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DIALETTO, DIALETTI E ITALIANO

C. MARCATO

DIALETTO E LINGUA

Le origini del termine dialetto risalgono al greco dialéktos che significa ‘lingua di un
determinato popolo’. La nozione di “dialetto greco” con riferimento all’antica Grecia è
familiare agli umanisti latini del 400 che la esprimono con diversi vocaboli latini (lingua,
idioma, sermo ecc.) e, a partire dal 1473, anche con parola dialectus. Negli scritti in italiano,
la forma dialetto non compare prima del 1546 ad opera di Niccolò Liburnio. Nell’antica
Grecia infatti vi erano dei dialetti, ovvero varietà linguistiche relative a territori diversi, poi
questi dialetti sono stati soppiantati dalla koinè, lingua comune, basata sullo ionico-attico, in
epoca ellenistica. Le documentazioni mostrano che dal secondo 1500 letterati italiani nei loro
scritti si riferiscono al dialetto con un’accezione subordinata a lingua. Da qui nacque la
cosiddetta “questione della lingua” Si tratta di una polemica attorno al tipo di lingua da
considerare come norma linguistica per poter fissare una grammatica. La soluzione che prevalse
fu quella proposta da PIETRO BEMBO nelle Prose della volgar lingua (1525), la quale
consiste nell’imitazione dei classici fiorentini trecenteschi considerati il modello principale.
La prima attestazione del termine dialetto nel significato odierno, è del letterato Anton Maria
Salvini e risale al 1724. A partire dall’unita d’Italia (1861, poi 1870 con Roma capitale) si
accelera il processo di diffusione dell’italiano avviato da tempo anche a livello di lingua
parlata, non senza i contatti e le interferenze con i vari dialetti, che si realizzano facilmente
quando la competenza della lingua è scarsa e si padroneggia meglio il dialetto. L ‘uso del
dialetto è comunque preferito da molti, che non esclude la conoscenza della lingua, Anche il
primo re d’Italia, Vittorio Emanuela II, usa abitualmente il dialetto persino nelle riunioni con
i ministri. La diffusione della lingua nazionale è favorita da circostanze diverse: l’unificazione
nazionale con il suo apparato burocratico, la scuola, i mezzi di comunicazione, l
urbanizzazione. L’apprendimento dell’italiano avviene per lungo tempo attraverso la
scolarizzazione mentre la conversazione spontanea si realizza in dialetto. Più si espande
l’italiano meno si usano i dialetti, ma ciò non significa che i dialetti stiano scomparendo.
L’utilizzo del dialetto è prediletto sempre dal Sud rispetto al Nord. Ma generalmente il dialetto
è in posizione subordinata rispetto all’italiano. Vi sono particolari forme di recupero, come
teatro o musica. Parlare di dialetto italiani equivale ad adoperare un’espressione di ambiguità.
Forse sarebbe più opportuno riferirsi a dialetti d’Italia piuttosto che italiani. Il dialetto va oggi
inteso con due diverse accezioni:

1. Sistema linguistico autonomo rispetto alla lingua nazionale.


2. Varietà parlata della lingua nazionale.

Va ricordato che anche l’italiano è in origine un dialetto: il toscano di tipo fiorentino della
tradizione scritta trecentesca, che a partire dal 500 viene scelto come modello per la lingua
chiamata, a quel tempo, lingua volgare e in seguito lingua italiana. I dialetti (lingua romanza
o neolatina) italiani sono il risultato di trasformazione del latino parlato diffuso.

IL DIALETTO OPACO

L’evoluzione del dialetto e dei suoi usi comporta anche l’abbandono di parole dialettali.
Tuttavia alcune di esse sopravvivono anche se non sono più comprese nel loro significato
originale diventando, così, forme opache, per esempio, le voci che appartengono al lessico
del lavoro agricolo e di altri settori della cultura tradizionale che ormai pochissimi praticano
ancora. Vi sono alcune forme linguistiche usate quotidianamente che hanno a che vedere con
i dialetti e che sono altrettanto opache, riguardo il significato. È il settore del patrimonio
linguistico, costituito dai nomi propri di battesimo e di famiglia (cognomi) che nell’ insieme
formano la antroponimia, e nomi propri di luogo (toponimi) o toponomastica, che nel
complesso costituiscono l’onomastica. Si può provare a fare qualche esempio con i cognomi.
Calzolai, che è un cognome Toscano, può essere ricondotto senza fatica al nome di un
mestiere, quello del calzolaio. Prima di diventare un cognome, è stato un soprannome di una
persona che praticava il mestiere o che in qualche modo ci aveva a che fare. La stessa origine
si può trovare nel cognome Calzolari, diffuso al nord e al centro Italia, perché la parola
calzolaro può essere facilmente accostata a quella di clazolaio e essere una variante regionale.
Calzolaio/calzolaro = derivano dal latino CALCEOLARIU(M) (a sua volta da CALCEU(M)
“scarpa, stivaletto”). In ogni caso entrambi i due cognomi usati non si possono dire una forma
linguistica opaca poiché corrispondono a una parola in uso nella lingua. Sono quindi nomi
propri “trasparenti”, che consentono di riconoscere nei nomi un “significato” che coincide
con la motivazione che ne è all’origine. Ma per esempio alla base di un cognome come
Callegari, chi sarà riconoscere lo stesso mestiere? Si può individuare all’origine del cognome
una voce dialettale, diffusa la nord, che significa calzolaio. Ma non è detto che basti conoscere
il dialetto, perché può trattarsi di una parola che oggi nel dialetto non è più usata; quindi
Calzolari/callegari rispondono a due diverse parole che designano lo stesso tipo di lavoro ma
che sono utilizzate in zone geografiche diverse. Questi cognomi sono direttamente
rapportabili al dialetto se si conoscono le parole dialettali che ci sono alla base, ma qualora
non fosse così si tratterebbe di voci dialettali opache, ovvero non trasparenti, non chiare al
parlante, il quale non riesce a riconoscere ad identificare il legame tra forma di partenza e
forme derivata. L’opacità quindi può essere dovuta anche al disuso, abbandono delle parole
che sono alla base. Quei cognomi che hanno all’origine tratti dialettali, sono collegabili a
determinate aree geografiche e linguistiche. Es: Russo: ha una tipica evoluzione fonetica dei
dialetti meridionali, per cui l’equivalente di rosso in quell’aria geografica è russo.

Morfologia dei cognomi:

 La presenza della finale in –s, in Sardegna.

 Area friulana cognomi con suffisso –ùs(so)

 Area veneta suffisso –àto

 Area clabrese –ìti

 Area Siciliana cognomi con il prefisso in

Il cognome, quindi, si sviluppa da un soprannome che viene aggiunto all’individuo, talvolta


visto come offensivo. Come abbiamo detto precedentemente l’opacità dei nomi vale anche
per i Toponimi. ES: nell’ epoca antica, dopo che i romani conquistarono maleventum decisero
di chiamarla beneventum. Non è difficile accorgersi che la prima parte Male- è sostituita da
Bene-, in ricordo della vittoria e per allontanare i cattivi presagi, ma soprattutto perché i
romani scambiarono la parola antica mal “altura” con quella latina malus “cattivo”. Questo
procedimento può portare anche alla sostituzione di una parola con un'altra: ES: gli abitanti
Schiavi (in provincia di Caserta) non riconoscendo nella parola l’origine da sclavus “slavo”,
la interpretarono come “schiavo” e la cambiarono in Liberi. Ci sono poi altri casi che
corrispondono alla necessità di dare un significato a un nome. Quando una forma linguistica
risulta opaca il parlante tende a intervenire per ricostruire un rapporto tra forma esterna
(significante) e significato arrivando anche a una nuova motivazione. Molto spesso questa
ricostruzione porta alla paretimologia. La reinterpretazione paretimologia – o etimologia
popolare – è una riflessione sulle parole a livello di cultura popolare. Mentre l’etimologia è
uno studio scientifico l’etimologia popolare opera delle associazioni tra una parola e l’altra
senza che vi sia un reale rapporto etimologico. La paretimologia non appartiene solamente
alla cultura popolare ma, molto spesso, anche ai parlanti colti i quali credono di individuare
delle relazioni tra parole e di poter stabilire un etimo: in tal casi si parla di etimologia dotta.

DIALETTO TRASPARENTE

L’abbandono del codice dialettale ha favorito lo sviluppo della lingua dei giovani, il
cosiddetto gergo giovanile. Il tipo di italiano dei giovani è quello colloquiale dell’uso
contemporaneo, con particolarità come frasi brevi e spesso interrotte e l’uso generalizzato del
pronome tu e la ricorrenza del prefisso mega-. Il linguaggio giovanile ha come base l’italiano
colloquiale, informale e scherzoso nel quale entrano e si mescolano altri componenti che sono:

 La componente gergale “tradizionale” che si riferisce a parole che hanno un’origine


gergale (Togo, Secchione, Cotta). In questa componente rientrano anche termini che sono
state trasmesse da una generazione all’altra e quindi considerate di “lunga durata”.

 La componente gergale “innovativa” che è quella caratterizzante la lingua dei giovani.


Comprende quelle forme linguistiche create dai giovani attraverso procedimenti che servono
a modificarla, con gradazione diversa, la forma esterna o il significato della parola. Un
esempio di cambiamento del significato è cozza che assume il valore di ragazza brutta.

 Dalla pubblicità e dai mezzi di comunicazione di massa, provengono slogan pubblicitari


che vengono ripetuti come tormentoni (mastrolindo per indicare una persona calva).

 Gli elementi tratti da lingue straniere o i forestierismi Sono per la maggior parte
rappresentati da anglicismi, ma ci sono anche riprese latine (bonus). Un gruppo di voci, di
apparente origine straniera, costituisce gli pseudo-forestismi, per esempio effusion
“tenerezze”.

L’elemento dialettale nella lingua dei giovani: L’elemento dialettale di cui i giovani oggi
si appropriano per la logo lingua è evidentemente materiale linguistico trasparente, il
significato è noto e ciò permette anche interventi sullo stesso. Il risultato è che per l’aspetto
relativo al significato i dialettismi sono impiegati in senso letterale o metaforico. Una volta
ottenuto un senso traslato, quello letterato viene obliterato specie se il parlante è
esclusivamente italofono. A livello di lingua scritta si registra qualche intervento grafico che
assegna alla parola una particolare sfumatura tra i culturale e il politico, per esempio l’uso del
grafema -k- . Le parole dialettali possono mutare da un area a una altra: Campania: tamarro;
Sicilia :zaùrdo; Roma: Burino. Le dorme di dialettalità giovanile non significano, dunque,
recupero o rivalutazione della realtà dialettale del passato ma sono utilizzate in quanto
rappresentano uno scarto rispetto alla varietà degli adulti e all’uso linguistico comune. In
sostanza la rinuncia del dialetto porta al monolinguismo, ossia l uso del solo italiano, ma
l’adozione di voci ed espressioni dialettali che vengono italianizzate comporta la formazione,
all’interno della varietà dell’italiano, di un certo lessico usato in determinate situazioni come
nel caso degli usi giovanili. Il sottofondo dialettale è diverso da un territorio all’altro e si
riflette variamente nella lingua dei giovani. Frequenti impieghi del dialetto si rilevano in
particolari forme di scrittura come gli sms. Tra le funzioni della lingua dei giovani si
riconoscono:

1. Una funzione ludica.

2. Una funzione che permette di affermare l’appartenenza al gruppo (Criptolalia).

3. Una funzione che invece consente l’affermazione del singolo all’interno del gruppo.

IL DIALETTO ARCAICO

Con l’espressione dialetto arcaico ci si riferisce al dialetto che si parlava un tempo o a quello
che si parla oggi ma in luoghi geograficamente isolati. Il dialetto è dunque “arcaico” rispetto
a un dialetto “moderno” per due ragioni principali:

 Vanno in disuso perché non si adopera più il referente che denominano.

 Vanno in disuso perché sono sostituite da altre.

Il rinnovamento avviene spesso dall’esterno. In questi ultimi tempi il cambiamento del lessico
del dialetto è un effetto del contatto con l’italiano. Il risultato è l’italianizzazione del lessico
dialettale. Se, dunque, anche le parole che designano concetti o oggetti o referenti comuni
stanno diventando “arcaiche”, a maggior ragione fanno parte del dialetto arcaico le parole che
si riferiscono a mestieri e attività della cultura tradizionale che oggi non si praticano più. In
genere di tratta di lavori che sono ormai praticati quasi soltanto da persone anziane o solo
ricordati da queste. Non solo le consuetudini e le credenze a differenziarsi da un luogo a un
altro ma anche i nomi di semplici oggetti, e in quel caso si può osservare che in Italia è facile
trovare delle variazioni nelle diverse aree geografiche

ES: la “culla”, che fino a qualche decennio fa le culle tradizionali erano in uso e le
denominazioni dialettali erano diverse e raggruppabili nei seguenti tipi lessicali:

 Cuna, dal latino CUNA “culla”: dialetti settentrionali

 Culla (toscano) e connula (in area centromeridionale), dal latino CUNULA, diminutivo di
CUNA;

 Nanna (in area marchigiana): propriamente nanna è il “dormire” dei bambino, il termine si
riferisce alla funzione dell’oggetto.

 Navicula (in area pugliese), dal latino NAVICULA, diminutivo di NAVIS “nave”, in senso
traslato.

 Naca (nei dialetti meridionali ed estremi) dal greco nake che rappresenta il “vello di pecora”
e quindi la culla fatta da quest’ultimo.

 Brassol (sardo)

Le diverse voci dialettali si distribuiscono in aree lessicali: ogni area è caratterizzata dalla
presenza di un tipo lessicale, vale a dire da una parola piuttosto che da un’altra. Con tipo
lessicale si intende un parola modello che riproduce la forma essenziale senza tener conto
delle varie sfumature nella pronuncia o in derivati può assumere nei dialetti dei vari paesi.
Con onomasiologia si intende quel settore della ricerca linguistica che si collega alla geografia
linguistica e studia in particolare come un determinato concetto o oggetto è denominato in
una data area. Parole e cose è un metodo di ricerca per cui lo studio della storia degli oggetti
deve andare insieme allo studio della storia delle parole. Il dialetto come tutte le lingue viventi
non è immobile ed è soggetto a modificazioni di cui anche il parlante si può accorgere, così
come si può rendere conto delle differenze tra dialetto del suo paese e quello del paese vicino.
Tra i motivi dei cambiamenti vi sono gli influssi dei dialetti dei centri urbani e dell’italiano.
Un altro elemento da sottolineare è la presenza del dialetto locale e del dialetto che si potrebbe
dire regionale. In generale abitare in centro al paese può significare usare un tipo dialettale
più borghese (cioè meno arcaico) mentre abitare ai margini o in campagna depone a favore di
un tipo più rustico.

IL DIALETTO E LA CULTURA INTELLETTUALE

Lo studio delle parole di origine colta (i cosiddetti cultismi) nei dialetti è interessante non solo
per l’aspetto linguistico ma anche per quello antropologico; nel modo di accogliere i cultismi
si possono ritrovare infatti certe mentalità e atteggiamenti. Una ricca fonte di cultismi è la
terminologia religiosa, in modo particolare il latino della chiesa, il cosiddetto latinorum. È un
settore nel quale è alto il grado di oscurità e di incomprensione della parola con la conseguente
deformazione della stessa. Inoltre sono frequenti i cambiamenti di significato per cui le parole
finiscono per scostarsi anche notevolmente da temi religiosi; non di rado si osserva una
tendenza verso l assunzione di un significato dal valore negativo. Echi letterari giunti
attraverso la lettura, o attraverso le storie che si raccontavano nelle veglie serali, o nelle
piazze, si colgono in varie parole o espressioni dialettali. Si sono formate proprio da questa
via, termini come rubissòn (misantropo, uomo rude) si può riconoscere la fortuna delle
vicende del naufrago solitario Robinson Crusoe.

IL DIALETTO IN CITTÀ

Agli inizi della dialettologia scientifica si poteva istituire più facilmente un confronto tra le
città e la campagna: la prima aperta alle innovazioni, la seconda, invece centro di arcaicità, di
conservatività. E in linea generale questa era una situazione frequente, ma non la regola. Anzi,
le ricerche di dialettologia urbana mostrano che se le città sono luoghi di modernità, d’altra
parte sono in grado di essere anche più conservative delle campagne. E poi anche il piccolo
borgo può avere il suo centro, con il suo parlare più urbano, e le frazioni dove solitamente
stanno i cittadini con il loro parlare più rustico. Nelle città il dialetto schietto resiste più a
lungo nelle classi popolari. La dialettologia si è occupata per lo più della campagna, dei
piccoli paesi, e perciò è stata chiamata dialettologia rurale, mentre lo studio della situazione
dialettale nelle città viene definito dialettologia urbana. Le innovazione in passato potevano
andare nella direzione città – campagna e procedere con i ritmi richiesti dai contatti e dalle
comunicazioni. Oggi le comunicazioni raggiungono contemporaneamente centri grandi e
piccoli. Quando si parla di innovazione, bisogna considerare che le modalità sono le stesse
anche se le situazioni cambiano, vale a dire che un’innovazione investe un individuo o un
gruppo sociale e le conseguenze sono l’accettazione, il rifiuto o la reazione. Comunque, la
città con la sua rete sociale aperta e con la disponibilità al rinnovamento, tendenzialmente,
mostra un minor grado di conservazione nei riguardi del dialetto. Con rete sociale si intende
una struttura sociale intermedia attraverso la quale, ogni individuo comunica con gli altri
individui della stessa comunità; è formata da un insieme di relazioni. Date le dimensioni della
città descriverne la parlata è un lavoro troppo complesso. È un tipo di ricerca che richiede la
selezione di campioni di parlanti, come di fa nelle indagini di tipo statistico. È necessaria una
progettazione che preveda le variabili da considerare, i criteri di selezione del campione, e
non trascuri aspetti che possono essere importanti, come la coscienza linguistica del parlante.
Nello studio della dialettologia urbana l’interesse si incentra più che sul dialetto in prospettiva
geografica, o diatopica, sul dialetto in prospettiva sociale o diastatica. Tale diversità possono
essere il risultato di un processo storico, perciò anche l’aspetto diacronico deve essere tenuto
in conto. Inoltre in una città due diversi dialetti geografici, come il torinese e il siciliano,
possono diventare due dialetti sociali, per esempio attraverso gli emigrati il dialetto siciliano
giunge a Torino dove finisce per trovarsi in rapporto sociale di subordinazione al dialetto
locale. Il dialetto sociale va inteso come varietà caratterizzato dal farro di essere usata da un
gruppo o classe sociale.

IL DIALETTO E IL CONTINUUM

Le statistiche informano che oggi circa un 50% della popolazione alterna italiano e dialetto e
ciò conduce al formarsi di varietà intermedie dall’italiano e il dialetto passando attraverso un
italiano dialettizzato e un dialetto italianizzato. Una situazione di questo tipo può essere
chiamata continuum linguistico, denominazione che si oppone a discretum. Una situazione
denominata continuum geografico è quella rappresentata da due dialetti dell’Italia
geograficamente adiacenti. Il repertorio linguistico è l’insieme delle varietà di lingua e di
dialetto simultaneamente disponibili ad una comunità di parlanti in un certo periodo di tempo.
L’insieme di varietà tra lingua e dialetto può essere schematizzato (Pellegrini, 1975) nel
modo seguente:

 Italiano standard

 Italiano regionale

 Koinè dialettale
 Dialetto schietto

Variazione Diatopica – Con italiano regionale ci si riferisce a quella varietà della lingua
connesso a fattori diatonici (o geografici/spaziali). I termini di origine dialettale entrati in
italiano sono solitamente denominati dialettismi o dialettalismi (pizza, cassata, grissini,
‘ndrangheta). Nel rapporto tra lingua e area geografica si possono avere situazioni di
geosinonimia. I geosinonomi sono lessemi della lingua italiana aventi, come i sinonimi,
forma diversa e significato uguale (affittare (nord), appigionare (toscana), locare (sud)).
Accanto alla geosinonimia si può parlare di geomonimia. I geomonimi sono parole simili dal
punto di vista della forma che posseggono significati diversi in diverse aree geografiche
(tovaglia: al nord si usa per la tavola, al sud è l’asciugamano).

Variazione Diasastrica – Le varietà sociali, dette anche varietà diasastriche, sono le varietà
dell’italiano connesse alla variazione diasastrica che dipende dalla stratificazione
socioeconomica della collocazione culturale dei parlanti. Una varietà di italiano caratterizzata
socialmente è il cosiddetto italiano popolare o italiano dei semicolti. L’italiano popolare è il
tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto. Le interferenze
del dialetto sull’italiano creano una varietà intermedia che si definisce interlingua e l’italiano
popolare ne è una tipica situazione. Nel repertorio linguistico italiano sono presenti varietà di
dialetto schematicamente rappresentate nel modo seguente:

 Koinè dialettale

 Dialetto urbano

 Dialetto locale (o rustico)

Le grandi città offrono i riferimenti per un dialetto civile mentre i dialetti delle campagne
sono visti come un indice di inferiorità socioculturale e di rozzezza. Le innovazioni possono
raggiungere un luogo non avanzando nel territorio ma in modo diverso e cioè per
paracadutismo (il termine rende l’idea di innovazioni a distanza).
IL DIALETTO PARLATO E IL DIALETTO SCRITTO

Possono essere varie le motivazioni per scrivere in dialetto:

 Perché si ritiene che abbia una maggiore espressività, maggiore forza stilistica rispetto
all’italiano;
 Vi è poi la volontà di esprimersi nella lingua di primo apprendimento.

Tra gli usi non letterari dello scrivere in dialetto si annoverano gli scritti epistolari. Si tratta
di non numerosi esempi ad opera di letterati, giacché gli illetterati si sforzano di scrivere in
lingua ma col risultato di un italiano scolastico. Per quanto riguarda gli usi letterari del dialetto
si deve a Benedetto Croce la definizione di letteratura dialettale riflessa, con cui si intende la
scelta del dialetto pur potendo disporre anche di un altro strumento comunicativo. La scelta
di usare il dialetto ha ragioni diverse ma forse a principale è che parlare il dialetto è ritenuto
più incisivo, specie nell’esprimere un sentimento. Il dialetto è lo strumento che permette di
arrivare alle radici, di rifarsi di una tradizione antica, ma può essere anche una scelta
fortemente ideologica. Non di rado infatti si sceglie di scrivere in dialetto come protesta nei
confronti della lingua cosci detta egemonica ed inadeguata ad esprimere la vitalità del
quotidiano. Non di rado la decisione di scrivere in dialetto si configura come opposizione
polemica nei confronti della lingua considerata egemonica ed inadeguata ad esprimere le
vitalità del quotidiano. La grafia dialettale resta un problema quando non si faccia ricorso a
una trascrizione fonetica. Si tratta di utilizzare un alfabeto artificiale per rendere con
particolari lettere e segni i suoni dei vari dialetti. La scrittura dialettale è varia per il fatto che
nel tempo si sono proposte soluzioni grafiche diverse per rendere suoni particolari di ciascun
dialetto. L’utilizzo di segni diacritici, indispensabili per studi scientifici sui dialetti, non è una
soluzione praticabile per la scrittura rivolta ad un pubblico non specialista. La mancanza di
grafie dialetti unitarie, e possibilmente adatte a rendere la fonetica dei dialetti, è dovuta al
fatto che i dialetti non sono stati interessati da processi di normalizzazione grafia. Si può
collocare tra scritto e parlato l’impiego del dialetto nel cinema. Il cosiddetto dialetto da
vedere. Tra le forme del dialetto da vedere rientrano le cosiddette “scritture esposte”, che
possono essere di tipo spontaneo o meno. Si tratta di modalità nuove di impiego del dialetto,
specialmente da parte dei giovani, che investono più in generale le diverse forme dei nuovi
messi di comunicazione e di massa. Le scritture esposte comprendono diversi tipi, dalle
insegne di ristoranti, bar, negozi, ai gadget, ai graffiti ecc. Le documentazioni sinora raccolte
di questo tipo di scrittura con presenza di dialetto sono quasi sempre in zone urbane come
Napoli, dove sono piuttosto numerose. Piuttosto numerose e varie le scritture esposte in
dialetto o con elementi dialettali che figurano allo stadio.

FONTI E STRUMENTI PER LA CONOSCENZA DEI DIALETTI

La dialettologia è lo studio delle parlate vive (livello di oralità). Vi sono strumenti utili, in
primis i vocabolari dialettali: necessarie indagini sistematiche sulle parlate vive condotte
secondo una rigorosa ed uniforme metodologia. Per lo studio scientifico dei dialetti italiani,
ovvero al dialettologia scientifica, si usa indicare come data d’inizio il 1873, anno in cui venne
pubblicato i primo volume della Archivio Glottologico Italiano ad opera del glottologo
Graziadio Isaia Ascoli, quasi per intero dedicata alla descrizione dei dialetti ladini.
Parallelamente agli studi si realizzano d’ora in avanti vari progetti di raccolta sistematica di
informazioni sui dialetti italiani, attraverso la realizzazione di atlanti linguistici, la
compilazione di vocabolari dialettali, fino all’ultimo progetto di respiro nazionale denominato
Carta dei Dialetti Italiani. Vi sono degli esempi già cinquecenteschi di vocabolari basati su
varietà di dialetto per i quali il riferimento è il Vocabolario degli Accademici della Crusca.
Perciò tali opere si configurano come un impianto organico ed elaborato.

Il più noto vocabolario del 500 è lo Spicilegium compilato da Lucio Giovanni Scoppa. Che
comprende due parti:

 Un vocabolario Latino – volgare

 Frasario latino – volgare

La dialettica del volgare di questo vocabolario hai i tratti del napoletano e di altre varietà
meridionali. Le grammatiche dialettali costituiscono un altro strumento per la
documentazione e per lo studio dei dialetti italiani. Non sono numerose quanto i vocabolari e
rispondono a criteri e metodi di compilazione assai diversi. Nel 1779 viene pubblicata una
grammatica del napoletano, opera dell’economista Ferdinando Galiani, intitolata Del dialetto
napoletano, in cui descrive il napoletano non nella varietà parlata dal popolo bensì in una sorta
di dialetto “illustre”, già italianizzato, da rivitalizzare e utilizzare n tutte le situazioni
comunicative, anche pubbliche. Del 1783 è la grammatica piemontese di Maurizio pipino,
nella quale si descrive il torinese della corte. Oltre al compito di descrivere un sistema
linguistico o dettarne delle regole, ad una grammatica può essere affidato anche a quello di
ricostruire le vicende storiche di un dato sistema. Dopo l’unità d’Italia quando si fa più urgente
la necessità di diffondere l’italiano tra la popolazione, il ministro della Pubblica Istruzione,
Paolo Boselli, bandisce un concorso per la compilazione di buoni vocabolari dialettali. Si
tratta di iniziative destinate a non avere seguito anche per la politica culturale del governo
fascista non favorevole alla conservazione e alla promozione delle culture e lingue regionali.
I compilatori di grammatiche dialettali spesso ricalcano l’impianto di una grammatica
scolastica dell’italiano. Dati importanti per la conoscenza dei dialetti vengono dai cosiddetti
testi dialettali. Una delle prime raccolte di campioni dialettali è quella di Leonardo Salviati
che nel 1586 riunisce dodici versioni dialettali della nona novella della prima giornata del
Decamerone. Tra queste varietà, ritiene Salviati, è il fiorentino l’unica a poter essere scritta.
Il testo scelto diventa paradigmatico; infatti viene ripreso quasi tre secoli dopo da Giovanni
Papanti che riunisce 704 versioni della novella. Un altro test ampiamente utilizzato come
testimonianza dialettale è la Parabola del Figlio Prodigo tratta dal Vangelo di Luca;
l’iniziativa di utilizzare questa parabola per la documentazione linguistica è di Napoleone
Bonaparte. Verso la meta del XIX secolo è stato soprattutto il dialettologo veronese
Bernardino Biondelli a far uso di questo testo per le versioni dialettali raccolte per
corrispondenza con la collaborazione informatori locali; Biondelli ne ha pubblicata una parte
nel suo Saggio sui dialetti galloitalici (1853). Per l’Italia è la prima impresa di
documentazione sistematica. Una svolta sostanziale nella raccolta sistematica e comparabile
di dati dialettali è la conseguenza di una diversa impostazione culturale per cui i fatti
linguistici sono visti nel contesto di una situazione spaziale, geografica. In questa prospettiva
– denominata geografia linguistica – si consolida una ricerca sul campo durante la quale la
raccolta della viva voce consolida una ricerca sul campo durante la quale la raccolta della viva
voce di un informatore viene immediatamente trascritta, adottando un appropriato sistema di
trascrizione fonetica. Questa modalità di indagine sui dialetti perfezionata nel tempo è quella
anche oggi praticata. La prima applicazione di questa prassi si concretizza con degli atlanti
linguistici sono strumenti importanti per lo studio dei dialetti; si tratta di opere che sono il
risultato di raccolte di materiali linguistici attraverso interviste e informatori. Una ricerca
linguistica si può realizzare in vario modo. Tra le diverse modalità di esecuzione sono
comprese la conversazione libera e l’intervista che si basa su un questionario. Il primo
esempio è un progetto del 1876 del linguista tedesco Georg Wenker che si propone di stabilire
e fissare cartograficamente i confini dei dialetti tedeschi. Occorre tener presente che una
ricerca linguistica, vale a dire una raccolta di materiali dialettali, si può realizzare in vario
modo considerando l’interrelazione che si stabilisce tra chi la conduce (il raccoglitore) e
l’informatore, e inoltre, gli obiettivi della stessa. L’inchiesta con il questionario permette di
raccogliere e di disporre più facilmente di dati omogenei da rappresentare poi in apposite carte
linguistiche.

LE AREE DELL’ITALIA DIALETTALE

Dopo Dante che aveva ordinato i volgari con criterio geografico tenendo come riferimento
l’Appennino, è necessario aspettare il XIX secolo per delle proposte di classificazione. Tali
classificazioni nascono da in un periodo in cui si dedica molta attenzione alla documentazione
dei dialetti. Parallelamente allo svilupparsi di uno studio dialettale condotto con metodo
scientifico, verso la seconda metà del XIX secolo il tema della classificazione dei dialetti,
viene ripreso specialmente per opera di studiosi come Graziadio Isaia Ascoli, seguito da
Clemente Merlo e altri. Le soluzioni proposte variano, a dimostrazione di quanto sia
complessa questa operazione, la quale non può tenere conto di fattori extralinguistici.

[Col termine sostrato si intende la lingua diffusa in una data area prima che un’altra lingua si
sovrapponga a essa. Nel tempo la lingua di sostrato può scomparire. Nella storia linguistica
dell’Italia con “sostrato” si allude solitamente al “sostrato prelatino” e ai riflessi derivati dal
contatto con il latino e le diverse lingue parlate dai popoli abitanti nella penisola nel corso dei
secoli sono stati conquistati dai Romani. Queste lingue di sostrato sono poi scomparse per
lasciare posto al latino. Nella storia linguistica dell’Italia notevole importanza hanno i contatti
con le lingue germaniche che avvengono a seguito delle invasioni barbariche. Ma nell’Italia
tra tardo antico e alto medioevo sono presenti anche altri popoli come I bizantini, gli Arabi.
Le diverse genti con le loro lingue condizionarono l’evolversi delle parlate nella penisola,
soprattutto con l’ingresso di prestiti lessicali; si tratta di influssi di lingue di superstrato (cioè
la lingua che si sovrappone a quella in uso in una data area) o di lingue di adstrato (cioè la
lingua territoriale vicino ad un'altra).]

Nella maggior parte delle classificazioni vale il principio del rapporto con il latino, ovvero
un criterio “genealogico”, cioè una valutazione della maggiore o minore distanza dai diversi
dialetti da questa lingua a quella dalla quale sono appunto derivati. Inoltre, tenuto conto del
fatto che il toscano è la varietà che nella struttura della parola è rimasta più vicina al latino, la
prospettiva può essere vista anche in termini di maggiore o minore affinità col toscano.
L’Ascoli (1882) elabora uno schema che comprende quattro gruppi:

 Gruppo A: dialetti franco – provenzali, dialetti ladini.

 Gruppo B: dialetti gallo – italici, dialetti sardi.

 Gruppo C: veneziano, dialetti centrali, dialetti meridionali, còrso.

 Gruppo D: toscano.

Il quarto gruppo è caratterizzato da una maggiore fedeltà al latino. Questo non significa che
il toscano somiglia al latino ma che i cambiamenti sono più contenuti che in altri dialetti come
si può vedere nella struttura della parola. Per esempio, gli esiti dialettali di un termine latino
come Dominica sono: toscano domenica veneto domènega friulano domènie romagnolo
dmenga. Se la classificazione ascoliana si basa su una descrizione della situazione attuale,
quella proposta da Merlo aggiunge una prospettiva storica richiamando le antiche fasi
linguistiche prelatine dell’Italia. Lo schema di Merlo piuttosto simile a quello di Ascoli, ne
differisce aggiungendo il vegliotto (parlata dell’isola di Veglia) nel gruppo A e spostando al
gruppo B i dialetti con sostrato venetico. Ci sono state anche altre classificazioni. I soli dati
linguistici non danno risultati soddisfacenti, per cui gli studiosi si sono orientati verso la
ricerca di una soluzione al difficile problema della classificazione dialettale che considera
anche altri fattori: la storia, il contatto tra lingue, la variabilità linguistica in genere secondo
la prospettiva moderna sociolinguistica. La classificazione dialettale che è stata seguita da
vari studiosi è quella proposta da Giovan Battista Pellegrini che si fonda sul concetto di Italo-
romanzo, con il quale allude al complesso delle “svariate parlate della Penisola e delle Isole
che hanno scelto già da tempo, come lingua guida”.

L’italo-romanzo può essere suddiviso in cinque gruppi o sistemi fondamentali:

1. Dialetti settentrionali

2. Friulano

3. Toscano

4. Dialetti centromeridionali

5. Sardo.
La classificazione permette una prima articolazione delle varietà, ma al suo interno sono
possibili ulteriori suddivisioni. Come si vede, fanno parte dell’italiano – romanzo anche il
sardo e il friuliano ai quali altre classificazioni hanno assegnato una posizione autonoma
nell’ambito delle varietà neolatine. La classificazione di Pellegrini va oggi in parte rivista se
di assume di considerare le varietà dell’Italia linguistica diverse dall’italiano come suddivisi
libi nei due gruppi seguenti:

 Dialetti italiani o dell’Italia;

 Minoranze linguistiche.

Infatti per la leggere 482 del 15 dicembre 199 “nome di tutela delle minoranze linguistiche
storiche”, la quale stabilisce che tra le minoranze sono compresi anche friulano e sardo. Il
Ladino nella classificazione di Pellegrini non viene menzionato per la sua posizione incerta
nei confronti della lingua tetto, che per un certo numero di parlanti di ladino non è l’italiano
ma il tedesco. Per quanto riguarda i rapporti tra ladino e friulano, vi è da osservare che tali
varietà presentano delle concordanze che si estendono anche, in misura minore, al ladino
occidentale o svizzero; perciò possibile leggere nei manuali un unico gruppo ladino
comprensivo di ladino occidentale, ladino centrale e friulano. Si tratta di parlare di parlate che
sono assai conservative. I dati linguistici che sono alla base dell’individuazione di cinque
aree, o gruppi o sistemi, fondamentali in seno all’italo – romanzo, provengono da fonti
diverse, ma in particolari della carte dell’AIS, un atlante linguistico i cui materiali sono stati
raccolti tra il 1919 e il 1928, quando la dialettalità nella penisola era più spiccata. Le diverse
aree sono evidenziate sulla base di isoglosse che segnano la diffusione nello spazio di
determinati fenomeni linguistici. La ripartizione dialettali formulata da Pellegrini è
rappresentata cartografatamente sulle Carta dei dialetti d’Italia elaborata dallo stesso autore;
i cinque sistemi appaiono nettamente differenziati l’uno dall’altro, ma in realtà tra l’uno e
l’altro c’è un passaggio graduale, perché si tratta di un continuum geografico. Volendo
indicare anzitutto delle generalità in merito all’italo – romanzo, si può osservare
preliminarmente che taluni fenomeni interessano diffusamente l’Italia settentrionale e non
quella toscana e/o centromeridionale e viceversa. Il limite di diffusione di ogni singolo
fenomeno indicato su una carta geografica costituisce un’isoglossa. Il termine, introdotto nel
1892, è composto di due parole greche iso- “uguale” e glossa “lingua” e si usa per indicare
una linea ideale che, in una carta linguistica, rappresenta graficamente tutti i punti che hanno
in comune lo stesso elemento linguistico; perciò delimita l’area in cui esso è presente, ne
segna il limite di diffusione. Isoglossa può valore anche per l’elemento stesso o, ancora, per
l’elemento comune a più aree o tradizioni linguistiche. Più isoglosse costituiscono un fascio
di isoglosse. Le isoglosse che corrono tra La spezia –Massa carrata e Rimini-Fano
accomunano l’aria meridionale, lasciando fuori toscano e dialetti centromeridionali. Tra i
fenomeni linguistici più significativi (valutati in confronto al latino parlato)vi sono:

1. La sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione intervocalicasi tratta di k, t, p, che


diventano g, d, v (l’evoluzione è la seguente: p diventa b e poi v.) e di qui si hanno ulteriori
sviluppi nei diversi dialetti, con frequente caduta della consonante.

2. Le consonanti doppie si trovano in posizione intervocalica diventano semplici


(degeminazione). Le consonati doppie di mantengono nel toscano e nei dialetti
centromeridionali.

3. Le vocali finali atone (non accentate) dal latino diverse da –a generalmente cadono: cane
>can; il fenomeno prende il nome di apocope e si presenta con intensità diversità nei dialetti
e a seconda delle vocali.

Altre importanti isoglosse attraversano l’Appennino tra l’area dei Colli Albani e i dintorni di
Ancona; le più significative

1. Il gruppo consonantico nt diventa nd (monde per monte)

2. Il gruppo consonantico nd si trasforma in nn (Quann per quando)

3. L’aggettivo possessivo è posposto al nome a cui si riferisce: patrima “mio padre”

4. Forme lessicali tipiche dell’area meridionale, come tenere, femmina, frate, rispetto ad
avere, donna, fratello, in uso nel Centro – Nord, con riflessi anche nell’italiano.

Questi fasci sono stati utilizzati da Rohlfs per una classificazione molto generale delle parlate
dialettali italiane.

Consideriamo i tratti linguistici dell’italo – romanzo in relazione ai cinque sistemi principali,


ovvero:
 Dialetti settentrionali;

 Friulano;

 Toscano;

 Dialetti centromeridionali;

 Sardo.

Il gruppo dei dialetti settentrionali ha tra i suoi tratti linguistici più caratteristici e generali la
sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche e lo scempiamento delle consonanti
doppie. Può essere diviso in due aree principali:

 L’ area Gallo italica comprende i dialetti piemontesi, lombardi, liguri, emiliani e

romagnoli. È così denominata da Biondelli perché condivide elementi che sono anche
dell’area francese e che costituiscono il risultato di un evoluzione comune, dal latino, per
ragioni storiche e culturali. In questi dialetti compaiono i seguenti tratti linguistici:

1. Le cosiddette vocali turbate, ovvero, le pronunce del tipo lüna “luna” , lün “luna”. Sono
particolari pronunce di vocali come u ed o (quando nella parola sono accentate e nelle
corrispondenti parole latine erano rispettivamente u lunga ed o breve.)

2. La vocale a quando è accentata diventa è (e dal timbro aperto). Questo cambiamento di


pronuncia consiste in una palatalizzazione e riguarda specialmente il piemontese (in forme
verbali: parlè “parlare”) e tutto il romagnolo.

3. Il gruppo consonantico -CT- delle parole latine si modifica in due modi diversi:

-nel piemontese centroccidentale e ligure diventa –it- :lait “latte”, noit “notte”;

-nel piemontese orientale e nel lombardo diventa c’: lac’; noc’.

4. Ampissima caduta dei vocali atone (non accentate) in fine parola quando sono divise da a
ed e (del plurale): can”cane” càval “cavallo. A causa della diffusa caduta della vocale finale,
nei dialetti galloitalici sono molte le parole che terminano in consonante, viceversa in toscano
e nei dialetti centromeridionale le parole terminano in vocale.

Si distacca da questo aspetto il ligure nel quale generalmente si conserva il vocalismo finale.
 Rispetto alle caratteristiche galloitaliche, l’area Veneta non ha le vocali turbate, quindi si
dirà luna, fogo ecc. Il gruppo consonantico –CT- si risolve in-t_: gli esiti di voci latine come
LACTE(M) e NOCTE(M) sono lat e note, attraverso una fase latte, notte e con successivo
scempiamento delle consonati. Con questa ed altre caratteristiche il veneto assume una
posizione atuonoma nel gruppo dei dialetti settentrionali.

Parlato in Friuli, il friulano è formato da varietà che si differenziano l’una dall’altra, ma le


differenze non impediscono la comunicazione tra friulano foni. Nel suo complesso il friulano
ha tratti linguistici che condivide con la maggior parte o l’intera area settentrionale. Tra gli
elementi che lo distinguono vi sono:

1. La palatalizzazione di ca- e ga: una parola latina come GALLINA(M) è diventata gialìna,
CASA(M) è cìasa.

2. La conservazione di –s finale del latino, presente nel plurale dei sostantivi femminili e in
parte dei maschili: can- cians (cane-cani).

3. La conservazione di taluni gruppi consonantici del latino come pl, bl,gl,cl,fl. Perciò da una
parola latina come PLANU(M) “piano” deriva il friulano plan.

Le caratteristiche linguistiche indicate si ritrovano nel ladino dolmatico (o ladino centrale) e


nel ladino occidentale (o ladino svizzero). Tra gli altri fenomeni tipici del friulano va
menzionata la presenza di vocali lunghe e brevi che hanno funzione distintiva, per esempio
pās “pace”, pas “passo”. Ancora, i gruppi cl, gl , se si trovano nel corpo della parola e seguono
la sillaba accentata solitamente conservano solo la l.

Il toscano è tradizionalmente articolato in almeno quattro principali varietà:

 Gruppo pisano – lucchese –pistoiese

 Gruppo senese e grossetano

 Gruppo aretino –chianaiolo

 Fiorentino

Il toscano non partecipa di fenomeni settentrionali quali la sonorizzazione delle consonanti


sorde in posizione intervocalica e la semplificazione delle consonanti doppie. Ma vi è diffusa
e particolare, invece, la “gorgia toscana” che consiste in una sorta di aspirazione della
consonanti occlusive sorde (p, t, k) in posizione intervocalica davanti alle vocali a ed o: amiho,
anziché amico. Questo tipo di pronuncia interessa in particolare l’area fiorentina; nel resto
della toscana è comune l’aspirazione della sola k. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un
fenomeno da ricondurre alla lingua di sostrato del territorio, cioè l’etrusco, che aveva
consonanti aspirate. Ma non tutti sono d’accordo, per cui il fenomeno potrebbe avere anche
una diversa origine. Si ipotizza, allora, una reazione alla tendenza alla sonorizzazione delle
consonanti sorde in posizione intervocalica per l’influsso dei dialetti settentrionali nei quali
questo processo è comune. Un altro tratto tipico è l’esito del suffisso latino ĀRIU(M) (
frequente nei nomi di mestiere) che diventa –aio, e comunque in toscano –ri- diventa –i-.
Toscani sono anche i dittonghi uo (come in nuovo) e ie (come in piede), in corrispondenza
delle vocali o ed e che in latino sono pronunciate brevi e si trovano in sillaba aperta.
Caratteristica tipica del fiorentino è l’”anfonesi”. Si tratta di e che diventa i ed o che passa ad
u davanti a determinati suoni come l palatale; per esempio famiglia diventa fameglia.

Il sistema dei dialetti centromeridionali di suddivide in tre aree principali:

 Area mediana (Marche, Umbria centromeridionali, Lazio centrale)

 Aree meridionale

 Area estrema (Salento, Calabria centromeridionale, Sicilia)

Oltre ai tratti linguistici già richiamati sopra, quali la conservazione delle consonanti sorde
intervocaliche e delle consonanti geminate e del mantenimento del vocalismo atono in fine
parola, l’area centromeridionale ha tra i fenomeni comuni la tendenza alla metafonesi. La
metafonesi (o metafonia) consiste nella modificazione della vocale precedente tonica, che
può diventare chiusa o dittongarsi, dovuta alla presenza di una i oppure di una u in posizione
finale. Le modalità di realizzazione della metafonesi sono assai diverse tra una varietà
dialettale e l’altra. Come si è detto, è tipica del sistema dei dialetti centromeridionali mentre
sporadica in quello dei dialetti settentrionali. L’aspetto più considerevole della metafonesi è
la sua funzione morfologica, vale a dire la possibilità di distinguere tra il genere e il numero
proprio attraverso le forme metaforizzate; non sarebbe possibile attraverso la vocale finale
poiché in molti dialetti meridionali la vocale finale è indistinta. Singolare mese “mese”;
plurale mise “mesi”. La metafonesi presente in varietà dialettali nelle quali la vocale finale si
mantiene di configura come un tratto ridondante, essendo la distinzione di genere e di numero
mantenuta grazie alla conservazione della vocale finale. Come si è accennato, la distinzione
nelle tre aree: mediana, meridionale ed estrema è fondata sostanzialmente sul trattamento
della vocale finale.

 Nella sezione mediana le vocali finali si mantengono anche nella distanza tra o ed u a

seconda di com’era la parola in latino.

 Nella sezione meridionale la vocale finale si indebolisce e si riduce ad ë (è il modo con cui

è consuetudine trascrivere questa vocale indistinta o evanescente, è una vocale semiaperta; il


fenomeno che porta a questo risultato è detto ammutimento); in quella estrema.

 In quella estrema o ed e finali in genere di restringono rispettivamente in u ed e, si vede, ad

es. , il siciliano: Vuci “voce”.

L’area mediata è collegata a quella meridionale per vari aspetti ma sono considerati tipici due
tratti:

1. Ld diventa ll: callo per caldo

2. L seguita da consonate si modifica in r o i, di qui forme del tipo: sordato per soldato.

Nell’area meridionale sono assai diffuse forme di betacismo per cui in corrispondenza di una
v latina si ha b rafforzata, e parallelamente l’esito inverso: che bbuòi “che vuoi”. La
consonante b in posizione intervocalica è rafforzata nei dialetti mediani e meridionali; di qui
(anche a Roma) abbile per abile Gli esiti di nd, mb, in nn, mm, sono tipici dell’area
meridionale: munno “ mondo” Tratti tipici dell’area meridionale estrema oltre alla
conservazione di grippi consonantici come nd, mb,nt,mp,nc, sono la caratteristica pronuncia
di ll in parola come bedda per “bella”. Questa pronuncia detta retroflessa o cacuminale perché
l’articolazione di questo sono suono richiede che l’apice della lingua si pieghi all’indietro,
anche le consonanti l ed r hanno una pronuncia retroflessa come suona in siciliano atri
“madre”.

Il sardo comprende almeno quattro principali varietà:


1. Campidanese (a sud, gravita su Cagliari)

2. Logudorese (comprende il Nuorese e la barbagia)

3. Gallurese (a nord-est, con sorrisi toscaneggianti e italianeggianti)

4. Sassarese (a nord-ovest)

Il sardo, e specialmente nella varietà logudorese, ha diversi elementi caratterizzanti, tra i quali:

 Conservazione di –s finale, anche nel plurale dei sostantivi e nella coniugazione verbale.

 Conservazione dei gruppi consonantici con l (pl, bl,cl,gl,fl) con successivo passaggio di l ad

r : FLAMMA(M) = framma.

 Conservazione delle occlusive velari sorde (c, come nel ‘italiano casa o chitarra) e sonora

(g, come nell’italiano gatto o ghiro) davanti ed e ed i, per cui si pronuncia: Chimbe “cinque”.

Nell’ambito delle innovazioni rispetto al latino, il sardo presenta degli esiti caratteristici, in
particolare per quel che riguarda il gruppo consonantico col latino gn (che non si pronunciava
come nell’italiano gnomo ma come due suoni distinti: g velare come in gatto, seguito da n),
per esempio: il latino MAGNU(M) “grande” diventa in sardo mannus.

Consideriamo ora i tratti morfosintattici e del lessico dialettale. Alcuni procedimenti di


formazione del plurale nominale sono tipici di alcune varietà dialettali.

 Friulano, ladino centrale e sardo hanno un plurale sigmatico, cioè con –s. Nel sardo esce in

– s il plurale dei sostantivi maschi e femminili: feminas/feminas.

 Particolari forme di plurale sono poi quelle che dipendono da processi metafonetici, cioè da

modificazioni delle vocali toniche per effetto della –i finale del plurale, poi eventualmente
caduta o indebolita. Ma, plurali metafonetici si trovano anche in dialetti settentrionali. Per
esempio nel lombardo al singolare quest “questo” corrisponde un plurale quist. Nel veneto
centro – meridionale la – i del plurale invece si mantiene, per cui si hanno forme quali toso “
ragazzo” e tusi “ ragazzi”.

 Un plurale tipico diffuso in dialetti dell’area centromeridionale è quello in –ora, per

esempio: Dito /ditora. Variante calabrese: -ura; variante siciliana: -ira


 Nel napoletano, in altre varietà della Campania meridionale, nella Lucania e Puglia, si hanno

tipiche forme di plurale nei femminili, dovute al fatto che l’articolo plurale femminile produce
raddoppiamento fono sintattico della consonante della parola che seghe: le ppecore. Se si
esamina la carta linguistica del AIS intitolta “si leva il sole” (carta 360), i dati permettono di
osservare le forme dell’articolo determinativo nel segmento “il (sole)”.

La maggior parte dei dialetti presenta delle forme che si possono così sintetizzare:

 Nelle parlate settentrionali l’articolo determinativo maschile singolare è il (con allomorfi,

cioè varianti dello stesso elemento morfologico: el, al, ul, l; ma nel ligure prevale la forma
base lu (anche ru, u).

 In toscano è il (con varianti, anche r, come a Pisa e Roma).

 Nei dialetti centromeridinali la forma di base è invece lu, con varianti come u e o (a Napoli:

splende o sole). Le due forme indicate, il e lu, sono una riduzione delle base latine ILLE e
ILLU che in latino non sono articoli, ma aggettivi dimostrativo (quello). Tali forme si
considerano quelle di base, attraverso successivi sviluppi fonetici si ottengono varianti quali
ru con rotacismo (l>u), u con caduta della consonante, ecc. Nell’italiano standard vi sono
entrambe le forme il, lo con oscillazione nell’uso.

 Una particolare situazione presenta il sardo in ui l’articolo determinativo singolare è su (dal

latino ISE “codesto) : si leva il sole = su sole essit. Solo qualche località dell’area
settentrionale dell’isola ha le forme lu, ru.  L’articolo determinativo singolare è in tutti i
dialetti la (o varianti: ra, a) dal dimostrativo latino ILLA >quella). Nel sardo è sa che deriva
da IPSA “codesta”.

 Le forme di plurale maschili sono: i, li; nel sardo sos (dal Latino IPSOS, con –s plurale).

 In italiano e nei dialetti italiani i generi grammaticali sono due: maschile e femminile, mentre

in latino erano maschile, femminile e neutro.

 Il genere neutro è scomparso ma qua e là restano delle tracce attraverso forme che si

collegano alle rispettive forme che in latino erano neutre, una di queste raccolte tracce
riguarda proprio illud, forma neutra. Una distinzione latina tra un maschile ILLU(M),
LUPU(M) e un neutro ILLU(D) VINU(M) si è perduta. Ma di tale distinzione nei dialetti
meridionali è traccia una particolare forma di articolo che p nettamente distinta da quella del
maschile che si usa per i concetti collettivi che esprimi prodotto o sostanza, che non hanno
plurale. Si tratta di una sorta di articolo neutro che è richiesto non solo da parole che in latino
erano neutre ma anche da nomi che erano maschili. La forma di articolo neutro può diventare
uguale a quella del maschile, ma la distinzione tra le due è possibile grazie al fatto che la
forma neutra produce un raddoppiamento sintattico della consonante iniziale della parola
seguente come avviene nei dialetti abruzzesi e molisani: lo mmèle “il miele”; invece con
l’articolo maschile non i raddoppia la consonante: lo cane “il cane”.

Un interessante differenziazione dialettale riguardante l’uso dell’aggettivo possessivo (mio,


tuo, suo, ecc.) che può avere un posizione diversa. Dall’esame di una carta linguistica dell’AIS
intitolata “quando mio figlio” si evince facilmente che vi sono due tendenze generali:

 Nelle parlate settentrionali e nella sezione mediana del sistema dei dialetti
centromeridionali, aggettivo precede il sostantivo: mio figlio;
 Nelle sezioni meridionale ed estrema l’aggettivo segue il sostantivo: figlio mio.

In toscano sono possibili entrambe le posizioni. L’area meridionale, di posizione sistematica


del possessivo, presenta anche delle forme enclitiche (vale a dire che non portano l’accento),
con notevole riduzione fonetica; esse sono una sorta di appendice del nome e sono
testimoniate nel toscano antico, oggi restano solo in qualche varietà toscana. Ma è al sud della
linea che unisce Roma e Ancona che le forme enclitiche si presentano in modo sistematico:

 In area laziale figliemo “mio figlio”

 In area abruzzese pàtrëmë “mio padre”

 In Salento fràtuta “tuo fratello”

 Nel lucano attànete “tuo padre”

 In calabrese fràtimma “mia sorella” Sono rara e le forme enclitiche per “nostro” e “vostro”,

per esempio nepùteno “il nostro nipote”.

L’esame sella carta linguistica dell’AIS intitolata “si leva il sole”, può fornire indicazioni
diverse relativamente al lessico dialettale. Fermando l’attenzione sul lessico e in particolare
sulle denominazioni dialettali per “sole” risulta una notevole uniformità lessicale nei dialetti
in corrispondenza di questo concetto, essendo quasi ovunque diffuso il termine sole. Ciò
significa che praticamente tutti i dialetti hanno la parola sole benché le forme dialettali
mostrino una diversa fonetica. Area settentrionale: su,so,sol,sul / veneto, toscano e dialetto
centrali: sole . Grazie all’uniformità lessicale rappresentata in un caso come questo relativo
alla denominazione per “sole”, è abbastanza semplice rilevare, nella carta dell’AIS, le forme
divergenti che richiamano, in diversi casi, un’altra caratteristica linguistica: la presenza di
isole linguistiche cioè di parlate alloglotte o etereoglotte (alla lettere “di un'altra lingua”). Per
quanto riguarda l’espressione “si leva il sole”, si può riferire, dai materiali della carta
dell’AIS, un’ampia diffusione nel vari dialetti di una espressione analoga. Vi sono poi delle
aree dialettali in cui prevale la denominazione spunta il sole, ma nei dialetti centro meridionali
si usano anche altre espressioni: esce il sole, si alza il sole. A differenza dell’uniformità
lessicale notata a proposito delle deformazioni dialettali per “sole”, per altri concetti le parole
dialettali appaiono più o meno differenziate tra loro. Come mostrato in modo efficace le carte
degli atlanti linguistici, vi sono dei settori del lessico che riguardano oggetti e strumenti che
hanno una notevole differenziazione in relazione alle diverse culture locali cui corrisponde
una altrettanto notevole varietà delle parole dialettali. Le diversità dialettali interne al lessico
dei dialetti d’Italia possono essere motivate da ragioni di carattere etnografico: oltre a variare
la base etimologica cambia anche la tipologia dell’oggetto in relazione a differenti tradizioni
locali. Settori nei quali sono particolarmente ricche le variazioni delle parole dialettali sono
rappresentati dalla flora e dalla fauna, che presentano un estrema frammentazione lessicale in
una straordinaria quantità di denominazioni che sono diverse da un logo all’altro e che sono
dovute in certa misura alle diverse base etimologiche ma in buona parte ai successivi processi
di elaborazione lessicale nei singoli dialetti, sulla base di varie motivazioni. >In Svizzera,
dove l’italiano è una delle 3 lingue ufficiali (con tedesco e francese), si parlano dialetti di tipo
settentrionale nel Caton Ticino e in alcuni distretti del Catone dei Grigoni. In particolare, tali
dialetti appartengono alle parlate lombarde più conservatrici. >In Corsica, la cui lingua
8ufficiale è il francese, si parla il dialetto còrso che è vicino al toscano. >nel Principato di
Monaco si trova un dialetto di tipo ligure. >Nella Repubblica di San Marino (lingua ufficiale
italiano) si parla un dialetto romagnolo. >A Malta, che ha come lingua ufficiale l’inglese ma
è importante anche l’italiano, il dialetto, il maltese, è di tipo arabo, tuttavia è giunto anche il
siciliano che è usato dalle classi più colte. >Nei luoghi costieri dell’Istria e della Dalmazia è
ancora presente un dialetto veneto-istriano e venetogiuliano, veneto-dalmatam del gruppo
“veneto coloniale”. A fenomeni di migrazione all’estero è dovutala presenza di dialetti che
ancora rimangono ben conservati nelle comunità più omogenee dal puto di vista linguistico e
culturale che vivono in località appartate. La grande migrazione italiana, diretta oltre oceano,
è iniziata negli ultimi decenni del XIX, ed è durata fino al 1960 all’incirca. In alcune comunità
il dialetto si è mantenuto a lungo ed è caratterizzato da tratti arcaici rispetto ai dialetti in Italia.
Accanto al dialetto è presente anche l’italiano nei suoi tratti popolari e regionali, specialmente
nelle comunità di emigrazione recente (dal secondo dopoguerra). La conservazione del
dialetto presuppone particolari condizioni socio-linguistiche e culturali; ciò significa che più
le comunità sono isolate in aree rurali, meglio possono mantenere attraverso le generazioni il
dialetto. Nei agglomerati urbano la conservazione del dialetto è più difficile perché avviene
più rapidamente l’integrazione nella società del paese d’immigrazione e le seconde
generazioni nate attraverso la scolarizzazione si inseriscono nella situazione linguistica del
paese in cui vivono. In questi case i diletti (e/o l’italiano) sono mantenuti dalla prima
generazione, che in genere impara poco della lingua straniera. Le parole straniere dagli
emigrati sono spesso adottate alla propria parlata; sicché l’effetto fa una parola come luccare,
un ibridismo linguistico dell’italoamericano, adattamento dell’inglese to look “guardare”, è
quello della storpiatura. L’emigrazione italiana all’estero interessa anche per i riflessi sulla
situazione linguistica italiana in generale e su quella delle singole comunità. La necessità di
imparare a leggere e scrivere per comunicare con chi è all’estero favorisce la frequenza
scolastica e di conseguenza la diffusione, attraverso la scuola, dell’italiano. La varietà dei
dialetti in alcune zone è tale da produrre anche delle scritture (racconti, poesie) in dialetto; ne
sono esempio gli scritti del brasiliano Darcy Loss Luzzato di lontane origini venete
(veneto+brasiliano). La menzione di friulano, sardo, ladino, fatta a proposito dell’italo –
romanzo, richiama la situazione attuale delle minoranze linguistiche in Italia che
costituiscono, oltre alle varietà ricordate, una presenza importante nel panorama linguistico
italiano. Fondamentalmente si tratta delle cosiddette isole linguistiche; spesso si parla anche
di oasi alloglotte (altri preferiscono etereoglotte), con una metafora che rende l’idea del
territorio che parla un’altra lingua all’interno di un territorio linguisticamente diverso, quindi
un’sola è cosiddetta perché vi si parla una lingua diversa da quella maggioritaria che può
coincidere con quella ufficiale. Si adopera l ‘espressione minoranza linguistica con
riferimento “ad un gruppo, di solito non molto numeroso, nel quale i parlanti alloglotti hanno
come prima lingua o lingua materna, una lingua diversa da quella nazionale”. Secondo un
criterio esteso, dovrebbero far arte delle minoranze linguistiche anche i vari dialetti italiani,
considerato che ognuno di loro si trova in posizione minoritaria rispetto all’italiano. Al di là
delle minoranze previste dalla legge, e considerando quelle che per lo più sono ritenute dagli
studiosi richiamano possibili classificazioni, per esempio sulla base dell’appartenenza o meno
al gruppo neolatino ovvero lingue derivate dal latino.

Appartengono al gruppo neolatino:

 Francoprovenzale (val d’Aosta valle del Piemonte nordoccidentale- Faeto- Celle san vito

in provincia di Foggia)

 Occitano (valli del Piemonte occidentale e Guardia Piemontese in Calabria)

 Francese (Valle d’Aosta e alcune valli del Piemonte)

 Ladino centrale o dolmatico (in alcune aree montane del Veneto settentrionale, provincia

di Belluno, e valli del Trentino e dell’Alto Adige)

 Friulano

 Catalano (parlato ad Alghero, in Sardegna)

 Sardo

 Galloitalico, in località della Toscana, e in località della Sicilia e della Basilicata

Appartengono alle minoranze non neolatine:

 Tedesco (in varie località dell’Italia settentrionale, dalla Valle d’Aosta al Friuli, e nell’ Alto

Adige)

 Sloveno (Friuli orientale e Venezia Giulia)

 Croato (in località del Molise)

 Albanese (in diversi luoghi dell’Italia centromeridionale)

 Greco (in alcune zone delle province di Lecce e di Reggio Calabria)

Alcune delle minoranze elencate (tedesco, sloveno, francese, albanese, cc) hanno un legame
con la lingua fuori d’Italia, altre non lo possiedono. Le minoranze possono costruire appendici
(o penisole) in territorio italiano di situazioni linguistiche che si trovano oltre confine. Ma il
discorso sulle minoranze linguistiche in Italia non si risolve con quelle previste dalla legge né
con quelle sin qui menzionate. Vi sono altre situazioni da esaminare, come quelle degli
zingari, le nuove immigrazioni ecc.

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