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Altri esempi di questo nuovo tipo di accordi tra stilista e industria furono:
- La società tra Ferré e Mattioli, che era alla pari però rese nota al
pubblico solo la griffe Gianfranco Ferré.
- La società Gianni Versace srl che affidò la produzione a più industrie
specializzate, scelte in base al settore merceologico che non avevano
parte nella società.
Altre aziende, come Max Mara, continuarono ad avere un tipo diverso di
rapporto con gli stilisti, nel quale a prevalere era il marchio dell’azienda
produttrice e non il nome dello stilista, che rimaneva perlopiù nascosto al
pubblico.
LO SVILUPPO DEL PRÊT-À-PORTER
ITALIANO – L’INDUSTRIA
Il modello produttivo decentrato, caratterizzato dalla sinergia di piccole
aziende concentrate in distretti era adatto a soddisfare le necessità di
velocità e qualità del mercato.
Il lavoro di tutta la filiera doveva essere razionalizzato e coordinato dallo
stilista-progettista.
Per la realizzazione delle collezioni di prêt-à-porter era necessario
quindi rivolgersi alla manifattura tradizionale ma anche a centri
capaci di innovazione di prodotto che potevano venire incontro alle
nuove esigenze del mercato.
La dimensione ridotta di queste aziende terziste garantiva duttilità
e velocità nel soddisfare le richieste dello stilista.
I PRIMI ANNI ‘80
Gli anni ‘80 portarono con sé un nuovo culto del corpo, che veniva
plasmato con jogging, aerobica, danza e doveva apparire sempre
abbronzato, atletico e sano.
I nuovi miti erano il successo, il denaro e la carriera. Gli yuppies
incarnavano questi nuovi ideali e la loro divisa fatta di completi perfetti,
camicie immacolate e capelli impomatati diventarono l’immagine di un
mondo ambizioso e senza scrupoli.
Anche le mode giovanili da strada rispondevano a questa ricerca di lusso
incurante delle spese: era l’epoca dei «paninari», ragazzi della Milano-
bene rivestiti di capi griffati e riconoscibili.
YUPPIES Anni ‘80
PANINARI Anni ‘80
I PRIMI ANNI ‘80
Un grande attestato della popolarità del prêt-à-porter italiano arrivò
quando «Time», nel 1982, mise in copertina Giorgio Armani.
In realtà però in quegli anni si stava attraversando un momento di
difficoltà. La moda prêt-à-porter italiana stava diventando sempre
più lussuosa e ricercata, e rivaleggiava quasi con la couture. A
questo punto Armani si rese conto della necessità di fare abiti
portabili e non solo creazioni di design.
Nacquero delle seconde linee che soddisfacevano questa necessità
e che erano rivolte ad un pubblico di massa, caratterizzate da
versioni meno estreme delle linee sperimentali presentate nelle
prime linee.
I PRIMI ANNI ‘80
Esistevano poi delle terze linee, quelle giovanili. È i caso di Emporio
Armani nata nel 1981 che veniva venduta in negozi monomarca. Vi si
trovavano jeans griffati e collezioni maschili e femminili che coniugavano
prezzo accettabile dal pubblico giovane e immagine innovativa e di
tendenza. Queste linee avevano generalmente un’immagine più
trasgressiva.
Esistevano poi le licenze che servivano a vendere prodotti con un alto
«contenuto moda» utilizzando la fama della griffe.
La prima linea era dedicata alla sperimentazione e alle ricerche creative
dello stilista ed era dedicata da un pubblico elitario, sebbene più ampio di
quello tradizionalmente esclusivo della couture. Serviva a tenere viva
l’attenzione sul marchio e a comunicare le nuove tendenze.
I PRIMI ANNI ‘80
I nuovi ricchi aveva necessità di sfoggiare la propria ricchezza in un
contesto in cui erano venuti meno i modelli tradizionali dell’apparire. Le
griffe della moda italiana rappresentavano la chiave estetica dei nuovi
consumi e divennero uno status symbol.
Gli anni ‘80 vennero caratterizzati, così, da un’eleganza aggressiva e
sfacciata. Il made in Italy era diventato una garanzia di qualità ed
eleganza e i vari marchi della moda avevano saputo trovare delle giuste
strade stilistiche per differenziarsi tra di loro e trovare delle identità nette
e riconoscibili.
Molti stilisti, per enfatizzare la personalizzazione delle loro griffe, scelsero
di cambiare location per le loro sfilate, abbandonando la Fiera per
spostarsi in spazi diversi.
LE DONNE IN CARRIERA
Le «donne in carriera», che dovevano combattere per imporsi nel mondo
del lavoro, erano le «eroine» degli anni ‘80.
Il tailleur divenne la divisa della donna lavoratrice e al contempo si
trasformò nella sua corazza.
Le spalle imbottite, il torace ingrandito, andavano ad enfatizzare la parte
superiore del corpo. Si riproponevano elementi maschili costruendo una
siluette artificiale che doveva dare credibilità alla donna in un mondo di
uomini.
L’abito indicava un ruolo, un’armatura lussuosa che dava forza alla donna.
La giacca era la nuova divisa femminile da abbinare a diversi capi. Ogni
stilista la propose in una sua versione più o meno aggressiva o più o
meno sexy.
UNA DONNA IN 1988
CARRIERA
IL SUCCESSO DEL MADE IN
ITALY
I nomi del prêt-à-porter italiano diventarono sinonimo di stile e di
buon gusto. Il made in Italy diventò uno status symbol ed era
ricercato da tutti.
Lo stilista aveva soppiantato il couturier nell’interpretazione della società
e nel cercare di sintetizzarla in uno stile adatto ad una clientela
internazionale.
La boutique monomarca diventa il luogo deputato agli acquisti o da
visitare per conoscere le ultime novità della moda.
Le classi medie riconoscevano la continuità con la couture e utilizzarono
le creazioni degli stilisti come rappresentazione del proprio potere e del
proprio ruolo sociale.
IL SUCCESSO DEL MADE IN
ITALY
Lo stile italiano aveva saputo imporsi, rispondendo al desiderio di
mostrarsi alla moda e dava la possibilità di scegliere fra i vari stili
distintivi delle varie griffe.
Armani significava funzionalità e discrezione, esprimeva una classicità
adeguata ai tempi moderni.
Ferré proponeva una immagine di donna più raffinata che accostava
elementi etnici e effetti couture, portando avanti una sperimentazione sui
materiali.
Versace era aggressività e provocazione, era uno stile preso dal mondo
dello spettacolo.
IL SUCCESSO DEL MADE IN
ITALY
Gli stilisti iniziarono ad estendere i prodotti marchiati dalle loro griffe
attraverso un diffuso sistema di licenze, che iniziarono ad articolare dei
veri e propri total look.
Le sfilate diventavano show mirabolanti, con protagoniste le top model più
famose e l’immagine del marchio doveva essere sempre coerente e
costantemente veicolata attraverso tutti gli strumenti di comunicazione
disponibili.
Il prêt-à-porter era diventato «la moda» che non era più eterodiretta e destinata a
delle élite ristrette e aristocratiche. Iniziavano ad esistere stili diversi in cui
persone diverse potevano riconoscersi.
Oltre alle tendenze che rappresentavano la nuova società rampante degli anni ‘80
emersero nuovi stili, derivati dagli stili di strada che rispondevano ai bisogni di
altri gruppi sociali.
MODE DI STRADA
È il caso di Vivienne Westwood o Jean Paul Gaultier. La creatività della
Westwood, che aveva iniziato la sua esperienza nella moda all’interno del
movimento punk, rappresentò l’inizio di una rinascita stilistica per Londra
che divenne il luogo delle ricerche più eccentriche ed estreme.
Altri stili traevano origine dallo sportswear americano, dando vita a
modelli ricercati nei tessuti ma dal taglio pulito e rigoroso. Questa moda
era destinata a coloro che volevano differenziarsi dai nuovi ricchi
eccessivi e vistosi. Esempi di questo stile sono Donna Karan e Jil Sander.
Questo stile diede poi vita al cosiddetto «pauperismo di lusso» di cui
saranno interpreti Prada ed Helmut Lang.
La ricerca di un’eleganza intellettuale diede vita ad uno stile intimista di
cui divennero maestri gli stilisti giapponesi che introdussero nuovi
linguaggi e portarono nuove ricerche stilistiche.
LA NUOVA RICERCA STILISTICA
I primi stilisti giapponesi a sfilare a Parigi furono Kenzo e Issey Miyake
negli anni ‘70. Ma le proposte più dirompenti arriveranno negli anni ‘80
con le creazioni di Rei Kawakubo, che aveva dato vita a Comme des
Garçons, e di Yohij Yamamoto che iniziarono un nuovo modello culturale
e vestimentario che ibridizzava senza esotismi la tradizione orientale con
capi occidentali.
Negli anni ’90, dalla ricerca dello stilismo nipponico, prese spunto
un’avanguardia europea formata da alcuni stilisti formatisi presso
l’accademia delle Belle Arti di Anversa. Questi stilisti cercavano la
decostruzione del capo e la sperimentazione più radicale, arrivando
perfino a cercare di negare la logica della griffe utilizzando delle etichette
bianche, come nel caso di Margiela.
LA RISPOSTA DELLA MODA
ITALIANA
La Moda italiana rispose a queste sperimentazioni con il lusso e
l’opulenza, ma le vendite iniziarono a registrare delle flessioni visti i costi
sempre maggiori. Negli anni tra l’ ‘89 e il ’90 molti nomi della moda italiani
si trovavano a Parigi cimentandosi con l’haute couture d’oltralpe.
I problemi della moda italiana furono aumentati da alcune situazioni
contingenti: la morte di Moschino e l’assassinio di Gianni Versace, la
rottura del sodalizio creativo tra Anna Domenici e Mariuccia Mandelli, il
difficile rientro di Ferré dopo l’esperienza da Dior.
Nonostante questo, il prêt-à-porter italiano sopravvisse, ma solo pochi nomi,
come Armani e Dolce&Gabbana, seppero mantenere la posizione guadagnata
negli anni ‘80 nel mercato internazionale, mentre uno dei pochi che riuscì a
mantenere alta la capacità innovativa fu Antonio Marras, grazie al recupero di
antiche tradizioni artigianali e culturali sapientemente reinterpretate.