Conseguenze della valutazione: idee pratiche dei docenti universitari nelle scienze sociali.
Prefazione
Le scienze sociali e la sociologia si sono interessate del tema della valutazione dell'università sia a
partire dalla riforma Gelmini, sia da quando l’Anvur è stato incaricato di valutare le università. Ciò
ha prodotto degli effetti sugli atenei: in particolare la logica dell’Anvur è di tipo premiale (per
pochi) e ha prodotto invece un regime di risorse calanti per molte università. Il dibattito nel corso
del tempo si è articolato su due tematiche: (1) innanzitutto sull’aspetto ideologico-valoriale sotteso
alla valutazione→ ciò che viene messo in evidenza è come pratiche valutative di stampo
meritocratico vengano applicate nei comportamenti sia di soggetti collettivi (atenei) sia individuali
(colleghi), soggetti che costituzionalmente sono autonomi. La valutazione produce degli effetti
negativi anche per gli stessi docenti, che vengono sottratti dal loro ruolo di docente (didattica) per
dedicarsi al lavoro di ricerca (poiché questo è valutato). La conseguenza è che, con la contrazione
degli organici, proprio i docenti si trovano a svolgere più lavoro di didattica, mentre la loro
valutazione si riferisce a un’azione opposta. La ricerca si occupa anche dell’introduzione dei
principi di New Public Management (già con Gelmini) in ambito accademico che stravolge le
funzioni degli atenei. In particolare la ripartizione funzionario/eletto tipica della pubblica
amministrazione viene ribaltata sull’Accademia, creando un sistema fortemente gerarchico al cui
vertice risiedono il Rettore e il Direttore Generale, che coordinano due componenti separate: il
personale docente e il personale Tecnico Amministrativo, Bibliotecario e Socio Sanitario, che
dialogano solo apparentemente tramite il Consiglio di Amministrazione. L’università è stata dotata
di un potere sovrano al suo interno. Tuttavia questo tipo di approccio si rifà solo all’accountabilty
della valutazione e non al suo potenziale di learning (che è l’aspetto che interessa questolibro).
(2) Il secondo filone di studi riguarda la componente tecnica della valutazione poiché, i criteri di
cui si è avvalsa la Valutazione della Qualità nella Ricerca (Vqr) si prestavano a molteplici
interpretazioni sia perché le metriche usate producevano effetti distorsivi.
L’indagine del libro vuole mostrare le conseguenze della valutazione sulle persone e sul loro modus
operandi, sia attraverso analisi sui dati, sia attraverso interviste. La valutazione genera la capacità di
adeguarsi ai vari adempimenti che le varie riforme varate hanno determinato. Un cambiamento che
viene adottato specialmente dai giovani per sfuggire al precariato ma in generale che ha effetti su
tutti gli aspetti della vita lavorativa dei soggetti.
Un’altra questione messa in luce dall’analisi è l’internazionalizzazione che non è la volontà di
aprirsi con altri Paesi e con altre scuole di pensiero, bensì di scrivere in altre lingue tranne che in
italiano: il mezzo linguistico fa premio sul contenuto del messaggio, ossia sulla qualità del prodotto.
Introduzione
Questo libro racconta come i docenti universitari stanno vivendo le varie riforme che a partire dal
2008 hanno investito le università italiane. In particolare si sottolinea il senso di smarrimento da
parte dei docenti universitari; tale disorientamento produce pratiche di team working da parte dei
docenti mentre le misure imposte dalle norme sulla qualità degli atenei tendono a valorizzare
percorsi individualistici e carrieristici.
Negli ultimi anni i sistemi di Istruzione Superiore a livello europeo si sono evoluti sia in campo
politico culturale che in campo sociale. Un cambiamento, in Italia, è stato quello dell'autonomia
universitaria con l'articolo 33 della Costituzione (fine anni 80) e, altri cambiamenti sono stati in
mutamento economico-sociale a livello globale e logiche ispirate al New Public management
(diffusosi in Inghilterra a partire dagli anni 80).
Al centro dei cambiamenti che hanno caratterizzato le istituzioni universitarie, c’è il triangolo
autonomia-responsabilità(accountability)-valutazione. A predominare è la valutazione e le politiche
riformistiche. Ma quando la valutazione inizia ad avere un ruolo predominante? La vera e propria
fase di istituzionalizzazione della valutazione coincide con l'istituzione del CIVR (comitato di
indirizzo per la valutazione della ricerca) d.lgs 204/1998 - e nel 1999 art.3 legge 370 con il CNVSU,
l'istituzione del comitato nazionale di valutazione del sistema universitario (che opera per
indirizzare il finanziamento statale degli atenei). Le attività svolte dai due comitati hanno avuto
pochi effetti e la valutazione non è riuscita ad andare oltre. Tra il 1996 e il 2001 si diffonde il
Campus dove la valutazione dei corsi di studio assume un ruolo importante. Un processo di forte
accelerazione viene dato dall’ANVUR, Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e
della ricerca (istituito L. 286/2006 operando nel 2011 - 2016 che disciplina l’organizzazione e il
funzionamento) che, differentemente dai comitati, opera come soggetto esterno agli atenei e che ha
delle conseguenze ben più forti sia sul funzionamento e sull’organizzazione delle strutture, sia sul
loro finanziamento. In particolare finanziamento e valutazione corrono di pari passo. Per inquadrare
la ricerca da un punto di vista teorico-concettuale bisogna innanzitutto fare riferimento a due
criticità nell’ambito dell’istituzionalizzazione della valutazione:
C’è stato un deficit comunicativo sia per quanto riguarda la condivisione da parte
dell’Anvur delle procedure valutative, sia per quanto riguarda la comunicazione delle stesse
riforme. Il sistema universitario si è quindi trovato catapultato in cambiamenti radicali che
hanno reso difficile il processo di socializzazione al nuovo. In generale, secondo diversi
studiosi, ci dovrebbe essere maggiore dialogo tra Ministero, Anvur e atenei (aspetto socio-
relazionale)
Conseguenze dei processi di valutazione: aumento di incarichi di lavoro amministrativo,
prescrizioni, riunioni. Modalità che hanno favorito divisione, effetti distorsivi mettendo a
rischio la diffusione di una “cultura della valutazione”, nel senso di valutazione usata ai fini
dell’apprendimento e per produrre benefici. Si è affermata, invece, un’idea negativa della
valutazione, intesa come “cultura della prescrizione” (controllo e gestione), che non incita al
miglioramento delle performance accademiche. Il senso ultimo della valutazione non
dovrebbe essere la mera verifica bensì uno stimolo all'apprendimento organizzativo, al
miglioramento al cambiamento culturale.
Nicoletta Stame, attraverso lo schema di MacDonald, distingue la valutazione burocratica (che
segue le logiche amministrative), tecnocratica (dove prevale la tecnica e il metodo sui contenuti
delle politiche) e democratica (che ha un obiettivo relazionale e di apprendimento). Stame identifica
anche tre approcci alla valutazione: “positivista-sperimentale”, “pragmatista-della qualità” e
“costruttivista-del processo sociale”. Il terzo approccio si basa sul coinvolgimento degli attori e del
contesto di riferimento, ed è finalizzato a un uso conoscitivo della valutazione.
Ma quali conseguenze ha la valutazione sul comportamento dei ricercatori? Innanzitutto
l’opportunismo che si manifesta in azioni tra cui la gift autorship (includere tra gli autori di un
saggio uno che non ne fa parte, al fine di favorirlo) o la multiple autorship (moltiplicare il numero di
autori che partecipano allo stesso saggio, per aumentare il lavoro di ciascuno), ecc. In pratica,
l’eccesso di valutazione produce degli effetti perversi: Pitzalis afferma che uno dei paradossi della
valutazione è suscitare meccanismi di adattamento da parte degli attori sociali (es: se la regolarità
degli studenti è un indicatore di performance, allora gli attori saranno portati a fare degli esami più
semplici).
L’identità organizzativa del sistema universitario segue due tracce: 1. Le caratteristiche peculiari di
ciò che produce, ovvero il “prodotto conoscenza” e 2. La forma organizzativa e culturale che
organizza il “processo di produzione”.
Valutare la valutazione: tendenza nella produzione scientifica / 1. La critica alle finalità del
riformismo e del sistema di valutazione / 2. La critica agli aspetti operativi del sistema di
valutazione
La riforma dell'università ha stimolato in Italia un dibattito sul tema della valutazione della ricerca
ma anche della didattica, da cui sono emerse diverse criticità. Innanzitutto (1) il tono accusatorio
delle riforme, nei confronti dei soggetti colpiti, additati come improduttivi; (2) la difficoltà di
applicare un dispositivo valutativo one size per i diversi ambiti disciplinari rispetto a modalità di
raggiungimento, tempi, e natura degli obiettivi; (3) i vincoli sulle tipologie di output; (4) le modalità
di riconoscimento del prestigio, ovvero la funzione premiale della valutazione universitaria,
specialmente con l’introduzione dei ranking internazionali. Quali sono le conseguenze di
quest’ultimo punto? La determinazione di gravi squilibri territoriali e la desertificazione dell’intero
ecosistema della ricerca. Questo approccio tende anche a favorire pratiche di privilegio e di
sfruttamento, a svantaggio dell’arricchimento culturale.
Si individuano due nuclei tematici che evidenziano due diversi atteggiamenti critici rispetto alle
riforme in atto:
1. La critica alle finalità del riformismo e del sistema di valutazione: uno degli obiettivi delle
recenti riforme, in particolare dalla riforma Gelmini è quello di migliorare la capacità
operativa e l'impatto della ricerca attraverso l'autonomia. Ma questo livello di autonomia
delle università invece che essere aumentato viene compresso a favore di uno stato che
utilizza la valutazione come strumento di governo dell'università: lo Stato da controllore
diventa valutatore, non è il guardiano dell’educazione bensì il garante dell’università per il
Mercato. A questo scopo se ne aggiungono altri paralleli come la finalità ideologica,
derivante dalla necessità di utilizzare la valutazione come elemento che bilancia l’assenza
della “mano invisibile”, tipica delle dinamiche di mercato. In questa prospettiva lo Stato
assume una fisionomia neoliberale in cui la valutazione è utilizzata come “tecnologia di
governo” che unisce la funzione di controllo a quella di valorizzazione economica. Questo
aspetto era già stato oggetto di studio in Gran Bretagna poiché il sistema universitario
britannico che è stato il primo a mettere in atto dispositivi di valutazione della ricerca di tipo
amministrativo (periodo Thatcher).
2. La critica agli aspetti operativi del sistema di valutazione: in questo caso l’oggetto della
critica non è la valutazione in sé, bensì la sua torsione manageriale e quindi la sua
applicazione per fini diversi da quelli legati alla formazione e alla ricerca. Secondo Vincent
de Gaulejac bisogna distinguere la valutazione “prescrittiva” – che usa indicatori ritesi
neutrali ma che in realtà sono prescrittivi - da quella “democratica” – che propone spazi
collettivi di riflessività per avere il confronto con gli attori coinvolti nella produzione di
risultati. [Dibattito sulla bibliometria secondo me alquanto inutile, vedete voi]. In relazione a
questo secondo (2) punto emergono diverse criticità: la modalità di selezione dei prodotti
scientifici e i meccanismi di pubblicazione. In generale si sottolinea una tendenza a ricadere
su temi mainstream per ottenere un maggiore spazio editoriale; questo comporta più
pubblicazioni (quantità) ma non un aumento qualitativo (per il motivo sopracitato e quindi a
causa di pratiche opportunistiche).
La situazione italiana non è un caso a sé ma va considerata nel più generale contesto europeo.
Rientra in questo ambito il Processo di Bologna che entro il 2010 aveva l’obiettivo di realizzare uno
Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore basato su principi condivisi, in particolare promuovendola
cooperazione Europea nell'assicurazione della qualità. Questo ha portato poi a elaborate delle
politiche europee di valutazione della ricerca che hanno preso forma nelle differenti agenzie
nazionali di valutazione dell'università come l’Anvur in Italia, l’Aéres in Francia, l’Aneca in
Spagna, la Nvao in Olanda A ciò si aggiunge una abdicazione della sovranità politica in maniera
dell’istruzione superiore che ha comportato l’affermazione di un modello unico e standardizzato di
ricerca gestito secondo i principi del New Public management: Accountability, assicurazione della
qualità, valutazione della ricerca e competizione tra le strutture accademiche, sono i capisaldi di
questo tipo di governance neoliberale dell'università.
3.1 Il caso britannico, analisi di Ian McNay: il Rae (Research Assessment Exercises) trasformato
in Ref (Research Excellence Framework) è il dispositivo britannico di valutazione a cui si ispira il
modello italiano Vqr (solo nel Regno Unito e nel nostro Paese si valuta la qualità delle strutture
accademiche attraverso la valutazione scientifica dei ricercatori), la cui attività (del Rae) inizia nel
1986, un’attività promossa dal governo della Thatcher. Il tutto si inseriva nell’ambito di una politica
basata sul rapporto fra qualità e costo nei servizi pubblici (quindi anche insegnanti e medici) e sul
contenimento dell’autonomia dei professionisti e su una maggiore accountability dei fondi pubblici.
L’University Grants Committee riteneva inizialmente che i ricercatori impiegassero 1/3 del loro
tempo nella ricerca e le prime valutazioni servivano a verificare tale credenza che si rivelò errata.
McNay nel 1997 ha diretto per conto del Consiglio di finanziamento dell’istruzione superiore per
l’Inghilterra (Hence), la prima grande ricerca sul campo, dedicata ad analizzare l’impatto del Rae su
aspetti centrali della vita universitaria. McNay ha organizzato dei focus group attraverso i quali sono
emersi gli effetti negativi del Rae: pubblicare molto in tempi brevi (short termism), la
marginalizzazione dei processi interdisciplinari, incremento di atteggiamenti individualistici e
competitivi, la mortificazione del personale accademico. Non solo, nel Regno Unito la valutazione
si è caratterizzata per i continui cambiamenti delle procedure e delle caratteristiche dei dati. Tuttavia
non solo i mezzi sono stati più volte distorti ma soprattutto i fini, la mancanza di obiettivi chiari:
prima un obiettivo di finanziamento (che serviva a creare degli istituti di élite) poi il miglioramento
della qualità della ricerca che, come sottolinea McNay, non è menzionato in nessun documento
ufficiale. Nel 2014 è stato introdotto il criterio dell’”impatto”, teso a modificare il comportamento a
livello istituzionale, dipartimentale e individuale, mantenendo al contempo l’aspetto del
finanziamento e della competizione, centrale nel New Public Management. Si è arrivati al gioco a
somma zero, poiché i finanziamenti per i livelli di qualità inferiori si è rimosso o ridotto. Un’altra
discussione è avvenuta in merito ai criteri di certificazione della qualità, se attraverso metriche
individuali (che sono indicatori semplici) o attraverso la peer review (la revisione dei pari, degli
esperti del settore in quella materia). Si è constato che le due tecniche non fornivano risultati
equivalenti. Inoltre, per quanto riguarda le diverse pratiche valutative si possono riscontrare diversi
risultati sia sulla chiarezza dei fini sia sul grado di accettazione e rilevanza dei mezzi per cui si
creano 4 situazioni: (1) mezzi e fini sono entrambi chiari (era l’ipotesi del consiglio di
finanziamento); (2) fini coerenti, mezzi no (tipici dei cambiamenti nei modelli di finanziamento);
(3) fini controversi, mezzi fiduciosi (“controcondotta” delle università tradizionali, che si sono
opposte al criterio dell’impatto, affinché la qualità venga considerata nell’ambito
dell’organizzazione); (4) no accordo tra fini e mezzi, garbage can (piani che cambiano di continuo,
incerti, contraddittori = Regno Unito).
McRay ha poi osservato, intervistando un gruppo di 60 ricercatori, che effettivamente la valutazione
non produce quasi mai collegamenti tra la ricerca stessa e la didattica, gli utenti, il trasferimento
delle conoscenze, lo sviluppo economico. Il rapporto di ricerca per l’Hence condotto da McRay
affrontava motivi di preoccupazione riconosciuti dal Consiglio ma ancora irrisolti. Tra questi spicca
l’effetto dannoso sulla didattica: il finanziamento alla didattica proveniva solo dall’aumento degli
studenti ma solitamente una didattica di qualità non produce l’immediata promozione. Il governo ha
introdotto il Tef (Teaching Excellence Framework) che dovrebbe stimolare maggiori collegamenti
tra didattica e ricerca ma che praticamente porta la didattica a diventare sterile e funzionale solo alla
ricerca, che spesso non incontra i bisogni degli studenti e dei datori di lavoro. Anche il Tef utilizza
delle metriche ma anche queste non si rivelano misure dirette di qualità ma dipendenti da fattori
fuori dal controllo dell’università. Tutte misure, queste, che hanno portato a una chiusura dei
dipartimenti di insegnamento e una riduzione del personale specializzato.
Altre conseguenze si sono avute sulla ricerca: sono stati costruiti dei panel di valutazione per
giudicare la ricerca per gruppi di discipline presumibilmente affini e ciò ha portato molti ricercatori
che lavoravano su progetti multidisciplinari a disconnettersi dai propri team. McRay sottolinea
come ci sia stata una mancanza di impegno nel migliorare la capacità di ricerca: diminuisce la media
delle pubblicazioni, gli studenti di dottorato a causa degli elevati prezzi delle università
diminuiscono e soprattutto la qualità di ricerca si è abbassata a causa della competizione, che ha
portato alla produzione di ricerche poco originali e poco innovative (conformità: gli accademici
studiano i gruppi dai quali saranno valutati e fanno di tutto per adattare la propria attività alle loro
preferenze. Ne consegue anche “l’indecisione” su quale gruppo di valutazione scegliere). Tutte le
conseguenze sopracitate sono una diretta conseguenza della concentrazione di finanziamenti solo su
università di élite. La conformità e l’isomorfismo sono dimostrabili anche dalla tipologia di
pubblicazioni: aumentano gli articoli e diminuiscono le ricerche del settore tecnologico, e delle
scienze sociali, mentre aumentano quelle relative all’economia; si escludono, inoltre, le ricerche in
lingue diverse da quella inglese (mancanza di diffusione e trasferimento delle conoscenze). Inoltre,
McRay ha constato come ci siano dei periodi fissi di pubblicazione = diminuzione delle ricerche
nate dalla curiosità.
Ci sono effetti anche per il personale accademico: quelli giudicati con 2 stelle possono ambire a
contratti di sola didattica; si reclutano più “star” della ricerca che dovrebbero aiutare nel lavoro,
sfavorendo i giovani ricercatori (questa tattica tuttavia non ha quasi mai un buon esito economico
perché le “star” spesso pensano a far fruttare solo la propria carriera). Gli accademici e i ricercatori
sono però restii a cambiare il proprio comportamento. Ciò vale soprattutto per gli impiegati nelle
professioni (es: il personale sanitario) che dovrebbe concentrarsi anche sull’attività di ricerca. In
generale McRay ha individuato 4 tipi: (1) i fiduciosi/assertivi (bravi a stabile il proprio programma e
ben “posizionati”); (2) i sereni/autonomi (buon’agenda ma in unità di basso livello senza
finanziamenti); (3) i controllati/oppressi (temono di perdere la posizione elevata); (4) i positivi
(coloro che effettivamente cambiavano per adattarsi alla valutazione). Spesso, tutti si conformano.
[Altro problema: Brexit. Molti ricercatori non sono inglesi e sono stati esclusi dalle offerte
transcontinentali] Chi ha un ruolo determinante nel conformismo sono i manager intermedi poiché
“l’agenda della ricerca è definita da persone diverse dei ricercatori stessi (manager)”. In generale i
manager tendono a prepararsi al “gioco” del Ref (approccio di agenzia) piuttosto che concentrarsi
sulla pianificazione strategica a lungo termine della ricerca e sul suo sostegno (stewardship).
L’analisi di McRay si conclude con una speranza: il rapporto Stern sulla valutazione ha evidenziato
criticità e benefici del Ref, in modo da cambiarlo; per farlo dà alcune raccomandazioni: un
approccio più flessibile, contestuale all’ambiente, l’unione con altri dati. Ancora niente per quanto
riguarda il miglioramento della qualità o allo sviluppo dei nuovi ricercatori.
3.2 Il caso francese, analisi di Bénédicte Vidaillet: Bénédicte Vidaillet, descrive la valutazione
dell'università francese. Anche nel caso delle università francesi un ruolo fondamentale è stato
giocato dai valori e principi del New Public Management. La Vidaillet ha riscontrato delle
problematicità presenti anche in Italia come il ridimensionamento dell’autonomia delle università, i
costi economici ed umani della burocrazia legata alle procedure valutative, il crescente divario tra le
università più accreditate e le università meno prestigiose.
Come è accaduto in altri paesi europei, anche in Francia il sistema universitario non è sfuggito al
nuovo spirito di valutazione degli anni 2000. Le università pubbliche sono state valutate in base alla
competitività, la produttività, l’eccellenza e il successo; la valutazione influiva in questo modo
sull’allocazione delle risorse, in funzione del raggiungimento di obiettivi che, appunto, mette in
competizione gli atenei. In questo contesto il ruolo centrale della valutazione è stato accompagnato
da un aumento delle entità da valutare e dei livelli da sottoporre a valutazione: atenei, dipartimenti,
diplomi di laurea, laboratori di ricerca, progetti ricerca, ricercatori. La valutazione universitaria ha
comportato sviluppo di norme, regole e procedure formali (sia da governi di dx che sx) che hanno
avuto effetti sulla trasformazione dell’università e nel ruolo della ricerca. Principalmente possiamo
fare riferimento al Processo di Bologna (vedere inizio cap. 3) e la Strategia di Lisbona (fare
dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva al mondo).
I provvedimenti che maggiormente hanno colpito le politiche pubbliche in Francia dal 2000 sono: la
Legge organica sulle leggi finanziarie (Lolf), indirizzata verso il New Public Management; La
revisione generale delle politiche pubbliche (Rgpp) e la Modernizzazione dell’azione pubblica
(Map), entrambe riferite al “contenimento della spesa pubblica”. In particolare tre dispositivi hanno
avuto un ruolo centrale nell’applicazione di queste pratiche:
Anr (agenzia nazionale per la ricerca, 2005): finanzia direttamente gruppi di ricerca pubblici
e privati sotto forma di contratti di ricerca a tempo determinato, e sostituisce gli incentivi
ministeriali, in modo che l’Anr sia completamente autonoma rispetto ai ministeri. Si nota la
volontà politica di indirizzare una parte significativa del finanziamento della ricerca verso un
sistema che mette le strutture in forte competizione. Con l’Anr la politica di finanziamento
diventa molto selettiva: i membri della commissione possono scegliere solo il 10% dei
progetti presentati, scelti attraverso degli indicatori per “giustificare” l’uso di fondi concessi.
Aéres e poi Hcéres (agenzia di valutazione della ricerca e dell'università, 2006): è un’agenzia
indipendente e responsabile della valutazione degli atenei, dei corsi di formazione e dei
gruppi di ricerca. Fino sua creazione, la valutazione dei laboratori universitari o delle
organizzazioni di ricerca era gestita da commissari disciplinati, eletti dagli accademici, i cui
metodi di valutazione non erano standard per ogni disciplina. Con l’Aéres avviene proprio
questo: la valutazione è stata centralizzata e standardizzata, è stata affidata a esperti nominati
dal ministero piuttosto che a colleghi eletti. Ciò porta all’elaborazione di classifiche che
vengono rese pubbliche Questa agenzia valuta, inoltre, l’attività di gruppi di ricerca e
ricercatori sulla base di un numero limitato di indicatori ovvero la percentuale di ricercatori
che pubblicano all'interno delle strutture di ricerca, utilizzando elenchi e classifiche di
pubblicazioni, in particolare riviste, a tutti i settori scientifici. In questo modo alcune
discipline delle scienze umane finora estranee a tali pratiche, si trovano soggette a questi
nuovi strumenti. Con la trasformazione in Hcéres di Hollande, i rating scompaiono tutta via
ciò non ha stravolto i compiti di base.
Lru (legge sulle libertà e responsabilità delle università, 2007, Sarkozy): ha tre obiettivi:
rafforzare l'attività dell'università, migliorare la governance delle università trasferendo a loro
la gestione finanziaria che fino ad allora era assicurata dallo Stato, rafforzando le prerogative
dei rettori e migliorare la ricerca universitaria e la sua visibilità internazionale. Questa
autonomia di gestione tra Stato e atenei rafforza la centralità della valutazione dal momento
che lo Stato trasferisce i fondi a seconda delle performance. In linea con questa legge nel
2009 si è avviata la riforma dello status del docente, fondata su due punti chiave: la
valutazione individualizzata degli accademici per quanto riguarda le attività di ricerca,
didattiche e amministrative (su base sistematica da parte del Cnu – Consiglio Nazione delle
Università); e la modulazione del servizio che è un nuovo diritto dei rettori, ovvero modulare
l’offerta del docente in base alla performance fatta risultare nella ricerca (più sei
underperformed più il tuo carico di lavoro aumenta). Misura che è andata incontro a proteste
e che, di fatto, ha smesso di essere rilevante.
La generalizzazione della valutazione è stata realizzata a scapito della comunità accademica anche
se formalmente in nome della sua autonomia e indipendenza. Molti osservatori hanno fatto
riferimento a Foucault e considerano la valutazione come una “arte di governo liberale” che si
esprime sul modo di lavorare, influenza agli attori coinvolti a scapito della produttività individuale e
della qualità, inoltre monitora e controlla, praticamente un sistema di sorveglianza. Quali sono i
cambiamenti pratici? (1) L’aumento di pressione sugli attori, pilotandoli attraverso indicatori di
gestione e obiettivi quantificati che lasciano loro solo apparentemente la libertà di rispondere a
questi vincoli poiché il non adattamento produce un deficit a livello finanziario. In poche parole la
responsabilità e loro ma il contesto è fortemente condizionato. (2) L’esternalizzazione della
valutazione: dalla peer review alla presa in carico da enti distanti dai luoghi in cui si svolgono le
attività da valutare (quelle sopra), con esperti molto lontani dall'approccio disciplinare e dalla realtà
sul campo che producono regole, norme non adatti alla specificità delle situazioni. Ciò ha portato
un’ulteriore conseguenza: la fusione di università e dipartimenti. (3) Le norme e gli obiettivi che
servono a guidare il sistema dell'università e della ricerca non sono contenuti stabili e chiari ma
sono in continua evoluzione. Questo porta a uno stato generale di confusione e perplessità degli
attori che non riescono a definire in modo preciso i loro obiettivi e le loro priorità. Ma il potere si
manifesta e sottomette gli attori anche così: lasciando che l’interpretazione o il significato di
obiettivi dichiari sia quanto più arbitrario possibile.
Un altro effetto importante di tutte queste riforme è stato creare una concorrenza diffusa su tutti i
livelli del sistema università: le differenze tra gli atenei sono aumentate e hanno infranto il principio,
almeno formale, del sistema francese: cioè università equivalenti su tutto il territorio in modo
permanente. Il sistema universitario francese, da un lato è costituito da università d’élite, ben
finanziate, ben valutate, con rinomati centri di ricerca, ben inserite nel mondo del lavoro soprattutto
per la classe medio-alta mentre, all'altro polo ci sono atenei più modesti e spesso meno attrezzati.
Ovviamente le classifiche universitarie alimentano l'attrazione del pubblico desiderato cioè studenti
stranieri, dottorandi, permettendo alla tipologia accademica dominante di catturare risorse sempre
maggiori e di rafforzare l'eccellenza della ricerca scientifica mentre le università di secondo tipo
cercano di mantenere l'offerta formativa a rischio di peggiorare la loro situazione. Questo produce
un mondo del lavoro sempre più precario.
Un altro effetto molto importante della valutazione del mondo accademico francese sono i costi e il
tempo relativi alle attività di valutazione: cioè la definizione e lo sviluppo di numerosi sistemi,
procedure e protocolli di valutazione; l'attuazione del sistema di valutazione che coinvolgono non
solo i valutatori ma anche i valutati tramite presentazione di relazioni, partecipazioni ad
autovalutazioni, redazione di relazioni ecc. che sottraggono tempo alla didattica; i tempi dedicati
alla valutazione poiché si moltiplicano le occasioni per produrre esercizi di valutazione; infine, il
tempo speso a preoccuparsi di come apparire al meglio per corrispondere a ciò che ci si aspetta.
In Francia lo sviluppo del finanziamento della ricerca a progetto, l'incentivo ossessivo a pubblicare
su riviste (ad alto fattore di impatto) ha contribuito a orientare il tipo di ricerca intrapresa e ciò è
vero soprattutto nell’ambito delle scienze umane, della letteratura e dell’arte. Ancora una volta si
tende a temi mainstream e a metodologie quantitative, alla svalutazione delle riviste in lingua
francese a favore di quelle internazionali (quindi trascurando temi locali). [Pezzone su come queste
pratiche valutative in certa misura siano state adattate ad alcune discipline, specialmente nell’ambito
delle scienze sociali, della letteratura, dell’arte e della storia poiché giudicate incongruenti rispetto
alla materia affrontata, specialmente per le pubblicazioni. Per quanto riguarda l’economia, invece, le
pratiche valutative sono state “abbracciate” in quanto favoriscono le correnti ortodosse di pensiero:
economia quantitativa e matematica e non calata nel contesto sociale e storico. In generale
comunque la Francia rispetto al New Public Management ha sviluppato delle reazioni eterogenee]
Capitolo 7: essere docenti universitari oggi, idee, valori e comportamenti
Attraverso alcune interviste emerge che l'attività del docente si è trasformata in concomitanza con
l'introduzione del nuovo sistema di valutazione dell'università e della ricerca messa a punto
dall’Anvur: l’homo academicus è cambiato sia a livello relazionale con colleghi e con l’istituzione
stessa sia nel senso stesso del lavoro accademico. Si è passati da un approccio “tradizionale” a uno
“burocratico” che ha cambiato la personalizzazione della relazione, sempre più strumentale e
utilitaristica.
Gli effetti della valutazione si ripercuotono su tutti gli aspetti della vita lavorativa dei soggetti: il
percorso di formazione, le progressioni di carriera, di relazioni con i colleghi. Una figura centrale
dell'iter formativo è quella del maestro che nel senso positivo di “mentore” si intenda come guida
esperta che suggerisce il cammino all'allievo mentre una concezione negativa di “protettore” in
grado di esercitare la propria influenza a vantaggio dei collaboratori. Nel primo caso definiamo il
modello come “tradizionale” dove il rapporto tra maestro e allievo è governato da regole ben precise
da una parte e dall'altra: il maestro forma l’allievo e l’allievo accetta di sottoporsi a un fermo
controllo qualitativo poiché è inserito in un percorso di apprendistato. Utilizzando le parole di
Weber si tratta di una “valutazione ante litteram” accostata al concetto di “etica della responsabilità”
poiché il maestro è responsabile dei risultati dell’allievo che deve rispettare a sua volta i parametri
comunemente ritenuti validi, altrimenti metti a repentaglio la reputazione stessa del maestro, ed è
proprio questo che determina la trasparenza. Questo modello si chiama “judgmental”: valutazione
da parte del maestro di tipo soggettivo ma la cui componente di discrezionalità e quindi di margine
di errore è resa minima per via dell’esperienza e dell’estrema familiarità dell’accademico con il
campo di studi entro il quale esercita la propria valutazione. La valutazione “judgmental” si regge
anche con i riscontri continui che il maestro ha nei confronti dell’allievo; il maestro può così
suggerire ai giovani collaboratori il percorso più adatto in relazione alle inclinazioni e capacità del
singolo. Questo ruolo di indirizzamento può essere molto utile per aumentare le chance di successo
del giovane e non è detto che siano necessariamente in ambito accademico. Il maestro si rileva un
valido e utile supporto soprattutto nella fase iniziale dove il giovane studioso costruisce una propria
identità sul piano della ricerca; la sua figura sarà utile sia come supporto strategico cioè in grado di
suggerire allievo tematiche di ricerca appropriate per le sue inclinazioni e originali, sia come
supporto formativo, per arricchire il proprio bagaglio di conoscenze. Questo modello tradizionale si
è dovuto confrontare prima con un aumento della domanda (col tempo è divenuto più facile studiare
in università) e con una diminuzione della disponibilità dell’offerta per via della riduzione dei fondi;
successivamente con i nuovi sistemi di valutazione attuali che ridefiniscono la funzione svolta dal
maestro. Cosa cambia? Il luogo deputato alla valutazione che non è più interno alla scuola ma
gestito da un organo terzo, l’Anvur; i nuovi parametri costituiti da valori-soglia inoltre spostano il
peso della valutazione da un tipo qualitativo a uno quantitativo. Il maestro tradizionale lascia il
posto al maestro-manager, che deve fornire agli allievi una precisa strategia d’azione nella
costruzione di un curriculum che sia funzionale ai parametri da rispettare. Oggi il buon maestro è
colui che consente di “aprire porte”: occorre che i maestri capiscano che il loro obiettivo non è
proteggere gli allievi sottraendoli alla valutazione esterna, ma allenarli nel modo più duro possibile
al confronto esterno. A cambiare non è solo il contenuto nella relazione tra maestro e studente ma la
relazione stessa che ha sempre di più il rischia di assumere logiche utilitaristiche e strumentali. Il
maestro passa da essere “valutatore” a “valutato” e ciò porta a ripercussioni sulla percezione che i
maestri stessi hanno di sé: oggi le giovani generazioni si aspettano dai maestri qualcosa che questi
non sono in grado di dare perché sono cresciuti in ambienti diversi e quindi il maestro sviluppa una
sorta di senso di inferiorità e di disagio.
Tuttavia non tutti gli intervistati sono a favore del modello tradizionale poiché essenzialmente
accomuna la valutazione al giudizio ma “il lavoro scientifico è un lavoro in cui in linea di principio i
risultati devono essere valutabili da una comunità più ampia e non può essere solo il maestro a
esercitare questa prerogativa”. Altri sottolineano le criticità di entrambi i modelli, soprattutto in
merito di responsabilità/accountability: nel modello tradizionale non si esercitava quasi mai
l’assunzione di responsabilità pubblica (tendenza all’autoreferenzialità da parte dei docenti) e nel
modello valutativo, invece, la risposta al problema della responsabilità non è efficace, poiché è un
sistema burocratizzato che porta a delle distorsioni del processo di valutazione. Entrambi i modelli,
insomma, presentano problematiche (nel caso della valutazione soprattutto in riferimento al suo
inserimento in un sistema accademico fortemente instabile a causa delle numerose riforme): il senso
di disorientamento dato dalla “disintermediazione” della valutazione, l’approdo all’individualismo e
all’utilitarismo - sia per una questione di competitività, ovvero di sentirsi adeguato rispetto ai
colleghi, sia per una questione di scarsità delle risorse, ovvero di posti e dottorati.
Per entrare nel mondo moderno della valutazione occorre innazitutto avere un orizzonte valoriale
condiviso senza, tuttavia, inibire la creatività e il bisogno di conoscenza dei ricercatori. Secondo
loro bisognerebbe trovare un punto di equilibrio. Certo è che l’homo academicus è cambiato nei
comportamenti, nelle relazioni con gli altri e con se stesso [in questo caso si parla di effetto
etopoietico, nel senso che crea tra gli universitari un nuovo ethos e un diverso modo di rapportarsi a
alla propria soggettività]. In un’intervista di uno dei progettisti del primo sistema di valutazione
dell’Anvur si trovano diversi spunti di riflessione: (1) la ricerca originale e innovativa (blue-skies
research) è un lusso riservabile a pochi, poiché richiede un lavoro maggiore con risultati che
arrivano spesso tardi. Nell’epoca precedente a ogni ricercatore si chiedeva di mettersi nelle
condizioni di provare a imboccare nuovi percorsi di conoscenza in qualsiasi campo del proprio
settore scientifico e lo si dotava di risorse materiali e immateriali per tentare di farlo; oggi vi è la
necessità di tener conto degli indicatori stabiliti dal sistema di valutazione e questo scoraggia
l’elaborazione di forme di pensiero creative e originali. Ciò che cambia è essenzialmente il
momento in cui si capisce che non si è in grado di produrre una ricerca originale: prima era a
posteriori, dopo i tentativi, oggi è a priori se i risultati si raggiungono non è più a causa della
valutazione ma nonostante essa. (2) i ricercatori devono avere una “doppia vita”: quella per
assecondare gli standard del sistema di valutazione e quella finalizzata all’attività scientifica
propriamente intesa cioè tentare di ampliare le frontiere della conoscenza. Il paradosso si raggiunge
quando il sistema contemporaneamente stimola progetti di ricerca occasionali, in tempi brevi ma al
contempo tende a premiare e a valorizzare i programmi di ricerca a lungo termine, poiché sempre
più rari.
Non mancano però delle rivendicazioni di resistenza che invocano il senso del fare ricerca, ovvero
produrre conoscenza, essere di “utilità sociale”, a favore di un meccanismo che costruisce la
reputazione su numero di pubblicazioni e valori quantitativi (slittamento di significato). Un altro
paradosso riguarda il concetto stesso di responsabilità: com’è possibile affermare che il sistema
valutativo si basi sull’accountability se effettivamente induce i ricercatori a disinteressarsi
dell’effetto pratico nella società del lavoro di ricerca? La valutazione burocratica è avvertita come
qualcosa di estraneo alle pratiche dei ricercatori e al loro orizzonte di attesa, qualcosa che riguarda
non gli ambiti del sapere ma quelli gestionali e che assume le forme di controllo sociale più che di
valutazione scientifica. In generale comunque, il prezzo non è uguale per tutti, dipende dalla
posizione nella scala gerarchica dell’università. Per un professore di prima fascia sarà più semplice
proseguire un lavoro di ricerca senza essere influenzato, per un semplice ricercatore no. Insomma se
prima il mondo accademico era impregnato di privilegi poiché ogni docente aveva la totale
autonomia sulle proprie scelte e quindi su chi portare avanti (privilegio baronale), oggi questa
categoria specifica di privilegi non c’è più ma se n’è affiancata un’ulteriore. L’obiettivo non è
tornare indietro ma trovare soluzioni per i problemi attuali.
Uno degli obiettivi chiave alla base delle policy universitarie introdotte è il concetto di
internazionalizzazione della ricerca italiana, ovvero il misurarsi e il competere con quelle estere. In
particolare dall’analisi emerge che il concetto stesso di internazionalizzazione è variegato ma anche
vago; la sua interpretazione è vissuta come un fattore problematico e ha degli esiti contraddittori. In
questa situazione ambigua e indefinita si creano delle zone d’ombra, dov’è facile cadere nella
discrezionalità, che si distaccano dai principi di accountability e di meritocrazia su cui formalmente
si basano le riforme degli ultimi anni.
Ciò che cambia in primis è il modo di percepire la globalizzazione. Solo qualche anno fa, del mondo
globalizzatosi parlava in termini di “connettività complessa” (vita sociale scardinata dai confini
geografici) o di “cosmopolitanizzazione dei mondi vitali” (riferimento a un’identità che si
arricchisce attraverso l’incontro con l’alterità), definizioni che comunque rispecchiavano dei
mutamenti culturali che sembravano andare in una direzione di maggiore apertura e pluralità. Oggi
quel tipo di globalizzazione definita come apertura alla differenza ha ceduto il passo
all’internazionalizzazione, ovvero la riduzione di tutte le nazioni a una sola ideale nazione
planetaria. L'obiettivo è quello di omogeneizzazione, attraverso un dispositivo di governamentalità
fatto di ranking (classificazione)*, vincoli internazionali, metriche e griglie di valutazione.
Da questa premessa si deduce come negli ultimi anni le principiali politiche accademiche abbiano
sposato il modello della competizione generalizzata come modello di sviluppo. I ranking
internazionali, ad esempio, tendono a generare un unico modello di ricerca e istruzione globale e
inducono le università a condizionare le specifiche esigenze sociali, educativa e culturale dei loro
territori (standardizzazione): tutti i sistemi di classificazione presuppongono che si confrontino con
entità simili, ma ciò non è vero per l’ambiente universitario. Questi sistemi di classificazione
rendono l’idea che solo ciò che possa essere contato, conti realmente, in riferimento agli indicatori
più semplici che però non sempre sono i più adatti a valorizzare diversi contesti accademici. I
ranking internazionali non tengono conto di questo aspetto, riducendo le differenze di qualità (che
sono un insieme di fattori territoriali, di tradizioni culturali) a variazioni di quantità con il risultato
che le istituzioni che prima erano considerate “ultime”, sono legittimate da questi stessi sistemi a
essere definite come tali, con ben poche possibilità di miglioramento (colonizzazione culturale).
Questo perché è più probabile che chi già possiede i mezzi o che sia ben inserito nel contesto
organizzativo, riesca a rispettare gli indicatori considerati pertinenti allo scopo di salire di posizione.
L’internazionalizzazione dei sistemi di ricerca, attraverso i ranking, non si limita a fornire
misurazioni oggettive della realtà, ma plasma la realtà stessa, costruendo il senso della normalità e
definendo le aspettative sociali (modello di fabbricazione del reale di Michel de Certeau); un
modello che ha risvolti più deleteri specialmente per discipline non “calcolabili”.
Fin dai primi esercizi di valutazione il criterio dell’internazionalizzazione è stato sempre criticato
poiché poteva essere sottoposto a diverse interpretazioni, le quali potevano a loro volta condurre a
una valutazione “sbagliata” delle ricerche. Ad esempio si pensa che un prodotto di ricerca sia di
elevata qualità solo perché abbia raggiunto – non importa come e non importa in che modo si
documenti la cosa – una diffusione internazionale. Ciò non dovrebbe avvenire perché il lavoro di
ricerca dovrebbe essere valutato in base all’impatto sul piano della conoscenza (non si può dire che
tutti i prodotti internazionali abbiano portato impatti significativi sulla conoscenza). Non solo il
ricorso all’internazionalizzazione induce ad altre due problematiche: la semplificazione dell’attività
di lettura e analisi e valutazione dei testi; fondi sempre minori da parte dello Stato, che non possono
essere compensati – almeno non per tutti gli atenei – da concorsi per progetti di ricerca
internazionali.
Le interviste svolte in merito all’internazionalizzazione hanno messo in luce ulteriori problematiche:
(1) prima avere un profilo di ricerca internazionale, in particolare nel campo delle scienze sociali,
non era considerata una risorsa pregiata, né un fattore di vantaggio per la carriera; (2) prima il
ricercatore poteva lavorare sul suo campo di ricerca prediletto, oggi deve trasformare il suo lavoro
in relazione a occasioni proficue, per essere più competitivo: l’homo academicus non è più un
ricercatore vero e proprio bensì un imprenditore della ricerca. (3) internazionalizzazione come
fattore estrinseco alla ricerca stessa: prima le pubblicazioni erano tendenzialmente nazionali poiché
le conoscenze dei prodotti scientifici erano prima di tutto un motivo di “vanto” nazionale, oggi è il
contrario. Inoltre allo stesso tempo, lo studioso straniero non deve esserci perché è previsto dei
criteri di valutazione ma perché una comunità scientifica che produce risultati validi per sua natura,
coinvolge studiosi stranieri non deve essere una causa ma l’effetto. L'internazionalizzazione
cessa di essere un mezzo ma diventa un fine, e cessa di essere un buon indicatore per questo motivo:
si dovrebbe utilizzare la dimensione internazionale per fare una ricerca migliore non coinvolgere
soggetti internazionali affinché la tua ricerca appaia migliore. (4) effetti deleteri sulla scelta della
lingua (le lingue non ritenute valide per la letteratura scientifica diventano “dialetti”) e per la scelta
dei temi di ricerca facendo trascurare i temi di interesse locale, a vantaggio di progetti
internazionali. Effetti negativi peggiori ancora una volta se si pensa alle scienze sociali: mentre ha
senso, ad esempio, per i medici di tutto il mondo “parlare” una lingua comune, non ha senso che una
ricerca sociologica non sia scritta nella lingua della società di riferimento della ricerca. La
conseguenza è che i temi diventano mainstream e perdano la loro portata innovativa. (5) I costi
materiali e immateriali che ogni accademico deve sostenere e quindi le ineguali condizioni di
accesso, spesso condizionate anche da comportamenti opportunistici.
Nel pratico, ovvero nel processo di valutazione da parte delle commissioni (ad esempio quella
dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, Asn), come viene interpretato il criterio
dell’internazionalizzazione? A volte come “collocazione”, “circolazione”, “audience” dei prodotti
scientifici oppure in termini di contributo all’”avanzamento della disciplina in ambito
internazionale”, il che significa immaginare, poiché non si possiedono i dati, quanto quella ricerca
sia stata apprezzata o sia circolata in ambito internazionale. Inoltre si analizza una tendenza a tenere
conto del numero di pubblicazioni internazionali sul numero totale delle stesse come se quantità =
qualità. Questo porta a considerare il ricercatore le cui pubblicazioni siano avvenute su riviste
nazionali, anche se di prima fascia, non adeguato. Un candidato che invece ha raggiunto l’idoneità
recherà scritto che i suoi articoli si rivolgono a un’“audience internazionale”, al contrario, invece,
che “sono basati su campioni di raggio nazionali”. Anche per quanto riguarda la lingua si tende a
preferire quella inglese (non solo rispetto all’italiano ma anche a tutte le altre lingue) perché,
nonostante la circolazione internazionale, le ricerche di questo tipo non si collocano
internazionalmente. I giudizi delle commissioni in generale, quindi, si presentano piuttosto
discrezionali e non oggettivi.
L’analisi si conclude con un excursus sulle conseguenze del criterio dell’internazionalizzazione per
quanto riguarda le ricerche condotte dalle scienze sociale. In quanto calate in una specifica società, è
naturale che si occupino di temi locali e non mainstream ma che non per questo siano di bassa
qualità. L’eccessivo peso dato all’internazionalizzazione come criterio qualitativo rischia di portare
alla creazione di ricerche sociologiche sterili, che non hanno nulla da dire. Bisogna quindi dare il
giusto peso all’internazionalizzazione, anche in riferimento alle diverse discipline, in modo che non
diventi semplicemente una moda o un mero strumento di controllo.