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Italia longobarda

S. Gasparri

ALESSANDRO LATROFA
1

Indice
La conquista longobarda e la formazione del regno .............................................................................................. 3
Il quadro territoriale ............................................................................................................................................. 3
La sorte delle élites e la fine della tassazione ..................................................................................................... 4
L’insediamento longobardo................................................................................................................................. 4
L’editto di Rotari e la corte regia ......................................................................................................................... 5
Cultura romana e cultura barbarica nel secolo VII .............................................................................................. 6
La società longobarda del secolo viii. il regno, le élites e l’inquadramento cattolico della popolazione ............ 7
Re, duchi e gastaldi............................................................................................................................................... 7
Le terre del re ....................................................................................................................................................... 8
Gli arimanni e l’esercito ........................................................................................................................................ 8
Le inchieste di Liutprando .................................................................................................................................... 9
Per la salvezza dell’anima ................................................................................................................................... 10
Le élites del regno ............................................................................................................................................... 10
Le grandi proprietà fondiarie ...............................................................................................................................11
I mercanti e il denaro: la famiglia di Totone ........................................................................................................11
I vertici dell’aristocrazia ...................................................................................................................................... 12
Roma e i longobardi. Dalle origini all’età di Liutprando ........................................................................................ 13
I primi contrasti.................................................................................................................................................... 13
Missionari orientali ed eretici: un mito da ridimensionare ................................................................................ 13
L’offensiva di Liutprando .................................................................................................................................... 14
L’attivismo di Gregorio III.................................................................................................................................... 14
I viaggi di papa Zaccaria ...................................................................................................................................... 15
Una situazione fluida ........................................................................................................................................... 15
Il passaggio dai longobardi ai carolingi .................................................................................................................. 16
Essendoci stato consegnato il popolo dei romani ............................................................................................. 16
Dagli interventi di Pipino alla conquista del regno ............................................................................................ 16
La superiorità militare dei franchi ....................................................................................................................... 16
I problemi interni di Desiderio ............................................................................................................................ 17
Sottomissione e rivolte ....................................................................................................................................... 17
La donazione di Carlo Magno e la costituzione di Costantino .......................................................................... 18
La conquista franca si consolida ......................................................................................................................... 18
La fase più dura dell’occupazione ...................................................................................................................... 19
Vassalli e signori................................................................................................................................................... 19
Narrare la caduta. La fine del regno longobardo fa propaganda e memoria...................................................... 20
La voce dei vincitori e quella dei vinti ................................................................................................................ 20
La propaganda papale: le lettere....................................................................................................................... 20
ITALIA LONGOBARDA INDICE
2

La propaganda papale: la vita dei pontefici ....................................................................................................... 21


La recensione franca e quella longobarda ......................................................................................................... 21
Frammenti di memoria ........................................................................................................................................ 22
Prospettive regionali ........................................................................................................................................... 22
La spada dei longobardi ...................................................................................................................................... 22

ITALIA LONGOBARDA
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La conquista longobarda e la formazione del regno


Il quadro territoriale
L’avvio del regno dei Longobardi fu faticoso. Senza grandi battaglie, ma con molti assedi di città,
patteggiamenti locali e una lenta penetrazione nel territorio accompagnato da razzie e saccheggi più che da
vere campagne militari; i Longobardi nel corso di un secolo e mezzo circa (ingresso in Italia 568-68/inizio regno
Liutprando 712) costruirono un regno che si estendeva su una parte della penisola (Baricentro politico nell’Italia
settentrionale a nord del Po, Emilia, Toscana, ducato di Spoleto e Benevento).
Nonostante l’ampiezza delle conquiste esse non coprirono mai l’intera penisola. Vaste regioni di territorio
rimasero in mano a Bisanzio, che con il comando dell’autorità politico-militare a Ravenna e il potere papale a
Roma, minacciò la stabilità del regno.
L’espansione territoriale si accompagnò all’elaborazione progressiva di strutture politiche adeguate al
compito di gestire un regno che era comunque vasto, un compito inadatto alle esperienze dei Balcani. Qui
venne a mancare il rapporto con le élites politiche, sociali e culturali romane.
La classe senatoria infatti era stata colpita nei decenni successivi all’invasione, e i suoi esponenti si erano
spostate in terra bizantina. I vescovi invece si erano trovati in una posizione difficile a causa dell’ostilità militare
dei nuovi arrivati nei confronti della respublica Romanorum (impero romano incarnato da Bisanzio). A questo
va aggiunto che almeno una parte dei vescovi del Centro-nord non era di estrazione senatoria, a differenza dei
vescovi gallici.
Il ruolo stesso del Senato, mantenuto per tutta l’età ostrogota, aveva finito per attrarre i personaggi di maggior
rilievo. Solo alcuni vescovi del centro nord era di estrazione elevata.
Apporti e collaborazioni vennero quindi dai ceti sociali bassi della popolazione italiana, nei cui confronti il
processo di fusione ebbe luogo molto presto, aiutato anche dalla conversione al cattolicesimo da parte dei
longobardi. Ciò aprì collaborazioni anche con i vescovi, che però non intervennero prima del VII secolo. Inoltre
il modello incarnato da Bisanzio, con il quale i Longobardi avevano rapporti di tipo commerciale nelle zone di
confine, potè essere applicato alle strutture del regno, grazie all’apporto di abitanti italiani provenienti da
territori bizantini.
La difficoltà maggiore nel parlare della conquista longobarda è che essa non può essere ricostruita con
certezza, perché le fonti scritte sono praticamente inesistenti e quelle archeologiche sono solo parzialmente
utilizzabili.
L’archeologia ci dice che la penisola era entrata in crisi già all’inizio del V secolo, in conseguenza alle mancanza
di importazioni commerciali dall’Africa. Già nel VI secolo nelle città e campagne erano apparsi segni di crisi: le
villae erano state abbandonate, le abitazioni aristocratiche divise.
È questo il contesto economico nel quale si innestò l’invasione longobarda, con i suoi effetti negativi. Fu la
situazione prolungata di guerra (guerra gotico-bizantina e guerra longobarda) a dare un altro colpo duro
all’economia della società della penisola. Una guerra che viene scatenata dai Bizantini, e prolungata per la
mancata forza dei Longobardi.
Le fonti ci permettono di scoprire qualcosa dell’invasione longobarda. L’ingresso in Italia, guidata da Alboino,
avvenne nel 568-569 attraverso le Alpi Giulie. Essi penetrarono in Friuli, dove a Cividale lasciarono un presidio
militare; per procedere poi sulla via Postumia, occupando i principali centri del Veneto. Bisogna capire che i
Longobardi erano pochi, e i Bizantini non erano scomparsi, ma erano rinchiusi nelle loro fortezze, dove
resistettero a lungo. Sappiamo che la fortezza sull’isola Comacina resistette per 20 anni; non furono però
vent’anni di assedio dato che si trovarono forme flessibili di collaborazione. Solo i primi tre anni l'invasione
ebbe la struttura che culminò con la conquista di Pavia.

ITALIA LONGOBARDA LA CONQUISTA LONGOBARDA E LA FORMAZIONE DEL REGNO


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Ucciso Alboino nel 572 per intervento dei Bizantini, i Longobardi rallentarono; da questo momento possiamo
parlare di una guerra per bande. Questo carattere della loro presenza divenne rilevante quando nel 574
rimasero per 10 anni senza un re, ma obbedirono ai capi militari del popolo (duces). I diversi capi longobardi
guidarono i loro guerrieri verso ovest (Torino e Asti) e al di là degli appennini in Toscana; contemporaneamente
altre bande avevano creato due capisaldi a Spoleto e Benevento, iniziando la conquista del Centro-Sud.
Quando nel 584 venne eletto re Autari, buona parte dell’Italia era nelle loro mani, ma il quadro territoriale si
stabilizzò molto più tardi, con le conquiste di Agilulfo nel VII, che sottomise Padova, Mantova e Monselice, e
soprattutto con Rotari, che invase la Liguria e quasi tutto il Veneto costiero. Da questo momento, i limiti
territoriali rimasero pressoché inalterati fino all’età di Liutprando.

La sorte delle élites e la fine della tassazione


L’impatto fra i Longobardi e l’Italia è stato presentato in termini negativi in quanto il registro utilizzato è quello
apocalittico. È lo stesso registro che usò Gregorio Magno, che ci presenta la paurosa visione del vescovo
Redempto di Ferentino, che annunciava la fine del mondo poco prima dell’arrivo dei Longobardi.
I Longobardi di fatto portarono una rottura definitiva nella storia dell’Italia, e in primo luogo alludiamo alla fine
dell’aristocrazia senatoria, che di fatto governava una società complessa. Molti segnali però inducono a
diffidare dalla teoria di una rottura totale con il periodo precedente all’invasione. Il discorso è lo stesso per le
élites ecclesiastiche, i problemi di certo non mancarono, ma il quadro catastrofista non regge. Le uniche fughe
vescovili dalle proprie sedi furono due:
→ Sul fronte orientale: qui la guerra tra Longobardi e Bisanzio durò qualche decennio, costringendo il
patriarcato di Aquileia a rifugiarsi a Grado.
→ L’arcivescovo di Milano, che si trasferì a Genova.
questi erano i due presuli più importanti del Nord Italia (di origine senatoria).
Per il resto tutti i vescovi rimasero al loro posto. Vescovo Felice di Treviso per esempio andò incontro ad
Alboino per farsi confermare i possessi della sua chiesa, facendo entrare pacificamente Treviso nel regno. Altri
vescovi negli anni successivi seguirono il suo esempio, dimostrando che il ceto episcopale non fu spazzato via,
ma rimase al proprio posto e trovò vie diverse di collaborazione. Il ruolo di intermediazione della chiesa,
nonostante le difficoltà della guerra e le prime occupazioni, sembra rimanere intatto.
La difficoltà del regno longobardo è la continuità delle strutture pubbliche romane del passato. Pare assurdo
pensare alla sopravvivenza di un sistema fiscale complesso come quello romano. La difficoltà di concepire la
sopravvivenza di un sistema fiscale deriva dal fatto che tracce di tasse generali in tempi successivi non ce ne
sono, anche se non dobbiamo necessariamente escluderlo (almeno nel primo periodo).
È del tutto plausibile che i Longobardi abbiano cercato di far sopravvivere la macchina statale e la società
romane; ma se non ci riuscirono fu per il quadro socio-economico mediterraneo, che era entrato in un trend
negativo. Di fatti è plausibile pensare che durante il periodo di conquista siano arrivati ad applicare il sistema
dell’ospitalità con una ripartizione sulla base di un terzo (di terre o proventi tra Longobardi e proprietari locali).
Nelle fonti dell’Italia longobarda sono assenti lamentele sul peso delle tasse, che al contrario sono presenti
nelle fonti del regno franco. Al momento della conquista i Longobardi avevano a disposizione molta terra (fisco
romano, chiese episcopali, proprietari terrieri). Le circostanze in cui la terra fu distribuita materialmente ai
guerrieri e duchi non si possono definire

L’insediamento longobardo
La situazione determinata dal primo impatto dell’invasione longobarda fu senza dubbio transitoria. I rapporti
politici e sociali all’inizio del nuovo regno erano destinati a mutare rapidamente.
Uno dei problemi più pressanti per la storiografia è rappresentato dal come e dove i Longobardi si stanziarono.

ITALIA LONGOBARDA LA CONQUISTA LONGOBARDA E LA FORMAZIONE DEL REGNO


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L’idea di un’occupazione militare porta con sé l’idea dell’esistenza di quartieri separati per gli indigeni della
penisola e gli invasori; i secondi avrebbero occupato i luoghi più importanti della vecchia città romana oltre ai
luoghi strategicamente più favorevoli. Degno di nota è il fatto che questi gruppi avrebbero lasciato traccia di
sé non solo tramite sepolture di fattura longobarda, ma anche per l’elaborazione di tipi di edilizi particolari
costruendo un modello etnico dell’edilizia urbana che consente di trovare i Longobardi.
Altri studi hanno dimostrato che non si può parlare di una differenza nella natura del fenomeno urbano tra
città bizantine e città longobarde.
Un dato comunque è certo: le città mantennero la loro centralità nel regno fondato dai Longobardi. Tuttavia
viste le grandi difficoltà dell’archeologia urbana, dovuta alla fortissima continuità dei centri abitati urbani, è
fuori dalle città che troviamo la maggior parte dei reperti archeologici attribuiti ai Longobardi. L’idea che i pochi
invasori avessero potuto occupare il paese in modo capillare non è molto plausibile. Dobbiamo resistere quindi
alla tentazione di vedere l’intera presenza longobarda sotto l’esclusiva esigenza strategico-militare; queste
esigenze furono importanti, ma già nel VII secolo il processo di fusione tra indigeni e invasori dovevano essere
molto avanti. Tutt’oggi non risultano identificabili reti confinarie di castelli longobardi, ciò non vuol dire che
non ci fossero castra; ma questi castelli non sono sempre facilmente individuabili.
È indubbio invece che le vere fortificazioni confinarie dovettero essere di modesta entità. Processi di fusione,
invisibilità di insediamenti e la difficoltà di interpretare i corredi funerari (non solo gli oggetti circolavano tra le
due popolazioni, ma nelle tombe appaiono anche oggetti bizantini). L’interpretazione etnica dei corredi è stata
ormai decisamente superata a livello scientifico.
In conclusione le élite del nuovo regno dovette assumere caratteristiche etniche e culturali miste, anche se
essa tendeva a presentarsi come un'aristocrazia guerriera. Non bisogna pensare ai Longobardi come un
popolo a sé nel regno, la realtà nel VII secolo era infatti ben diversa.

L’editto di Rotari e la corte regia


L’unica luce in mezzo al buio dei longobardi è l’editto di re Rotari dell’anno 634, che ci fornisce molti dati e che
rappresenta l’unica fonte coeva per il VII secolo, lasciando quindi un secolo di buio tra le testimonianze più
antiche e quelle più recenti. In quanto testo di legge l’editto ci mostra la teoria del sistema, ma non ci consente
di coglierne il concreto funzionamento.
I tentativi di ricostruzione del regno e della società longobarda hanno possibilità solo per l’VIII secolo, dove
disponiamo di fonti documentarie (carte private, diplomi regi). Tuttavia qualche dato per il VII sec. lo si può
ricavare rispetto alle modalità di impianto del potere pubblico.
Il regno Longobardo dall’età di Rotari in poi fu il primo regno occidentale ad abbandonare del tutto l’eredità
romana, costruendo le basi del potere pubblico sul possesso e lo sfruttamento della terra. L’editto di Rotari
difatti ci fa entrare in un mondo completamente diverso rispetto al VI secolo. Al centro del corpus (che aveva
388 capitoli, scritti in latino) sta la curtis regia.
Questo termine indica diverse cose collegate fra loro. La curtis regia era il complesso dei beni fiscali formato
da terre (incolte e non), comprensive delle persone che lavoravano e degli edifici che si trovavano su esse. Si
trattava di un patrimonio grandissimo, derivato dalla conquista e sparso in tutto il regno. Allo stesso tempo
curtis regia era la struttura amministrativa dei beni fiscali; e infine poteva indicare semplicemente il centro
organizzativo del fisco.
In quest’ultimo caso la curtis regia era lo stesso palatium, ossia il palazzo regio considerato dal punto di vista
della realtà economica e amministrativa. Sono tutti significati astratti/concreti che si sovrappongono, ma che
fondamentalmente descrivono la curtis regia come il fondamento delle ricchezze del re. Da questo breve cenno
si capisce che al centro dell’editto c’è il re stesso.

ITALIA LONGOBARDA LA CONQUISTA LONGOBARDA E LA FORMAZIONE DEL REGNO


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Un altro aspetto importante dell’editto è l’imposizione di un sistema di multe per punire i reati, teso ad evitare
lo scatenamento di faide tra famiglie. La proibizione della faida è accompagnata dall’applicazione di diverse
riparazioni in base a quanto l’offeso è stato valutato.
Nei casi di reato più grave (politico, uccisione del dominus), l’editto prevedeva un pagamento diretto al re; nei
casi meno gravi il re incassava metà della multa. Siccome le multe erano molto alte, è praticamente certo che
venissero pagate mediante concessioni di terre. In questo modo il patrimonio del fisco aumentava, potendo
distribuire i terreni ai propri fedeli e alle reti clientelari. C’era quindi continuamente un flusso di terre in entrata
e in uscita, che alimentava in modo inesauribile la fonte di ricchezza e di potenza politica rappresentata dalla
curtis regia. I principali interessi dell’editto stanno altrove.
I fondamenti del potere pubblico che ricaviamo dall’editto di Rotari sono il possesso della terra fiscale e il
meccanismo giudiziario che produce le multe. Queste sono dunque le basi del regno longobardo.

Cultura romana e cultura barbarica nel secolo VII


L’interesse dell’editto non si fermava qui: Pur non riuscendo a rispondere alle tante domande, l’editto ci
consente di impostare altre questioni. La prima è quella del suo rapporto con la tradizione della stirpe
longobarda: quanto è barbarico l’editto di Rotari?
L’editto contiene un importante nucleo di tradizioni precedenti all’ingresso d’Italia, ma fatto ancora più
importante, l’editto va inteso come veicolo di tradizioni. Le tradizioni barbariche dei Longobardi erano forti e
coerenti e al loro interno si inserisce il codice di leggi. Tuttavia nell’editto Rotari afferma di aver agito spinto
dalla sollecitudine per il benessere dei suoi sudditi, per proteggere i deboli dai più forti.
Sono motivazioni che vengono incontro all’esigenza di una società postromana, non a quelle di consolidare le
tradizioni barbariche della gens barbarica. L’editto di Rotari quindi va visto in chiave complessa: il re non usa
termini a caso per indicare l’ambito delle sue autorità.
L’editto non dice in che modo esso si rapportasse al diritto romano (che interessava ancora la maggior parte
degli indigeni); ma esisteva una zona grigia nel quale i due sistemi giuridici si erano già ibridati. Le carte più
antiche che risalgono al VII secolo mostrano un’evidente impronta romana. Il tessuto giuridico del regno
longobardo era romano, ed era in un rapporto complesso di scambio e ibridazione con l’editto di Rotari. Anche
visti in una prospettiva generale l’etnicità longobarda è piuttosto debole.
È solo con l’editto che le leggi si affermano anche come veicolo di tradizioni e come elemento di identificazione
etnica. Si trattava di gruppi caratterizzati dalla natura militare e dal legame con il re.
La forza del lignaggio in epoca longobarda si basava sulla dignità dell’uomo libero, che è tutelato in tutti i modi
dall’editto. La posizione femminile è subordinata e marginale.
Nell’editto compare anche un contropotere rispetto al re: assemblea di libere armi.
Come si vede, l’editto di Rotari è fonte preziosa e ricca, ma anche molto deludente, poiché tace su molti aspetti
della vita del tempo che riguardava i Longobardi: è assente la presenza di città. Questa assenza potrebbe
dipendere dall’ideologia di Rotari di mantenere le tradizioni Longobarde, mentre le città erano romane. Forse
l’incompletezza dipende dalle circostanze politiche, legate allo stato di guerra in cui fu redatto, che non
favorivano la completezza.
L’alta categoria di fonti che ci viene in aiuto è l’evidenza archeologica. Da essa vengono informazioni preziose
anche se frammentarie su alcuni processi sociali del primo secolo dopo l’invasione. Tra la fine del VI e l’inizio
del VII appaiono tombe più ricche con forte caratterizzazione guerriera e oggettistica per la funzione equestre.
La redazione dell’editto del 643 aveva comunque fornito una prima risposta alle esigenze di una società basata
sul possesso fondiario. Se vogliamo fare un bilancio, dobbiamo ammettere che le fonti dell’Italia longobarda
per i periodo fine VI-VII sec. sono molto deludenti, e che le informazioni che ne ricaviamo sono molto poche e
lacunose.

ITALIA LONGOBARDA LA CONQUISTA LONGOBARDA E LA FORMAZIONE DEL REGNO


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La società longobarda del secolo VIII. il regno, le élites e


l’inquadramento cattolico della popolazione
Re, duchi e gastaldi
Nell’VIII secolo il regno longobardo aveva una struttura territoriale piuttosto complessa.
Nonostante la maggior quantità di fonti, il quadro ricostruito è sempre in parte ipotetico, anche se il disegno
generale risulta essere abbastanza chiaro. La struttura politica era incardinata in circoscrizioni più o meno
ampie, la maggior parte delle quali aveva un centro rappresentato da una città (civitates).
Le civitates più importanti avevano come capo un duca, mentre le altre un gastaldo: entrambi funzionari, le
loro origini erano comunque molto diverse dato che il primo derivava i suoi poteri dal comando militare,
mentre il gastaldo rimaneva un funzionario addetto alla gestione del patrimonio fiscale. Nell’VIII secolo queste
due figure erano sostanzialmente parificate agli occhi del re: entrambi erano i suoi giudici, ossia alti funzionari
periferici con poteri giurisdizionali sui loro territori e sulla popolazione che li abitavano.
Tuttavia, qualche differenza tra le due cariche doveva rimanere. È possibile che le origini dei duchi fossero più
elevate rispetto a quelle dei gastaldi. Questo vale per le realtà di confine: il ducato del Friuli e i ducati di Spoleto
e Benevento. Si trattava di zone lontane dal centro padano del potere regio, in cui i duchi si erano consolidati a
base regionale e non solo come cittadina; di conseguenza i poteri ben superiori a tutti gli altri, diventando così
principi semi autonomi.
I duchi regionali talvolta avevano dato origine a dinastie, fra le più importanti ricordiamo quella beneventana,
che risaliva al lignaggio di Alboino. I duchi di Spoleto e Benevento avevano dei Palatia la cui organizzazione
sembra essere stata simile a quella del Palazzo Regio a Pavia, con funzionari di corte, una cancelleria, una
macchina organizzativa preposta al mantenimento del duca. Nulla di simile esisteva nei ducati non regionali,
fra i quali però spiccava il ducato di Lucca, Brescia e Treviso.
A parte i nuclei attivi in periferia, troviamo anche numerose cariche centrali, di corte:
→ maggiordomo
→ maestro dei cavalli
→ tesoriere
Tutti insieme questi titoli ci fanno vedere l’immagine di una corte sofisticata e complessa, dove cariche romane
si univano a cariche germaniche. Sempre a corte si allevavano i giovani aristocratici.
Almeno a partire da Liutprando, al palazzo fu unito un oratorio dedicato al Salvatore. Era un oratorio privato,
che fu imitato poi a Benevento quando si ricostruì la chiesa di S. Sofia vicino al palazzo ducale (ispirandosi
anche al modello costantinopolitano). L’esistenza di una chiesa di palazzo sottintendeva l’esistenza di un clero
che andava ad ingrossare le fila della corte, dove infine vivevano anche i gasindi del re e della regina. La regina
doveva avere una sua corte personale costituita da gasindi, antepores e dallo scafardus. Inoltre il palazzo
doveva essere in stretto collegamento con la curtis regia, ossia il cuore dell’amministrazione fiscale.
Il re aveva la residenza fissa in un palazzo della capitale Pavia, che comportava un radicamento della funzione
regia che era la sua forza, ma anche la sua debolezza, perché impadronirsi della città significava impadronirsi
del regno.
Conosciamo molto poco i rituali regi longobardi. L’unico esempio noto avvenne nel 744: Liutprando era
gravemente malato e sul letto di morte, ragion per cui fu eletto re suo nipote Ildeprando. La cerimonia avvenne
a Pavia, fuori dalla chiesa di S. Maria delle Pertiche in uno spazio aperto; il momento culminante fu
rappresentato dalla consegna al nuovo re di una lancia, vero simbolo della regalità longobarda.

ITALIA LONGOBARDA LA SOCIETÀ LONGOBARDA DEL SECOLO VIII. IL REGNO, LE ÉLITES


E L’INQUADRAMENTO CATTOLICO DELLA POPOLAZIONE
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Quando qualche anno prima dell’incoronazione di Ildeprando, Liutprando aveva deposto sulla tomba di san
Pietro una serie di oggetti simbolici legati alla sua fisionomia di re guerriero e di sovrano cattolico: un mantello,
un bracciale, una cintura, due spade (spatha e ensis), una corona d’oro e una croce d’argento. La lancia, vera
insegna della regalità, non viene inclusa, dato che questa sarebbe stata una forma di sottomissione del re a
san Pietro (e dunque il papa).

Le terre del re
I legami fra il centro e la periferia non erano facili: Il fatto stesso che le assemblee pavesi si svolgessero i primi
di marzo è la prova indiretta che i collegamenti materiali fra le diverse aree del regno per molti mesi erano
molto difficoltosi. Non era solo un problema di vie e trasporti, ma la stessa autorità del re che doveva imporsi
sulle periferie e, con essa doveva essere salvaguardato il godimento del patrimonio fondiario.
Nell’VIII secolo il re è ancora capace di imporre la sua giustizia anche al di fuori delle terre del re (Italia a nord
del Po), e la prova la troviamo in una serie di documenti pubblici che riportano gli esiti di inchieste giudiziarie
condotte da agenti regi (in Toscana e Spoleto) in territori periferici.
Nel 747 il messo regio Insario, inviato dal re Ratchis, fece un’inchiesta in Sabina, nel cuore del ducato spoletino
per tutelare i diritti del monastero di S. Maria di Farfa, che aveva ricevuto dal duca Lupo il possesso dell’intero
gualdo pubblico di S. Giacinto. Con la parola gualdo si intendeva un vasto complesso di beni pubblici, composto
da terre coltivate, incoltivate e boschive. Essendo una donazione cospicua, Insario doveva risolvere i numerosi
contrasti che erano sorti al momento del passaggio di proprietà del gualdo. Sulle terre del gualdo non troviamo
solo contadini, ma anche actores (agenti del fisco) evidentemente fedeli del re. Emerge un intrico fittissimo di
condizioni sociali diverse e di legami con il re, il duca di Spoleto e con il gastaldo di Rieti, il tutto fondato sullo
sfruttamento del gualdo di S. Giacinto, il cui passaggio a Farfa poteva mettere a rischio gli equilibri sociali.
L’intervento da parte di re Ratchis ci dà la prova della capacità regia di agire capillarmente, ma ci fa capire che
il valore economico fondamentale dei possessi fiscali periferici era quello di mantenere le gerarchie dei
funzionari locali che il re si era costruito negli angoli del regno, tramite lo sfruttamento delle terre e del surplus
prodotto.
Le curtes padane fornivano la maggior parte del sostentamento diretto del re e alla sua politica. Anche se
qualche piccolo trasferimento dalla periferia verso il centro c’era, esso doveva avere prevalentemente il
carattere di riconoscimento della supremazia regia, più che un valore economico in sé. Il regno longobardo,
come gli altri regni postromani, si basava sulla rendita fondiaria delle terre pubbliche e non sulle tasse. I legami
con la periferia venivano mantenuti installando a capo dei ducati più periferici dei duchi legati strettamente al
re: per esempio Liutprando nominò 4 nipoti a capo dei ducati di Chiusi, Spoleto e Benevento.

Gli arimanni e l’esercito


Il terzo campo d’intervento del potere regio (accanto al mantenimento della giustizia e alla riscossione di
donativi) era il campo militare, che era fondamentale. Al di là delle imprese guerresche dei sovrani, ignoriamo
quali fossero i meccanismi di mobilitazione dell’esercito regio.
Lo stesso Liutprando, nel capitolo 83 delle sue leggi (726) limita coloro che potevano essere esenti dagli ufficiali
regi locali: i giudici (duchi e gastaldi) potevano esentare 6 uomini che possedevano un cavallo e 10 uomini
infimi (che non possedevano un cavallo); i cavalli dei primi dovevano essere requisiti per salmerie, mentre i più
poveri che venivano esentati dovevano fornire il proprio lavoro sulle terre dei giudici. Lo sculdascio
(funzionario minore) poteva esentare un numero di persone pari alla metà di quello riservato ai giudici. Con
questa legge, le persone povere esentate, da guerrieri liberi diventavano contadini soggetti ai giudici e agli altri
funzionari; e quello che conta è la ricchezza personale di chi si arruola nell’esercito, ricchezza che gira intorno
al possesso del cavallo.
Questa situazione appare più evidente durante il regno di Astolfo, che in una legge del 750, nei capitoli 2 e 3,
afferma che gli uomini mobilitati sono distinti per 3 livelli di ricchezza:

ITALIA LONGOBARDA LA SOCIETÀ LONGOBARDA DEL SECOLO VIII. IL REGNO, LE ÉLITES


E L’INQUADRAMENTO CATTOLICO DELLA POPOLAZIONE
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→ il primo consente solo di far parte della cavalleria armata


→ il secondo di una cavalleria leggera
→ il terzo di una fanteria con scudo, arco e frecce.
La ricchezza è definita secondo due tipologie: fondiaria e mercantile. Inoltre i più ricchi dovevano fornire, in
proporzione alla ricchezza, armi e cavalli in più che venivano distribuiti a uomini di livello economico modesto,
ma dotati di condizioni fisiche per combattere a cavallo con la lorica.
I sovrani quindi avevano l’ambizione di mobilitare vasti strati della popolazione. C’è da chiedersi quanto la
chiamata alle armi da parte del re fosse capillarmente efficace.
Nelle ultime fasi del regno, quando la minaccia franca era molto concreta, si manifestò una volontà di controllo
militare del territorio: sia Ratchis che Astolfo introdussero un inasprimento del controllo dei valichi di confine
e dei movimenti dei viaggiatori verso Roma; Astolfo cercò anche di mettere sotto controllo il traffico
commerciale. La struttura pubblica del regno longobardo era questa.
Ratchis a metà dell’VIII secolo insisteva molto sul dovere dei giudici di sedere in giudizio nelle loro città e di
rendere giustizia a quelli che ricorrevano loro. I ricorrenti ai giudici sono chiamati da Ratchis arimanni. Lo stesso
nome compare nelle stesse leggi del re, dove stabilisce che un arimanno, mentre cavalca, deve portare con sé
una lancia e uno scudo. Le multe inflitte all’arimanno inadempiente sono severe e sono abbinate a disposizioni
sul loro armamento, dato che erano la forza militare che consentiva agli ufficiali regi di mantenere l’ordine
pubblico. Gli arimanni dunque erano guerrieri legati anche al potere pubblico.
Se vogliamo comprendere la società longobarda e i suoi meccanismi dobbiamo affrontare la questione
arimannica rivolgendoci a una documentazione concreta e diretta.

Le inchieste di Liutprando
Negli anni 713-717 re Liutprando ordinò l’esecuzione di una complessa inchiesta che ebbe pesanti strascichi,
relativa alla zona di confine tra le civitas Siena e Arezzo. Il problema era quello di stabilire l’appartenenza di
alcune parrocchie all’una o all’altra diocesi, e all’ambito territoriale di una o l’altra civitas. Nei diversi atti
giudiziari sfila una colorita folla di persone, tutti riconoscibili per il loro tenace attaccamento alla chiesa
episcopale alla quale sentivano di appartenere dalla nascita. Il più interessante di tutti è il resoconto
dell’inchiesta fatta dal notaio regio Gunteram, inviato a Siena nel 715. In esso tutti i testi dichiarano la loro
appartenenza alla chiesa aretina. L’azione del vescovo di Siena è sentita dagli interrogati come una violenza
per i modi e perché interviene a sconvolgere gli equilibri consolidati da generazioni. Uomini di chiesa e laici
dicono le stesse cose nelle righe d’inchiesta di Gunteram, dove riferiscono di essere legati alla chiesa di Arezzo,
dove sono stati battezzati loro e i figli; mentre il gastaldo senese voleva allontanarli per catturare la devozione
degli abitanti della zona.
Il conflitto è complicato perché le pievi contese sono in territorio senese, quindi sia il vescovo che il gastaldo
vogliono portarle sotto la dipendenza ecclesiastica di Siena. Di qui l’asprezza dell’intervento di minaccia per
intimidire i testimoni a non parlare a favore di Arezzo. Ma nemmeno la sentenza a favore di questa mise fine
al conflitto.
Il punto interessante però e la popolazione, che non è divisa tra Romani e Longobardi, ma risulta compatta e
unita nella difesa delle proprie tradizioni religiose. I laici sono definiti exercitales, ma una minoranza viene
definita uomini liberi. Gli exercitales erano uomini liberi che venivano mobilitati all’esercito, dunque godevano
di una certa condizione economica. I testi laici del giudicato erano gli arimanni-esercitali. L’unica differenza fra
i termini nella fonte è che exercitales era un termine più colto di arimanno. Gli arimanni non rappresentavano
quindi un gruppo particolare della popolazione del regno, né erano i discendenti diretti degli invasori.
Le leggi di Astolfo del 750 dimostrano che la scelta per l’esercito militare riguardava la ricchezza e non l’etnicità.

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In conclusione possiamo dire che gli abitanti liberi del regno erano longobardi, o arimanni, nel caso in cui
fossero ricchi abbastanza per entrare nell’esercito.

Per la salvezza dell’anima


All’età di Liutprando la cristianizzazione della società è pienamente compiuta in tutte le sue componenti, fatte
salve le credenze magico-pagane delle zone rurali. Contro queste persistenze Liutprando agì duramente
emanando leggi che reprimevano con severità usi come la consultazione di indovini o il culto degli alberi e delle
fonti. Al livello opposto della piramide sociale, la cristianizzazione di base corrispondeva ad un’assunzione della
fisionomia cattolica da parte del potere regio, espresso nelle leggi di Liutprando del 713 dove si definisce
cristiano e cattolico.
La legislazione di Liutprando incontrò alcune difficoltà in riferimento agli usi guerrieri. Infatti il suo tentativo di
stroncare l’uso del duello per risolvere cause giudiziarie non andò a buon fine, riuscendo solo a inserire norme
cautelative contro gli abusi più evidenti, imponendo l’obbligo di giuramento sul Vangelo da parte dello
sfidante, che doveva agire con sospetti certi. Alla base dell’azione del re c’era una motivazione di ordine sociale
e di preoccupazione religiosa. Il sovrano afferma che preferirebbe eliminare del tutto la norma, ma non può a
causa delle consuetudini Longobarde. In altri campi però l’opera legislativa di Liutprando appare assai efficace.
Ciò avvenne con una serie di norme di legge che modificavano profondamente la posizione femminile in campo
patrimoniale, aprendo anche alle donne la via della successione dell’eredità paterna. Ciò corrispondeva alle
esigenze delle famiglie di possessori longobardi, che delle proprietà femminili potevano fare un uso più
spregiudicato rispetto a quelle facenti parte dell’asse maschile, immobilizzate nella suddivisioni fra eredi;
anche se la legge di Liutprando permetteva di premiare i figli bene servientes. Una società relativamente
dinamica come quella dell’VIII secolo richiedeva una maggiore elasticità nella trasmissione dei patrimoni
innanzitutto fondiari. Anche la cristianizzazione delle norme che regolavano il matrimonio andava nella
direzione degli interessi materiali degli enti ecclesiastici, che erano pronti a subentrare in caso di una mancata
discendenza.
Tutto questo complesso di norme aveva come conseguenza l’inserimento delle istituzioni religiose nei
meccanismi sociali e patrimoniali del regno. La norma di legge che costituisce la chiave di volta di tutto questo
sistema di promozione degli enti ecclesiastici è un’altra: quella in cui Liutprando rese legittime le donazioni pro
anima a chiese e monasteri dato che il loro sostegno poteva assicurare un benevolo giudizio del defunto
nell’aldilà; le donazioni effettuate agli enti ecclesiastici, infatti, rendevano nulle le pretese degli eredi.
Dal punto di vista del donatore, questo atto gli consentiva di acquisire un potente patrono in una società nella
quale il rapporto sociale era fitto e indispensabile. Le donazioni venivano fatte quando il soggetto era ancora
in salute, naturalmente mantenendo l’usufrutto fino alla morte. La donazione pro anima permetteva anche di
lasciare alla vedova la gestione dei beni rendendola indipendente dalla famiglia, in tal modo le vedove finirono
per assumere un ruolo patrimoniale all’interno della società.

Le élites del regno


Grazie a tale documentazione, le fonti dell’VIII secolo ci consentono di tracciare un quadro delle caratteristiche
delle élites longobarde. Innanzitutto occorre soffermarsi sulla legislazione, che va integrata con il materiale
archivistico.
Nel capitolo 83 di Liutprando del 726, nello stabilire il rango di una persona per il pagamento di una
composizione, so ondividua un gruppo formato dagli exercitales, e un gruppo di primi, che rispetto agli altri
valgono il doppio. L’unico elemento di complicazione in questo sistema bipartito è il servizio regio. Anche il più
modesto dei gasindi regi vale 200 solidi.
Una generazione più tardi, nel 750, alla bipartizione sociale si sostituì una tripartizione (i tre livelli di ricchezza).
tuttavia i due gruppi più ricchi erano sempre caratterizzati dal possesso dei cavalli.

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E L’INQUADRAMENTO CATTOLICO DELLA POPOLAZIONE
11

C’è da chiedersi se i personaggi più ricchi citati nella legge rappresentino davvero il vertice della società del
regno. Probabilmente no, in quanto una ricchezza così misurata (7 case massaricie) è troppo scarsa per indicare
realmente l’aristocrazia. Le basi economiche di questa erano infatti più consistenti dato che potevano arrivare
a possedere intere curtes. Rispetto all’aristocrazia franca, quella longobarda era inferiore, ma il rapporto
aristocrazia-potere regio era lo stesso. I re Longobardi utilizzarono i doni come strumento di collegamento
clientelare con il ceto superiore della società.
Tali doni sono relativamente ben documentati nelle carte d’archivio. La presenza di numerosi donazioni da
parte dei duchi ai propri fedeli, autorizza a pensare che i re Longobardi agissero alla stessa maniera, e alcuni
indizi ci sono rivelatori. Ci sono 12 diplomi ritrovati in un archivio familiare, quello dei Ghittia; e dei documenti
di donazione ai privati, in un documento di Liutprando a favore di Piccone.
La modestia delle donazioni fa pensare ad una presenza capillare all’interno del regno, che andava al di là del
gruppo aristocratico; i documenti delle donazioni, inoltre, riguardano soprattutto le periferie come Spoleto e
la Toscana.
L’aristocrazia traeva buona parte della sua forza proprio dalla contiguità al potere regio. Il rapporto clientelare
dei gasindi era indubbio. Basta pensare che nei documenti di Ghittia, un parente aveva conservato un
documento relativo a una controversia sorta fra due civitates. Il patrimonio della famiglia quindi si era formato
all’ombra del re; e la posizione della famiglia risale al VII secolo. La tipologia di ricchezza, nella famiglia di Ghitta
emerge la terra come fattore decisivo; al tempo stesso tre carte fanno riferimento all’acquisto di un mundio di
uomini e donne, collegandoli all’attività di mercanti schiavisti. Dopo aver nominato i munimina (titoli di
proprietà di terre), si passa ai mobilia (oggetti di proprietà), dove figura il denaro (senza una misura), due anelli
d’oro, cucchiai d’argento, speroni d’argento e altro.

Le grandi proprietà fondiarie


Le carte longobarde riferibili a grandi patrimoni fondiari non sono molte, e la maggior parte ricorda la
fondazione di una chiesa o un monastero familiare. Quest’ultima caratteristica è molto importante perché
svela le motivazioni patrimoniali che stanno dietro la donazione pro anima. Le fondazioni religiose familiari
erano le destinatarie abituali di tali donazioni da parte del loro fondatore e membri della sua famiglia, i quali
mantenevano compatto il loro patrimonio all’ombra della chiesa, e dall’altra creavano un punto di riferimento
per la popolazione della zona, spingendoli a fare donazioni.
Al Nord troviamo molti esempi di patrimoni importanti: la donazione pavese di Senatore e Teodolinda (714), la
donazione delle sorelle Natalia e Austreconda (745), la donazione dei fratelli Erfo e Marco.
La Toscana ci offre un panorama simile, dove emergono i patrimoni della famiglia del vescovo lucchese
Peredeo, del vescovo lucchese Walprando, del vescovo pisano Walfrido e del pistoiese Gaidoaldo. La ricchezza
fondiaria dei maggiori proprietari del regno è distribuita in territori diversi. Fra i toscani Walprando e Walfrido
hanno territori in Corsica; Gaidoaldo ha territori a Pistoia, Lucca, Lunigiana, Pavia e nel ducato di Spoleto.
Nel Sud longobardo, nell’elencazione dei patrimoni più importanti figurano l’area di Benevento e l’area di
Salerno; Alahis per esempio dona a S. Vincenzo al Volturno un patrimonio comprendente i beni in Venafro,
Benevento, Salerno, Capua, Telese.
Al tempo stesso la prevalente caratteristica urbana del ceto aristocratico è evidente, la possessione di case in
città. Nei ducati centro-meridionali, tutti i patrimoni più ricchi comprendono case a Spoleto, Rieti, Benevento
o Salerno.

I mercanti e il denaro: la famiglia di Totone


Il ceto dominante era formato da possessori; ma erano anche mercanti?
Rintracciare i negotiantes è difficile. Alcuni di loro sono citati fra i sottoscrittori delle carte. Nel 769 dei
negotiantes si sono presentati a Milano ad un atto di donazione di un certo livello; altri mercanti sono ad Asti
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E L’INQUADRAMENTO CATTOLICO DELLA POPOLAZIONE
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nel 788 in occasione della vendita di un appezzamento di terreno; altri sono ancora a Milano nel 796. E’ molto
poco, ma è dovuto agli usi notarili prevalenti, che fino alla prima età carolingia prediligono modi di designare
testo che solo di rado prevedono l’indicazione della professione.
L’età di Liutprando ci ha lasciato un testo, il patto commerciale fra il regno longobardo e i mercanti di
Comacchio, che risalivano i fiumi padani portando sale, spezie e tessuti preziosi.
Questo patto è del 715 e dimostra che l’aristocrazia longobarda dell’VIII secolo era dotata di ricchezze per poter
investire in simboli di prestigio nuovi o in oggetti di consumo di lusso.
Alla metà dell’VIII secolo non si può parlare ancora di mercanti longobardi direttamente implicati in tali traffici.
Ci viene incontro il resoconto di un placito tenuto a Cremona nell’851-52 da un inviato di Ludovico II, il
consiliarius Teoderico. Lo scopo del placito era dirimere una controversia fra il vescovo locale e gli abitanti della
città, che contestavano riscossioni ingiuste di tributi legati al commercio fluviale. Dallo sviluppo della vicenda
veniamo a sapere con certezza che al tempo in cui Carlo Magno e Pipino erano entrami i re dei Longobardi
(781-810), i Cremonesi effettuavano il loro commercio del sale e spezie che andavano a prendere a Comacchio
per poi rivenderlo all’interno del regno. I loro traffici dovevano essere iniziati in quegli anni, visto che solo
intorno agli anni 20 i cremonesi cominciarono a navigare su navi proprie.
Questo documento permette di datare in modo preciso all’età di Pipino l’avvio di un commercio padano di un
certo livello a opera di mercanti locali; e più o meno nello stesso periodo, i mercanti appaiono nelle
sottoscrizioni dei documenti.
Nelle carte appare anche qualche accenno alle operazioni di prestito di denaro, praticata particolarmente da
un gruppo familiare ben documentato nelle carte: quello lombardo di Totone di Campione. Nel 748 Arighis, il
padre di Totone, prestò un solido d’oro ad Alessandro di Sporticiana, contro l’interesse annuo derivante dallo
sfruttamento di un piccolo prato. La disponibilità di denaro è una caratteristica generale della famiglia Totone.
Da molti punti di vista è un gruppo familiare anomalo perché al centro della sua attività sono colture
specializzate e traffici di denaro o di persone. Nel 777 Totone fa una donazione pro anima al monastero di S.
Ambrogio di Milano e fonda uno xenodochio (centro di ricovero per pellegrini e bisognosi) a Campione. Nel
777 tutto il patrimonio viene posto sotto tutela di S. Ambrogio. Il patrimonio era costituito da massariis,
aldiones, oliveits e altri beni immobili e mobili. Totone poteva quindi vantare di un patrimonio la cui tipologia
era quella del gran possesso terriero, nonostante l’estensione era poco notevole.
Ci che manca nelle carte della famiglia è la prova di un rapporto col potere regio, che era la normalità per le
élites, tranne in casi di opposizione politica. Totone non faceva quindi parte dell’aristocrazia longobarda.
Essendo esente però da collegamenti col potere regio, Totone non risente dei cambi di regime, durante i quali
costruisce la maggior parte della sua fortuna fondiaria, mettendosi sotto la protezione dell’arcivescovo
milanese Tommaso e S. Ambrogio.

I vertici dell’aristocrazia
L’aristocrazia longobarda sembra avere una grande disponibilità di denaro. Il denaro circolava ai livelli massimi,
ed è da tenere assolutamente in conto, poiché anche quando non ci si riferisce a soldi materiali, la ricchezza è
misurata in denaro. Il caso più clamoroso è quello della corte di Alfiano, che è stimata per 8000 solidi.
Per stimare correttamente i valori dobbiamo tenere presente le multe previste dalla legge di Rotari: il massimo
è valutato per 900 solidi per i reati più gravi. Con Liutprando le cifre aumentano arrivando anche a mille soldi.
Le cifre riportate riguardanti la corte di Alfiano dimostrano che si trovava in un livello sociale altissimo.

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E L’INQUADRAMENTO CATTOLICO DELLA POPOLAZIONE
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Roma e i longobardi. Dalle origini all’età di Liutprando


I primi contrasti
Re cattolico e legislatore ispirato al papa, Liutprando cercò al tempo stesso di vibrare il colpo decisivo all’Italia
bizantina nella quale il papato era tuttora pienamente inserito.
Indubbiamente le sue campagne contro l’Esarcato furono favorite dalla debolezza del campo bizantino,
lacerato dalla contesa iconoclastica, che aveva scavato un solco fra le popolazioni bizantino-italiche, la
gerarchia ecclesiastica e le autorità imperiali.
Già nel 717 il re aveva invaso le terre ricavandone solo bottino; ma nel 726 riuscì ad estendere la sua autorità su
numerosi castelli emiliani della Pentapoli. L’indebolimento delle posizioni imperiali nell’Italia centrale era
evidente, ed era la premessa della caduta di Ravenna, occupata anche per un certo tempo intorno al 730-732
da Liutprando, e caduta definitivamente nel 751 per mano di Astolfo. Contemporaneamente Liutprando
riusciva ad estendere in modo efficace la sua autorità sui ducati centro-meridionali.
La debolezza delle autorità bizantine e il favore con cui il re longobardo era stato guardato dalle stesse
popolazioni italiche sotto l’impero, lo avevano messo in una posizione di forza mai avuta prima da nessun re
longobardo.
Fu a questo punto che Liutprando si scontrò con un ostacolo che non riuscì a rimuovere: il pontificato romano.
Viene così in piena luce il nodo principale della situazione italiana: il rapporto fra Roma-papato e i Longobardi.
Roma città i Longobardi poterono conoscerla già durante la guerra gotica, alla quale alcuni loro contingenti
presero parte. Nel periodo successivo all’invasione, le prime bande di guerrieri fecero la loro apparizione
presso Roma durante il pontificato di Benedetto.
Dopo gli ulteriori attacchi dell’età di Agilulfo, i Longobardi si disinteressarono di Roma per circa un secolo. I
legami che in questo periodo erano stati annodati tra papa Gregorio Magno e la corte longobarda non
sembrano avere un seguito. I Longobardi spariscono dalle pagine del Liber Pontificalis. Il rapporto tra papa e
re lo riscontriamo solo a livello epistolare e dalle pagine di Paolo Diacono. Quando i Longobardi riapparvero
all’orizzonte di Roma (VIII), lo fecero in due modi diversi. Il primo quando il duca di Benevento invase il Lazio
meridionale, dove eresse una fortificazione a Horrea. Il secondo quando il re Ariperto I restituì alla Chiesa di
Roma il patrimonio delle Alpi Cozie. Erano due metodi diversi: uno bellicoso e l’altro pacifico, ma entrambi
avevano in comune che in primo piano come interlocutore dei Longobardi era il papato.

Missionari orientali ed eretici: un mito da ridimensionare


La scarsità di rapporti tra Roma e i Longobardi durante il VI e VII secolo spiega perché ci si occupa molto dell’VIII
secolo. Gian Piero Bognetti però ha fatto leva sull’esistenza di missioni di conversione dei Longobardi ariani.
Queste missioni sarebbero state orchestrate da missionari orientali inviati da Roma nel cuore della Lombardia;
di tali missioni sono testimonianze il ciclo di affreschi scoperto nella chiesa di S. Marisa presso Varese.
Gli affreschi datati al VII secolo riportano immagini di Vangeli apocrifi, che circolavano nell’impero bizantino; e
molto probabilmente la chiesa era la base operativa dei missionari orientali.
L’idea delle mission però poggiava su un’altra intuizione generale, che portava a ricostruire la storia dei
longobardi come un’incessante lotta fra ariani e cattolici. La forza dell’arianesimo spiegherebbe quindi le
preoccupazioni papali e le missioni inviate nel regno.
Secondo questa interpretazione il VII secolo segnerebbe la fase missionaria dei rapporti fra Roma e i
Longobardi, intermedia fra l’impatto iniziale puramente bellico, e la fase politica dell’VIII secolo. Questa teoria
va totalmente ridimensionata, poiché i re ariani furono solamente 3 (Autari, Rotari e Arioaldo), mentre tutti gli
altri erano, o simpatizzanti del cattolici. In questo modo però si creavano capi ariani di fantasia, che
nascondevano la presenza di un arianesimo non pericoloso fatta eccezione per l’obbligo del battesimo ariano
ITALIA LONGOBARDA ROMA E I LONGOBARDI. DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI
LIUTPRANDO
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voluto da re Autari nel 590; segno però di una precoce debolezza dell’arianesimo. Quanto ai missionari orientali
che sarebbero stati nel cuore del regno longobardo nella seconda metà del VII secolo, non hanno nessuna
prova del collegamento diretto con il papa.
L’intero obiettivo dei missionari sembrerebbe quello di sconfiggere “l’errore degli Aquileiesi” ossia l’eresia dei
Tre Capitoli, e non l’arianesimo. Come mai il papa avrebbe sostenuto delle missioni se esse non prendevano di
mira l’arianesimo, ma un’eresia in via d’estinzione? Nel 653 l’arianesimo era stato abolito ufficialmente da
Ariperto.
I motivi possono essere due: il primo è la mancanza stabile di una dinastia regia presso i longobardi (la religione
del re non coinvolgeva il popolo). Nonostante ciò il problema tricapitolino alla fine del VII secolo esisteva
ancora, mentre l’arianesimo era già scomparso da tempo. L’eresia dei 3 Capitoli aveva resistito più a lungo
nell’Italia del Nord-est, in particolare nella diocesi di Aquileia. Sostenere lo scarso rilievo dell’arianesimo e dei
Tre Capitoli nella seconda metà del VII secolo, vuol dire togliere plausibilità allo sforzo missionario del papato
verso i Longobardi. Non rimane dunque che prendere atto che il vuoto quasi completo delle fonti longobarde
e romane relative al periodo dal 626 e gli inizi dell’VIII secolo, esprime una rarefazione dei rapporti tra regno e
Chiesa di Roma.
Questo vuoto è riempito dalle vicende di Bobbio e da due lettere di papa Onorio.

L’offensiva di Liutprando
Che i vescovi toscani si sentissero più longobardi che ligi all’obbedienza romana lo dimostra il loro
atteggiamento tenuto in occasione di una delle crisi dell’VIII secolo. È quanto emerge dal messaggio di
Gregorio III dell’ottobre 740 per i vescovi toscani, nel quale il papa li incita a recarsi presso il loro re per perorare
la consegna delle città da loro occupate. Siamo così all’VIII secolo, che segna la svolta nei rapporti fra papi e
Longobardi. La nuova fase si rispecchia un una rinnovata attenzione da parte delle fonti, nelle quali ha un rilievo
l’età di Liutprando.
In Paolo Diacono, il primo riferimento diretto ai rapporti fra il re e la Chiesa di Roma chiama in causa il
patrimonio delle Alpi Cozie, confermate alla chiesa dal re. Le lunghe guerra fatte da Liutprando vengono
limitate come contro i romani o contro i ducati di Spoleto e Benevento.
Approfittando della crisi, la situazione era favorevole per Liutprando: gli eserciti dell’Esarcato, della Pentapoli
e di Venezia si erano ribellate all’Imperatore Leone III, eleggendo alla loro testa dei duchi indipendenti da
Bisanzio. Il papa però sperava in una riconciliazione. Gregorio infatti aveva insistito presso duca e patriarca
perché lo aiutassero a recuperare la città alla respublica e agli imperatori Leone e Costantino.
Nonostante il terremoto in atto, Liutprando restituì Sutri dopo pochi giorni. La donazione di Sutri che avvenne
nel 728, sarebbe stata la prima pietra sulla quale si sarebbe costruito il futuro Stato pontificio. Nel corso di
queste vicende, Liutprando risparmiò Roma trovando un accordo con Gregorio II. Come esito dell’accordo con
l’Esarca, Liutprando sottomise i duchi, ma una volta arrivato a Roma, al posto di consegnare il papa all’esarca,
depose in S.Pietro alcune delle insegne regali. Fu una prova dell’ascesa di Gregorio su Liutprando.
Apparentemente era tutto tornato come prima.

L’attivismo di Gregorio III


Gregorio III si schierò con il duca di Spoleto quando si ribellò a Liutprando, fatto che scatenò un’altra crisi. Il
duca scapperà a Roma nel 739. Questo fatto fu alla base dell’alleanza tra papato e ducato, mostrandoci che
alla base delle azioni del papa ci sono rivendicazioni territoriali.
Il biografo di Gregorio III racconta in modo diverso i fatti di Sutri rispetto a Gregorio II. Egli ci racconta come il
papa abbia pagato per riavere il controllo di Gallese, evitando lo scontro con il duca di Spoleto. Il papa tratta
in prima persona, l’autorità papale appare più dominante rispetto al passato.

ITALIA LONGOBARDA ROMA E I LONGOBARDI. DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI


LIUTPRANDO
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Dalla biografia di papa Zaccaria sappiamo che il re reagì alla fuga del duca a Roma, e poiché il papa non voleva
restituirlo, aveva occupato 4 città del ducato romano. Una volta che il re torna a palazzo a Pavia, il duca si
impadronì del nuovo ducato grazie all’esercito di Roma, senza restituire le 4 città occupate da Liutprando.
Nel 714, quando il re si sta mobilitando contro il ducato romano, muore Gregorio e gli succede Zaccaria.
Gregorio muore lasciando la crisi in pieno svolgimento a Zaccaria, che riuscirà a risolverla. Il suo pontificato è
interessante perché trapelano le prime novità: il ruolo dell’esercito romano, e i capitula.

I viaggi di papa Zaccaria


I rapporti di Liutprando con Zaccaria furono molto intensi e segnarono gli ultimi anni del suo regno. È il biografo
del papa nel Liber Pontificalis che ci racconta gli incontri tra i due capi.
Il primo incontro ebbe luogo nel 742 a Terni, nel quale Zaccaria puntò a ottenere indietro le 4 città del ducato
romano. Nel secondo incontro nel 743, il papa chiese i territori dell’Esarcato occupati da Liutprando, puntando
all’arresto dell’avanzata in quella regione.
Per il secondo incontro, il papa andò a Pavia. Fu un evento clamoroso scandito da un rituale preciso. Il re che
non volle ricevere i messi del pontefice gli mandò incontro i suoi nobili sul Po. Giunti a Pavia, il papa e il re si
incontrarono fuori dalle mura e insieme si recarono nella chiesa di S.Pietro in Ciel d’Oro. Una volta rifocillati
entrarono in città. Il giorno successivo il papa celebra la messa. Solo il giorno dopo ancora il re invitò il papa a
palazzo, dove si svolsero i colloqui politici. Alla conclusione del colloquio il re accompagna personalmente
Zaccaria, di tappa in tappa, fino al Po.
Il cerimoniale di Pavia era già stato usato l’anno precedente a Terni, anche se meno solenne.
Quello che ci ha rivelato il biografo papale è un rituale di legittimazione reciproca e pubblica.
Una legittimazione forte è quella di Pavia, più importante per il papa. Il prezzo pagato da Zaccaria fu molto
alto: dovette celebrare una messa in una chiesa fondata dal re in presenza di esso. I risultati però furono molto
positivi. Alla base del viaggio al di là del Po c'era stato l’appello dell’Esarca di Ravenna, che aveva chiesto aiuto
al papa contro le costanti offensive di Liutprando.
Quelli tra Zaccaria e Liutprando sono i primi incontri solenni fra un papa e un sovrano dei regni occidentali. In
entrambi i casi Liutprando ostenta un ruolo di grande dignità; il re aspetta il papa, non gli va incontro

Una situazione fluida


Da questa analisi delle fonti si ricava una lezione precisa: questi rapporti non vanni letti in una chiave
deterministica. Dietro tale rifiuto c’è la consapevolezza che da parte papale non c’era quella chiara coscienza
della strada da percorrere. È caratteristico di come si vada disponendo il puzzle costituito dalle fonti.
Liutprando diventa padrino di Pipino, in questo modo formalizza anche la sua alleanza con Carlo Martello.
Gli sviluppi della crisi italiana vanno letti nel loro preciso contesto, che era in continuo mutamento.

ITALIA LONGOBARDA ROMA E I LONGOBARDI. DALLE ORIGINI ALL’ETÀ DI


LIUTPRANDO
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Il passaggio dai longobardi ai carolingi


Essendoci stato consegnato il popolo dei romani
Le campagne condotte da Liutprando durante il suo regno lo avevano portato a un passo dal dominio
completo della penisola. Ma alla fine il re si era fatto convincere da Zaccaria a risparmiare Ravenna da un
secondo attacco. Era rimasto in piedi un embrione di Italia bizantina, che contava sull’appoggio dei papi.
Lo stallo fu superato dalla morte del re nel gennaio 774. Con il nuovo sovrano Ratchis, il papa firmò una pace
ventennale. Ratchis riprese le ostilità nonostante la pace firmata; nonostante ciò si fece fermare dal papa. Nel
749, Ratchis lasciò il titolo regio per entrare in convento, lasciando il potere a suo fratello Astolfo.
Astolfo era molto meno malleabile del fratello e, la mobilitazione militare del 750 fu la prova delle sue
intenzioni, che si concretizzarono con la presa di Ravenna. Nel 751 l’Italia intera era sotto il dominio di Astolfo,
che si era definito Re della stirpe dei Longobardi. Longobardi, Romani, abitanti dell’esarcato erano tutti
ugualmente soggetti al re. Nello sbando dell’Italia bizantina, l’unico potere ad avere un minimo di
rappresentatività collettiva era quello del papa. Da qui nacque l’alleanza tra Pipinidi e papi. La scelta di Pipino
di intervenire in Italia fu condizionata dal fatto che nel 751, aveva assunto il titolo di re dei Franchi. L’unzione
dei re franchi li poneva allo stesso piano dei re d’Israele. Fin dal 751 i legami tra potere dei pipinidi e la chiesa
sono evidenti. Si parla però di Chiesa e non papato. Le prime fonti di rapporto con il papa infatti sono da
ricercare con Stefano II, che stabilì un legame saldo con Pipino e i Franchi.

Dagli interventi di Pipino alla conquista del regno


Il groviglio di trattative diplomatiche creatosi all’indomani della caduta di Ravenna culminò nel 754 con il
viaggio di Stefano II avente lo scopo di recuperare i territori occupati da Astolfo, viaggio che lo condusse fino
in Francia. A St.Denis il papa unse nuovamente il re e i suoi figli come sovrani e patrizi dei Romani. In questa
occasione, a Quierzy-sur-Oise, Pipino fece una donazione (promissio carisiaca) di territorio a San Pietro e al suo
successore (papa).
La conseguenza più importante del viaggio fu l’intervento di Pipino in Italia nel 754 e 756: Pavia venne assediata
e la richiesta di pace di Astolfo fu accolta dietro la promessa di restituzioni territoriali a San Pietro. Le
concessioni tuttavia non portarono a risultati decisivi, il che fece intervenire nuovamente Pipino, che sconfigge
ancora i Longobardi.
Alla morte di Astolfo nel 757, Desiderio fu scelto come nuovo re, che tenne inizialmente un profilo basso,
cercando anche altre alleanze nei confini vicini (Baviera, Benevento). Inoltre Desiderio fece sposare Carlo a una
delle sue figlie, che servì al re nei suoi rapporti con il papato; anche dopo la partenza di Pipino i papi non
avevano smesso di rivendicare le terre romagnole, emiliane e marchigiane. Il tentativo di istituire un
protettorato longobardo su Roma fallì sia nel 768 che nel 771. La posizione di Desiderio in questi anni molto
forte, ma la svolta si ebbe nel 771, dopo la morte di Carlomanno, che indebolì il sistema politico di Desiderio.
Carlo quindi ripudia la sua moglie longobarda per avere il controllo del regno Franco.
Con la morte di Carlomanno il re Longobardo fece pressione su Roma e sul papa, con lo scopo forse di far
ungere i figli del sovrano defunto, e nel 773 era a Viterbo. Carlo finalmente valica le Alpi, rispondendo all’appello
del papa e sconfisse Desiderio alle Chiuse di Val di Susa; e nel giro di un anno l’Italia cadde sotto il dominio
franco. Nel 774 presero Pavia, e il re con la sua famiglia venne spedita in Francia. Solo Adelchi fuggì a Bisanzio.

La superiorità militare dei franchi


Solo il sud longobardo (ducato di Benevento) era sfuggito alla conquista militare franca. Per la terza volta il
regno longobardo era crollato sotto i Franchi.

ITALIA LONGOBARDA IL PASSAGGIO DAI LONGOBARDI AI CAROLINGI


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I due regni rappresentavano due strutture politiche molto evolute, ma la differenza stava sul piano militare.
Entrambi i popoli basavano la loro forza militare sulla cavalleria pesante armata. Una differenza era la ricchezza
dell’aristocrazia franca rispetto a quella longobarda.
Due esemplari tipici di questo ceto emergono dalla documentazione lucchese. Nell’agosto 755, Gaiprando
donò alla chiesa di S. Frediano una casa con il massaro perché chiamato in guerra in Francia, con la speranza di
essere ricompensato nell’aldilà. Analogo è il comportamento del pisano Domnolino, che nel 769 concede a sua
sorella di disporre di una certa quantità di beni, anche se sotto il controllo del prete Lutfredo.
Ben diverso appariva l’addestramento e l’abitudine mentale alla guerra dei Franchi; che spiega lo stato di
guerra permanente in cui versava il regno franco e la sua aristocrazia.

I problemi interni di Desiderio


Come abbiamo visto, lo scontro alle Chiuse di Val di Susa era risultato decisivo. Una volta spezzata la difesa
longobarda, i Franchi erano dilagati nella pianura padana e Desiderio e Adelchi si erano rifugiati a Pavia e
Verona.
Già prima della battaglia delle Chiuse si erano verificate defezioni nello schieramento longobardo. Alla fine del
772, in un diploma di Adelchi per il monastero familiare si S. Salvatore si nominavano le terre curtensi e i servi
confiscati a una serie di persone abitanti a Rieti. Un’altra traccia si può cogliere nel Chronicon Salernitanum,
che scrive come fra i Longobardi fosse scoppiato un conflitto a causa di cupidigia di ricchezze.
L’ultimo re dei longobardi era una sorta di uomo nuovo. Desiderio aveva origini bresciane, e prima di diventare
re aveva fondato il monastero di Leno, e poi, diventato re fonda anche il monastero di S.Salvatore di Brescia;
fondazione religiosa che diverrà un monastero familiare.
Desiderio prese il potere dopo due re friulani e, nonostante il passaggio non fosse indolore, il fatto che il nuovo
re abbia installato come duca a Benevento nel 758 il friulano Arechi II fa pensare che abbia trovato un accordo
con una parte dell’aristocrazia austriaca. Fu dunque sfruttando le divisioni interne all’aristocrazia vento-
friulana che Desiderio arrivò al potere; divisioni che dal 757 aumentarono, rendendo debole lo stato all’arrivo
dei Franchi.

Sottomissione e rivolte
Se la situazione interna del regno prima del 774 era quella descritta, è evidente che l’elemento primo della sua
disgregazione non risiedeva nel fatto di confrontarsi con il papa, andando contro la causa sancti Petri.
Un rifiuto generalizzato di combattere per Desiderio avrebbe dovuto lasciare tracce evidenti
nell'atteggiamento dei vescovi: che non è riscontrabile. Al contrario ci sono segnali evidenti di un
coinvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche nella lotta anti-franca.
Quel poco che sappiamo del comportamento dell'episcopato lombardo va in senso diametralmente opposto.
Tutti i dati concordano nel delineare un episcopato compatto dietro i loro sovrani.
Tutto ciò appare strano se noi continuiamo a leggere la storia con l’ottica deformante della vecchia storiografia
italiana. Da tale documentazione si deduce come il ceto vescovile dell’VIII secolo fosse espressione diretta del
ceto dominante del regno. I suoi esponenti erano membri delle famiglie localmente potenti e ricche di terre,
uomini e denaro. Non erano vescovi allora a contrapporsi a Desiderio, ma una parte dell’aristocrazia. Il capo
dell’opposizione di Desiderio era un certo Ildeprando. Quando Desiderio si rinchiude a Pavia nel 773, Ildeprando
viene eletto a Roma come duca di Spoleto (dopo la morte di Teodicio).
L’elezione romana di Ildeprando rappresentò una mossa molto importante per il papa Adriano I.
Solennemente, in S.Pietro, gli Spoletini promisero di entrare al servizio della Chiesa romana, dopodiché furono
tonsurati more Romanorum; solo dopo ciò viene nominato duca Ildeprando. Gli Spoletini furono imitati dagli
abitanti di Fermo, Ancona, Osimo e Città del Castello; che dopo il ritorno dalle Chiuse si sottomisero al papa.

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La donazione di Carlo Magno e la costituzione di Costantino


Il contenuto della donazione di Carlo Magno ci è descritto dal biografo di Adriano I nel Liber Pontificalis. I
contenuti delle rivendicazioni (donazione di Carlo e promissio di Pipino) furono ripresi in un testo franco
nell’817, quando Ludovico il Pio emana per papa Pasquale I un diploma. Il Ludovicianum è molto più limitato
rispetto alle prime due donazioni, comprendendo solo 3 blocchi territoriali: il ducato di Roma, la Tuscia romana
e il ducato di Perugia.
La donazione del 774 è la più disattesa. L’idea di fondo era quella di limitare la stabile presenza franca ai territori
settentrionali del regno longobardo, con la sola eccezione di Venezia e dell’Istria, attribuite alla Chiesa di Roma.
All’origine di questa divisione ci doveva essere il ricordo tra la divisione tardoantica di Italia annonaria e
suburbicaria. Il papa era il prefetto ed erede di Roma.
Questa stessa cultura entrò in gioco anche nella confezione di un famoso testo: il Constitutum Costantini. Il
testo conteneva la donazione dell’Occidente romano a papa Silvestro I da parte di Costantino, mediante la
consegna delle insegne imperiali. Ormai sappiamo da secoli che il testo è un falso, sappiamo comunque che il
testo è datato tra il 760 e l’800. Il suo contenuto è importante perché rivela idee prospettive e ideologiche del
periodo che stiamo esaminando. Secondo Nelson e Godson la redazione del Constitutum sarebbe da collocare
verso la fine dell’VIII secolo, a partire dal 795. Di conseguenza il testo non avrebbe un carattere polemico, di
rivendicazione dell’autorità papale nei confronti dei Franchi, ma avrebbe rappresentato un’affermazione
ideologica del ruolo conferito da Dio al papa. La datazione tarda poggia sulla riconsiderazione di fonti diverse,
quali oggetti votivi donati da papi e imperatori (da Carlo Magno in poi) a S.Pietro; i resti della decorazione del
Triclinio di Leone III in Laterano; l’epitaffio di Adriano I e una lettera di Alcuino al nuovo papa.
Non è impossibili e che il nucleo di testi abbia radici più antiche, e che poi abbia assunto un senso diverso nel
contesto dell’età di Leone III. Dunque se non il Constitutum in sé, il trasferimento di autorità sull’Occidente era
presente già prima dell’età di Leone III. Secondo le autrici citate prima, la potestas conferita al papa sarebbe
da intendere come puramente spirituale. È possibile che il senso di potestas sia transitato dall’ambito spirituale
all’ambito politico.

La conquista franca si consolida


Né la promessa del 774, né i timori papali del 775 si avverarono. Presa Pavia, Carlo conquistò tutta Italia senza
sollevazione generale; solo i Friulani e gli altri duchi dell’Austria si ribellarono, ma vennero stroncati nel 776
dopo che Carlo ebbe abbandonato il fronte sassone. Il re franco insediò i suoi uomini solo nelle civitates ribelli,
senza effettuare sostituzioni generali in tutto il regno.
Carlo negli anni successivi estese la sua autorità verso sud. Si arrivò nel 787 alla sottomissione del ducato
beneventano, Arechi però aveva assunto il titolo di princeps. A Spoleto Carlo aveva esteso la sua autorità già
dal 779, quando il duca si recò in Francia per sottomettersi con grande solennità rituale a Carlo. Negli anni
successivi al 776 il dominio franco andò acquisendo caratteri più chiari. Nella pasqua del 781 il figlio di Carlo fu
battezzato con il nome Pipino e fu unto re dei Longobardi a Roma da Adriano I. Essendo ancora un bambino,
il governo effettivo del regno era sotto le mani dei suoi tutori.
Gli anni successivi alla conquista franca furono molto duri per il regno e per la popolazione. Ciò emerge da un
capitolare emesso dal re franco nel febbraio del 776; in esso si cassavano tutte le transazioni avvenute
precedentemente. La situazione era critica ovunque, e le disposizioni di Carlo Magno puntavano a restaurare
un minimo di ordine sociale e di protezione dei pauperes. Gli atti stipulato con i loca venerabilia (chiese e
monasteri) furono esclusi dal pacchetto di misure previste, è la prima prova dell’alleanza tra i due poteri.
Oltre alle donazioni, sempre a favore delle chiese suona una lettera scritta nel 779-80 da Carlo Magno e rivolta
ai vertici del regno longobardo, nella quale il sovrano invitava all’obbedienza verso le gerarchie ecclesiastiche,
ed esortava al pagamento delle none, delle decime e degli altri censi. L’esenzione degli enti ecclesiastici dai

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provvedimenti del capitolare del febbraio 776 significava escludere da una riconsiderazione di ciò che era
avvenuto negli ultimi anni una quota molto considerevole di transizioni.

La fase più dura dell’occupazione


La storia di Paolo è interessante anche per un altro motivo.
Nel 791 era iniziata una guerra tra il regno carolingio d’Italia e il principato di Benevento, che aveva causato
numerose defezioni fra i Longobardi del Nord e dello Spoletino che avrebbero dovuto combattere contro di
lui. Non avendo potuto portare testimoni a suo favore, il duca di Spoleto venne sconfitto, e i beni di Paolo e di
sua moglie Tassila rimasero a Farfa. Il testo non è chiarissimo e non si capisce se Winichis avrebbe dovuto
confiscare tutti i beni di proprietà di coloro che si trovavano in quelle condizioni o solo dei beni loro donati dai
duchi; in entrambi i casi è chiaro che si trattava di una norma dirompente dal punto di vista sociale: è l'esplicita
volontà di smantellare le clientele.
L’Italia Longobarda, ci appare caratterizzata da diversità regionali molto nette.
Quest’osservazione chiama di nuovo in causa il Friuli, che svolse un ruolo di laboratorio della conquista; oltre
rapida sostituzione dei vertici locali, vi furono anche confische di beni delle persone coinvolte nella ribellione
di Rotcauso.
La vicenda ci suggerisce che lo strumento del beneficio sia stato usato soprattutto là dove si trattò di
impiantare una vera e propria occupazione militare. Il diploma emanato da Carlo ad Aquileia nel luglio dell’808
è significativo di un clima che cominciava a cambiare: l’imperatore restituiva a Manfredo di Reggio i beni
confiscatogli.

Vassalli e signori
Fu solo tra il 3° e 4° decennio del IX secolo che arrivarono in Italia molto vassalli. Terminata la fase
dell’emergenza, le istituzioni vassallatico-beneficiarie dimostrarono un lento radicamento nella società
longobardo-italica. Un sondaggio fornisce meno di 10 nomi di vassalli tra l’801 e 814.
Nonostante questi numeri l’importanza delle istituzioni vassallatico-beneficiarie rimane innegabile. Le clientele
fra i liberi non avevano la specializzazione militare che il vassallaggio aveva assunto in ambito franco.
Fin dai primissimi tempi i Longobardi si erano inseriti all’interno delle nuove clientele. Pur essendo un
comportamento tipico degli immigrati, il vassallaggio si diffuse superando le barriere etniche.
Il caso più evidente è quello testimoniato da un contratto amiatino dell’809 tra i fratelli Boniperto e Leuperto
e il monaco di S.Salvatore. Probabilmente i fratelli non erano vassalli, infatti la presenza alternativa al canone
agrario sembra collocarli nel novero dei contadini dipendenti; ma non si può nascondere la tendenza italica
all’atto scritto potrebbe nascondere il rapporto nelle forme ritualizzate del vassaticum.
Sempre nelle campagne, molti uomini liberi verranno attratti nelle maglie della grande proprietà fondiaria, in
forte crescita. Uno dei documenti che ci mostra le difficoltà degli arimanni è una carta piacentina dell’832, che
affronta la questione della difesa della libertà personale di un gruppo parentale che doveva prestare le corvées
alla chiesa piacentina, ma che si sottraevano a quest’obbligo per paura di essere assimilato alla popolazione
servile.
L’Italia Longobarda entrò nel mondo franco conservando molte delle sue specificità. Tuttavia tali specificità
non intaccano un dato di fondo: il regno longobardo aveva assunto una fisionomia che aveva in comune molti
tratti col regno franco.

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Narrare la caduta. La fine del regno longobardo fa


propaganda e memoria
La voce dei vincitori e quella dei vinti
Se si tiene conto delle fonti contemporanee (774), la caduta del regno Longobardo sotto il dominio franco è
poco testimoniato, ma se si tiene conto delle fonti dell’XI secolo le cose cambiano. Il Chronicon Salernitanum
del X secolo ci fa un ritratto drammatico dell’ultimo re longobardo; altro esempio è il Chronicon della Novalesa
(XI), che racconta anche della guerra delle Chiuse.
Sono notizie interessanti che provano l’esistenza di una tradizione filolongobarda mantenutasi nel tempo. Nel
caso della battaglia delle Chiuse, secondo il Chronicon della Novalesa, sarebbe stato deciso dal tradimento di
un giullare. Anche la caduta di Pavia sarebbe da imputare al tradimento della figlia di Desiderio. La vivacità del
racconto del monaco della Novalesa è dovuta al suo attingere alla tradizione relativa a quei fatti che era rimasta
viva. L’antichità di queste tradizioni è provata anche da fonti vicine ai fatti: biografie dei vescovi ravennati,
dove si parla del tradimento alle Chiuse. La tradizione del tradimento è possibile che si fosse formata subito
dopo lo svolgersi degli eventi.
Un altro fatto significativo all’interno della cronaca novaliciense, è che i longobardi non sono descritti come
nemici condannati alla sconfitta. La cronaca di Salerno e quella della Novalesa sono narrazioni prodotte in
situazioni lontani dai fatti del 774, il quadro che emerge dalle testimonianze contemporanee è del tutto
diverso.
È però da precisare che nelle fonti italiane contemporanee non c’è una rielaborazione degli eventi, e la
conquista del regno Longobardo sembra un evento di poca rilevanza. Le fonti italiane però sono costituite
solamente da fonti papali e degli Annali Franchi: ciò che manca è il punto di vista della popolazione longobarda.

La propaganda papale: le lettere


Al centro delle fonti italiane, non troviamo la caduta del regno del 774, ma l’intero quarantennio che va da
Stefano II ad Adriano I.
La propaganda papale dell’VIII secolo si concretizza con le biografie del Liber Pontificalis e con le lettere inviate
ai sovrani franchi. Nel caso delle lettere, il blocco dominante è rappresentato dall lettere del Codex Carolinus,
fatto redigere da Carlo Magno nel 791 con lo scopo di conservare testi danneggiati o semidistrutti. Quella che
fu effettuata alla corte franca fu una selezione di lettere da salvare. Esaminando in dettaglio l’epistolario
papale si può ricavare un’impressione complessiva netta: a focalizzare l’attività epistolare sono 3 fatti.
Il primo è l’offensiva di Astolfo contro Roma del 756, il secondo sono le trattative matrimoniali di uno dei
sovrani franchi con la figlia di Desiderio nel 770-71, il terzo è la tentata sollevazione dei duchi longobardi contro
i Franchi del 776.
Le malefatte di cui è accusato Astolfo (da Stefano II) sono allucinanti. I campi fuori Roma sono stati incendiati
e distrutti, le chiese e le immagini sacre distrutte, mentre le ostie sono mischiate con la carne e mangiate dai
Longobardi. Siamo di fronte ad un pezzo di propaganda sopra le righe, che culmina in un’altra missiva inviata
da Stefano a nome di S.Pietro, dove il santo invoca la protezione dei Franchi. Questo primo blocco di lettere
individua una fase critica da parte papale, che termina solo con la morte di Astolfo. Ugualmente critica è la fase
segnata dal matrimonio tra un sovrano franco e la figlia di Desiderio, fase immortalata dal papa Stefano III, che
definisce i Longobardi come perfidi e fetenti.
Anche i pericoli di riscossa longobarda successivi alla sconfitta di Desiderio hanno grande rilievo nelle lettere
papali, ma qui il tono rimane più pacato. Pur nell’evidente preoccupazione del papa Adriano, il linguaggio
relativamente misurato dimostra che in questo caso non dubita dell’appoggio di Carlo.

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PROPAGANDA E MEMORIA
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Il linguaggio papale in tutto l’epistolario è sempre molto enfatico, ma è chiaro che nel 756 e 770-71 deve
raggiungere dei vertici ineguagliati. Da parte ecclesiastica c’è quindi una persistenza del linguaggio politico che
appare saldissima. È probabile che tali radici risalgano alla seconda metà del VI secolo, epoca di Gregorio
Magno.

La propaganda papale: la vita dei pontefici


Un’altra fonte di cui disponiamo è il Liber Pontificalis, che è quanto di più simile ad una fonte ufficiale abbia
espresso il patriarcato lateranense.
La biografia di Stefano II può essere letta in contrapposizione alle lettere inviate dalla sua cancelleria. La
portata della minaccia di Astolfo lo fa definire con tutti gli aggettivi negativi possibili (nefando, blasfemo).
L’azione che più di tutti lo caratterizza è la rappresaglia contro Roma del 756.
Il cambio di registro impresso dalla vita di Stefano II coincide con le testimonianze dell’epistolario. Le vite
successive invece (Paolo I e Stefano III) sono di non semplice valutazione. La prima è del tutto priva di
riferimenti politici, mentre la seconda è divisa in due parti, di cui la prima parte è dedicata agli avvenimenti
successivi alla morte di Paolo. Con la vita di Adriano I le cose cambiano: il nodo è sciolto e la questione
longobarda è in via di risoluzione.
Fra l’epistolario e il Liber Pontificalis ci sono somiglianze e differenze. La propaganda anti-longobarda in
entrambi i casi si esprime in due punti forti, collocati all’inizio e alla fine del periodo decisivo, mentre il periodo
di tensione con i Franchi risalta nell’epistolario, nel Liber è solo accennato. L’impressione è che nelle biografie
papali l’intento propagandistico copra gli obiettivi degli estensori. Dal canto loro le lettere sono nutrite da
propaganda, ma come strumento immediato di lotta politica.

La recensione franca e quella longobarda


Il valore propagandistico del Liber Pontificalis è provato dal fatto che esso girava in versioni differenti. Prima
di tutti va richiamata la recensione franca alla vita di Gregorio III, dove si racconta la richiesta di aiuto del papa
a Carlo Martello. Si tratta di un’inserzione posteriore.
Secondo l’opinione più diffusa, il passo aggiunto deriverebbe da un ambiente franco e da fonti franche. La
diversa ipotesi di un’origine romana della classe di manoscritti alla quale il codice viennese appartiene
cambierebbe il quadro solo in parte.
In effetti colpisce il fatto che le prime lettere del Codex Carolinus siano riferite all’appello di Gregorio III,
nonostante fosse rimasto inascoltato. Alla fine dell’VIII secolo quell’episodio valeva come un precedente
importante che meritava di figurare nel quadro ricostruito dalla propaganda carolina. Il Liber nel codice
viennese termina con la vita di Stefano II, permettendoci di datare all’età di quest’ultimo la propaganda franca.
Si tratta di un dato cronologicamente interessante.
Ognuna delle due fonti utilizza un episodio secondario mettendo in luce diversi momenti che non possono
essere considerati né papali né franchi.
Può sembrare limitato il rapporto fra la versione franca del Liber e la riflessione delle strategie politiche che si
leggono ai fatti del 774, ma non è così. Questa versione prova la plasmabilità del testo delle biografie papali,
introducendo una riflessione sul Liber della recensione longobarda.
La recensione longobarda riporta una riscrittura della vita di Stefano II che espunge sistematicamente le
espressioni offensive nei confronti di Astolfo e del popolo longobardo. È l’unica biografia nella quale si è
esercitata questa opera di revisione. La recensione longobarda non si limita a eliminare gli aggettivi che
caratterizzano i Longobardi, ma cassa anche gli aggettivi laudativi impiegati dal biografo per Pipino e Stefano.
In tal modo ci troviamo di fronte ad un racconto nudo.

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PROPAGANDA E MEMORIA
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Il fatto che tale versione si trovi all’interno del codice 490 della Biblioteca capitolare di Lucca aggiunge
interesse a tutta la faccenda. Non si sa se questo sia il codice originario, ma ancora una volta se pure la
recensione longobarda fosse di origine romana la prospettiva non cambierebbe.

Frammenti di memoria
Tornando alla prospettiva longobarda si può trovare una memoria del 774. Infatti c’è un modo di datare tra la
fine dell’VIII e inizio IX secolo che appare interessante. In esso compare il riferimento alla conquista del regno
da parte di Carlo re dei Franchi.
Per necessità le carte registrano immediatamente i mutamenti di regime, anche senza nominare la conquista
come fatto, ma solo definendo Carlo come re d’Italia e patrizio dei romani.
Riferimento a fatti o situazioni precise si trovano anche altrove. Nel maggio del 774, il gasindio regio Taido fece
una donazione che costituisce il suo testamento. Le ingenti donazioni da lui fatte dovevano servire per i luoghi
santi e venerabili. Taido in quanto gasindio è un uomo di Desiderio, a lui personalmente legato. Le donazioni
fanno intendere il periodo di crisi che stava attraversando il regno.
Rimane il fatto che il 774 ha segnato in modo chiaro solo la datazione dei documenti toscani; altrove questo
non è successo, se non in minima misura. Nelle carte lucchesi la conquista di Carlo rimane costante fino alla
sua morte. A mano a mano che si scende al sud il ricordo della conquista comincia a sbiadire nelle datazioni.
Possiamo allora parlare di un modo di ricordare gli eventi del regno che si esprime tramite la recensione
longobarda del Liber.

Prospettive regionali
Dall’uso della terminologia politica e notarile come mezzo di riaffermazione di un’identità minacciata, torniamo
alla narrazione degli eventi della caduta del regno e alla costruzione di una prospettiva storica dei fatti del 774.
Va sottolineato che fra queste narrazioni l’unica con una visione alternativa sarebbe stata quella di Paolo
Diacono.
Pur nella povertà della “prospettiva longobarda”, si può individuare un altro testo dello stesso tipo della
recensione del Liber, la cui originalità risulta dal rimaneggiamento di un testo precedente. Si tratta della
Continuazione cassinese di Paolo Diacono, contenuta in un codice cassinese del XIV secolo. La Continuazione
cassinese è una sorta di premessa della “Storia dei Longobardi di Benevento” di Erchemperto, del secolo XI,
che inizia il suo racconto dopo il 774.
Esso consiste in una storia del regno a partire da Liutprando; si menzionano poi Ildeprando, e da Ratchis in poi
si segue il Liber Pontificalis. Torna così al centro dell’attenzione la vita di Stefano II. Siamo di fronte ad una
breve recensione longobardo-meridionale che narra in modo sintetico i fatti, rinviando i particolari al Liber
Pontificalis. Il codice contiene una memoria cassinese, che è anche memoria longobarda.
Nella Longobardia minore esiste un’altra versione fortemente filo – desideriana della fine del regno, che risale
a meno di un secolo dei fatti. Si tratta del prologo delle leggi del principe beneventano Adelchi II. Nel prologo
Carlo è presentato come un traditore invidioso. Siamo nell’866 e tutto il testo va visto anche nell’ottica di un
confronto politico tra Adelchi e l’imperatore Ludovico II.
Le fonti longobarde meridionali del IX secolo contengono delle brevi narrazioni dei fatti del 774 presentandoli
in modo neutro o anti-franco.

La spada dei longobardi


Le differenti narrazioni della caduta vanno lette in riferimento al contesto temporale in cui furono prodotte.
L’impressione è che la versione dei fatti legati alla caduta del regno che emergono dal mondo longobardo
siano versioni regionali. La fragile prospettiva longobardo-italica degli eventi del 774 e la debordante versione
dei vincitori si propongono come uno specchio deformante degli equilibri e delle realtà politiche del tempo.

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PROPAGANDA E MEMORIA

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