancio di energia è calcolare le caratteristiche del riporto e del materiale sottoposto
a calore in funzione di variabili di processo di cui abbiamo un controllo diretto. Se scriviamo il
bilancio di energiaavremo che al primo membro va solo Ql mentre al secondo vanno inserite le
aliquote di energia assorbita e dissipata; eseguendo gli opportuni passaggi matematici in modo da
avere solo QC al primo membro l’equazione si presenterà nel seguente modo:
Si ricorda che QC è l’energia immagazzinata nel volume di controllo ed è quindi l’energia che
determina la larghezza della traccia, la profondità della zona di fusione, ecc. QCè di notevole
interesse poiché al suo variare, variano le caratteristiche del riporto. Inoltre dovremo riuscire ad
esprimere i termini al secondo membro in funzione dei parametri di processo controllabili
(potenza,velocità, la portata di polvere, ecc.).
Analizziamo ora la precedente equazione termine per termine.
QC è la parte di calore sensibile e si ottiene come:
dove ρ [kg/m3]è la sensibilità media del layer depositato ( media perché la traccia ha una densità
diversa da quella del substrato), cp è il calore specifico a pressione costante, poi si ha l’integrale sul
volume di controllo del campo di temperatura indicato con T [°K] dipendente da x,y,z che sono le
coordinate del punto dove si vuole calcolare il campo di temperatura, ed infine dV [m 3] è
l’elemento infinitesimo di volume che tiene conto sia del clad della traccia che del substrato.
Poiché all’interno di tale equazione l’incognita è il campo di temperatura T mentre ρ e cp posso
ricavarle, un buon procedimento logico è quello di esprimere i termini a destra dell’equazione di
bilancio in funzione delle variabili di processo per poi trovare il campo di temperatura T.
Ql(l minuscolo) è l’energia del laserche può essere ricavata moltiplicando la potenza nominale
del laser (P) con il tempo di interazione ( ti) e quindi non tenendo conto della parte di energia
che viene riflessa. Il tempo di interazione può essere calcolato a sua volta come il rapporto tra
il diametro dello spot DS e la velocità (u):
1° termine 2° termine
ʌ
Nel dettaglio al primo termine si ha il prodotto tra (lambda) F,Sche è il calore latente di fusione
riferito al substrato per la densità del substrato moltiplicato ancora per il volume di substrato che
fonde (VS); al secondo termine si moltiplica il calore latente della polvere, per la densità della
polvere, per ɳ(efficienza di captazione,ènecessaria inserirla perché non si fonde tutta la polvere
ma solo quella captata) ,peril volume della polvere. La densità del substrato è facile da calcolare
perché è un valore che si trova in tabella, mentre il discorso è diverso per la densità della polvere in
quanto esistono varie definizioni di densità della polvere. In questo caso la densità che va inserita è
quella del materiale che costituisce la polvere (se sto utilizzando polvere di alluminio va messa la
densità del materiale alluminio). Per VSsi intende come detto il volume del substrato che fonde e
per determinarlo devo sapere qual è la forma della parte che fonde del substrato e da cosa
dipende tale forma. Per tali informazioni riguardanti la forma devo conoscere l’equazione del
campo di temperatura che ricordiamo essere un’incognita e quindi il volume del substrato è anche
essa un’incognita. Per tale motivo l’equazione di bilancio sarà risolta numericamente dal
calcolatore cercando comunque di risolvere gli altri termini dell’equazione di bilancio in funzione
dei parametri di processo. Per quanto riguarda invece il volume della polvere Vp facciamo
riferimento alla portata di polvere ṁ [Kg/s] (esprime la quantità di polvere che passa nell’unità di
tempo) . Per determinare la portata di polvereche è nota in quanto la definisco nel sistema di
adduzione della polvere, prendiamo come tempo di riferimento il tempo di interazione e quindi si
m
calcola quanta polvere passa tra il laser ed il substrato nel tempo di interazione: ṁ=
ti
. Il
tempo di interazione lo svolgo in funzione del diametro dello spot e della velocità (entrambe note),
mentre la massa della polvere viene espressa in funzione della densità come prodotto tra
Vp(l’incognita) e la densità ρP. Così facendo alla fine si arriva a calcolare Vp
Si ricorda che Vp è tutto il volume inviato dal sistema di adduzione della polvere quindi comprende
anche quella parte che poi non sarà captata. Nel momento in cui si moltiplica Vp per ɳottengo il
volume della polvere captato.
QP. Quando si determina QP sorge il problema della schermatura della polvere al fascio laser
che abbiamo definito attenuazione (il fascio laser è attenuato dalla polvere che incontra). Per
tener conto di tale fenomeno si considera la sezione del fascio laser e ponendosi nella zona di
intersezione tra il fascio laser ed il pezzo (dove il diametro è proprio D S), l’area del fascio laser
vale As. All’internoAsvi è della polvere, che se vista in sezione occupa un area che si definisce
area attenuata Aat.Aat è ottenuta come prodotto tra l’area occupata da un singolo granello di
polvere Ap per il numero totale di granelli n.
Per conoscere il numero di particelle che ci sono all’intersezione con il fascio laser si esegue una
proporzione. Tale proporzione dice che il rapporto tra l’energia assorbita dalle particelle QP e
Aat è uguale al rapporto tra tutta l’energia del laser Ql e l’area totale As. Dalla
l’area attenuata
proporzione mi ricavo QP che è la mia incognita. Per trovare n invece si esegue il rapporto tra la
massa totale della polvere e la massa di una singola particella di polvere ( nelle slide V p al
denominatore è da intendere come il volume di una singola particella di polvere) , svolgendo i due
termini del rapporto con relazioni a noi note si arriva a calcolare n. Mettendo in relazione i risultati
ottenuti mi calcolo QP come segue:
Per quanto riguarda l’efficienza di captazione nel caso di Q p non va immessa poiché tutta la polvere
assorbe energia dal laser in quanto tutta la polvere attraversa il fascio laser anche se poi una parte
verrà catturata dal pozzo ed un’altra andrà persa.
A questo punto gli unici termini del bilancio che non abbiamo calcolato sono i termini radiativi,
convettivi e plasma. Tuttavia sperimentalmente si osserva che insieme i tre termini hanno un
contributo pari al 1% (sono di tre ordini di grandezza più piccoli rispetto agli altri termini) e quindi
sono trascurabili. Il termine plasma fa riferimento all’aliquota di energia assorbita dal plasma.
Infatti quando si lavora con il laser sui metalli una parte di metallo viene vaporizzata e il metallo
vaporizzato si ionizza diventando plasma. Il plasma assorbe la radiazione laser in modo copioso e
quindi sottrae energia che dovrebbe andare al substrato. La parte di energia sottratta dal plasma
quando si scrive il bilancio di energia della lavorazione laser va sempre calcolata, ma chiaramente
se non c’è metallo vaporizzato non c’è plasma. L’irradianza (energia per unità di superficie)per le
lavorazioni che stiamo descrivendo è alquanto bassa e quindi non c’è metallo vaporizzato e di
conseguenza non c’è plasma (per altri tipi di lavorazioni il plasma è un termine importante da
considerare).
A questo punto il bilancio di energia si risolve numericamente tenendo conto di aver costruito
un’equazione che ci permette di ragionare su dei parametri di input e poi ricavare il campo di
temperatura, quindi il volume del substratoed infine la forma della traccia della zona termicamente
attivata.
Ora dagli input si passa agli output, cioè le variabili di risposta che devono essere misurate alla fine
di una lavorazione laser per deposizione diretta con polvere.
Il primo output che misuriamo è l’aspetto visivo della traccia. Nella seguente immagine vi è la
deposizione di polvere di alluminio su una lamiera di alluminio :
In alto a destra vi è la sigla AA che significa lega di alluminio seguita dal numero della lega, poi vi è
la potenza, s è la velocità di avanzamento (indicata con u nel modello), m è la portata. Top view
indica che stiamo osservando l’aspetto superiore della traccia e la scritta OK ci da come
informazione che l’aspetto della traccia può dirsi regolare. Nelle seguenti immagini invece vedremo
degli esempi di tracce non regolari, in particolare la lega in esame è la stessa ma ciò che cambia
dalla configurazione precedente è una prima volta la portata di polvere ed una seconda la potenza:
Come possiamo vedere in entrambi i casial variare dell’input termico (rapporto tra potenza e
velocità), si formano quelle che sembrano essere delle bolle e ciò e dovuto al fatto che la tensione
superficiale è elevata e la massa fusa non riesce a distendersi; tale fenomeno è denominato
balling. Quando una traccia presenta il fenomeno di balling deve essere scartata ed ora si
spiegherà il perché. La bagnabilità di una superficie è data dalla tensione superficiale e quindi se si
misura l’angolo di contato theta di una bollamisurato tra la tangente alla massa fusa e la
superficie,si può passare da una condizione di bassa bagnabilità ad una condizione di buona
bagnabilità quando tale angoloè minore di 90°:
Se siamo nella condizione a sinistra la massa fusa non riesce a stendersi e quindi mi ritrovo le
bolle sulla traccia. L’equazione per determinare l’angolo theta è quella di Young i cui termini sono le
tensioni superficiali all’interfaccia tra tutti e tre gli stadi solido-vapore, solido-liquido e liquido-
vapore. Essendo le gamma dei termini noti si può calcolare theta:
Se dal test visivo constatiamo che non c’è il fenomeno del balling, si può approfondire l’indagine
passando a valutare la sezione trasversale che si ottiene troncando la traccia in direzione
ortogonale alla linea di deposizione.
Su questo schema scriviamo le variabili di risposta e cioè: la larghezza della traccia w, l’altezza h
rispetto alla superficie del substrato, la profondità della traccia d rispetto alla superficie del
substrato e poi gli angoli di forma alpha ( in questa esempio vediamo come l’angolo di forma tra
destra e sinistra può essere diverso anche se è auspicabile che siano uguali ). NB theta e alpha
sono due angoli diversi perché theta si misura quando c’è una massa fusa mentre alpha è un
angolo di forma. L’altezza e la larghezza diminuiscono con un andamento approssimativamente
lineare in funzione dell’aumento della velocità di processo in quanto il sistema di adduzione
cammina più velocemente (ricorda che l’adduzione di polvere è solidale al fascio laser
indipendentemente dal sistema che si utilizza) e quindi la polvere che viene captata è minore. La
larghezza aumenta con andamento approssimativamente lineare all’aumentare della potenza e
della temperatura del substrato perché aumenta la captazione (se il substrato è più caldo è più
facile che un granello di polvere si attacchi al substrato). Sempre sulla geometria si possono
definire degli indici geometrici adimensionali: il primo è il rapporto di forma “AR” uguale al
rapporto tra la larghezza w e l’altezza h, mentre il secondo è il rapporto di diluizione “dilution” . Il
rapporto di diluizione si può calcolare in due modi ovvero attraverso una definizione geometrica o
una definizione chimica. La definizione geometrica definisce la diluizione come il rapporto tra la
profondità della traccia rispetto a tutta l’altezza della traccia (h+d).
La diluizione definita in maniera geometrica indica quanto substrato viene fuso ovvero quanta è
diluita la traccia rispetto alla substrato. Un rapporto di diluizione alto indica che la lavorazione ha
fuso una profondità di substrato significativa e quindi anziché aggiungere materiale abbiamo fuso il
substrato ( e ricordiamo non essere questo l’obiettivo); quindi il rapporto di diluizione deve essere
mantenuto il più basso possibile. Inoltre il rapporto di diluizione è fortemente dipendente dalla
portata: con una portata di polvere bassa h sarà bassa e quindi a parità di w mi aspetto un
rapporto di diluizione più alto, mentre se la portata è maggiore l’altezza della traccia h aumenta e
quindi il rapporto di diluizione sarà più piccolo. Tuttavia va ricordato che se si aumenta la portata,
la polvere potrebbe essere non captata perché la pozza fusa può ospitare una certa quantità di
polvere e quindi diminuisce l’efficienza di captazione perché ad un certo punto si arriva ad un
valore di soglia oltre il quale l’altezza della traccia non aumenta (perché non viene più captata
polvere), ed il rapporto di diluizione rimane inalterato.
Passiamo ora alla definizione chimica del rapporto di diluizione.Il significato fisico è sempre lo
stesso e cioè di quanto si sta alterando il materiale di base rispetto a quello che si sta aggiungendo
con la lavorazione. Operativamente il rapporto di diluizione secondo la definizione chimica si
misura attraverso un rapporto: al numeratore si esegue il prodotto tra la differenza di
composizione tra la traccia e la polvere (c’è differenza tra questi due valori poiché la traccia è
costituita sia dalla polvere che da materiale del substrato) moltiplicata per la densità della polvere
e quindi si ha sia un contributo della altezza( traccia) e della profondità (substrato); al
denominatore si hanno lo stesso due contributi, il primo che riguarda il substrato ed il secondo che
riguarda la polvere.
A differenza di quella geometrica la definizione chimica non è applicabile nei casi in cui effettuo un
riporto di materiale omologo. Inoltre se applico la suddetta formula ad una lega devo calcolare il
rapporto di diluzione per ogni elemento che costituisce la leganella polvere e nel materiale di base.
In alcune lavorazioni nasce la necessità di affiancare delle tracce come nel rivestimento di una
lamiera oppure oltre all’affiancarle bisogna anche sovrapporle lungo la direzione di crescita come
nel caso di componenti da fabbricazione . Esistono dei casi in cui la tecnica di deposizione diretta è
utilizzata per riparazione di un componente esistente (es: quando si vuole rigenerare un pezzo
usurato poiché la costituzione ex novo è troppo onerosa). La tecnica a letto di polvere che si vedrà
in seguito invece non si presta a lavorazioni di riparazioni ma solo a lavorazioni di fabbricazioni ex
novo; la tecnica a getto di polvere si presta a lavorazioni di rivestimento, fabbricazione ex novo e
riparazione. La ricostruzione di un componente si esegue effettuando delle tracce affiancate sulla
stessa superficie (side overlapping) e poi aggiungendoancora tracce sul livello superiore (layer-by-
layer).In questo caso lo spessore del rivestimento è dato dalla distanza tra la sommità dell’ultimo
riporto e la superficie del substrato. Ogni traccia della ricostruzione ha una sua larghezza che è
nota e quindi si conosce anche l’entità della sovrapposizione laterale (NB c’è differenza tra l’altezza
del singolo livello e l’altezza totale del riporto).
Vediamo ora cosa si osserva se si effettua la sezione trasversale di due tracce affiancate :
La traccia a destra è stata eseguita prima di quella a sinistra ed il suo affiancamento a quest’ultima
determina una ricostruzione.
A questo punto andiamo a studiare altre variabili di risposta e nello specifico passiamo da quelle
geometriche a quelle strutturali: la durezza e la microstruttura. E’ importante sapere se la
variazione di durezza è imputabile ad un fenomeno come ad esempio un trattamento termico.
Quando si passa il laser su un materiale per eseguire un riporto non tutto il materiale riceve calore
nella stessa misura, e quindi ci sono dei punti che vengono fusi ( e questi determinano la pozza
fusa) ed altri che si riscaldano senza fondersi (denominate zone termicamente alterate in quanto è
come se tali zone ricevessero un trattamento termico). Se misurassi la durezza in diverse zone
limitrofe al passaggio del laser, quello che mi aspetto è una durezza variabile. Nel seguente grafico
si riporta come varia la temperatura in funzione del tempo:
Nella zona termicamente alterata il passaggio del laser ha provocato una trasformazione
strutturale. Le impronte che si eseguono devono partire nel materiale di base e finire nel materiale
di base. Come già detto ci aspettiamo che in base alla zona in cui le impronte cadono la durezza è
diversa. Guardando il grafico della microdurezza in funzione della posizione delle impronte troverò
delle differenze che mi aiuteranno a capire fino a che distanza è arrivato il calore quando è passato
il laser ( è necessario partire dal materiale di base in modo da avere un valore di microdurezza
come riferimento e quindi poter dire poi con certezza se ad una data distanza il calore per il
passaggio del laser ha determinato o meno una variazione di microdurezza). Nell’immagine sopra il
materiale di base è quello alle due estremità. Un'altra osservazione necessaria è che la durezza
nella zona di fusione e in quella termicamente alterata può essere più o meno alta della durezza
nel materiale di base a seconda del materiale in esame: nell’acciaio per esempio poiché il laser
procede velocemente l’effetto che si produce è simile a quello della tempra martensitica e quindi la
durezza aumenta, comportamento analogo per il titanio mentre per l’alluminio la durezza
diminuisce quindi dovrò poi procedere a dei veri trattamenti termici a valle del passaggio del laser.
Ulteriore output sono le imperfezioni che possono formarsi nella sezione trasversale sottoforma di
porosità. I pori possono essere di due tipi: i micropori che appartengono ad una singola traccia e
hanno forma sferica con diametro massimo di 50 µm e sono dovuti a gas intrappolati che non
possono uscire a valle della solidificazione; il secondo tipo sono i macropori (diametri anche di 200
µm) che si presentano nel caso di ricostruzione e sono dovuti ai vuoti che si formano tra le tracce
affiancate o sovrapposte, sono più pericolosi dei microfori e sono imputabili a una cattiva
ottimizzazione dei parametri (chiaramente ogni traccia che partecipa alla ricostruzione può avere
micropori e la logica suggerisce di ottimizzare prima i micropori e poi i macropori). Nel caso
dell’alluminio i macropori possono formarsi anche a causa di alcuni elementi che hanno basso
punto di fusione.
Altro output sono le cricche dovute ad un raffreddamento troppo rapido. L’estensione e direzione
della cricca dipende dal materiale e dai parametri di processo e genericamente si manifestano
all’interfaccia tra la taccia e il materiale di base. Le cricche si individuano attraverso controlli non
distruttivi come ad esempio il controllo per liquidi penetranti.
L’ultimo output che si considera è l’efficienza di captazione che indica quanta polvere si è utilizzata
in maniera efficace rispetto a tutta quella utilizzata. In particolare l’efficienza di captazione come
variabile di risposta sarà ottenuta in funzione dei parametri processo (altezza, profondità e
larghezza). Se consideriamo il caso in cui l’adduzione di polvere non è coassiale al fascio laser,
l’angolo di posizionamento che è un parametro di processo nel caso di adduzione off-axialfeeding,
influenza sicuramente l’efficienza di captazione perché al variare di questo angolo varia la quantità
di polvere che partecipa alla lavorazione. Inoltre l’efficienza di captazione aumenta all’aumentare
del diametro della pozza fusa (aumentando la potenza); l’efficienza diminuisce all’aumentare della
velocità di processo poiché il laser cammina più velocemente ed essendo l’ugello che rilascia la
polvere solidale al laser anche questo camminerà più velocemente e quindi meno polvere verrà
captata dalla pozza fusa; infine l’efficienza aumenta in funzione dell’angolo tra l’ugello di adduzione
e la superficie.
A questo punto si sono concluse le lavorazioni per deposizione diretta e la prossima volta si vedrà
la deposizione indiretta ovvero quella a letto di polvere.
Laser-based powder bed AM
Restiamo nell’ambito dell’Additive Manufacturing, andiamo all’ AM con letto di polvere, vediamo adesso
l’applicazione con l’utilizzo del fascio laser.
Cominciamo da una classificazione, che abbiamo già fatto, dove troviamo i processi per AM per metalli
basati su polvere. Abbiamo detto già quando abbiamo parlato di deposizione diretta che ci sono 2 modalità
di lavoro, una è quella per deposizione di energia diretta e l’altra è quella a letto di polvere. La deposizione
diretta di energia con polvere si può effettuare soltanto con il laser. Letto di polvere, invece, può essere
trattato sia con il fascio elettronico (i processi basati sull’ Electron Beam, ovvero Electron Beam Melting:
fusione con fascio elettronico(EBM)); sia con processi basati sul fascio laser, in particolare Selective Laser
Sintering(SLS), oppure Selective Laser Melting(SLM). La differenza tra SLS e SLM è che il primo viene
chiamato di sinterizzazione perché è un processo che si basa principalmente sulla diffusione allo stato
solido, la fusione è molto limitata oppure non avviene proprio; il secondo è il caso in cui tutta la polvere
fonde per ottenere il componente finale. Nel caso di fascio elettronico è contemplata soltanto la modalità di
fusione completa, perché il fascio elettronico viene utilizzato con potenze più alte e quindi la sinterizzazione
che avviene a potenze più basse non è possibile, si arriva direttamente allo stato di fusione, questo è il
motivo per cui nel caso di fascio elettronico c’è soltanto una modalità possibile.
Queste sigle si possono trovare anche in forma più estesa, si parla a volte di DMSLS o DMSLM, dove D sta
per direct e M per metal. Questa sigla più complessa significa ad esempio nel caso DMSLS, sinterizzazione
laser selettiva (selettiva: si fonde soltanto una parte della polvere, ovvero la parte della sezione trasversale,
con lo stesso principio già visto per le plastiche), invece M vuol dire che si sta utilizzando metallo, D che è un
processo diretto, che non ha bisogno di ulteriori processi successivi per aumento della densità (questa cosa
però non è sempre vera, perciò è meglio usare le definizioni SLM e SLS).
Il processo avviene attraverso una serie di passi già conosciuti, che sono i passi fondamentali delle
lavorazioni per tecnologia additiva
Il recoater, la lama dello strumento che serve per depositare lo strato di polvere, all’inizio si
trova a destra e si sposta da destra verso sinistra, quindi raccoglie la polvere dalla piattaforma
del Dispenser, la deposita sul pezzo che state costruendo, quindi determina uno strato
omogeneo di polvere e tutta la polvere in eccesso va sul collettore.
Per spostare il fascio laser viene utilizzata una Testa Scanner per i motivi già visti quando
abbiamo parlato delle Teste Scanner, ovvero sono più precise, si possono realizzare pezzi con
una finitura superficiale migliore e di geometria più complessa.
A seconda dell’energia del laser e della velocità con cui il fascio laser si sposta sullo strato di
polvere si possono verificare quelle 2 modalità di cui parlavamo prima, quindi la modalità di
sintering(sinterizzazione) o di melting(fusione). Il principio della lavorazione è lo stesso a
prescindere dal fatto che si stia lavorando in SLS o SLM, anche la macchina è la stessa, è solo
una questione di parametri di processo, in base alla potenza del laser e alla velocità con cui si
muove su ogni livello ci troviamo in condizione di sinterizzazione o di fusione, e poi la polvere
viene fornita layer by layer dal recoater che si sposta da destra a sinistra.
Come si lavora?
Si parte da una piattaforma, che di solito è fatta dello stesso metallo o di metallo simile a quello che
vogliamo lavorare, se vogliamo lavorare titanio la piattaforma deve essere in titanio, in modo che le
dilatazioni tra piattaforma e pezzo siano dello stesso ordine, se devo lavorare alluminio non posso farlo su
una piattaforma in titanio poiché le dilatazioni saranno diverse e potrebbero crearsi problemi.
Si costruisce il pezzo all’interno di un volume di lavoro, che di solito è 250x250x200, questi sono gli ordini di
grandezza dei volumi di lavoro, perché la piattaforma è un quadrato 250x250mm e la camera di lavoro è alta
200mm, i pezzi che non rientrano in questo volume non li possiamo costruire. Questa è una limitazione di
questa tecnologia, perchè se devo costruire pezzi complicati che non stanno in questo volume, bisogna
valutare altre soluzioni, quindi sempre con tecnica additiva ma con getto di polvere (posso lavorare dentro
la cabina su dimensioni più grandi, però ovviamente ci sarà un livello di qualità più basso rispetto a questa
lavorazione).
Tolgo tutta la polvere non sinterizzata intorno ai pezzi, stacco i pezzi con una lavorazione di elettroerosione a
filo, sulla piattaforma restano alcuni residui di pezzi che sono stati lavorati. La piattaforma può essere
riutilizzata ma deve essere rettificata, neanche a livello troppo spinto di finitura superficiale, anzi se si fa in
modo che questa superficie della piattaforma sia ad un certo livello di rugosità non eccessivo, ovvero anche
10/15 micrometri è accettabile, il primo strato di polvere potrà aderire meglio alla superficie, se questa
piattaforma fosse perfettamente liscia, con rugosità 0,5/1 micrometro il primo strato potrebbe non aderire
quando il recoater va a stenderlo(rettifica che può essere fatta anche in un officina meccanica qualsiasi),
dopodiché la lavorazione riparte e la piattaforma può essere riutilizzata per un altro job di lavoro.
L’assorbimento del fascio laser da parte di un letto di polvere è diverso dall’assorbimento del fascio laser di
una superficie, vedi figura sopra, nel momento in cui il fascio laser raggiunge le parti di polvere si verificano
delle riflessioni, questo si sa perché le parti di polveri sono metalli che riflettono il fascio laser. Ma un raggio
laser che viene riflesso da un granello di polvere, non viene riflesso in alto, c’è una piccola parte che viene
riflessa in alto e non viene assorbita, ma tutte le altre riflessioni avvengono all’interno del letto di polvere,
perché quest’ultimo non ha una perfetta compattazione. Le eventuali riflessioni del fascio laser restano
confinate all’interno del letto di polvere, questo significa che se voglio scrivere un modello matematico con
delle equazioni che vanno a coinvolgere i fattori di processo posso anche non considerare il coefficiente di
assorbimento, ritenendo che la maggior parte delle radiazioni (90-95%) viene tutta assorbita dal letto di
polvere e quindi c’è una modellazione più snella. L’assorbimento della polvere metallica è più alto in
confronto al materiale pieno e quindi di solito la riflettività viene trascurata, ritenendo che l’assorbimento
sia prossimo al 100%.
Il grafico ci dice qualitativamente come varia l’energia assorbita in funzione della profondità del letto di
polvere, in ascissa c’è la profondità del livello è espressa in mm*10^-1(decimi di millimetro) e in ordinata c’è
il rapporto tra energia assorbita e energia assorbita a quella quota, questo significa che se considero che la
potenza totale assorbita è 2kW, vado a vedere alla profondità di 0,1-0,2 ecc.. che percentuale di cui 2 kW mi
trovo. Se ad esempio leggo alla quota di 0,3 mm*10^(-1) dalla superficie vedo che è stata assorbita il 95%
dell’energia, se arrivo fino a 7 decimi di millimetro (70 micrometri) vedo che è stata assorbita tutta l’energia
che è stata fornita. Il grafico permette di capire con quali ordini di grandezza si lavora in termini di spessore
dei livelli. Lo spessore dei livelli che si utilizza in queste lavorazioni dipende dalla granulometria media della
polvere, se la granulometria media della polvere è 30 micrometri devo lavorare con layer di spessore di 30
micrometri, questo nel caso del laser, con il fascio elettronico si potrà fare qualcosa di diverso. Se lavorassi
con spessori più bassi di 30 micrometri, supposto che la granulometria sia di 30 micrometri, non è possibile
lavorare, perché significa che la polvere ha un diametro medio di 30 micrometri e quindi uno spessore
minore di questo valore non si può stendere. Se lavoro con uno spessore di 30 micrometri, questa energia
che mi trovo a destra, cioè a 0,4 micrometri viene assorbita dal livello precedente; ad ogni passaggio del
laser oltre a fondere o sinterizzare lo strato che si sta lavorando in quel momento c’è energia che viene
trasferita anche agli strati precedenti. Questo è fondamentale, perché permette di avere la adesione
reciproca tra strato e strato, se lavorassi con uno spessore di 0,7 decimi di millimetro avrei che tutta
l’energia viene assorbita nello strato di polvere, fonde o sinterizza lo strato ma questo non aderisce allo
strato inferiore. Quindi questo pezzo non avrà caratteristiche funzionali per essere utilizzato in
un’applicazione.
È fondamentale ragionare sull’ assorbimento per questo motivo, ovvero per capire che nel corso della
lavorazione c’è una parte di energia che viene trasferita anche agli strati già lavorati. Per esempio per
spessori oltre i 0,3 micrometri c’è energia che si trasferisce ai livelli già esposti.
A questo punto abbiam capito che siamo in condizione di fusione o sinterizzazione a seconda dei parametri
di processo. Vediamo la differenza tra le 2 modalità di lavorazione:
Modalità di processo: in funzione dell’energia assorbita cambia il meccanismo di adesione tra le parti di
polvere e quindi si può procedere o per Selective Laser Sintering o Selective Laser Melting. In particolare il
primo può essere di 2 tipi ovvero o a Stato solido o con Fase Liquida, in questa modalità la fase liquida è in
piccola quantità rispetto al solido, perché nel caso in cui prevale la fase liquida siamo in condizione di
Selective Laser Melting.
Sinterizzazione per stato solido: la polvere resta allo stato solido e si lega in base ai fenomeni di diffusione
allo stato solido. Se consideriamo 2 granelli di polvere, che si trovano leggermente sovrapposti, nel
momento in cui si ha un aumento di temperatura, l’aumento di temperatura nei metalli produce una
migrazione degli atomi, questa migrazione degli atomi fa sì che si formino quelli che si chiamano colli di
sinterizzazione (nell’immagine a sinistra si vede che, da una parte c’era un granello di polvere dall’altra parte
ce ne era un altro, si sono compenetrati e si è formato un collo di sinterizzazione di diametro D. Alla fine ho
ottenuto l’adesione tra i granelli di polvere). R è il raggio medio della particella di polvere, r è il raggio di
raccordo, D è il diametro della zona del collo tra 2 particelle. Il processo avviene tutto per diffusione allo
stato solido, il vantaggio è che posso lavorare un buon numero di metalli che si prestano a questo processo.
Oltre alla finitura superficiale, lo svantaggio è la necessità di un successivo trattamento in forno; la
resistenza è ridotta perché c’è una parte significativa di porosità residua, i granelli di polvere poiché formano
colli di sinterizzazione e non arrivano allo stato fuso lasciano delle zone che sono vuote intorno, questi pori
abbassano la resistenza del materiale. Come si può aumentare la resistenza del materiale?
Dopo aver ottenuto un verde, un pezzo che non è maturo per essere utilizzato, questo viene passato in
forno e l’aumento di temperatura prosegue a beneficio della diffusione, quindi permette di ridurre la
porosità residua e ottenere un pezzo con caratteristiche migliori. È richiesto il post-processo per aumentare
la densità. Un altro svantaggio è che questi processi sono lenti e possono essere accelerati con un
preriscaldamento, se la polvere parte già da una temperatura più alta la diffusione è agevolata, però se
confrontiamo la velocità di costruzione con questa tecnica con quella che vedremo poi dopo nella fusione, è
chiaro che questa è una tecnica meno produttiva ed è quindi superata.
Sempre parlando della sinterizzazione a stato solido, c’è la possibilità di usare polveri che permettano di
ottenere una piccola fase liquida, ci sono 3 casi:
polveri di singolo metallo, ovvero o un elemento puro o una lega, tutto il grano di polvere è
omogeneo, ad esempio il ferro puro o un granello di polvere di acciaio, vuol dire che in tutti i punti
di questo granello c’è la stessa composizione (omogenea). L’energia del laser non è adeguata a
fondere tutto il granello di polvere, ma ne fonde solo uno strato esterno (parte azzurra in figura, per
dire che fonde solo lo strato più esterno), quando si arriva a solidificazione le parti più esterne del
granello permette alle due parti di compenetrarsi (1°caso di LPS);
2° caso di LPS ,non si parla di polvere di metallo singolo ma di blend, miscela di metalli diversi a 2 o
più componenti (in figura c’è un blend a 2 metalli). Quindi un granello metallico più grande ed uno
più piccolo di un metallo diverso (nella tecnologia delle polveri, si è detto che per avere una
compattazione migliore della polvere e per avere anche una densità migliore si preferisce mescolare
polveri a granulometria diversa per andar a riempire i buchi). Di questi 2 metalli solo uno arriva a
fusione, ovvero quello che ha un punto di fusione più basso e assorbe più energia, l’altro resta allo
stato solido e quindi anche in questo caso si forma un collo di sinterizzazione (in figura, è prodotto
dal metallo 2, se chiamiamo 1 quello che si comporta da elemento strutturale). Per capire quale
elemento si comporta da elemento strutturale ovvero che non fonde, e quale da legante ci sono 3
casi possibili. I parametri sono: la temperatura di fusione Tf ed il coefficiente di assorbimento A,
prima abbiamo detto che il coefficiente di assorbimento non lo consideriamo nel modello, poiché
tutta l’energia viene assorbita, qui invece interessa capire quale dei 2 metalli assorbe maggiormente
tutta l’energia che arriva nello stato di polvere, per questo adesso lo stiamo considerando.
Non si fa il contrario poiché se si rimuovono i supporti senza aver alleviato le tensioni il pezzo tende
ad imbarcarsi, curvarsi e deformarsi. Il controllo del processo rispetto alla sinterizzazione è più
critico perché c’è la presenza di una parte fusa, con tutti i problemi che può comportare ciò, è
difficile da controllare perché ci sono dinamiche diverse da quelle incontrate nello stato solido.
Andiamo a vedere come si procede per arrivare alla modellazione del processo:
Il fascio laser ha un diametro di una certa dimensione, non è un punto, se il fascio laser percorre
una sezione e va a fondere una certa zona (come nella prima figura), le dimensioni rispetto al profilo
teorico vengono incrementate di una quantità pari al raggio del laser, raggio da un lato, raggio
dall’altro lato, il profilo viene incrementato di una quantità pari al diametro del fascio laser. Bisogna
andare a valutare il diametro reale del fascio laser, il diametro teorico è quello in blu, il diametro di
processo è quello tratteggiato, quindi quello di processo è maggiore del teorico, questo è un
ulteriore problema perché significa che c’è una parte di materiale che viene riscaldato per
conduzione oltre a quella che viene esposta al fascio laser. Il diametro reale di lavoro deve essere
calcolato in modo da applicare alla geometria il beam offset, ovvero l’offset del diametro, come si fa
nelle lavorazioni per asportazione di truciolo, dove si lavora con la compensazione dell’utensile. Si
modifica la geometria dell’oggetto per fare in modo che quando il laser percorre il contorno ottiene
il profilo teorico dell’oggetto, però devo conoscere quanto vale il diametro di processo reale, che
non è quello teorico, che potrei ricavare dalla curva della caustica, ma deve essere incrementato di
una quantità che dipende dalla potenza di lavorazione e dalla velocità di lavorazione, siccome
quell’incremento è dovuto al contributo di conduzione, la conduzione dipende dalla potenza e dalla
velocità che è stata utilizzata. Prima di realizzare il pezzo da lavorare per calcolare il beam offset, si
realizzano lavorazioni di prova che permettono di capire quanto deve essere l’offset da applicare.
Vengono realizzati dei quality job, lavori per mettere a punto la qualità della lavorazione,
immaginate che all’interno di questo quality job ci sia la lavorazione di una lamiera sottile, che
significa che il fascio laser viene passato sul letto di polvere, c’è una sola traccia, la misura di questa
traccia è il diametro di processo. Altro elemento che si può ricavare da queste lavorazioni di prova è
un coefficiente di ritiro, poiché il materiale sottoposto a fusione che poi subisce solidificazione si
contrae. Il ritiro deve essere valutato in modo che deve essere realizzato un pezzo con dimensioni
maggiori rispetto a quelle teoriche, in modo che quando il pezzo subisce il ritiro, le dimensioni
rientrano in quelle nominali (anche questi sono parametri che si possono ricavare da una
lavorazione di prova).
Andiamo a vedere le strategie di scansione, che significa quale è la tecnica con cui il laser affronta
una sezione.
Il laser lavora usando due set espositivi diversi (set espositivo: insieme di parametri di processo
come potenza, velocità, sfocalizzazione) uno per il contorno(blu) e uno per il pieno (verde). Si dice
che il laser lavora con una strategia skin & core, skin (parametri che il laser utilizza per descrivere il
contorno) e core (cuore). In realtà il laser dovendo lavorare questa sezione non si muove partendo
da un bordo arrivando al bordo opposto, ma per settori. Il laser non percorre traiettorie che
interessano tutta la sezione ma lavora sempre per settori. Terminata la sezione passa a fare i
contorni e quindi il laser si muove sui contorni dei pezzi che ha fuso. Il processo è rapido e quindi
questo solo una testa scanner può farlo.
I settori in cui la sezione è divisa hanno dimensione costante, che è la dimensione della freccia che
viene indicata con la L (hatch lenght: lunghezza di scansione). Il laser quindi percorre delle
traiettorie affiancate ad una certa distanza l’una dall’altra tutte della lunghezza L. il laser non lavora
tracce più lunghe perché realizzata la prima traccia prima che il laser torni indietro per fondere in un
punto vicino a quello iniziale della traccia precedente, trova che la zona si è già raffreddata. Per
migliorare lo scambio termico e far in modo che l’adesione migliori si lavora con segmenti più stretti
e si fa in modo che localmente la temperatura media si mantenga approssimativamente costante.
Cosa succede se si passa al livello successivo?
È stato realizzato un certo livello, terminato il livello tramite lavorazioni per settori, viene aggiunto un strato
di polvere e il laser va a lavorare il livello superiore. Il livello superiore deve impostare delle nuove
traiettorie, potrebbe seguire le stesse traiettorie dello strato inferiore (caso a-b) oppure potrebbe seguire
una strategia a scacchi (caso c) oppure potrebbe alternare di 90° la direzione da un livello ad un altro.
Queste modalità di scansione non sono opportune perché non vanno a migliorare l’adesione fra gli strati, c’è
questo problema, siccome l’energia arriva anche al di sotto dello strato, come già visto in precedenza, allora
è lecito porsi il problema dell’adesione tra strato e strato. Lavorando in questo modo (caso d) dopo 2 strati si
ritorna alla sovrapposizione che avevamo all’inizio, siccome gli strati sono molto sottili allora significa che
stiamo lavorando sempre sulle stesse tracce e questo potrebbe peggiorare l’adesione. Per migliorare
l’adesione si può utilizzare un angolo di rotazione tra uno stato ed un altro, ovviamente se uso un angolo di
90° dopo 2 strati mi trovo già con l’angolazione di prima, l’angolo che si usa di solito è di 67°, con questa
rotazione prima di ottenere la stessa angolazione dello strato iniziale c’è un certo numero di strati da
lavorare (67° è un valore intermedio tra 45° e 90°). Questa rientra sempre nelle strategie di scansione ed è il
principio di modificare la direzione di passaggio del laser nella lavorazione da uno strato a quello successivo.
Oltre a permettere l’adesione tra i layer, ha anche un altro vantaggio: ridurre l’anisotropia delle parti
(differenza di comportamento del materiale in base alle direzioni di valutazione delle caratteristiche). In
questo caso, si parla di anisotropia di tipo meccanico, se tutti gli strati vengono lavorati con la stessa
direzione, allora c’è una marcata anisotropia nella direzione di lavorazione, intrecciando le direzioni di
lavoro passando da uno strato a quello successivo si riduce l’anisotropia perché il materiale è più omogeneo
dal punto di vista delle caratteristiche meccaniche.
Dovendo fondere una sezione di una certa estensione si pone la necessità di dover sovrapporre le tracce.
Queste tracce vengono sovrapposte di una certa quantità chiamata overlapping, cioè sovrapposizione.
Si trova poi anche un altro parametro che si indica con h (Hatch spacing: distanza tra 2 tracce affiancate,
ovvero è la distanza tra le mezzerie di queste 2 tracce), in rosso c’è il diametro reale del fascio laser, che è il
diametro effettivo di lavorazione. In figura si nota una zona di sovrapposizione, overlapping; l’overlapping si
può determinare ed è una variabile di processo, in base a quanto sovrappongo le tracce affiancate, cambia il
tempo di lavorazione perché cambia il numero di tracce da realizzare. Tutta la larghezza è uguale a 2 volte il
diametro meno l’overlapping; la larghezza totale si può vedere anche come mezzo Diametro + Hatch spacing
+ altro mezzo Diametro. Queste relazioni sono uguali e si possono uguagliare e vado a trovare il fattore di
overlapping, detto anche overlapping percentuale (definito come: overlapping/Diametro). Da ciò si ottiene
che l’overlapping percentuale è 1-h/D. Con h>=D non c’è sovrapposizione, non sto sovrapponendo le tracce
e ci sono zone che non vengono raggiunte e quindi non si lavora in questo modo. Con h<D c’è
sovrapposizione e con h=0 c’è sovrapposizione totale, le tracce sono una sopra l’altra, neanche in questo
modo sto lavorando perché non viene spazzata nessuna superficie.
Andiamo a vedere in funzione dell’overlapping il numero di esposizioni per ogni punto, siccome le tracce
sono parzialmente sovrapposte ci sono punti che sono esposti più volte al fascio laser. A seconda
dell’overlapping, posizione in cui h<D, ed in base alla posizione nella traccia possono esserci delle
esposizioni multiple dello stesso tipo. Il numero di esposizioni si indica con n e, questo numero dipende dalla
posizione.
Infatti se io considero la strategia di scansione dove h=0,5D, questo significa che D è un multiplo intero di h
(D=2h). se si guarda al punto in figura, questo viene esposto 2 volte perché ci sono 2 tracce che lo
interessano. Si nota che qualsiasi punto si prende viene esposto sempre 2 volte. Quindi il numero di
esposizioni è un numero intero se il diametro è un multiplo intero di h.
Nell’altra figura invece si può notare che se si considera il primo punto allora il numero di tracce che passa
per esso è 4, se si considera l’altro invece il numero di tracce passanti è 3. Allora il numero di esposizione
dipende dal punto che vado a considerare. Come è possibile, se la formula è unica? Accade perché h=0,3 D
e quindi D non è multiplo intero di h, ma è 3,33 volte h. Il numero 3,3 è compreso tra 3 e 4 ed è più vicino a
3, questo significa che sono di più i punti che vengono esposti 3 volte, rispetto a quelli che vengono esposti
4 volte. Il numero di esposizioni teoricamente è un numero intero, ma questo è vero se il diametro è
multiplo intero di h, ad esempio per h=0,3D non accade e quindi il numero di esposizioni non è un numero
intero, ma dipenda dalla posizione che si va a considerare. È importante capire il numero di esposizioni
perché quando si va a valutare quant’è l’energia che il laser trasferisce alla superficie se un punto viene
sposto più volte vuol dire che viene interessato più volte dall’energia del laser.
Altre grandezze caratteristiche sono i tempi di lavorazione e nella lavorazione di selective laser melting si
usano due definizioni di tempo:
1. Delay time: tempo di ritardo tra l’esposizione di una traccia e l’esposizione adiacente. Questo tempo
dipende dalla lunghezza che ha dovuto percorrere il laser, ovvero la larghezza del settore, indicata
prima con L. questo tempo è la lunghezza diviso u, dove u è la velocità di processo.
2. Tempo di interazione tra il materiale e il laser, calcolato come diametro reale di lavorazione diviso la
velocità di processo.
Viene adesso definito un parametro di lavorazione su cui si andranno a fare dei ragionamenti, siccome i
parametri coinvolti in SLM sono un certo numero, si cerca di ragionare su un parametro sintetico che
raggruppa almeno i più importanti. Andiamo a calcolare l’energia per unità di volume, poiché in base
all’energia che viene trasferita alla superficie posso trovarmi in una condizione di sinterizzazione o di
fusione. Essendo energia per unità di volume, si calcola come energia fornita diviso il volume. L’energia la
chiamiamo Q e il volume V, all’energia mettiamo il pedice l, perché essa viene fornita dal laser. Se vado a
considerare un punto generico e quindi un generico volume di polvere, questo volume, non viene esposto
una sola volta, poiché le tracce sono sovrapposte, infatti se non le sovrappongo non si ha adesione dei
granelli di polvere. Siccome c’è sovrapposizione devo andare a moltiplicare per il numero di esposizioni,
quindi l’energia fornita al volume è uguale all’energia del laser diviso il volume e moltiplicato per il numero
di esposizioni (quante volte il laser passa sul volume che sto considerando). Si sostituisce al numero di
esposizione il valore D/h, l’energia fornita del laser è uguale alla potenza fornita dal laser per il tempo di
interazione. Si usa il tempo di interazione e non quello di delay perché stiamo andando a considerare
quanto il laser insiste su quel volume. Siccome il laser ha una sezione circolare e penetra per un certo
spessore, il volume da considerare è quello di un cilindro e che l’altezza sia uguale allo spessore del layer di
lavorazione, questa è un’approssimazione, non è proprio esatto perché l’energia del laser non penetra solo
sul livello corrente, ma anche in profondità.
Consideriamo che la maggior parte dell’energia venga assorbita dal livello che sto lavorando, quindi
andiamo a scrivere il volume: pi/4 D^(2)s, dove s è lo spessore. Visto che stiamo approssimando si pone pi/4
a 1, e ciò che resta è che l’energia per unità di volume è: P/(h*s*u). In questa relazione ci sono tutti i
parametri fondamentali di processo, cioè tutte cose che si possono impostare, la potenza e l’hatch spacing
si può impostare, s si conosce ed è una conseguenza della granulometria ed u è la velocità di lavoro. Vale
l’analisi dimensionale è si verifica facilmente che è [J*m^(-3)].
Adesso andiamo a fare dei ragionamenti, per capire in funzione dei parametri di processo come cambia
l’energia e in funzione dell’energia come cambia la densità. La relazione tra l’energia per unità di volume e i
parametri di processo è quella precedente, adesso serve una relazione tra una variabile di risposta e
l’energia per unità di volume. Una variabile di risposta, che ci permette di capire se il processo sta andando
a buon fine, se è efficiente oppure no, è la densità a fine lavorazione. Dobbiamo trovare una relazione tra
densità e i parametri di processo, ma non conviene trovare relazioni tra densità e potenza, densità e hatch
spacing, cerchiamo invece una relazione tra densità ed energia per unità di volume.
Questo perché lo stesso valore di energia per unità di volume lo posso ottenere combinando vari valori dei
parametri di processo e quindi conviene ragionare sul parametro sintetico.
In definitiva, o ragioniamo sulla densità che si ottiene a fine lavorazione oppure possiamo ragionare sulla
porosità residua, siccome tutto ciò che non pieno è vuoto, e ciò che è vuoto lo chiamo porosità, allora è lo
stesso ragionare sulla densità a fine lavorazione o sulla porosità residua.
Il passo successivo sarà quello di trovare una relazione tra densità ed energia per unità di volume, e in base
ad essa capire come variando i parametri di processo viene alterata di riflesso la densità.
LEZIONE DEL 30/11 Alfieri
ρmax è la densità frazionaria massima ottenibile (e non è detto che sia 100%), quindi
sottraggo a questa densità massima ottenibile una certa quantità, quando il
secondo termine è 0 ottengo la densità massima teorica. In funzione del materiale
che sto utilizzando e in funzione delle condizioni di processo questa ρ max potrebbe
non essere la densità del pieno.
“k” è un’altra costante che va moltiplicata per Ev quindi l’unità di misura di k deve
essere il reciproco dell’unità di misura di Ev e quindi si misura in m^3/J. L’Ev si misura
in J/m^3 .
Se dico che il materiale non ha densità pari a 100% vuol dire che il complemento
a 100 sono dei pori. Quindi posso scrivere “ρ% + Ψ = 1” (Ψ =porosità residua). Quindi
se voglio la densità massima frazionaria ottenibile la ricavo dalla relazione “ρ max +
Ψmin = 1” visto che quando la densità è massima la porosità è minima (e
viceversa).
Quindi dobbiamo fissare queste cose. Tutti questi quadratini sono stati ottenuti a
parità di condizioni di processo ed è stata cambiata l’energia per unità di volume.
La curva ottenuta raggiunge un valore limite (in questo caso 0,75) ossia è
asintotica, evidentemente perché 0,75 è il valore di ρmax. Se cambio le condizioni
di processo probabilmente cambierà questo asintoto. Quindi aumentando E v oltre
una certa soglia non si ottiene una densità maggiore perché l’aumento di E v
anziché migliorare la densità produce una delaminazione dei livelli. I livelli iniziano
a sfaldarsi tra di loro e cominciano a comparire delle cricche e quindi non sto
aumentando la densità ma sto provocando dei danni al pezzo.
L’altra retta (Loose sintering, 2ht at 1300°C, H2) è il valore della densità teorica che
otterrei se questa stessa polvere la lavorassi con la sinterizzazione tradizionale (non
con additive manufacturing laser) ed ovviamente ottengo valore di ρ % molto più
bassi perché la sinterizzazione prevede un ulteriore passaggio che è quello di
andare in forno per l’aumento di densità mentre invece l’additive manufacturing
è un processo diretto, ottengo le densità funzionali con una sola lavorazione.
L’altra retta invece (Tap density) è la densità che si ottiene secondo il
procedimento di misura stabilito dalla norma ASTM che dice che devo far cadere
la polvere all’interno di un recipiente, poi la devo scuotere per farla compattare e
vado a misurare la densità (che sarà molto bassa). Ovviamente dipende dalla
forma e dalla dimensione dei grani.
Siccome però non è solo la velocità che è coinvolta nel processo di aumento
della densità (ci sono anche altri parametri) devo fissare le altre cose, in
particolare il tipo di materiale, il tipo di atmosfera, la strategia di scansione, la
potenza, l’hatch spacing (che è fatto variare ottenendo curve parametrizzate) e
lo spessore.
Lo stesso ragionamento lo posso fare con gli altri parametri di processo legati a Ev.
In questo grafico primo è stato fissato anche l’hatch spacing ma è stata fatta
variare la potenza. La potenza in Ev sta al numeratore, quindi all’aumentare della
potenza Ev aumenta, all’aumentare di Ev la densità aumenta. Nel secondo grafico
abbiamo fatto variare lo spessore del livello (abbiamo inoltre le curve con h=0.2 e
h=0.3 rispettivamente in linea continua e linea tratteggiata). Lo spessore del livello
in Ev sta al denominatore, quindi all’aumentare dello spessore del livello la densità
deve diminuire.
Nel primo esempio ho un angolo da sostenere, ma non è detto che ogni angolo
mi determina la necessità di un supporto, c’è un angolo di soglia oltre il quale
sorge questa necessità. Se quest’angolo diventa troppo acuto la parte a sbalzo
acquista un volume maggiore.
Quindi, come già detto, con le lavorazioni di additive quasi sempre è prevista
un’ulteriore lavorazione per migliorare la finitura superficiale. Infatti oltre alla
formazione di bava, altri fenomeni che comportano un peggioramento della
superficie sono il contato con i supporti e l’effetto gradino che si ha sulle superfici
curve.
Vediamo ora quello che può capitare quando si costruiscono dei pezzi che sono
molto alti. Si dovrebbe fare in modo che il rapporto tra altezza e larghezza del
pezzo da costruire non sia superiore al rapporto 8:1 altrimenti potremmo avere la
formazione di inclinazioni dovute all’urto tra pezzo e lama (immagine in basso a
sinistra). Ovviamente una larghezza maggiore mi darebbe una superficie
d’appoggio migliore e quindi è più difficile che la lama sposti il pezzo. Quando
non è possibile aumentare la larghezza posso prevedere un raccordo tra i due
pezzi che non andrà rimosso oppure, quando il raccordo influisce negativamente
sulla funzionalità del pezzo, inserisco un supporto e dopo lo rimuovo.
Superfici appuntite o affilate (immagine 1) non si possono costruire perché c’è una
dimensione minima che il laser riesce a fondere o a sinterizzare. Se il laser traccia
una linea su un letto di polvere non ottengo una linea ma ottengo un rettangolo
perché il laser ha un suo diametro.
È consigliabile (sempre per ridurre l’urto) inoltre avere delle sezioni trasversali non
molto estese. Applicando un certo angolo la sezione trasversale si riduce
andando così a ridurre anche l’urto tra pezzo e lama (immagine 2).
Ovviamente non sempre posso rispettare queste linee guida perché ci sono casi in
cui le particolari caratteristiche del pezzo non me lo consentono.
Continuando a parlare di ri-progettazione, per evitare di inserire supporti, un pezzo
come quello nell’immagine in alto a sinistra anziché costruirlo a gradini
(obbligandoci quindi a realizzare dei supporti) lo ri-progetto con una superficie
curva (con tangente sempre inferiore all’angolo di soglia). Oppure, anziché
costruire un pezzo con vano (e quindi con un supporto centrale) come quello
nell’immagine in alto a destra posso ri-progettarlo prevedendo un interno forato
con raggi di raccordo inferiori a 6mm in modo che si autosostengano.
In questa slide è mostrato un modo intelligente di realizzare dei supporti. Invece di
fare dei supporti con interno pieno lo realizzo con una certa trama in modo da
sprecare meno materiale, ridurre il tempo di lavorazione (essendo previsti dei
vuoti) e facilitare l’operazione di rimozione del supporto.
Un’altra categoria di supporti è quella dei supporti di tipo “gussets” (in giallo nella
quinta immagine da sinistra). I supporti gussets sono lamelle molto sottili che vanno
a sostenere delle parti del pezzo agganciandosi al pezzo stesso. Non sempre è
possibile utilizzare i supporti gussets in quanto hanno una resistenza di sicuro
inferiore agli altri supporti visti e inoltre causano una perdita di qualità superficiale
maggiore visto che poggiano interamente sul pezzo (aumentando quindi la
superficie di contatto col pezzo).
Entrando nei dettagli, il supporto è realizzato con una struttura a denti in modo da
facilitare il distacco. Il supporto si divide in due parti, una è la struttura principale e
l’altra è la parte dei denti (quella che va a contatto con il pezzo). Quindi si
progetta la larghezza di base del dente, l’altezza dei denti e la distanza tra i denti.
Denti troppo vicini determinano un distacco complesso in quanto la superficie di
contatto è maggiore, denti però troppo distanti possono determinare o
l’imbarcamento del pezzo (cioè il pezzo si comincia a deformare) o proprio il
collasso.
Queste sono altre variabili di processo che rientrano in quel blocco di variabili che
abbiamo chiamato strategia di costruzione.
Confrontiamo ora le lavorazioni a letto di polvere con il laser e le deposizioni laser
con polvere.
E’ una tecnica di AM (affine alla Sinterizzazione Laser) che consente di partire da un letto di polvere per poi
fondere strato dopo strato e lavora in condizioni di alto vuoto, aspetto che riguarda in generale tutte le
macchine a fascio elettronico.
Le componenti prodotte hanno diverse applicazioni, dall’ambito aerospaziale a quello automotive, o ancora a
quello dell’ingegneria biomedica (es. realizzazione di protesi).
Rispetto alla SL (sinterizzazione laser), l’EBM presenta delle limitazione in termini di polveri che vengono
utilizzate: infatti, mentre con la SL c’è una certa varietà di polveri metalliche utilizzabili, quelle che al
momento vengono utilizzate nell’EBM sono abbastanza limitate.
1
Si parla di Titanio Grado 2 (Titanio con percentuale minima di impurità), lega Cobalto-Cromo per la
realizzazione di protesi dentali, e la lega 6Al-4V per l’ambito aerospaziale. Prosegue la ricerca di nuovi
materiali da utilizzare, ma in generale è difficile il consolidamento del processo di definizione dei parametri
per la realizzazione di un manufatto (che deve rispondere a specifiche ottime in termini di porosità residua),
e ciò limita fortemente lo sviluppo di nuovi materiali.
Per quanto riguarda il processo EBM, esso presenta una struttura del tutto analoga a quella che caratterizza le
altre tecniche di AM: si parte sempre dalla progettazione mediante CAD, si posiziona la parte sulla
piattaforma di lavoro, la definizione di strutture di supporto qualora queste siano necessarie (e qui si
riscontrano le prime differenze rispetto alla SL, che saranno motivate da considerazioni successive), slicing
del modello 3D, costruzione della parte strato dopo strato ed infine la parte finale di rimozione a cui è
predisposta la macchina (tale fase presenta delle differenze rispetto alla corrispondente nella SL).
2
All’interno del cannone viene generato un fascio di elettroni per mezzo di una corrente che circola all’interno
del filamento di tungsteno: questi, riscaldatosi a temperature elevatissime, per effetto joule determina
l’emissione degli elettroni. Il filamento funge da anodo all’interno del circuito, di conseguenza vi è una
tensione che “spinge” gli elettroni verso il catodo, determinandone un’accelerazione a aumentandone quindi
l’energia cinetica.
Le lenti vanno a focalizzare il fascio (parte degli elettroni viene tagliata), quindi si passa alla zona che
consente Possiamo arrivare ad energie molto significative 60 KeV , ciò porta alla creazione del fascio
elettronico e alla generazione di quella potenza che poi viene ceduta al materiale con cui si interagisce.
3
La fase di costruzione si realizza all’interno della camera di costruzione: questa è una fase aggiuntiva rispetto
a quanto visto precedentemente. La camera di costruzione è sempre in vuoto spinto per la liberazione
dell’energia posseduta dagli elettroni, e un sistema di tramogge fornisce la polvere (i cilindri e una ranca la
depositano e la distribuiscono sulla piattaforma di lavorazione). Si ha la conclusione dello strato e quindi il
processo si ripete con l’abbassamento della piattaforma di lavorazione, il deposito di un altro layer di polvere
e quindi il passaggio del fascio di elettroni nelle zone in cui la parte va costruita.
4
In seguito al passaggio del fascio di elettroni si ha la fusione dello strato di polvere: in realtà si ha anche una
parziale fusione del substrato, e ciò favorisce l’adesione tra layer successivi. Variando la corrente all’interno
del circuito varia la potenza, e di conseguenza l’energia specifica che il fascio è in grado di cedere al
materiale.
Si offre una visione nel dettaglio della camera di costruzione, che presenta una grandezza comparabile alla
corrispondente nel caso della SL. Foto reale della camera di costruzione: è necessario qualcosa di ermetico
per limitare la propagazione del fascio, abbiamo infatti problemi di schermatura, dobbiamo evitare che i
raggi x che si formano fuoriescano dalla macchina. Abbiamo un serbatoi di costruzione ed un pistone che
consente il movimento della piattaforma lungo l’asse. Abbiamo un volume cilindrico di lavorazione –
piattaforma circolare oppure potrebbe essere rettangolare per ottenre pezzi a forma di parallelepipedo.
5
L’atmosfera inerte è necessaria per evitare dispersioni dell’energia a contatto con le particelle di aria.
Il processo avviene completamente sottovuoto (spinto) – non abbiamo particelle di gas nella camera di
lavoro che possono provocare dispersione parziale del fascio. Ciò comporta costi maggiori ma permette di
avere caratteristiche finali del componente migliori dal punto di vista di cavità riducendo le impurità – se
partiamo da polveri di alta qualità- e ciò aumenta le proprietà della parte che otteniamo e consente di
lavorare materiali reattivi (es. titanio e le sue leghe). Possiamo perciò operare su tali polveri in quanto non è
presente ossigeno che comporta ossidazioni e possibile combustione delle particelle (esplosioni).
Inoltre, come aspetto aggiuntivo, la presenza del vuoto costituisce in un certo senso un isolante che consente
il mantenimento di temperature elevate.
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Rispetto al processo di SL, sia da un punto di vista teorico che pratico, è leggermente più complesso e si può
suddividere in 5 fasi. Analizzando il diagramma (tempo ascisse, corrente ordinate):
Si ha una fase iniziale di preriscaldamento della piattaforma di lavorazione. A differenza degli 80°C
caratteristici della Sinterizzazione Laser, col preriscaldamento si giunge a temperature molto più
elevate, dell’ordine di 600-700°C
Esposizione preliminare del letto di polvere: non si ha da subito la fusione, ma anche il letto di
polvere viene preriscaldato.
Creazione dei supporti
Fusione dei contorni
Fusione della parte interna. Anche nella SL le ultime due fasi sono separate, e questo è dovuto ad
una questione di parametri di processo differenti: nel guscio esterno va ottimizzata la finitura
superficiale e si ricerca una maggiore accuratezza, mentre sulla parte interna si ricercano parametri
che migliorino la produttività (e velocizzino il processo).
Nel grafico sottostante viene riportato il trend delle temperature registrate, che complessivamente si
mantengono significativamente al di sopra del range caratteristico della SL. La stessa macchina della SL è
responsabile di una raffreddamento maggiore, a differenza di quella di dimensioni più compatte impiegata
per l’EBM.
Realizzato il vuoto all’interno della camera di costruzione, viene effettuato il preriscaldamento della
piattaforma che generalmente è in acciaio inossidabile (si evidenzia quindi un’altra differenza rispetto alla
SL, processo dove la piattaforma è in materiali differenti a seconda delle polveri da trattare). Non viene
ovviamente utilizzata tutta la potenza offerta dal fascio, aumentando il diametro dello spot e riducendo
quindi l’energia specifica. Il preriscaldamento, e quindi la determinazione di temperature più elevate per tutto
il processo che seguirà, comporta un vantaggio fondamentale: risulteranno minori i gradienti termici tra la
piattaforma di costruzione e la parte in progessiva realizzazione. Questo permette di ottenere stress residui
legati alle variazioni di temperatura sicuramente minori rispetto al caso della SL, dove si ha una gradiente di
quasi 700°C tra gli 800°C della parte in costruzione e gli 80°C della piattaforma. Gradienti minori
determinano stress residui minori. Gli spessori in gioco sono sempre abbastanza limitati (tra i 50 e 100
micron).
7
Nella fase successiva, a valle della stesura della polvere, si ha un secondo preriscaldamento, che stavolta
interessa la polvere stessa. Gli scopi di tale operazione sono due:
Ostacolare il “powder blown”, quel fenomeno per il quale un fascio elettronico ad energia cinetica
elevata “spazza” via particelle di polvere a valle dell’impatto determinando la formazione di pori
nello strato. Col preriscaldamento si ottiene invece un’adesione parziale delle particelle e, investite
dal fascio di elettroni, sono più stabili nell’acquisire l’energia per la fusione
Evitare il “balling effect”: il preriscaldamento aumenta la tensione superficiale delle polveri e quindi
la loro bagnabilità.
Rispetto al caso della SL i supporti wafer hanno dimensioni molto più limitate (addirittura semplici strisce),
semplicemente perché la problematica della stabilità meccanica relativa allo strato è di minore entità. Il letto
di polvere nell’EBM offre una maggiore stabilità nella costruzione strato per strato, quindi viene meno la
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necessità di supporti massivi importanti. Ciò facilita anche le operazioni di rimozione. Inoltre ancora una
volta i supporti hanno la funzione secondaria di favorire la trasmissione del calore.
La quarta fase è quella di realizzazione dei contorni: i parametri di processo sono ottimizzati per
l’ottenimento di una finitura migliore. I contorni vengono ottenuti attraverso una serie di spot adiacenti per il
miglioramento della morfologia della struttura: ciò è possibile grazie alla lente di deflessione, che ha
caratteristiche che consentono istantaneamente lo spostamento del fascio.
La fase finale è quella di realizzazione della parte interna. Si parla di “hatch melting” : è come se il fascio
elettronico andasse a fondere settori adiacenti operando con una focalizzazione spinta e seguendo un
percorso simile a quello di un “serpente” per passare tra settori adiacenti. Il ciclo si ripete con
l’abbassamento della piattaforma nelle varie fasi descritte precedentemente. In genere si riescono a costruire
3-6 mm/ora.
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Terminata la costruzione dell’elio permette un primo raffreddamento, seguito da un raffreddamento in aria.
Le temperature molto elevate all’interno del processo portano, alla fine del processo, a particelle di polvere
“raggrumate”: è necessario un sistema per il recupero di polvere in eccesso (PRS) da riutilizzare per processi
successivi: una pistola ad aria compressa spara polvere dello stesso tipo (per evitare contaminazione) della
parte realizzata per spazzare e successivamente rimuovere la polvere in eccesso.
Le parti in seguito alla lavorazione sono completamente sommerse in un blocco di polvere semisolidificata.
Con la sintetizzazione laser non si verifica ciò perché le temperature sono più basse. Elevate temperature (più
di 500°) comportano l’addensamento della polvere. Non raggiungendo temperature di fusione possiamo
ripulire le parti dalla polvere in eccesso e riutilizzarla.
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Anche nel caso dell’EBM si assiste alla formazione di fuliggini. I parametri di processo vanno definiti in
modo da evitare tale fenomeno in quanto le particelle di fumo potrebbero ostacolare il percorso del fascio
elettronico riducendone l’accuratezza ed allargando il diametro dello spot che otteniamo.
Le superfici prodotte con EBM hanno una morfologia piuttosto grossolana, contenente una struttura
increspata con visibili grani di polvere sinterizzata. Per prodotti in cui è necessaria, la rugosità superficiale
prodotta con EBM risulta essere sfavorevole.
L’accuratezza complessiva dipende anche dallo spessore dello strato (50/70 micron), maggiore di quello che
possiamo lavorare con la sintetizzazione laser e ciò fa aumentare anche la rugosità.
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Maggiori sono le temperature in gioco, più è facile che le particelle di polvere si accorpino alla parte: ciò
comporta un aumento della rugosità della superficie. Nel caso di esigenza di tolleranze particolarmente
spinte, potrebbero essere necessarie rilavorazioni per ottenere maggiore accuratezza.
Al fine di garantire le tolleranze dimensionali potrebbero essere quindi necessarie operazioni postprocesso
per ridurre le dimensioni del componente a quelle stabilite, in modo da garantire l’accoppiamento nei pezzi
da assemblare.
Oppure può avvenire il processo di Hot Isostatic Pressing: il componente viene pressato con argon ad alta
pressione e quindi riscaldato. Tale processo favorisce la riduzione delle porosità.
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Per quanto riguarda le caratteristiche della macchina EBM, è possibile il raggiungimento di potenze elevate
(4kW); alti rendimenti; deflessione del fascio mediante lenti e senza necessità di parti in movimenti; stress
residui termici bassi; costi operativi bassi etc.
Le due criticità fondamentali sono relative alla necessità di rimozione della polvere (e ai tempi d’attesa per il
raffreddamento prima di far fronte agli eccessi, che rallenta ulteriormente le tempistiche del processo) e al
problema della finitura superficiale.
A differenza delle tecnologie di SL, dove è possibile far riferimento a differenti macchine, le tecnologie
EBM sono prodotte da un’unica azienda, la Arcam. Nella slide soprastante sono riassunte le caratteristiche
della macchina: risaltano elevata potenza, elevatissima velocità di costruzione, un build rate superiore
rispetto a quanto viene garantito dal processo di sinterizzazione.
13
Per quanto riguarda le applicazioni di tale tecnologia di AM, l’EBM è impiegato in ambito aerospaziale,
dove l’obiettivo fondamentale è la riduzione del peso delle strutture, in ambito automotive e nel campo dei
dispositivi medicali.
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Selective Laser Melting VS Electron Beam Melting
La differenza sostanziale sta nelle potenze della macchina (200W contro i 3kW raggiungibili dall’EBM).
Per l’EBM è necessario il vuoto, mentre nel caso della sinterizzazione si impiega argon o altri gas a seconda
delle caratteristiche del materiale di fabbricazione; per quanto concerne la metodologia di preriscaldamento,
nel caso SLM è la piattaforma ad essere riscaldata (senza il raggiungimento di temperature elevate, 80-
100°C), mentre per il fascio elettronico il preriscaldamento interessa il letto di polvere, con l’ottenimento di
temperature sensibilmente maggiori (700-900°C); la macchina per l’EBM è più compatta in lunghezza e
larghezza, ma ha una dimensione verticale che consente la lavorazione di pezzi a maggior altezza rispetto al
caso del SLM; la macchina Arcam, avendo una minimum powder size maggiore, può lavorare strati di
spessore più elevato (anche in virtù delle potenze di fusione maggiori) e lo stesso diametro di fusione avrà
dimensioni maggiori; la parete di dimensioni minime realizzabile è un parametro a favore del SLM, dove è
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possibile maggior dettaglio di lavorazione; infatti l’accuratezza è maggiore nel caso della tecnologia SLM; la
velocità di costruzione dell’EBM è maggiore; tra i due scan speed si hanno 2 ordini di grandezza di
differenza, mentre per il build rate il rapporto è di almeno 4: ciò è dovuto ai molti passaggi del fascio
elettronico per il riscaldamento del letto di polvere; infine, come ci si aspetta, la rugosità superficiale ottenuta
dall’EBM è maggiore.
(Alcune considerazioni sono già state fatte a partire dal confronto tecnico tra le macchine, altre sono
semplicemente lette dalle slide)
Una cosa importante da evidenziare è il fatto che, lavorando con temperature medie più elevate, l’EBM si
distingue per stress residui minori rispetto alla sinterizzazione laser, dove potrebbe invece essere necessario
un trattamento termico di distensione. Il preriscaldamento inoltre mantiene le particelle di polvere insieme: in
tal modo i supporti nell’ EBM servono principalmente per la conduzione del calore e il numero di supporti
richiesti è minore e le strutture saranno più snelle, quindi è permessa anche la produzione di geometrie più
complesse. Nel laser melting invece sono necessarie strutture di supporto abbastanza evidenti, e la rimozione
successiva potrebbe essere più problematica.
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Complessivamente la popolarità dell’EBM è di certo minore per diversi fattori: un’unica azienda produttrice,
necessità di schermaggio per le radiazioni prodotte, costi più elevati, accuratezza minore e un range di
materiali lavorabili più ristretto.
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Per analizzare concretamente le differenze tra le due tecnologie nelle modalità di lavorazione, si presentano
due casi studio relativi all’impiego di una lega di titanio e materiale Inconel 625: i casi comparabili sono
limitati a causa del numero ristretto di materiali compatibili all’EBM e quindi comuni ad entrambe le
tecniche.
Nel primo caso studio vengono realizzate diverse geometrie con EOS M270 e Arcam A2X ai fini del
confronto:
Provini cilindrici per l’analisi della microstruttura e l’influenza dei trattamenti post- processo,
nonché per la valutazione della composizione chimica
Provini di trazione per valutare le proprietà meccaniche
Pala di turbina per valutare l’accuratezza, rugosità superficiale e contabilizzare i costi di
fabbricazione
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Considerando la sola fase di realizzazione, nel caso SLM gli elevati gradienti termici e l’elevata velocità di
raffreddamento determinano la formazione di una microstruttura martensitica (completa o parziale), di cui
sono visibili gli “aghi”
Un trattamento termico superficiale successivo permette di eliminare la fragile e metastabile fase martensite.
Vi sono due tipi di reticoli: alpha è connesso alla presenza di alluminio nel Tiselio mentre beta dalla presenza
del Vanalio: il trattamento termico con temperature maggiori della curva di trasformazione beta (circa 980°)
coadiuva la trasformazione di fase: la microstruttura risultante è in equilibrio lamellare alpha + beta.
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La struttura è completamente diversa (grani alpha circondati da fase beta) a causa dei gradienti termici
significativamente minori rispetto alla sinterizzazione.
Un trattamento termico a temperature superiori alla curva di trasformazione di beta porta all’eliminazione
della fase martensita e al raggiungimento di una microstruttura analoga a quella ottenuta con sinterizzazione
(equilibrio lamellare).
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Analisi della composizione degli elementi: si vogliono osservare le possibili variazioni sulla composizione
chimica dovute ai processi di fabbricazione. Infatti l’EBM comporta una riduzione dell’alluminio, che
vaporizza (essendo bassofondente) per il raggiungimento delle alte temperature e potenze specifiche. Per
compensare la perdita di alluminio, e quindi il degrado di alcune caratteristiche della polvere, bisogna
operare con quantità di alluminio più elevate.
Viene riportato il diametro finale della pala rotorica e viene evidenziata la zona in cui viene effettuata la
misurazione della rugosità: complessivamente si osserva che la migliore accuratezza è garantita dalla M270,
e la rugosità determinata dal fascio elettronico è sensibilmente maggiore.
21
Le misurazioni sono state ripetute anche per l’interno della pala rotorica: minori sono le dimensioni della
parte (si guardi ad es. al diametro nominale), migliore sarà la risoluzione della lavorazione ed inoltre si
assiste ad un abbassamento della rugosità superficiale. Inoltre si può notare che quest’ultima è sensibilmente
minore nel caso di parti orizzontali (11-20 contro 30-59, quindi sia per SLM che per EBM), mentre una
parete verticale presenterà certamente una qualità di finitura peggiore essendo risultato di lavorazione su
strati successivi.
La M270 è più lenta della M280 (rimanendo nell’ambito della stessa tecnologia) essendo una macchina
meno recente e meno performante; nel SLM vanno contemplati anche i costi per i trattamenti termici
successivi richiesti.
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Prova di trazione: le proprietà di tensione sono state testate con manubri appositamente preparati usando
SLM, EBM e fonderia tradizionale. I campioni SLM hanno subito trattamenti termici di riduzione degli
stress e HIP, i campioni EBM sono testati as-built e “HIPizzati”. In figura sono riportati i differenti provini:
SLM (a), EBM (b), provino ottenuto per fusione come riferimento (c), il positivo in plastica per la
realizzazione dello stampo per il modello c (d). Risalta immediatamente la differenza estetica tra i diversi
campioni, in particolare l’aspetto “rugoso” del campione realizzato con fascio elettronico
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Ciò che si nota complessivamente è che, a valle dei trattamenti termici, si ha una riduzione della resistenza
meccanica sia in termini di tensione di snervamento che di carico massimo. Entrambi i trattamenti mirano ad
aumentare la duttilità del provino, e di conseguenza comporteranno un effetto deleterio sulle proprietà
meccaniche. Tuttavia, dal confronto con il prodotto ottenuto per stampaggio, si osservano comunque
performance nettamente migliori da parte dei provini ottenuti con le tecniche AM.
Per quanto riguarda il secondo caso studio, si impiega la polvere Inconel 625 con una granulometria molto
simile per le differenti applicazioni SLM e EBM.
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La problematica di questa lega è dovuta alla formazione di precipitati nichel–niobio che aumentano la
fragilità del materiale: si rende necessario un trattamento HIP successivo all’EBM per l’ottenimento di una
struttura con grani più omogenei e minore anisotropia.
Nel caso SLM, la microstruttura di partenza è diversa perché le temperature raggiunte sono diverse, ma a
valle del trattamento HIP ci si ritrova in una situazione strutturale analoga alla precedente.
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Un tratto distintivo della fabbricazione per mezzo di SLM è la possibilità di osservare specificamente i
“solchi” lasciati dalle singole tracce di costruzione che sono nettamente separate tra loro. In nero si hanno i
precipitati di nichel-niobio su cui interverranno i post trattamenti termici.
In conclusione i prodotti di differenti tecnologie dopo la lavorazione hanno una microstruttura diversa, ma i
trattamenti termici successivi portano ad una convergenza/omogeneizzazione dei due sistemi.
Si ottengono buone caratteristiche meccaniche, comunque inferiori rispetto a quelle della polvere di
partenza: la differenza è più marcata per i prodotti realizzati con EBM, mentre i campioni SLM sono più
prossimi per resistenza meccanica all’Inconel 625.
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Lezione 7/12/2016 CAIAZZO
La fase del post processo comprende tutte quelle attività che vengono svolte dopo aver lavorato il pezzo
utilizzando una tecnologia di tipo additive. Le tecniche che verranno illustrate di seguito sono finalizzate
soprattutto alle tecniche a letto di polvere (SLM o EBM) ma alcune di esse possono essere utilizzate anche
per le tecniche a getto di polvere o a filo.
La fase di post processo assume un ruolo fondamentale, in quanto è una parte integrante del processo di
stampa poiché, il componente che otteniamo dalla stampa, non è ancora pronto per essere utilizzato quindi
necessita di un’ulteriore lavorazione.
Il post processo può essere considerato lo step finale dei processi SLM e EBM ed è caratterizzato da tre fasi
separate:
Il distacco del pezzo dalla piattaforma: ricordiamo che per i processi SLM e EBM, il pezzo, di
materiale metallico, è costruito strato su strato su una piattaforma, quindi è necessario distaccare il
pezzo da essa e eliminare tutti i supporti.
Trattamenti termici;
Finitura superficiale: nonostante l’ottimizzazione dei parametri espositivi, la porosità dei pezzi
ottenuti con la tecnologia SLM e EBM non è tale da consentire direttamente un impiego (basti
pensare che la rugosità media della tecnologia SLM può essere di 6-7 micron, invece, con la
tecnologia EBM la rugosità media è dell’ordine dei 30 micron, ma generalmente le finiture
superficiali richieste possono essere anche di un micron).
Generalmente prima si svolgono i trattamenti termici, seguito poi dal distaccamento del pezzo dalla
piattaforma e solo in ultimo viene svolta la finitura superficiale.
TRATTAMENTI TERMICI
I trattamenti termici, che vengono effettuati sui pezzi, sono dei processi di invecchiamento e di rilascio di
tensione che hanno l’obiettivo di diminuire le distorsioni presenti nel pezzo a causa dallo stress termico
generato dal susseguirsi dei cicli di fusione seguito poi dal rapido raffreddamento a cui le polveri sono
soggette.
Essendo un ciclo termico, sull’asse delle x abbiamo il tempo e sull’asse delle y abbiamo le temperature.
Dal grafico possiamo vedere che il materiale viene riscaldato fino al raggiungimento di 585 °C la
temperatura viene mantenuta costante per un determinato tempo e poi la temperatura si innalza alla
temperatura di 650 °C seguito poi da un raffreddamento in forno (Tutti gli acciai presentano questo
andamento termico).
Tranne in casi particolari (es. quando si vuole studiare nuovi materiali), i trattamenti termici sono già forniti
dall’azienda produttrice del materiale, quindi non è necessario creare trattamenti termici ad hoc.
I miglioramenti ottenuti inseguito ai trattamenti termici possono essere facilmente visionati dalla seguente
tabella.
Dalla tabella possiamo vedere che i trattamenti termici non solo riducono gli stress residui ma migliorano
anche le caratteristiche meccaniche del materiale.
Nella seconda colonna sono riportate le caratteristiche meccaniche del componente così come sono
ottenuti, mentre nella terza colonna sono riportate le caratteristiche meccaniche dei componenti, dopo aver
subito un trattamento termico.
Possiamo notare che sono state misurate le caratteristiche meccaniche del componente in relazione alla sua
orientazione, infatti la direzione (XY) indica che la misurazione è avvenuta con il componente posizionato
parallelamente alla piattaforma, mentre la direzione (Z) indica che la misurazione è avvenuta con il
componente posizionato perpendicolarmente alla piattaforma.
HIP è un processo più costoso rispetto ai classici trattamenti termici perché permette l’applicazione
simultanea di alte temperature e pressione per un determinato periodo di tempo così da migliorare le
caratteristiche meccaniche del componente.
L’hippatura avviene in un’unità che contiene un forno ad alta temperatura racchiuso in un recipiente a
pressione. La temperatura, la pressione e il tempo di processo sono controllati per consentire le ottimali
proprietà del materiale. Componenti o parti sono riscaldate in un gas inerte, generalmente argon, che
applica una pressione isostatica uniformemente in tutte le direzioni. Questo fa sì che il materiale subisca
una deformazione plastica, permettendo la riduzione dei vuoti presenti nei componenti.
L’HIP è utilizzato per eliminare pori, rimuovere i difetti, cioè nitruri, ossidi e carburi, e per aumentare
notevolmente le proprietà del materiale.
Le pressioni tipiche di tale tecniche sono comprese tra i 400 e 2070 bar e le temperature fino a 2000°C,
permettendo così di raggiungere il 100% di densità teorica massima, migliorare la duttilità e la resistenza a
fatica.
Dal grafico sono riportate le curve σ-ε di uno stesso componente che ha subito trattamenti differenti. La
curva azzurra è di un componente che non ha subito alcun trattamento, la curva verde è di un componente
che ha subito solo trattamenti termici, la curva rossa di un componente che ha subito solo hippatura e
infine, la curva viola, è di un componente che ha subito sia hippatura che trattamenti termici.
Possiamo vedere come il processo di hippatura più trattamento termico tende a migliorare di molto le
caratteristiche meccaniche del componente.
RIMOZIONE SUPPORTI
La rimozione dei supporti può rappresentare un costo anche molto elevato per l’azienda, in quanto possono
essere rimossi o mediante l’ausilio di sistemi meccanici, o attraverso lavorazioni EDM.
Le lavorazioni EDM sono definite come lavorazioni speciali, in quanto l’utensile non tocca il pezzo da
lavorare. La lavorazione EDM più semplice è l’estrusione a filo, dove c’è un filo metallico, percorso da
corrente e ci sono una serie di scariche elettriche tra il pezzo e il componente, in presenza di liquido
dielettrico, che permettono l’asportazione del materiale, tali processi oltre ad essere complicati sono anche
molto costosi.
Utilizzando invece una macchina a controllo numerico, le problematiche aumentano ulteriormente, perché
bisogna valutare come posizionare la piattaforma sulla macchina a controllo numerico e come eliminare i
supporti.
La rimozione dei supporti deve essere prevista già nella fase di ottimizzazione, in quanto, se vengono
utilizzati più supporti del necessario, questi, durante la fase di rimozione, mi porteranno un aumento dei
costi non sottovalutabili.
FINITURA SUPERFICIALE
Generalmente le parti così come fabbricate, hanno un’elevata rugosità superficiale (per esempio i valori di
rugosità superficiale tipici per la SLM variano tra i 15 µm e i 40 µm, valori non accettabili) causata dall’effetto
a gradino causata dai singoli strati successivi di polvere (a) e dalla rugosità effettiva della superficie metallica
causata dalle particelle non perfettamente aderite alla superficie (b).
L’effetto a gradino può essere ridotto, diminuendo lo spessore dei singoli strati di polvere. Ciò però
comporta un aumento dei tempi di lavorazione poiché lo spessore degli strati definisce il numero di strati
necessari per la realizzazione del componente.
Generalmente la deposizione diretta ha uno spessore dello strato di polvere più grande rispetto alla
deposizione a letto di polvere e quindi si ha una rugosità maggiore.
La finitura superficiale è quasi sempre necessaria, tranne in casi particolari come per le protesi dove la
rugosità è un valore aggiunto in quanto permette una maggiore adesione tra l’osso e la protesi.
Shot peening;
Sandblasting;
Barrel finishing;
Electrochemical Polishing;
Laser Polishing.
Ovviamente sarebbe possibile migliorare la finitura superficiale anche con una macchina a controllo
numerico, però, a causa della complessità dei pezzi, questa operazione è quasi impossibile.
SHOT PEENING
Lo shot peening è un processo di lavorazione a freddo basato sul principio di spruzzare delle particelle
(generalmente di metallo, vetro o ceramica) con forza sulla superficie del nostro pezzo così da creare una
deformazione plastica.
Questa operazione, grazie al bombardamento avvenuto dalle particelle, provoca una riduzione della
rugosità superficiale del pezzo e una distribuzione delle tensioni superficiale che migliora la resistenza a
fatica, la durezza e la resistenza all’usura del materiale.
Questo processo avviene senza alcun utilizzo di agenti chimici ma solo con l’applicazione di forze.
SAND BLASTING
La sabbiatura avviene con una macchina non molto costosa la quale può essere sia automatica che utilizzata
da un operatore.
Questa tecnica è utilizzata per migliorare la qualità superficiale dei prodotti riducendo la rugosità
superficiale. Ciò avviene grazie all’utilizzo di particelle di allumina e vetro che vengono sparate sul pezzo,
opportunamente orientato da un operatore.
BARREL FINISHING
Questo processo viene utilizzato per pulire, illuminare indurire la superficie e rifinire i componenti. In
questo processo si utilizza un barilotto orizzontale, riempito con delle particelle abrasive nella quale
vengono inseriti i nostri componenti.
Facendo ruotare il barilotto le particelle abrasive colpiscono il pezzo migliorandone la finitura superficiale.
A volte questo processo avviene con l’utilizzo di lubrificanti, saponi o altri prodotti così da rendere i pezzi più
belli esteticamente, aiutare il processo di finitura, prevenire la ruggine e pulire le parti.
Questo è un processo economico perché si possono trattare più pezzi in contemporaneo. Un ciclo completo
può richiedere dalle 6 alle 24 ore.
Dall’immagine possiamo vedere come il pezzo ha una buona finitura superficiale ma i bordi sono
arrotondati.
LEZIONE DEL 14/12/2016 CAIAZZO
In questo processo vado a fare rivestimento e per fare questo devo cambiare le polarità: ill’anodo
diventa catodo e viceversa, il catodo diventa anodo (il materiale che deve cedere ioni per andare a
fare rivestimento deve essere l’anodo).
E’ un processo lungo in cui non c’è interazione con il materiale.
Anche in questo caso c’è difficoltà di utilizzare questi processi elettrochimici perché c’è una
pericolosità dovuta all’azione del materiale della soluzione chimica che è a base acida e
ovviamente non ha una possibilità, come svantaggio, di poter arrivare in cavità interne del
materiale non avendo una buona finitura superficiale.
Nell’esempio vediamo che c’è una buona asportazione su tutto il materiale.
Le principali caratteristiche del Laser Polishing:
- Il laser è una sorgente concentrata di luce;
- non c’è il discorso della sabbia, della ceramica o del vetro che va a contatto con il pezzo
questo significa che nel momento il cui i laser intervengono nelle lavorazioni il processo può
essere altamente automatizzato;
- i tempi di lavorazione possono essere molto ridotti (il tempo di interazione tra laser e pezzo
è dell’ordine di qualche secondo c’è quindi una ridotta interazione macchina-pezzo);
- è un processo pulito perché non ci sono, come nelle altre operazioni di finitura, polveri che
vanno ad impattare, soluzioni chimiche e nessun altro materiale che interviene ma c’è
soltanto il laser che dovrebbe favorire il miglioramento della finitura superficiale;
- la finitura non dovrebbe interagire su quella che è la struttura del materiale di base ciò
significa che quando vado ad utilizzare il laser sui metalli riscaldo e raffreddo in condizioni
non controllate senza danneggiare il materiale dal punto di vista strutturale (ossia le
miscrostrutture ottenute);
- posso così andare a definire una parte dove andarla a lavorare, generare delle
microrugosità perché il materiale viene comunque fuso e il liquido deve essere
risolidificato.
Esempio
Barra di acciaio GP1 i cui parameri di processo sono:
- potenza 200 Watt (valori di potenza molto bassi)
- velocità di scansione di 50 mm/s
- il fascio laser ha un diametro di 1 mm
- sono state fatte tracce tali che hatch spacing vale 0.5 mm in modo da avere una sovrapposizione
tra gli strati.
Quello che si vorrebbe cercare di ottenere è fondere, cogliere tutti i picchi i quali fondendo vanno a
riempire le valli. Devo in ogni caso arrivare con un fascio tale che il materiale lo devo portare a
fusione e poi dopo si risolidifica.
Questa però è una visione dall’alto, bisognerà vedere poi in sezione cosa è accaduto, di quanto
fondiamo (quando fondiamo in calore si trasferisce all’interno del pezzo), di quanto spessore altero
il materiale a causa di questo riscaldamento.
Esempi di Micro-Politura
Come appare una superficie fresata del Tisil4b
Come appare una superficie levigata utilizzando il laser, la finitura superficiale è buona grazie
all’utilizzo del laser ma c’è ancora da verificare quanto effettivamente il danneggiamento fatto dalla
fusione nel primo strato superficiale si trasmette all’interno del materiale e se questo poi è
dannoso per la resistenza del componente o se la parte che viene alterata è questione di 200-300
micron che non vanno ad inficiare il comportamento del materiale.
Ricordandoci che siamo sempre nell’ottica di utilizzare questa tecnologia non per una
prototipazione, non sto creando prototipi ma voglio ottenere dei componenti.
La tecnologia sia nelle plastiche sia nella parte dei metalli è tale che oggi l’industria chiede di
ottenere componenti.
Quando si va ad utilizzare questa tecnologia per produrre componenti, l’azienda prima di dire che i
componenti vanno bene deve riuscire a controllare il processo. Mentre nelle tecnologie tradizionali
si usa ormai da anni tutto il discorso relativo all’usura degli utensili, quando metto una macchina di
questo tipo se vado a produrre parti mi devo domandare: la parte prodotta oggi è uguale a quella
prodotta ieri? Vado allora a fare un processo di qualifica del prodotto e devo accertarmi di avere la
sicurezza che il processo sia controllato soprattutto quando la macchina produce pezzi sensibili.
Esempio se in una paletta di turbina si sono formate delle cricche durante il processo di lavorazione
sarò costretto a buttare la paletta però devo sapere cosa è successo nel processo per far si che non
accada più.
Il processo di Additive è classificato come un processo speciale.
Ovviamente devo controllare il processo e posso farlo sia con metodi non distruttivi, anche se
molto spesso le aziende che fanno service cioè che producono parti per altri poiché non riescono a
controllare i processi, per stare tranquilli e non avere contenziosi con colui che ha commissionato
la parte, di solito fanno un controllo distruttivo e una prova di trazione per conto proprio per non
rischiare di perdere il cliente in quanto ciò significherebbe perdere un volume di produzione molto
elevato.
Quando poi si va in produzione posso sicuramente fare dei controlli non distruttivi, come
normalmente si fa per tutti i processi speciali.
Questi controlli non distruttivi sono: tomografia ossia si fanno dei raggiX proprio per vedere se
dentro è integro, si fanno poi dei controlli dimensionali per vedere se c’è una rispondenza dei
parametri. Insomma, fondamentalmente si fa una trx perchè se c’è qualcosa si dovrebbe
evidenziare a livello di polvere, porosità e cricche all’interno della parte.
Però devo anche qualificare e monitorare il processo.
Quando parlo di processo devo pensare al pezzo che si sta costruendo.
Tutta la parte di qualifica è applicabile alle tecnologie che sono a letto di polvere, non a quelle
dirette.
I benefici dell’Additive sono tanti e tutti vorrebbero approbittarne per poi ottenere prezzi più
competitivi, più leggeri, con materiali diversi.
Quindi nel momento in cui si va a fare la fase di monitoraggio devo verificare quali sono i parametri
critici, capire le relative tolleranze di accettabilità e capire come controllare questi parametri
durante il processo.
Alla fine quello che mi interessa è che il cliente vada a verificare se processo e prodotto sono
ottenuti secondo norma. Per il momento esiste come linea guida EN9100.
Alcune di queste caratteristiche le leggiamo direttamente sul datasheet della polvere, ma siamo
sicuri che corrispondono a quelle che sono le caratteristiche reali delle polveri??
Normalmente ci sono delle prescrizioni sull’acquisizione però, come prima cosa da fare per le
polveri ma anche per tutti gli altri materiali che arrivano in un’azienda, sono delle prove per
verificare se i numeri scritti corrispondono al vero.
Il secondo punto invece, il riutilizzo, non c’è scritto da nessuna parte ed è un punto interrogativo.
Quante volte posso riutilizzare la polvere? Nessuno lo sa.
Esempio di certificato su una polvere di titanio in cui viene riportato come si è ottenuta, la
distribuzione granulometrica, la composizione chimica (a sinistra), la norma, i test di laboratorio
eseguiti, le misure di grandezza e ulteriori caratteristiche che posso chiedere all’azienda che mi
fornisce direttamente la polvere (ex. la densità apparente,ecc…)
TI6AL4 significa avere: 6.5% di alluminio, 4.1% di vanadio , bassa percentuale di carbonio e
ossigeno e alla fine il titanio che sta in complemento per arrivare a 100.
Questo è il certificato che mi rilascia l’azienda e che devo andare a controllare.
Le polveri rappresentano il componente primario del processo, le specifiche sulle
polveri sono spesso dettate dal costruttore della macchina o dallo sviluppatore del
processo. Chi ha sviluppato il processo è colui che stabilisce i parametri principali per
la sinterizzazione con laser o electron beam.
È necessario ma non ancora definito, il problema del riutilizzo della polvere. Infatti è
una tecnologia completamente green in cui non esporto materiali per ottenere la
parte ma utilizzo il materiale che mi serve esclusivamente per la realizzazione del
pezzo. Nelle tecniche tradizionali è necessario definire il rapporto tra quello che ho
speso per incamerare la materia prima e per la realizzazione del processo diviso
quello che ho ottenuto. Invece, nel caso delle polveri tutto ciò che metto a
disposizione è utilizzato nel processo, quindi è necessario capire come e quante volte
riutilizzarle attraverso procedure standardizzate. È necessario standardizzare le
specifiche anche per la fase di riutilizzo di leghe con le quali si ottengono
componenti ormai consolidati.(INCO718 lega a base di nichel-cobalto, TI6AI4V
classica lega di titanio, nomi commerciali). Queste leghe si prestano bene allo
stampaggio 3d con polveri e sono maggiormente utilizzate nel campo aeronautico: la
prima per le caratteristiche di resistenze alle alte temperatura e corrosione, mentre
la seconda per la bassa massa volumica(leggerezza). Anche in aeronautica si
preferisce il titanio per minori problemi di corrosione rispetto all’alluminio anche se
costa in più.
Il controllo delle polveri è un discorso già maturo dato che si utilizzavano lavorazioni
con polveri già un po’ di tempo fa: nella sinterizzazione classica si ottenevano parti
attraverso la fusione localizzata fra i vari elementi sferici e il rapporto di pressione
permetteva di ottenere il prodotto finito. Nella sinterizzazione laser, poiché tutta la
polvere viene fusa e solidificata, riscontriamo solo piccole tracce di porosità, le quali
al contrario sono presenti largamente nella sinterizzazione classica, tecnica ormai
considerata obsoleta. Conosco le polveri e so come utilizzarle e controllarle, anche se
c’è comunque necessità di un trasferimento delle competenze tra produttori di
polveri e i venditori delle apparecchiature. Per alcune aziende queste due figure
coincidono, non perché chi vende le macchina realizza le polveri, ma hanno degli
accordi con dei fornitori per le polveri. Queste aziende, che detengono una grande
fetta del mercato perché lavorano in maniera massiva, tendono ad allontanarsi dal
mercato dei produttori di polveri e crearsi in casa un gas atomizzatore polvere.
(Bisogna unicamente trovare le materie prime per la realizzazione di polveri).
Le polveri sono fortemente dipendenti dal processo. Infatti, a seconda di quello che
utilizzo, devo scegliere una particolare tipologia di polvere; ad esempio, per quanto
riguarda la granulometria, nell’ ebm si ottengono strati di 60-70 micron, mentre nel
laser si ottengono strati molto più sottili.
A parità di processo ci sono dipendenze da parametri di processo: spessore layer,
potenza, metodo di stesura dello strato, le temperature raggiunte, preriscaldamento
della piattaforma, temperatura di interazione strato laser, velocità di avanzamento
del fascio laser.
Le specifiche sono fortemente dipendenti dal know how, dalla conoscenza
dell’utilizzatore, in base a come ha imparato ad usare la macchina. Sono delle
macchine non alla portata di tutti, quindi è necessaria esperienza per la corretta
utilizzazione.
Ci sono macchine recenti più performanti, evolvendo verso uno standard delle
macchine utensili. Quando si lavora con queste macchina è necessario sempre una
corretta conoscenza background di base.
Secondo livello c’è il tecnologo programmatore del job di macchina, è colui che
definisce come andare a posizionare il pezzo sulla tavola, ottimizza i parametri e
realizza il componente finale, quello che lavora offline, realizza i file da immettere
nella macchina.
L’ultimo livello è colui che tiene sotto controllo i livelli precedenti, ha capacità di
risolvere problemi fuori standard, di tirar fuori soluzioni in casi molti complessi.
Un ulteriore aspetto è il metodo, dato che per ogni lavorazione si deve avere un
sistema che ci consente di tracciare le procedure che si utilizzano. Abbiamo bisogno
di una tracciabilità del processo per avere una sequenza definita e dei controlli sia
sul software che sull’hardware. Inoltre è importante l’evoluzione del
software/hardware di macchina ossia il build processor, che è tracciata dal job report
di queste macchine, il quale racchiude tutte le caratteristiche del processo. Quando
si fanno delle lavorazioni, la macchina in automatico realizza un file per controllare
tutto ciò che avviene durante il processo (file job). C’è bisogno di utilizzare buon
senso e disciplina, infatti nella fase di lavorazione bisogna avere delle procedure
scritte ben chiare e univoche, in modo che non ci siano errori nella realizzazione del
job.
Un altro aspetto importante è la misura, intesa come risultato del job. In tutte le
macchine ci sono delle norme standardizzate per la taratura e verifica periodica delle
apperecchiature e degli strumenti istallati a bordo machina per il monitoraggio.
All’interno delle macchine ci sono sistemi di monitoraggio per il controllo del
processo, anche se attualmente manca una fase di intervento online, infatti posso
conoscere quello che è successo ma non ho la possibilità di intervenire
tempestivamente per far riprendere il processo.
Recentemente la maggior parte delle nuove macchine hanno sistemi di controllo
intergrati per il monitoraggio del sistesa nettamente migliori di certi processi
tradizionali consolidati(Esempio fonderia)
Questo è un esempio di quelle che sono le fasi di controllo, c’è necessità di avere un
monitoraggio con un centro di controllo con un database che raccoglie segnali
indotti dalla macchina esternamente ad essa.
1)definizione della specifica polvere da usare e valutazione del particolare
trattamento termico da utilizzare.
2)Valutazione della dispersione delle proprietà a causa di:
Posizionamendo del volume di lavoro
Direzione di accrescimento
Si vanno a preparare dei job, si vanno a valutare le variazioni delle proprietà del
provino in base al posizionamento nel volume di controllo. Successivamente si
posizionano diversi provini lungo i vari assi x,y,z opportunamenti ruotati e si vanno a
variare le direzioni di accrescimento, in modo tale da assicurare delle isotropie del
processo, che è scontato nelle lavorazioni classiche.
3)Verifica delle proprietà del materiale, ad esempio attraverso prove di resistenza e
fatica
4)Identificazione delle imperfezioni legate a polvere o al processo, capire cosa va ad
influenzare il materiale in termini di porosità, microstrutture e imperfezioni.
5)Valutazione dell’influenza sulle proprietà del materiale
6)Generazione dei dati di progetto oppure verifica di conformità dei risultati attesi.
Il countouring è un processo per definire meglio la parte limite del processo e tutte
le zone non delineate bene vanno a definire parti non perfettamente fuse e
risolidificate. È necessario effettuare strato per strato un passaggio sulla parte
esterna per dare maggior resistenza alla skin(countouring). Si va ad ottimizzare
questa parte per ridurre queste imperfezioni che danno origine a rugosità o a
possibili rotture a causa di una disomogeneità superficiale.
lettura slide.
6. Non faccio un solo campione, di solito si mettono 5 provini nelle varie posizioni.
Quando si parla di caratteristiche metallurgiche vuol dire andare ad effettuare una
sezione del provino e valutare le strutture dei grani e la loro distribuzione.