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CANTO 13:

Il canto 13 dell'Inferno della Divina Commedia si apre con Dante e Virgilio che si inoltrano all'interno di una
selva dal fogliame oscuro. Nella selva sono punite le anime dei suicidi. Dante e Virgilio incontrano Pier
della Vigna. Pier della Vigna racconta la sua storia e poi spiega come le anime dei suicidi si trasformino in
piante all'interno del secondo girone del settimo Cerchio dell'Inferno. Due scialacquatori sono inseguiti da
un branco feroce di cagne nere. Uno di essi si nasconde dietro un cespuglio ma viene raggiunto dalle cagne
e fatto a brandelli. Le cagne, nello sbranare lo scialacquatore, hanno distrutto anche il cespuglio dietro cui si
era nascosto. Dante e Virgilio si avvicinano al cespuglio, che contiene l'anima di un suicida. Il suicida è un
fiorentino e racconta a Dante e Virgilio di essersi impiccato nella propria casa.

CANTO 19:

Dante e Virgilio giungono alla terza Bolgia dell'Ottavo Cerchio, ovvero alla terza Bolgia di Malebolge. I
dannati della terza Bolgia sono i simoniaci, i quali sono conficcati a testa in giù in delle buche e i loro piedi
che sbucano fuori. Una fiammella brucia le piante dei piedi che si muovono freneticamente. In ogni buca ci
sono tantissimi simoniaci e sbucano fuori i piedi solo dell'ultimo arrivato. Dante e Virgilio si avvicinano ad
un dannato: papa Niccolò III. Quest'ultimo predica la futura dannazione di papa Bonifacio VIII e di papa
Clemente V. Dante si slancia in una feroce invettiva contro la corruzione ecclesiastica. I simoniaci, infatti,
sono la causa principale della corruzione della Chiesa. La legge del contrappasso colpisce anche i simoniaci.
Virgilio approva il duro discorso di Dante. Poi i due poeti si avviano sul ponte per raggiungere la Bolgia
successiva.

CANTO 23:

Mentre i Malebranche restano impelagati nella pece, i due poeti si allontanavano lungo l'argine della
bolgia. Un nuovo timore assale Dante: i diavoli, adirati per la beffa subita da Ciampolo, vorranno
sicuramente sfogarsi su di loro. E infatti eccoli apparire furibondi. Subito Virgilio afferra Dante e si precipita
giù per il pendio della bolgia successiva.
Qui incontrano una moltitudine di peccatori che procede a passo lentissimo sotto grandi cappe dorate
all'esterno ma internamente di piombo: sono gli ipocriti, che celarono una natura malvagia sotto
apparenze e virtuosa. Dante vuole conoscere qualche ipocrita tra quella schiera e ne fa esplicita richiesta a
Virgilio; uno dei dannati si mostra particolarmente interessato ad intrattenersi con lui, perché dalla parlata
ha capito che è toscano. Egli è Catalano de Malavolti, bolognese e frate gaudente. Con Catalano c'è anche
l'ordine Loderingo degli Andalò, suo compagno di religione e podestà di Firenze insieme a lui. Essi mal
governarono la città e si comportarono ingiustamente nei confronti dei nemici.
Crocefisso in terra si contorce Caifa, il sommo sacerdote che consigliò ai farisei di crocifiggere Gesù: è
costretto a terra, calpestato dagli altri dannati, insieme al suocero Anna e agli altri componenti del Sinedrio.
Virgilio chiede a Catalano se conosca qualche passaggio per uscire dal fondo della bolgia: l'ipocrita
bolognese gli ricorda come il ponte che varca le singole bolge sia crollato proprio in quel punto; conviene
perciò risalire lungo la parete di roccia.

CANTO 26:

Dante e Virgilio si allontanano dalla VII Bolgia e risalgono sul ponte roccioso nel punto dove erano scesi a
fatica, quindi proseguono lungo il cammino erto in cui bisogna aiutarsi con le mani. Giunti al culmine del
ponte, Dante guarda in basso e ciò che vede lo induce a tenere a freno il proprio ingegno, perché non
agisca senza l'aiuto della virtù e perché il poeta così facendo non si privi del bene che un destino favorevole
gli ha concesso. Come il contadino, che d'estate si riposa sulla collina alla fine della giornata e vede nella
valle sottostante tante lucciole, altrettante fiamme vede Dante sul fondo della VIII Bolgia. E come il profeta
Eliseo vide il carro che rapì Elia allontanarsi nel cielo, scorgendo solo una fiamma che saliva, così Dante
vede solo le fiamme muoversi nella fossa, senza distinguere il peccatore nascosto dal fuoco. Il poeta si
sporge dal ponte per vedere, protendendosi al punto che cadrebbe di sotto se non si aggrappasse a una
sporgenza rocciosa; e Virgilio, che lo vede così attento, gli spiega che dentro ogni fuoco c'è lo spirito di un
peccatore (i consiglieri fraudolenti) che è come fasciato dalle fiamme. Dante ringrazia il maestro della
spiegazione, anche se aveva già capito che ogni fiamma nascondeva un peccatore, quindi gli chiede chi ci
sia dentro il fuoco che si leva con due punte, simile al rogo funebre di Eteocle e Polinice. Virgilio risponde
che all'interno ci sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci che furono insieme nel peccato e ora scontano
insieme la pena. I due sono dannati per l'inganno del cavallo di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a
Deidamia e per il furto della statua del Palladio. Dante chiede se i dannati possono parlare dentro il fuoco e
prega Virgilio di far avvicinare la duplice fiamma, tanto è il desiderio che lui ha di parlare coi dannati
all'interno. Virgilio risponde che la sua domanda è degna di lode, tuttavia lo invita a tacere e a lasciare che
sia lui a interpellare i dannati, perché essendo greci sarebbero forse restii a parlare con Dante. Quando la
fiamma giunge abbastanza vicina ai due poeti, Virgilio si rivolge ai due dannati all'interno e prega uno di
loro di raccontare le circostanze della sua morte, in virtù dei meriti che lui ha acquistato presso entrambi, in
vita, quando scrisse gli alti versi. La punta più alta della fiamma inizia a scuotersi, come se fosse colpita dal
vento, quindi emette una voce come una lingua che parla. Ulisse racconta che dopo essersi separato da
Circe, che l'aveva trattenuto più di un anno a Gaeta, né la nostalgia per il figlio o il vecchio padre, né l'amore
per la moglie poterono vincere in lui il desiderio di esplorare il mondo. Si era quindi messo in viaggio in alto
mare, insieme ai compagni che non lo avevano lasciato neppure in questa occasione; si erano spinti con la
nave nel Mediterraneo verso ovest, costeggiando la Spagna, la Sardegna, il Marocco, giungendo infine
(quando lui e i compagni erano molto anziani) fino allo stretto di Gibilterra, dove Ercole pose le famose
colonne. La nave era giunta allo stretto, tra Siviglia e Ceuta. Ulisse si era rivolto ai compagni, esortandoli a
non negare alla loro esperienza, giunti ormai alla fine della loro vita, l'esplorazione dell'emisfero australe
della Terra totalmente disabitato; dovevano pensare alla loro origine, essendo stati creati per seguire virtù
e conoscenza e non per vivere come bestie. Il breve discorso li aveva talmente spronati a proseguire che
Ulisse li avrebbe trattenuti a stento: misero la poppa della nave a est e proseguirono verso ovest, passando
le colonne d'Ercole e dando inizio al loro folle viaggio. La notte mostrava ormai le costellazioni del polo
meridionale, mentre quello settentrionale era tanto basso che non sorgeva più al di sopra dell'orizzonte. Il
plenilunio si era già ripetuto cinque volte (erano passati cinque mesi) dall'inizio del viaggio, quando era
apparsa loro una montagna (il Purgatorio), scura per la lontananza e più alta di qualunque altra avessero
mai visto. Ulisse e i compagni se ne rallegrarono, ma presto l'allegria si tramutò in pianto: da quella nuova
terra sorse una tempesta che investì la prua della nave, facendola ruotare tre volte su se stessa; la quarta
volta la inabissò levando la poppa in alto, finché il mare l'ebbe ricoperta tutta.

CANTO 33:

Confitti nel ghiaccio dell’Antenora Dante incontra due dannati e interpella colui che rode rabbiosamente la
nuca del suo compagno di pena (fine del canto XXXII). E’ Ugolino della Gherardesca che, già potentissimo a
Pisa, fu fatto prigioniero dal Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due figli e a due nipoti.
L’altro è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, alla cui frode e alla cui crudeltà egli dovette la cattura e la
fine orribile. Traditori ambedue (il conte Ugolino era accusato di avere consegnato a Lucca ed a Firenze
alcuni castelli pisani), scontano la colpa nello stesso luogo, ma le loro pene non sono certo pari: Ruggieri
oltre al tormento del gelo eterno ha quello che gli infligge la rabbia del suo nemico; per Ugolino al dramma
della dannazione si aggiunge l’ira e la sete inesausta di vendetta contro il suo nemico.
Solo la cattura, la prigionia, la morte inflitta in forma orrenda a lui e ai quattro giovani innocenti occupano
l’animo di Ugolino; le vicende culminate in quella tragedia sono troppo note perché sia necessario
ricordarle. Lo sdegno che la narrazione di Ugolino accende nel Poeta lo fa prorompere in una fiera invettiva
contro Pisa. Nella terza zona di Cocito, la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, Dante e Virgilio
trovano il faentino Alberigo dei Manfredi, che invitò a banchetto alcuni consanguinei per ucciderli.
Il dannato spiega a Dante, meravigliato perché sapeva Alberigo ancora nel mondo dei vivi, che per una
legge propria della Tolomea egli è all’inferno solo con l’anima, mentre il suo corpo sulla terra è governato
da un demonio. Nella medesima condizione è anche il genovese Branca d’Oria, reo di avere ucciso il
suocero Michele Zanche mediante una frode dello stesso genere. Il canto si conclude con una dura invettiva
di Dante contro i Genovesi.

CANTO 34:

Dante e Virgilio entrano nella quarta zona di Cocito, chiamata Giudecca, dove soffrono coloro che
tradirono i loro benefattori. Qui nessuna delle anime dannate parla, nessuna è identificata: imprigionate
totalmente nel ghiaccio, si possono appena intravedere, immobili nelle più diverse posizioni: supine, ritte in
piedi, capovolte, piegate ad arco. Nell’aria opaca che grava sulla palude gelata comincia a delinearsi
un’enorme sagoma, come un mulino le cui pale girino nel vento: è la mole gigantesca di Lucifero piantato
fino a mezzo il petto nella palude. Il re dell’inferno ha tre facce, quella anteriore è rossa, quella sinistra è
nera e quella destra è gialla; le tre bocche maciullano senza posa tre peccatori, che tradirono le due
supreme autorità, la spirituale e la temporale: Giuda, Bruto e Cassio; Giuda, per maggiore tormento, è
straziato di continuo dagli artigli del mostro. Agitando le sue tre paia d’ali di pipistrello Lucifero genera il
vento che fa ghiacciare Cocito. Ormai i due poeti hanno visto tutto l’inferno ed è tempo di uscire; Dante si
avvinghia al collo di Virgilio che scende aggrappandosi ai peli di Lucifero nello spazio tra il corpo villoso di
Satana e il ghiaccio che lo imprigiona. Giunto al centro del corpo del mostro (corrispondente al centro della
terra) Virgilio si capovolge e prosegue con il suo discepolo attraverso una stretta galleria, mentre Dante gli
chiede alcune spiegazioni, finché giungono alla superficie della terra.

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