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Il visionario, il fantastico,

il meraviglioso
tra Otto e Novecento
a cura di
Angelo M. Mangini
e
Luigi Weber
Tutti i diritti sono riservati
© 2006 - Allori edizioni - 1a edizione 2004
Via A. Grandi, 27 - 48100 Ravenna
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dell’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia.
I

Teoria e storia del fantastico moderno


PIERO PIERI

L’ordine della scrittura fantastica e il disordine della lettura.

I. Parte prima

Sempre in stretto rapporto col proprio presente storico, il modo


fantastico fra Ottocento e Novecento elabora forme narrative, nutri-
menti simbolici e scarti stilistici ogni volta denotanti il suo passaggio
da una sensibilità letteraria orientata dagli slittamenti progressivi dello
spirito del tempo. Anche se il singolo autore coniuga il modo fanta-
stico con la propria poetica, quest’ultima, a sua volta, mescola una
determinata visione storica con una inedita agnizione dell’im-
maginario.
Il fantastico come modo e scrittura allea, quindi, l’immaginario
dello scrittore col divenire della storia, sicché l’uno presuppone l’altro
ed entrambi concorrono a porre in relazione una certa maniera di
rappresentare la realtà con un determinato uso delle funzioni sim-
boliche della letteratura.
Il fatto in sé porta ad una forte autonomia del fantastico dai
processi storici cui pure quel modo guarda, se non fosse che il
racconto, mentre esprime una visione delle cose sottratta ad ogni
spiegazione logica, attraverso il mistero e l’enigma, il fatto para-
normale e sovrannaturale, appare allo stesso tempo controllato dalla
convenzione del modo e dai meccanismi simbolici della scrittura.
Se i movimenti sociali di quel periodo storico non entrano mai nel
racconto fantastico, tuttavia certe complessità scientifico-culturali alla
fine s’impongono come fonte d’ispirazione e griglia ideologica sulle
quali sovente poggia lo sviluppo della narrazione. La forma concreto-
sensibile della realtà nel fantastico s’impone attraverso una trama
sottomessa ad una retorica controllata dai presupposti ideologici che
hanno ispirato il racconto. La struttura finzionale che dovrebbe se-
parare nettamente il fantastico dalla realtà del logico e del razionale
non è, invece, separata dalla realtà altrettanto logica e razionale della
struttura retorico-formale. L’economia del racconto fantastico rispetta
a suo modo l’economia della storia attraverso l’economia delle leggi
che governano la narrazione.
La presunta negazione del mondo storico non avviene quando il
fantastico s’avvale della tecnica del realismo per introdurre il lettore
nel regno dell’inaudito, attraverso una scenografia in esordio ras-

7
sicurante per le sue strette connessioni con la realtà. Lo scollamento
che passa fra una cognizione razionale del mondo e la subentrante
cognizione della vita sovrannaturale è operato dal registro della scrit-
tura il cui vero iniziale ad arte crea il proprio presunto ma non ef-
fettivo antagonista: il sostanziale sovrannaturale. Che, infatti, non
entra in conflitto col vero sostanziale, poiché il secondo funziona
come principio di realtà col quale il lettore giudica l’irruzione del
paranormale nella quotidianità del normale. Vero sostanziale e
sostanziale sovrannaturale, in questo caso, sono uno dialettico
all’altro, in quanto, come nel rapporto linguistico io/tu, il modo
fantastico esprime una coscienza totale nella cui struttura imma-
ginativa e narrativa nulla vive esterno ad esso. Vero e sovrannaturale
sono assolutamente presupposti l’uno dell’altro. Possono sì do-
cumentare una scissione fra A e non-A, ma questa non è mai
formalizzata sul piano della struttura letteraria della comunicazione.
La scrittura fantastica, in altre parole, come accade secondo Freud per
la vita inconscia, non conosce il principio di negazione, ovvero
dell’operatività selettiva della coscienza logica sugli strati profondi
della psiche. Nel modo fantastico, come nell’inconscio, tutto coopera
alla formazione di un solo quadro, le cui parti, simboliche e alle-
goriche, retoriche e linguistiche, appunto, pur illustrando nel plot
l’avanzare di un disordine pieno di minacce non presentano per
simmetria il disordine sconvolto della scrittura.
Nell’Ottocento, il modo fantastico segue le regole della narrazione
mimetico-realista, perché il narratore, anche quando appare lo
scrivente di una storia vissuta in prima persona (in ogni caso fatto
assai raro), non si presenta mai come l’oggetto nel quale dram-
maticamente si specchia l’io atterrito dall’imprevisto disordine so-
vrannaturale.
Il sovrannaturale ottocentesco non prepara l’io ad un viaggio nei
propri meandri turbati e traumatici, nella consapevolezza che il
passaggio dal naturale al suo opposto inviterebbe allo sguardo nel
magma di una vita inconscia che chiami per nome i propri inno-
minabili segni chiamando per nome l’autore stesso.
Nell’Ottocento, il fantastico sovrannaturale quando affronta il tema
delle patologie inconsce non le nomina mai mettendole in relazione
con l’autore o col narratore. L’inconscio delle nevrosi assolute gode
di una scrittura analogico-descrittiva centrata sullo scontro natura-
sovranatura; scontro nel quale la figura del perturbante, quando entra
in scena come doppio del personaggio principale, sul piano formale

8
rappresenta ancora una volta l’incontro-scontro fra un io e un tu re-
versibili e analogici.
L’incontro-scontro produce una scoperta inaudita per un verso e
prevedibile per un altro: come io e tu, come io e altro da se stesso, il
perturbante è un io duplicato il cui carattere di doppio completa il
primo proprio perché ne riflette l’immagine. Tuttavia, né l’io né il suo
angoscioso sosia giungono ad una riflessione che superi il dualismo
io/tu quando accetta che l’io della razionalità contempli il proprio tu
infero.
La morte dell’io, in quanto soggetto giunto allo svelamento della
propria natura infera, è la vittoria dell’ordine sul disordine, della storia
sulle sotterranee anarchie della vita inconscia.
In questo caso, lo scarto prodotto fra la scrittura della regola
mimetico-realista e il plot del disordine sovrannaturale valorizza il
modo fantastico all’interno di categorie letterarie funzionali alla
messa in forma del mondo. Mondo che, in quel dato periodo storico,
affronta il problema dei doppi inconsci dell’io controllandone il
potenziale eversivo attraverso il melodramma della sua sconfitta.
Il modo fantastico, mentre dà forma e storia alle prime allu-
cinazioni dell’inconscio nell’età moderna, s’incarica di codificarle in
strutture retoriche e strategie formali di contenimento. Il conte-
nimento avviene attraverso il linguaggio che nel racconto fantastico
ottocentesco non presenta mai soluzioni stilistiche rivoluzionarie: il
realismo del linguaggio è la forma di controllo effettuata dalla storia
sulle ignote semiosi della vita inconscia1.
Alla luce di queste prime osservazioni non concordiamo con
nessuna delle interpretazioni canoniche fin qui svolte sul tema e sul
ruolo del fantastico. Il nostro principio è basato sull’analisi del modo
fantastico come gioco della relazione io/tu avente per primaria

1
Concordiamo, quindi, con la tesi di Lugnani, «Senza il realistico il
fantastico è destinato a oscillare indefinitamente e a conservare spazi di fuga
tali da renderla davvero “toujours évanescent” […] Per manifestarsi e con-
sistere il fantastico ha bisogno d’essere letteralmente avvolto in un fitto
bozzolo di realistico»; L. LUGNANI, Per una delimitazione del “genere”, in
AA.VV., La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, p. 55. Ma dalla
stessa tesi in parte ci discostiamo in quanto vediamo nel “realismo” della
narrazione la presenza della storia in funzione regolativa. Aggiungendo che
non è la storia sociale che regola il fantastico, ma è quest’ultimo che accetta
di diventare una delle sue subalterne espressioni sociologiche interne alla
letteratura dell’Ottocento.

9
funzione illusiva il dialogo più che lo scontro fra naturale e sovran-
naturale2.
L’antirealismo del linguaggio fantastico diventerà una struttura
operativa del racconto solo a partire dal Novecento, con la doppia
nascita della psicanalisi e dell’avanguardia. Solo allora l’inconscio
diventa un territorio d’immagini che hanno sempre meno bisogno del
controllo della scrittura per mostrare intero il proprio potenziale ever-
sivo. Solo allora la scrittura fantastica diventa il soggetto “incon-
trollabile” dell’agnizione sperimentale cui tende un linguaggio la cui
immaginazione fantastica è sorretta dal pluristilismo tipico della
scrittura d’avanguardia.
Il passaggio da un modo fantastico, controllato sul piano della
formalizzazione retorica, ad un modo espanso sul piano del-
l’invenzione linguistica, indica come il fantastico dell’Ottocento
detenesse livelli narrazionali e codici di rappresentazione sostan-
zialmente omogenei alla situazione del racconto.
Quando l’evento straordinario non è più portatore di un senso dalle
incontrollabili alterità, causa il doppio ordine (o doppio disordine)
dell’avanguardia e della psicanalisi, le tentazioni anarchiche del modo
fantastico s’esaltano con le distorsioni parimenti anarchiche della
scrittura autoriale, che mentre si offre come irradiamento del sovran-

2
«Il fantastico è caratterizzato da un’intrusione brutale del mistero nella vita
reale», P. G. CASTEX, Le conte fantastique en France de Nodier à
Maupassant, Paris, Corti 1951, p. 8 . «Per imporsi il fantastico non deve
soltanto fare irruzione nel reale, bisogna che il reale gli tenda le braccia […].
Il fantastico ama presentare, a noi che abitiamo il mondo reale […], degli
uomini come noi, posti improvvisamente in presenza dell’inesplicabile» L.
VAX, La séduction de l’étrange, Paris, PUF, 1965, p. 88. «Il fantastico è
[…] rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile all’interno
della inalterabile legalità quotidiana» R. CAILLOIS, Au cœur du fantastique,
Paris, Gallimard, 1965, trad. it. Nel cuore del fantastico, Milano, Feltrinelli,
1984, p. 90-92. «Il vero fantastico si dà quando […] le prospettive dominanti
vengono direttamente contraddette» E. S. RABKIN, The Fantastic in
Literature, Princeton, Up, 1977. «Il fantastico dà voce precisamente a quegli
elementi che sono conosciuti solo attraverso la loro assenza in un ordine
dominante “realistico”» R. JACKSON, Fantasy. The Literature of Subversion,
London, Methuen 1981. «Con “fantastico” intendo l’allontanamento
deliberato dai limiti di ciò che è comunemente accettato come reale e nor-
male» K. HUME, Fantasy and Mimesis. Responses to Reality in Western
Literature, London, Methuen 1984.

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naturale pone il problema dell’intelligibilità del linguaggio come
principale soggetto del fantastico novecentesco.
Le vecchie gerarchie del racconto, che avevano costruito l’età
eroica del fantastico nel secolo precedente, non sono più utili per
affrontare il problema dell’ignoto controllandone le devianze attra-
verso l’ordine della langue.
Le nuove gerarchie del racconto fantastico del Novecento sono
inscritte nella parole dello scrittore il cui immaginario, s/regolato
dall’idioletto, sposta il plot del sovrannaturale nella forma dello stile,
quale devianza necessaria per integrare la visione fantastica di nuove
alterazioni.
Morto come contenuto storicamente vigilato, il fantastico rinasce
in qualità di forma stilistica della differenza, dalla quale partono a
raggiera immaginazioni dilatate o polifoniche, induzioni ironiche o
accecamenti metafisici, cura maniacale del dettaglio o accumulazione
dilatata di una nuova presunta normalità globale.
Senza tuttavia dimenticare che il modo fantastico dell’Ottocento,
come quello del Novecento futurista (come si vede in Paolo Buzzi e
Bruno Corra, per esempio), proprio quando esibisce una vitalistica
novità letteraria, in realtà rivela un’epifania bloccata, per il fatto che
dietro il modo agisce, come abbiamo già sottolineato, la storia
presente e la visione che di esso ha la coscienza autoriale, alla luce so-
vente delle scoperte scientifiche più affascinanti e delle applicazioni
tecnologiche più rivoluzionarie.
Dovendo descrivere le immagini con le quali l’uomo ha cercato di
raffigurare la propria mente (la propria immaginazione letteraria),
percependone il livello di coscienza e il sistema delle relazioni,
Jaynes, l’autore di Il crollo della mente bicamerale e l’origine della
coscienza, scrive che gli uomini in ogni epoca hanno sempre
«descritto la coscienza in funzione del proprio tema e dei propri in-
teressi». Dopo avere citato Eraclito, per il quale la coscienza è uno
spazio immenso senza confini e Agostino, per il quale il pensiero è
una somma di monti e di colli e la memoria è fatta di «ampi ri-
cettacoli» e di «ripostigli più segreti», lo studioso conclude con questa
osservazione: «Si noti come le metafore della mente siano il mondo
che essa percepisce»3.

3
J. JAYNES, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza,
Milano, Adephi 1984. p. 15.

11
La mente rappresenta le sue funzioni cognitive ed esplorative
attraverso immagini dedotte dalla conoscenza pragmatica che essa ha
del mondo circostante. Dalla storia dell’uomo, nel suo rettilineo e a
volte circolare andamento, provengono immagini che creano una
stretta relazione fra il pensiero scientifico-filosofico e la visione mo-
rale del mondo.
Nell’età moderna, a partire dall’inizio dell’Ottocento, l’imma-
ginazione filosofico-concettuale crea nuove analogie per nominare la
forma mente e le sue molteplici attività (speculative, scientifiche e
letterarie), alla luce di un progresso le cui scoperte aprono nuovi
paradigmi e nuove funzioni critiche.
Jaynes insiste, tra le varie componenti dell’epoca, su come la
prima metà dell’Ottocento sia stata il periodo delle grandi scoperte
geologiche, il momento nel quale le testimonianze del passato appa-
iono inscritte negli strati della crosta terrestre. Si divulga l’idea che la
coscienza sia una serie di strati che si spingono sempre più in
profondità finché i documenti in essi contenuti diventano alla fine
quasi illeggibili. Il passaggio dalla leggibilità del mondo della su-
perficie alla illeggibilità del mondo interiore crea un forte interesse,
sicché, verso il 1875, molti psicologi appaiono convinti che la
coscienza non sia che una piccola parte della vita mentale, e che le
sensazioni inconsce, le idee inconsce e i giudizi inconsci costituiscano
la parte maggiore dei processi mentali.
Nel suo Enrico di Ofterdingen Novalis fa incontrare il giovane
protagonista con un vecchio minatore che lo inizia ad un lavoro dove
l’infinitamente basso della vita in miniera presuppone l’infinitamente
alto delle possibili illuminazioni da essa derivanti: «I miei futuri
compagni mi apparivano eroi di sotterra […] nelle loro oscure, por-
tentose sedi, erano destinati a ricevere i doni del cielo e ad elevarsi
gioiosamente al disopra del mondo e delle sue cure»4. La scienza della
nuova vita agisce separata dal mondo dei rapporti sociali e diviene
viaggio iniziatico dentro i meandri dell’essere: «il remoto rumorio dei
minatori al lavoro, mi rallegrava singolarmente, e io mi sentivo ora
con gioia in pieno possesso di ciò che da così lungo tempo era stata la
mia più ardente brama. Ma questo completo appagamento di un de-
siderio innato, questo meraviglioso godimento di cose che debbono
avere una prossima relazione col nostro essere segreto, con attività cui

4
NOVALIS, Enrico di Ofterdingen, Firenze, Vallecchi 1962, p. 72

12
si è destinati e provveduti fin dalla culla, non si lasciano spiegare né
descrivere»5.
Con queste ultime parole l’autore dichiara che ciò che non può essere
comunicato attraverso lo strumento del linguaggio è l’esperienza
depersonalizzata delle grandi rivelazioni interiori cui si giunge per
stadi ascetico-illuminativi. La miniera, di conseguenza, diviene il tem-
pio della vita autentica quale percezione del soggetto in sintonia asso-
luta con l’essere. Quindi, il lavoro del minatore allegorizza l’in-
dividuo in sprofondata ricerca di se stesso e, infine, in continuo col-
loquio con la propria più fonda interiorità.
Questa singolare relazione fra la vertigine del basso ed ineludibili
ascesi interiori, ha come base storica la nuova conoscenza suggerita
dalla geologia moderna.
E’ la scienza che influisce sull’immaginazione mistica del ro-
mantico Novalis, procurandogli nuove analogie.
Dopo la prima metà dell’Ottocento, alla geologia subentra come
scienza la moda della chimica, e da James Mill a Wundt e ai suoi
allievi, fra cui Titchener, la coscienza è interpretata come una struttura
composta che poteva essere esaminata in laboratorio analizzandone in
elementi precisi le sensazioni e i sentimenti.
Se i Chimismi lirici di Soffici arrivano tardi, Alchimie du verbe di
Rimbaud è il segnale di un’attenzione per la chimica moderna mediata
dal recupero della scienza empirica del passato, perché ricca di
magismi ed esoteriche utopie. Anche in questo caso, una branca della
scienza funziona come paradigma analogico-inventivo per far avan-
zare l’esperienza della modernità letteraria, autorizzata da una nuova
situazione critico-epistemologico.
Sempre secondo Jaynes, «quando, verso la fine dell’Ottocento, le
locomotive a vapore entrarono sbuffando nella vita quotidiana,
anch’esse rivoluzionarono il precedente concetto di coscienza: l’in-
conscio diventa una caldaia di energia compressa che reclama sbocchi
manifesti e che, se impedita, erompe in un comportamento nevrotico e
in falsi appagamenti convulsi di sogni che non conducono in nessun
luogo»6.
Anche in questo caso, se l’inconscio non cambia, muta invece la
percezione che ne abbiamo, come dimostrano i letterati modernisti

5
Ivi, p. 73.
6
J. JAYNES, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza,
cit., pp. 15-16.

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pre-futuristi, per i quali la locomotiva a vapore diviene il simbolo di
forze occulte dalla potenza dirompente, cui guardare per eleggere
l’uomo moderno a volitivo soggetto di nuove ed ardite imprese.
Con il Futurismo alla locomotiva subentra l’automobile per
identificare la tecnica con la velocità e l’uomo con lo spirito della
nuova modernità. Anche in questo caso la scienza ha condotto per
mano l’immaginazione del letterato, adeguandola e trasformandola.
Così, come sovente accade, ciò che la poetica di un autore mostra
con parole evidenti, il testo letterario rielabora attraverso ideogrammi
simbolici e strategie narrative il cui principio ideativo appare facil-
mente rintracciabile e deducibile.
Il carattere evidente del fantastico ottocentesco, specie di marca
anglosassone, ancor di più americano, così come si manifesta in Edgar
Allan Poe, è quello di attingere in maniera dichiarata ad un repertorio
di simboli e tematiche in stretto rapporto con la forma storica della
società reale.
Esprimere il desiderio, o espellerlo in forma di esorcismo,
l’abbiamo già ricordato, è costitutivamente la vocazione del modo
fantastico, il quale, sempre più, sul declinare del secolo XIX, riesce a
dar forma ai tabù della deformità, della malattia e della morte, ma
anche all’angoscia claustrofobica e agorafobica dei recentemente inur-
bati, uomini e donne per la prima volta costretti a fare l’esperienza di
sé come massa compattata in luoghi o troppo piccoli, o viceversa in
spazi così vasti e monumentali da annichilirne la stessa identità.
Al fantastico suggerito dal mondo della civiltà metropolitana,
segue in parallelo un fantastico dagli interessi in apparenza net-
tamente separati quali le suggestioni esotiche tinte di mistero e di
pericolo suscitate dalle esplorazioni geografiche, quel che potremmo
definire l’inconoscibile dell’infinitamente distante. Allo stesso modo,
il racconto fantastico s’è avvalso del crescente sgomento nei confronti
della cronaca nera, per il fatto che il dilagare del crimine urbano
veniva percepito come un pericolo raccapricciante quanto intollera-
bilmente incombente7.
I vicoli bui, i sottoscala miserabili, i quartieri malfamati di Londra
e Parigi, così come gli antri stipati di alambicchi di qualche scienziato
che ricorda il mago alchimista, sono scenari particolarmente fertili per

7
Sull’argomento cfr. R. RUNCINI La paura e l’immaginario sociale nella
letteratura, Il roman du crime, Napoli, Liguori 2002.

14
il fantastico, alla pari delle remote regioni polari o delle inesplorate
distese afroasiatiche.
Il vasto mondo che la borghesia coloniale sfruttava e soggiogava,
con i suoi soldati e i suoi insediamenti, torna instancabilmente a
turbarne i sonni, assumendo volta per volta le fattezze dei mille pe-
ricoli capaci di intaccarne la levigata superficie delle buone maniere e
dell’eleganza. Allo stesso tempo, come ogni minaccia, quel mondo
esercita un innegabile potere di seduzione, specie se soccorre la
mediazione della letteratura, atta a distribuire al pubblico brividi e an-
gosce a un prezzo tutto sommato accettabile.
Sebbene capace di forme sempre più suadenti di crescente
aggressività, infatti, un testo letterario riesce di rado ad essere
percepito come realmente minaccioso, e, anzi, la sua funzione subli-
matoria consiste proprio nel nominare pulsioni erotiche o patologiche
altrimenti inconfessabili da un intero gruppo sociale impegnato, come
giudicava Nietzsche, a separare l’uomo di oggi dalla bestia di un
tempo.
Tuttavia, il fantastico aspira sempre ad un’autonomia creativa che
lascia alla storia le sue certezze empiriche per tentare vie mai
percorse. Anche se, come abbiamo già messo in luce, il nuovo in let-
teratura appare quando la scienza ha dato un nome a ciò che prima
sembrava inconoscibile.
Questo accade qualora un testo affronti i fenomeni paranormali
con ipotesi scientifiche in voga, come vediamo in Tarchetti. Nei
Fatali il racconto movimenta l’accadere misterioso degli eventi sulla
base di un linguaggio sovente tecnico, utile per avviare una riflessione
di tipo razionale che poi lascia il passo al corso straordinario degli
eventi: la riflessione scientifica, offerta dalla prefazione, dota il per-
sonaggio principale di un attrezzato sguardo critico col quale dare
impulso problematico allo sviluppo dell’azione. Tuttavia il plot presto
si sottrae all’ipotesi scientifica iniziale per avviare una narrazione che
affranca il gioco dell’immaginario dalle strettoie dell’iniziale pro-
spettiva empirica.
Se, infine, il drammatico epilogo da un lato conferma la griglia
scientifica illustrata nella prefazione, dall’altro pone al lettore altre
suggestioni: alcuni problemi di comprensione completa dei fatti sono
lasciati aperti con inquietanti domande di non facile soluzione.
Davanti all’ultima pagina, che dichiara concluso il racconto, il lettore
non è più aiutato dal paradigma scientifico fornito per giungere in
epilogo a trarre conclusioni complessivamente simmetriche. Egli è

15
indotto a trovare da solo la spiegazione ad un enigma volutamente
lasciato aperto. In un certo senso, il lettore entra come attore nella
fabula solo a fine lettura; solo a fine lettura per lui diventa indispen-
sabile ripercorrere lo sviluppo della trama individuando il punto di
sutura che alla fine segnala la plausibile spiegazione del delitto.
Nei Fatali Tarchetti offre in un primo tempo al lettore infor-
mazioni scientifiche che creano forme di sicurezza critica, ma subito
dopo lo lascia nella condizione di scovare da sé il passo nel quale la
trama mostra una verità abilmente nascosta. Un racconto che appare
scritto in chiave mimetico-realista e critico-scientifica instaura alla
fine il movimento contrario.
Con Tarchetti, il modo fantastico non mette fine alla narrazione
mimetico-realista; dichiara, invece, di non condividere il rapporto che
esso intrattiene con la realtà e, conseguentemente, disarticola quella
realtà, pur sociologicamente frammentata ed in mutamento, sconvol-
gendone le idee e i valori più sicuri.
Anche da questo punto di vista, come abbiamo in precedenza
sottolineato, il fantastico di Tarchetti si oppone ad una idea astratta e
generica di mondo reale al cui interno pulsa ancora l’idea “romantica”
(cioè antagonista) del rapporto letteratura/civiltà.
Una forte caratteristica ideologica non s’addice al modo fantastico,
alle sue allucinate trame, al carattere metastorico dei suoi inquietanti
protagonisti. Escludere la problematicità della vita reale per introdurre
il mistero nell’apparente sfondo indifferente della vita stessa porta il
fantastico a preferire al caos della vita naturale (naturalmente caotica)
l’ordine enigmatico della vita sovrannaturale. Anche se le sue leggi
imperscrutabili alla fine hanno esiti ordinati, così come i fatti inauditi
che mettono a dura prova il senso della realtà producono un conflitto
destinato a trovare la sua conclusione.
La moglie morta resuscita sollecitata dalla forza imperiosa
dell’amore del coniuge (come in Vera di Villiers de l’Isle-Adam),
senza che il concetto di amore e di lutto sia discusso o sia fonte di
tormentate riflessioni. Solo accettando un’idea assoluta d’amore è
possibile costruire un plot che vede la moglie del Barone perpetuare
dall’oltretomba una vita coniugale fondata sulla passione.
Un siffatto amore non appartiene al registro mimetico-realista,
appartiene, invece, al registro romantico o a quello del mito e della
fiaba. I personaggi amano ciecamente in quanto in loro l’amore più
che un dato è una sostanza. La sostanza di un ideale consacrato non è
il dato di un’esperienza vitalmente attiva, pregna di positività ma

16
anche di conflittualità consegnate alla prosa disincantata del quo-
tidiano.
Il “disordine” del racconto fantastico presuppone, quindi, una
realtà pre-ordinata, le cui dinamiche amplificano la forza dei sen-
timenti ma non la messa in discussione della loro possibile ramificata
fragilità. Nei Fatali nessuno dice al barone Saternez che
l’amore per la fidanzata è un atto omicida, causa la sinistra influenza
che egli esercita su chiunque l’avvicina; né lui, pur consapevole di
causarne la morte, si astiene dall’incontrarla.
Se il barone solo riflettesse una volta sul fatto che sta causando la
morte della fanciulla che ama, in virtù dell’amore che l’anima,
fuggirebbe da lei per ridonarle la salute. Così vorrebbe la logica di un
racconto che sostituisce l’ordine della scrittura fantastica col
“disordine” del buon senso. Ma l’amore assoluto è funzionale all’in-
treccio, in quanto somma di eventi imprevisti. Senza l’amore irra-
gionevole e irresponsabile il racconto non esprimerebbe le proprie
paradossali antitesi8.
Vi è un altro aspetto in precedenza considerato da riprendere va-
lutando altre prospettive. Come abbiamo già ricordato, dissolvendo
l’apparente unità della vita reale, il fantastico ottocentesco si con-
trappone al racconto mimetico-realista senza sostituirlo sul piano della
forma e del linguaggio. Il modo fantastico non opera per la sov-
versione della tecnica narrativa a favore della sperimentazione del
linguaggio. Attingendo a piene mani alle forme abituali, il fantastico
non pone mai il problema della rivoluzione stilistica. Perché il fascino
del fantastico è nel movimento del significato e non nella visualiz-
zazione di una forza espressiva centrata sugli scarti della lingua. Che
disturberebbe la lettura obbligando il lettore a seguire le distorsioni
della lingua perdendo così di vista le simmetrie del plot.
Il modo ha bisogno di consolidate forme narrative per
rappresentare trame sconvolte. L’ordine dell’enigma non tollera il

8
Pur partendo da altre basi narrative Stendhal, nel promuovere l’amore fra la
ricca e nobile Mathilde de la Môle e lo squattrinato Julien Sorel avverte il
lettore, in una lunga parentetica, che nella Francia di Carlo X abitualmente le
giovani nobili con ricca dote disdegnano giovani non provvisti di eguale o
superiore ricchezza. Niente di male, avverte l’autore, che il denaro si sposi
col denaro; ma Le rouge et le noir esalta la passione della marchesina per la
figura tenebrosa dell’eroe romantico e non si cura dei solidi costumi in auge
nei ceti aristocratici.

17
disordine della lingua, così come il “perturbante” presuppone una
realtà in movimento ma non le fluttuazioni della scrittura.
Il disordine del significato è, così, simmetrico all’ordine del
significante perché il disordine del significato attraverso le alterazioni
del significante, comporta uno scrittura anti-realista, fatto incon-
cepibile nel fantastico ottocentesco.
La volontà di dare forma al mistero, attraverso la naturalezza
dell’esposizione, detta regole narrative inderogabili perché il modo
fantastico punta sul paradosso e sul sovrannaturale senza giocare mai
con un linguaggio formalmente simmetrico.
Dal nostro punto di vista l’interpretazione di Calvino sul fantastico
è condivisibile a patto che si possa rovesciarla, vedendo come limite
del modo quel che lo scrittore individua come forza narrativa: «Perché
il fantastico […] richiede mente lucida, controllo della ragione sul-
l’ispirazione istintiva o inconscia, disciplina stilistica. […] La lette-
ratura fantastica si sostiene sempre – o quasi – su un disegno
razionale, una costruzione di idee, un pensiero portato alle ultime
conseguenze seguendo la sua logica interna»9.
L’esitazione del protagonista, come teorizza Todorov10, davanti ai
fenomeni sovrannaturali incontrati (o che crede d’incontrare) o quella
del lettore davanti agli stessi eventi, crea un’incertezza non disgiunta
da una convenzione: il narratore non afferma mai che i fantasmi che si
aggirano nella proprietà (ne Il giro di vite di Henry James) sono il
frutto delle allucinazioni dell’istitutrice o che la statua che forse ha
ucciso il novello sposo (ne La Venere d’Ille di Prosper Mérimée) sia
davvero responsabile del delitto.
Questo sembrare fra una realtà possibile e una ipotetica, con-
feziona il racconto fantastico ma non ne decide la categoria; che per
se stessa può definirsi come tale in tutti i racconti dove una visione

9
I. CALVINO, Il fantastico nella letteratura italiana, in ID. Saggi 1945-
1985, Milano, Mondadori, 1995, vol. II. pp. 1676-78.
10
«Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è
scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare
in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico, è
l’esitazione di un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a
un avvenimento apparentemente soprannaturale. Il concetto di fantastico si
definisce quindi in relazione ai concetti di reale e di immaginario». T. TO-
DOROV, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil 1970, trad it.
La letteratura fantastica, Milano, Garzanti 2000, p. 28.

18
stabile di realtà e d’individuo descrive una situazione non-naturale
spostata dalla parte della non realtà dei fenomeni vissuti.
Il lettore reale (o storico), a sua volta, si sposta dalla parte del non-
reale e condivide la verità della non-realtà per il fatto che la lettura
perderebbe ogni attrattiva se chi legge pensasse che la statua non ha
ucciso o che i fantasmi sono il prodotto di una errata supposizione o
di una falsificante allucinazione.
Il lettore si sentirebbe ingannato se pensasse che l’inconcepibile
del quale è fatto partecipe è il risultato di una percezione illusoria
orchestrata ad arte dall’autore per fargli credere prima quel che dopo è
disconfermato in quanto, appunto, fatto inconcepibile. All’azione del-
l’autore che si fa beffa del suo lettore subentrerebbe la reazione del
lettore beffato che mentre suppone di leggere un racconto fantastico
si trova davanti alla parodia del modo.
In un racconto fantastico classico, invece, l’esitazione è uno
stratagemma finzionale rispettoso delle regole del modo, per il fatto
che l’autore lascia concludere al lettore l’esistenza di fatti incon-
cepibili sì, ma in cuor suo vagheggiati come effettivamente accaduti.
Che senso avrebbe una trama dove una statua non abbia davvero
commesso un delitto quando la novità è centrata sulla trasformazione
del corpo di marmo in individualità vitalmente reattiva?
Se partiamo dal presupposto che il fantastico ottocentesco nasce
dallo scontro fra naturale/sovrannaturale, l’antirealismo di questi rac-
conti non presume una dislocazione del senso. Solo nello scontro con
un principio di realtà oggettivato dalla cornice ambientale (storica,
sociale), il plot organizza personaggi e oggetti aventi il compito di
veicolare le istanze del sovrannaturale.
L’esitazione diventa, quindi, un patto narrativo interno al testo,
così come la prefazione nei romanzi del Settecento stipula col lettore
il patto finzionale che lascia credere che il testo sia stato scritto dal
protagonista le cui sgrammaticate memorie sono state riordinate dal
solerte editore.
L’esitazione è, dunque, una strategia che organizza la lettura del
racconto fantastico. Dallo scontro fra una realtà possibile ed una realtà
improbabile l’esitazione è l’effetto di lettura cercato dall’autore per
dare magia pragmatica alla propria invenzione. Anche il racconto più
inquietante non sfugge alle leggi della comunicazione. Comunicare
l’inquietante ad un lettore che esita davanti all’ignoto prospettato è
possibile solo quanto la proprietà del modo e il nutrimento dei simboli

19
alterano la percezione del reale e, ad un tempo, la coscienza letteraria
di chi legge.
Così, mentre per tutto il Settecento il romanzo cerca di allontanare
l’accusa di mera finzione presentandosi come testo veridico, il rac-
conto fantastico s’avvale dell’esitazione per dare senso veridico a fatti
inconcepibili. Se chi esita mantiene saldo il contatto con la realtà, in
quanto l’esitazione giudica l’inconcepibile dal punto di vista della
coscienza razionale, esitare mette la mente nelle condizioni di reagire
a ciò che incrina la griglia delle percezioni naturali.
L’esitazione diventa, così, il sintomo di una estetica della lettura
che parte da un patto narrativo per arrivare alla creazione di un nuovo
gusto. Ma, a ben vedere, proprio per le sue implicazioni psicologiche
ed emozionali, non si può negare che chi esita segnala l’ultima im-
magine estetica del sublime settecentesco.
Davanti all’imponenza di una natura sovrana o terribile lo
spettatore o il lettore del Settecento hanno provato angoscia per la
finitezza della natura umana. Davanti alla presenza inaspettata del-
l’inconcepibile, il fantastico procura uno stato d’animo affine, seppure
di più domestica intensità. Ma non per questo l’esitazione non può
non essere definita come l’ultima figura di una estetica della natura,
teorizzata prima da Burke e poi da Kant, trapassata nel racconto fan-
tastico ad un’estetica del sovrannaturale.
Anche il fantastico racconta che esiste una natura sovrana che
aggredisce alle spalle la coscienza razionale del lettore con aspetti
terribili che procurano la stessa vertigine (in forma di esitazione)
procurata dagli elementi della natura allo spettatore-lettore del Set-
tecento.
Se, poi, banalmente, si riflette che la natura, da potenza esteriore,
trapassa nell’Ottocento a potenza interiore albergante nei «penetrali
del cuore» (Novalis), allora il fantastico diventa anche il modo di rac-
contare la vita inconscia come nuovo sublime ricco di perturbanti
immagini.
Il fantastico ottocentesco è, in questo senso, una psicologia del
profondo che guarda alla parte inconscia del soggetto come abisso di
terribili forze incontrollabili. Nel lettore esitante, così, si risveglia un
certo sottocutaneo terrore quando la vita notturna diventa l’enigmatico
regno delle ombre. (Storia di un nuovo pazzo di Mele imposta il
problema del doppio e della relazione giorno-notte su questo in-
quietante dualismo).

20
Questa forma “domestica” di terrore (l’esitazione), inoltre, non è
quasi mai legata ad una percezione particolare che tocca il singolo
individuo, perché è quasi sempre causata da nutrimenti inconsci di
ascendenza archetipica. Il fantastico, in altre parole, più che rivelare
verità psichiche individuali, usa in prevalenza immagini scaturite dal
serbatoio simbolico dell’inconscio collettivo. Come la paura dei fan-
tasmi, che ha antiche origini perché chi sale dal regno dei morti
s’allea con un’antica tradizione di spiriti che vengono dall’Ade o di
eroi che scendono in quel regno di morte. Come scrivono Jorge L.
Borges e A. Bioy Casares: «Antiche come la paura, le storie fanta-
stiche precedono la scrittura»11.
Il fantastico, allora, s’appropria dell’estetica del sublime e ne ac-
cetta i postulati psicologici, perimetrando però il nuovo gusto su
aspetti che toccano la parte dell’inconscio collettivo. Quale ultima
figura del sublime, il fantastico trasforma l’estetica della natura che
turba in un’estetica della vita inconscia ricca di immagini perturbanti.
Come estetica del sublime interiore, le trame del fantastico provo-
cano esitazione alla parte ancestrale dell’io e non alla coscienza lo-
gico-razionale del lettore storico.
Anche per queste ragioni, originate da una mai dichiarata estetica
del sublime, il fantastico ottocentesco non appronta una rinnovata
stilistica della comunicazione fondata sul pluristilismo e sul plurilin-
guismo. Il sublime del sovrannaturale prevede un idioletto condi-
zionato da un socioletto di forme e formule.
Al contrario, la novità stilistica della Lettera U di Tarchetti induce
a credere che il fantastico dello scapigliato abbia intrapreso una nuova
via espressiva: il linguaggio, infatti, imita con dosati effetti il rovinoso
degrado di una mente alienata prossima all’implosione, causa le atter-
rite visioni che la governano. Sicché la comunicazione linguistica e la
febbrile concitazione dell’enunciazione, mentre usano le allocuzioni
del parlato in chiave espressionista, deviano dalla norma ottocentesca
del racconto fantastico.
La narrazione di un’ossessione non porta allo scontro fra il
naturale e il sovrannaturale, perché l’obiettivo è un altro. Partendo
dalla constatazione che per la prima volta una lettera dell’alfabeto
entra nella storia della letteratura come causa di una sindrome

11
J. L. BORGES, A. BIOY CASARES, S. OCAMPO, Prefazione in
Antologia della letteratura fantastica, trad. it. di B. Vignola, Roma, Editori
Riuniti 1981, pp. XI.

21
paranoica, l’attore del racconto non è tanto il personaggio del diario,
ma la tecnica della narrazione, sintetizzante il magmatico disordine di
una mente alienata che inaugura in Italia la stilistica del disturbo
mentale, (della quale Il male oscuro di Berto sembra essere stata una
delle ultime figure).
A parte l’evento del tutto eccezionale della Lettera U, solo con
l’avanguardia novecentesca il fantastico mescola il mistero delle cose
con la rivoluzione stilistica, per il fatto che solo dopo il Futurismo il
linguaggio dell’arte diventa più importante del linguaggio della realtà.
In un certo senso, il fantastico del Novecento caratterizza una mo-
dalità della narrazione che guarda al mistero attraverso la doppia
autonomia del significato e del significante. Autonomia che non si
preoccupa di disfare il reale opponendovi la sua zona d’ombra perché
si preoccupa di rappresentare i misteri della realtà con un immaginario
linguistico veicolo di eguali arcani12.

II. Parte seconda

Per presentare lo studio di Mangini sul racconto Il borghese


stregato di Dino Buzzati, occorre premettere che si tratta di un lavoro
bipartito tra una introduzione teorica e una analisi testuale vera e pro-
pria. La prima prende le mosse e quasi l’ispirazione da un appunto
mosso da Wittgenstein al Ramo d’oro di Frazer: l’autore del Tractatus
rimproverava all’antropologo di non avere tenuto debitamente in
conto che, anche nei moderni, «qualcosa tende verso il modo di
comportamento dei selvaggi», come è stata successivamente opinione
diffusa anche dell’Ortega y Gasset di La ribellione delle masse.
Muovendosi nel solco delle sistematizzazioni di Francesco Orlando e
del suo tentativo di applicare le intuizioni freudiane, specie quelle
contenute nel Motto di spirito, a una teoria generale della letteratura,
Mangini ragiona sul perturbante, sul suo carattere regressivo e sulla
12
Va in ogni caso osservato che questo passaggio non poteva tradursi nel
breve lasso di tempo che intercorre tra la fine dell’Ottocento e il primo
decennio del nuovo secolo, malgrado gli indubbi mutamenti del panorama
culturale europeo. E così, quella letteratura fantastica, che è ormai opinione
condivisa dalla critica esser venuta esaurendosi con Henry James e
Maupassant, è in realtà sopravvissuta allo scollinamento nel Novecento,
anche per un principio d’inerzia e per la viscosità tipica dei fenomeni
culturali. Il fantastico alla maniera dell’Ottocento non ha mutato di pelle in
modo così rapido da non esser più riconoscibile.

22
sua connessione originaria con persistenti e indomite modalità di
pensiero infantili (tanto nel senso dell’infanzia del singolo quanto in
quello collettivo della specie), che riemergono di tanto in tanto alla
superficie della coscienza. Da questo punto di vista, l’angoscia pro-
dotta dall’Unheimliche – da cui non sarà riduttivo dire che tanta let-
teratura fantastica è qualificata – diventa interpretabile in forma di
sintomo. E’ l’urgere del disagio che la ragione adulta prova nel
confrontarsi con arcaiche ma non superate stazioni della propria storia
ancestrale.
Questo aspetto dell’Unheimliche – la possibilità cioè di definirlo
come compresenza conflittuale di moderno ed arcaico nel cuore della
modernità o, proprio nei termini di Francesco Orlando, come sintomo
principe della «reversibilità che cova in seno» al processo illumini-
stico di «superamento razionale del pensiero invecchiato» – può rive-
larsi particolarmente utile nella comprensione teorica della situazione
storico-culturale del fantastico italiano.
La natura regressiva e ripetitiva del perturbante presuppone, infatti,
che il superamento di cui l’Unheimliche manifesta la labilità abbia già
raggiunto una certa maturazione o, almeno, si trovi in una fase in cui
la spinta progressiva appare inarrestabile quanto destinata a travolgere
ogni residuo pensiero arcaico.
Non deve sorprendere, a questo punto, se Mangini capovolge la
famosa osservazione leopardiana secondo la quale «nessuna delle tre
grandi nazioni che, come dicono i giornali, marchent à la tête de la
civilisation, crede agli spiriti meno dell’italiana», per tentare di render
ragione del ritardo e della scarsità del fantastico italiano ottocentesco.
Avvalendosi dei celebri studi di de Martino, nei quali si dimostra
quanto le forme di pensiero magico siano state ancora per gran parte
del ventesimo secolo ancora vitali e pervasive nel profondo della cul-
tura italiana, se ne conclude che tanta ingombrante presenza ne
impedisce il riaffiorare sotto forma di perturbante: «gli italiani –
afferma Mangini – credono troppo, e non troppo poco, agli spiriti per
poter essere dei buoni scrittori fantastici».
La qualità straordinariamente innovativa del fantastico italiano del
Novecento viene a confermare detta ipotesi, di una «modernità para-
dossale dell’arcaico». Intendendo con ciò una dinamicità che ha
consentito ad aree apparentemente marginali dell’Occidente moderno,
in cui il trionfo del pensiero “illuministico” è stato più a lungo con-

23
trastato dalla resistenza della mentalità magico-animistica13 di dive-
nire, nel corso del secolo appena terminato, teatro di esperienze let-
terarie avanzatissime. Altrove il conflitto fra pensiero magico e
razionalità era già stato consumato, in certi casi da almeno un secolo,
e l’energia creativa derivatane aveva, com’è naturale, in buona parte
disceso la china del raffreddamento. Nel nostro paese, e non soltanto
nel meridione, così come in Sudamerica, tali esperienze letterarie, for-
se tardive in senso generale quanto perfettamente attuali se con-
siderate nel loro specifico orizzonte culturale, hanno invece saputo
percepire questa drammatica frizione tra differenti visioni del mondo,
attingervi e incanalarne la forza proprio nell’alveo del fantastico e del
para-fantastico.
Secondo Mangini, infine, chi leggesse un racconto come Il
borghese stregato, sulla scorta di queste considerazioni vi troverebbe
una conferma abbastanza evidente dell’idea, espressa da Jean
Bellemin-Noël, che la scrittura di modo fantastico tenda a fare un
«uso estremo dell’auto-riflessione». La novella buzzatiana sul quaran-
tenne commerciante di cereali Giuseppe Gaspari, che durante una
normale escursione in montagna finisce attirato entro un gioco di fan-
ciulli e si perde, fino a perdervi la vita, nell’immaginario infantile e
animista, sembra infatti una puntuale trascrizione narrativa, o magari
una sorta di apologo del rapporto fra moderno ed arcaico, adulto e
infantile, vita e morte, così come esso si configura nella teoria freu-
diana del perturbante.
Dopo un’incubazione quasi ventennale, nel 1841 viene pubblicato
postumo l’unico romanzo del purista Carlo Mele: Storia di un nuovo
pazzo.
Il romanzo è inizialmente strutturato come dialogo tra un Fo-
restiere ed un Padre Armeno mechitarista per poi avviarsi ad essere il
percussivo monologo di quest’ultimo. Nella sua lunga confessione
padre Alberto riprende, ed in alcuni casi anticipa, motivi che
avrebbero trovato soltanto nei decenni successivi più solida con-
figurazione: come il tema del doppio e della destrutturazione del
soggetto.

13
Il rimando, inevitabile, è a quell’altro “Sud” del mondo che è il
subcontinente culturale dell’America Latina, del pari ricchissima di scrittori
che intrecciano con disinvoltura i diversi piani del reale effettuale e del-
l’immaginario: autori come Cortazar, come Borges, come lo stesso Garcia
Marquez.

24
Lo studio della D’Antuono sottolinea come il tema del doppio
implichi una continua contrapposizione di contrari quali razio-
nalità/pazzia, giorno/notte, vita civile/vita monastica, uomo/bestia. Si
aggiunga a tali tematiche quella della frontiera, rappresentata da
Venezia, punto di contatto tra la cultura occidentale e quella orientale.
Continuamente associata alla laguna veneta, così come avevano vo-
luto i romantici e come ci ha ricordato Braudel, è la visione ma-
linconica della vita, che permea tutto il romanzo. La città è paragonata
ad una immensa flotta, che «vive nel mare, e dove i cittadini alber-
gano come rinchiusi in un gran convento».
Nel convento mechitarista, posto sull’isola di S. Servilio, si dipana
la confessione del monaco che rievoca la sua vita, ma, soprattutto, le
sue notti insonni, i suoi deliri, il suo notturno “farnetico”.
Padre Alberto prova terrore senza causa apparente e durante la
notte il suo delirio prende la forma di incubi e visioni. Così Mele
riesce a dare vivacità descrittiva al tema della vita notturna e a quello
dello sdoppiamento della personalità.
Il racconto delle visioni notturne atterrisce ed incuriosisce al tempo
stesso il Forestiere. Padre Alberto rievoca, sotto forma di incubo,
eventi realmente verificatisi che in parte sembrano essere l’ultima
figura di una certa tradizione classica. Si pensi all’episodio della
morte di Silla tratto dalle Vite di Plutarco, all’orribile morte di Mezio
Suffezio o all’episodio biblico degli angeli e della spada di fuoco. A
tali elementi Padre Alberto ne accosta altri di ascendenza gotico-
romantica, come i pipistrelli, simboli ricorrenti del bestiario malin-
conico moderno.
Di notte il “nuovo pazzo” regredisce a una condizione di ferinità,
al punto che lo spirito maligno, entrando nel suo corpo, prevarica il
comportamento altamente spirituale che durante il giorno caratterizza
il monaco:

Mi sembra talor di albergar nell’interno del corpo un animale irrequieto e


rabbioso che colle unghie e col rostro mi va strappando le viscere, e che
nessuna arte umana può espellere o far morire14.

La testimonianza letteraria offertaci dal Mele accerta ancora una


volta che non sarebbe stato necessario attendere le teorie psico-

14
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, a c. di N. D’Antuono, Bologna,
Millennium 2003, p. 28

25
analitiche di Freud per parlare del mondo dell’inconscio, del sogno e
del notturno. La sfera onirica, equiparata ad una temporanea psicosi,
esprime il «ritiro dal mondo esterno» del soggetto, che, inva-
riabilmente, passa dal diurno al notturno. Mentre la vita a livello di
veglia rappresenta la salute e la normalità, quella notturna orienta una
nuova forma di pazzia che infine si conclude con la tragica morte del
protagonista.
Gli scrittori romantici avevano contribuito a trasformare il sonno e
la veglia, il giorno e la notte in depositi di turbati pensieri reconditi. I
regimi diurni e notturni, per adottare le categorie antropologiche di
Gilbert Durand15, in Mele diventano, così, referenti di una simbolica
del mondo che spazia sui livelli ontologici, psicologici, ed etici.
Carlo Mele usa, quindi, il tema della pazzia per raccontare la parte
notturna, malvagia e immorale dell’uomo attraverso una scrittura che
vuole arrivare allo scavo archeologico di siti interiori coniuganti Io e
Inconscio, protagonista e doppio, bene e male. Alle prime luci del-
l’alba il mondo negativo di Padre Alberto, legato all’oscurità, si vo-
latilizza per ritornare con la stessa forza negativa non appena le
tenebre si sono impossessate nuovamente della terra e degli uomini.
Già de Maistre, nel Viaggio intorno alla mia camera aveva
rivelato l’esistenza nella natura dell’uomo di un duplice aspetto,
ovvero «il sistema dell’anima e della bestia», con «l’anima» iden-
tificata nei «raggi puri dell’intelligenza» e «la bestia» nella «potenza
animale». Mele tenta, così, di cogliere il soggetto nel suo trapasso da
un «io forte e centrato» ad una soggettività disunita e “debole”.
In Due immagini in una vasca, Giovanni Papini indaga i tratti
specifici del fantastico cui guardano con insistenza i racconti in
particolar modo de Il pilota cieco, la sua seconda raccolta dichia-
ratamente anche se problematicamente vicina al modo fantastico.
Il Commento al titolo traccia le coordinate essenziali per orientare
il lettore dentro i confini spazio-temporali della narrazione e confessa,
proprio attraverso la metafora del pilota cieco, la presenza costante di
un molteplice io autoriale. La discesa del pilota cieco negli abissi ma-
rini simbolizza la fuga dalle false profondità del mondo, la cui
superficie, l’avevamo già visto in Enrico di Ofterdingen, è incapace di

15
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario (1963), Bari,
Dedalo 1972.

26
offrire «un mondo migliore»16. Lo sviluppo della narrazione procede,
così, per traslazione: da orizzontale (quella quotidiana e cartesiana
della superficie terrestre) a verticale (quella interiore e fantastica della
profondità). I racconti papiniani sono, dunque, presentati come esplo-
razioni ‘sottomarine’ e itinerari fantastici di un pilota che, ricco della
veggenza che gli può dare la cecità (l’esempio dell’indovino Tiresia lo
conferma), cerca un approdo all’interno del suo mondo interiore.
Ma questa strenua ricerca impone come duro contrappasso la
perdita della vita stessa. In Due immagini in una vasca, Papini mostra
in modo netto la sua posizione nei confronti della tradizione fantastica
ottocentesca quando porta il suo contributo ad una visione dell’uomo
moderno dall’esistenza abissalmente schizofrenica. Il protagonista del
racconto, infatti, si distacca dal suo passato, in quanto residuo nasco-
sto che riemerge nelle acque profonde dell’esistenza (la vasca) nelle
sembianze di un io anteriore avente funzione di doppio. Così, l’io del
passato s’installa nell’antico luogo, la piccola città come spazio del
sempre-eguale, avente funzione di rappresentare i vecchi codici sui
quali l’io si formò e crebbe.
Lo studio della Sereni si propone di decifrare, come traccia ana-
litica da cui si diramano tutte le sue parti, la fenomenologia dei tempi
verbali, nel solco di quanto osservato da Weinrich sulla tecnica della
«messa in rilievo»17. Una proposta critica estremamente efficace per
cogliere del racconto papiniano i continui contrasti tra primi piani e
sfondo18; le due diverse profondità prospettiche, infatti, indicano le
caratteristiche e i contenuti di due universi a confronto (quello passato
e quello presente) accentuando il contrasto e l’intensità dello scontro.
L’analisi narratologica mostra come tutta la narrazione - dall’or-
ganizzazione topologica alla dimensione temporale - è strutturata sulle
caratteristiche interiori del personaggio, assumendo i dati della sua
percezione e riproducendo la sua interna prospettiva.

16
G. PAPINI, Commento al titolo, in Il pilota cieco, Napoli, Riccardo
Ricciardi editore 1907.
17
Cfr. H. WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, Il
Mulino 1978.
18
Andando a quantificare la presenza di questi tempi verbali nel testo,
notiamo che tutta la narrazione – escluse le scene di dialogo – procede
tramite l’alternanza di passato remoto e imperfetto, mentre l’uso del presente
è limitato a sei frasi, tre delle quali concentrate nell’ultimo capoverso a
chiusura del racconto.

27
Emerge il tema del tempo, sospeso, bloccato, che scorre secondo
una linea interna dove presente, passato e futuro non comunicano
perché separati profondamente da alcune zone d’assenza, «bianchi
narrativi» dimidianti la biografia del personaggio. Ciò che era spro-
fondato in una di queste lacune temporali riappare alla coscienza nella
forma di un doppio che, privo di ogni possibilità di essere reintegrato,
dovrà essere definitivamente eliminato.
Il simbolismo del doppio è tra i più tipici del modo fantastico ma
la tradizionale ambiguità di quest’apparizione è qui utilizzata dal
Papini in modo assai originale: anzitutto, il manifestarsi dell’alterità
non produce né effetti di terrore né di sgomento, e anzi viene
riconosciuta e accettata con un gesto imprevedibile, una stretta di
mano. Anziché la presa di coscienza di una scissione, e l’avvertimento
della natura fondamentalmente aggressiva del doppio, infatti, il
racconto di Papini manifesta dapprima il senso gioioso di un ricon-
giungimento, persino giustificato in base a una concezione ciclica del
rinnovarsi psichico19. La vera sorpresa, che sovverte qualsiasi oriz-
zonte di attese legato alla tematica del doppio, è che non sarà
quest’ultimo a minacciare di estinzione il protagonista, bensì il con-
trario. Per giunta, l’atto di sopprimere il se stesso più giovane viene
motivato con un crescente senso di tedio e di insofferenza, la me-
desima che Papini provava per le proprie prove narrative a distanza di
tempo, comprese quelle de Il Pilota cieco, rimaneggiate sia nella
ristampa del 1913 che in quella del 1943.
Il sentimento dell’Unheimliche è, dunque, legato ad un mec-
canismo psichico che si ripete all’infinito e getta l’uomo in un’identità
tragica dove parti di sé infine si disgregano. È l’interiorità che è
perturbante, inaccessibile, ambigua e assurda al punto, come dice il
protagonista, di permettere a un uomo di uccidere sé stesso (il doppio)
e rimanere vivo, se pur non integralmente.
La materia del fantastico, abbandonate le geometrie calibrate del
modo ottocentesco, perdura tuttavia riconoscibile nella produzione di
alcuni futuristi, attraverso la categoria del meraviglioso declinata e
quindi rinnovata dallo statuto della forma avanguardistica. Il mera-
viglioso d’avanguardia, infatti, è anche praticato all’interno del genere

19
Il testo presenta una sola prolessi temporale dove il narratore fa una
previsione futura offrendo una spiegazione psichica di ciò che sta avvenendo:
«dopo il me presente, un altro si formerà che giudicherà la mia anima di oggi
com’io giudico quella di ieri”; ivi, p. 13.

28
romanzo, come fa notare Weber, che di fatto costituisce una parziale
novità in quanto a livello statistico (e stilistico) la modalità del fan-
tastico convive di preferenza con la durata contenuta del racconto o
della short story, più che col respiro della narrazione lunga.
Se già postulare la purezza di un collettore di variabili quale un
genere letterario è utopico, ancor di più lo è sforzarsi di rintracciare
un profilo incontaminato nel modo fantastico, che costitutivamente
vive della sospensione nell’incertezza, nell’istante del contrasto tra
istanze differenti.
Sia L’ellisse e la spirale di Paolo Buzzi, sia Sam Dunn è morto di
Bruno Corra, (entrambi pubblicati nel 1915) recalcitrano a farsi inca-
sellare in qualsiasi tassonomia, men che meno in quelle troppo spesso
esclusive cui si è voluta ridurre la pratica del fantastico. Ed entrambi i
romanzi appaiono tributari, per quanto del tutto compenetrati del-
l’ideologia futurista, proprio di elementi culturali di provenienza
tutt’altro che elitaria, il che costituisce, non ultimo, uno dei motivi
d’interesse nei loro riguardi. Diversamente dai più celebri manifesti,
infatti, ma in stretto colloquio con quanto ivi teorizzato, questi ro-
manzi, più ancora di quelli marinettiani (se si esclude l’utopismo
fantastico pre-futurista di Mafarka), demandano la divulgazione
dell’innovativo spirito avanguardistico a strategie comunicative e a
seduzioni tematiche già largamente sperimentate dalla letteratura di
consumo. Il libro di Buzzi, fondato sulla categoria estetica del me-
raviglioso, la funzionalizza ai fini di una narrazione con forti
ambizioni allegoriche, nonché pensata come una esemplare sintesi
delle novità tecnico-stilistiche introdotte dai manifesti futuristi.
All’inverso, l’agilissimo romanzo di Corra mette in pratica, sotto
una patina di occultismo fin de siécle, i dettami del manifesto Pesi,
prezzi e misure del genio artistico; siffatto manifesto ebbe il ruolo di
rappresentare l’ideologia e la poetica del secondo ramo del futurismo
romagnolo-fiorentino, quello nettamente anti-lacerbiano (Papini,
Prezzolini, Soffici) guidato da Settimelli, Carli e dai fratelli Ginanni
Corradini.
Anche l’opera di Alberto Savinio intrattiene stretti e ironici
colloqui con l’universo immaginativo della letteratura fantastica, a
partire da La casa ispirata (1920). La pratica di certe aree del
fantastico si manifesta soprattutto attraverso uno sguardo dalle forti
ambizioni e trascendenti e fenomeniche, disvelanti «l’aspetto spettrale
della realtà». E’ un approccio di matrice filosofica schopenhaueriana
cui non manca il continuo ricorso al mito classico fatto interagire

29
liberamente e senza apparenti fratture col piano della realtà. Non-
dimeno, il riutilizzo che Savinio fa frequentemente dei tópoi del
fantastico è dichiarato e straniato, come nel caso più frequente tra
tutti, il confondersi dell’animato con l’inanimato e dell’organico con
l’inorganico, per esempio nel caso della statua o del quadro viventi.
Con lo studio Il doppio della critica, Weber osserva invece le
singolari strategie messe in atto da Savinio nella stesura di un breve
testo come Maupassant e l’Altro, composto nel 1944 e origina-
riamente concepito come introduzione a una raccolta di contes del-
l’autore francese. Da un lato l’operetta, di impostazione critico-
biografica ma con forti arbitrii e frequenti interventi di tipo narrativo,
s’apparenta ai racconti, del pari biografici e insieme fantastici,
contenuti in Narrate, uomini, la vostra storia, e alla Vita di Enrico
Ibsen, e dunque rientra in un filone, quello delle scritture divaganti-
erudite, che costituisce gran parte della produzione tarda di Savinio.
Dall’altro lato Maupassant e l’Altro vuole apparire un unicum as-
soluto, capace di travalicare i confini tra i generi. E’ l’occasione di
fare i conti col Maupassant emblema del tardo naturalismo francese e
insieme col Maupassant capace di scrivere racconti inquietanti e
modernissimi. Nell’incontro-scontro con Maupassant e il suo doppio
Savinio ha avuto un’intuizione narrativa assolutamente geniale.
In un primo tempo racconta, con scrupolo estremo nell’uso delle
fonti, la parabola umana e letteraria del novelliere normanno, del suo
graduale sprofondare nelle tenebre della follia, sprofondamento che
aveva fornito allo scrittore reiterate anticipazioni proprio al livello
della sua produzione narrativa20. Poi, in un secondo tempo, Savinio
inverte l’approccio canonico dei critici di estrazione positivista:
invece di decifrare la scrittura di Maupassant, illuminandola con le
false chiarezze della biografia, e, di conseguenza, della nosografia,
egli ricorre in funzione ermeneutica all’uso del modo fantastico –
contro e sopra la vita dello sfortunato autore de Le Horla. Anzi, più
esattamente, come in una riscrittura di Le Horla, Savinio erige il pro-
prio racconto critico intorno al progressivo emergere di un doppio
vampiresco e distruttivo presente nella vita di Guy de Maupassant. Un
Maupassant “nero” è opposto a un Maupassant “bianco”, l’uomo della
sanità e della ragione è consumato e dissolto dal suo rovescio

20
Le allucinazioni di cui Maupassant prese a soffrire, soprattutto le auto-
scopie, ossia il vedere il proprio doppio, sono tematizzate in alcuni tra i suoi
più noti racconti.

30
inquietante, il principium individuationis è soppiantato dalla dissi-
pazione del self. Il naturalismo è così sconfitto da una letteratura
d’incubo, automatica e surreale quanto può esserlo laddove non vi è
più alcun controllo della ragione sulle istanze dell’inconscio.
L’angoscia principale di Maupassant era, appunto, quella della du-
plicazione dell’io, ossessione di cui Savinio offre una chiave inter-
pretativa avvalendosi delle diagnosi offerte dalla psicanalisi. Il saggio
biografico illustra tale angoscia nelle forme più diverse, la riproduce
come in una galleria di specchi dal piano macrotestuale a quello
tematico: dallo sdoppiamento del libro in due parti (il testo vero e
proprio e la copiosa appendice di note, in cui però si prolunga
carsicamente la narrazione), allo sdoppiamento dei referenti21, dallo
sdoppiamento della follia tra i due fratelli, Guy ed Hervè, a quello dei
padri, quello biologico e quello letterario, entrambi di nome Gustave.
Infine, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo rinnova ampiamente il
canone della letteratura veristico-neorealistica siciliana della metà del
Novecento, contribuendo ad alimentare un filone di sperimentalismo
linguistico cui d’altronde la Sicilia non era estranea fin dagli inizi del
secolo, se è vero, come sostenne Salvatore Guglielmino, curatore
dell’antologia Narratori di Sicilia22, che la «vocazione formale»
ovvero «la particolare cura e quasi la pervicacia dedicate all’ela-
borazione di una scrittura fortemente connotata sul piano espressivo,
alla vera e propria «invenzione di uno stile», costituisce l’originalità di
alcuni scrittori siciliani quali D’Arrigo, Consolo e Pizzuto, rispetto
alla fredda ‘referenzialità’ di certa narrativa contemporanea.
Lo studio della Carta si propone d’indagare le forme di
trasfigurazione e re-invenzione della realtà presenti nel romanzo di
D’Arrigo, caratterizzato sul piano linguistico-formale da un’espres-
sività ottenuta da una costante tensione derivativa e neoformativa
esercitata sulla lingua.
L’analisi tematica e stilistica del romanzo individua modalità
espressive e scelte tematiche tali da autorizzarne l’attribuzione a un
tipo di fantastico che qui è definito, come abbiamo in precedenza

21
Al di sotto di Maupassant, infatti, fin dall’esergo occhieggia il caso di
Nietzsche, egli pure congedatosi da se stesso in una forma estrema di
compimento.
22
Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano, Mursia
19912 (19671), p. 8.

31
ricordato, «del linguaggio», sulla scia di alcuni critici dell’ultimo
Novecento (N. Cornwell, R. Campra, Mary E. Jordan, ecc.).
L’analisi stilistica delle strutture lessicali e sintattiche, alcune
osservazioni di carattere narratologico e i contributi della critica
simbolico-archetipica, in Horcynus Orca hanno individuato la corri-
spondenza tra elementi semantici e forme retoriche, tra il tema del
nostos e certe ricorrenze nelle strutture sintattiche e lessicali. La
ripetizione, sotto forma di allitterazioni, anadiplosi, anafore e ge-
minazioni lessicali, diviene una cifra stilistica caratterizzante la prosa
del romanzo, così come il modello del palindromo connota la diegesi
sdoppiata in un tempo ricordato e in uno narrato e simmetricamente
ripetuto.
L’analisi formale dell’opera autorizza, quindi, una duplice lettura:
una di tipo realistico e un’altra, ad essa intrecciata e parallela, di
natura simbolico-archetipico-fantastica. Il romanzo infatti si sviluppa
duplicando antichi miti della classicità greca e della sua tradizione
epica, dal mito di Orfeo e Euridice, a quello ovidiano di Arione, dal-
l’epos del ritorno odissiaco agli schemi della discesa negli inferi.
Storia e Mito s’intrecciano dando vita a una ricreazione incessante
della realtà sul piano verbale ed espressivo e, così facendo, auto-
rizzano una lettura simbolico-fantastica dell’opera in cui la tradizione
arcaico-religiosa, la cultura orale, con i suoi riti e le sue magie e tutto
il retroscena culturale del Mito, vengono sottoposti a uno ‘stra-
viamento’, per usare un’espressione della lingua horcynusa, con quale
il reale si smaterializza prestandosi a infinite deformazioni,
metamorfosi e rinascite. Diventato scarto dalla norma linguistica e
distorsione del senso, il fantastico infiamma la sua presenza co-
niugando la memoria archetipica con una drammatizzata semantica
lessico-stilistica.

32
Angelo M. Mangini

Il signor Gaspari e lo stregone.


Riflessioni freudiane attorno al fantastico
e ad un racconto di Buzzati

Commentando il Ramo d’oro di Frazer, Ludwig Wittgenstein


rimproverava al grande antropologo vittoriano di non avere tenuto
debitamente in conto che, anche nei moderni, «qualcosa tende verso il
modo di comportamento dei selvaggi»1. Un simile rimprovero, il
filosofo austriaco non avrebbe certo potuto rivolgerlo a quel suo
connazionale che fu fondatore della psicoanalisi e che di questo “qual-
cosa” si mostrò, invece, sempre consapevole, e chiamò Unheimliche il
suo manifestarsi. Come abbiamo avuto occasione di notare av-
vicinandoci al fantastico papiniano, infatti, uno degli aspetti qua-
lificanti del perturbante freudiano è il suo carattere regressivo, il suo
legame originario con l’incessante e ingovernabile riemergere alla
coscienza di modalità di pensiero arcaiche e infantili. In questa
prospettiva, l’angoscia del perturbante – e cioè la cifra emotiva ca-
ratteristica della letteratura fantastica – è leggibile come sintomo del
disagio che il pensiero adulto e razionale prova nel confrontarsi con le
più antiche e lontane fasi della propria stessa storia, con le prime
tappe del cammino compiuto nel corso di una lunga e faticosa evo-
luzione. Quest’angoscia e questo disagio non avrebbero motivo di
essere se il soggetto non avvertisse, al loro fondo, l’intrinseca fragilità
delle proprie conquiste, la debolezza e la precarietà del proprio
esserci. L’Unheimliche, in altre parole, minaccia di smascherare le
imposture su cui si basa la coerenza organica e psichica della nostra
individualità; ci rivela che i «tempi in cui non erano ancora
nettamente tracciati i confini tra l’Io e il mondo esterno e gli altri»2
possono d’improvviso tornare; ci fa capire che quella drammatica
crisi della presenza soggettiva che contraddistingue il pensiero in-
fantile e animistico, e che ci illudiamo di avere ormai “superato”, è, in

1
L. WITTGENSTEIN, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Milano, Adelphi,
1975, p. 27.
2
S. FREUD, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio,
Torino, Bollati-Boringhieri, 1991, p. 288.

33
certa misura, interminabile poiché fa tutt’uno con il nostro vivere e il
nostro desiderare.
Per comprendere quali siano le conseguenze che, da questo
importante aspetto della teoria freudiana del perturbante, si possono
trarre in merito a quella modalità del discorso letterario che prende il
nome di “fantastico”, sarà il caso di prendere le mosse dalla organica
e rigorosa proposta teorica che Francesco Orlando ha elaborato
partendo da Freud e sviluppandone alcune delle intuizioni più feconde
dal punto di vista di una teoria generale della letteratura3. La
convincente prospettiva tracciata dal critico identifica «il massimo
luogo di approssimazione»4 della riflessione freudiana ad una defi-
nizione dello statuto della comunicazione letteraria nel grande saggio
intitolato Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (Il motto di
spirito e la sua relazione con l’inconscio, 1905). Sostanzialmente,
Orlando propone di generalizzare alcune delle caratteristiche che
Freud riconosce al motto di spirito estendendole alla letteratura nel
suo complesso5. La funzione essenziale della letteratura che la teoria
freudiana del Witz mette in luce consiste nella sua tendenza al re-
cupero di possibilità di godimento originariamente disponibili
all’individuo, e in seguito perdute ad opera della rimozione o della
repressione. La scrittura letteraria sarebbe così un mezzo per revocare
la rinuncia già compiuta e riconquistare almeno una parte di ciò che è
andato perduto nel corso dell’evoluzione filo- e ontogenetica6.
Certo, Orlando avverte che bisogna tenere conto del fatto che la
figuralità necessariamente comunicante del linguaggio letterario,
vincolata com’è ad un limite di comprensibilità, si distingue, proprio
in virtù di tale vincolo, dalla più profonda opacità del linguaggio
inconscio che si esprime nel sogno, nel lapsus e nel sintomo. Esiste

3
F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi,
1987; ID., Illuminismo e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982; ID.,
Statuti del soprannaturale nella narrativa, in F. Moretti (a c. di), *Il
romanzo, vol. I (La cultura del romanzo), Torino, Einaudi, 2001, pp. 195-
226.
4
ORLANDO, Per una teoria freudiana…, cit., p. 203.
5
«Chi ammette che io prenda per buone come letteratura le storielle in cui
Freud ha analizzato il motto di spirito, non si sorprenderà troppo che certe
grandi linee dell’indagine da lui condotta su questa categoria circoscritta di
testi mi sembrino estendibili alla letteratura in generale» (ivi, p. 42).
6
Ivi, pp. 45-46. Il passo freudiano di riferimento si legge nel Motto di spirito,
in Opere, Torino, Boringhieri, 1967-1980, vol. V, pp. 90-91.

34
però una costante che accomuna questi due diversi tipi di linguaggio,
quello del sogno e quello della letteratura: entrambi ospitano il ritorno
del represso «formale» o «razionale»; sono cioè il luogo in cui esplode
quella «ribellione contro la costrizione proveniente dalla logica e dalla
realtà» – contro la «tirannia […] sempre più intollerante e illimitata»
dell’obbligo «a pensare correttamente e a distinguere ciò che è vero
nella realtà da ciò che è falso» – cui Freud esplicitamente riconduce «i
fenomeni dell’attività fantastica»7. Questa tendenza «irrazionale o
antilogica»8 consente di fare agire nell’ambito ristretto dell’arte – che
si configura perciò come una sorta di riserva naturalistica il cui
territorio viene preservato dall’invadenza del progresso e della civiltà9
– procedimenti mentali e atteggiamenti psichici di cui il giudizio
razionale ha oramai disconosciuto la validità. Tale tendenza permette
di introdurre, «in un linguaggio comunicante fra adulti, modi di
trattare le parole e i pensieri familiari alla prima infanzia e mantenuti
nell’inconscio, ma ripudiati dall’uso adulto e conscio della parola e
del pensiero»10. L’esistenza stessa di una dinamica di questo genere
dimostrerebbe, soprattutto se accostata alla definizione freudiana
dell’Unheimliche, la «labilità permanente» del superamento del pen-
siero arcaico-infantile e la «reversibilità che cova in seno» al processo
illuministico di «superamento razionale del pensiero invecchiato»11.
L’Unheimlichkeit che sta al centro e al cuore del fantastico – pur
senza perdere la sua relazione specifica e privilegiata con il modo
narrativo che la tematizza più direttamente ed esplicitamente –
vedrebbe così elevarsi il proprio status fino a divenire una ca-
ratteristica fondamentale della scrittura letteraria in quanto tale, fa-
cendo di quest’ultima un’attività intrinsecamente ed originariamente
perturbante «nella sua genesi, ma anche nella sua struttura»12.
Come lo stesso Orlando non manca di sottolineare, un modello del
genere, basato sul «ritorno del superato» è un modello intrinsecamente
storicizzato e storicizzante. Esso ci invita a tener conto della necessità
7
Ivi, p. 113.
8
ORLANDO, Per una teoria freudiana…, cit., p. 207.
9
Cfr. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), in Opere, cit., vol.
VIII, p. 527; l’Autobiografia dello stesso Freud, ivi, vol. X, p. 131; e Totem e
tabù, ivi, vol. VII, p. 96.
10
ORLANDO, Per una teoria freudiana…, cit., p. 52.
11
Ivi, p. 201.
12
M. LAVAGETTO, Freud, la letteratura e altro, Torino, Einaudi, 1985, pp.
333-334.

35
che l’egemonia della ragione si consolidi prima di divenire bersaglio
della scrittura letteraria e, in particolare, di una sua modalità – il
fantastico – nella quale il ritorno del represso razionale si configura
ab origine come reazione anti-illuministica e perciò necessariamente
post-illuministica13. La letteratura in generale, e il fantastico in par-
ticolare, si alimentano insomma di «residui ideologici invecchiati non
benché, ma perché essi sono tali»14. Solo dal punto di vista di una ben
precisa situazione storica e culturale – dal punto di vista dell’età
adulta e della modernità – il perturbante appare tale.
In questa luce, l’Unheimliche può essere legittimamente
considerato il segnale psichico della reversibilità del processo di
razionalizzazione e, insieme, della resistenza incontrata dalle ten-
denze regressive che non possono prevalere senza che ciò generi
mostri e incubi spaventosi. La tonalità emotiva che di gran lunga
prevale nella letteratura fantastica e che contribuisce a tracciarne i
confini rispetto ad altre modalità narrative – quella dell’angosciante
inquietudine se non del vero e proprio terrore – testimonia il fatto che
le strade attraverso le quali la concezione animistica dell’uomo e del
mondo poteva pervenire – nella sfera magica, mitica, cultuale e
sacrale – ad una integrazione relativamente soddisfacente dei vari
aspetti dell’esistenza, celano insidie micidiali capaci di travolgere i
fragili steccati che l’Io e la coscienza hanno eretto a propria difesa.
Ripercorrerle conduce, presto o tardi, a confrontarsi con il possibile
sconvolgimento della ragione, con l’orrore di una morte da intendersi,
a questo punto, non solo e non tanto come «semplice annullamento
della vita”, ma anche e soprattutto come «messa in discussione della
nostra rappresentazione cosciente della realtà e di noi stessi, animarsi

13
«La logica la quale ha razionalizzato il mondo dall’illuminismo stret-
tamente inteso in poi è indispensabile, almeno da quest’epoca in poi,
all’esistenza della letteratura. Negativamente indispensabile una logica non
meno che positivamente un’antilogica: quella che prima di Freud e di Matte
Blanco nessuno avrebbe definita tale […]. Si può riconoscere nella situazione
«post-illuministica» la condizione, se non il tema per eccellenza, d’uno studio
freudiano di tutta la letteratura romantico-borghese» (ORLANDO, Per una
teoria freudiana…, cit., p. 202). Ma cfr. anche ID., Illuminismo e retorica…,
cit., pp. 23-27.
14
Ivi, p. 73.

36
dei vuoti della coscienza, di quel residuo sulla cui esclusione essa si è
costituita»15.
Proprio questi vuoti e questo residuo costituiscono lo spazio che la
scrittura del perturbante non si stanca di esplorare. Ecco perché – lo si
è osservato più volte – le trasgressioni del principio di realtà e del-
l’ordine razionale che il fantastico adombra sono foriere di sciagura, e
non cessano di rammentare i rischi a cui si espone chi ceda alle se-
duzioni di un «sogno taumaturgico» sempre sul punto di tramutarsi in
una minaccia di distruzione. E tuttavia – va subito ricordato – il
conflitto è nel fantastico inesorabile proprio per il ruolo primario che
vi gioca il desiderio in quanto forza indistruttibile ed eccessiva, votata
al superamento di ogni limite, mai rassegnata al dispotismo del prin-
cipio di realtà. Questa non reprimibile tensione a un al di là della
contingenza e dell’individuazione, ad un di più di godimento e di
libertà che riscatti dalle sofferenze e dalle privazioni del mondo coin-
cide con la nostalgia per quello stato di perfetto appagamento che è
l’originaria e fantasmatica dimora da cui il vivente è esiliato. È la
patria perduta che, nonostante il turbamento, egli non cessa di rim-
piangere, e che non gli è concesso ora di attingere se non come
negatività pura, come l’assenza e la mancanza che definiscono il pre-
sente nella sua miseria, nella sua irrimediabile inadeguatezza al
desiderio. Di qui la straordinaria ambivalenza di un mondo – il mondo
del fantastico – che, vivificato dalle vibrazioni del desiderio, affronta
il soggetto con la sua irriducibile e minacciosa alterità; un mondo nel
quale le promesse di redenzione sono trappole mortali sul punto di
scattare; un mondo spaventoso perché segnato dalla scoperta che
l’originaria pienezza alla quale ci volgiamo con nostalgia ha il prezzo
della nostra distruzione, e che ciò che maggiormente desideriamo è
anche ciò che più fatalmente ci minaccia.
Non può dunque meravigliare che agli occhi di tutti coloro che,
dopo Freud, hanno voluto inquadrarla nella prospettiva «antro-
pologica» del suo rapporto con il sacro e il numinoso16, la letteratura
15
G. BERTO, Freud, Heidegger, lo spaesamento, Milano, Bompiani, 1999, p.
98.
16
Cfr. almeno: H. SCHUMACHER, Considerazioni sulla letteratura fantastica
come iniziazione mancata, in «Spicilegio moderno», nn. 17-18 (1982), pp.
19-30; G. GERMAIN, Du sacré au fantastique, in «Bulletin de l’Association
Guillaume Budé», 1968, n. 4, pp. 461-471; J. FABRE, Le miroir de sorcière.
Essai sur la littérature fantastique, Paris, Corti, 1992, pp. 17-61; L.
SANTONE, Dal sacro al fantastico. Bataille versus Todorov, in M. Galletti (a

37
fantastica sia apparsa dotata di una qualità eminentemente polemica o
antinomica. Essa è infatti il luogo in cui si confrontano senza
speranza di conciliarsi la fascinazione esercitata da una dimensione
magico-sacrale, ovvero l’«attrattiva di ciò che è proibito dalla ragio-
ne», e la dimensione di orrore suscitata da una trasgressione che tende
fatalmente a risolversi nella «suprema trasgressione», nel cedimento
dell’individuo al «suo desiderio più arcaico: la pulsione di morte»17. Il
fantastico è la messa in scena di un conflitto senza risoluzione fra le
istanze razionali che limitano e al tempo stesso garantiscono l’in-
dividualità e una tensione a trasgredirle che è insopprimibile, ma
comporta il rischio di un pericoloso indebolimento di tutti i limiti e le
distinzioni che strutturano e sostengono la coscienza egoica.
Schiacciata dalle costrizioni della logica dividente e del principio di
realtà, la soggettività fantastica è nondimeno costretta a confrontarsi
col fatto che liberarsene significa correre il rischio del-
l’autodistruzione: la rivendicazione dell’impulso a sovvertire l’«or-
dine costituito» è, in essa, costantemente accompagnata da un
invincibile e quasi abissale pessimismo sui possibili esiti di tale
sovversione.
Se, come sostiene Hans Schumacher, la funzione essenziale di
ogni iniziazione è quella «di mediare per il singolo il naturale e il
soprannaturale»18, si dovrà convenire con lo stesso studioso che nel
fantastico si assiste ad un’iniziazione sempre e irrimediabilmente
“mancata”. Esso afferma anzi per l’uomo moderno la sopravvenuta
impossibilità di ogni iniziazione che non sia un’iniziazione allo
sgomento, iniziazione nella quale «il numinoso, il soprannaturale non
appare come momento positivamente conciliante, ma solo nella sua
forma negativa, come momento distruttivo, di sconvolgimento, di
negazione, demoniaco, spaventoso, paradossale, satanico»19.
Sembra combaciare agevolmente con il quadro sinora delineato
anche l’opinione di Fredric Jameson, secondo il quale «le grandi
espressioni del fantastico moderno» traggono la loro forza «da una

c. di), Le soglie del fantastico II, Roma, Lithos, 2001, pp. 99-110; A.
CAVALLI, Oltre la soglia. Fantastico, sogno e femminile nella letteratura
italiana e dintorni, Milano, Unicopli, 2002, pp. 58 ss.
17
SANTONE, Dal sacro al fantastico…, cit., p. 104.
18
SCHUMACHER, Considerazioni…, cit., p. 27.
19
Ivi, p. 25. Cfr. anche, in proposito, L. LUGNANI, Verità e disordine: il
dispositivo dell’oggetto mediatore, in *La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-
Lischi, 1983, pp. 248-249 n.

38
fedeltà, scevra da sentimentalismi, a quelle radure d’ora in poi
abbandonate, attraverso le quali un tempo passarono il mondo
superiore e il mondo inferiore»20. In questa prospettiva, i destini della
letteratura del perturbante appariranno motivati e determinati da una
precisa situazione storico-culturale. Tutt’altro che casuale sarà il fatto
che la vicenda del fantastico letterario coincida con quella della
modernità, e che i suoi esordi si situino proprio in quegli anni tra la
fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo in cui, come scrive Claudio
Magris, «si delinea, con eccezionale intensità, quella tensione fra
sogno della totalità e angoscia del nichilismo, fra pienezza e di-
sgregazione del senso che segna ancora la nostra civiltà»21. Di questa
irrisolta e irrisolvibile tensione parla appunto il fantastico, la modalità
dell’immaginario che – «facendo nascere una figura oscura ma
dominatrice dove giocano la morte, lo specchio e il doppio»22 – mo-
stra più direttamente di ogni altra come l’angoscia del nichilismo
nasca precisamente dal sogno della totalità e ne costituisca
l’inaspettato, sconcertante, risvolto.
Le considerazioni che abbiamo svolto prendendo le mosse dal
discorso freudiano tendono insomma a configurare il perturbante
come una manifestazione di quei residui di attività psichica animistica
che costantemente insidiano il nostro raziocinio e non cessano – come
gli spettri e i fantasmi più molesti – di fare ritorno per ordire agguati
20
F. JAMESON, L’inconscio politico. La narrazione come atto socialmente
simbolico, Milano, Garzanti, 1990, p. 165 (corsivi nostri).
21
C. MAGRIS, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella
letteratura moderna, Torino, Einaudi, 1984, p. 15. Fra i molti contributi
dedicati alla storicizzazione del fantastico segnaliamo l’inquadramento
teorico delineato da R. CESERANI, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996, pp.
99-115; l’articolo di V. STRADA, Il fantastico e la storia, in V. BRANCA e
C. OSSOLA (a c. di), Gli universi del fantastico, Firenze, Vallecchi, 1988,
pp. 106-120; la recente, persuasiva, ricostruzione di FABRE, Le miroir …, cit.,
pp. 289-377; e quella di R. BOZZETTO, Territoires des fantastiques. Des
romans gothiques aux récits d’horreur moderne, Aix-en-Provence,
Publications de l’Université de Provence, 1998.
22
«Forse quello che bisogna chiamare rigorosamente “letteratura” ha la sua
soglia di esistenza precisamente là, in questa fine del XVIII secolo, quando
appare un linguaggio che riprende consuma nel suo fulmine ogni altro
linguaggio, facendo nascere una figura oscura ma dominatrice dove giocano
la morte, lo specchio e il doppio e la fluttuante proliferazione delle parole
all’infinito» (M. FOUCAULT, Il linguaggio all’infinito, in Scritti letterari,
Milano, Feltrinelli, 1984, p. 83).

39
alla coscienza e alla sua infelicità. In questo inesausto e indomabile
«ritornare», in questa cruciale struttura dinamica dell’Unheimliche a
cui Pedro Cordoba e Jacques Derrida darebbero il nome di
revenance23, è forse davvero possibile intravedere «l’essenziale dei
rapporti tra folklore e letteratura»24. Tali rapporti sembrano, in ultima
analisi, rispecchiare quell’incessante conflitto fra pensiero magico e
razionalità che oltre ad essere, come sosteneva Ernesto de Martino,
«uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna»25 è anche un
punto di riferimento primario per la comprensione della letteratura di
modo fantastico. Il nostro discorso sembra infatti autorizzarci ad
indicare in essa lo spazio letterario privilegiato in cui tale conflitto si
manifesta e in cui vengono messi alla prova della scrittura – quasi
sempre per dichiararne l’instabilità – i provvisori punti di equilibrio
che esso raggiunge nel corso della propria vicenda storica e le
molteplici formazioni ideologiche di compromesso che articolano il
suo dispiegarsi nell’ambito dei diversi contesti storico-culturali della
modernità. Una modernità che, seguendo ancora una volta l’opinione
di de Martino, verrebbe addirittura a coincidere con questo pro-
gressivo superamento della mentalità arcaica fino al punto di
identificarsi totalmente con esso:

Le nazioni moderne di cui si compone l’occidente sono «moderne» nella


misura in cui hanno partecipato con impegno a questo vario processo nel
quale siamo ancora coinvolti, almeno nella misura in cui accanto alle
tecniche scientifiche e alla coscienza della origine e della destinazione umane
dei valori culturali facciamo ancora valere in modo immediato la sfera delle
tecniche mitico-rituali, la potenza “magica” della parola e del gesto26

Se, a questo punto, ci si domanda quale siano la conseguenze che,


dal quadro teorico generale così tracciato, si possono trarre per quanto
riguarda la vicenda storica del fantastico italiano e le sue peculiarità,
si potrà facilmente concludere che esse sono tutt’altro che trascurabili.
Dal nostro punto di vista, infatti, la famosa osservazione leopardiana
secondo la quale «nessuna delle tre grandi nazioni che, come dicono i

23
P. CORDOBA, La Revenance. Pour une pragmatique de la légende, in
«Poétique», n. 60 (1984), pp. 437-450; J. DERRIDA, Aporie. Morire-attendersi
ai «limiti della verità», Milano, Bompiani, 1999, pp. 49 ss.
24
CORDOBA, La Revenance…, cit., p. 437.
25
E. DE MARTINO, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 7.
26
Ibidem (corsivo nostro).

40
giornali, marchent à la tête de la civilisation, crede agli spiriti meno
dell’italiana»27, andrebbe – da chi volesse spiegarsi ritardi e ristret-
tezze del fantastico italiano ottocentesco – quasi capovolta, portando a
quella conclusione «ironica e in perfetta contraddizione con le cer-
tezze del senso comune» che già traeva Ferdinando Amigoni: gli
spettri che, nel corso del diciannovesimo secolo, hanno “invaso” le
letterature di un’Europa «su cui si è abbattuta la catastrofe della mo-
dernizzazione» limitano sensibilmente «la frequenza delle loro
apparizioni» proprio in un paese, l’Italia, «dove esistono ampie aree
ancora premoderne»28. Conclusione che potrà apparire, in effetti,
paradossale e sorprendente, ma tutt’altro che inspiegabile sulla base
delle premesse teoriche che abbiamo cercato di gettare: la natura
regressiva e ripetitiva del perturbante presuppone infatti che quel «su-
peramento razionale del pensiero invecchiato» di cui l’Unheimliche
manifesta la labilità abbia già raggiunto una certa maturazione o,
almeno, si trovi in una fase in cui la sua spinta progressiva appare
inarrestabile e destinata a travolgere ogni residuo dell’animismo
arcaico.
Come dimostrano, fra l’altro, le indagini che Ernesto de Martino
compirà nel sud d’Italia a più di un secolo di distanza, non erano certo
queste le condizioni della gran parte del nostro paese ai tempi in cui
Leopardi vergava le proprie riflessioni: le forme di pensiero arcaiche
– ben lungi dall’essere ridotte al rango di «relitti […] che cadono in
desuetudine ogni giorno che passa» – erano ancora assai vitali e, con
la complicità non secondaria di una «particolare accentuazione
magica»29 dell’esperienza religiosa, infiltravano troppo profonda-
mente la cultura (non solo popolare) italiana, per poter «fare ritorno»
sotto forma di fabula perturbante. Gli italiani dell’Ottocento, al con-
trario di quanto opinava il poeta recanatese, credevano troppo, e non
troppo poco, agli spiriti per poter esprimere una produzione fantastica
quantitativamente e qualitativamente paragonabile a quella di altre
letterature.

27
G. LEOPARDI, Pensieri, in Tutte le poesie e tutte le prose, Roma, Newton &
Compton, 1997, p. 629. Su questa pagina leopardiana cfr. le interessanti
annotazioni di F. AMIGONI, “Una sera d'estate passando per Via Buia”.
Appunti sul fantastico italiano, in Galletti (a c. di), Le soglie…, cit., pp. 125-
133.
28
Ivi, p. 126.
29
DE MARTINO, Sud e magia, cit., p. 10.

41
Con ciò non si vuole certamente sottovalutare l’importanza delle
opzioni poetiche ed ideologiche consapevolmente abbracciate dagli
scrittori italiani dell’Ottocento; si vuole, piuttosto, sottolineare l’im-
portanza del ruolo che, accanto a tali opzioni e in esse, può aver gio-
cato la relazione con l’insieme del contesto storico-culturale in cui si
inquadrano. Di questo contesto fanno indubbiamente parte gli spe-
cifici limiti di una elaborazione intellettuale della modernità che –
soprattutto nel sud, ma non solo nel sud – fu «più indulgente verso le
esigenze di protezione psicologica connesse al ritualismo magico-
religioso» di quanto non avvenisse in altri paesi europei. Singolare
forma di «indulgenza» che, come rilevava de Martino, non costituisce
affatto una peculiarità caratteristica dell’«ignoranza delle plebi», ma è
anzi riscontrabile «nelle stesse forme egemoniche di vita culturale, e
in ultima istanza nella stessa “alta” cultura»30.
Fatta salva, ovviamente, la irriducibile singolarità delle esperienze
individuali, sembra di poter osservare, in generale, che il momento in
cui il perturbante sprigiona tutte le proprie energie ed investe
l’immaginario con il massimo della forza – quel momento che, anche
secondo Max Milner, si situa alla convergenza fra l’«effetto di
liberazione prodotto dall’adozione di una concezione razionale del
mondo» e il «vuoto affettivo che provoca la rinunzia a ogni mezzo di
comunicare con l’aldilà»31 – giungerà per la letteratura italiana, con
consistente ed innegabile ritardo, nel corso del secolo successivo.
Esso giungerà, in altre parole, con la tardiva ma rigogliosa fioritura
novecentesca di autori e testi che assicurano all’Italia un ruolo tut-
t’altro che gregario nella storia del fantastico dell’ultimo secolo.
Assumendo l’Unheimliche come compresenza conflittuale di moderno
ed arcaico nel cuore della modernità, la nostra prospettiva, oltre ad
offrire una possibile spiegazione di tale fioritura e dei suoi tempi,
consente anche di apprezzare e di valorizzare il ruolo che, in essa, ha
giocato un elemento che potremmo chiamare la «modernità para-
dossale» dell’arcaico, la sua capacità di alimentare l’immaginario let-
terario moderno incoraggiandolo ad annettersi nuovi ed inesplorati
territori.
Esauritasi, o indebolitasi, negli spazi geograficamente e cul-
turalmente centrali dell’Occidente moderno, la spinta propulsiva del

30
Ibidem.
31
M. MILNER, La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, Bologna, Il
Mulino, 1989, p. 32.

42
conflitto di cui il perturbante è sintomo acquista nuovo e maggior
vigore nelle aree apparentemente marginali. Aree come l’Italia
(soprattutto l’Italia meridionale), o come quell’altro “Sud” che è
l’America Latina; spazi culturali in cui il prevalere del pensiero
razionale e dividente è stato più a lungo infiltrato dalla revenance (o,
come si direbbe in spagnolo, dalla vivencia) della mentalità magico-
animistica e che, proprio in virtù di questa sottile e sotterranea
persistenza, divengono nel corso del ventesimo secolo teatro di
esperienze letterarie prestigiose ed innovative. Non potrà sorprendere,
a questo punto, che tanti degli scrittori che sono stati protagonisti di
queste esperienze abbiano saputo, e voluto, incanalare proprio nel-
l’alveo del fantastico e del para-fantastico l’incalcolabile potenziale
creativo di quel conflitto culturale che altrove aveva già da almeno un
secolo consumato la sua prima e più energica deflagrazione.
Secondo Jean Bellemin-Noël, la scrittura fantastica tenderebbe a
fare «un uso estremo dell’autoriflessione»32 e a mettere in questione,
nel corpo stesso della narrazione, le premesse del proprio dispiegarsi e
le forme che lo strutturano. A confermare questa convinzione del cri-
tico francese e, insieme, ad offrire una concreta esemplificazione
testuale ad un discorso che non è finora uscito dalla generalità e
dall’astrattezza, vorremmo rifarci alle pagine di un racconto che
appartiene alla migliore tradizione del fantastico italiano nove-
centesco e che – fin dal titolo – sembra illustrare alla perfezione, quasi
fosse una sorta di trasparente apologo sulla natura del perturbante, il
retroterra teorico che abbiamo cercato di delimitare e di esplorare in
queste pagine: Il borghese stregato (1942) di Dino Buzzati33
Il «borghese» in questione è Giuseppe Gaspari, «commerciante in
cereali» poco più che quarantenne che, in un pomeriggio d’estate,
giunge in visita «al paese di montagna dove sua moglie e le bambine
erano in villeggiatura». Impegnatosi in una breve escursione, l’uomo
concepisce ben presto un profondo senso di delusione per il paesaggio
che lo circonda. Questo “altrove” a cui egli accede allontanandosi dal
teatro della sua esistenza ordinaria non è la valle fatata che la sua
fantasia aveva accarezzato, ma un luogo tutto sommato avvilente:
«una valle di prealpi chiusa da cime tozze, a panettone, che parevano
desolate e torve». Non è il locus amoenus in cui egli possa trovare

32
J. BELLEMIN-NOËL, Notes sur le fantastique. (Textes de Théophile
Gautier), in «Littérature», n. 8 (dic. 1972), p. 19.
33
Il racconto fu pubblicato sul «Corriere della Sera» del 21 giugno 1942.

43
scampo dalle frustrazioni di un’esistenza mediocre, ma, al contrario,
quasi la proiezione, o il correlativo oggettivo, di questa frustrante
mediocrità:

Un posto da cacciatori, pensò il Gaspari, rimpiangendo di non essere mai


potuto vivere, neppure per pochi giorni, in una di quelle valli, immagini di
felicità umana, sovrastate da fantastiche rupi, dove candidi alberghi a forma
di castello stanno alla soglia di foreste antiche, cariche di leggende. E
considerava come tutta la sua vita fosse stata così: niente in fondo gli era
mancato ma ogni cosa sempre inferiore al desiderio, una via di mezzo che
spegneva il bisogno, mai gli aveva dato piena gioia.34

Eppure bastano pochi passi lungo una mulattiera, basta una svolta,
ed ecco che alla prosaica banalità di questo panorama si sostituisce
uno spettacolo nuovo e diversamente emozionante. È «un posto da
vipere, rovente di sole, stranamente misterioso». Questo impervio
«valloncello» sembra l’esatto contrario della «romantica valle»35 che
egli aveva vagheggiato poco prima, ma forse altro non è che il doppio
perturbante, il lato oscuro e vagamente spaventoso di quella valle:

A quella vista egli ebbe una gioia; e non sapeva neanche lui il perché. Il
valloncello non presentava speciale bellezza. Tuttavia gli aveva ridestato una
quantità di sentimenti fortissimi, quali da molti anni non provava, come se
quelle ripe crollanti, quella abbandonata fossa che si perdeva chissà verso
quali segreti, le piccole frane bisbiglianti giù dalle arse prode, egli le
riconoscesse. Tanti anni fa le aveva intraviste, e quante volte, e che ore stu-
pende erano state; propriamente così erano le magiche terre dei sogni e delle
avventure, vagheggiate nel tempo in cui tutto si poteva sperare.36

Il paese delle fiabe e dei sogni che era appena stato dichiarato
inaccessibile nella sua dimensione di luminosa bellezza sembra ora
improvvisamente a portata di mano, ma mostra il suo aspetto più
tenebroso. Per farvi ingresso, per riconoscere in esso la propria patria
perduta e il giardino incantato delle avventure infantili, bisogna essere
consapevolmente disposti a pagare il prezzo della regressione, di-
sposti a percorrere a ritroso il cammino dell’evoluzione dell’io per
risalire alle sue origini, affrontando tutti i rischi che ciò comporta.
34
D. BUZZATI, Il borghese stregato, in Opere scelte, Milano, Mondadori,
1998, p. 741.
35
Ibidem.
36
Ivi, p. 742.

44
Per quanto riguarda il Gaspari, questa regressione si sostanzia,
prima di tutto, nella scelta di unirsi ad un gruppo di ragazzini in un
appassionato gioco di combattimento. Poco importa seguire le varie
fasi del progressivo coinvolgimento dell’adulto nell’impresa di con-
quistare la «lontanissima rupe sospesa tra le voragini»37 su cui si sono
asserragliati i nemici del gruppo; più interessante notare come l’uomo
viva la propria partecipazione a questo gioco innocente come se fosse
il viaggio in una «terra inesplorata, distante migliaia di chilometri»
dove egli si trovi non certo ad azzuffarsi con dei bambini, ma a
«lottare con dei selvaggi»38. L’universo immaginario che si era dap-
prima affiancato alla mediocrità del reale, quasi a compensarla o ad
offrire una via di fuga, ora sembra sovrapporsi ad essa e prenderne
definitivamente il posto, cancellandola:

Non c’era più il valloncello adatto ai giochi dei ragazzi, né le mediocri


cime a panettone, né la strada che risaliva la valle, né l’albergo, né il rosso
campo da tennis. Egli vide sotto di sé sterminate rupi, diverse da ogni
ricordo, che precipitavano senza fine verso maree di foreste, vide più in là il
tremulo riverbero dei deserti e più in là ancora altre luci, altri confusi segni
denotanti il mistero del mondo. E qui dinanzi, in cima alla rupe, stava una
sinistra bicocca; tetre mura a sghembo la reggevano e i tetti in bilico erano
coronati da teschi, candidi per il sole, che sembrava ridessero. Il paese delle
maledizioni e dei miti, le intatte solitudini, l’ultima verità concessa ai nostri
sogni!39

La strada per fare ritorno al mondo delle fantasie infantili e


dell’animismo magico – un mondo dove non prevalga la tirannia della
logica e del principio di realtà, dove non viga la costrizione a pensare
correttamente e a distinguere il vero dal falso – sembra ormai aperta.
Solo che questa terra «remotissima” e «pura», perché «sottratta alle
irriverenze umane»40, è anche una terra inospitale e nemica, nella
quale il soggetto sarà ben presto chiamato ad incontrare quella tenebra
in cui l’appagamento del desiderio risulta indistinguibile dal ce-
dimento alla pulsione di morte.
Al cuore di questa tenebra si trova una porta «che non esiste» ma,
fantasmaticamente tangibile, è la soglia che, come le radure di cui

37
Ivi, p. 744.
38
Ivi, p. 745.
39
Ibidem.
40
Ivi, p. 747.

45
parla Jameson, mette in comunicazione il mondo con il suo aldilà.
Attraversandola, il soggetto si prepara ad affrontare l’agguato del-
l’arcaico ed assiste al «riaffacciarsi di un ordine antico che si credeva
superato per sempre»41. Ma di quest’ordine antico e superato, che
riaffiorando certifica la «miseria del codice» vigente «e la sua (spesso
tracotante) inadeguatezza»42, non si può ora fare esperienza se non nel
suo aspetto mortifero e infernale. Affrontando lo sguardo dell’orrendo
stregone che lo attende oltre la soglia, il protagonista del racconto si
trova ad affrontare un’alterità radicale e irriducibile, capace di tra-
volgere ogni sua difesa e annientare la sua presenza. L’onnipotenza
della fantasia e del desiderio, che egli ha rievocato dalle profondità
del passato si risolve infine, come sempre accade ai personaggi del
fantastico, in una disperata impotenza43:

Una porta di legno, socchiusa (che non esisteva), era coperta di biechi
segni e gemeva ai soffi del vento. […] Ma, dalla socchiusa porta coperta di
oscuri segni (che non esisteva), il Gaspari vide uscire uno stregone incrostato
di lebbre e di inferno. Lo vide rizzarsi, altissimo, gli sguardi privi d’anima,
un arco in mano, sorretto da una forza scellerata. [...] Si trasse con spavento
indietro. Ma l’altro già scoccava il colpo. Colpito al petto, il Gaspari cadde
tra i rovi44

Esemplare figura del perturbante come revenance dell’arcaico e


del superato, alimentata dal desiderio regressivo di ricongiungersi alle
più antiche fasi del «cammino che il senso dell’Io ha percorso durante
la sua evoluzione»45, questo stregone buzzatiano ha tutte le carat-
teristiche delle creature che la scrittura fantastica non cessa di evocare
da un’oltrenatura che, come nota Lucio Lugnani, è quasi sempre
«erebica e nefanda»: creature che «vengono dalla morte e incarnano
un desiderio di morte»46.
Unendosi al gioco dei bambini il protagonista del racconto ha dato
corpo ai fantasmi della sua anima, ha recuperato la magica on-

41
LUGNANI, Verità e disordine…, cit., p. 196.
42
Ivi, p. 198.
43
Cfr. ancora, in proposito, l’opinione di de Martino, secondo il quale «i
cosiddetti “poteri magici” […] meglio si direbbero “impotenze” e non
“poteri”» (Sud e magia, cit., p. 194).
44
BUZZATI, Il borghese stregato, cit., p. 746.
45
FREUD, Il perturbante, cit., p. 288.
46
LUGNANI, Verità e disordine…, cit., p. 249.

46
nipotenza del desiderio ed è entrato in una dimensione nella quale il
principio di piacere prevale su quello di realtà. Ma, così facendo, ha
firmato la propria condanna. Il «mondo delle favole» non può essere
impunemente attraversato dal soggetto della coscienza adulta e
moderna, che ha ormai irrimediabilmente perduto l’«angelica legge-
rezza» dell’infanzia e che può vivere il ritorno del superato solo come
trionfo di tendenze psichiche regressive e minacciose. Frazer – disap-
provava Wittgenstein nella pagina ricordata all’inizio del nostro
discorso – «sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per
errore»47. Nel racconto di Buzzati, il signor Giuseppe Gaspari, che è
tornato – «credendo quasi di scherzare» – ad essere un selvaggio,
muore, invece, «per gioco»:

Sì, lui, quarantenne, si era messo a giocare coi bambini, credendoci come
loro; solo che nei bambini c’è una specie di angelica leggerezza; mentre lui
ci aveva creduto sul serio, con una fede pesante e rabbiosa, covata, chissà,
per tanti anni ignavi senza saperlo. Così forte fede che tutto si era fatto vero,
il vallone, i selvaggi, il sangue. Egli era entrato nel mondo non più suo delle
favole, oltre il confine che a una certa stagione della vita non si può
impunemente tentare. Aveva detto a una segreta porta apriti, credendo quasi
di scherzare, ma la porta si era aperta veramente. Aveva detto selvaggi e così
era stato. Freccia, per gioco, e vera freccia lo faceva morire. Pagava dunque
l’arduo incantesimo, il riscatto, era andato troppo lontano per poter ritornare,
ma in compenso che vendetta per lui. Oh, lo aspettassero per il bridge della
sera! La pastina in brodo, il manzo lesso, il giornale radio: c’era da ridere.
Lui, uscito dai tenebrosi recessi del mondo!48

Tutto il racconto e l’atteggiamento del suo protagonista sono


caratterizzati da una profonda e significativa ambivalenza: l’«orrore»
si mescola ad una «felicità curiosa»49 ed è, in ultima analisi,
indistinguibile da essa. L’uomo ha compiuto un miracoloso ed
«arduo» incantesimo: ha sconvolto a suo piacere le leggi della natura e
della mediocrità borghese, dell’età adulta e del raziocinio. Ma la fan-
tasmagoria così evocata è una fantasmagoria mostruosa ed infernale:
egli ha trasgredito una soglia che doveva essergli preclusa ed ora deve
pagare questa trasgressione con la sua stessa vita. Eppure, non si
pente della sua avventatezza: più che prezzo di un errore, la morte gli

47
WITTGENSTEIN, Note…, cit., p. 28.
48
BUZZATI, Il borghese stregato, cit., p. 747.
49
Ivi, p. 746.

47
appare gli appare il giusto riscatto dalla frustrazione, rivincita
sull’esistenza falsa ed infelice che egli ha vissuto fino a quell’istante:

Dunque l’ora di Giuseppe Gaspari era giunta, con poetica magnificenza;


e crudele. Probabilmente – egli pensò – gli toccava morire. Eppure che
vendetta contro la vita, la gente, i discorsi, le facce, mediocri, che l’avevano
sempre contornato. Che stupenda vendetta.50

La morte e la regressione sono qui tutt’altro che eufemizzate, il


loro volto terrificante e «crudele» non si dissolve in un’epifania be-
nefica, ma si manifesta assai chiaramente nello stregone «incrostato di
lebbre e d’inferno», fantasma che sorge dai «tenebrosi recessi» del
mondo e dell’anima. Essenziali al fantastico, la trasgressione della
soglia51 e il ritorno del superato sono perturbanti proprio perché
costituiscono l’approdo finale della deriva del desiderio, e rap-
presentano «l’ineliminabile attrazione della dissoluzione, […] che
accompagna l’esperienza conoscitiva dell’uomo come un invito a
varcare i limiti del naturale e della vita stessa»52. I grandi autori del
fantastico moderno, dice bene Jameson, coltivano una loro «fedeltà»
alle soglie e alle radure attraverso le quali, un tempo, potevano co-
municare il mondo superiore e il mondo inferiore, ma questa fedeltà è,
proprio come quella del buzzatiano Giuseppe Gaspari, «una fede
pesante e rabbiosa» nella possibilità di accedere ad un Aldilà che
prende forma d’incubo più che di sogno. Una fede «così forte» da
sbaragliare il principio di realtà, «così forte» – dice Buzzati – che tutto
si fa vero, e quelli che Freud chiamava i «fenomeni dell’attività
fantastica» travolgono gli steccati della rassicurante «riserva naturale»
in cui si pretendeva di restringerli per sconfinare nel mondo reale ed
imporsi ad esso. A questo sconfinamento – che è uno dei temi e dei
fini del perturbante letterario – il personaggio fantastico, sospeso fra
l’angoscia e il senso di rivalsa, fra piacere e terrore, dà infine un

50
Ivi, p. 747.
51
Cfr. M. GUIOMAR, Principes d’une esthétique de la mort, Paris, Corti,
1988, p. 254: «Non c’è Fantastico che non sia dell’Aldilà, nel dominio della
Morte; rifiutato il superamento della soglia non c’è Fantastico possibile»; e,
più recentemente, le conclusioni cui giunge A. Cavalli: «È la morte il vero
tema del fantastico, è il passaggio d’una soglia» (Oltre la soglia…, cit., p.
235).
52
LUGNANI, Verità e disordine…, cit., p. 249.

48
consenso che è anche, inevitabilmente, il consenso al proprio
annientamento:

Egli abbassò la testa come per dire di sì; senza rialzarla. Lui vero uomo,
finalmente, non meschino. Eroe, non già verme, non confuso con gli altri, più
in alto adesso. E solo. La testa pendeva sul petto, come si conveniva alla
morte, e le raggelate labbra continuavano a sorridere un poco, significando
disprezzo, ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere.53

53
BUZZATI, Il borghese stregato, cit., p. 748.

49
PIERO PIERI

Il simbolico nel racconto fantastico

Per valutare la funzione segnica e referenziale del simbolo


all’interno del racconto fantastico di Otto e Novecento occorre prima
porre le seguenti domande.

1) Come opera il mondo dei simboli all’interno del racconto fan-


tastico?
2) Quale rapporto corre fra lo statuto retorico-letterario di un
genere letterario e la presenza di simboli orientanti in modo sog-
gettivo l’interpretazione del testo?

I.
Rispondendo alla prima domanda diciamo subito che in letteratura
i simboli non sono mai immagini metastoriche originanti da una
lontana immaginazione collettiva. Quando sono inseriti nel sistema
segnico-referenziale di un testo essi perdono buona parte del proprio
patrimonio antico, non sono più i sicuri rappresentanti di una cultura
iconologica stabile e durevole.
Ogni loro sicura codifica antropologica non è più certa quando la
letteratura moderna (a partire dal Romanticismo europeo) li utilizza
sottoponendoli al vaglio di una scrittura che mentre introduce il
simbolo lo reinterpreta, dislocandolo in aree del senso pertinenti al
senso nuovo cui tende l’espressione e il linguaggio figurativo del
testo. Simboli fondamentali come il punto e il cerchio, la croce e il
quadrato, quando entrano nel sistema comunicativo o autoreferenziale
del testo moderno, vanno considerati come un’esperienza genetica che
diventa nuova esperienza di se stessa. La ricollocazione del simbolo
in un ambito nuovo del senso (senso ricco di tutte le variabili
connotative interne al testo) è un diritto proprio dello statuto onto-
logico della letteratura e del testo in quanto pratica significante aperta
ai plurimi significati dell’interpretazione. Questa ricollocazione de-
ontologizza l’immagine tradizionale di simbolo e, tuttavia, ne diventa
il motore che spinge a nuove pregnanze, a sorprendenti ambiguità, a
figure motivate dall’emergenza del discorso e dalla novità del con-
tenuto.

51
La ricollocazione del simbolo de-soggettiva l’autonomia del
significato fino ad ora conosciuto. Il contenuto di un simbolo ha avuto
nel tempo diverse influenze che l’hanno sempre più arricchito e mo-
dificato: le trasformazioni culturali e ideologiche sono state il risultato
di un processo millenario. Il simbolo è la storia dell’uomo dal punto
di vista della storia dei simboli.
I simboli, infatti, non sono partiti già ricchi delle loro future
implicazioni. Né si può dire che essi siano sempre esistiti. Così come
«la storia universale non è esistita sempre; la storia come storia
universale è un risultato» (lo ricorda Marx nell’Introduzione a Per la
critica dell’economia politica), allo stesso modo anche i simboli sono
un risultato. Sono segni a cui è giunto il pensiero concettuale di
popoli antichi e di lontane generazioni, di civiltà e di religioni scom-
parse1.
L’uomo li ha utilizzati per l’indicibile bisogno di dare una forma al
mondo, per rappresentare in una forma la sua visione del mondo.
Se i simboli possono essere considerati un risultato, in eguale
misura possiamo affermare che un simbolo è sempre un risultato in
cammino. Il suo valore antico è sempre disposto a collaborare con le
mutazioni etno-culturali avviate da una certa civiltà. L’antico
significato s’è sempre adattato alle nuove esigenze di rappre-
sentazione simbolica. La stabilità di un simbolo non esiste: esiste la
capacità del simbolo ad assumere sempre nuovi significati: questa
capacità immortale e mutevole è la chiave della sua classicità. L’an-
tico simbolo della croce (due assi incrociati) col cristianesimo diventa
l’emblema di una religione che trasforma uno strumento di morte in
icona della salvezza universale.
Da questo punto di vista ciò che i simboli hanno rappresentato nei
popoli antichi o ciò che rappresentano nelle culture primitive attuali
solo in parte decide gli esiti dell’analisi letteraria, sia quella
strutturale, sia quella gnoseologica. La staticità di un simbolo non
muta anche se questo fin dall’antichità ha avuto una valenza positiva e
negativa, «una faccia diurna e una faccia notturna».2 Il fuoco, ad
1
I simboli sono la struttura di un sistema di pensiero che nacque
nell’antichità conservandosi a noi attraverso la durevole testimonianza delle
pitture rupestri, degli affreschi, dei canti tribali, dei racconti orali, delle
testimonianze letterarie incise in tavolette d’argilla, nella corteccia d’albero,
nelle pergamene antiche.
2
J. CHEVALIER, Introduzione a Dizionario dei simboli, voll. II, Milano,
Rizzoli 2001, p.XXI.

52
esempio, è un simbolo di distruzione e di rinnovamento; ed ancora, il
suo segno, ricorda Durand, «agglutina i sensi divergenti e antinomici
del “fuoco purificatore”, del “fuoco sessuale”, del “fuoco demoniaco
e infernale”»3. Ma questa antica e fondativa semiosi del simbolo non
aiuta lo studioso a capire i nuovi significati di cui è fatto carico il
simbolo all’interno di un testo strategicamente mirante al rinno-
vamento dell’espressione e all’avanzamento del rapporto segno-con-
tenuto.
Il fuoco nell’Incendiario di Palazzeschi

E dopo mi sentirò lambire le vesti,


le fiamme arderanno
sotto la mia casa…
griderò, esulterò,
m’avrai dato la vita!

segnala l’entrata in scena dell’artista della rivoluzione futurista e


questo significato non s’identifica col simbolismo apostolico e
civilizzatore del fuoco nel Sigfrido di Wagner

lodert in Gluten (fiammeggia in vampe)

o con quello egoico e superomistico presente nel Fuoco di


D’Annunzio

Ben lo sapeva colei ch’egli chiamava Perdita; e, come la creatura pia


attende dal Signore l’aiuto soprannaturale per operare la sua salvazione, ella
pareva attendere ch’egli la ponesse alfine nello stato di grazia necessario per
elevarsi e rimanere in tal fuoco…

Simbolo di violenza o di vanità il vento nel Cimitero marino di


Valéry

Le vent se lève!…Il faut tenter de vivre!

segnala la rinascita di un’Europa annichilita dalla Prima guerra


mondiale e con questo significato ad alta denotazione storica il vento
simbolizza la speranza del rinnovamento. Il vento non segnala il di-

3
G. DURAND, L’immaginazione simbolica, Roma, Il Pensiero Scientifico
Editore 1977, p. 14.

53
sorientamento dell’individuo o la sua leggera incostanza, ma la
necessità di una forte risposta morale che investa il concetto stesso di
uomo.
Allo stesso modo del simbolo che diviene e che divenendo muta la
propria precedente stabilità in segno variabile e soggettivo, anche
un’immagine archetipica di alto valore antropologico, come è quella
del fanciullo, nell’arco breve di una generazione, può cambiare di
significato: nello Zarathustra un fanciullo che danza (siamo alla terza
metamorfosi, dopo quella del cammello e del leone) segnala l’onto-
logia dell’uomo superiore; in Corazzini il fanciullo desolato e pian-
gente fa coincidere l’adolescenza dell’uomo con la maturità del poeta.
In eguale misura anche i simboli di contenuto stabile, rinvianti
sempre ad una determinante classe di valori universalmente rico-
nosciuti, possono subire repentine designazioni di valore causa il
rapido evolversi degli eventi storici.
Per dirla con Bataille, l’aquila è stata ad un tempo l’aquila della
Rivoluzione francese e, poco dopo, l’aquila dell’imperialismo
napoleonico. Il simbolo di ogni più antico potere regale è stato
detronizzato e riadattato come simbolo della nuova virilità rivo-
luzionaria per diventare qualche anno dopo con Napoleone il simbolo
di un potere autoritario nuovo e più ambiguo4.
Nei casi citati il simbolo non cambia di valore: l’aquila continua a
rappresentare la forma più alta del potere; cambia la sua funzione
ideologica. Il simbolo rimane lo stesso, quel che cambia è lo sguardo
della storia. Sguardo mutevole quando solidarizza con la conser-
vazione monarchica, con la rivoluzione democratica e con la suben-
trante ambiguità autoritaria di Napoleone.
Pur non mutando l’iconografia dell’aquila muta il volto del potere.
All’interno di questo paradigma il simbolo dell’aquila “vola” nel mu-
tevole testo della storia e modifica il proprio valore denotativo pur
nell’apparente stabilità del valore connotativo.

II.
Se ciò accade per i simboli della cosmologia religiosa e della
tradizione violenta o autoritaria della storia, lo stesso processo ancor
più investe i simboli che alimentano il racconto fantastico.
Nel campo della letteratura fantastica moderna un simbolo può
cambiare di significato, assecondando il mondo psicologico del-

4
Cfr, G. BATAILLE, Critica dell’occhio, Rimini, Guaraldi 1970, p.139.

54
l’autore, orientato dal contesto culturale dell’opera o dallo stadio
letterario in cui opera il modo fantastico. All’interno di questo modo il
simbolo diventa “fantastico”; cooperando a creare il sistema della
narrazione fantastica.
Diamo per scontato che anche il “fantastico” identifica una forma
di racconto in prosa che s’è evoluta fra Otto e Novecento, mo-
dificando non rare volte la propria fisionomia; in questo, legandosi al
destino del genere romanzo, che lo vuole ogni volta sensibile inter-
prete del proprio mutevole presente. Col risultato che il racconto fan-
tastico che più di altri sembra sottrarsi ad ogni influenza storica,
sociale e letteraria nei fatti, di volta in volta, condivide il gusto del
tempo, a quello adeguandosi e a quello portando lo stile della propria
visione.
Come abbiamo già detto per il simbolo, anche il fantastico diviene;
anche le sue ossessioni metastoriche sono il risultato di una coscienza
letteraria sensibile alle novità del proprio tempo. Come accade per
l’occultismo, il mesmerismo, lo spiritualismo, tipico del racconto del-
l’Ottocento5.
Allo stesso modo il tema del doppio o del sosia non anticipa le
scoperte della psicanalisi, ma sottopone a sintesi antiche visua-
lizzazioni antropologiche che la stagione romantica ripropone par-
tendo dall’eliminazione onirica dei confini fra Io e Mondo, fra
normalità e assurdità.
Se, allora, non cambia l’iconologia del simbolo, cambia la sua
valenza simbolica e la sua destinazione d’uso. Oggetto di un nuovo
significato il simbolo va ogni volta compreso nel suo nuovo con-
tenuto.
La richiesta di una nuova comprensione diventa indispensabile
quando un simbolo si ripete in un testo o in più testi dello stesso
autore. La ripetizione segnala un valore aggiunto connesso all’in-
tenzione dello scrittore (o della scrittura) di dotare quel simbolo di un
significato particolare quanto funzionale alla strategia simbolica del
testo, o di più testi se siamo davanti ad un macrotesto segnalato dal-
l’unità strutturale e dall’organizzazione unitaria dei segni.
L’apparizione solitaria di un simbolo, infatti, non basta a stabilirne
l’importanza, perché, direbbe Hegel, «una volta può facilmente essere
considerata come nessuna volta». Allo stesso modo, direbbe Lacan, «il
simbolo vale solo se lo si organizza in un mondo di simboli».

5
Cfr. R. CESERANI, Il fantastico, Bologna, Il Mulino 1996.

55
La nuova funzione allegorica del simbolo, come abbiamo detto, se
pur parte da una lontana origine, giunge a noi trasformata dalla
poetica dell’autore, dal genere che amministra la retorica della
scrittura, dal modo in cui il fantastico si rappresenta e, anche, dal-
l’idioletto dell’autore.
Per il fatto che in un testo moderno il simbolo antico non porta
intero il fardello della propria tradizione, così come l’inconscio
archetipico da cui il simbolo origina non autorizza a vedere l’in-
conscio dell’autore come parte passiva di quella prima generale
immaginazione.
In un certo senso, e presto lo dimostreremo, i valori antichi di certi
simboli, sebbene sembrino ripresentarsi nei testi moderni con eguale
segno, non sono riconducibili ad un’immaginazione genetica, a quella
che Jung e la sua scuola chiama inconscio collettivo.
La riattualizzazione moderna di un’antica immaginazione
simbolica non ci porta a dire che quel testo s’è fatto carico di valori
simbolici archeologicamente originari. Soprattutto quando questi
valori paiono affiorare nel testo come una rimemorizzazione incon-
scia, come l’automatismo irriflesso della psiche.
Il simbolismo dello scrittore può anche originare da un’arcaica
tradizione, ma il peso di questa origine non può prescindere dal si-
stema semiotico e referenziale di una scrittura cui sovente compete il
compito di reinterpretare il simbolo.
La funzione modernizzante di una certa scrittura può consistere nel
togliere al simbolo la sua origine antropologica e il suo più accreditato
valore universale, per renderlo oggetto scaturito da una singola
individualità in creativo rapporto inconscio con l’esperienza letteraria.
Ma, ancora prima di valutare il rapporto fra inconscio individuale e
scrittura autoriale, riflettiamo sul fatto che un simbolo in letteratura
non è mai l’espressione di un’innata quanto libera pulsione a mani-
festarsi nel concerto della scrittura. Il principio di piacere rap-
presentato dalla libera immaginazione simbolica si scontra con il
principio di realtà rappresentato dai codici retorici e formali del ge-
nere letterario, le cui interne regole a loro volta si scontrano col
problema mai stabile della lingua letteraria.
Il simbolo può anche rappresentare un aspetto dell’inconscio
individuale, ma la sua trasposizione all’interno di un genere e di una
stilizzata scrittura in parte compromette la sua stretta identità in-
conscia: nell’incontro-scontro con il problema della comunicazione, il

56
simbolo segnala un valore che da psichico-antropologico diventa
unica proprietà del linguaggio letterario.
Nella vita inconscia i simboli funzionano come frammenti di
un’identità traumatizzata, bisognosa di un’accettabile ricomposizione
attraverso un lavoro terapeutico dislocato nel tempo. In un testo let-
terario, invece, l’inconscio non parla mai per simboli “impulsivi” ed
“occasionali”, relazionati al contesto di quella seduta terapeutica, so-
vente abbandonati per essere ripresi in un secondo tempo, alla luce di
un’emergenza psichica diventata matura per la comprensione di un
certo evento traumatico.
L’ordine della scrittura s’impone sempre sul caos libidico e
pulsionale che governa il simbolo inconscio.
L’incontro dell’inconscio con la realtà della scrittura porta ad una
produzione di simboli il cui antico repertorio tematico e la cui in-
dividualizzata soglia psichica mai prescinde dallo scontro fra il
principio di piacere del libero immaginare con il principio di realtà
dell’obbligato comunicare.
Un certo genere letterario, un certo modo, un certo idioletto non
sono mai una scrittura solidale con le libere pulsioni della
rappresentazione simbolica. Come abbiamo già detto, per il fatto che
l’inconscio ha scelto la letteratura per manifestarsi, (ma anche la
letteratura può avere scelto l’inconscio per manifestarsi) le sue im-
magini vengono modificate, trattate, manipolate, risignificate.
Questa modificazione fa di un simbolo di antica origine o d’in-
dividualizzata soglia inconscia un simbolo interpretabile solo sul
piano del significato connotante e del senso denotante.
Infatti, secondo il genere che lo delimita e l’idioletto che lo
movimenta il simbolo cambia continuamente di valore. Tanto più che
l’inconscio di un autore, se mai ha pensato di manifestarsi libe-
ramente, davanti alla realtà codificata e codificante della scrittura, è
costretto a porsi il problema della propria traducibilità. Tradurre il
linguaggio dei sogni (dell’anima, dell’altro, dell’inconscio) nel lin-
guaggio di una scrittura che si segnala come traduttrice del primo
linguaggio. Chi scrive per sé scrive sempre per qualcuno. Quando ciò
non accade il simbolo d’incomprensibile interpretazione, collocato in
un punto della narrazione inadatto a valorizzane la funzione stra-
tegica, diventa un oggetto fuori posto o fuori luogo.
Abbiamo già detto che ogni genere presuppone una retorica e ogni
idioletto una comunicazione: entrambi hanno il compito di dare un
senso organizzato e ben strutturato anche alla più espansa pro-

57
liferazione simbolica. Lacan ricorda che «pensare è sostituire agli
elefanti la parola elefante e al sole un tondo». E non manca di
osservare: «il sole in quanto è designato da un tondo non vale niente.
Non vale se non in quanto questo tondo è messo in relazione con altre
formalizzazioni, che insieme a quelle costituiscono la totalità sim-
bolica».
Non importa che l’idioletto sia imprevedibile, inopportuno,
trasgressivo o rovesciante. Per lo scrittore e per la scrittura importa
che lo scarto o la trasgressione appaiano come tali agli occhi del
lettore storico. In caso contrario l’operazione di rottura con le con-
venzioni, fatto che comporta sempre una certa ideologia del testo,
perde la sua sostanziale ambizione rivoluzionaria. Anche l’idioletto
più trasgressivo non è la garanzia più sicura per assistere ad una
produzione simbolica solida nella sua architettata anarchia. Per l’im-
maginazione simbolica e per la sua traduzione letteraria, infatti,
l’idioletto funziona come un principio di realtà le cui autonome regole
“regolano” e non “liberano” l’immaginazione dell’Altro.
Insieme ai plurimi e stratificati codici di un genere, anche
l’idioletto più innovativo sul piano della comunicazione letteraria
utilizza una strategia semiotico-linguistica che procede per ag-
gregazioni e articolazioni, per combinazioni retoriche o per ben ca-
librati scarti sintattici. I simboli esibiti e il mostrarsi di una forte
immaginazione simbolica sono uccelli variopinti dentro la gabbia
della scrittura.
La libera immaginazione simbolica può nascere da una pulsione
disarticolata e casuale, ma ecco che, oltre al genere e al modo, anche
l’idioletto diventa un principio di realtà che obbliga l’immaginazione
simbolica ad una rappresentazione di se stessa accettabile e de-
ducibile.
La letteratura costringe la libera immaginazione inconscia a
guardarsi come ad uno specchio. Questo guardarsi allo specchio
costituisce il principio di realtà della letteratura; questo guardarsi in-
duce l’istintivo e casuale magma dei simboli ad un ordine guidato
dalle regole del linguaggio letterario. Ogni autore deve sdoppiarsi
nell’immagine di se stesso per conquistare una scrittura che fa del-
l’iniziale sostanza psichica un corpo d’immagini autoreferenziali.
Un idioletto può anche stravolgere molte regole interne al genere
in cui opera, ma non per questo motivo il linguaggio dell’inconscio
stabilisce le nuove regole dell’idioletto. La modernizzazione letteraria
di un idioletto, se pur personalizza il codice di quel genere, non

58
presuppone lo sposalizio fra libero inconscio e libera scrittura. La
scrittura sperimentale esibisce fratture sintattiche e rotture linguistiche
la cui novità non prevede mai la disorganizzazione della co-
municazione simbolica.
E’ vero, ci ricorda Lacan, che il simbolico è strutturato come un
linguaggio, ma il codice di riferimento dei simboli inconsci non è
l’ordine del linguaggio letterario, né il suo disordine apparente, né le
relazioni di un linguaggio i cui desideri e conflitti parlano in modo
indiretto e figurato, prediligendo una comunicazione più latente che
manifesta, più allusiva che imitativa.
Un autore quando scrive non sogna; le sue immagini non sono mai
stampi onirici privi di una meditata istruzione per l’uso che ne deve
fare il lettore. Le pulsioni “dionisiache” dello scrittore sono utili per
predisporre una piattaforma simbolica, a patto che lo scrittore,
fortemente sintonizzato con la propria vita inconscia, tragga dal
blocco grezzo del simbolo arcaico, archetipico, antropologico,
inconscio, un’immagine strutturalmente coerente con la propria
“apollinea” poetica, lo stile idoneo ad esprimerla, e la fabula come
centro motore di ogni rivelazione narrativa.
Seguendo questo principio interpretativo, un simbolo, come segno
di un evento inconscio tradotto dal sistema polisemico della scrittura,
collabora più ad una liceità letteraria che ad una destrutturata emer-
genza onirica. E per più di una ragione.
Anche gli idioletti più sovversivi sono sempre il risultato di una
razionalità letteraria conscia della propria sfida sperimentale. Così, la
novità di un idioletto è data dalla capacità di uno scrittore di in-
tervenire sulle sue pulsioni per eleggerle a sintesi raffinate del proprio
codice figurativo. E’ il caso esemplare della «follia», come la chiama
Blanchot, dei Canti di Maldoror di Lautreamont, che per Bachelard
altro non è che «psichismo sorvegliato», «forza psichica che, re-
pentinamente, diventa linguaggio».
Riassumendo, i simboli, sia a valore antropologico, sia decifranti
alcuni aspetti dell’inconscio di un singolo scrittore, in letteratura sono
risignificati da un principio di realtà, che anche quando fa entrare
l’irrazionale nella comunicazione, tuttavia ne controlla, seleziona e
riformula ogni irriflessa immagine.

59
Solo in apparenza l’idioletto più trasgressivo è il risultato di una
sperimentazione linguistica che rinuncia a porsi il problema della sua
tradotta leggibilità6.
Queste ultime considerazioni portano il nostro discorso a ripensare
da un altro punto di vista il ruolo del simbolo in letteratura.
I simboli sono parti vive di una lingua il cui ordine referenziale è
orientato da un certo gusto lessicale, le cui frasi sono modellate da
una certa visione morale, da intonazioni timbriche e da ritmi verbali.
Allo stesso tempo, l’idioletto poggia su punte di originalità nate dal
dialogo con la tradizione di un certo genere e con le soglie stilistiche a
cui è arrivato il genere attraverso i risultati raggiunti dalle scritture
contemporanee.
Anche da questo punto di vista appare chiaro che l’idioletto è
ancora meno sensibile alla libera pulsione dell’inconscio. La sua
originalità, l’abbiamo già detto, mescola tradizione e sperimentazione,
mette nel linguaggio proprietà culturali che se da una parte
identificano l’autore, dall’altro ne sorvegliano e amministrano l’atti-
vità inconscia.
Alla stregua dei personaggi di un racconto anche i sogni di quel
racconto sono formati da “gruppi di parole”. Col risultato che
l’anarchismo semiotico di un simbolo perde la sua primitiva auto-
nomia davanti alla manipolante ristilizzazione semantica della scrit-
tura. Se è vero che l’atteggiamento del racconto realista si basa sul-
l’illusione linguistica data dall’apparente stretta funzione referenziale
che lega i segni e le cose, la stessa illusione linguistica si dà nel
legame egualmente apparente che passa fra i segni e i sogni, quando i

6
Gli autografi di Gadda indicano una scrittura dalla grafia inizialmente chiara
e lineare, che diviene in corso d’opera sempre più torturata e stratificata, alla
luce di un modello di comunicazione i cui simboli sono risignificati
attraverso un inesausto laboratorio tecnico-linguistico. Inversamente, gli
autografi di Calvino parlano di una scrittura dalla grafia inizialmente con-
torta, mutilata, oscura, alla luce di un modello di comunicazione i cui simboli
si chiariscono di significato man mano che la tensione letteraria dello
scrittore conquista il suo nitore. Dal chiaro al complesso, questo e il percorso
del barocchismo simbolico di Gadda. Dal complesso al chiaro, questo è il
percorso del classicismo simbolico in Calvino. Gadda incastona il simbolo in
una scrittura artificiata da un idioletto altamente sperimentale, Calvino
incastona il simbolo in una scrittura lineare dall’idioletto che guarda al
modello classico.

60
primi si propongono come veicoli trasparenti di un continuo
linguistico duplicante i movimenti dell’inconscio.
Sappiamo di introdurre una nota discordante, forse irritante, per il
fatto che nella critica letteraria, anche la più raffinata, resiste la
tentazione di leggere un autore partendo da solidi studi psicanalitici;
non sempre per psicanalizzare l’autore, ma, quasi sempre, per psi-
canalizzarne i testi, alla luce delle loro forti suggestioni simboliche e,
pure, alla luce di una loro evidente immaginazione onirica magari
motivata da accurate conoscenze freudiane e junghiane.
Ma, converrà chiedersi, se uno scrittore si dichiara ispirato dalla
letteratura junghiana, la sua opera può essere vista come un libro con-
sapevolmente aperto sul proprio inconscio? E se anche ciò fosse, l’in-
conscio reale dell’autore reale può poi coincidere con l’inconscio
implicito dell’autore implicito? Se non è sempre chiaro qual è il
confine fra biografia reale e autobiografia esibita, come può essere
chiaro il confine fra inconscio e scrittura, fra immaginazione sim-
bolica e codice letterario dei simboli?
Va detto, inoltre, che per noi l’inconscio non ha più un particolare
valore di mistero, di soglia e grafia dell’ignoto. Dopo circa un secolo
di letteratura psicoanalitica il suo linguaggio, fatto di speciali codici
da decifrare sulla base di crediti disciplinari che abbiano in mente i
risultati conquistati dalla scuola di Freud e di Jung, della Klein e di
Lacan, per il contemporaneo può avere lo stesso fascino di un sistema
d’immagini la cui codificata valenza simbolica rischia di apparire
passiva o, peggio ancora, “datata”. E per le ragioni cui avevamo in
precedenza fatto cenno. L’inconscio che si mostra come una struttura
di segni analoga a quella del linguaggio costituisce una materia bi-
sognosa di necessarie trasformazioni linguistico-strutturali quando
intende conquistare una topografia simbolica inedita e sorprendente.
Senza questo processo di traducibilità, l’abbiamo già detto, che ap-
partiene al campo della sperimentazione letteraria, il simbolo è una
tessera sparsa depositata nella mente dello scrittore e non ancora
riorganizzata nel mosaico della sua scrittura.
Sia che per Freud si faccia carico di un significato costante rin-
tracciabile in inconsci diversi con lo stesso significato, sia che per
Jung sia un’immagine che segnala l’inconscio così come viene per-
cepito ancora in modo oscuro dallo Spirito, il simbolo partecipa ad
una struttura della vita inconscia già modellata, e, in quanto relativa
alla natura profonda dell’uomo, utile alla psicanalisi e all’an-

61
tropologia, meno utile all’interpretazione letteraria, anche a quella di
teorizzate ambizioni psicoanalitiche.
A questo punto potremmo arrivare a considerare il simbolo come
un segno non sempre decisivo per sottolineare la novità di un testo
letterario.
Potremmo così valutare la funzione del simbolo come subalterna al
problema della comunicazione e della sperimentazione. Inoltre, po-
tremmo dare al simbolo un ruolo scarsamente decisivo perché il suo
valore allegorico, pur provenendo dall’inconscio, può essere con-
siderato un’isotopia superficiale del messaggio se abbiamo davanti il
problema più complesso della struttura semiotico-linguistica di quella
scrittura.
Considerando che un testo letterario sottende sempre ad un fitto
incrocio di diversi livelli di codificazione, la pluri-isotopia di un testo
mostra in modo netto la presenza di isotopie semantiche (quelle che
costituiscono il contenuto e fra le quali mettiamo il simbolo) e la
presenza di isotopie fonoprosodiche (quelle che costituiscono i valori
dell’espressione) la cui referenzialità predispone ad un codice meta-
forico più complesso.
E poiché il simbolo non porta mai in sé un significato ad alto
valore metaforico, la sua mancata ambiguità segnala un contenuto
sempre deducibile.
Vi possono essere immagini polimorfiche, che servono più piani
della comunicazione lirica, che legano più discorsi ad un solo
discorso, come insegna la poesia di Mallarmé. Ma non si può dire che
in Mallarmé i simboli abbiano lo stesso ruolo dinamicamente am-
biguo e polisenso delle sue immagini.
Il valore di un simbolo, all’interno di un testo, può anche ro-
vesciarsi nel suo contrario, ma mai quel simbolo è in contraddizione
con la propria collaudata antica semiosi binaria. Il simbolo del fuoco
può passare da immagine di distruzione a immagine di civiltà pro-
meteica (il mito di Prometeo) o di nuova civiltà religiosa (il roveto
ardente di Mosé). Eleggerlo a immagine scardinata da queste regolate
strutture binarie sarebbe un atto gratuito di eversione interpretativa7.

7
Per quel che ci riguarda non conosciamo esempi d’impropria significazione
simbolica da parte di un testo letterario. Ma, in questo caso, il fatto di non
conoscerli non vuole dire che non ci siano. Resta da scoprire qual è la statura
dello scrittore nel campo delle letterature nazionali o, nel caso del variegato

62
I futuristi modernizzano i simboli unendo mito e tecnica; i dadaisti,
invece, si guardano bene dal farne uso; nei simboli vedono l’encomio
ad una tradizione che non intendono neppure rinnovare. Dal punto di
vista dadaista il simbolo svolge una inaccettabile funzione ideologica;
di un testo è il sapere costituito, il contenuto acquisito, il valore
scontato, la sapienza irrigidita, la novità preformata. I surrealisti, in-
vece, ne fanno largo uso e sovente recuperano la loro tradizionale
valenza, pur facendoli entrare nell’idioletto di una poetica di alto tasso
onirico. Gli orologi antropomorfici di Dalì segnalano il martirio del
tempo che passa, non allontanandosi dall’antico significato simbolico
degli oggetti destinati alla misurazione del tempo, primo fra tutti la
clessidra.
Nel romanzo fantastico di Palazzeschi :riflessi, l’orologio del
principe Valentino Kore simbolizza lo scorrere del tempo reale a cui il
protagonista subito si sottrae per arrivare ad una condizione psichico-
inconscia assolutamente intemporale. Da questo punto di vista :riflessi
presenta un vasto repertorio di simboli ancestrali quanto necessari, per
quanto riguarda il registro della narrazione fantastica, per stilizzare i
luoghi di un racconto modellato su visioni oniriche, incubi invasivi,
ardite visioni surreali e immagini comprensibili solo all’interno del
gusto letterario del tempo. Ma l’originalità del romanzo non è data dal
materiale simbolico, per il fatto che esso ha il valore di una sce-
nografia ospitante l’avventura del protagonista entrato nell’Ade della
propria vita psichica. Paradossalmente, i simboli in :riflessi hanno la
stessa funzione segnico-referenziale che nel romanzo realista ha
l’accurata descrizione di un ambiente per risalire alla psicologia o al
carattere morale del personaggio8. I simboli servono una scenografia
che per segni analogici incornicia il mondo fantasmatico del pro-
tagonista; senza di essi il gusto letterario del tempo non avrebbe
accettato il racconto di un desiderio libidico-incestuoso. E poiché non
ci risultano reazioni scandalizzate al romanzo siamo convinti che
proprio la fitta scena simbolica abbia occultato quel desiderio.

mondo dell’avanguardia, se vi siano stati esempi pianificati di sovvertimento


dei valori simbolici.
8
Riandiamo al celebre “All’hôtel de la Mole”, capitolo di Mimesis, nel quale
Auerbach, parlando del romanzo Le père Goriot, guarda al rapporto che
intercorre fra la descrizione materiale di un ambiente degradato, in cui vive la
signora Vauquer, e l’eguale consonanza morale che emana dal suo per-
sonaggio. Cfr. E. AUERBACH, Mimesis, Il realismo nella letteratura
occidentale, vol. II, Torino, Einaudi 1956, pp. 238-244.

63
Anziché dichiararlo nei modi di una trasgressiva pulsione inconscia, i
simboli l’hanno velata inscrivendola nello stile del racconto
fantastico, o, come l’autore lo volle chiamare, nello stile palaz-
zeschiano del «romanzo straordinario»9.
Riassumendo, racconto fantastico e repertorio simbolico servono
il racconto dell'Io ansioso d’introiettare il corpo materno attraverso
un’allegorica scena incestuosa, e, in un certo senso, offrono la
necessaria copertura letteraria per una pulsione libidica gravemente
sospetta di nuda immoralità. Ma solo a patto di dissimularsi nella
scrittura fantastica l’Io confessa il desiderio d’infrangere il tabù del-
l’incesto; solo a patto di travestirsi nei simboli di un collaudato re-
pertorio antropologico, storico e letterario l’Io narra per stazioni
dinamicamente collegate quel desiderio.
Guardando il simbolico dentro il racconto fantastico da questo
punto di vista, appare chiaro che la modernizzazione letteraria del
simbolo operata dall’idioletto non elimina i suoi più accreditati
significati.
Questi significati, originati dal mondo archetipico e pur
reinterpretati dalla poetica di una singola personalità letteraria, non
per questo perdono il proprio riconosciuto valore. La problematica
ambiguità e originalità di una scrittura, pur a forte vocazione
anarchico-sperimentale, non può dare ad un simbolo un ruolo as-
solutamente imprevedibile o sconcertante. Il “fumo” di Perelà segnala
la condizione di leggerezza e assenza del protagonista; e solo questa
condizione. Altri personaggi vedranno in quel fumo l’antica carica
rivoluzionaria del fuoco. Ma non per questo Perelà si tramuterà
nell’uomo di fuoco dell’avanguardia o nell’uomo di paglia (la società
dei piccolo-borghesi). Come uomo di fumo egli ascende in cielo, non
solo per confermare l’allegoria messianica, ma anche per attestare le
proprietà fisiche e simboliche del fumo stesso. La leggerezza anti-
gravitazionale del fumo va verso il cielo perché staccarsi dalla terra è
la sua naturale proprietà simbolica. Nel Codice di Perelà l’anarchia

9
Palazzeschi ha in più occasioni dichiarato il suo interesse per i racconti di
Poe e per la letteratura fantastica. L’indirizzo di gusto si rivela prezioso: il
racconto fantastico può avere favorito l’illustrazione movimentata e
organizzata di scenari psichici che la scrittura mimetico-realista del
naturalismo contemporaneo e del nascente realismo non avrebbero con-
sentito.

64
sperimentale dell’idioletto aggredisce la fisica del romanzo naturalista
ma non la fisica dei simboli.
Anche alla luce di queste ultime considerazioni riteniamo che
l’immaginazione archetipica di uno scrittore può essere un’utile base
di partenza per entrare nelle strutture ideologiche di un testo, ma non
riteniamo che la catalogazione dei simboli riveli il più complesso
gioco delle motivazioni inconsce che attiva quelle strutture. I simboli
messi in evidenza dalle convinzioni ideologiche di un testo non
rappresentano le strutture profonde dell’inconscio, quando non accade
che siano adoperati dall’autore come una facile interpretazione
allegorica di fantasie profonde dalla non percepibile origine. Più una
forma istintiva d’immediata autocensura che una forma di strategica
rimozione per travestimento allegorico. Col linguaggio dei simboli lo
scrittore dà voce all’idea che ha di se stesso come individuo “co-
sciente” della propria vita interiore; ma questa coscienza, proprio
perché tale, parla il linguaggio convenzionale fornito dagli strumenti
diagnostici offerti dalla cultura del tempo. In un testo letterario i
simboli pertinenti ad una vita inconscia mostrano solo la coscienza
“clinica” che in quegli anni uno scrittore s’è fatta del proprio Io
profondo. Lo scrivere in termini di autointerpretazione simbolica
considera la propria percepita natura per categorie convenzionali,
originanti anche da una consolidata tradizione letteraria dell’anima
(dell’io profondo) come complesso di stati d’animo assunti a sostrato
autentico di verità. E questo uso tassonomico del simbolo delegato a
mostrare i volti (noti) dell’io profondo costituisce la parte pigra di
ogni esperienza letteraria.
Potremmo dire, parafrasando il Wilde di La decadenza della
menzogna, che in un testo l’artificio della scrittura è sempre più
interessante della natura preformata del simbolo, perché, scrive
Wilde, «più indaghiamo l’uomo, più viene meno il motivo di
analizzarlo», in quanto, e questo Wilde non può proprio tollerarlo,
«prima o poi si arriva a questa universale e terribile cosa chiamata
“natura umana”».
Per Wilde lo scrittore non mostra nessuna particolare qualità se
mette per iscritto i suoi tre quarti di natura interiore; essa, invece, si
mostra quando lo scrittore vuole rappresentare il quarto della sua pro-
pria originalità stilistica, che per Wilde si palesa, al posto di un’ap-
passionata ispirazione senza controllo, con la presenza attiva di un
idioletto preziosamente artificiato: «noi ci distinguiamo gli uni dagli
altri per minuti particolari accidentali: il modo di vestire, il modo di

65
fare, il suono della voce, il credo religioso, l’aspetto esteriore, le
nostre piccole manie personali e altre cose del genere».
In questo quarto di artificio s’esprime la modernità di una scrittura
e l’idioletto dello scrittore, la sua soglia innovativa e/o trasgressiva. In
questo quarto non c’è posto per una fisiognomica del simbolo attestata
su collaudati repertori. L’evento di uno stile assolutamente moderno
spazza via il patrimonio conservato e conservativo dei simboli.

III.
Facendo tesoro dei consigli di Wilde, guardiamo alla natura del
simbolo della notte e alla sua rinnovata funzione nel campo della
contemporaneità letteraria.
Per i Greci la notte è il simbolo del sonno e della morte, dei sogni
e delle angosce. Con l’immagine della notte l’umanità rappresenta
antiche paure e ricorrenti inquietudini.
Quando un testo prende ad oggetto una vita inconscia dalle oscure
ed inquietanti dinamiche il simbolo della notte può diventare
un’immagine adeguata. L’ignoto e il mistero della vita notturna
diventano la rappresentazione di un ignoto e di un mistero che alberga
nel fondo oscuro dell’uomo. Così la notte chiama alla mente l’oscurità
dell’indeterminato nel cui grembo albergano idee negative, mostri e
immagini terrificanti. Nella letteratura greca la notte corre nel cielo
avvolta in un velo scuro, su un carro attaccato a quattro cavalli neri. Il
carro della notte è seguito dalle figlie: che sono le Furie e le Parche.
Quindi, l’immagine della notte, dai Greci associata all’idea di
colpa e di morte, corrisponde a quella che Wilde chiamerebbe la
“natura” della notte, la sua antica quanto statica funzione simbolica.
Ma, proprio agli albori del mondo greco si fa strada un’idea avanzata
di comprensione del mondo che s’identifica con la nascita della re-
ligione, avente il compito di esorcizzare le antiche paure attraverso la
razionalità del culto. Nel Doctor Faustus Mann ricorda «come la
civiltà consista veramente nell’inserire con devozione, con spirito
ordinatore e, vorrei dire, con intento propiziatore, i mostri della notte
nel culto degli dei».
L’antico simbolo della morte e della paura già nel mondo greco
subisce una specie di razionalizzazione civilizzatrice che libera l’uo-
mo delle primitive angosce propiziando il culto dei suoi demoni
interiori.
A partire dal Werther e dall’Ortis, la notte diventa lo spazio
simbolico che mette in scena la catastrofica passione del protagonista.

66
I giovani eroi scrivono le proprie lettere in ore fonde, per segnalare
come la loro dirompente esasperazione amorosa trovi la legit-
timazione dell’autentico, la sua indubitabile verità, nel tempo in cui
l’individuo sprofonda nel buio dei suoi sogni.
Il riscatto della notte come simbolo di valori nuovi in parte può
spiegare il titolo di Novalis alla raccolta lirica: Inni alla notte e il
titolo di Baudelaire: I fiori del male.
Entrambi i titoli pongono a contrasto una parte diurna, solare,
storica, come è l’Inno, una delle prime forme poetiche i cui com-
ponimenti avevano fini propiziatori, e il Fiore, mentre il dativo per
Novalis e il genitivo per Baudelaire rinviano ad una letteratura
dell’oscurità e del male.
Novalis e Baudelaire introducono nel campo della modernità
letteraria la notte e il male come nuovi paesaggi dello spirito, luoghi
che se il mondo esclude e censura la letteratura introduce e legittima.
Nell’Inno di esordio l’Io lirico si volge alla: «sacra, ineffabile /
misteriosa notte», il cui valore è subito opposto all’arida vita diurna:
«Lontano giace il Mondo - / perso in un abisso profondo - / la sua di-
mora è squallida e deserta».
Nella prima lirica della parte intitolata I fiori del male, Baudelaire
parla di un demone interiore che porta il poeta lontano dallo sguardo
di Dio, (diventato inservibile presenza ontologica dal valore equi-
valente all’idea di Mondo di Novalis), per buttargli addosso
l’apparato sanguinoso della Distruzione.
Così, la moderna civiltà della poesia s’annuncia come inno e notte,
fiore e male; così, la lirica moderna coniuga la tradizione con una
nuova ideologia del simbolo. Tale eterodosso dualismo gode di una
sintesi nuova. Il simbolo della notte e lo spazio simbolico del male
diventano per la poesia il terreno nutritivo di nuove immagini, aiutano
lo sconfinamento dell’immaginazione in territori fino ad allora
inesplorati, come per ragioni simili aveva intuito Goethe guardando
ad alcune esperienze del romanticismo minore.
Nei suoi Colloqui con Goethe Eckermann riporta queste
considerazioni dedicate alla letteratura romantica dello choc, di
ambito francese:

“La rappresentazione di sentimenti e azioni magnanime comincia a


sembrare noiosa, e si tenta la trattazione di pazzie d’ogni maniera. In luogo
della leggiadra materia della mitologia greca entrano diavoli, streghe,
vampiri; e i sublimi eroi d’un tempo devono far posto ai birbanti e ai

67
galeotti”, con il risultato che “questa caccia ai mezzi d’effetto esteriori” in
questo caso “è il più grande danno che possa incontrare ad un uomo
d’ingegno; benché la letteratura, nell’insieme, sia per guadagnare di questo
indirizzo del momento” .

Eckermann, a cui è ancora ignoto il carattere aperto e innovativo


della riflessione di Goethe, a questo punto chiede:

Come può, obbiettai, giovare nel suo insieme alla letteratura una
tendenza, che è la rovina dei singoli ingegni?

La risposta che dà Goethe sancisce la definitiva entrata di una


letteratura della notte e del male nel novero della moderna civiltà
letteraria.

Gli estremi e le esagerazioni, replicò Goethe, che io ora ho accennato,


svaniranno a poco a poco, e da ultimo rimarrà il grandissimo vantaggio che,
accanto a una forma più libera, si sarà raggiunto anche un più ricco e più
vario contenuto, o non sarà più escluso come antipoetico nessun oggetto del
più vasto mondo e della vita più varia.

Goethe nel 1830 giudica con lungimiranza una letteratura che agli
antichi eroi mitologici ha sostituito orribili figure notturne, partorite
dal gusto sepolcrale dell’iconografia romantica. Perché a beneficiare
di queste aberrazioni dell’immaginazione sarà la letteratura, nel cui
nuovo orizzonte nulla più sarà giudicato come espressione del male.
Se mai ce ne fosse ancora bisogno prendiamo il Dorian Gray di
Wilde: un dipinto funge da paradigma allegorico delle degradazioni
morali del protagonista. Il male fatto ad arte dal protagonista transita
dalla coscienza di chi lo compie alla tela dipinta che lo rappresenta.
La tela è il simbolo di una caduta morale che dice come la verità del
male viva nascosta nel mondo delle apparenze.
Dorian è fiore e male, è un fiore del male. E’, per altri aspetti, la
rappresentazione del male e della notte dell’uomo fuori da ogni giu-
dizio etico.
Certo, potremmo osservare che il male viene infine condannato
attraverso la morte del protagonista, quando il giovane prende co-
scienza della propria natura malvagia; ma intanto in età vittoriana un

68
romanzo è stato scritto eleggendo a plot e a suo contenuto “morale” la
gratuità del male10.
Per le stesse ragioni, si potrebbe osservare che i Sei personaggi in
cerca d’autore cominciano con un sipario alzato e un palcoscenico
senza quinte né scena, per sancire la novità stilistica del teatro che si
mette in scena. Ma a compimento del dramma, ricorda Szondi, il si-
pario viene fatto calare11. Eppure è proprio quel sipario inizialmente
aperto che consente a Pirandello di decostruire il codice del teatro
naturalista fornendo alla cultura teatrale del tempo un inaspettato
concetto di partitura scenica12.
Come la poesia della notte e quella del male hanno svecchiato la
letteratura, anche il racconto fantastico, in parte l’abbiamo visto col
Dorian Gray, condivide le trasformazioni legate al cambiamento del
profilo stesso della letteratura.
Abbiamo detto che il simbolo della notte in Novalis, in Goethe e in
Foscolo ha un significato nuovo, connesso al livello profondo e
altamente drammatico che si dà alla passione amorosa.
Allo stesso modo il simbolo della notte, all’interno del modo
fantastico, ha sovente la funzione di cornice spaziale e di visione tem-
porale. Si potrebbe dire che ogni racconto fantastico è avvolto
nell’ombra della notte; quale sia questa ombra notturna non è difficile
intuirlo. Così, si potrebbe dire che la notte e l’ombra denotano il
racconto fantastico e influenzano il registro delle sue immagini,
dislocandoli in uno spazio e in un tempo in cui la tenebra inquietante
e il buio angoscioso sono le varianti di una creatività stimolata dal
proprio profondo mondo inconscio13.

10
A volte il Mondo si fa vivo con un processo che, nel caso di Baudelaire,
ma non dimentichiamoci la Madame Bovary di Flaubert, prova a condannare
dal punto di vista della morale l’immoralità di un’arte che ha eletto il male e
l’adulterio a principio di poesia. In questi ultimi anni Sodomie in corpo 11 di
Busi ha subito la stessa sorte. Ma quel Mondo ha dovuto arrendersi
assolvendo l’arte in nome dell’arte.
11
Cfr. P. SZONDI, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi 1962,
p.111.
12
Che alla fine il sipario si chiuda sta ad indicare la forza del genere sulla sua
ristilizzazione; e, quindi, la forza della tradizione sulla novità stilistica del
teatro nel teatro.
13
La figura simbolica del doppio o il sosia, (è il caso del Dorian Gray, per
tacere qui altri importanti romanzi e racconti) segnala una realtà nascosta che
si rivela alla fine come l’aspetto più autentico della natura del protagonista.

69
Accettando dell’uomo la parte notturna o malvagia o immorale, lo
scrittore vi entra per raccontarla dal punto di vista della propria
scrittura. Un punto di vista che diventa la descrizione di un territorio
sconosciuto e l’instaurarsi di un nuovo concetto di verità. Questa
letteratura di una verità sconosciuta fino all’Ottocento produce lo
scavo archeologico di siti interiori coniuganti Io e Inconscio,
protagonista e doppio, bene e male. E, tuttavia, a riprova della nostra
convinzione, anche la scoperta di una natura profonda dalle leggi
sconosciute perde la sua naturale trasparenza quando il problema della
comunicazione obbliga ad una mutazione semiotica, scaturita, l’ab-
biamo già ricordato, dall’incontro-scontro fra l’inconscio come
principio di piacere e il linguaggio letterario come principio di realtà.
Questo incontro-scontro provoca una necessaria falsificazione re-
golata dalle norme che presiedono il linguaggio letterario. Al punto
che, per dirla col Nietzsche dubitoso dell’idea stessa di Verità, anche
uno sguardo pieno di verità sul mondo inconscio s’avvale di “un
mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve
una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente
e retoricamente».
Non stiamo dicendo che la ricerca di verità estratte dalla nostra
vita notturna, pur nella riorganizzazione referenziale del linguaggio
letterario, porti il contenuto del testo ad una tematica vuota. L’in-
vestigazione inconscia procura sempre un pieno di simboli le cui
valenze informative inducono lo scrittore a sfruttarne le potenzialità
immaginative e, in ultimo, a fornire al lettore una comunicazione che
racconta anche l’uso che s’è fatto di quei simboli.

IV.
Con l’iniziale seconda domanda ci siamo chiesti quale rapporto
corra fra lo statuto retorico-letterario di un genere e la presenza di
simboli orientanti in modo soggettivo l’interpretazione del testo.
Per rispondere prendiamo uno dei quattro simboli fondamentali
insieme al centro, alla croce e al quadrato: il cerchio.
Nel mondo antico il cerchio è simbolo di perfezione tra-
scendentale, di unità cosmica primordiale. Simbolizza il mondo dello

Mentre nel Novecento la funzione simbolica del doppio tende a scomparire in


quanto il letterato che ha fatto l’esperienza della letteratura d’avanguardia e
della scoperta della psicoanalisi, ha accettato la parte oscura del proprio sé
interiore come agente d’ispirazione o soggetto di contenuto.

70
spirito nella sua visione indistinta e indivisa, non conosce la
separazione fra alto e basso, esterno e interno, Io-Mondo. In quanto
immutabile e perenne il cerchio è uno dei simboli più lontani dalla
natura umana. Segnala la perfezione della divinità così come viene
sognata dalle terribili imperfezioni della soggiacente natura del-
l’uomo.
Nei racconti fantastici di Poe e nelle prime liriche di Palazzeschi il
cerchio ha una funzione simbolica sulla quale vale la pena riflettere.
Dopo avere sottolineato che il genere racconto distingue l’e-
sperienza letteraria di Poe e il genere lirica quella di Palazzeschi,
adesso vediamo come il simbolo del cerchio soccorra una diversa
interpretazione, pur conservando in entrambi gli autori una valenza
allegorica che sembra eguale solo in apparenza. Ma ciò che “sembra”,
come vedremo, non si costituisce come la giusta unità di valore at-
traverso la quale dare senso ai valori allegorici (Poe) e iconici
(Palazzeschi) del simbolo.
Se in alcuni racconti di Poe la funzione simbolica del cerchio
sembra simile a quella fornita dai Cavalli bianchi, la differenza dei
generi orienta il valore del simbolo.

Mai passo senza guida era penetrato fino a quel vallone; infatti si
estendeva per lungo tratto attraverso una catena di montagne gigantesche che
si innalzavano a strapiombo tutto attorno (il corsivo è nostro) e tenevano
celate alla luce del sole le loro più deliziose sinuosità. Nessuna strada
tracciata attraversava quei dintorni, e per raggiungere quel nostro beato ri-
fugio bisognava ricacciare indietro il fogliame di migliaia di alberi d’alto
fusto e cancellare il rigoglio di migliaia di fiori profumati. Così vivevamo in
completa solitudine, senza conoscere del mondo altro che quella valle.
(Eleonora)

Il vascello sembrava sempre chiuso in un cerchio fatato (il corsivo è


nostro) formato da pareti di fogliame insuperabili e impenetrabili. (Il dominio
di Arnheim)

I brani di Poe sono stati presentati da Poulet, l’autore del saggio


tematico Le metamorfosi del cerchio14. E, aggiungiamo noi, altri brani
di eguale significato sono rintracciabili nei racconti di Poe, a garanzia
di un uso simbolico del cerchio che nel suo ripetersi legittima il critico
a individuarne il significato più intenso.

14
Cfr. G. POULET, Le metamorfosi del cerchio, Milano, Rizzoli 1971.

71
Grazie a questi brani potremmo dedurre con Poulet che il
«pensiero» di Poe è «prigioniero di un cerchio fatato» che «si ac-
contenta dunque di costeggiarne i monotoni confini»15.
Poulet, in altre parole, ci dice che la fantasia immaginativa di Poe,
quando incastona alcuni suoi personaggi in un luogo impenetrabile
dal mondo esterno, li chiude in un cerchio ideale in obbedienza alla
costante narcisistica della vita infantile.
Solo che l’Ego di Poe non favorisce un’analisi del cerchio dal
punto di vista di una vita a forte valenza narcistica. Il «cerchio fatato»
che attornia l’Ego infantile per noi non è un simbolo inconscio, neutro
di una proprietà culturale storicamente determinata. All’interno dei
racconti fantastici di Poe il cerchio appare investito di una ri-
conoscibile cifra ideologica. Il cerchio non è un antico simbolo co-
smico, né il segno di una trascendentalità interiorizzata dall’Io, è
invece un simbolo ricco di determinazioni critiche filtrate da un certo
clima ideologico.
In Poe lo spazio interno al cerchio rappresenta l’Eden del bene, un
bene difeso da pareti vegetali, catene di montagne, strapiombi, men-
tre fuori da questo cerchio pulsa la malvagità del Mondo. Poiché il
principio di realtà è posto fuori dal cerchio del principio di piacere cui
aspira l’identità narcisistica, il cerchio simbolizza un’idea di vita in-
conscia il cui principio di piacere non ha ancora conosciuto il
principio di realtà di una società autoritaria e punitiva.
Seguendo questa ipotesi, il simbolo del cerchio, mentre rivendica il
primato dell’infanzia come luogo di libertà assoluta, segnala anche la
posizione ideologica dell’autore: come abbiamo visto per Novalis, il

15
Poulet non usa nessun termine tratto dalla psicoanalisi, sebbene una
citazione fatta in precedenza, anche questa originata da un racconto di Poe,
alla psicanalisi implicitamente allude: «Il cervello fecondo dell’infanzia non
ha bisogno di un mondo esteriore di avvenimenti per sentirsi occupato e per
divertirsi…». Certo, dal punto di vista della storia della critica la psicanalisi
può anche non entrarvi, un concetto siffatto era già stato espresso da
Rousseau e da Schiller, ma non è questo il problema. Dopo Freud il giardino
segreto dell’infanzia non appartiene più a Rousseau e a Schiller, è diventato
proprietà della psicanalisi. Anche se la psicanalisi va vista come punto
d’arrivo di una tensione epistemologica interessata a scrutare le leggi che
governano la parte insondabile dell’anima, tensione che nell’età moderna
riparte con Montaigne e con Pascal, trovando poi il suo primo statuto di-
sciplinare nell’empirismo di Locke. In questo senso la psicanalisi è la di-
sciplina sognata da Locke.

72
Mondo è nemico della poesia. Per la poetica romantica corre una
frattura insanabile fra natura-civiltà, Io-Mondo, Individuo-Società.
E poiché Poe si richiama a questa contrapposizione, egli sviluppa
un’idea “politica” di Mondo. Il Mondo è la negazione della vita come
pura espressione di se stessa.
In Poe il valore simbolico del cerchio nasce da un contesto
ideologico ben noto fra Sette e Ottocento, contesto che ha nel concetto
di natura di Rousseau la sua nota base di partenza politica, filosofica,
culturale.
Solo che, e questo Poulet non lo dice, il brano tratto dal racconto
Eleonora, se nella prima parte narra di un amore assoluto vissuto da
due giovani nel chiuso di una valle difesa dal mondo, nella seconda
parte rivela che il giovane, dopo la morte della promessa sposa, trova
fuori dal suo difensivo cerchio un amore altrettanto grande, a riprova
che il mondo reale non è sempre il luogo delle negazioni o degli
appuntamenti mancati con l’Assoluto. Eleonora è un racconto che
mentre esalta la difesa dell’Io dal complesso aggressivo della società,
allo stesso tempo dichiara che anche in questa società può vivere un
amore egualmente edenico, diventato tale attraverso la forza di un
sentimento originario e assoluto.
Il secondo esempio citato da Poulet riguarda il racconto Il dominio
di Arnheim, che, a dire il vero, per la complessità ideologica che
l’ispira, meriterebbe una più approfondita analisi. In ogni caso, il
brano del vascello chiuso in un cerchio fatato di pareti di fogliame si
spiega con un’idea di natura come luogo stesso dell’imperfezione:
solo un giardiniere artista può trasformare in bellezza totale ciò che
appare imperfetto. Il nucleo tematico del racconto rispetta parte del
gusto del tempo per l’arte dei giardini, e, per un certo verso, se ne fa
carico in forma di motivate sintesi concettuali. Al punto che la polpa
dei racconti di Poe citati da Poulet non sembra stare per nulla nel
riuso del simbolismo del cerchio come figura entro la quale l’Io
conquista la sua perfezione, ma, all’opposto, nel gioco delle mo-
tivazioni ideologiche che inducono i protagonisti a costruirsi il
proprio Eden.
Il Dominio di Arnheim non pone neppure il problema del mondo
come soggetto di negazione, ma pone, invece, il problema di una
visione estetica che aveva indotto gli architetti ad «innalzare, per
amore della “prospettiva”, i loro edifici in cima alle colline». Col ri-
sultato che «la grandiosità in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto in
quello della vastità, stupisce, eccita, e poi stanca, deprime». Ad un

73
lettore attento non sarà sfuggita la critica radicale che viene fatta al
gusto settecentesco del sublime e del neo-classicismo, e, in senso più
lato, ad un gusto per l’architettura atto a scioccare l’immaginazione
più che a sedurla attraverso colpi di scena d’effimera durata.
Per arrivare ad una prima conclusione diciamo che Poulet si serve
dei racconti di Poe idonei a confermare la ricerca tematica intorno alla
figura del cerchio. Fatto che non possiamo condividere in quanto
Poulet basa tale ricerca sul principio di Identità.
Trovare simboli di eguale significato, pur nel valore di una
scenografia che li conferma, mette in luce un’Identità simbolica che,
tuttavia, non pone il problema della propria funzione all’interno di un
racconto che l’adotta per servire tematiche diverse. Escludere dal-
l’Identità il più problematico principio di Contraddizione segnala un
limite della ricerca di Poulet. Un lavoro impostato sulla ricerca
d’Identità che appaiono rassicuranti causa la loro sintomatologica
ripetizione non legge i racconti di Poe anche dal punto di vista della
loro diversità ideologica. Ogni critico tematico dovrebbe sempre chie-
dersi se ciò che vede in un testo trova in quel testo la sua non dubitale
conferma. Al punto che i racconti di Poe, dal punto di vista del loro
simbolismo, ci servono solo tangenzialmente.
A questo punto diventa più interessante verificare l’uso che viene
fatto da Poulet di quel simbolismo. Fatto che ci consente di valutare
come un genere orienti l’interpretazione di un simbolo e come un
critico, invece, disorienti quel simbolo per non contraddire le sue
preoccupazioni d’interprete. Ma, per questo ultimo aspetto, faremo in
seguito le adeguate osservazioni.

V.
Che cosa accade nella poesia di Palazzeschi, quando la figura del
cerchio viene ripetuta più volte dalle liriche di Cavalli bianchi?
In questo caso il cerchio come simbolo della separazione Io-
Mondo non predispone ad una lettura ideologica. Palazzeschi non
problematizza quella separazione alludendo ad un’infanzia il cui prin-
cipio di piacere non ha ancora conosciuto il principio di realtà delle
prime negazioni.
In Cavalli bianchi la simbologia del cerchio serve un’allegoria il
cui senso non appare fondato sulle contrapposizioni prima accennate.

74
Forniamo qualche esempio.

Cent'anni à il Signore
padrone del grande castello!
Lo portano attorno due monache nere,
attorno al castello ch'è in mezzo al piazzale.
Non ode, non vede la gente
che al vano dei ferri del grande cancello
sta ferma a guardare.
(Il cancello)

Sono alti i cipressi che formano il cerchio,


nel basso le siepi di spine
s'intreccian terribilmente.
Nel mezzo del cerchio è il pozzo profondo
ch'à in fondo, lo dice la gente, il tesoro.
………………………………….
Soltanto la sera al calare del sole
la gente sta attenta in orecchi,
dal mezzo del cerchio, dal fondo
del pozzo profondo vien fuori un lamento:
la voce dell'oro.
(La voce dell'oro)

Recinto da un muro rotondo


è il Santuario che non si chiude mai.
E’ tutto bianco e non à tetto.
Un'apertura piccola è l'ingresso.
V'arde un lume perenne.
E' nel mezzo la grande campana di vetro
che ricuopre lo spino fiorito
che non sfiorisce mai.
Intorno s'aggiran tre vecchie
che insegnan la spina alla gente.
(Il manto)

In Poe e in Palazzeschi la funzione allegorica del cerchio è la


stessa, così come eguale rappresentazione simbolica viene fatta del
paesaggio. Solo che, come abbiamo visto, lo stesso simbolo orienta
due diversi livelli interpretativi.

75
In Poe il rapporto conflittuale Io-Mondo dà senso al simbolo del
cerchio e da quello è simbolizzato, sulla base di una riconoscibile poe-
tica romantica. In Palazzeschi il cerchio rifiuta l’ideologia per non
oscurare il racconto lirico di una forte immaginazione inconscia in
vigilata rappresentazione di se stessa.
Vigilata, in questo caso, dallo stile dell’autore e dai codici della
scrittura della scuola simbolista.
Allo stesso tempo, notiamo che in Cavalli bianchi è alto il tasso di
ambiguità simbolica. Non a caso la comprensione delle liriche è stata
per lungo tempo disattesa. Lo sconcerto dei primi critici nasce dalla
frustrazione di non poter cogliere il senso del discorso. Ancora oggi
una delle più attrezzate studiose della lirica palazzeschiana è costretta
ad ammettere che queste liriche nascondono un segreto che come tale
sembra rimanere. Al punto che, il simbolo del cerchio ed altri simboli
ricorrenti, nelle liriche del primo Palazzeschi potrebbero essere con-
siderati alla stregua di oggetti vanificati di senso, sintonici solo con le
costanti oscure immagini autoreferenziali di un Io lirico che non si
pronuncia mai come soggetto del discorso.
E poiché l’immaginario palazzeschiano mostra se stesso
escludendoci dal senso, o, almeno, non dichiarandolo, dobbiamo am-
mettere che il simbolismo del poeta rappresenta per lo studioso un
problema di difficile scioglimento. Paradossalmente, il cerchio è fatto
carico di un riconoscibile valore simbolico, ma ciò che è riconoscibile
mostra anche una parte di sé che appare inconoscibile. Nel qual caso,
il simbolo del cerchio mentre mostra qualcosa d’indubitabile allo
stesso tempo nasconde qualcosa di sufficientemente impenetrabile.
Va detto, inoltre, che, in Cavalli bianchi il simbolo del cerchio non
si presenta solo come circonferenza fra un interno ed un esterno
astratto e fiabesco, oscuro e intraducibile; il simbolo si presenta come
una delle immagini forti della poetica di Palazzeschi lirico.
Eleggendo il cerchio a figura ricorrente, il poeta segnala per
ideogrammi quello che Jung chiama l’engramma (il termine è usato
per indicare la struttura dei simboli inconsci) della sua poesia, ovvero
una delle strutture profonde della propria immaginazione lirica.
Soffermiamoci un istante su queste ultime considerazioni.
L’Io isolato dal mondo, come abbiamo visto nei racconti di Poe,
include un’ideologia dell’individuo che elegge la natura a mondo
assoluto, aspetto questo che la poesia di Cavalli bianchi neppure
menziona. Col cerchio Palazzeschi non illustra in termini conflittuali e

76
antitetici il rapporto Io-Mondo, sul piano di un’adesione ideologica di
stampo romantico e, in tempi a lui vicini, dannunziano.
L’astrazione simbolica del cerchio in Palazzeschi rappresenta in
chiave allegorica la teatralizzazione scenografica del proprio in-
conscio, così come l’Io lirico l’immagina e così come tale scenografia
volta a volta si compiace di rappresentarlo. Il cerchio, detto con altre
parole, è un simbolo che aiuta l’immaginario palazzeschiano a de-
finire un’idea di vita inconscia tornata alla memoria.
Se è vero che nelle poesie di Palazzeschi la figura del cerchio è un
canone della rappresentazione simbolica, allora diventa utile cercare
le ragioni profonde che possono averlo eletto a canone.
Partiamo da questa prima generale considerazione. In Cavalli
bianchi il cerchio serve più scene allegoriche e ogni qual volta esso
compare la diversità delle scene indica una variazione dello stesso
tema figurale, la diversa ripetizione della stessa immagine inconscia.
Quale sia non lo possiamo affermare con certezza, per il fatto che,
come abbiamo già detto, l’incontro-scontro fra l’inconscio e la let-
teratura vede quest’ultima appropriarsi del suo nativo linguaggio
d’immagini per farne libero riuso nell’altrettanto libero cimento degli
stili individuali.
Rimane tuttavia la convinzione che a volte il linguaggio dello
psicanalista, in quanto linguaggio che riassembla in modo organico il
formulario dell’inconscio, può, proprio in virtù dell’organizzazione
letteraria del concetto che si vuole esprimere, orientare una critica
utile a guardare l’inconscio. In ogni caso l’operazione è possibile, pur
nei limiti ribaditi, quando lo strumento psicanalitico esibisce un con-
cetto con una sintassi letteraria ad alta connotazione metaforica.
Solo a queste condizioni provvediamo a farci aiutare da Lacan.
Il retaggio onirico che delimita in Palazzeschi il simbolismo seriale
dello spazio può essere riferito ad una scena con la quale l’Io
rappresenta, per spostamento metaforico, una delle sue prime iden-
tificazioni inconsce, quella che più propriamente si lega alle prime
relazioni «dell'organismo con la sua realtà».
Il contributo di Lacan in relazione allo «stadio dello specchio come
formatore della funzione dell'IO», si rivela fertile di possibili sug-
gerimenti per illuminare le ragioni della struttura simbolica che
domina nei Cavalli bianchi le liriche del cerchio. Col contributo di
Lacan queste liriche trovano una loro plausibile spiegazione. E, se
ricordate, poiché non siamo stati affatto teneri con l’uso disinvolto
della critica psicoanalitica, il fatto che di Lacan adesso ci siamo

77
serviti, pone un problema d’interpretazione che lo psicanalista può
avere sciolto in termini generali e che noi, a nostra volta, intendiamo
riannodare per poi scioglierlo alla luce di altre necessarie con-
siderazioni.
Consideriamo un passo del saggio lacaniano, nel quale sono
individuati alcuni importanti stratagemmi simbolici coi quali l'Io di
una soggettività che non ha ancora conosciuto il principio di realtà
(l’Edipo), dopo averlo conosciuto, rappresenta per reazione quella
traumatica conoscenza con immagini analogiche.

La formazione dell'io si simbolizza oniricamente come un campo


trincerato od uno stadio, che distribuisce fra l'arena interna e la sua cinta,
periferia di macerie e di paludi, due campi opposti in lotta in cui il soggetto
s'ingolfa, nella ricerca dell'altero castello interiore, la cui forma (talora giu-
stapposta nello stesso scenario) simbolizza in modo seducente l'es. Così pure,
questa volta sul piano mentale, troviamo realizzate queste strutture da for-
tificazione, metafora che sorge spontaneamente come uscita dai sintomi stes-
si del soggetto, per designare i meccanismi di inversione, isolamento, du-
plicazione, annullamento, spostamento della nevrosi ossessiva.

Sono puntualizzazioni che elencano più di una scena simbolica e


più di un simbolo coi quali il soggetto rappresenta il suo originario
principio di piacere (l’es di Lacan) dopo l’avvenuto scontro col
principio di realtà.
Il campo trincerato di cui si parla, ovvero l’arena interiore e la
cinta che la circoscrive, rinvia adeguatamente ad un’esperienza dello
spazio che nella poesia del primo Palazzeschi è stata rappresentata
con la purezza figurativa del cerchio. Abbiamo, quindi, un campo
trincerato o un’arena delimitata da un «cancello» (Il cancello) o da
«alti cipressi che formano il cerchio» (La voce dell'oro), «cinto da un
muro ch’è alto tre spanne, / la via lo circonda» (L’orto dei veleni), “In
fondo al viale profondo è la nicchia gigante / ch’è cinta dagli alti
cipressi» (Oro, doro, Dodoro, Dodoro) o da «un muro rotondo» (Il
manto).
Ed al centro, menziona Lacan, vivono le forme di spostamento e di
duplicazione dell'io, quindi il Signore padrone del grande «castello» o
una «fonte perenne», o un «pozzo profondo» o una «vecchia sepolta»,
o una «nicchia» o un «Santuario».
(Altri esempi simili si rintracciano agevolmente nelle poesie di
Lanterna, di Poemi.)

78
Le prime poesie di Palazzeschi si articolano sulla ripetizione di
una medesima scena simbolica, la quale, variando di poco i propri
riferimenti scenografici, esibisce per accumulo una sola visione dello
spazio. La scena non sembra presentare una fissazione simbolica di
tipo nevrotico; nel senso che non deduciamo dalla comunicazione
lirica l’angoscia di una rappresentazione ripetuta per fissazione trau-
matica al fine di giungere ad un «mito personale» solidale con
l’evoluzione psichica della soggettività e con quella dell’artista. La
mancata contrapposizione col mondo non è sostenuta con fervore,
l’estraniazione assoluta da quel mondo non è esibita con dolore. Ago-
nismo e disperazione sono due sentimenti dell’Io e due forme psi-
cologiche che appaiono estranee alla lirica di Cavalli bianchi.
Se ciò è vero anche le metafore ripetute non predispongono alla
costruzione di un egoico mito personale. L’incontro-scontro col prin-
cipio di realtà non è rappresentato nella forma di un racconto che
comunica con un registro psichico-sentimentale.
Sono liriche di una soggettività fatta adulta dall’arte, che rivisita i
luoghi della propria esperienza traumatica reinventando un paesaggio
interiore i cui simboli, come sottolinea Lacan, cingono una sog-
gettività primaria dipinta con i simboli dell’assedio.
Abbiamo, quindi, una ripetizione solidale con la propria idea
d’inconscio attraverso il ricorso al cerchio il cui simbolo delimita un
luogo magico in cui tempo e spazio sono gli involucri della sog-
gettività infantile.
Ma un tempo spazialmente lontano non è lo stesso tempo di una
lirica che lo simbolizza. La coscienza del poeta è in conflittuale
rapporto con la Storia perché la sua lirica è ombra e notte di una realtà
psichica precedente la nascita del Soggetto. Il formarsi della sog-
gettività, come racconta Lacan, precede l’identità del Soggetto. Se un
poeta racconta per simboli quel primo stadio, è il Soggetto che torna
sui luoghi della sua prima formazione.
Cavalli bianchi sono la rappresentazione lirica di un Io adulto che
racconta per scene allegoriche la sua lontana prima soggettività in via
di formazione.
Abbiamo detto che il principio di piacere non conosce il principio
di realtà del linguaggio artistico; e solo conoscendolo l’inconscio
viene a patti con le molteplici leggi retoriche e formali del genere.
Allo stesso modo possiamo dire che non esiste una lirica emanata
dal solo principio di piacere. Se questo principio si mostra in un testo,

79
il testo ne è il tradimento a favore del principio di realtà del lin-
guaggio letterario.
Il racconto di un Io adulto che torna al cerchio dei propri
introiettati principi di piacere spiega la ragione di simboli, immagini e
scenari che, tuttavia, da soli non bastano per illustrare la forma in-
dividuo (il poeta) e la funzione della poesia come comunicazione
metaforica di se stessa. A ben pensarci, la funzione ideologica di una
lirica si mostra di pari passo con un’idea adulta di funzione poetica.
Adulta perché consapevole e, in modo altrettanto netto, adulta perché
consapevole della propria funzione.
Le liriche del cerchio non rappresentano una poetica riflettente
sulla sua funzione sociale, come insegna in quegli anni la poesia
crepuscolare. Sono liriche che mettono in scena una produzione di
simboli in cui l’Io è il soggetto del linguaggio e, insieme a questa
funzione, è il solo soggetto “ideologico” rappresentato.
Estraneo al mondo, lontano dalla scoperta traumatica del principio
di realtà, l’Io narra per variazioni simboliche alcuni aspetti della sua
prima formazione soggettiva, anche se, abbiamo modo di ritenere, a
volte la stessa scena allegorica sposta la configurazione traumatica
dell’Io ben oltre lo stadio dell’Edipo.
Anche se dal punto di vista psicoanalitico il poeta non può esserne
cosciente, abbiamo modo di credere che lo sia invece dal punto di
vista simbolico. Dopotutto il primo Palazzeschi, sia in :riflessi, sia nel
Codice di Perelà, motiva le scelte decisive che decidono il destino dei
suoi protagonisti, come scelte fatte inconsciamente. Con questo ter-
mine l’io non ha solo mostrato alcune rappresentazioni traumatiche di
se stesso, ha anche dato una indicazione psicologica a queste rap-
presentazioni.

VI.
Tornando alla centralità del nostro discorso occorre ricordare che
l’assenza di una ideologia storica legata al rapporto conflittuale Io-
Mondo, in Palazzeschi è rappresentata dal cerchio; la stessa ideologia
in Poe trova nel cerchio il suo simbolo.
Per capire come il genere orienti la funzione referenziale del sim-
bolo possiamo partire dalla distinzione fatta da Bachtin intorno al
monologismo della poesia rispetto al dialogismo del romanzo. Il
discorso vale come introduzione ad un aspetto del problema che, in
seguito, ci porterà ad analizzare in Poe e in Palazzeschi come i generi
orientino in modo diverso il valore di un simbolo.

80
Il genere romanzo e il genere poesia, Bachtin insegna, sono il pri-
mo improntato dalla narrazione dialogica, e il secondo improntato da
un linguaggio ad alto tasso monologico.

Nei generi poetici la coscienza artistica – nel senso dell’unità di tutte le


intenzioni semantiche e espressive dell’autore – si attua interamente nella
propria lingua, è interamente immanente ad essa, si esprime in essa in modo
diretto e immediato, senza restrizioni e senza distanza. La lingua del poeta è
la sua lingua. […] La lingua del genere poetico è un unitario e unico mondo
tolemaico, fuori del quale non c’è nulla e di nulla c’è bisogno. […] Il mondo
della poesia, qualunque siano le contraddizioni e i conflitti insolubili che vi
scopre il poeta, è sempre illuminato da una parola unitaria e indiscutibile. Le
contraddizioni, i conflitti e i dubbi restano nell’oggetto, nelle idee, nelle
emozioni, insomma nel materiale, ma non passano nella lingua.

Le considerazioni sul monologismo della lirica centrano il


complesso linguistico e simbolico di Cavalli bianchi, così come le
riflessioni sul dialogismo del romanzo possono essere utilizzate anche
per quelle poesie di Palazzeschi che arriveranno, quasi per spontanea
germinazione, all’uso iterato del modo dialogico. Infatti, nota Bachtin,

questo non significa, naturalmente, che la pluridiscorsività o perfino


l’eterolinguismo non possa affatto entrare nell’opera poetica. E’ vero che
queste possibilità sono limitate: un certo spazio per la pluridiscorsività c’è
soltanto nei generi poetici “inferiori”: satirici, comici.

Per accertare una forte presenza pluridiscorsiva in Palazzeschi


dovremo, infatti, aspettare alcune poesie comiche e satiriche di Poemi
e, in modo più deciso, la stagione futurista dell’Incendiario.
Per quanto riguarda Poe, il genere romanzo (in questo caso nella
forma del racconto), per la sua pluridiscorsività e per la sua naturale
dialettica dialogica con la cultura e la tradizione del tempo, dota il
simbolo del cerchio di una valenza ideologica della quale abbiamo già
parlato valutando il rapporto Io-Mondo; allo stesso tempo, come
abbiamo già ricordato, nella poesia di Palazzeschi la stessa valenza
non viene neppure sottintesa.
A questo punto diventa interessante osservare che in Poe il cerchio
è trasformato da Poulet in simbolo non più legato ad un contesto
narrativo-ideologico, ma, invece, legato ad un contesto poetico-
aideologico. Poulet si fa carico di questo trasferimento con un’inter-
pretazione che mette lo stesso simbolo al servizio di due padroni.

81
Il critico francese dà ampio risalto al simbolismo del cerchio per
cavarne risonanze liriche nettamente sottratte al profilo ideologico
enunciato dal narratore.

Prigioniero di un cerchio fatato, il pensiero si accontenta dunque di


costeggiarne i monotoni confini. Nessun avvenimento esterno viene ad
interrompere o a variare il suo circuito. Al di qua e al di là del suo sogno lo
spirito non incontra altro che il suo sogno avvolto nelle stesse immagini.
Quest’ultime si equivalgono: sono gli ospiti abituali di un pensiero identico.
Perciò lo sguardo – rivolto sia al passato che al futuro – penetrando nelle
diverse direzioni del tempo vissuto, non vi scopre altro che linee astratte
nelle quali ogni punto è sempre simile all’altro, fino a che si perde in una
specie di passato e di futuro assoluti, notte originaria e conclusiva che
confina col tempo come la mancanza di altri luoghi confina con lo spazio.
Questa è la poesia di Edgar Poe; per lo meno quella che non ha scritto,
ma che rimane indicata, suggerita dalla sua parola.

Poulet ci sta dicendo che nei brani citati vive una pulsione lirica
cui il genere racconto e il modo fantastico s’erano limitati ad alludere
pur nella tentazione di mostrarsi in modo netto. Stiamo assistendo ad
una ben strana operazione: un critico s’incarica di trasformare i se-
gnali simbolici di Poe in oggetti di una poesia disattesa, pur essendo
tali segnali la pre-formazione di quella poesia. Mentre nei racconti di
Poe il cerchio segnala una certa ideologia, nell’interpretazione di
Poulet lo stesso simbolo diventa comunicazione di un linguaggio
estratto dall’inconscio.
Non pago di questa prima operazione, valutante i simboli di Poe
alla luce di un profilo poetico, Poulet s’azzarda a dichiarare i motivi
che hanno impedito al narratore di diventare poeta.

Malgrado la speranza che riponeva nella potenza delle parole, queste


infatti non possono definire ciò che è indefinibile.

E’ Poulet stesso che s’incarica d’indicare la soglia di questa poesia


dell’indefinibile, ovvero, come già aveva cantato Novalis, di una
poesia della notte, che in Poe si mostra come passato e futuro di se
stessa, luogo in cui il tempo e lo spazio trovano il punto di fusione.
Col risultato che Poulet, per amore di una critica dai livelli
interpretativi impostati sul solo principio d’Identità, l’abbiamo già
ricordato, ovvero una critica che per amore di se stessa si sottrae ai
segnali ideologici disseminati da Poe stesso, (Poulet forse non ama

82
contraddirsi), arriva al punto d’isolare il simbolismo del cerchio dal
suo contesto narrativo e di genere. Il principio d’Identità, così caro
allo studioso, ha superato ogni nostra aspettativa. Non solo Poulet
non vede nei racconti di Poe i livelli tematici che di volta in volta
hanno dotato la topica del cerchio di significato diverso, ma estrapola
da quei racconti una struttura lirica a forte tasso onirico che, come
dichiara lo studioso, Poe s’è limitato a sognare, consapevole che
l’indefinibile, in quanto indefinibile, può essere solo immaginato
come incomunicabile poesia dell’inconscio.
A questo punto dovremmo chiedere conto a Poulet di una stagione
della poesia che ha cercato di esprimere l’indefinibile nei modi di-
sperati di una neoterica tradizione dell’Assoluto in ascolto perpetuo
con le zone d’ombra del silenzio e dell’infinito, poesia in campo
europeo istruita da vari autori, a partire da Novalis, Gerard de Nerval,
Baudelaire, Pascoli, D’Annunzio, Rilke. Senza tacere alcune
significative osservazioni portate da Proust16 e da Wittgenstein17 sul
concetto di indefinibile.
Potremmo chiedere a Poulet se in realtà l’indefinibile cui ha
guardato Poe in forma solo allusiva non sia invece un sogno praticato
da più stagioni della poesia simbolista europea; un sogno niente
affatto impedito dall’uso del linguaggio, come sostiene lo studioso. E,
infine, come non ricordare che Poe è anche l’estensore di uno scritto
chiamato Filosofia della composizione, che, rigettando da un lato la
pratica della scrittura come «intuizione estatica», trabocchetto a suo
dire adottato dagli scrittori per infondere di magia il loro lavoro, da
altro lato ricorda come un racconto si serva a piene mani di tutta
«l’attrezzatura teatrale dell’istrio letterario» e, insieme a quella, metta
in un racconto la stessa «precisione e la rigida consequenzialità di un
problema matematico».
Certo, non dobbiamo prendere la Filosofia della composizione
come un testo onnicomprensivo della poetica dello scrittore. Tanto più
che, come abbiamo altrove ricordato, corrono marcate distanze fra il
pensiero sull’arte e il pensiero dell’arte18, ovvero fra una estetica o
una poetica e quello che invece si manifesta nel singolo oggetto

16
Cfr. M. PROUST, Contro Sainte-Beuve, Torino, Einaudi 1974, p.38.
17
Cfr. L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, Milano, Adelphi 1980, p.40
18
Cfr. il nostro Il violino di Orfeo, Metamorfosi e dissimulazione del
classicismo, Bologna, Pendragon 2000, pp. 59-62.

83
estetico, il solo linguaggio che dovrebbe interessare l’analisi dello
studioso.
Conseguentemente ci siamo limitati ad enunciare alcuni passi della
Filosofia della composizione per ricordare quanto un autore sia
sempre criticamente consapevole delle sue operazioni letterarie, ma
non per dimostrare che tutta la sua vita creativa è sottoposta a
continuo controllo e a sorvegliata analisi. Allo stesso modo non con-
sentiamo ad uno studioso pur straordinario come Poulet di leggere
alcuni racconti di Poe alla luce di un simbolismo lirico astratto dal
contenuto dei racconti stessi. Come abbiamo detto il principio
d’Identità ambisce all’unità dei concetti e all’armonia delle tesi svi-
luppate; il principio di Contraddizione funziona allo stesso modo del
principio di realtà, quando lo scrittore trasforma il proprio inconscio
in sorvegliata riespressione letteraria.
Solo se lo studioso intende il proprio lavoro come un processo di
conoscenza operato anche contro le proprie intime convinzioni, egli
esce dal proprio narcisistico principio di piacere e s’incontra con la
realtà di un testo che può anche dirgli che sta sbagliando
interpretazione. Solo fondendo il piacere dell’Identità col dolore della
Contraddizione, lo studioso individua nuove simmetrie, solo trovando
nel proprio lavoro un motivo che lo contraddice egli può vedere
territori ancora inesplorati così come può condurre indagini più
sofisticate o più articolate.
Riprendendo il nostro discorso, si dica, in forma di sintesi, che Poe
ci ha fornito un racconto all’interno del quale il rapporto Io-Mondo
s’appoggia alle poetiche e alle estetiche romantiche; Poulet, a sua
volta, trova in quei simboli un’origine inconscia, e ce la restituisce
attraverso riflessioni idonee per carpire il segreto di un taciuto
simbolismo poetico, quello che in Poe filtra e palpita nei suoi racconti
fantastici.
Giunti a questo punto converrà notare che le parole che Poulet
dedica alla funzione del cerchio in Poe, per quanto possa sembrare
paradossale, calzano perfettamente anche per la funzione svolta dal
cerchio nelle liriche di Cavalli bianchi. Ad una prima lettura questa
straordinaria coincidenza ci aveva stupito; tanto più che i racconti di
Poe in cui appare l’immagine del cerchio non sono più di quattro.
Non solo; va detto anche che in Poe il cerchio e la sua scenografia
paesaggistica mostrano automatismi narrativi e convenzioni de-
scrittive assai vicine a quel sistema di relazioni fisse che interviene fra
gli elementi tipici del locus amoenus. E andando per questa direzione

84
l’Eden di Poe somiglia ad un sistema convenzionale d’immagini
selezionate dalla retorica del genere e da una tradizione “aulica” che
viene confermata, pur godendo di un prezioso aggiornamento.
Ma la ragione del nostro iniziale stupore verso Poulet viene presto
chiarita se meditiamo sul fatto che egli estrae dall’ideologia del
cerchio, come Poe l’aveva resa nel racconto, un simbolismo poetico
disatteso da Poe. Anche se, per questo aspetto, non capiamo come mai
lo studioso francese dimentichi di ricordare che Poe è stato uno dei
poeti più significativi dell’Ottocento. Il potere assoluto della parola
poetica gli era a portata di mano.
Questo in parte spiega perché l’Eden del «cerchio fatato», una
volta privato dal critico francese della sua matrice ideologica, diventi
il soggetto di un’immaginazione poetica autoreferenziale, così come
accade nelle liriche di Palazzeschi. Poulet legge il cerchio di Poe
come un’allegoria che precorre l’emblematica della futura poesia
simbolista. Un’operazione interpretativa in parte affascinante e in
parte discutibile. Il francese fa di Poe un pre-simbolista, fa dei suoi
racconti fantastici le anticipazioni di una coscienza lirica già
predisposta all’astrazione simbolica. Togliendo da Poe la superficie
ideologica s’arriva al centro della sua astratta visione del tempo e
dello spazio. Cosicché il cerchio in Poe subisce da Poulet un’interna
trasformazione. Da geometria del rapporto natura-Mondo diventa geo-
metria dell’Io in rischiarante illuminazione della propria profonda
notte.
Che questa interpretazione del cerchio sia condivisibile per la
poesia di Palazzeschi non deve stupire; Cavalli bianchi appartiene alla
poesia simbolista, così come la ripetizione di un’eguale scena alle-
gorica, pur nella varietà dei simboli enunciati, evoca un Eden interiore
pre-logico, a-storico, a-ideologico.
Eden, come aveva detto Lacan, costitutivo di un io in via di
formazione, e, pertanto, di un Io la cui formazione vive lo stadio che
precede l’incontro col traumatizzante principio di realtà.
Riprendendo il confronto con l’iniziale seconda domanda, con la
quale ci eravamo chiesti qual è il ruolo di un genere nei confronti dei
simboli, approfondiamo ora un altro aspetto.
All’interno di un’esperienza letteraria lo stesso simbolo non ha
sempre lo stesso significato. Come abbiamo visto con Bachtin può
accadere che un genere letterario costringa i simboli ad essere parti
soggiacenti funzionali alla sua retorica. Per cui può accadere che nello

85
stesso autore quel simbolo non abbia la stessa funzione quando viene
inserito all’interno di generi diversi.
Un simbolo orienta un significato diverso quando dallo stesso
autore viene inserito in un altro genere. I codici di quel genere am-
ministrano il contenuto ideologico del simbolo. L’autore è lo stesso, il
simbolo è lo stesso, ma questa volta è il genere che modifica il valore
simbolico di una certa immagine.
Allo stesso tempo può accadere la cosa contraria. All’interno del
medesimo genere le valenze di un simbolo possono subire una
radicale modificazione. Che non accade nel breve giro di una sola
raccolta lirica, ma nella distribuzione più ampia di testi che solo in
tempi successivi mostrano più articolate direzioni di poetica .
Proprio il simbolo del cerchio, che in Cavalli bianchi non aveva
mai presentato il rapporto conflittuale Io-Mondo, in una successiva
raccolta di liriche assume, invece, una valenza ideologica eguale a
quella istruita da Poe. Così, anche la poesia può passare dal-
l’astrazione di un simbolo, sostantivo di un Eden privato, come ab-
biamo visto in Cavalli bianchi, alla ideologizzazione dello stesso.
Si tratta di capire perché col cambiamento della comunicazione
lirica cambia anche l’esigenza di una diversa rappresentazione
simbolica.
A questa comprensione arriviamo guardando al poemetto futurista
dell’Incendiario, la cui scena propone in modo netto il simbolismo del
cerchio:

In mezzo alla piazza centrale


del paese,
è stata posta la gabbia di ferro
con l'incendiario.
Vi rimarrà tre giorni
perché tutti lo possano vedere.
Tutti si aggirano torno torno
all'enorme gabbione,
durante tutto il giorno,
centinaia di persone.

La scena simbolica di un cerchio di persone, pur riproponendo la


sintassi figurativa di Cavalli bianchi, fin dall’esordio mostra la pre-
senza di un personaggio di professione incendiario.
L’incendiario in gabbia, in quanto figura di un sintomo psichico e
di un’allegoria universale, presenta un valore antico e ricorrente: è il

86
Soggetto delle rivoluzioni radicali. E’ anche una figura con la quale
l’Io si mostra nei panni rivoluzionari dell’artista futurista.
Va anche detto che il mostrarsi dell’Io quale soggetto della tra-
sgressione artistica porta con sé una prassi stilistica basata sull’uso
spregiudicato del dialogo. A questa prima scena seguono il dialogo di
più soggetti anonimi, col quale il poemetto si fa racconto.
Forse che il dialogo, usando le parole di Lacan, ha il compito di
raccontare dell’Io le sue «situazioni socialmente elaborate»?
Il dialogo, come soluzione stilistica tendente al racconto e al
teatro, non sta forse a indicare un racconto dell’Io passato dalla enun-
ciazione poetica di se stesso alla messa in prosa dei propri eventi
traumatici?
Se L’incendiario è ascrivibile al genere poesia, lo stile del dialogo
non guarda forse al genere romanzo nella forma della sua dinamica
teatralizzazione? E questo guardare ad un altro genere assumendone
un artificio tecnico non è forse il sintomo stilistico di un cambiamento
anche dal punto di vista dei valori simbolici cui ci aveva abituato
l’autore di Cavalli bianchi?
Viene da chiedersi: cosa ha prodotto il cambiamento?
La gabbia è collocata «in mezzo alla piazza centrale», la quale, a
sua volta, è posta al centro dell'agglomerato urbano. Il cerchio della
folla ruota intorno alla gabbia con le sue minacce di parole, così com-
ponendo un ossessivo circolo dialogico. Tuttavia, il cerchio, in quanto
espressione di un’oppressiva presenza, vede per la prima volta l’ir-
ruzione del poeta d’avanguardia. Se il simbolo del cerchio s’è evoluto
a simbolo aggressivo di una società insensibile alle nuove verità
dell’avanguardia, il suo attraversamento da parte del poeta ne implica
la fine simbolica.
Giunti a questo punto è tempo di trarre alcune considerazioni. Nei
racconti di Poe il cerchio è un simbolo ad alto tasso referenziale:
illumina un Eden da difendere e si lega ad un archetipo ideologico
culturamente romantico. Solo attraverso l’azione intuitiva e inter-
pretativa di Poulet quel simbolo illumina l’Io di una sprofondata notte
dell’Inconscio, nei modi fatti propri dal simbolismo europeo, di cui il
poeta di Cavalli bianchi era stato un originale interprete.
Al punto che l’ermeneutica svolta da Poulet diventa utile, come
abbiamo prima detto, per interpretare alcuni aspetti della scenografia
simbolica di Palazzeschi.
In un certo senso, Poulet parla del mancato simbolismo di Poe alla
luce della passata stagione del simbolismo europeo. Un procedimento

87
critico per noi discutibile anche se ricco d’interpretazioni sovente
piene di significato.
Tuttavia Poulet, quando guarda al racconto di Poe come ad una
visione poetica non ammessa come tale, sbaglia il suo oggetto perché
non prende in considerazione che i generi possono orientare si-
gnificati diversi in simboli pur eguali.
In forma di conclusione riaffermiamo che un simbolo non può
essere letto solo alla luce della sua antica determinazione antro-
pologica e, nel complesso, non può essere letto solo dal punto di vista
della sua sicura tradizione letteraria.
Essendo il simbolo il risultato di un processo storico nato in seno
alla cultura di una certa civiltà, proprio in quanto risultato il simbolo
si plasma di significati volta a volta suggeriti dal divenire di quella
civiltà. Significati tutti deducibili se si ha bene in mente il contesto
che l’ha generato; più volte solo parzialmente deducibili se del
contesto non si hanno notizie sicure. Deducibili, allora, solo dallo
sguardo socio-antropologico che applichiamo al simbolo per cavarne
la sua segreta valenza, nella convinzione che il patrimonio delle no-
stre conoscenze sia sufficiente per coprire l’arco intero della
conoscenza stessa.
Ma, come abbiamo in più occasioni mostrato, nell’età delle
letterature contemporanee il simbolo si nutre di significati il cui senso
più riposto sta tutto nella loro reinterpretazione. Come aveva
suggerito la poesia Corrispondences di Baudelaire, il simbolo è un
mistero che invita l’uomo ad osservarne la suggestiva forza di rin-
novamento, al seguito dell’eguale rinnovamento rivoluzionario offerto
dalla poesia moderna. Poiché il mondo reale presenta una forte
disarmonia fra l’uomo e gli oggetti della sua solitudine, quegli oggetti
si nutrono di nuove simbologie il cui significato trascende l’uomo
comune perché alberga in modo immanente nella capacità della
poesia di creare nuove risonanze, nuove corrispondenze. La natura
simbolica di queste corrispondenze è pressoché infinità perché vive
delle inattese relazioni che corrono fra i “profumi, colori, suoni» e lo
“spirito, i sensi». Da questo punto di vista il mondo diventa un’infinita
possibilità di simboli e l’uomo il poeta di questo accordo totale fra la
realtà e le possibilità infinite della sua interpretazione.

88
II
Il fantastico italiano nell’Ottocento
NUNZIA D’ANTUONO

Il doppio e la visione malinconica in un romanzo del primo


Ottocento*

A Napoli la produzione narrativa del periodo preunitario è figlia di


una «cultura nuova che non genera ed alimenta una nuova letteratura»,
ma che indubbiamente presenta autori che osservano incuriositi la
coeva produzione romanzesca europea1. Sono innumerevoli i roman-
zieri che, pur tardivamente, si cimentano nella scrittura di romanzi
storici e tentano, altresì, una teorizzazione del genere. Rivestono
un’importanza sostanziale l’Arrigo di Abbate e la Storia di Manfredi
di Giuseppe di Cesare, il Sampiero di Giuseppe Gallotti, Il figlio del
proscritto di Michele Baldacchini, per non citarne che alcuni. Alla
densa produzione di romanzi storici si aggiunge un romanzo come
quello scritto da Antonio Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata,
in cui sono condensati generi e motivi di respiro europeo, tra i quali
l’historia calamitatum, la confessione, la denuncia sociale e il richia-
mo all’ambientazione gotica. A dimostrazione di quanto una parte
dell’intellettualità napoletana conoscesse la produzione romanzesca
europea, si può citare accanto all’esperimento della Ginevra – che pur
è considerato un unicum della produzione narrativa di ambito

* Le presenti pagine rielaborano sostanzialmente il saggio introduttivo alla


riedizione di C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, a cura di N. D’Antuono,
Bologna, Millennium 2003, pp. VII-XXXI
1
Molti studiosi come M. SANSONE (La letteratura a Napoli dal 1800 al
1860, in Storia di Napoli. Cultura e letteratura, vol. X, Ottocento e
Novecento, Napoli, ESI 1981, pp. 9-283) ed A. PALERMO (Mezzo secolo di
letteratura a Napoli, in Storia della civiltà letteraria italiana, Torino, Utet
1994, vol. V, tomo I, pp. 193-244) ribadiscono la nota tesi di Benedetto
Croce, per il quale «la storia del mezzo secolo comincia a tutti gli effetti» con
Francesco De Sanctis. Non utilizza tale periodizzazione, invece, E.
GIAMMATTEI, Il Racconto e la Città. La cultura letteraria a Napoli (1830-
1910), in G. PUGLIESE CARRATELLI (a cura di), Storia e civiltà della
Campania. L’Ottocento, Napoli, Electa 1996, pp. 315-51, la cui analisi
evidentemente si sofferma anche sul trentennio preunitario.

91
napoletano – il tentativo compiuto da un intellettuale eclettico, legato
ai moderati toscani del Vieusseux, purista, traduttore, esperto di
editoria, fine conoscitore della letteratura francese, collaboratore del
«Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti» fin dalla sua
fondazione. La Storia di un nuovo pazzo di Carlo Mele vide la luce nel
1841, qualche mese dopo la morte dell’autore, conosciuto soprattutto
come autore di un pioneristico saggio, edito – dopo non pochi pro-
blemi con la censura borbonica – nel 1834, in cui si difende ad
oltranza il liberismo economico e la proprietà letteraria2. Carlo Mele a
fasi alterne, tra il 1826 ed il 1841, si dedica alla scrittura del suo unico
romanzo, che si sviluppa intorno al tema del doppio e della con-
fessione. La Storia ha un’ambientazione tipicamente malinconica ed è
dominata dal racconto fatale di un amore che conduce alla morte3.
Protagonista di questo breve romanzo è un padre armeno
mechitarista, o forse potremmo considerare protagonista della narra-
zione la sua confessione in limine mortis, che dopo anni di silenzio
apre la porta dei suoi ricordi ad un occasionale forestiere. Seguendo il
flusso della memoria, Padre Alberto tenta di dare una spiegazione ai
propri comportamenti, che lo hanno spinto ad una «tarda conver-
sione». In sostanza tutta la narrazione è volta a ricercare le cause
scatenanti le singolari azioni del protagonista, afflitto da una nuova
pazzia. Il romanzo di Carlo Mele, tra le molte tematiche tipiche della
letteratura del primo Ottocento, fa propria quella dell’attrazione per
l’Oriente e dell’indissolubilità del binomio amore-morte. Il racconto
esplicita ciò che si verifica quando la parte ferina dell’uomo prevale su
quella razionale. Elemento particolare della narrazione presa in esame
è lo sfondo, costituito da molteplici sdoppiamenti e raddoppiamenti.
Basilio dopo la morte dei propri genitori è accolto da una famiglia,
i cui componenti vivono in parte a Betlis ed in parte a Costantinopoli.
Infatuatosi di una delle figlie, Edelesia, la illude per poi lasciarla. In
seguito si innamora della sorella di Edelesia, Boghina, che ignara (alla
stregua di tutta la famiglia) della precedente esperienza di Edelesia,
accetta di sposarlo. Il giorno del matrimonio, Edelesia, ormai folle e
consunta dal dispiacere, confessa platealmente il suo segreto. Basilio,

2
C. MELE, Degli odierni uficii della tipografia e de’ libri. Discorso pratico
ed economico, a cura di N. D’Antuono, Pescara, Campus 2002.
3
Il romanzo Storia di un nuovo pazzo fu edito dalla Stamperia e Cartiera del
Fibreno nel 1841. Tutte le citazioni del presente saggio si riferiscono alla
riedizione dell’opera (Bologna, Millennium 2003).

92
ritenuto traditore dell’ospitalità, è cacciato e rifiutato dal padre e dalla
madre di Edelesia e Boghina. L’impossibilità di ricevere il perdono
spinge Basilio a ritirarsi in convento, sotto la nuova identità del
mechitarista Padre Alberto. L’isolamento, chiaramente autopunitivo,
sembra rivelarsi la scelta più opportuna, ma dopo due anni di appa-
rente tranquillità Padre Alberto comincia ad essere sconvolto ogni not-
te da terribili visioni e non riesce più a controllare i comportamenti
notturni4. Il suo futuro ha ormai perso qualsiasi slancio vitale. Il
presente si dilata e si estende senza fine ed egli è irrimediabilmente
risucchiato dal passato, che «con le sue vele gigantesche tende a ri-
assorbire il presente (a disperderlo): fermando il divenire ed alimen-
tando la colpa»5. Nella mente del mechitarista rivivono soltanto le
esperienze passate, l’unica epifania sarebbe rappresentata dalla morte,
troncamento di ogni angoscia e di tutte le sofferenze, ma intanto il
protagonista continua a descrivere il «lungo inferno che gli si va
preparando sopra la terra»6.
Nella narrazione in cui domina l’idea della vita oltre la morte,
risulta fondamentale la presenza dell’elemento religioso. È stato
giustamente osservato, a tale proposito, che la «nascita della religione
4
Una delle pene più dure sofferte dal protagonista è la mancanza di sonno,
che spesso nell’uomo spalanca le porte alla follia. Tra le testimonianze
rimasteci al riguardo, ricordiamo l’esperienza di Byron, il quale nei suoi
ultimi giorni di vita non riusciva a dormire ed era terrorizzato non dal
fantasma della morte bensì da quello della follia. Il poeta inglese confidò al
domestico Fletcher di sapere che un uomo privato del sonno è destinato alla
pazzia. Cfr. TH. MEDWIN, Journal of the conversation of Lord Byron. II,
Paris, Galignani 1824, p. 172.
5
H. TELLENBACH, Malinconia: depressività della genialità, in A. DOLFI (a
cura di), Malinconia, malattia malinconica e letteratura moderna, Roma,
Bulzoni 1991, pp. 43-48. Già Ippocrate interpretava l’angoscia come un
segno prognostico (sudori febbrili) in alcune malattie organiche, Cicerone la
definiva aegritudo premens e Lucrezio anxius angor. Si trattava di stati
intermedi tra lo psichico e il fisico. Ben presto il contenuto e i correlati psico-
fisiologici dell’angoscia rientreranno nella grande configurazione dell’umore
malinconico, segno di desideri inappagati e di privazioni amorose. Dalla
nebulosa dell’umore malinconico gli stati ansiosi si staccheranno, nel XVII e
nel XVIII secolo, per denotare affezioni caratterizzate variamente da spasmi e
convulsioni. La malattia diviene una sorta di castigo morale per gli eccessi e
le cattive abitudini. Cfr. A. FONTANA, Angoscia/colpa, in Enciclopedia, vol.
1 (Abaco-Astronomia), Torino, Einaudi 1977, p. 549.
6
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 75.

93
ha il compito di esorcizzare le antiche paure attraverso la razionalità
del culto»7. La voce potente della religione equivale alle catene che di
notte bloccano i furori del protagonista. Il Mele, credendo in questa
equivalenza, dimostra di allontanarsi dal modello, rappresentato da Le
lépreux de la cité d’Aoste8 il cui protagonista affermava:

Ce sacrifice complet de toutes les affections humaines n’est point encore


accompli: ma vie se passe en combats, et les secours puissants de la religion
elle-même ne sont pas toujours capables de réprimer les élans de mon
imagination. Elle m’entraîne souvent malgré moi dans un océan de désirs
chimériques, qui tous me ramènent vers ce mond dont je n’ai aucune idée, et
dont l’image fantastique est toujours présente pour me tourmenter9.

Soltanto i sacramenti, quasi come un rimedio divino, tran-


quillizzano Padre Alberto, gli leniscono la colpa e gli permettono di
dormire. Le angosce notturne sembrano quasi una pena inflitta per
aver offeso i diritti di ospitalità e per aver ingannato la «Vergine cri-
stian» Edelesia, che di lui si fidava. Basilio/Padre Alberto ed Edelesia
hanno patito la stessa sventura. Si legga la seguente citazione, che
illumina la condizione del protagonista: «io caddi in quest’orrido stato
il giorno appunto dell’anniversario del mio svanito matrimonio, e che

7
P. PIERI, Il simbolico nel racconto fantastico, in «Poetiche”, fasc. 2, 2003, p.
160, ora supra p. 66.
8
Carlo Mele nel 1826 aveva tradotto il racconto di Xavier de Maistre (Il
lebbroso di Aosta. Fatto di francese italiano [da Carlo Mele], Napoli,
Stamperia Francese, 1828), traduzione che molto probabilmente aveva
suggerito la confessione come tema fondamentale della Storia.
9
X. DE MAISTRE, Le lépreux de la cité d’Aoste, in ID., Voyage autour de ma
chambre. Expédition nocturne. Le lépreux de la cité d’Aoste. Les prisonniers
du Caucase. La Jeune Sibérienne. Poésies, Paris, Flammarion, [s.d.], pp.
174-75. Per la traduzione [«Questo sacrificio completo di tutti gli affetti
umani non è stato ancora compiuto; trascorro la mia vita in continua lotta, e i
potenti soccorsi della religione non sono sempre capaci di reprimere gli slanci
della mia fantasia. La quale spesso mi trascina, mio malgrado, in un oceano
di desideri chimerici, che mi trasportano in quel mondo di cui non ho alcuna
idea e la cui immagine fantastica m’è sempre davanti per tormentarmi”], cfr.
ID., Il lebbroso della città d’Aosta cit., p. 30. Si tenga conto anche della se-
guente citazione: «Plein de tristes pensées, j’oubliai qu’il est un Être
consolateur, je m’oubliai moi-même” (X. DE MAISTRE, Le lépreux de la cité
d’Aoste cit., p. 185; [«Vinto da sì amari pensieri, io mi scordai che v’ha un
Essere che consola, io scordai di me stesso”]. La traduzione è del Mele).

94
non senza uno scopo la Provvidenza divina mi fece incorrere nella
sventura medesima che per la mia malvagità era incontrata ad una
vergine cristiana»10.
Padre Alberto non ha futuro. Il giorno successivo alla fine del
racconto si conclude la sua esperienza terrena11. La sua narrazione
conferma ciò che ha scritto Tellenbach sul malinconico che ha espe-
rienza della colpa acuta, aspra, atroce, distruttiva che può trascinare
finanche alla morte.
Padre Alberto è un religioso maturo continuamente assalito dagli
incubi che offuscano le sue notti insonni. Qualche volta ha meditato il
suicidio. Ha scritto Agamben che il malinconico è associato tradizio-
nalmente alla vecchiaia o alla maturità; il suo pianeta è Saturno, fra i
cui figli il malinconico trova posto accanto allo zoppo ed al religioso.
La sindrome dell’abundantia melancholiae comprende i sogni cupi e
fra le malattie che essa può indurre figurano l’epilessia, la lebbra, la
mania suicida12. La vita presente è un continuo ricordo, Padre Alberto
si china sull’infinito delle lontananze e Starobinski13 ha definito
spossessamento il comportamento di colui che non fa altro che ripen-
sare alle forme e alle creature che si sono offerte al suo sguardo.
Nella perdita risiede l’origine prima della depressione malinconica,
considerata una malattia dell’immaginazione14. Ancora Starobinski ha
fornito sul motivo alcune suggestioni interpretative, perché ha acu-
tamente osservato che il malinconico è posseduto da un desiderio
ossessivo di tornare ai luoghi, alle persone, agli affetti abbandonati15.
Si tratta di un lutto duraturo che non conosce possibilità di oblio.

10
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 83.
11
Il sonno ristoratore e la morte si congiungono nell’esperienza del pro-
tagonista. Il sonno, scriveva Leopardi, «non è mai penoso, quando anche sia
cagionato da pene, anche da angosce vive». Ed ancora: «Io bene spesso
trovandomi in gravi travagli o corporali o morali, ho desiderato non so-
lamente il riposo, ma la mia anima senza sforzo, e senza eroismo, si com-
piaceva naturalmente nell’idea di un’insensibilità illimitata e perpetua, di un
riposo, di una continua inazione dell’anima» (Zibaldone 291-92).
12
G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,
Torino, Einaudi 1977, in particolare le pp. 15-17.
13
J. STAROBINSKI, La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire,
trad. it. di D. De Agostini, Milano, Garzanti 1990, pp. 26-27.
14
M. RIVA, Illuminismo e prodromi di una “malattia” romantica: il caso
Verri-Beccaria, in «Critica letteraria», 1987, n. 56, p. 584.
15
J. STAROBINSKI, Le concepte de nostalgie, in «Diogène», 1966, n. 54, p. 94.

95
Negli ultimi anni di vita Padre Alberto aveva scelto la linea dell’estra-
neità e della solitudine16, cercando nella memoria i ricordi più belli
della sua Armenia e rievocando soprattutto le selve, alla stregua dei
grandi viaggiatori che avevano dedicato intense pagine alla de-
scrizione degli spettacoli sublimi della natura e dei boschi. Perciò il
Forestiere, con atto pietoso e patetica indulgenza, dopo la morte,
riporta in Armenia le spoglie del mechitarista per consentirne il
desiderato ricongiungimento con la terra natale e con la donna amata.
Il protagonista del romanzo di Mele potrebbe anche essere
paragonato all’«ipocondriaco goldoniano»17, che diviene «preda di una
sensibilità distorta, di un “vizio di fantasia guasta ed inferma”, di una
accensione di capo, di un fuoco interno che, salendo dagli ipocondri,
sede dell’umore surriscaldato e corrotto, si dilata in tutto il corpo;
ancora, la fallacia delle sue apprensioni si condensa in una forma di
“spavento”, di timore, e persino terrore senza causa apparente, che si
acuisce al massimo nell’insonnia notturna, quando il suo leggero
delirio prende forma di incubi e visioni»18.

16
M. CERRUTI (Neoclassici e giacobini, Milano, Silva 1969, p. 25) ha
affermato che dinanzi alla perdita l’essere umano può attuare due scelte: la
prima predilige l’inquietudine e la rivolta, la seconda l’estraneità e la so-
litudine.
17
Si legga, ad esempio, la seguente affermazione: «calore che mi divora le
viscere come un veleno corrosivo e potente» (C. MELE, Storia di un nuovo
pazzo, cit., p. 20). Ha sottolineato Massimo Riva che «I segni “meravigliosi”
dell’entusiasmo o del furor poetico sono presentati in un metaforico lin-
guaggio molto vicino a quello della patologia medica, della quale, a ben
guardare, riflette anche il rovesciamento del mito del genio saturnino. Le
propaggini del discorso medico le ritroviamo da questo punto di vista persino
in un componimento considerato una sorta di manifesto della poetica
preromantico-sentimentale, l’ode all’Entusiasmo melanconico di Vincenzo
Monti: “Sento le membra tutte palpitarmi/e da bollenti spiriti sconvolto/il
cerebro infiammarsi e il cor tremarmi”». Cfr. M. RIVA, Malattia dell’imma-
ginazione e immaginazione della malattia: ipocondria e malinconia nella
letteratura italiana del Settecento, in «Lettere italiane», 1987, 3, p. 364.
18
Ibidem. Esclamava, infatti, il personaggio del Lebbroso d’Aosta: «– Ah,
signore, le insonnie! le insonnie! Non potete immaginare quanto sia triste e
lunga la notte passata senza chiudere occhio, con la mente fissa a una
situazione spaventosa e a un avvenire senza speranza. No, nessuno lo può
capire. Le mie inquietudini aumentano a mano a mano che la notte avanza; e
quando questa sta per finire la mia agitazione è tale che non mi riconosco più:
i pensieri mi si confondono, provo un sentimento straordinario, che ritrovo

96
Se la pazzia cavalleresca era generata dalla perdita di senno (pato-
genesi della pazzia per sottrazione), e riportava ad uno stato ferino
moltiplicante la forza fisica, il «nuovo pazzo», invece, pur avvertendo
gli stessi sintomi soffre di una patogenesi della pazzia per addizione:
lo spirito maligno è entrato nel suo corpo e lo possiede19. Nel nostro
caso tale spirito maligno non è altro che il riemergere della parte più
nascosta e più ferina dell’uomo, che si risveglia durante la notte:

Mi sembra talor di albergar nell’interno del corpo un animale irrequieto e


rabbioso che colle unghie e col rostro mi va strappando le viscere, e che
nessuna arte umana può espellere o far morire20.

Ancora una volta è accertato che non sarebbe stato necessario


attendere le teorie psicoanalitiche di Freud per parlare del mondo
dell’inconscio, del sogno e del notturno, perché già i romantici ave-
vano collegato il sogno al regno del sonno e l’inconscio al mondo

dentro di me soltanto in questi tristi momenti. Ora mi pare di essere trascinato


da una irresistibile forza in un abisso senza fondo; ora vedo macchie nere
davanti ai miei occhi, ma mentre le esamino, crescono con la rapidità del
lampo, si ingrossano accostandosi a me e diventano montagne che mi schiac-
ciano col loro peso. Altra volta vedo delle nuvole uscire dalla terra attorno a
me come ondate che si gonfiano, che si ammassano e minacciano di
inghiottirmi; e quando voglio alzarmi per distrarmi da questi pensieri mi
sento trattenuto da invisibili legami che mi tolgono le forze. Forse voi po-
treste credere che si tratti di sogni; ma, no, sono abbastanza sveglio. Rivedo
incessantemente gli stessi oggetti, ed è una sensazione di orrore che sorpassa
tutti gli altri miei mali». E qualche rigo dopo: «Il lebbroso: – Credete che
possa provenire dalla febbre! Ah, fosse vero! Finora avevo creduto che quelle
visioni fossero un sintomo di pazzia, e vi confesso che ne ero assai inquieto.
Volesse Dio che si tratti veramente di febbre!». Per le due citazioni, cfr. X.
DE MAISTRE, Il lebbroso della città d’Aosta cit., pp. 32-33 e 34. Anche nel
cap. XXXIX, Dialogo tra l’anima e la bestia, del Viaggio intorno alla mia
camera si discorre di visioni notturne che spesso provocano un’agitazione
tanto faticosa quanto inutile: «la mia anima, svegliandosi, rientrò in sé,
trascinandosi dietro la ragione e la realtà» (X. DE MAISTRE, Viaggio intorno
alla mia camera, prefazione di A. France, postfazione di Ch. A. de Sainte-
Beuve, traduzione, introduzione e note di G. Auletta, Milano, Mondadori
1997, pp. 96-97).
19
C. SEGRE, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini
dell’aldilà, Torino, Einaudi 1990, p. 97.
20
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 28.

97
notturno. La visione onirica viene equiparata ad una temporanea
psicosi, essa esprime un ritiro del soggetto dal mondo esterno, che
rappresenta la salute e la normalità, mentre quello notturno sim-
boleggia l’inconscio, la «nuova pazzia» e la morte. Gli scrittori ro-
mantici contribuiscono a trasformare il sonno e la veglia, il giorno e la
notte in depositi di ogni possibile sorta di pensieri reconditi21. È stato
giustamente osservato che con «l’immagine della notte l’umanità
rappresenta antiche paure e ricorrenti inquietudini. […] L’ignoto e il
mistero della vita notturna diventano la rappresentazione di un ignoto
e di un mistero che alberga nel fondo oscuro dell’uomo. Così la notte
chiama alla mente l’oscurità dell’indeterminato nel cui grembo
albergano idee negative, mostri e immagini terrificanti»22.
Accettando dell’uomo la parte notturna o malvagia o immorale, il
narratore vi entra per raccontarla attraverso la propria scrittura. Questa
letteratura di una verità sconosciuta fino all’Ottocento produce lo
scavo archeologico di siti interiori coniuganti Io e Inconscio, prota-
gonista e doppio, bene e male23. Alle prime luci dell’alba il mondo
negativo legato all’oscurità si volatilizza per ritornare non appena le
tenebre si saranno impossessate nuovamente della terra e degli uo-
mini24. La destrutturazione del soggetto scandisce il trapasso da un «io
forte e centrato» ad una soggettività disunita e «debole». Assistiamo
così al rinnovarsi dell’autoanalisi (e dell’analisi) del personaggio
all’insegna delle categorie del discontinuo e del plurale. L’homo
21
Sul giorno e la notte si vedano le pagine fondamentali di G. GENETTE, Il
giorno, la notte, in ID., Figure II. La parola letteraria, trad. it. di F. Madonia,
Torino, Einaudi 1972, pp. 71-91. Genette ricorda che la notte è un simbolo
materno e che l’amore per la notte è un ritorno alla madre, è vita e morte in-
sieme. Le sofferenze di padre Alberto si acuiscono al tramonto perché l’ar-
meno proprio di notte avverte ancora di più la colpa per aver tradito gli
insegnamenti materni.
22
P. PIERI, Il simbolico nel racconto fantastico, cit., p. 160, ora supra p.66.
23
È stato giustamente osservato da P. PIERI (Ivi, pp. 69-70): «La figura sim-
bolica del doppio o il sosia [...] segnala una realtà nascosta che si rivela alla
fine come l’aspetto più autentico della natura del protagonista. Mentre nel
Novecento la funzione simbolica del doppio tende a scomparire in quanto il
letterato che ha fatto l’esperienza della letteratura d’avanguardia e della
scoperta della psicoanalisi, ha accettato la parte oscura del proprio sé in-
teriore come agente d’ispirazione o soggetto di contenuto».
24
«Ma l’alba mattutina incomincia a imbiancare il cielo; i pensieri neri che
m’agitavano svaniscono con la notte…» (Cfr. X. DE MAISTRE, Viaggio
intorno alla mia camera, cit., p. 59).

98
duplex, emblema della modernità e figura della contraddizione, allude
proprio a tale fenomenologia di scomposizione, di passaggio dal
semplice al plurimo25. La figura dell’Altro, nel nostro caso, è quella
del «bruto», e Padre Alberto è scomposto fra l’umano e il suo con-
trario. Già il de Maistre, nel Voyage autour de ma chambre aveva
rivelato «l’esistenza nella natura dell’uomo di un duplice aspetto, “il
sistema dell’anima e della bestia”, con “l’anima” identificata nei
“raggi puri dell’intelligenza” e “la bestia” nella “potenza animale”»26.
Si leggano, del Voyage, i capitoli VI-VIII, rispettivamente intitolati
Dedicato ai metafisici, L’anima, La bestia, dai quali citiamo – in tra-
duzione – solo la seguente affermazione: «Tutti si accorgono, almeno
superficialmente, che l’uomo è un essere duplice perché, a quanto di-
cono, è composto d’un’anima e d’un corpo». Nel Commiato, infine, il
narratore francese aveva affermato epigraficamente: «Tuttavia mai mi
27
son reso più chiaramente conto di essere doppio» .
Nel romanzo del Mele, però, assistiamo ad un caso ancor più
emblematico, perché si sviluppa un sistema di innumerevoli rad-
doppiamenti. Il protagonista è fondamentalmente sdoppiato28 in un
prima (Basilio) e in un dopo (Padre Alberto). Queste due parti, però,
sono a loro volta scisse. Sembrava che

fossero a Costantinopoli due Basilii, de’ quali l’uno facesse il leggiadro e


il francese ne’ salotti di Pera e nelle ville di Buyukdéré e di Therapia, e l’altro
il misantropo e il turco nel Fanar29.

Padre Alberto è poi diviso tra una parte diurna ed una notturna.
Anche la donna è raddoppiata. Edelesia rappresenta l’amore
passionale e giovanile, e Boghina l’amica della vita matura, la donna
da sposare. Il raddoppiamento lo si rintraccia anche nello spazio nar-
rativo dei due conventi e delle due isole di S. Servilio e di S. Lazzaro,

25
V. RODA, Homo duplex. Scomposizione dell’io nella letteratura moderna,
Bologna, Il Mulino 1991, p. 7.
26
E. BENUCCI, Paolina Leopardi. Viaggio notturno intorno alla mia camera.
Traduzione dal francese dell’opera di Xavier de Maistre e altri scritti,
Venosa, Osanna 2000, pp. 12-13.
27
X. DE MAISTRE, Viaggio intorno alla mia camera, cit., pp. 31 e 113.
28
Nel romanzo il protagonista si descrive con un’indole «or quieta e
benevola, or impetuosa ed ardente leggerezza inconsiderata, fredda e lunga
meditazione». Cfr. C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 38.
29
Ivi, p. 64.

99
intanto che la stessa Venezia si specchia nella laguna, mentre l’acqua
come uno specchio la sdoppia. Se i romanzi settecenteschi avevano
descritto il lato libertino30 di Venezia, la narrativa del primo Ottocento
presenta la città lagunare nella sua veste censoria, così come Padre
Alberto che rievoca la sorte dei due Foscari, del Foscarini e del Car-
magnola.
Il doppio è il prodotto del venir meno dell’unità e dell’identità
dell’io e riflette il conseguente rapporto dialogico dell’uomo con se
stesso. Il Forestiere non è altro che il tu, un ulteriore specchio di
Padre Alberto; egli ascolta il racconto e ne è profondamente turbato.
La reazione del Forestiere potrebbe essere messa in parallelo con i
comportamenti dei lettori di finzioni del Settecento che con reazioni di
confine esprimono la perdita dell’autocontrollo31. Ancor più incisiva-
mente può essere sottolineato l’effetto drammatizzazione di questo
romanzo; il forestiere non legge ma quasi assiste alla rappresentazione
degli eventi e non incarna più lo spettatore sereno la cui tranquillità
scaturisce dal confronto fra la sicurezza della sua posizione e il
pericolo e la rovina degli altri. Nel dialogo tra il Forestiere e Padre
Alberto tali elementi sono svaniti; l’interlocutore del mechitarista di-
mostra di aver paura di perdere la propria ragione. Dopo la filosofia di
Pascal non è più consentito di tirarsi fuori dallo spettacolo del
naufragio, non è più valido ciò che scriveva Lucrezio:

Dolce, quando sul vasto mare i venti sollevano i flutti, assistere da terra
alle dure prove altrui: non che quella sofferenza sia per noi un piacere tanto
grande; ma è pur dolce vedere a quali mali si sfugge32.

Dinanzi al dolore altrui può esserci ormai soltanto anestesia della


mente oppure commossa partecipazione33. Nel nostro caso anche la

30
A Venezia, accanto all’Histoire de ma vie, autobiografia licenziosa di
Casanova, vide la luce, nel 1764, il romanzo di Z. SERIMAN (Viaggi di Enrico
Wanton alle terre incognite australi ed ai regni delle scimmie e dei
cinocefali), veneziano di origine armena, che dipinse le istituzioni
contemporanee con toni critici e satirici.
31
S. CALABRESE, Il romanzo italiano nel Settecento, in A. BATTISTINI (a
cura di), Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, Bologna, Il
Mulino 1994, p. 201.
32
LUCREZIO, De rerum natura (II, 1-4), trad. it. di O. Cescatti, Milano,
Garzanti 1975, p. 75.

100
differenza tra terra e mare è svanita; la terra insulare, circondata dalle
acque, comincia a vacillare e spalanca i suoi abissi.

In Padre Alberto si rintracciano anche i caratteri di un eroe fatale


della letteratura romantica che semina la maledizione – che poi gli si
ritorcerà contro funestando il suo destino – travaglia chi ha la disgra-
zia d’imbattersi in lui, distrugge se stesso e le sciagurate donne che
cadono nella sua orbita. Quel che il Manfredo di Byron dice di Astarte
(«Io l’amavo, e la distrussi!»)34, potrebbe essere pronunciato anche dal
protagonista del romanzo di Mele, che descrive Boghina come «una
donna mezza consunta dalla violenza ineluttabile di un amore che
nessuna umana forza potea più vincere»35. Padre Alberto non può più
vivere in società e ricerca l’estrema solitudine. A tale proposito, si
rilegga la sequenza nella quale il personaggio afferma che «quel vi-
vere sopra uno scoglio in mezzo alle acque, mi era sembrata una
solitudine anche più grande di quella che gli antichi anacoreti
cercavano ne’ deserti della Tebaide»36.
Il rifugio nella Tebaide è una fuga dall’eros, un sottrarsi al dramma
dell’amore, che da sempre ha rappresentato un tema peculiare della
narratività, anche se nel nostro caso lo stereotipo è rovesciato, in

33
R. BODEI, Introduzione ad H. BLUMENBERG, Naufragio con spettatore.
Paradigma di una metafora dell’esistenza, trad. it. di F. Rigotti, Bologna, Il
Mulino, 1985, pp. 12-13. Si tenga conto anche della seguente osservazione:
«Il naufragio non si distingue più dallo spettatore. Si è nello stesso tempo
estranei e coinvolti nel moto ondoso della storia, perché esso è parte di noi,
anzi noi siamo tale moto» (Ivi, p. 16). L’idea del naufragio è richiamata nel
romanzo del Mele con la sintomatica metafora della buona moglie «che ti
faccia mirare quasi dal porto le procelle del mondo» (C. MELE, Storia di un
nuovo pazzo, cit., p. 45).
34
G. G. BYRON, Manfred, Atto II, scena 1 e 2. Cfr. M. PRAZ, La carne, la
morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni 19694, p. 75.
Nel romanzo di Mele possiamo leggere: «tu non sei fatto né per essere né per
rendere altrui felice», «il mio fisso destino era quello di nuocer sempre a chi
più m’avea caro!» (C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., pp. 55 e 64).
35
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 80. Si nota anche un’evoluzione
del rapporto amoroso: dal primo amore, puramente libertino, a quello della
maturità per Boghina.
36
Ivi, p. 81.

101
quanto non è una donna a soffrire, ma un uomo che, proprio come la
donna, può vivere una sua alta e nobile irrazionalità37.
Il «francese», personaggio secondario della Storia di un nuovo
pazzo, impersona il modello del libertino e spinge Basilio a dubitare
delle qualità di Edelesia e poi ad abbandonarla. Il vero amore sarebbe
arrivato solo con Boghina, ma tutte le disgrazie di Basilio hanno inizio
con l’inganno ai danni di Edelesia. Quando ricorda i sentimenti per
lei, Padre Alberto usa espressioni adatte per una fugace passione: «la
mia fantasia l’andava focosamente adornando», «tutto era in me
confusione e tumulto», «gran bollimento», «impeto della mia passio-
ne», «amor leggiero e fugace», «folle dichiarazione», «amore, che con
tanta furia si era destato». Abbiamo posto in corsivo soltanto quelle
espressioni usate anche per descrivere i momenti della pazzia notturna. Si
rilegga, invece, una sola frase in cui è descritto l’amore per Boghina:

Pensai dunque alla differenza che corre tra que’ tempestosi amori de’
quali ancor fresca avea la memoria e le tranquille dolcezze che a noi promette
un matrimonio ben combinato38.

Appare evidente la differenza dello stato d’animo del protagonista,


che non percepisce più il matrimonio come una catena, bensì una

37
È stato giustamente osservato che la follia femminile, diventando un tema
letterario, «appare principalmente come disturbo psichico legato ad una
sofferenza d’amore». Cfr. M. FARNETTI, “Pathologia amoris”. Alcuni casi di
follia femminile nel romanzo italiano tra Otto e Novecento, in A. DOLFI (a
cura di), Nevrosi e follia nella letteratura moderna. Atti di seminario, Trento,
maggio 1992, Roma, Bulzoni 1993, p. 247. Su questa tematica rinvio anche a
PH. CHESLER, Le donne e la pazzia, con un commento di F. Ongaro Basaglia,
trad. it. di P. Carreras, Torino, Einaudi 1977. Il romanzo del Mele, in verità,
contribuisce a rovesciare tale stereotipo, che già Rousseau nelle Confessions
aveva iniziato a demolire, allorché aveva ricordato che Friedrich-Melchior
Grimm, dopo essere stato rifiutato da una donna, era caduto in un’acuta
depressione e «pensò di volerne morire. Contrasse d’improvviso la più
bizzarra malattia di cui mai forse si sia udito parlare. […] L’avventura non
mancò di far chiasso» (J.-J. ROUSSEAU, Scritti autobiografici, a cura di L.
Sozzi, Torino, Einaudi-Gallimard 1997, p. 364). Anche Flaubert scrisse un
racconto-confessione in cui rievocò l’incontro con Elisa Schlesinger, della
quale si era innamorato perdutamente e segretamente, e che lo segnò per tutta
la vita (G. FLAUBERT, Memorie di un pazzo, trad. it., Milano, La Spiga,
1997).
38
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 66.

102
promessa di «tranquille dolcezze». Le parole non esprimono più
passione e tumulto ma calma e serenità. La felicità è però compro-
messa ed egli continua a pensare ad Edelesia: «e la coscienza mi
rimproverava di averle tolto la pace la salute e sin la ragione»39. Come
Edelesia è stata privata della «bella luce della ragione», quasi per
contrappasso analogico, Padre Alberto sarà condannato alla sua inter-
mittenza. Il lume dell’intelletto si spegne all’imbrunire per riac-
cendersi all’alba. La pena peggiore però consiste nel ricordare tutto
ciò che avviene di notte, quando prende il sopravvento la bestia. Di
giorno l’uomo impotente aspetterà con terrore l’arrivo dell’oscurità
sapendo di non poter impedire il risvegliarsi della propria matta
bestialità.
Padre Alberto ha introdotto il Forestiere nel suo mondo, che è
«affatto diverso da quello in cui si canta e si ride, in cui si passano i
giorni tra la morbidezza e i piaceri, in cui delle angosce della umanità
non si ragiona che sottovoce ed in cui gl’infelici sono stranieri. È
questo il mondo dell’austero dolore e delle incessanti tempeste; è
questo il mondo in cui la consolazione e la pace non si attendono che
dalla morte».

La struttura dialogica favorisce la lettura. Questa tecnica era stata


utilizzata dall’autore già nel 1826, nel Dialogo fra un Geometra e
l’Editore del Parnaso Novissimo40.
Nella Storia di un nuovo pazzo la voce narrante esterna alla storia,
nel modo più canonico («Pochi anni addietro»), dà inizio all’avventura
romanzesca. Ci vengono presentati il Forestiere ed il converso e poi
Padre Alberto. Anche dopo il passaggio dal narratore esterno41 allo
scambio di battute tra Padre Alberto ed il Forestiere, ritroveremo in
nove punti della vicenda42 il narratore, che poi, in maniera circolare,
riprenderà il possesso dell’intreccio fino alla conclusione.

39
Ivi, p. 78.
40
[ C. MELE], Parnaso italiano novissimo. Raccolto e pubblicato da U.E., tomo
primo, Napoli, Stamperia Francese, MDCCCXXVI, pp. 3-28.
41
Una voce narrante esterna apre il romanzo, introducendo il dialogo tra
Padre Alberto ed il Forestiere.
42
Di seguito sono citati gli interventi della voce narrante: «come si vedrà
[...]» (p. 10), «(poiché oramai lo abbiamo a chiaro segno riconosciuto)» (p.
10), «Intanto perché dimorava egli a S. Servilio? […] di cui egli stesso aveva
parlato?» (p. 11), «(a queste parole il religioso [...])» (p. 14), «(A queste
parole il viaggiatore si celò il volto tra le mani. Il Padre Alberto continuò)»

103
Il narratore informa che il dialogo era stato trascritto dal Forestiere
quando questi ne aveva ancora fresca memoria. Con tale affermazione
egli rivendica la veridicità della narrazione. La forma dialogica, come
quella epistolare, avvicina il lettore al sentimento vissuto dal protago-
nista, perché nel dialogo-confessione il personaggio racconta la vita
mentre la vive43. Padre Alberto, infatti, insieme al Forestiere – la cui
presenza, come quella del lettore, è avvertita costantemente44 – riper-
corre le fasi salienti del proprio vissuto.
Il romanzo si basa quindi su una struttura dialogica in cui le battute
di Padre Alberto sono sempre più estese e preponderanti rispetto a
quelle del Forestiere. Se ne rintracciano quattro particolarmente
lunghe, fino a quando l’alternanza dialogica viene sostituita da un
lunghissimo monologo del mechitarista, che si estende per le suc-
cessive cinquanta pagine del romanzo45, e che, mutuando una de-
finizione di Piero Pieri, potremmo definire un «monologo esteriore»,
in alcuni passaggi del quale viene sottolineata una drammaticità non

(p. 18), «Il Padre Alberto parve soddisfatto dalla risposta del forestiere, e
dopo essere stato alquanto sopra di sé continuò in questi termini» (p. 19), «Il
gentiluomo […] interrotta conversazione» (p. 29), «Parve al Padre Alberto
[…] rasserenato e placido in viso gli volse tai detti» (pp. 36-7), «(A questo
luogo […] specie d’interna convulsione» (p. 55), «A questo punto della
narrazione […] ripigliò il suo racconto» (p. 75). I corsivi sono nel testo.
43
Sulle possibili corrispondenze tra la forma epistolare e quella dialogica si
veda J. ROUSSET, Una forma letteraria: il romanzo epistolare, in ID., Forma
e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel, trad. it. di F.
Giacone, Torino, Einaudi 1976, pp. 81-88.
44
Per tener vivo il rapporto con il lettore sono utilizzate varie locuzioni:
«Lascio ai lettori» (p. 8), «come si vedrà» (p. 10), «già da noi conosciuto» (p.
10). Mele non fa che riutilizzare una tecnica a lui cara. All’inizio di ogni sua
impresa editoriale, infatti, ritroviamo un «avviso ai lettori» e ogni argomen-
tazione richiama l’attenzione dei «cari lettori», come nel volume Poesie,
allorché aveva scritto: «eccovi amati lettori» (C. MELE, Poesie di un amico
degli uomini stampate sotto la censura e pubblicate sotto la libertà de’
torchi, Napoli, Trani, 1820, p. 3). Sul rapporto tra narratore e lettore in Mele
mi si permetta di rimandare al mio saggio introduttivo, Editoria, intellettuali
e ideologia in Carlo Mele, alla riedizione di C. MELE, Degli odierni uficii
cit., pp. XXXVI-XXXVII.
45
J. ROUSSET (Una forma letteraria: il romanzo epistolare, cit., p. 88) ha
acutamente notato che la prima persona nella scrittura romanzesca è «uno
strumento perfezionato di analisi interiore».

104
tanto alfieriana quanto teatrale46. Siamo, insomma, di fronte ad
un’opera in cui il dialogo apre la strada ad un soliloquio che ha valore
morale e terapeutico. Con il soliloquio avviene una sorta di presa di
coscienza. L’uomo si apre con se stesso prima che con gli altri, si
guarda allo specchio e cerca di trovare da solo le risposte. L’intervento
del narratore in taluni casi suggerisce la fisicità dello stato d’animo.
Ma in tutto il romanzo la consapevolezza mentale viene dram-
matizzata direttamente, invece di essere riferita e spiegata indi-
rettamente dalla voce del narratore, nello stesso modo in cui parole
e gesti sono drammatizzati 47 ricorrendo alla scena piuttosto che essere
riassunti dal narratore con un sommario panoramico. In tale caso
« vediamo il personaggio nell’atto di giudicare e di riflettere; la
sua coscienza non è più qualcosa che conosciamo “per sentito dire”,
qualcosa che dobbiamo accettare contando solo sulla sua parola, bensì
è davanti a noi nel suo originale turbamento»48.
Elemento caratteristico di questo romanzo, ambientato tra le isole
di S. Lazzaro e di S. Servilio, è quindi la malinconia. La stessa Vene-
zia è descritta come «una città che, simile ad una immensa flotta, vive

46
La voce del narratore posta in corsivo acquista il risalto di una didascalia
interna al racconto scenico. Anche in Mele ritroviamo alcuni tratti formali
tipici dei testi teatrali, che, nella fase di transizione del romanzo europeo,
sono stati recuperati per avvicinare il lettore all’azione descritta, offrendogli
il ruolo dello spettatore a teatro. Per qualche esempio di tale tecnica rinvio
alla lettura di D. DEFOE, Lady Roxana. L’amante fortunata, trad. it. di G.
Biagi, Milano, Rizzoli 1993, pp. 128-30 e di G. CASANOVA, Il duello ovvero
saggio della vita di G. C. veneziano, in ID., Romanzi italiani, a cura di P.
Archi, Firenze, Sansoni 1990, pp. 120-23.
47
Ha scritto G. GENETTE (Figure III. Discorso del racconto, trad. it. di L.
Zecchi, Torino, Einaudi 1986, p. 159) che «l’opposizione di movimento fra
scena particolareggiata e racconto sommario rinviava sempre a una
opposizione di contenuto fra drammatico e non drammatico dove i tempi forti
dell’azione coincidevano con i momenti più intensi, mentre i tempi deboli
venivano riassunti a grandi linee». Ha affermato Luca Serianni: «Il discorso
indiretto libero è ancora di là da venire […] ma vanno in quella direzione i
puntini sospensivi, che simulano l’incompiutezza del parlato». Cfr. L.
SERIANNI, La prosa, in L. SERIANNI - P. TRIFONE (a cura di), Storia della
lingua italiana. I. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi 1993, pp. 544-
45. Per un esempio di sommario, si veda C. MELE, Storia di un nuovo pazzo,
cit., p. 57: «Caro signore, […] principali sventure».
48
P. LUBBOCK, Il mestiere della narrativa, trad. it. di E. Chierici, Firenze,
Sansoni 1984, p. 102.

105
nel mare, e dove i cittadini albergano come rinchiusi in un gran
convento»49. In questa breve e suggestiva descrizione, a completare un
quadro di malinconia claustrale50 ritroviamo motivi che Starobinski ha
definito malinconici per eccellenza. Il paragone tra Venezia ed una
flotta richiama l’elemento malinconico della nave, alla quale Staro-
binski associa l’idea della pesantezza e del blocco del movimento51.
Che cos’è infatti Venezia se non un blocco immobile sulle acque? In
tutto il romanzo ricorrono le voci nave, navicella, naufragare, na-
viganti, com’è frequente la voce malinconia (o melanconia) e gli
aggettivi che ne derivano52. Nell’opera, in verità, manca un terzo

49
C. MELE, Storia di un nuovo pazzo, cit., p. 11. A parlare è la voce narrante,
che assume una prospettiva «malinconica». Come ha scritto G. BACHELARD
(La poetica della rêverie, trad. it. di G. Silvestri Stevan, Bari, Dedalo 1972,
p. 16): “In prigione! Ma chi non è in prigione nelle ore di malinconia?». La
malinconia della città lagunare italiana, come quella della belga Bruges (CH.
BAUDELAIRE, La Belgique déshabillée, 1864; G. RODENBACH, Bruges-la-
Morte, 1892), ha ispirato innumerevoli scrittori; si pensi soltanto ad O.
PIRMEZ, Jours de solitude (1883), a G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco (1900) ed a
TH. MANN, La morte a Venezia (1912). Fernand Braudel ha sottolineato che
“Sono stati i romantici a voler ritrovare a Venezia l’immagine del male di
vivere, del languore, della decrepitezza, del piacere che si prova a «sentirsi
morire con tutto che ci muore intorno». Queste parole di Chateaubriand
avrebbero potuto essere fatte proprie da Barrès, che a Venezia si nutre del-
l’«atmosfera malata» della laguna, della sua «struggente malinconia», «del
silenzio e del vento della morte», del «sublime della desolazione». Cfr. F.
BRAUDEL, Venezia, in ID., Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le
tradizioni, trad. it., Milano, Bompiani 1996, pp. 258-59. Al tema della
clausura possiamo aggiungere quello dell’insularità, che delinea una
separazione psicologica, laddove l’isola potrebbe simboleggiare «l’immagine
mitica della donna, della vergine, della madre». Cfr. G. DURAND, Le strutture
antropologiche dell’immaginario, trad. it. di E. Catalano, Bari, Dedalo 1972,
p. 241.
50
J. STAROBINSKI, La malinconia allo specchio, cit., pp. 12-19.
51
Ivi, p. 30. Nel libro dello studioso ginevrino sono inserite delle
illustrazioni, tra le quali (p. 31) Il Naufragio di Caspar David Friedrich
(Amburgo, Kunstalle), che ritrae una nave bloccata tra i ghiacci, espressione
metaforica della pesantezza e dell’assenza del movimento da cui è atta-
nagliato il malinconico.
52
Cfr. le seguenti occorrenze: Nave (p. 20), navicella (p. 29), naufragio (p.
35), naviganti (p. 71), melanconia (pp. 25 e 74), melanconica/che (pp. 40 e
8), sentimento melanconico (p. 51).

106
elemento, lo specchio, sostituito dalla laguna, «grande specchio
naturale del mare».
Accanto all’ambientazione malinconica, l’opposizione tra i contra-
ri (giorno/notte, razionalità/pazzia, vita laica/vita monastica, uomo /
bestia), lo sdoppiamento ad essa correlato ed il tema della frontiera
incarnato da Venezia53 sembrano, dunque, i temi fondamentali di
un romanzo sconosciuto, ma che potrebbe, forse non a torto, essere an-
noverato tra gli esperimenti narrativi pubblicati a Napoli nella prima
metà del XIX secolo.

53
Sulla storia di Venezia baluardo tra Occidente ed Oriente, sul suo destino
bifronte, diviso tra terra e mare, si veda A. TENENTI, Venezia e il senso del
mare. Storia di un prisma culturale dal XII al XVIII secolo, Milano, Guerini
1999. Nell’Ottocento il vicino Oriente fu luogo di grande fascinazione per gli
intellettuali. R. CIAMPINI (Gian Pietro Vieusseux. I suoi viaggi, i suoi
giornali, i suoi amici, Torino, Einaudi 1953) ricorda che il Vieusseux aveva
visitato il vicino Oriente e che aveva tenuto un diario di viaggio nel quale per
i due mesi trascorsi a Costantinopoli non annotò osservazioni o notizie ma
solo lunghi elenchi di nomi. Ammirò non soltanto l’aspetto esterno dei
Turchi, la nobiltà e la gravità del portamento, la loro aria di dignità, ma anche
i costumi e le consuetudini di vita. Nel II capitolo, Da Livorno a Pietroburgo
e a Costantinopoli, Ciampini scrive: «Ma il più lungo e il più importante dei
suoi viaggi, quello durante il quale vide il maggior numero di paesi, strinse
relazioni più vaste, si incuriosì maggiormente dei vari costumi degli uomini,
fu quello che fece, per ragioni commerciali dal 1814 al 1817, e lo portò
dall’Italia in tutti o quasi tutti i paesi d’Europa, e, attraverso la Russia, fino ai
confini dell’Asia». Erano quelli gli anni in cui cominciarono a stabilirsi
rapporti commerciali costanti tra il Mar Nero e l’Europa occidentale. Dopo il
trattato di Kaïnargy (luglio 1774) si era aperta la strada ai traffici regolari
attraverso il Mar Nero e il Mar d’Azov; il grano ed altri prodotti dei territori
orientali, attraverso la via di Costantinopoli, incominciarono ad affluire
regolarmente nel Mediterraneo. Del testo di M. ANTHOINE, Essai historique
sur le commerce et la navigation de la Mer Noire – la cui prima edizione è
del 1805 e la seconda del 1820 – si discusse ampiamente nell’«Antologia».
Nel saggio Degli odierni uficii (cit., p. 113) il Mele aveva citato i seguenti
testi: D’OHSSON, Tableau général de l’empire Ottoman, Tableau de l’Orient
e OLIVIER ET SAVARY, Ouvrages sur l’empire Ottoman.

107
PIERO PIERI

Il fantastico di Tarchetti fra realismo autobiografico e verismo


stilistico

Igino Ugo Tarchetti compone fra il ’67 e il ’68 cinque racconti


fantastici per saggiare con un diverso procedimento formale obliqui
materiali di un immaginario non ancora sufficientemente approfondito
o non ancora sufficientemente sfiorato dalle precedenti esperienze1. Il
sistema sempre aperto della sua sperimentazione letteraria, variamente
ricco di contenuti bizzarri e ironici, anarchici e paradossali, umoristici
e parodici, è ora mosso dalla volontà di trasferirsi sul terreno del
modo fantastico per introdurre nelle plumbee nebbie lombarde una
voce narrante, come nei racconti I fatali e La lettera U, dalla diegesi
ricca di stratagemmi illusionistici e di volizioni stilistiche2. Che trag-
gono alimento dalla singolare scommessa anti-romantica di un autore
che scientemente coniuga la recente tradizione fantastica (Hoffmann,
Poe, Nodier, Nerval, Gautier) con gli strumenti offerti da un'ete-
rodossa propedeutica scientifica quanto mai sospetta di tentazioni
irrazionali. La propedeutica dello scrittore scienziato intende rinvenire
fra le pieghe del reale entità ignote quanto presentite, intende proporre
elaborate ipotesi la cui mancanza di razionalità è compensata dalla

1
Senza per questo dimenticare che, come ricorda V. Moretti, «Prima della
pubblicazione dei Racconti fantastici, tarchettiani è arduo trovare nella
letteratura italiana dell’Ottocento quei temi definiti dal Todorov tipici del
genere “fantastique”: la metamorfosi, il pandeterminismo, la doppia per-
sonalità, il reciproco passaggio dalla materia allo spirito, le mistioni di tempi
e di spazi lontani, le perversioni sessuali fino al vampirismo e alla ne-
crofilia». V. MORETTI, Igino Ugo Tarchetti e il racconto fantastico, in
AA.VV., Igino Ugo Tarchetti e la Scapigliatura. Atti del convegno (S.
Salvatore Monferrato, 1-3 ottobre 1976) Comune di S. Salvatore Monferrato
e Cassa di Risparmio di Alessandria, s.d. p. 103.
2
Quando la stessa voce non mostri di prediligere lemmi di erudizione
esoterica, cara all’ultimo romanticismo, come la metempsicosi (Le leggende
del castello nero) e lo spiritismo (Un osso di morto e Uno spirito in un
lampone), che se pure movimentano normalizzate soluzioni narrative, sono
tuttavia importanti per valutare la posizione del letterato nei confronti della
tradizione fantastica ottocentesca.

109
funzione di conoscenza agilmente ottemperata dal racconto, come
avverte l’introduzione ai Fatali.

Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra


fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha analizzato
la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi tutte note:
ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e davanti ai rapporti
che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha
trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato. Poiché
nell’ordine dei fatti noi possiamo ammettere delle tesi generali, delle verità
complesse; non nell’ordine delle idee3.

Il mondo del finito appare sufficientemente investigato e la nuova


scienza positivista quasi ogni giorno esprime nuove convinzioni o
celebra nuove conquiste. Ma a queste certezze s’oppone un sostrato
pulsante d'entità psichiche straniere al reale, da cogliere nella loro
oscurata essenza per carpirne il mistero, perché l’esistente non è solo
quello che appare ai sensi, ma è anche quello che promana dai recessi
del sovrasensibile.
La concezione della letteratura come strumento d'epifanie
scientifiche comporta un’idea di racconto fantastico suggestiva sul
piano della materia analizzata quanto espressiva di una creatività che
utilizza in altro modo i repertori del fantastico ottocentesco.
Condividiamo la tesi di Bosco, che mette i Racconti fantastici
dentro la forma chiusa di un caso «clinico», ogni volta illustrante la
natura di una particolare malattia dello spirito. E’ l’autore stesso che
orienta la lettura in questa direzione con parti introduttive o con frasi
conclusive arruolate a mettere in risalto gli scopi scientifici prefissi
del testo4. E a nostra volta ribadiamo che proprio l’esigenza di con-
3
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici, a. c. di Piero Pieri e Nunzia
D’Antuono, Bologna, Millennium 2003, p.3 [Da ora in poi citato come I. U.
TARCHETTI, Racconti fantastici 2003].
4
Ci riferiamo alla tesi di U. BOSCO contenuta nel saggio Il Tarchetti e i suoi
“Racconti fantastici”, in Realismo romantico, Caltanisetta-Roma, Salvatore
Sciascia Editore 1959, pp. 129-130. Tesi ripresa da E. GHIDETTI nel suo
Introduzione a I.U. TARCHETTI, Tutte le opere, vol. I, Bologna, Cappelli
1965, p. 41. Ma dopo Bosco ne fanno cenno in vario modo altri attrezzati
studiosi: G. Mariani ricorda dello scrittore «quel positivismo scientifico al
quale egli s’era decisamente accostato e che lo spingeva a tradurre in termini
di analisi medica le conseguenze di quello sdoppiamento della personalità
che Hoffmann gli proponeva in chiave puramente fantastica”. G. MARIANI,

110
notare ogni racconto con un teorema investigativo più che deprimere
il gesto creativo premia il fantastico tarchettiano con testi ricchi
d’innovazioni formali sconosciute alla tradizione del fantastico euro-
peo.
Il primo testo della raccolta, I fatali, è preceduto da un’intro-
duzione nella quale una neutrale voce narrante discetta sulle sinistre
influenze emanate da persone dotate di tali speciali poteri. Alcune
affermazioni, presenti fra le righe di un testo fornito di competenze
psicologiche, antropologiche e storiche, meritano una prima con-
siderazione. La partitura scientifica e il tono divulgativo non na-
scondono una materia pulsante di pensieri rispecchianti le profonde
convinzioni dell’autore. Che non a caso menziona indirettamente le
sue esperienze di letterato, sia quando parla di jettatura, alludendo in-
direttamente al racconto di Gautier Iettatura, (per gli studiosi indu-
bitabile testo ispiratore dei Fatali), sia quando ricorda l’amato Hof-
fmann, il principe del racconto fantastico europeo5. Così come prende
smalto la funzione dell’autore com'estensore problematico di fatti
difficilmente comprensibili.

Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto
nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe
leggi d’influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare intieramente
il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e inscienti dinanzi alle
cause6.

Il racconto come storia delle sensazioni: Igino Ugo Tarchetti, in Storia della
Scapigliatura, Caltanisetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore 1967, p. 424. In
modo più problematico F. Bettini ricorda che la scienza in Tarchetti «non si
presenta mai, secondo i canoni positivistici, come uno strumento “neutrale”,
ma si carica, invece, di una virtù provocatoria: serve a ribaltare i principi
acquisiti, ad introdurre il dubbio in ogni atto dell’esperienza e della sua
rielaborazione interpretativa…”, cfr. F. BETTINI, Le componenti “avan-
guardistiche” della narrativa di Tarchetti: tra novità ideologica e
sperimentazione linguistica, in AA.VV, Igino Ugo Tarchetti e la Sca-
pigliatura. cit. p. 244.
5
«Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è
infinito: lo è del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi
stessi, Hoffmann, buono e affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo
pensiero”. I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, cit., p. 5.
6
Ivi, p.3.

111
Poiché l’introduzione nella prima edizione Treves del 1869
presenta una barra di separazione7, ecco che la suddivisione affida al-
l’introduzione una chiara funzione paratestuale. L’introduzione, poi-
ché è conforme allo stile della prefazione, è impegnata a spiegare e a
valorizzare ciò che il testo s’accinge a raccontare8.
Il dato non va trascurato: il primo racconto presente nella raccolta
comincia con uno scritto prefatorio; così come non va trascurato che i
racconti del soprannaturale della tradizione ottocentesca non hanno
mai goduto di larghe prefazioni riflessive del tema sviluppato.
Quale valore dare ad una scelta formale contraria ai codici
narrativi del racconto fantastico? Ed ancora. La funzione paratestuale
dell’introduzione si limita a chiarire gli aspetti dell’immaginazione
individuale e collettiva succube d’enigmatiche forze o attraverso essa
l’autore provvede a ripensare diversamente la funzione di conoscenza
del fantastico moderno?
Una prima risposta possiamo tentarla notando che l’introduzione-
prefazione ai Fatali prepara il lettore alla comprensione dei nessi
profondi che organizzano gli aspetti enigmatici del racconto, va-
lendosi per questo di concetti e argomenti scritti con una prosa
scientifica avente ambizioni divulgative.
Conviene allora chiedersi: perché Tarchetti abilita il paratesto ad
una funzione programmatica della quale il testo diventa poi
l’illustrazione paradigmatica?
E’ qui utile concederci una digressione: la funzione programmatica
s’era già percepita nel Riccardo Waitzen, stampato nella Strenna
italiana pel 18679, dove una parte introduttiva mescola abilmente il
mesmerismo con lo «spiritismo», attraverso il quale il mondo sen-
sibile è messo in contatto con quello sovrasensibile. Così l’autore
orienta l’immaginazione narrativa sull’asse di un concetto scientifico
(o parascientifico) per dotare il testo di una doppia valenza: la
presenza di una scienza di confine come modello per sondare i
processi misteriosi che muovono l’uomo a comportamenti impre-
vedibili.

7
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici, Milano, Treves 1869, p. 10.
8
Sul ruolo paratestuale della prefazione Cfr. G. GENETTE, Soglie. I dintorni
del testo, Torino, Einaudi 1989, pp. 158-289.
9
Racconto poi confluito nella raccolta Amori per l’arte, stampato dopo la
morte dell’autore da Treves nel 1869.

112
Nel Riccardo Waitzen l’introduzione, tuttavia, non supplisce fino
in fondo al proprio ruolo paratestuale, per il fatto che il pur ampio
preambolo teorico accetta al suo interno squarci narrativi e dialoghi
fra personaggi già funzionali alla focalizzazione della vicenda. E
questo accade nonostante l’intenzione di conferire alla prima parte
una precisa funzione paratestuale, segnalata oltremodo con la frase
d’epilogo: «Ma veniamo al nostro racconto»; cui segue un’altrettanto
indicativa barra di spazio.
Solo con I fatali diventa formalmente netta la funzione meta-
narrativa della prefazione, impegnata a riflettere sull’esistenza di “due
mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo della ma-
teria”, con dettagliate riflessioni dedotte dalla valutazione della cop-
pia contrastiva naturale-sovrannaturale.
Abbiamo insistito sulla novità del paratesto perché proprio a
partire da essa divengono ben deducibili alcune scelte formali presenti
nella diegesi. Scelte che fino ad oggi sono state segnalate dagli studi
sull’autore senza osservare in loro un preciso disegno narrativo. Men-
tre a nostro avviso tali innovazioni formali giocano un ruolo ben strut-
turato all’interno di un progetto letterario che sapientemente allinea la
propria strategia ideologica con una simmetrica strategia diegetica.
Di quest’ultima valutiamo un primo aspetto: l’introduzione in-
duce a credere che l’enunciato oggettivo della voce narrante sia
Tarchetti, per cui la ricezione che il lettore ha del soggetto, se da un
lato intuisce la presenza dello scapigliato, da altro lato è convinta che
la prima persona si limiterà, come dichiarato, a «raccontare i fatti»,
secondo un modo strettamente realista, come s’era mostrata con la
discussione documentata del problema delle influenze sinistre10.
Tale modo neutrale non è messa in discussione anche quando in
epilogo, il ruolo divulgativo dell’autore si rappresenta per la prima
volta con la prima persona.

10
Se è vero che l’entrata in scena dell’Io può indurre la ricezione ad
aspettarsi un mutamento di ruoli narrativi, è altrettanto vero che l’Io che
appare in chiusura non autorizza il lettore a vedere nel narratore etero-
diegetico lo scienziato che sta per appendere il camice e per entrare nella
veste del narratore intradiegetico. Il segnale di un cambiamento di tono non
porta a credere che presto avverrà una variazione all’interno della diegesi.

113
Io non voglio dimostrare né l’assurdo, né la verità. Credo che nessuno lo
possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che hanno
rapporto con questa superstizione11.

Fino a questo punto siamo dentro alla funzione di verità di un


narratore impegnato a dirimere i temi trattati dal racconto. Ma ecco
che l’Io, apparso solo in epilogo al paratesto, si ripresenta ora ad ini-
zio del racconto non più come voce narrante esterna all’azione bensì
come la prima persona di un narratore che non sembra per nulla
estraneo alla storia che sta per raccontare.
L’Io eterodiegetico dell’introduzione metanarrativa adesso diventa
un personaggio intradiegetico con funzioni narrative.
Inoltre, e questo è l’aspetto più innovativo dal punto di vista della
diegesi, il narratore-personaggio vuole essere riconosciuto dal lettore
come l’autore Igino Ugo Tarchetti.

Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì
grasso, e il corso delle maschere era animatissimo. Devo però fare una di-
stinzione – animatissimo di spettatori, non di maschere. Ché se la taccia di
fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte, potesse applicarsi
anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne avrebbe indubbiamente la
sua parte12.

L’incipit segnala subito la presenza di Tarchetti, nel punto in cui


allude alla fama usurpata dei letterati, nei modi cari al polemismo
dello scapigliato verso gli autori alla moda. Perché proprio di «fame
usurpate» Tarchetti aveva parlato nel suo Idee minime sul romanzo
(pubblicato nella «Rivista Minima» il 31 ottobre 1865), per biasimare
la fortuna carpita con «mezzi svariatissimi» dagli scrittori in cerca di
«fama e ammirazione»13.
Anche la querelle sulla decadenza del carnevale di Milano, ripreso
in quell’anno da altre Gazzette14, aveva visto l’intervento di Tarchetti
11
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, cit., p.5.
12
Ibidem.
13
I. U. TARCHETTI, Idee minime sul romanzo, in Tutte le opere, cit., p. 527.
E’ altresì utile ricordare che Imbriani pubblica nel ’77 le sue stroncature
intitolandole Fame usurpate. Le possibili influenze che portarono Imbriani a
scegliere questo titolo vanno ricondotte al polemismo critico-letterario del
tempo, cui Tarchetti era stato uno degli esponenti più intransigenti.
14
Il 13 febbraio 1868 su «Il Gazzettino Rosa» un articolo Il carnovale se ne
va!, scritto da un anonimo, così recita: «Il tisico carnevale del sessantotto è

114
su «L’emporio pittoresco», il 16-22 febbraio, nella sua sesta Con-
versazioni: «Siamo all’agonia del carnevale, non proprio all’agonia
ma alla crisi. Sarà un’agonia splendida, degna di una gran vita. […]
Certo è però che un paese il quale va rinunciando a poco a poco a’
suoi divertimenti, alle sue feste, alle tradizioni popolari molto lu-
singhiere che ha conservato a questo riguardo, dà indizio di volgersi
ad un indirizzo più serio, più morale, più elevato. Ce ne lamentiamo
come uomini, ce ne congratuliamo come moralisti». Al carnevale di
Milano era mancata la creazione di una Società che a Torino l’anno
prima aveva contribuito alla riuscita della festa. («Coloro che l’hanno
vista lo scorso anno non se ne saranno dimenticati. Fu senza dubbio la
festa più bella, più elegante, soprattutto più utile che si sia data in
onore del carnevale. Ci congratuliamo con la Società di Torino»).
Mancando il sostegno finanziario di un gruppo impegnato nel-
l’organizzazione, era venuta meno anche la partecipazione della
popolazione; fatto giudicato nei Fatali come segno di crisi nei
confronti della tradizione. Non efficacemente aiutati i cittadini ave-
vano cessato di perpetuare l’antico spirito del carnevale meneghino.
Nelle Conversazioni questa latitanza aveva fatto ironicamente piacere
al moralista, ma al contrario era seriamente dispiaciuta all’uomo che
avrebbe «applaudito di cuore» una festa preparata ad arte com’era
accaduto lo scorso anno a Torino.
Con marcati rimandi al proprio lavoro di giornalista un autore
storicamente riconoscibile si presenta al lettore dei Fatali fin dalle
prime battute introduttive. Badando a rimettere in scena il proprio po-
lemismo, Tarchetti dialoga con l’utente memore dei suoi interventi
per convincerlo che la stessa penna sta ora scrivendo su un fatto
fantastico ambientato in una Milano fitta d’indicazioni urbanistiche.
Ciò realizzando cambia il quadro complessivo della diegesi.
L’inattesa trasformazione dell’autore eterodiegetico a narratore-autore
omoautodiegetico invita il lettore storico ad una diversa ricezione del
testo: l’induce a credere che il racconto origini da una reale esperienza
toccata all’autore-giornalista, entrato suo malgrado nel mondo delle
relazioni sovrannaturali, La voce, che nell’introduzione aveva rico-
perto un ruolo espositivo disgiunto da ogni aperta connessione tra il
soggetto dell’enunciazione (chi narra) e il soggetto dell’enunciato (la

all’agonia; egli si trascina zoppicante per le vie lungo la notte…». Cfr. F.


CONTORBIA, Tarchetti e “l’Emporio pittoresco”, in AA.VV. Igino Ugo
Tarchetti e la Scapigliatura, cit., p. 287.

115
persona narrata)15, quando esordisce come personaggio-autore obbliga
a percepire i fatti non più come il felice risultato letterario della
mediazione fantastica, ma come il frutto di un’allarmante realtà.
A questo punto il lettore è formalmente costretto a porsi la
seguente domanda. Poiché chi scrive è un Tarchetti implicato nella
vicenda ciò che leggo è realmente accaduto?
Porsi questa domanda porta a conseguenze importanti sul piano
della lettura. L’inattesa identificazione di autore reale e narratore
omoautodiegetico, infatti, sconsacra il «patto» col proprio lettore
stabilito dal modo fantastico ottocentesco. Per il fatto che l’autore
“storico” s’è sempre dichiarato estraneo alla vicenda. Il narratore, sia
con funzioni eterodiegetiche, sia con funzioni omodiegetiche, proce-
dendo all’esposizione degli eventi sovrannaturali mai induce il lettore
a credere che l’autore reale sia anche uno dei protagonisti.
Tarchetti, invece, presenta il racconto come un’esperienza vissuta
in prima persona.
Il passaggio dell’Io eterodiegetico, con ambizioni impersonali, al-
l’Io omoautodiegetico si costituisce come la prima sostanziale novità
formale introdotta nei Fatali.
Nei Fatali la tela della trama si stacca così dalla cornice
dell’irreale fantastico per ambire a documento di situazioni reali te-
stimoniate dall’autore storico. Garantisce la verità dei fatti un Io che
lega il “personaggio” che narra con l’autore che focalizza il punto di
vista sorretto dalla propria memoria autobiografica.
Se la novità di tal effetto di realtà destruttura un consolidato patto
narrativo, va anche notato che il testo più ricco di effrazioni nei
confronti del codice fantastico non a caso apre la raccolta tar-
chettiana.
Attraverso il principio veridico del racconto autobiografico
Tarchetti tenta una rivoluzione copernicana all’interno del fantastico
ottocentesco: spostarlo sul terreno della narrazione realista; il più
idoneo per fare del modo fantastico uno strumento scientifico di
analisi scrutante con occhio oggettivo gli sconosciuti principi imma-
teriali attivi fra le segrete pieghe del mondo.
Così la realtà naturale non è disgiunta da quella soprannaturale; va
solo conosciuta attraverso la scienza della letteratura, che come nuova

15
Il tono divulgativo eterodiegetico non viene certo inficiato da una voce che
in epilogo dice Io; nell’introduzione, come abbiamo già ricordato, la prima
persona non s’annuncia come personaggio partecipe degli eventi.

116
scienza diventa l’interfaccia dialogante fra la “materia” del conosciuto
e lo “spirito” dell’ignoto.
L’opposizione fra naturale e soprannaturale non porta ad uno
scontro fra irriducibili forze avverse, come accade nel racconto
fantastico tradizionale16; tale opposizione non è irriducibile e
drammatica se investigata con lo sguardo problematico dello scien-
ziato dell’occulto. E poiché l’autore già nella prefazione ai Fatali
premette la richiesta di tale sguardo come superamento di barriere
inconsce e di riti collettivi d’interdizione, l’esigenza di fare del modo
fantastico una scienza realista della conoscenza soprannaturale spiega
perché il plot rifiuti strategie illusionistiche potenziate da arcani
eventi.
Vedendo diversamente il rapporto naturale-sovrannaturale viene
meno l’esigenza di attrarre la scena del racconto nell’orbita del colpo
di scena o di un invasivo terrore confezionato ad arte per indurre
gradualmente il lettore ad un senso di ansietà.
Il mancato appuntamento di Tarchetti con la forma-racconto del
fantastico ottocentesco è stata sovente giudicata negativamente. Per
Ghidetti i Fatali (e, non a caso, l’altro racconto a quello formalmente
più vicino, Le leggende del castello nero), non hanno saputo ricreare
l’aura di mistero e le giuste atmosfere proprie del racconto fantastico.
Ma se conveniamo col fatto che Tarchetti non ambisce a costruire ad
arte una drammatica dell’ignoto ma la sua rivoluzionata grammatica
scientifica, possiamo allora leggere in positivo quel che a Ghidetti
appare negativo, nel punto in cui osserva che «non c’è nel Tarchetti
un procedimento narrativo che, come nel caso di Poe o del-
l’Hoffmann, risolva l’interna tensione nella conclusione tanto più
paurosa, quanto più inaspettata ed abnorme, ma una preparazione
graduale alla finale catastrofe che s’intuisce fin dall’inizio: perciò la
direzione che intraprende il narratore è obbligata e non può dar luogo
alla creazione di quell’atmosfera di mistero che circonda il fatto
anormale»17.
16
Come scrive T. Todorov, «Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il
quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte ad un avvenimento
apparentemente soprannaturale», T. TODOROV La letteratura fantastica,
Garzanti, Milano 2000, p. 28.
17
Effettuate queste considerazioni, Ghidetti si concede il ruolo di curatore
fallimentare del Tarchetti fantastico: «I limiti dell’arte tarchettiana, come
l’incapacità di creare atmosfere di mistero o a destare sensazioni di
“suspense”, secondo i canoni dei Tales di E. A. Poe, sono rilevabili meglio

117
Non solo Ghidetti svaluta il Tarchetti fantastico18; come se nella
critica pur favorevole all’opera dello scapigliato suonasse in auto-
matico il campanello dell’interdizione; vuoi per il disappunto causato
dal mancato aggancio con la tradizione ottocentesca, vuoi per
l’incapacità della stessa di guardare alle nuove strategie formali del
testo con strumenti narratologici; importanti per una comprensione
che non si limiti ad eleggere a norma un passato di testi pur af-
fascinanti; utili, infine, per valutare lo stile del racconto tarchettiano
alla luce di una cultura letteraria ideologicamente diversa da quella di
Hoffmann e di Poe19.

negli altri due racconti, Le leggende del castello nero ed I fatali, dove l’ironia
cede il posto alla volontà di determinare e rappresentare oggettivamente
situazioni la cui arcana verità sfugge allo stesso narratore», E. GHIDETTI,
Introduzione, vol. I., cit. p. 45
18
Cfr. E. GHIDETTI, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria
scientifica Editrice, 1968, p. 214. Da questo punto di vista il capofila
autorevole è U. Bosco quando per Tarchetti si chiede: «dov’è in lui la
lucidità, incalzante sino all’angoscia, del Poe, il gusto – lasciamo andare la
potenza – dell’evocazione fantastica dell’Hoffmann?». U. BOSCO, Il Tar-
chetti e i suoi “Racconti fantastici”, cit., p. 128. Segue il Mariani, cui va
tuttavia riconosciuto il merito dell’ampia disanima dei prestiti tarchettiani dal
racconto fantastico americano ed europeo: «Quanto al tema dell’incubo
osserveremo che Tarchetti in molti casi si limita a ricalcare certe situazioni
alla Poe cogliendone soltanto l’aspetto esterno; mai, nello scrittore italiano,
troveremo realizzato quel clima di “irragionevole incubo” che è il segreto
della pagina di Poe». G. MARIANI, Il racconto come storia delle sensazioni:
Igino Ugo Tarchetti, cit. p. 407. Senza più atteggiamenti di chiusura Ceserani
analizza I fatali valutando il racconto col modello di Todorov: «nei Fatali
manca, tanto per cominciare, la condizione di fondo, quella cioè dell’e-
sitazione tra fantasia e realtà: se da una parte infatti il racconto si chiude
senza soluzioni e sembra proiettare l’incertezza sin oltre i limiti finali della
narrazione, dall’altra parte esso si apre con un’introduzione teorizzatrice, che
scioglie ancor prima che sorga l’atmosfera di suspence e incertezza. Ma il
modello del Todorov serve già a questo: a stabilire quanto il fantastico in
Tarchetti sia poco ortodosso, a precisare come questo filone narrativo si
congiunga e mescoli in lui con altri filoni, creando inevitabilmente dei
racconti di genere “misto”». R. CESERANI, A proposito dell’interpretazione
psicanalitica di un racconto fantastico di I. U. Tarchetti, in AA.VV., Studi in
memoria di L. Russo, Pisa, Nistri-Lischi 1974, pp. 261-262.
19
Converrà ricordare che G. CONTINI, nel suo Introduzione ai narratori
della Scapigliatura piemontese, in Varianti e altra linguistica, Torino,
Einaudi 1970, quando pur di passaggio cita Tarchetti menziona solo il

118
Dopotutto, sarebbe stata possibile la creazione di misteriose atmo-
sfere e di sconvolgenti colpi di scena in un racconto che simula il
racconto autobiografico?20
Allo stesso tempo, l’analisi dello studioso deve orientarsi verso
l’Hoffmann e il Poe disattesi o verso una misura del fantastico che fa
suo il principio della conoscenza scientifica dedotta per via letteraria?
E, come abbiamo già osservato, l’esibita presenza dell’autore
storico non è forse una maniera d’interrogarsi sull’ignoto attraverso la
forma realista della sua scienza letteraria? Quando l’autore descrive la
realtà inquietante di personaggi soggiacenti a sinistre influenze, attra-
verso la simulazione autobiografica21, nel testo fantastico è infatti
introdotto il principio formale della scrittura veridica.
L’autobiografismo come metodo per rinnovare l’istituto del
fantastico non si ripresenta negli altri racconti. La presenza del per-
sonaggio-autore Tarchetti non compare più.
L’effetto di realtà si fonda su convenzioni più collaudate, come il
lascito di memorie (Le leggende del castello nero), la confessione
autografa (La lettera U), la narrazione omodiegetica del narratore-
protagonista (Un osso di morto), un narratore estraneo alla vicenda

narratore fantastico con parole tutt’altro che svalutanti: «Indagatore di


nevrosi, elaboratore di Racconti fantastici della classe ossessiva di Hof-
fmann…» p. 538. Al punto che poi lo delega a positivo maestro indigeno di
testi sfiorati dalla cifra fantastica, come è il caso del Faldella di Male
dell’arte e di Gentilina.
20
Questa percepita simulazione non disinnesca forse l’ordigno del fantastico
da ogni sua complementare stilistica? A N. Bonifazi non sfugge quest’aspetto
quando scrive che «Tarchetti ridimensiona Hoffmann in chiave sentimentale,
intimista, e secondo una meditazione autobiografica e personale e quasi dia-
ristica». N. BONIFAZI, Teoria del fantastico e il racconto fantastico in
Italia, Ravenna, Longo 1982, p. 87.
21
Una puntualizzazione questa che si rende necessaria perché nei Fatali il
«patto autobiografico» fra autore e lettore non è sancito nei modi teorizzati da
Lejeune: Cfr. Ph. LEJEUNE, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino
1986, pp. 11-50. Tarchetti si simula come autore storico e personaggio
coinvolto nella storia, ma non si propone come l’estensore di memorie che
recano il proprio nome e chiamano col proprio nome il personaggio-
narratore. Anche se l’autore implicito presente nel racconto sottolinea un ben
riconoscibile autore storico, così, come la presenza dell’autore implicito è
decrittata da un lettore implicito che a sua volta vive in perfetta sintonia col
lettore storico.

119
che raccoglie le confidenze di un personaggio implicato (Uno spirito
in un lampone).
La scommessa realista del racconto giocato sul doppio registro
dell’autobiografismo e del fantastico non può essere più riproposta,
per non svalutare a trasgressione rituale quella già felice invenzione.
Sul piano dell’effetto di realtà sarebbe stato credibile un racconto
fantastico che torna in ambiente milanese con lo sguardo del gior-
nalista illustrante l’impoverimento del carnevale o il falso clima intel-
lettuale offerto dagli avventori del caffè Martini22 o la degradata pe-
riferia milanese23?
L’escamotage dell’autore storico implicato nella vicenda narrata
non sarebbe stato più verosimile per consegnare al lettore un altro
reportage dai territori del sovrannaturale24.
Chi insiste nell’idea peregrina che il racconto fantastico italiano è
stato un episodio minore quanto tardo apparso sulla scena europea,
non valuta appieno il contributo di Tarchetti. Cimentandosi con un
modo che oppone alla realtà i suoi invasivi incubi, l’autore consegna a
quel codice un unicum diegetico. Il migliore rappresentante della
Scapigliatura, infatti, interviene sulla tradizione del fantastico con
un’invenzione formale che in Italia non avrà emulatori25.

22
«Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini – quel convegno di artisti
che non lavorano, di cantanti che non cantano, di letterati che non scrivono, e
di eleganti che non hanno uno spicciolo... »
23
«Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiavano il
naviglio dalla parte occidentale della città…»
24
A meno che Tarchetti, ad arte, non avesse confezionato i racconti
all’interno di una cornice autobiografica presentata come sedimento letterario
di fatti realmente accaduti all’autore in più luoghi della penisola. Ma il
sistema della confessione autobiografica sarebbe apparso al lettore del tempo
un gioco illusivo che nuoceva alla credibilità “scientifica” richiesta dal
letterato, così come nuoceva al racconto fantastico, per il quale la realtà esiste
solo per essere posta davanti all’anti-sistema delle realtà soprannaturali.
25
Luciano Erba nota che Tarchetti «è estraneo alla tradizione italiana»; così
come egli non lascia di sé «consistenti tracce, men che meno durature».
Eppure Tarchetti «anticipa addirittura le posizioni di un Villiers de l’Isle-
Adam e di altri autori francesi di racconti fantastici e straordinari che, più
tardi del Nostro, si lasciano alle spalle Hoffmann e reagiscono al naturalismo
con le sue stesse armi». L. ERBA, I. U. Tarchetti: una “enclave” letteraria
del nostro Ottocento, in AA.VV., Igino Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, cit.,
pp. 375-376.

120
Le leggende del castello nero ripresenta un’introduzione
dispensatrice di riflessioni sui movimenti intimi e inesplicabili della
vita, quando essa si mostra col doppio volto della veglia e del sonno:

Ho detto sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del
sonno non sia una vita a parte, un’esistenza distaccata dall’esistenza della
veglia?26

Così come la naturale temporalità assoluta del presente (hic et


nunc) è sovente falcidiata da un malinteso ideale di felice vita futura:

Gli uomini hanno sempre rivolto lo sguardo all’avvenire, mai al passato;


al fine, mai al principio27.

Anziché fare forte in ogni istante il proprio oggi, confortato da un


passato ricco di chiaroveggenti bagliori, l’uomo della quotidianità si
lega mentalmente al non-spazio e al non-luogo di un tempo idealiz-
zato.
Osserviamo che la diegesi amministra le memorie del personaggio
principale e che il narratore omodiegetico e l’io del protagonista sono
una cosa sola. Si considera «io attore e vittima» chi avverte di essere
perseguitato da una lontana maledizione. Così, ad un tempo, il per-
sonaggio che dice io si presenta come il soggetto attivo delle proprie
memorie e come l’oggetto passivo dell’avverso destino28.
Nelle Leggende del castello nero l’io narrante e il soggetto del
discorso, così come si presentano nella parte introduttiva, mostrano la
coscienza morale di Tarchetti, nei modi usuali ad un autore che ha
abituato il suo lettore a riconoscerne il profilo29. Ma in questo caso il
narratore omodiegetico non prevede l’unione dell’autore reale con un
personaggio implicato nella vicenda. Il narratore è il surreale
protagonista, le sue memorie sono il testo del racconto30.

26
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p. 35.
27
Ibidem.
28
Anche nei Fatali il giovane barone portatore di sventura è un attore che
recita una parte scritta da incontrollabili realtà sinistre.
29
La presenza di quest’attiva coscienza morale è in modo marcato enunciata
con eguali accenti nella raccolta Amore nell’arte che, edita dopo la sua morte,
precede i Racconti fantastici.
30
La narrazione in prima persona è un procedimento formale cui ricorre
sovente il racconto fantastico, alla ricerca di un effetto di verità più volte

121
Eppure questa seconda introduzione, come nei Fatali ricca di
movimentate riflessioni dedotte dal pensiero tarchettiano, s’arric-
chisce di una sfumatura nervosa che non sfugge al lettore abituato ai
discorsi dell’autore31.
Pur mancando la barra di separazione, come abbiamo visto nei
Fatali, il ruolo paratestuale dell’introduzione neppure questa volta
viene a mancare32, per la cesura netta che corre fra colui che ini-
zialmente dice:

Non so se le mie memorie che io sto per scrivere possano avere interesse
per altri che per me – le scrivo ad ogni modo per me33.

e colui che infine conclude riproponendo il medesimo com-


plemento di avverbio:

Ad ogni modo, ecco il mio racconto34.


(i corsivi sono nostri)

Nei primi due racconti fantastici l’introduzione ha il compito


d’illustrare una materia ricca e movimentata, fatta d’idealità e con-
flitti, di convinzioni sinistre e di deduzioni tragiche, centrata su alcune
enigmatiche ombre presenti in modo misterioso nel fluire di una vita
assediata ed agitata.

simulato dal romanzo “realista” del Settecento. Su questo problema sto-


riografico rimandiamo ai testi-guida: I. WATT, Le origini del romanzo
borghese, Milano, Bompiani 1976 e J. ROUSSET, Forma e significato, To-
rino, Einaudi 1976.
31
Indurre il lettore a valutare quanto forte sia la presenza del pensiero di
Tarchetti all’interno del brano introduttivo porta ad una ricezione che
identifica l’autore storico col soggetto della speculazione.
32
La barra di separazione torna alla fine del racconto, nel punto in cui
compare la nota dell’editore: «L’autore di queste memorie, che fu mio amico
e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l’interno della
Germania, morì il venti gennaio 1850, come gli era stato presagito, assas-
sinato da una banda di zingani nelle gole così dette di Giessen presso
Freiburgo. Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho
pubblicate». I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici, Milano, Treves 1869, p.
45.
33
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p. 36.
34
Ibidem.

122
In Tarchetti l’avventura del fantastico moltiplica lo sguardo su un
mondo interpretato come sistema complesso e territorio inesplorato di
giaciture sepolcrali, di incubi metastorici e di orizzonti enigmatici.
Guardato anche come tempo effimero nel cui transeunte seno si
nascondono intervalli afflitti da inquietanti memorie, così come nel
futuro può annidarsi un destino tragico quanto inevitabile. L’uomo
della quotidianità è una fragile essenza quando le cose già l’av-
volgono con un’ombra funerea.
La prospettiva di un racconto centrato su presenze fantasmatiche,
duplicità dell’io, inversioni temporali, effrazioni della norma e sdop-
piamento della realtà allarga l’azione di una poetica del fantastico per
la quale il mondo reale non è sempre quello naturale, così come la vita
in parte è una sequenza di vuoti privi di un punto focale o è l’im-
provviso accadere di una grandezza soverchiante.
Se, poi, in alcuni racconti fantastici di Tarchetti s’avverte l’in-
fluenza dei narratori europei, non per questo vediamo l’imitatore.
Come abbiamo fin qui cercato di dimostrare, l’incontro col “fan-
tastico” è dinamizzato da un uso scientifico dello strumento letterario
che nei fatti ne rinnova la lettura. Più il Soggetto s’immerge nel
grembo oscuro della sua inquietante parte notturna, più egli riluce di
scaglie di verità strappate al sonno della ragione. In Tarchetti permane
forte la convinzione che il criterio di valore di un racconto fantastico
non è dato da un’astratta allucinazione di eventi dosati ad arte, ma da
un’incrinatura interna alla coscienza dell’uomo reale, del quale il
racconto è lo specchio fedele.
Si potrebbe a lungo riflettere sulla forte tensione speculativa che
nelle Leggende del castello nero lega la fisica del vivere quotidiano
con la metafisica notturna dell’essere.

Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell’esistere – e


nondimeno si vive. Questa coscienza dell’esistere può non essere circoscritta
esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono
essere in noi due vite – è sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di
tutte le epoche – l’una essenziale, continuata, imperitura forse; l’altra a pe-
riodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l’una è l’essenza l’altra
è la rivelazione, è la forma35.

La forma dell’essere si frantuma ogni qual volta s’incontra col


fluire della vita: la forma della vita non è imperitura continuazione,
35
Ibidem.

123
ma è ripetuto schianto, sedimento del caduco, sofferenza delle anti-
tesi36.
La percezione scientifica dell’io interiore annuncia l’esigenza
disciplinare della psicoanalisi; senza per questo dimenticare che
l’Ottocento letterario è ricco di testi che hanno sollecitato in vario
modo la nascita di quella disciplina. Ma senza neppure dimenticare
che il brano appena letto ripropone una sintesi dello sguardo gettato
da Hegel nella Fenomenologia dello spirito sulla «coscienza infelice»,
la quale, pur ambendo ad un esistere «intrasmutabile» si scontra
sempre con una disgregante quotidianità di forme fluide ed imperfette,
mobili e soggiacenti37.

Tarchetti è l’inventore di La lettera U 38, un racconto dall’accesa


invenzione sperimentale, per certe soluzioni stilistiche anticipatore
della non ancora nata categoria letteraria di verismo, come ci pre-
pariamo a dimostrare. Una categoria che anche in questo racconto si
mostra come unicum formale, già visto col realismo fantastico dei
Fatali. Siamo davanti ad un testo che, rispetto alla topica del racconto
fantastico, movimenta diversamente la diegesi. Di verismo fantastico
converrà alla fine parlare, procedendo con un’analisi che dia senso ad
un testo combinante le percezioni sovrarazionali del narratore omo-
diegetico con quelle di una scrittura imitante i disturbi di una psiche
succube delle proprie maniacali visioni.
Un alienato mentale scrive sulla propria ossessione per la vocale
U, vedendo nella sua forma grafica segni misteriosi di forze ag-
gressive, procurate angosce e lancinanti incubi da cui alla fine uscirà
con un’invocata e forse procurata morte.
L’autenticità del testo è testimoniata dal sottotitolo che fra
parentesi recita: Manoscritto d’un pazzo. Allo stesso modo, una strin-
ga d’epilogo, come era già accaduto per il racconto Le leggende del

36
In questo passo notiamo una singolare anticipazione pirandelliana; e,
all’inverso, un concetto che può avere influito sui Sei personaggi in cerca
d’autore (il testo teatrale di Pirandello che più deve al registro retorico-
formale del fantastico ottocentesco).
37
G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, Firenze, La Nuova Italia
1967, pp. 174-175.
38
L’analisi del racconto è stata condotta con la consueta acutezza da G.
VIAZZI, Lettura della “Lettera U”, in AA.VV, Igino Ugo Tarchetti e la
Scapigliatura, cit. Sullo studio di Viazzi torneremo in seguito.

124
castello nero, staccata dal resto del testo da una barra di separazione39,
riaccredita il contenuto veridico della confessione.

L’infelice che vergò queste linee, morì nel manicomio di Milano l’11
settembre 186540.

Il manoscritto del pazzo si presenta diviso in due parti: la prima


illustra il rapporto strettamente ossessivo con la lettera U; la seconda
parla più distesamente della sua vita. Partendo da uno stato paranoico
e solipsistico in autoriflessivo rapporto fra l’Io (colui che scrive) e il
Tu (i destinatari delle allucinate riflessioni), il soggetto del discorso si
cimenta in un’ardita analisi della lettera U deducendone segnali sim-
bolici negativi e lancinanti occulte grafie portatrici di universali in-
fluenze negative.
Nella prima parte del racconto l’acuita perspicacia visionaria
movimenta un linguaggio imitativo dell’accelerato stato delirante in
cui versa il pazzo. Più s’avvicina al centro del proprio incubo visivo,
più la confessione diventa dettagliata descrizione della lettera, analisi
minuziosa e accurata del segno grafico.

Quella linea che si curva e s’inforca – quelle due punte che vi guardano
immobili, che si guardano immobili – quelle due lineette che ne troncano
inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la
lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel
vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si
ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio…41

Per associazione simbolica la lettera U rappresenta l’idea di una


mortifera abissalità prodotta dall’ossessione di uno spazio vuoto
menzionato più volte.
Se il nero e il vuoto sono resi graficamente dalla U, la stessa
vocale identifica la parola morte all’interno dell’alfabeto. La sua pre-
senza affligge l’umanità, divenuta nei secoli oggetto inconsapevole di
trasmissione del male attraverso l’uso del linguaggio. Se ogni altra
vocale menzionata per la positività del “suono” rimanda ad una fe-
licità edenica o ad una visione solare e ottimistica delle cose, nella
vocale U pulsa intera una natura infera.

39
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici, Milano, Treves, 1869, p. 102.
40
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p.53.
41
Ivi, p. 47-48.

125
Sentite ora l’ U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordi più profondi,
ma pronunciatelo bene: U! uh!! Uhh!!! Uhhh!!!
Non rabbrividite? Non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito
della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente
e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di
tenebroso in quel suono?42

S’agita una menzione leopardiana nell’eco del dolore cosmico che


intride la memoria della natura nel suo millenario processo evolutivo;
e si palesa lo schiacciamento dell’Io su una nota portatrice d’incubi
notturni e d’angosce primordiali. Il dolore della Natura e quello del-
l’Uomo sono prodotti da una vocale la cui invasiva presenza avvelena
il movimento stesso del linguaggio.
La pazzia dell’estensore del manoscritto sembra, quindi, basarsi su
un’inespressa cognizione filosofica, alla quale il letterato dà voce
attraverso un soliloquio ricco d’intuitive consapevolezze43.
42
Ivi, p. 49.
43
Non a caso l’evocazione iterata della U!, che traslittera nell’espressione
fonematica della paura (U! uh!! Uhh!!! Uhhh!!!), più volte consacrata nelle
fiabe infantili e nei racconti del terrore, torna con accenti simili nella
Persuasione e la rettorica di Michelstaedter. Partendo dal rapporto fra gli
incubi notturni e il senso di finitezza patita dall’uomo fragile nei confronti
del suo sostrato psichico, Michelstaedter inventa un bozzetto filosofico che
dipinge l’uomo che si desta da un sonno tormentato e subito rassicurato di
trovarsi ancora fra i vivi: «Si destano dal sonno, sbarrano gli occhi nel-
l’oscurità… e il soccorrevole fiammifero ridona loro la pace […] “va bene,
va bene – che ora è? Uh! Tardi – e domani devo levarmi, accidenti ai sogni –
dio che sogni!”» Ma ciò non basta a fortificare l’uomo del sogno aggredito da
perfidie oscure che lo mettono davanti alla propria inerme condizione di
diseredato: «E rassicurati rifanno l’oscurità; ma le immagini rimaste negli
occhi si scompongono, - i piani pel domani e il dopo domani si arrestano –
l’uomo si trova nuovamente senza nome e senza cognome, senza consorte e
senza parenti, senza cose da fare, senza vestiti, solo, nudo, con gli occhi
aperti a guardare l’oscurità. […] Ogni sensazione si fa infinita; sembra loro
che davanti ai loro occhi dei punti s’allontanino infinitamente, che cose
piccole diventino infinitamente grandi e che l’infinito li beva; cercano
angosciati una tavola di salvezza, un punto saldo, tutto si scompone, tutto
cede, fugge, s’allontana e tutto domina il ghigno sarcastico: “ùuùuùuùu…”»
Se è vero che Cecchi trova nella Persuasione l’influenza del Papini leo-
nardiano, è altrettanto vero che una letteratura moralistica centrata sul volto
notturno dell’inconscio è stata annunciata dallo sperimentalismo di Tarchetti.

126
L’affabulazione di chi vede e sente nella vocale l’orrore e il dolore
della natura, induce a credere che in questo testo agisca lo stile
sperimentale di una scrittura imitante un delirio paranoide attraverso
la vocazione ambiguamente teatrale del monologo, l’uso di frasi spez-
zate ed eccitate, il ricorso pausale dei puntini di sospensione e d’ite-
razioni compulse.
Sono accensioni stilistiche attente a riprodurre il naturalismo del
parlato (e in questo senso abbiamo parlato di verismo introdotto
all’interno del modo fantastico); accensioni che mentre imitano una
mente esasperata dalle proprie sprofondanti visioni ne rendono
credibile la tormentata confessione; così come rendono ango-
sciosamente veridiche le sottili percezioni iconografiche che con
analisi progressive presentano la lettera U come la causa d’ogni uma-
na sventura.
La forma retorico-linguistica della dissociazione psichica rompe la
norma lineare del racconto. Il raptus scrittorio del pazzo predispone
ad una prosa che lega il disordine mentale della follia all’eloquenza
straniata della sua accecata visione.
Tarchetti isola più di una volta il segno grafico della lettera U,
ponendolo al centro dell’attenzione visiva del lettore e giunge perfino
a ripetere la stessa vocale in successione graduata per altezza, per
sottolineare con l’alterazione grafica l’alterazione psichica del pro-
tagonista.
In questo caso il richiamo pur utile al grafismo metanarrativo del
Tristram Shandy rischia di confinare La lettera U nell’orticello di
un’emula finzione44. Il gioco iconografico va di là da un rispec-
chiamento intertestuale con l’amato Sterne. Per dirla con Hegel, men-
tre in Sterne l’umorismo vuol essere «un girovagare del tutto ingenuo,
lieve, inapparente, che presenta il più alto concetto di profondità
proprio nella sua scarsa significanza»45, per Tarchetti la volontà di
dare forma al disturbo psichico, ricorrendo all’istituto agrammaticale
del segno fonosimbolico, anticipa la novità presente nell’uso pa-

Il terrore vocalico del ghigno sarcastico prodotto dalla U è sintetizzato da


autori storicamente distanti che nella medesima vocale identificano il fonema
della paura. A riprova di una tensione critica che in Michelstaedter si serve
della lettera U come simbolo dell’angoscia notturna, mentre Tarchetti di
quella vocale valuta il suo mostruoso orizzonte metafisico, la fisica perversa
e la nervatura minacciosa.
44
Cfr. E. GHIDETTI, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, cit., p. 219
45
G.W.F. HEGEL, Estetica, Torino, Einaudi 1963, p. 673.

127
scoliano dell’onomatopea. Con lo scopo, dichiara Contini nel celebre
studio su Pascoli, di evocare immediatamente «un pezzo di natura
messo lì sulla pagina»46.
Quando Tarchetti scrive questo racconto il verismo italiano deve
ancora fornire le sue prove migliori. L’autore può solo avere avuto il
sentore di un orientamento letterario non ancora consolidato sul piano
della poetica e dello stile.
Proprio per queste ragioni l’apertura sperimentale della prima
parte della Lettera U rivendica un’originalità che alla fine decide il
livello innovativo di una scrittura imitante il nervo vivo di una nevrosi
assoluta.
Portando qualche utile esempio, notiamo che la persona che dice
“io” e che affida al documento i propri processi paranoidi si rivolge ad
un pubblico per richiamarne costantemente l’attenzione. Il problema
formale è risolto attraverso l’iterazione della comunicazione fatica.
Per assicurare lo stretto e continuo contatto fra il locutore psicotico e
il destinatario virtuale, l’attenzione richiesta dal primo promuove un
atto locutivo che s’aspetta una risposta nella forma dell’assenso.

E consideratela ora meco.


Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi!
E così, che ne dite? 47

Ma ciò è ancor nulla.


Coraggio!48

Che cosa avete veduto?


Attendete!49

Tremate? Impallidite?
Non basta ancora?50

Ecco.
Io vi scrivo qui tutte le vocali.51

46
G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli, in Varianti e altra linguistica, cit.,
p. 225.
47
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p. 47.
48
Ivi, p. 48.
49
Ibidem.
50
Ibidem.
51
Ibidem.

128
Le vedete? Sono queste?
…………………
Ma non basta vederle.
Sentiamone ora il suono52.

Non rabbrividite? Non tremate a questo suono? 53


(i corsivi sono nostri)

Il soggetto angosciato dai propri incubi si fa esso stesso stile della


propria affannata materia verbale.
Mentre stabilisce un dialogo stretto col destinatario, l’autore
amplifica il contatto fatico isolandolo dal nucleo delle frasi prodotte
dalla patologica fissazione del protagonista. Tale ripetuta soluzione
stilistica segnala il permanere di un discorso paranoide e la tempo-
ranea fuga dal proprio monomaniaco flusso verbale attraverso brevi
frasi allocutorie.
La scrittura della prima parte, inoltre, predilige uno stile che, come
abbiamo visto, s’enuncia più per battute teatralmente verticali che per
frasi distesamente orizzontali, come vorrebbe una prosa di racconto.
Non si tratta di una scelta astrattamente formale; ricorrere alla scrit-
tura del linguaggio teatrale amplifica la recitazione di un io mo-
nologante in acuito rapporto col proprio pubblico.
Dovendo ricreare l’istituto retorico e grafico di una confessione
dominata dalla follia, Tarchetti mette in forma la visione scenica di
quel delirio. L’illusione di una confessione che si dà nel momento
della sua annichilita visione, fa uso di un doppio registro: quello strut-
turale di frasi brevi in dialogo col lettore; che, inoltre, hanno il
compito di chiudere il discorso appena fatto per aprire quello
successivo.
Il monologo non solo illustra un’ossessione rivolta costantemente
ad un pubblico, ma, come abbiamo già ricordato, ne pretende l’at-
tenzione assidua; quando ricorre, ad esempio, all’uso insistente dei
punti interrogativi e dei punti esclamativi o al loro ambiguo quanto
enfatico accostamento.

…e ditemi, se non siete paralizzati, se non siete vinti, se non siete


annichiliti da questa vista?!?! 54

52
Ibidem.
53
Ivi, p. 49.

129
Ebbene?!55

Il locutore non solo si profonde nel suo interiorizzato quanto


stremato monologo, ma come un attore consumato si sporge dal pro-
scenio della frase per arrivare ancor più al cuore dello spettare.
Altri aspetti retorico-linguistici rinforzano l’idea di una scrittura
verista che non perde mai di vista la necessità di imitare stili-
sticamente la follia del personaggio.
Le allocuzioni del parlato, sovente interrotte dai puntini di
sospensione, eccitano una confessione in presa diretta fatta di im-
provvise sospensioni cariche di ossessive reticenze e di concitate
fratture.

E l’avete veduta?… Ma che dico?… Chi di voi non l’ha veduta, non l’ha
scritta, non l’ha pronunciata le mille volte?56

Perché… voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua
come le altre; perché l’abitudine vi ci ha resi indifferenti; perché la vostra
apatia vi ha distolto dallo studiarne più accuratamente i caratteri… ma io…
Se Voi sapeste ciò che io ho veduto!57 (i corsivi sono nostri)
In eguale modo l’uso assiduo della ripetizione ritma un fluire
discorsivo accelerato e compulso; anche questo uno stratagemma re-
torico attuato dal rendiconto “verista” di un disordine psichico che
chiede al linguaggio idonei strumenti dimostrativi.

Ho io scritto questa lettera terribile[…] L’ho io tracciata […] Ho io ben


vergata […] Sì, io l’ho scritta.58

[…] chi di voi l’ha esaminata? Chi l’ha analizzata, chi ne ha studiato la
forma, l’espressione, l’influenza? Chi ne ha fatto l’oggetto delle sue indagini,
[…] Chi vi ha posato sopra il suo pensiero […]59

54
Ivi, p. 48
55
Ibidem.
56
Ivi, p. 47.
57
Ibidem.
58
Ibidem.
59
Ibidem.

130
Guardatela bene, guardatela attentamente…60
( i corsivi sono nostri)

Il sintagma della follia non predispone solo ad una sintassi centrata


sui tempi alterni e discordi della confessione delirante. La ripetizione
acuisce uno stato psichico che oltre ad apparire ricco di danneggiate
risonanze interiori appare anche ricco di nitide percezioni. Al verismo
di una scrittura allocutoria, enfatica e visionaria risponde, infatti, la
descrizione della lettera U, decrittata in ogni suo minimo aspetto
iconico e simbolico, come abbiamo già ricordato.
Tornando alla prima parte del testo notiamo che essa si mostra
pienamente consapevole della propria novità stilistica.
Quando il pazzo decide di passare dalle proprie veggenze mo-
nomaniache ad un racconto improntato sulle cause che l’hanno
portato alla follia, una barra di spazio fra le due parti, infatti, anche in
questo caso espleta un preciso compito. Se la frase di epilogo della
prima parte presenta un’iterazione che chiama in causa Dio, a metà fra
l’esclamazione e l’invocazione:

Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!61

la seconda parte esordisce con una frase che denota il temporaneo


rinsavimento dell’infelice.

Vi voglio parlare della mia vita62.

Rinsavimento che si riflette nello stile della confessione.


Scompaiono i modi nevrotici della comunicazione fatica, le eccitate
allocuzioni del parlato, le angosciate ripetizioni. Così come di-
minuiscono i puntini di sospensione, i punti esclamativi e quelli
interrogativi. Mentre scompare del tutto l’unione del punto in-
terrogativo con l’esclamativo.
Pur lasciando fuori ogni proposito di eversione stilistica, la
seconda parte non delude il lettore quando narra col pedale comico-
grottesco come fin dall’età scolastica il futuro pazzo sia stato
aggredito dalla presenza della lettera U, o sia stato turbato dalla fine
di un amore perché la ragazza si chiamava Ulrica, o, Giulia. Quando
60
Ibidem.
61
Ivi, p. 49.
62
Ibidem.

131
non accade che una ragazza di nome Annetta in realtà si chiami
Susanna e porti in dote altri cinque spaventosi nomi di battesimo
(«Postumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia»). Sposatosi poi con
Ulrica, dopo vani tentativi per convincerla a cambiare nome, il nostro
eroe infierisce sulla sventurata ed esce di senno.
Con la condanna all’internamento manicomiale termina la forma
colloquiale della confessione-rivelazione e riprende drammaticamente
la forma del monologo teatrale nuovamente arricchito da secche
battute chiuse da esclamativi e interrogativi.

Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! […]perché ho tentato di migliorarli?


Ingrati!63

Brevi esclamazioni e verbi isolati reintroducono l’uso dram-


maturgico della scrittura, ricco di scansioni melodrammatiche e di
battute enfatiche che adesso segnalano il funesto destino che sta per
colpire l’eroe.

[….] sento che dovrò finalmente soccombere.


Sia.64

Forse la mia sventura sarà un utile ammaestramento agli uomini; forse il


mio esempio li spronerà ad imitarmi…
Che io lo speri!65
(i corsivi sono nostri)

Viene da chiedersi se la vocazione drammatica dell’amato Ortis


sia stata ripresa per puro gusto parodico. La domanda è equivoca solo
fino ad un certo punto se è vero che Tarchetti aveva aggiunto al nome
Igino quello di Ugo, quale patronimico letterario. La domanda, infine,
introduce un sospetto di autoparodia, più per gusto umorista verso se
stesso che per autonegazione letteraria, come osserva Viazzi, in ogni
caso sempre sottile e acuto, valutando questo seconda ipotesi: «La
lettera U, in effetti parla di molte altre cose. Per esempio, non solo di
un’ossessione personale (la lettera u c’è nel nome di Igino Ugo
Tarchetti, anche se “aggiunta”. Ma allora è il suo nome, cioè il
contrassegno della sua identità “letteraria”, “foscoliana”, ad essergli

63
Ivi, p.52.
64
Ivi, p.53.
65
Ibidem.

132
ostile, avverso!)»66. Tarchetti scelse come nome d’arte Ugo per sim-
patetica identificazione col Foscolo. Considerazione questa che ci
porta sul terreno di una paternità letteraria ottenuta per via ono-
mastica. Al punto che il racconto può essere interpretato anche come
l’occultata riflessione di un autore in rapporto collutatorio col proprio
padre ideale. L’“influenza” sinistra che tale lettera ha sulla psiche
dello scrivente rivela per linee interne l’altrettanto sofferta “angoscia
dell’influenza” di cui parla Bloom67 quando descrive il tormentato
rapporto che lo scrittore può avere con i testi forti della propria ri-
tagliata tradizione.
Va da sé che nel manoscritto d’un pazzo nulla di fortemente
caratterizzato vi è sul piano di una chiara risonanza autobiografica;
per non destrutturare il senso di un racconto che dalle proprie intensità
visive estrae più di un’angosciosa verità.
L’analisi di ogni aspetto grafico della vocale U suggerisce una
visionarietà simbolica di cui non possiamo sapere, semmai vi sia,
l’origine inconscia68. La vocale come soggetto di una metafisica del
vuoto e della morte lega l’invenzione del linguaggio al protrarsi di
ogni umana sventura.
Ma se di simbolismo possiamo parlare aggiungiamo pure come
ultima considerazione che esso è nato dallo scatto vitale di uno scrit-
tore che alla propria avanzante decadenza fisica risponde indicandosi

66
G. VIAZZI, Lettura della “Lettera U”, in AA.VV. Igino Ugo Tarchetti e
la Scapigliatura, cit., p. 79.
67
Cfr. H. BLOOM, L’angoscia dell’influenza, Milano, Feltrinelli 1983.
68
Sulla possibile deriva inconscia della lettera U, V. Roda prende in esame
le analisi che L. Binswanger compie sul linguaggio degli schizofrenici e le
mette in relazione con il testo tarchettiano in una pagina tesa ed acuta. Cfr. V.
RODA, Il contrappunto imperfetto di I.U. Tarchetti, in Filologia moderna, n.
9, 1987, p. 288. A. G. Mangini, invece, guarda a Freud giudicando
l’ossessione per la lettera U come significante di un trauma pre-edipico
causato da una madre «terrificante e divoratrice». Cfr. A.M. MANGINI, La
voluttà crudele, Fantastico e malinconia nell’opera di Igino Ugo Tarchetti,
Roma, Carocci 2000, p. 105 e nota 208 a p.128.
68
Se è permessa una nota sociologica applicata alla linguistica, ricordiamo
che un gruppo di psicologi americani hanno notato che fra tutte le vocali la
lettera U è la meno adatta per assegnare il nome ad un prodotto commerciale.
Per il fatto che, per automatismo inconscio il consumatore associa alla parola
che inizia con la U un deplorevole senso di sporco.

133
per gusto umorista come la causa stessa della propria sventura, ini-
ziata con l’incauta assunzione, appunto, del nome Ugo.
Sempre per gusto umorista e amabile parodia, il racconto si chiude
con un’invocazione echeggiante le enfatiche esortazioni anarchico-
socialiste del tempo.

Che la mia morte preceda di pochi giorni l’epoca della loro grande
emancipazione, dell’emancipazione dall’U, dell’emancipazione da questa
terribile vocale!!! 69

Affrontiamo ora uno degli aspetti figurativi del racconto che più
hanno sorpreso la critica, per il fatto che all’interno della prima parte
il narratore chiama a raccolta le altre vocali dell’alfabeto segnando in
ognuna di esse un valore psicologico positivo, relativo alla carat-
terologia dei buoni sentimenti.

A – L’espressione della sincerità, della schiettezza, d’una sorpresa lieve,


ma dolce.
E - La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono.
I - Che gioia! Che gioia viva e profonda!
O – Che sorpresa! Che meraviglia! Ma che sorpresa grata! Che
schiettezza rozza, ma maschia in quella lettera!70

La sorpresa degli studiosi nasce dal fatto che cinque anni dopo dal
racconto di Tarchetti, nel ‘72 Rimbaud con la lirica Voyelles
documenta una poetica delle vocali cui associa un colore per sim-
boliche corrispondenze interiori. Il mondo psicologico del poeta
predilige associati cromatismi suggeriti dalla libertà icastica e mu-
sicale del verso. Tanto che, in punta di penna, più di uno studioso ha
dato merito a Tarchetti di avere preceduto Rimbaud nel gioco delle
rivelazioni simboliche cui tiene ogni vocale.
La realtà è diversa, perché strutturalmente asimmetrica è la natura
della poesia da quella della prosa. L’autore non associa un colore ad
una vocale, ma alla singola vocale associa uno stato d’animo che ap-
pare generale quanto prevedibile.
Tuttavia, notiamo il non gratuito legame fra vocale e stato
d’animo; così come notiamo che siffatto legame crea il confronto fra
un polo positivo rappresentato dalle prime quattro vocali e un polo

69
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p.53.
70
Ivi, p. 48.

134
negativo rappresentato dalla U. Inoltre, mentre Voyelles sono orientate
dall’unità semantica ed espressiva dell’Io rimbaudiano, presente e
immanente nella lingua, che su essa agisce in modo diretto e
immediato, senza clausole retoriche e canoni comunicativi, nella Let-
tera U la scrittura è legata alla convenzione del racconto e a quelle
interne allo sviluppo della trama. Creare una dualità positivo-negativo
fra le vocali introduce un termine di contraddizione e di conflitto,
originato dal fatto che vi è una vocale suscitatrice di patologiche e
distruttive emozioni. In eguale misura, l’elenco delle vocali e le loro
associazioni positive e l’assoluta associazione negativa con l’U di-
venta un processo logico di esposizione “verista” o, se si preferisce,
naturalista, più che una felice intuizione presimbolista.
Anche in questo caso l’uso della categoria “verista”, per decifrare
la forma-racconto della Lettera U, può apparire come una forzatura
interpretativa per lo studioso che pensa all’esperienza successiva del
verismo verghiano e di altri autorevoli rappresentanti di quella
composita scuola. Si tratta, a nostro modo di vedere, di adottare
questa categoria senza preoccupazioni storiografiche o ansie istitu-
zionali. In Tarchetti il verismo può essere considerato come un evento
nato nel seno di un’inesausta ricerca, qual è quella che distinse il suo
ultimo periodo. Causa gli scapigliati ostracismi verso il romanticismo
minore di quegli anni, cui s’accompagna in itinere lo sguardo curioso
dello scrittore verso alcuni esiti della letteratura europea e americana,
come altri studiosi hanno variamente documentato71. Se, quindi, la
forma-racconto della Lettera U promuove una scrittura verista che
imita i crudi movimenti di una psiche impazzita, tale scrittura va in
ogni modo messa in relazione con la cultura letteraria prodotta dalla
scienza positivista.
Tuttavia, nonostante il nostro punto di vista, non possiamo essere
d’accordo con la tesi di Ghidetti, quando sostiene che se «pur nel
Tarchetti mancano i supporti culturali e ideologici di una Weltan-
schauung naturalista», «è tuttavia indiscutibile la presenza di questi
conati di realizzazione di un’arte oggettiva e impersonale, trascrizione
71
Curata e quasi completa è la ricerca delle fonti del fantastico in Tarchetti
condotta da. G. Mariani, Il racconto come storia delle sensazioni. Igino Ugo
Tarchetti, cit. pp. 396-425. A sua volta V. Roda nota che i Fatali richiamano,
nella ripetuta simbolica del circolo che attornia il giovane fatale, il romanzo
di N. Hawthorne, La lettera scarlatta. V. RODA, I fantasmi della ragione,
Fantastico, scienza e fantascienza nella italiana fra Otto e Novecento,
Napoli, Liguori 1996, p. 78.

135
di casi al di fuori del normale ritmo della vita», al punto che, al di là
dei debiti contratti dal fantastico tarchettiano con i maggiori rap-
presentanti europei, lo studioso conclude che l’«aspetto più con-
vincente e originale è proprio il “taglio” naturalistico»72.
L’ipotesi in Tarchetti di un fantastico naturalista coinvolge tutti i
cinque racconti, mentre la chiave realista da noi avanzata riguarda
solo I Fatali e la chiave verista segnala solo La lettera U.
La proposta di Ghidetti non a torto è stata messa in discussione da
più di uno studioso73, anche se notiamo che i detrattori si sono solo
limitati a negare l’esistenza di una contiguità col naturalismo del tem-
po, contiguità notata da altri studiosi prima di Ghidetti.
Secondo Bosco La lettera U è «forse il migliore dei Racconti
fantastici» poiché la qualità del narrare tarchettiano non sta tanto nel
recupero della «coerenza fantastica», ma nel procedimento di una
scrittura che diventa profilo logico di un prestabilito disegno opera-
tivo. Tale disegno è osservabile proprio nella Lettera U, un testo «nel
quale, posta l’ossessione che quella vocale esercita su una mente
squilibrata, le stravaganze e le violenze che ne derivano sono logi-
camente ineccepibili: di quella logica, s’intende, che è propria di un
pazzo»74.
Coerenza stilistica, dunque, paradigmatica di un calco psichico
trasferito nella retorica linguistica della follia. Coerenza, allora,
situata all’interno di un programma letterario con scoperte ambizioni
naturaliste e/o veriste, proprio per l’esplicita adesione ad una scrittura
assolutamente mimetica, depositaria di una follia fobico-ossessiva
ritratta ad arte con idonei stratagemmi retorici e linguistici. Appare
quindi giustificata la tesi di Bosco, cui si rifà Ghidetti, quando coglie
nei racconti fantastici un generale atteggiamento «obiettivo di os-
servatore»75 prefigurante «lo stesso atteggiamento del teorico del-
l’impersonalità»76.

72
E. GHIDETTI, Tarchetti e la Scapigliatura lombarda, cit., pp. 213-214.
73
Cfr. N. BONIFAZI, Il racconto fantastico da Tarchetti a Buzzati, Urbino,
Argalìa Editore 1971, pp. 66-67. R. CESERANI, A proposito
dell’interpretazione psicanalitica di un racconto di I.U. Tarchetti, cit., p. 260.
74
U. BOSCO, Il Tarchetti e i suoi “Racconti fantastici”, cit., p.135
75
Ivi, p. 129
76
A. M. Mangini fa suo il punto di vista di Bosco e ricorda che «l’oggettività,
infatti, è un aspetto fondamentale della scrittura fantastica che presuppone il
realismo non solo come punto di riferimento paradigmatico in contrap-
posizione al quale definirsi, ma anche come elemento prezioso di cui si in-

136
L’interpretazione di Bosco (ripresa poi da Mariani e da Ghidetti e
non accettata da Bonifazi e da Ceserani) oltre a segnalare
un’anticipazione del Capuana verista presente nel fantastico tar-
chettiano, guarda anche alla poetica verista dell’«impersonalità» teo-
rizzata da Capuana. Partendo dal fatto che nella Lettera U l’autore e il
narratore si oscurano e lasciano all’io-protagonista ampia autonomia
omodiegetica.
La strategia tarchettiana del discorso verista, centrato sull’assenza
assoluta del narratore e sulla presenza monologante di un protagonista
omodiegetico, anticipa un altro racconto basato sulla confessione di
un individuo affetto da un’acuta nevrosi. Nel Giovanni Episcopo
D’Annunzio appronta una stilistica del linguaggio parlato (allo-
cuzioni, ripetizioni etc77,) già sperimentata nella Lettera U.
Senza pensare a D’Annunzio, G. Viazzi, dopo avere valutato la
totalità tematica e stilistica della Lettera U, la giudica come il prisma
completo di ogni futura trasgressione letteraria, mettendovi in questa
anche il «verismo pre-espressionista»78.
Se dopo il Capuana, evocato da Bosco e da Ghidetti, a nostra volta
abbiamo richiamiamo l’attenzione sul Giovanni Episcopo, col quale
D’Annunzio stilizza a modo suo l’oggettivismo naturalista, ecco che il
problema di un’anticipata presenza verista in Tarchetti può essere
risolto, dopo l’analisi formale portata al testo, procedendo anche ad
un’attenta messa a punto del momento culturale.

tride fin nel profondo la sua sostanza stilistica». A. M. MANGINI, La


voluttà crudele, cit., p. 93.
77
Sui caratteri retorico-formali di Giovanni Episcopo cfr. E. RAIMONDI,
Introduzione a G. D’ANNUNZIO, Prose di romanzi, vol. I, a c. di A.M.
Andreoli, Milano, Mondadori 1988, pp. XXX-XXXI.
78
G. VIAZZI, Lettura della “Lettera U”, cit., p.80. Ma vale la pena riportare
il brano per intero: «Se questa analisi è corretta, La lettera U starebbe a
riprova dell’ipotesi che vorrebbe la Scapigliatura non solo tra i raggrup-
pamenti precursori dell’avanguardia “storica” della nostra letteratura. Se qui
abbiamo crisi del linguaggio come crisi dell’Io trascendente, autonomia del
significante, scrittura (anche se criptica) di certe energie del profondo, esten-
sione dell’area gnoseologica, crisi delle istituzioni e denuncia di tale crisi,
siamo al cospetto di una piattaforma, di un punto di partenza: questo è l’avvio
di un itinerario che, adoperando e mettendo a frutto anche i lasciti del
romanticismo visionario, condurrà poi al simbolismo, al verismo pre-
espressionista, al futurismo, tanto sul piano dell’espressione che su quello del
contenuto».

137
Quando Tarchetti scrive il positivismo è più una scienza del
possibile che una cristallizzata teoria del mondo (come poi apparirà ai
giovani del Leonardo e a coloro che ne seguiranno le orme). L’in-
contro scienza-fantastico non si costituisce, quindi, come un modo
eccentrico, ma come una soglia-limite con la quale «mettere in rap-
porto il mondo fisico col mondo spirituale, il mondo finito col
vivente», come è detto nel Riccardo Waitzen, dove lo spiritismo è de-
finito «questa applicazione singolare della scienza»79.
L’oggettività imparziale del narratore dei Fatali, la scrupolosa
enunciazione dei fatti (magari centrata sulla facoltà del vedere, come
sostiene Ceserani dopo accurata analisi80), torna poi nelle opere
successive. Al punto che Croce, guardando a Fosca, constata che se il
prologo «sembra preludere a una tragedia, e l’enfasi che accompagna
il racconto inculca la tragicità, il racconto stesso potrebbe ben essere
la relazione, che un uomo intelligente fa a un medico, dei sintomi e
delle fasi della propria e dell’altrui infermità»81. Questa tesi non è
fatta cadere da un interprete del romanzo italiano non tacciabile di
simpatie crociane, parliamo di Folco Portinari, quando, introducendo
Fosca, ricorda che in Tarchetti, come in Camillo Boito, la novità può
essere così riassunta: «Da un lato viene accolto il gusto assoluto
fantastico di Hoffmann e Poe, i loro sogni, le visioni inesplicate e la-
sciate intatte nell’area dell’incubo, quasi una trascrizione di incubi
onirici – un acuto romantico; dall’altro lato il positivismo razionalizza
quell’incubo, dà un corpo ai fantasmi, tenta la spiegazione di simboli
e segni. In Fosca il procedimento è scopertissimo»82.
Basterebbero I fatali e La lettera U a nobilitare la raccolta dei
racconti fantastici, all’interno di uno stile che nel primo testo prova la
carta autobiografica, per narrare in chiave realista un episodio intriso
di mistero; mentre nel secondo presenta una scrittura il cui verismo
79
I. U. TARCHETTI, Tutte le opere, vol. I., cit., p. 601. Su questo aspetto
porta un importante contributo R. BIGAZZI, I colori del vero, Vent’anni di
narrativa: 1860-1880, Pisa , Nistri-Lischi 1968, p.168.
80
R. CESERANI, A proposito dell’interpretazione psicanalitica di un
racconto di I.U. Tarchetti, cit., pp. 254-256.
81
B. CROCE, Letteratura della Nuova Italia, vol. I., Bari, Laterza 1921,
p. 289.
82
F. PORTINARI, Nota introduttiva, in I.U. TARCHETTI, Fosca, Torino,
Einaudi, 1971, p.VI. Portinari era tornato un anno prima sull’argomento con
parole pressoché simili nell’Introduzione ai Narratori Settentrionali, a c. di
F. Portinari, Torino, Utet 1970, p. 41

138
sintattico-linguistico registra fedelmente le roventi deformazioni di
una mente disturbata quanto lontana da ogni forma di romanticismo
psicologico.
Ma, giunti a questo punto, non possiamo tacere che il desiderio di
creare una cornice scientifico-documentaria per tutti i racconti,
veridica e verista ad un tempo, induce l’autore ad un clamoroso in-
cidente di percorso.
Uno spirito in un lampone è uno dei racconti più calibrati dal
punto di vista del nucleo essenziale da cui dipana il ritmo narrativo e i
legamenti interni delle frasi e delle immagini. Una voce narrante
s’incarica di regolare l’informazione sui fatti che toccano i per-
sonaggi, enunciandone gli stati d’animo, lasciando ad essi facoltà di
parlarne in prima persona, modellando e uniformando nei modi di un
racconto di genere assecondante lo stile del fantastico ottocentesco.
Se non fosse che, in epilogo, il guardiaboschi, reo di avere ucciso
la donna amata, e per questo condannato a «dodici anni di lavori for-
zati» viene presentato, a detta del narratore, come colui che l’informò
sui fatti.

Nel 1865 io lo conobbi nello stabilimento carcerario di Cosenza che mi


era recato a visitare. Mancavangli allora due anni a compiere la sua pena, e
fu da lui stesso che intesi questo racconto meraviglioso83.

L’assassino non può essere rappresentato dalla voce narrante in


quanto egli non può conoscere i duplici stati d’animo provati dal
barone di B. quando, gustando un lampone, assimila lo spirito della
fanciulla uccisa dal guardiaboschi e sotto quella pianta seppellita. Il
guardaboschi ha una parte assolutamente marginale nella vicenda.
Rispetto al personaggio principale rappresenta una figura di contorno,
come altre (una vecchia, i contadini, i servi, le domestiche) tutte pri-
vate dell’uso della parola84.

83
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p.71.
84
Pur seguendo una diversa impostazione critica anche A. M. Mangini nota
tale incongreunza, che tuttavia risolve in questi termini: «E’ lo stesso
omicida, infine, a raccontare i fatti al narratore eterodiegetico che lo visita
nella sua prigione. Non è possibile comprendere, al di fuori della prospettiva
del double, come egli possa essere a conoscenza di sensazioni ed esperienze
che si producono nell’intimo del barone e solo a questo possono essere note»,
Angelo M. MANGINI, La voluttà crudele. cit., p. 113.

139
In questo caso il verismo fantastico fallisce l’obiettivo del
documento per la discordanza che passa fra il narratore, in pieno
accordo col punto di vista del barone e non con quello del guar-
daboschi, nel testo un personaggio senza fisionomia.
Fallimento e svista che tocca un autore che per realizzare anche in
questo racconto un principio di verità non calcola quale ruolo effettivo
il presunto narratore possa avere avuto nella storia. Il solo narratore
autorizzato a fornire una larga conoscenza dei fatti sarebbe stato il ba-
rone di B.; il solo che avrebbe potuto stabilire un convincente legame
fra la voce narrante e il resto dei personaggi.

Coi primi tre testi Tarchetti esaurisce la funzione dell’autore


sperimentale nei confronti del modo fantastico; ma può bastare per
giustificare l’operazione di rinnovamento compiuta da un autore che
per primo introduce in Italia una stilistica dell’immaginazione ricca di
avvicendamenti e trasformazioni.
Il fantastico diviene quindi soggetto di rinnovamento e di
mediazione fra un passato glorioso e un presente che medita altri
percorsi formali. Il romanticismo orrifico di Hoffmann, di Gautier e di
Poe è corretto da un’idea narrativa ricca di simulazioni autobio-
grafiche, riflessioni scientifiche e filosofiche. Ricca pure di sortite nel
campo dell’ironia, dell’umorismo e della parodia, come di movi-
mentate strutture retoriche e di stilemi linguistici preannuncianti la
partitura espressionista della scuola verista. Ricca, quindi, di una
prosa che mescola abilmente inflessioni naturalistiche lombarde con
cedimenti larmoyant (I fatali), scompensate crudezze sintattiche
simulanti per via mimetica un’allucinata nevrosi paranoide (La let-
tera U).

Il quarto racconto Un osso di morto in nulla si discosta dalle


formule usuali del fantastico tradizionale; là dove un fatto straor-
dinario, contrario alle leggi della natura, è presentato come un evento
indubitabilmente vero. Lo scontro fra la realtà normale e una trama di
eventi inverosimili anche in questo testo s’avvale della prima persona,
il personaggio principale è l’estensore delle proprie memorie.

Lascio a chi mi legge l’apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per
raccontare85.

85
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p.55.

140
Il paratesto è assente e, in un certo senso, la poetica dell’autore
non si mostra nella chiave della riflessione personale. Il racconto entra
alla svelta nel gioco di eventi oscillanti fra normalità e spiritismo,
sedute medianiche e manifeste volontà di anime defunte, tenebrose
angosce e incubi notturni. Alla rottura dell’ordine della realtà segue
quella dell’ordine psichico. La mente del protagonista riverbera nelle
proprie fantasie notturne o nelle proprie diurne riflessioni insop-
portabili percussioni interiori.

E’ impossibile che io possa rendere qui colle parole l’angoscia delle


sensazioni che provai in quel momento. Io ero in preda ad un panico
spaventoso86.

Alla confessata inesprimibilità segue poi abilmente l’illustrazione


di un paesaggio urbano dipinto con gli occhi del panico ottenebrante.

Uscì da quella casa mentre gli orologi della città suonavano la


mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre spenti, le fiamme nei
fanali offuscate da un nebbione fitto e pesante – tutto mi pareva più tetro del
solito87.

Entrato in una bettola il protagonista col vino cerca di rimuovere le


paure ma alla fine conquista solo lo stato assiderato del corpo ca-
daverico.

Mi sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a muovermi; le


coperte mi pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano come
fossero di metallo fuso88.

Il plot di sedute medianiche e di fantasmi che reclamano un osso


del proprio scheletro è sorretto da un esplicativo corredo d’immagini
lancinanti. Senza perciò vedere nella meticolosa illustrazione di una
psiche tormentata nessuna novità d’immagini. Il pozzo e il pendolo di
Poe ha già stabilito un culmine narrativo.
Resta il gusto tarchettiano per l’ambientazione lombarda («Nel
1855, domiciliatomi a Pavia…») e per alcuni suoi verosimili

86
Ivi, p.58.
87
Ibidem.
88
Ibidem.

141
personaggi («Federico M. che era un professore di patologia e di
clinica per l’insegnamento universitario…», «un ex inserviente del-
l’Università, che si chiamava Pietro Mariani…»). Gusto che solletica
nel lettore lombardo una ricezione stimolata dal luogo geografico e
dalla comunione temporale. Anche se lo spazio geografico e il tempo
storico compongono più una scenografia passiva che un movimento
attivo di luoghi e personaggi come nei Fatali.

L’ultimo racconto, Lo spirito in un lampone è quello più


rispettoso del codice fantastico. Del tutto assente l’investimento for-
male di un linguaggio che tenta nuove soglie d’ambiguità, così come
viene a mancare la cornice lombarda.
L’avvenimento prodigioso accaduto fra la popolazione di un
piccolo villaggio della Calabria porta il lettore ad una visione geo-
grafico-spaziale segnata da luoghi lontani ed esotici. (Esotismo e
folclore servono un territorio della fantasia dove le grandi passioni
vivono sotto il sole dell’autenticità. Dove, come accadrà col Verga di
ambiente siciliano, il verismo drammatico sarà funzionale ad una
lettura, appunto, pregna di valori folclorici stimolanti la curiosità del
lettore del Nord89).
Un giovane barone amante dei piaceri cui può attingere la sua
privilegiata agiatezza economica, in una battuta di caccia mangia un
lampone le cui radici affondano nel corpo di una giovane donna uc-
cisa da un guardiaboschi rifiutato e geloso. Entra nel corpo del barone
inconsapevole lo spirito della donna al punto che, gradualmente, la
maschia personalità dell’aristocratico combatte una personalità fem-
minea altrettanto marcata. Conseguente a questa dualità vissuta con
sgomento è la percezione sia maschile che femminile delle cose e del
proprio corpo, così come i pensieri che animano la mente del barone
sono ricchi di intensità e sensibilità. La doppia identità non vive con-
ciliata nel corpo e nella mente, pur obbligando l’uno e l’altro a
somatizzazioni muliebri e a riflessioni romantiche.
Dopo avere guardato «una brigata di giovani lavoratori» con un
«senso di interesse e di desiderio di cui non sapeva darsi ragione», cui
tiene subito una pudibonda vergogna femminile, il barone s’avvede
che il suo incedere s’esprime con «movenze […] più aggraziate del
solito».

89
P. PULLEGA, Introduzione a Leggere Verga, Bologna, Zanichelli 1973,
pp. 50-51.

142
Un corpo che s’avverte sdoppiato da due principi opposti non
predispone a nessun ideale di totalità originaria (come il mito del-
l’androgino esemplato da Platone nel Simposio). Il barone solo in
apparenza porta in sé l’unità sessuale e sentimentale, per il fatto che
l’amore, anche quando è provato da due persone con rara intensità,
promuove in entrambi una percezione parziale dei sentimenti provati
dall’altro. Ogni pur forte esperienza amorosa è destinata ad essere
vissuta in modo anche spasmodico, ma non per questo essa permette
di entrare nel profondo gioco sentimentale dell’altro.

…egli comprese in quel momento che cosa fosse la grande unità,


l’immensa complessità dell’amore, il quale essendo nelle leggi inesorabili
della vita un sentimento diviso fra due, non può essere compreso da ciascuno
che per metà. Era la fusione piena e completa di due spiriti, fusione di cui
l’amore non è che un’aspirazione, e le dolcezze dell’amore un’ombra,
un’eco, un sogno di quelle dolcezze90.

Il romanticismo europeo arriva al suo capolinea con una


percezione affatto idealizzata dell’amore. Che non offre ambizioni
totali perché la materia pulsante dell’amore è divisa dall’incontro-
scontro di due unità reciproche ma non speculari.
Torna in questa riflessione l’autore dei racconti di Amore nell’arte
e, più in generale, una concezione drammatica della passione debitrice
di disilluse anatomie originanti da un autobiografismo più dissimulato
che esibito.
Dal punto di vista della diegesi, Lo spirito in un lampone avanza
per sequenze progressive, per blocchi logici e cronologici. Secondo
una visione d’insieme già acquisita dal lettore: la scomparsa della
giovane donna, introdotta dal narratore onnisciente, è subito collegata
al lampone mangiato e all’improvvisa metamorfosi femminea del ba-
rone. Poi, perché opportuno alla funzionalità del racconto, la diegesi
s’apre al punto di vista dello sgomento protagonista, che quando
prende coscienza del raddoppiamento di personalità, dà voce ad un
monologo avanzante per nervose stringhe riflessive. Il disordine patito
si manifesta con scatti di parlato convulso vicino alla scrittura nervosa
della Lettera U.

Sarei io pazzo?… Vediamo, riordiniamo le nostre idee… Le nostre


idee?… Sì, perfettamente… perché sento che queste idee non sono tutte mie.

90
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p. 69.

143
Però… è presto per riordinarle! Non è possibile, sento nel cervello qualche
cosa che si è disorganizzato, cioè… dirò meglio… che si è organizzato diver-
samente da prima… qualche cosa di superfluo, che non fa male, ma che pure
spinge, urta in modo assai penoso le pareti del cranio…91

Una sintassi autoreferenziale dell’Io angosciato diventa negativa


eccitazione per avere intuito una condizione interiore dislocata e de-
primente.

Parmi essere un uomo doppio! Che stranezza! E pure… sì, senza


dubbio… capisco in questo momento come si possa essere un uomo
doppio.…92

La frase fissante la coscienza di un’insopportabile duplicità pone a


termine ogni sortita nel campo della scrittura espressionista con
ambizioni veriste, anche se prosegue un’inarrestabile semeiotica della
follia da parte di un soggetto ossessionato dalla propria personalità
unente il principio maschile e il principio femminile.

Per l’inferno! – esclamò il barone portandosi le mani alla testa – io non


comprendo più nulla di me stesso… sono ancora io, o non sono più io? O
sono io ed un altro ad un tempo?93

…e proseguì per la sua strada, cacciandosi le mani nei capelli, e


esclamando: - Io sono impazzito, io sono impazzito94.

E’ un narratore eterodiegetico che illumina sul dramma del barone


ospitante lo spirito della giovane, che punteggia le successive an-
gosciose stazioni con esempi sempre più rivelatori della muliebre
presenza. Presenza che per gradi s’impone sulla coscienza del prota-
gonista, al punto che il narratore infine rimarca l’energia doppia e
contraria che agita la psiche del posseduto.

Queste due volontà incominciarono da quell’istante a dominarsi e a


dominarlo con pari forza. Se agivano d’accordo, i movimenti della sua
personalità erano precipitati, convulsi, violenti; se uno taceva erano regolari;
se erano contrarie, i movimenti venivano impediti, e davano luogo ad una

91
Ivi, p. 63.
92
Ibidem.
93
Ivi, p. 64.
94
Ivi, p. 66.

144
paralisi che si protraeva fino ache la più potente di esse avesse pre-
dominato95.

Albergando due discordi volontà, al narratore spetta il compito di


pennellare quello stato particolare con raro vigore inventivo e con
felice economia espositiva96.

Mentre egli correva così verso il castello, uno de’ suoi domestici lo vide,
e temendo di qualche sventura, lo chiamò per nome. Il barone volle ar-
restarsi, ma non gli fu possibile; rallentò il passo e si fermò bensì per qualche
istante, ma ne seguì una convulsione, un saltellare, un avanzarsi e un re-
trocedere, a sbalzi per modo che sembrava invasato, e gli fa giocoforza
continuare la sua corsa verso il villaggio97.

Sono squarci descrittivi per nulla prevedibili: la scrittura di


Tarchetti compone un variegato mosaico di azioni incontrollate e di
reazioni simmetriche, di comportamenti stralunati, di percezioni inau-
dite e di riflessioni conseguenti, alla luce di un tono generale ordinato
dal principio classico del racconto fantastico: il confronto-scontro di
naturale e sovrannaturale.

Sentivano di trovarsi d’innanzi a qualche cosa di soprannaturale.

Senza che tale confronto-scontro sia movimentato da immagini


tecnicamente ossessionate, per dare coerenza dolorosa al tormento del
protagonista. Lo sdoppiamento del barone induce l’autore a enfa-
tizzate carature umoristiche.

Giunto al castello si arrestò; entrò nelle anticamere; baciò ad una ad una


le sue cameriere; strinse la mano alle sue livree verdi, e si buttò al collo di
una di esse che accarezzo con molta tenerezza, e a cui disse parole come di
passione e di affetto98.

95
Ivi, pp. 67-68.
96
V. Roda parla in proposito del «registro dei virtuosismi descrittivi nel
racconto», amplificante l’eterodossa cinesica del barone e la sua eguale
eterodossa prossemica, causa «gli effetti somatici della doppia personalità».
V. RODA, I fantasmi della ragione, cit., p. 45
97
I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici 2003, p. 68.
98
Ivi, p. 68.

145
Se, come scrive G. Mariani, Uno spirito in un lampone s’ispira al
racconto Il borgomastro in bottiglia, degli scrittori alsaziani E.
Erckmann e A. Chatrian99, siamo in accordo completo con l’interpre-
tazione di Ghidetti che legge l’umorismo di Tarchetti come «una
rappresentazione ironica nella quale si stempera la drammaticità
dell’azione»100. La scrittura ha adottato uno stile espositivo solo in
parte conseguente all’evento raccontato; preferendo alla fine allestire
singole scene intrise di comicizzata follia e di melodrammatici terrori
per marcare quella condizione sdoppiata. Sicché il lettore percepisce
l’ordine dell’intreccio e il disordine di eventi straordinari che col-
piscono un protagonista duplicato, raddoppiato, sdoppiato e sovrap-
posto, che in quanto tale mostra lo scontro fra il proprio elemento
virile e il subentrante elemento femminile. Il registro del serio si
mescola con quello del comico. Il primo registro organizza la
manomessa condizione del barone spettatore inerme della propria
mutazione, il secondo si pone fuori del campo semantico dell’Io e
registra la stessa condizione con l’occhio esterno del narratore
eterodiegetico. Se il serio si confà al registro dell’Io (alle terrorizzate
riflessioni del barone), il comico si confà al registro dell’Egli (ai do-
sati ammiccamenti comici del narratore). Così la serietà omodiegetica
e la comicità eterodiegetica sono utilizzate per vivacizzare un dramma
interno o per mostrare dall’esterno fatti singolari interpretati alla luce
di un umorismo impietoso. La materia drammatica quando viene
rappresentata sulla scena del comico gode di una ripetizione irri-
verente. Il gusto della farsa è già attivo quando l’autore sceglie una
scrittura che non ricorre al solo stile drammatico per illustrare un caso
di possessione.
Va pure detto che un barone amante della caccia e di virili piaceri
è anche il primo “transessuale” della letteratura italiana moderna. E
questo fatto invita a riflettere sull’aspetto incandescente di una
vicenda che in singole sequenze teatralizza le disavventure di un
uomo-donna. Allora si capiscono le ragioni dell’ambientazione eso-
tica (la Calabria come luogo di passioni solidamente eterosessuali, al
pari della Spagna per l’opera lirica); l’alto tasso simbolico di quinte
metastoriche (il bosco, la campagna, il castello); i personaggi più vi-

99
Cfr. G. MARIANI, Il racconto come storia delle sensazioni: Igino Ugo
Tarchetti, cit. p. 423. Anche Ghidetti s’allinea con l’ipotesi di Mariani. Cfr.
E. GHIDETTI, Introduzione, cit., p. 43
100
Ibidem.

146
cini all’astrazione della fiaba o del melodramma che al racconto
naturalista (la vecchia, i giovani contadini, le domestiche, i servi, il
popolo del villaggio)101.
Alcuni luoghi topici, un’ambientazione esotica, personaggi
fiabeschi e melodrammatici sono necessari ad un racconto dai
contenuti trasgressivi, nonostante l’alibi del fantastico. Talmente tra-
sgressivi che lo scrittore abbandona la Lombardia e situa la storia in
una regione percepita dal lettore del Nord lontana quanto carica di
sapori esotici, anche se, è stato notato, «la Calabria è solo uno sfon-
do»102.
Se poi alla coppia esotismo-spiritismo s’aggiunge il declassamento
stilistico dell’umorismo grottesco, anche con quest’ultimo racconto le
convenzioni del fantastico ottocentesco sono disattivate da una
sperimentazione a tratti perfino ludica, anticipante i chimismi funam-
bolici del fantastico novecentesco cresciuto alla scuola delle prime
Avanguardie.

101
Anche se queste realtà statiche quanto spazialmente lontane sono
avvicinate dal segnale cronologico («Nel 1854 un avvenimento pro-
digioso…») che provvede a mescolare il fantastico puro con una percezione
“storica” degli eventi di sapore pre-unitario.
102
Michele DALL’AQUILA, Sud mitico e sud storico nell’opera di
Tarchetti, in AA. VV, Igino Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, cit. p.186

147
III
Il fantastico italiano nel Novecento
ANGELO M. MANGINI

Il maldestro demiurgo.
Note sul “doppio” nel fantastico papiniano

Quando nel 1983 Italo Calvino si trovò a compilare un’antologia


che raccogliesse, dalle diverse letterature, i più significativi esempi di
Racconti fantastici dell’Ottocento, non poté trovare un solo testo
italiano che fosse, a suo parere, degno di figurarvi1. Ma, appena un
anno più tardi, recensendo una raccolta di racconti fantastici italiani
del Novecento, non esitò a dichiarare che alcuni fra gli autori lì
antologizzati (Savinio, Buzzati, Landolfi) erano da considerarsi fra i
«principali [...] su scala mondiale»2. La posizione critica che emerge
dal confronto fra i due interventi calviniani sottolinea efficacemente
l’innegabile salto di qualità che la letteratura italiana di modo
fantastico compie nel passaggio fra i due secoli. Una tradizione che,
per tutto l’Ottocento, appare sostanzialmente tardiva, periferica e pri-
va di originalità nel contesto europeo produce poi, nel corso del-
l’ultimo secolo, una messe di testi che – dal punto di vista della quan-
tità e della qualità – può aspirare a vedersi riconosciuta una posizione
di primo piano nel pur vasto orizzonte del fantastico contemporaneo.
Chi volesse individuare il momento cruciale in cui il fantastico
italiano nasce a nuova vita, scrollandosi di dosso il proprio pro-
vincialismo e inaugurando un prestigioso percorso novecentesco, do-
vrebbe – sostiene ancora Calvino – rivolgersi al Pilota cieco di
Giovanni Papini: di quel Papini giovanile «tutto esattezza e ne-
gatività» col quale – a confermarne il rilievo non solo italiano – già
aveva riconosciuto di essere in debito anche uno scrittore del calibro
di Jorge Luis Borges3.
1
Il saggio che fa da premessa a questa antologia può ora essere letto in I.
CALVINO, Saggi 1945-1985, Milano, Mondadori, 1995, tomo II, pp. 1654-
1665.
2
I. CALVINO, Un’antologia di racconti “neri”, in Saggi, cit., tomo II, p.
1693.
3
«Volendo segnare il momento in cui il racconto fantastico italiano si stacca
dai modelli ottocenteschi e diventa un’altra cosa (o cento altre cose)
potremmo indicare il 1907, data del Pilota cieco di Giovanni Papini, quel

151
Non sembra di poter dire che l’indicazione che si può trarre dalla
convergenza del giudizio di Calvino con quello di Borges abbia
sollecitato – nell’ambito di studi peraltro assai fervidi sulla scrittura di
“modo” fantastico4 – un’adeguata attenzione critica per testi che pos-
sono a giusto titolo essere considerati gli “incunaboli” in cui le linee
che guideranno i successivi sviluppi del fantastico italiano nove-
centesco cominciano a prendere forma e a rendere percepibili aspetti
di continuità e di discontinuità con la tradizione del secolo pre-
cedente5. Proprio per il loro valore inaugurale, le novelle raccolte nel
Pilota cieco (1907) e le altre che, secondo lo stesso Papini, formano
con esse «un libro solo» e sono riconducibili ad una medesima «teoria
del mondo»6 (Il tragico quotidiano del 1906, e Parole e sangue del
’12) meriterebbero insomma di essere affrontate con gli strumenti che
un vasto dibattito teorico mette oggi a disposizione del lettore al fine
di verificarne compiutamente le coordinate sull’atlante del fantastico
contemporaneo. Le considerazioni che formuleremo in queste pagine
intendono proporre un parziale ma, ci auguriamo, non irrilevante

Papini giovanile caro a Borges, tutto esattezza e negatività» (I. CALVINO,


Un’antologia di racconti “neri”, cit., p. 1693). Per quanto riguarda lo scrit-
tore argentino, cfr. la sua Introduzione a G. PAPINI, Lo specchio che fugge,
Parma-Milano, F. M. Ricci, 1975, pp. 7-10.
4
Che il fantastico sia da considerarsi, più che un genere, un modo letterario, è
quanto persuasivamente sostiene R. CESERANI, Il fantastico, Bologna, il
Mulino, 1996, p. 8. Si vedano anche, in questo senso, le opinioni di R.
Jackson, Fantasy. The Literature of Subversion, London-New York,
Routledge, 1988, p. 35; e di P. D. Murphy, Introduction a ID. e V. HYLES (a
c. di),*The Poetic Fantastic. Studies in an Evolving Genre, Westport,
Greenwood Press, 1989, p. 3)
5
Fra i non molti contributi critici che si concentrano su questo versante della
produzione papiniana segnaliamo: G. PAMPALONI, Papini scrittore, in P.
Bagnoli (a c. di), *G. Papini. L’uomo impossibile, Firenze, Sansoni, 1982,
pp. 108-121; M. CALVESI, Papini e la formazione fiorentina di G. de Chirico,
Ivi, pp. 121-177; M. C. PAPINI, I “racconti di gioventù” di G. Papini, in
«Studi Novecenteschi», anno XVIII, n. 41 (giugno 1991), pp. 51-62; M.
VERDENELLI, Il “fantastico” nel primo Papini, in «Stazione di Posta», nn.
51-52 (genn.-apr. 1993), pp. 7-18; J. SOLDATESCHI, Il giovane “fantastico”
Papini, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», anno CI, serie VIII, n. 1
(genn.-apr. 1997), pp. 131-142; C. DI BIASE, G. Papini. L’anima intera,
Napoli, ESI, 1999, pp. 53-119.
6
G. PAPINI, Tutte le opere, vol. I (Poesia e fantasia), Milano, Mondadori,
1958, p. 727.

152
contributo in questo senso facendo reagire la teoria freudiana
dell’Unheimliche con la multiforme ed assidua frequentazione papi-
niana del più classico dei motivi fantastici che lo stesso discorso freu-
diano lega indissolubilmente e ripetutamente al perturbante: il dop-
pio7.
Particolarmente utile si rivelerà, ai nostri fini, il collegamento,
istituito da Freud, fra la sensazione angosciosa causata dalle letture
del fantastico e il «riaggancio a singole fasi del cammino che il senso
dell’Io ha percorso durante la sua evoluzione». Si tratta, più precisa-
mente, di una vera e propria «regressione a tempi in cui non erano an-
cora nettamente tracciati i confini tra l’Io e il mondo esterno e gli
altri»8, di un cammino a ritroso che finisce per metterci a confronto
con quella fase narcisistica dello sviluppo individuale che è il cor-
rispondente ontogenetico di ciò che il pensiero arcaico, magico e
animistico è per la storia della civiltà umana nel suo complesso9.
Nell’una come nell’altro si sbiadiscono e rischiano quasi di svanire i
confini fra l’interiorità e l’esteriorità, fra pensiero e azione, naturale e
simbolico, io e non-io. Il pensiero arcaico è infatti informato ad una
logica ancora molto simile a quella simmetrica e non dividente che –
come ha mostrato Ignacio Matte Blanco10 – vige nell’inconscio e non
riconosce il valore dei principi di identità e di non contraddizione, una
logica che testimonia la strettissima prossimità del pensiero arcaico e
infantile ad una condizione di pre-individuale indifferenziata unità fra

7
Per la vastissima letteratura critica sul doppio si rimanda a due libri recenti
e molto utili, non solo dal punto di vista bibliografico: M. FUSILLO, L’altro e
lo stesso. Teoria e storia del doppio, Scandicci, La Nuova Italia, 1998; P.
JOURDE e P. TORTONESE, Visages du double. Un thème littéraire, s. l.,
Nathan, 1996. Sempre fondamentale, in ogni caso, il celebre saggio di O.
RANK, Il Doppio, Milano, Sugarco, 1987.
8
S. FREUD, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio,
Torino, Bollati-Boringhieri, 1991, p. p. 288.
9
Ivi, p. 293: «Sembra che noi tutti, nella nostra evoluzione individuale,
abbiamo attraversato una fase corrispondente a questo animismo dei
primitivi, che questa fase non sia stata superata da nessuno di noi senza
lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestazione». Per
quanto riguarda l’animismo e il «sistema di pensiero» arcaico, il testo freu-
diano di riferimento è, ovviamente, Totem e tabù, in Opere, Torino, Bo-
ringhieri, 1967-1980, vol. VII, pp. 1-164
10
I. MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-
logica, Torino, Einaudi, 1981.

153
Io e mondo. La sensazione dell’Unheimliche si attiva quando ci
rendiamo conto che al di là delle “nuove convinzioni” coltivate dalla
nostra coscienza post-cartesiana e post-illuministica esiste una zona
della nostra psiche in cui le antiche forme di pensiero ancora
sopravvivono e sono, per così dire, «all’agguato in attesa di
conferma»11. In ultima analisi, «tutto ciò che oggi ci appare “per-
turbante”» – dice Freud – «risponde a questa condizione: di toccare
tali residui di attività psichica animistica e di spingerli a ma-
nifestarsi»12. Vittima di questo “agguato” dell’arcaico è ovviamente il
pensiero razionale e la soggettività che su di esso poggia le proprie
basi, basi di cui avverte improvvisamente ed inopinatamente la
fragilità.
Dal punto di vista dell’individuo adulto e raziocinante, la mentalità
magico-animistica non può non apparire che legata ad una condizione
di profonda debolezza ed incompiutezza dell’individuazione13. In essa
la presenza unitaria del soggetto, ancora incerta e vacillante, rischia ad
ogni passo di perdersi e diviene possibile solo in quelle forme
compromissorie e confusive che il pensiero magico consente. La co-
siddetta onnipotenza dei pensieri si rivela, in questa prospettiva, inse-
parabile dal dramma angoscioso di una «presenza che vuole esserci
nel mondo»14 e riesce a tracciare i propri confini solo con linee incerte
ed evanescenti. Ora, l’emergere dell’Unheimliche sta appunto a dimo-
strare che questa fragilità e problematicità dell’esserci, non è in realtà
mai superata se non in modo provvisorio e parziale. È per questo

11
S. FREUD, Il perturbante, cit., p. 301: «Noi – o i nostri primitivi antenati –
abbiamo considerato un tempo come effettive queste possibilità, eravamo
persuasi della realtà di questi processi. Oggi non ci crediamo più, abbiamo,
superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo completamente sicuri
di queste nuove convinzioni, le antiche persuasioni sopravvivono ancora in
noi e sono all’agguato in attesa di conferma. Ora, non appena nella nostra
esistenza si verifica qualcosa che sembra confermare questi antichi con-
vincimenti ormai deposti, abbiamo il senso del perturbante».
12
Ivi, p. 293.
13
Si veda, per questo aspetto, il fondamentale studio di E. DE MARTINO, Il
mondo magico. Prolegomeni alla storia del magismo, Torino, Bollati-
Boringhieri, 1997, di cui si segnala specialmente il secondo capitolo dedicato
al “Dramma storico del mondo magico”, pp. 70-168; a queste pagine an-
dranno accostate quelle altrettanto importanti di Sud e magia, Milano,
Feltrinelli, 2001.
14
E. DE MARTINO, Il mondo magico…, cit., p. 79.

154
motivo che la trasgressione dell’ordine razionale che ha luogo nel
fantastico non è mai priva di conseguenze terrificanti. Tali con-
seguenze ricordano al soggetto che le catene del principio di realtà e
di individuazione, che lo inchiodano alla sua incompiutezza e alla sua
impotenza, formano anche, per usare una metafora lacaniana, l’«ar-
matura»15 che contiene, sostiene e protegge la sua integrità: non è pos-
sibile liberarsi da essa senza esporsi al rischio di crudeli e dolorose
lacerazioni.
A divenire perturbante è anzi, secondo Freud, proprio ciò che in
origine aveva valore di conforto e di rassicurazione: vecchie soluzioni
a problemi che ancora non abbiamo risolto. Soluzioni o – come
direbbe piuttosto Papini – «strumenti»16 che si sono rivelati ina-
deguati, ma che non cessano di ricordarci la ferita, mai rimarginata,
che volevano suturare; strumenti che, proprio per la funzione che un
tempo hanno svolto, mettono in luce la reversibilità di ogni processo
soggettivante, denunciano il finale fallimento di ogni strategia di
riscatto della presenza unitaria dell’individuo dalla labilità che la in-
sidia. Accade così che gli dei si trasformino in démoni e che le più
tipiche articolazioni del pensiero animistico (i doppi, l’onnipotenza
dei pensieri, la sopravvivenza dei defunti), che «nei tempi psichici
primordiali» avevano «un significato più amichevole», divengano
«spauracchio»17 della ragione. Il perturbante e il fantastico ce le mo-
strano in una dimensione di minacciosa estraneità, avvolte in quel-
l’ombra raggelante che la rimozione e l’oblio hanno steso sui loro
tratti un tempo familiari. Le credenze arcaiche ritornano, ma ci sono
ormai irreparabilmente divenute nemiche; l’ambivalenza che sempre
spetta a tutto ciò che si avvicina alla sfera del sacro e del tabù18 – la
stessa ambivalenza che appartiene al termine Unheimliche – tende
sempre più a risolversi nel segno del maleficio e della distruttività,
perché è questa una ambivalenza che mette in questione la solidità
delle distinzioni su cui si fonda il nostro pensiero e accenna alla

15
J. LACAN, Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 91.
16
G. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi, in Tutte le opere, vol. II (Filosofia e
letteratura), Milano, Mondadori, 1961, pp. 173 ss.
17
S. FREUD, Il perturbante, cit., p. 288.
18
Fra le opere freudiane, si vedano soprattutto il secondo capitolo del cit.
Totem e tabù, pp. 27-80; e Significato opposto delle parole primordiali, in
Opere, cit., vol. VI, pp. 181-191. Ma cfr. anche, in generale, il fondamentale
saggio di R. OTTO, Il sacro, Milano, Feltrinelli, 1966.

155
sostituibilità di tutte le cose in quella «presenza assoluta delle
origini»19 che è molto difficilmente distinguibile dalla dispersione as-
soluta nell’Altro di ogni presenza unitaria del Sé.
Evocato in origine come «assicurazione contro la scomparsa del-
l’Io»20, come difesa efficace a contrastare quell’aurorale coscienza del
possibile smarrimento della propria individualità che sostanzia l’or-
rore della morte21, l’alter ego subisce dunque l’evoluzione tipica dei
motivi perturbanti e diviene così una presenza quasi sempre ostile e
minacciosa. Una presenza capace di insidiare quella consistenza e
integrità del soggetto che avrebbe dovuto originariamente tutelare;
capace di ricordare quello «spavento dell’inesistenza» da cui sorge,
quel «terrore dell’annientamento» che vorrebbe negare ma che è in
realtà, per dirla con Papini, il suo «lievito» e il suo «fermento»22. La
moltiplicazione dell’immagine che si propone di preservare l’in-
dividuo da ogni minaccia di dissoluzione – e che si trasforma ben
presto, già nelle culture arcaiche e tradizionali, in un perturbante
«messaggero di morte»23 – viene accolta e riformulata, nelle let-
terature moderne, da quel «discorso decentrato del soggetto»24 che è il
fantastico. Di tale discorso diviene, anzi, la figura privilegiata, la pri-
maria proiezione simbolica dell’intima disunità e debolezza del
soggetto, della sua insuperabile difficoltà a tracciare i confini tra il Sé
e il riflesso spettrale del suo stesso volto nello specchio oscuro che la
morte gli porge. Esemplare del trattamento papinano del Dop-
pelgänger – e della lucida, insistita, refutazione dell’idea di continuità
e consistenza della coscienza individuale che esso tende comples-
sivamente ad articolare – è il racconto dal quale può utilmente pren-
dere le mosse il nostro avvicinamento all’opera fantastica dello
scrittore fiorentino: Due immagini in una vasca25.

19
M. MERLEAU-PONTY, Segni, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 229.
20
S. FREUD, Il perturbante, cit., p. 286, che si rifà al citato saggio di O.
RANK, Il Doppio, cit., pp. 91-103.
21
E. MORIN, L’homme et la mort dans l’histoire, Paris, Corrêa, 1951, p. 21.
22
G. PAPINI, L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica, in Tutte le opere,
vol. II (Filosofia e letteratura), cit., p. 220.
23
O. RANK, Il Doppio, cit., p. 103.
24
I. BESSIERE, Le récit fantastique. La poétique de l’incertain, Paris,
Larousse, 1974, p. 103.
25
G. PAPINI, Due immagini in una vasca, in Tutte le opere, vol. I (Poesia e
fantasia), cit., pp. 571-579. Pubblicato in «Hermes» nel luglio 1906.

156
Dopo aver vissuto a lungo nelle «grandi città delle costa», il
protagonista e narratore di questa novella fa ritorno alla piccola ca-
pitale dove per cinque anni aveva studiato, «con maestri dalle
classiche barbe bianche, le scienze più germaniche e immaginarie»26.
Perché tornare – sulle orme del proprio passato di studente – alle «vie
strette», alle «mura silenziose e un poco annerite dalle piogge»27 di
questa città universitaria persa in mezzo alla pianura? L’unica e vera
ragione del nostalgico viaggio è immediatamente dichiarata nel-
l’incipit del racconto con un interrogativo che si risolve in
confessione:

Solo per rivedere il mio viso in una vasca morta, piena di foglie morte, in
un giardino sterile, mi fermai dopo tanto tempo nella piccola capitale? –
Quando vi fui presso non pensavo di avere altra ragione che questa.28

È la vasca di acqua morta e stagnante che si trova nel giardino in


cui egli era solito, ai tempi del suo noviziato scientifico, ritirarsi a
studiare. Gia allora egli era solito fissare il suo sguardo nelle
profondità di questo torbido invaso, attendendo che sulla superficie
immobile29 di un liquido che, qui più che mai, merita di essere
considerato «autentico supporto materiale della morte»30 si disegnas-
sero i tratti del suo volto, comparisse un immagine speculare capace
di soggiogarlo e affascinarlo, di fare di lui il riflesso di un riflesso,
inghiottendo, con le foglie morte, ogni velleitaria autonomia del sog-
getto, ogni presunzione di «esistere per proprio conto»:

26
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 571.
27
Ibidem.
28
Ibidem.
29
«L’acqua sembrava così immobile e stanca come se fosse la stessa da un
numero enorme di anni. Del resto le foglie degli alberi la coprivano quasi
interamente e anche le foglie sembravano cadute là dentro negli autunni dei
secoli scorsi» (Ivi, p. 572).
30
Così definisce l’acqua G. BACHELARD, L’eau et les rêves, Paris, Corti,
1994, p. 78; ma cfr. più ampiamente, Ivi, pp. 57-108; E. MORIN, L’homme et
la mort..., cit., pp. 117-119. Le credenze primitive che fanno dello specchiarsi
nell’acqua un funesto presagio di morte sono ricordate da J. G. FRAZER, Il
ramo d’oro, Torino, Boringhieri, 1973, p. 301. Per uno studio psicoanalitico
dell’acqua quale simbolo di morte nell’opera di un modello dichiarato del
Papini fantastico, cfr. M. BONAPARTE, Edgar Poe. Sa vie, son œuvre, Paris,
Denoël, 1933.

157
Quando ero stanco di leggere o la luce scemava, cercavo di vedere i miei
occhi riflessi nell’acqua o contavo le vecchie foglie e seguivo con estatica
ansia i loro lenti viaggi al respiro ineguale del vento. Qualche volta le foglie
si diradavano o si raccoglievano tutte verso il fondo e allora vedevo dentro
l’acqua il mio volto e lo fissavo così lungamente che mi sembrava di non
esistere più per mio conto, col mio corpo, ma di essere soltanto un’immagine
fissata nella vasca per l’eternità.31

Il giardino sterile e dilapidato nel quale ci introduce questo rac-


conto riproduce fedelmente il modello dell’hortus conclusus caro a
tanti scrittori decadenti come spazio in cui ricercare, e possibilmente
ritrovare, «con gli amari segni dell’abbandono, il sapore sublime delle
cose defunte, del passato irrevocabile e perduto»32. È proprio questa
opera di rievocazione del passato che regala al personaggio papiniano
un successo tanto sconcertante quanto inaspettato:

Volli ancora rivedere la mia faccia nell’acqua e mi accorsi ch’era diversa,


assai diversa da quella ch’io ricordavo così lucidamente. L’incanto di quella
vasca, di quel luogo mi riprese. Mi sedetti sopra una delle scogliere artificiali
e colla mano mossi le foglie morte per fare uno specchio più grande al mio
volto impallidito e trasfigurito. Stavo da alcuni minuti mirando la mia
immagine e pensando alle strane leggi del tempo, quando vidi disegnarsi
nell’acqua, accanto alla mia, un’altra immagine. Mi volsi impetuosamente:
un uomo s’era seduto accanto a me nella vasca. Lo guardai trasognato – lo
guardai ancora e mi parve che mi somigliasse. Volsi ancora l’occhio alla
vasca e contemplai di nuovo la sua immagine riflessa sul cupo fondo. In un
momento mi accorsi della verità: la sua immagine rassomigliava per-
fettamente a quella ch’io riflettevo sette anni innanzi!33

L’immagine si sdoppia, accanto ad essa emerge dal cupo ristagno


delle acque ciò che essa non sa né può contenere: l’Io di ieri che il
riflesso di oggi necessariamente esclude. A ritornare nel reale è ciò
che l’Io presente deve ogni giorno dimenticare per differenziarsi dalla
fluida e magmatica mutevolezza del divenire e costruire così, nel-
l’armatura dell’immagine speculare, quell’ingannevole parvenza di
integrità e stabilità che gli dà la possibilità di riconoscersi. L’Io di ieri
o di un minuto fa, gli innumerevoli Io che ad ogni istante il nostro

31
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 572, corsivo nostro.
32
E. SANGUINETI, Nel parco, in Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino,
Einaudi, 1975, p. 64.
33
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 573, corsivo nel testo.

158
passato inghiotte e di cui nello specchio non resta traccia, sono gran
parte di ciò che manca al nostro riflesso quando, di fronte ad esso, ci
sentiamo così sicuri di essere noi stessi. L’apparizione perturbante del
double si verifica appunto quando, come direbbe Lacan, questa man-
canza viene a mancare34, quando l’assenza si converte d’un tratto in
un’impossibile, ma reale, presenza.
L’Unheimliche, come abbiamo ricordato, consiste, anche e
soprattutto, nell’emersione di momenti della nostra storia individuale
e collettiva che reputiamo oramai superati, di «singole fasi del cam-
mino che il senso dell’Io ha percorso durante la sua evoluzione»;
l’angoscia perturbante è provocata dall’ingovernabile ritornare di
qualcosa che ci era stato un tempo intimamente familiare. Una novella
come quella di cui ci stiamo occupando – nella quale l’Io del passato
emerge dai torbidi recessi della memoria per affrontare l’Io del pre-
sente – può dunque essere considerata l’esemplare figurazione di un
aspetto fondamentale del perturbante freudiano e della sua relazione
con il tempo35: il ritorno del superato e dell’arcaico. Essa ci ricorda
quanto sia vicino al cuore dell’Unheimliche «l’improvviso sfaldarsi
del tempo, dell’ordine in cui avevamo disposto e imbrigliato la nostra
storia» che si verifica – come scrive Graziella Berto – nel momento in
cui

un “pezzo” del passato che credevamo dimenticato, altro da noi, si


ripresenta inaspettatamente, interagisce con il presente o addirittura ne occu-
pa il posto, creando così una smagliatura da cui possiamo scorgere, nel ro-
vescio del tempo, un garbuglio inestricabile di fili, ricco di nodi irrisolti,
ancora intatti, che ne costituiscono la trama.36

A testimoniare la vitalità di queste tematiche nella cultura italiana


del primo Novecento si potrebbe citare una pagina pirandelliana che –
pubblicata un paio d’anni dopo questo racconto – sembra quasi una
sua chiosa puntuale e, al tempo stesso, una sorprendente anticipazione
di alcuni aspetti del discorso freudiano:

Non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi,
quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con

34
J. LACAN, Seminaire X. L’angoisse (1962-63), cit. in G. BERTO, Freud,
Heidegger, lo spaesamento, Milano, Bompiani, 1999, p. 92.
35
Cfr., in proposito, G. BERTO, Freud, Heidegger…, cit., pp. 63-68.
36
G. BERTO, Freud, Heidegger..., cit., p. 66.

159
pensieri e affetti già da un lungo oblìo oscurati, cancellati, spenti nella nostra
coscienza presente, ma che a un urto, a un tumulto improvviso dello spirito,
possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere
insospettato. […] Certi ideali che crediamo ormai tramontati in noi e non più
capaci di alcuna azione nel nostro pensiero, sui nostri affetti, sui nostri atti,
forse persistono tuttavia, se non più nella forma intellettuale, pura, nel
sostrato loro costituito dalle tendenze affettive e pratiche. E possono essere
motivi reali di azione certe tendenze da cui ci crediamo liberati, e non aver
per l’opposto efficacia pratica in noi, se non illusoria, credenze nuove che
crediamo di possedere veramente, intimamente.37

Il conflitto, la «lotta», che può insorgere nell’intimo di ciascuno


fra presente e passato, continua Pirandello, «può raffigurarsi come
una lotta d’anime fra loro, che si contrastino il dominio definitivo e
pieno della personalità»38. La temporalità lineare e irreversibile della
coscienza, l’ordinata successione di un prima e di un dopo che strut-
tura la nostra percezione razionale del mondo, si scopre dunque in-
sidiata da un’atemporalità che il soggetto non ha alcuna possibilità di
dominare; la demoniaca ripetitività del perturbante ci confronta con la
inestinguibile vitalità di contenuti psichici che crediamo estinti e non
cessano, invece, di turbare il nostro riposo. «Quando hai creduto di
partire definitivamente» – così dice il double al protagonista del rac-
conto –

io son rimasto qui, in questa città ove il tempo non scorre, senza
muovermi, senza far niente, ad attenderti. Sapevo che saresti tornato. Avevi
lasciato la parte più sottile della tua anima nell’acqua di questa vasca e di
quest’anima ho vissuto fino a questo giorno. [...] Abbimi di nuovo tuo
compagno, finché non partirai ancora una volta da questa città esiliata dal
mondo e dal tempo.39

Ritornato ad un luogo che era stato un giorno la sua casa e dal


quale egli «credeva» di essersi da lungo tempo allontanato, sopraffatto
dall’antica familiarità di un ambiente che dovrebbe essergli oramai
divenuto estraneo ma che è in realtà figura di una dimensione in cui

37
L. PIRANDELLO, L’umorismo, Milano, Mondadori, 1992, p. 151. Che
l’opera fantastica del giovane Papini abbia «caratteri singolarmente
pirandelliani» è quanto già notava G. PAMPALONI, Papini scrittore, cit., p.
117. Cfr. anche ampiamente: C. DI BIASE, G. Papini…, cit.
38
L. PIRANDELLO, L’umorismo, cit., p. 153.
39
G. PAPINI, Due immagini..., cit., pp. 573-574.

160
ogni divenire si rivela impossibile o illusorio («città ove il tempo non
scorre [...] esiliata dal mondo e dal tempo»), il personaggio papiniano
si volge verso il proprio passato e si confronta con una fase della sua
storia personale che reputava cancellata dagli anni e dall’oblio. Che
tale fase, come vuole la teoria freudiana del perturbante, corrisponda
primariamente al momento narcisistico dell’evoluzione della co-
scienza è quanto chiaramente conferma il gesto – di forte ed evidente
portata simbolica – attorno al quale ruota tutto il racconto e che causa
la perturbante apparizione del Doppelgänger: rimirare, con quasi
ipnotica fissità, il riflesso del proprio volto in uno specchio d’acqua. Il
soggetto accompagna con l’insistenza di uno sguardo che ripe-
tutamente misura e percorre la distanza che separa il reale dal-
l’immaginario l’epifania di un doppio che raffigura il collasso di ogni
discrimine fra Io e Tu, vita e morte, passato e presente, e così gli
rivolge la parola: «Io so che tu sei me – un me passato da un pezzo,
un me che io credevo morto, ma ch’io rivedo qui, come lo lasciai,
senza un visibile cambiamento»40.
L’uomo ha fatto ritorno alla sua antica dimora spinto da una
profonda ed inspiegabile necessità interiore, la necessità di ritrovare il
proprio Sé di un tempo che lì lo attende e sopravvive senza mu-
tamento. A muoverlo è insomma il desiderio di unione con l’Altro che
egli stesso un giorno era stato, un desiderio che lo spinge ad evocare il
suo doppio dalle profondità di quel liquido specchio di Narciso che è
la «superficie ontologica dell’originarsi del mondo (e del soggetto) sul
bordo del Nulla», bordo sul quale «il soggetto incontra se stesso, la
propria immagine e l’Altro»41. Se l’incontro col double non fosse ri-
cercato, invocato e profondamente desiderato non si spiegherebbe il
vero e proprio idillio che subito si accende fra il personaggio e il suo
doppio42, i «giorni d’impreveduta gioia», «di passeggiate e di con-
fidenze»43 che seguono al loro incontro.
Si tratta – prevedibilmente – di un idillio destinato a rivelarsi
effimero perché, nel dominio del fantastico le trasgressioni che il
40
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 573.
41
P. GAMBAZZI, L’occhio e il suo inconscio, Milano, Cortina, 1999, p. 160.
42
Dice il doppio: «Vorrei ricongiungermi con te, starmene stretto con te,
vivendo con te, ascoltando da te il racconto delle tue vite di questi anni». La
risposta del protagonista non si fa attendere: «Accennai col capo di sì ed
uscimmo dal giardino colla mano nella mano, come due fratelli» (G. PAPINI,
Due immagini..., cit., p. 574).
43
Ibidem.

161
desiderio inesorabilmente impone sono sempre foriere di sgomento e
di sventure. E infatti, «dopo le prime ore di effusione, dopo i primi
giorni di rievocazione»44, il narratore sarà ben presto preda di un
«tedio inesprimibile»45, e giungerà persino a provare «odio» per il suo
«passato se stesso»46. All’appassionata intesa si sostituisce allora quel
contrasto che caratterizza spesso il motivo del Doppelgänger e che si
configura, nel nostro caso, come una lotta fra colui che tenta di
allontanarsi dalla città (e cioè, fuor di metafora, di superare la paralisi
temporale che lo condanna a rivivere senza scampo il già vissuto) e il
suo doppio che tenta, anche con la violenza e la forza, di trattenerlo
per sempre in quel luogo «lentamente triste»47: nel luogo in cui il
divenire rifluisce fatalmente su se stesso facendo ristagnare il tempo
in un passato/presente insuperabile e senza mutamento.
Trascinato dall’odio e dalla disperazione, il protagonista della
novella è ormai deciso a liberarsi dalla tirannia della sua «lamentevole
ombra»48, deciso a percorrere sino in fondo la strada che condurrà il
racconto all’esito luttuoso e cruento che spesso conclude le vicende in
cui il doppio fa la sua comparsa49. Tale conclusione – è ovvio – non
può aver luogo che nello «sterile giardino» dove tutto era iniziato,
presso la «vasca morta piena di foglie morte»:

Anche quel giorno ci sedemmo sopra le roccie finte e allontanammo con


la mano le foglie per contemplare le nostre immagini. Quando i nostri volti
apparvero, ambedue, vicini, sopra lo specchio cupo dell’acqua, io mi volsi
rapidamente, afferrai il mio me passato per le spalle e lo gettai col viso sopra
l’acqua, nel punto ove appariva la sua immagine. Spinsi la sua testa sotto
l’acqua e la tenni ferma con tutta l’energia del mio odio esasperato. Egli
tentò dibattersi, le sue gambe si agitarono violentemente ma la sua testa restò
nell’onda tremante della vasca. Dopo qualche minuto sentii che il suo corpo
si accasciava e diveniva floscio. Allora lo lasciai ed egli cadde ancora più
giù, verso il fondo dell’acqua. L’odioso me passato, il mio ridicolo e stupido
me degli anni passati era morto per sempre50.

44
Ibidem.
45
Ivi, pp. 574-575.
46
Ivi, p. 577.
47
Ibidem.
48
Ibidem.
49
«L’impulso a liberarsi con la violenza dell’inquietante antagonista è […]
uno degli aspetti essenziali del tema» (O. Rank, Il Doppio…, cit., p. 32)
50
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 577.

162
Il narratore, dunque, fa fare al proprio doppio la morte di Narciso
e, così facendo, riconduce violentemente ad unità la propria immagine
scissa e moltiplicata. Lacune, fratture e incongruenze della compagine
soggettiva si inabissano nuovamente nell’assenza e nell’invisibilità da
cui erano emerse, un’assenza e un’invisibilità sulla superficie delle
quali si disegna, a suggellarle, il riflesso di un’immagine inganne-
volmente unitaria. Certo, ora il passato è morto51, la vita può ri-
prendere il suo corso, l’Io può infine allontanarsi dal giardino e dalla
vasca per ritornare, «nelle grandi città della costa», ad una relazione
dinamica con il tempo e con il mondo. Eppure il suo futuro sarà per
sempre insidiato dalla sensazione di un’indefinibile mancanza, di una
penosa incompiutezza; la sua esistenza sarà d’ora in poi l’esistenza
spettrale e luttuosa di chi «seguiti a vivere» avendo – come il William
Wilson di Poe – «ucciso se stesso»52.
La consapevolezza di non «esistere per proprio conto» che
abbiamo visto delinearsi in questo racconto caratterizza del resto
anche il leggendario ed enigmatico «Gentiluomo Malato» pro-
tagonista di un’altra pagina del fantastico papiniano. Questo miste-
rioso «seminatore di spavento»53 di cui nessuno conosce il vero nome
si presenta infatti di primo mattino, alla vigilia della propria in-
spiegabile scomparsa, presso l’abitazione del narratore, per rivelargli
la convinzione di dovere la propria esistenza e la propria identità ad
51
Si ricordi che anche Dorian Gray si risolve a pugnalare il suo
ritratto/double pensando che «così avrebbe ucciso il passato, e una volta
morto il passato, sarebbe stato libero» (O. WILDE, Il ritratto di Dorian Gray,
in Opere, a c. di M. d’Amico, Milano, Mondadori 1990, p. 171).
52
«Ora vivo ancora nel mondo, nelle grandi città della costa, e mi sembra che
qualcosa mi manchi di cui non ho ricordo preciso. Quando la gioia mi assale
con le sue stupide risa penso che sono il solo uomo che abbia ucciso se stesso
e che seguiti a vivere» (G. PAPINI, Due immagini..., cit., pp. 578-579). Sul-
l’unicità di questa esperienza sarà lecito, da parte di chi abbia una conoscenza
anche superficiale della tradizione fantastica, esprimere più di un dubbio. Si
leggano, a titolo di esempio, le parole con le quali William Wilson è
apostrofato dal proprio doppio morente: «Tu hai vinto […] ed io cedo. Ma tu
pure, da questo momento, sei morto – sei morto al Mondo, al Cielo, alla Spe-
ranza! In me tu esistevi – e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che
è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso» (E. A. POE,
William Wilson, in Racconti del terrore, Milano, Mondadori 1985, p. 163).
53
G. PAPINI, L’ultima visita del Gentiluomo Malato, in Tutte le opere, vol. I
(Poesia e fantasia), cit., pp. 537-543. Pubblicato nella rivista «Hermes» del
gennaio 1906.

163
un Altro, di avere in questo Altro – e precisamente nel suo sognare –
il proprio fondamento e la propria dimora. Anticipando le borgesiane
Rovine circolari, il Gentiluomo di Papini sostituisce le proprie con-
vinzioni ai dubbi che già nutrirono, in proposito, l’Alice di Through
the Looking-Glass e il cinese Chuang Chou54:

Io non sono un uomo reale. Non sono un uomo come gli altri, un uomo di
ossa e di muscoli, un uomo generato da uomini [...]. Io sono – e voglio dirlo
per quanto, forse, non vorrete credermi – io sono nient’altro che la figura di
un sogno. [...] Esisto perché c’è uno che mi sogna; c’è uno che dorme e
sogna e mi vede agire e vivere e muovere e in questo momento sogna ch’io
dico tutto questo. Quando quest’uno ha cominciato a sognarmi ho cominciato
ad esistere; quando si sveglierà cesserò di esistere. Io sono una sua im-
maginazione, una sua creazione, un ospite delle sue lunghe fantasie
notturne55

La vita è sogno, dunque. La realtà diurna dell’Io cosciente si


scopre – al contrario di quanto siamo normalmente disposti a credere
– subalterna alla dimensione inconscia e notturna del sogno. Il crollo
del confine che separa l’irreale dal reale, l’interiore dall’esteriore, la
coscienza dall’inconscio travolge l’autonoma consistenza del sog-
getto, ogni sua pretesa sovranità sul mondo e su se stesso. Il Gen-
tiluomo Malato sembra afferrare la sgomentevole consapevolezza che
quel rovescio del mondo e della coscienza che il soggetto non può in
alcun modo padroneggiare e che gli è dato come irrimediabile sia la
verità ultima del suo essere-nel-mondo, una verità che proviene dal-
l’Altro. Qui sta il risvolto che apparenta la novella alle tematiche del
doppio: la vita è sogno, certo, ma non un nostro sogno, bensì il sogno
di un Altro. La spaventosa certezza che angoscia il personaggio è
quella di avere nell’Altro il proprio fondamento ontologico, di esistere
nel mondo solo in quanto visto, pensato e sognato da un impensabile e
occulto “Doppelträumer” che gode di quello statuto di realtà che a lui
stesso è negato, che vive ogni sua sensazione e ogni suo pensiero,
ogni istante della sua stessa vita, come esperienza onirica, come una

54
Entrambi i brani sono riportati dalla celebre Antologia della letteratura
fantastica curata da J. L. Borges, S. Ocampo e A. Bioy Casares, Roma,
Editori Riuniti, 1992, pp. 167 e 187, che accoglie anche, significativamente,
il racconto di Papini (pp. 447-451).
55
G. PAPINI, L’ultima visita…, cit., pp. 538-539 (corsivi nel testo).

164
lunghissima e forse interminabile fantasia notturna56. L’Io non ha in
sé alcuna realtà e consistenza autonoma: è solamente «immagina-
zione» e «creazione» di qualcosa, o qualcuno, che non è altrimenti
designabile che come non-Io; l’Io si trova precipitato nel-
l’Unheimliche perché si accorge di non essere «a casa propria» nel
mondo, e di essere anzi l’«ospite» involontario e impotente di una
situazione cui è assegnato da uno sguardo onirico onnipresente al
quale egli non può in alcun modo opporsi o sottrarsi.
Il soggetto – come conferma anche l’allucinato monologo
intitolato Non voglio più essere quello che sono – non è padrone del
proprio esistere: non può essere causa di sé, e nell’Altro è fatalmente
chiamato a trovare «il luogo della sua causa significante»57. È quanto
ribadisce un racconto che sembra formulare, nel proprio titolo, la
domanda che ritorna al soggetto dal luogo da cui esso attende l’«o-
racolo»58 dell’Altro, la domanda senza risposta di quel Tu cui l’Io è
costretto ad affidare il proprio riconoscimento: Chi sei?59. La sin-
golare avventura raccontata dal narratore autodiegetico di questa
novella comincia «in modo semplicissimo»60 e apparentemente ba-
nale: egli, un bel giorno, non riceve corrispondenza, non una lettera,
non un biglietto o un giornale – nulla di nulla. Sembra trattarsi di un
incidente dappoco, di un contrattempo destinato a suscitare una
«penosa ma breve»61 sensazione di disappunto; sennonché il giorno
successivo la cosa si ripete e ben presto l’uomo si accorge, con
crescente sgomento, che nessuno dei suoi conoscenti sembra disposto
a rivolgergli la parola o ad ammettere di sapere chi egli sia: lo
sfuggono, lo trattano come uno straniero, come un perfetto scono-
sciuto, e sembrano voler creare attorno a lui un cerchio di solitudine

56
Si adatta perfettamente a questo personaggio papiniano quanto scrive C.
Rosset: «Ciò che angoscia il soggetto, molto più che la sua morte imminente,
è prima di tutto la sua non-realtà, la sua non-esistenza. […] Nella coppia ma-
lefica che unisce l’io a un altro fantasmatico, il reale non è dalla parte dell’io,
bensì dalla parte del fantasma: non è l’altro che mi duplica, sono io che sono
il doppio dell’altro. A lui il reale, a me l’ombra» (Le réel et son double, Paris,
Gallimard, 1984, p. 91).
57
J. LACAN, Scritti, cit., p. 844.
58
Ivi, p. 817.
59
G. PAPINI, Chi sei?, in Tutte le opere, vol. I (Poesia e fantasia), cit., pp.
588-598.
60
Ivi, p. 588.
61
Ibidem.

165
capace di «tagliarlo fuori dalla società dei vivi», di «abolirlo col
silenzio» e fare di lui «un essere inesistente, un morto»62. Nel
momento in cui viene a mancargli il sostegno dell’altrui ricono-
scimento, il personaggio vede sgretolarsi la propria identità e scopre
l’insanabile debolezza del proprio esserci. Il confronto con l’im-
magine speculare – alla quale egli ricorre come antidoto capace di
rinnovare l’originaria integrazione dell’identità – si rivela oramai
inefficace a fondare quella certezza di essere sé che gli altri si
ostinano a negargli, o a spiegare le incomprensibili ragioni di tale
rifiuto63. Un rifiuto che lo pone in uno stato di profonda instabilità
ontologica ed esistenziale, in una condizione che non è la morte ma
confina con essa ed è anzi «più paurosa e misteriosa»64 della morte
medesima. Il dominio dell’Io – seppur non annientato – è dispera-
tamente indebolito e circoscritto dall’incertezza in cui lo getta l’o-
stinato silenzio che il Tu oppone alle sue invocazioni, un silenzio
senza risposte e, proprio per questo, capace di riecheggiare – «in
forma invertita»65 – gli insistenti ed inquietanti interrogativi che gli
sono rivolti:

Io non esistevo più negli altri ma solo in me stesso. Mi pareva che la mia
stessa anima fosse stata amputata e che mi restasse solo un pezzetto, un
piccolo centro al quale potevo dare ancora il nome Io. Mi sembrava che tutti
quanti mi chiedessero ragione della mia esistenza. Da tutte le parti credevo
udire voci frettolose e meravigliate che chiedevano: chi siete? chi è lei? E
l’unica varietà stava nel pronome – nel voi o nel lei – ma tutti quelli che
passavano mi gettavano in faccia la crudele domanda. Allora tutte queste
domande si fusero come in un coro, divennero una sola ed enorme domanda
ch’io stesso facevo a me stesso: Chi sei?66

62
Ivi, p. 593.
63
«Appena fui giunto nella mia camera corsi allo specchio per vedere se la
mia fisionomia fosse cambiata, se il mio aspetto fosse diventato improvvi-
samente diverso. Mi osservai lungamente ma non riuscii a scoprire che il
mutamento prodotto dalla tristezza di quei giorni. Mi stesi sul divano col solo
desiderio di dormire e di sentirmi annientato» (Ivi, pp. 592-593).
64
Ivi, p. 595.
65
«Il linguaggio umano costituirebbe dunque una comunicazione in cui
l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita» (J.
LACAN, Scritti, cit., p. 291).
66
G. PAPINI, Chi sei?, cit., p. 596.

166
Utile ad esemplificare lo smarrimento ontologico in cui precipita
chi scopre fino a che punto la propria identità sia affidata allo sguardo
e alla parola dell’Altro e insieme a testimoniare l’assidua frequen-
tazione papiniana delle tematiche che stiamo trattando, questa novella
non ci mette tuttavia a confronto con una vera e propria epifania del
double, alla quale ci riavvicina un racconto come Storia comple-
tamente assurda67, che risulta molto interessante anche per le sue
implicazioni metaletterarie.
Lo scrittore che è protagonista della vicenda e sua voce narrante
sta scrivendo «alcune fra le più false pagine delle sue memorie»68
quando è disturbato da un visitatore che vuole sottoporre al suo
giudizio l’opera narrativa cui egli affida tutte le proprie speranze di
gloria, opera nella quale ha inteso narrare «la vita di un uomo fan-
tastico al quale accadono le più singolari ed insolite avventure»69. Lo
scrittore acconsente di malavoglia e presta all’importuno, che co-
mincia a leggergli le proprie pagine, un ascolto dapprima distratto e
infastidito. Ma la noia e il disinteresse si trasformano ben presto – per
ragioni dapprima incomprensibili – in un «fastidio inesprimibile»,
nella terrificante e penosissima sensazione di trovarsi in un incubo
«senza possibilità di risveglio»70 o di essere sul punto di impazzire71.
La ragione di questo incontenibile «turbamento», che strania nel
segno dell’assurdo i più comuni oggetti della realtà quotidiana
rendendo profondamente perturbante la loro familiarità72, è presto
detta:

La storia che aveva letta quell’uomo era la narrazione precisa e


completa di tutta la mia vita intima ed esteriore. In tutto quel tempo avevo
ascoltato il rapporto minuto, fedele, inesorabile di tutto ciò che avevo sentito,

67
G. PAPINI, Storia completamente assurda, in Tutte le opere, vol. I (Poesia e
fantasia), cit., pp. 580-587. Pubblicato nella rivista “La Riviera Ligure” del
dicembre 1906.
68
Ivi, p. 580.
69
Ivi, p. 581.
70
Ivi, p. 582.
71
«Credetti un momento che avrei dato in furie e vidi con la immaginazione
un infermiere incappato di bianco che mi infilava la camicia di forza con
mille precauzioni sgarbate» (Ivi, pp. 582-583).
72
«Mi sembrava in quel momento che non avrei mai più potuto parlare e le
cose più semplici ch’erano intorno a me apparvero ad un tratto al mio
sguardo così bizzarre ed ostili ch’io n’ebbi quasi ribrezzo» (Ivi, p. 583).

167
sognato e fatto da quando ero apparso nel mondo. […] Tutte le più piccole
cose e le più segrete eran ricordate e neppure un sogno o un amore o una
viltà nascosta o un calcolo ignobile erano sfuggiti allo scrittore. Il terribile
libro conteneva perfino avvenimenti e sfumature di pensiero che avevo
dimenticato e che ricordavo soltanto ora, ascoltandole. […] Chi dunque po-
teva aver detto a quell’uomo tutto ciò che narrava senza pudore e senza pietà
nel suo odioso libro rivestito di carta antica color ruggine? E costui
affermava di aver inventata quella storia e presentava, a me, la mia vita, tutta
la mia vita, come una storia immaginaria!73

Si può notare come la condizione psicologica in cui il personaggio


precipita – e che, va detto, ha nell’amore di una donna il proprio
determinante catalizzatore74 – possa essere accostata a quella sen-
sazione di «risucchio» che un famoso libro di Laing riconduce alla
fenomenologia dell’Io diviso, caratterizzandola come paura di «essere
compreso (e quindi preso, afferrato), o di essere amato, o semplice-
mente di essere visto»75. Ma si dovrà subito aggiungere che il «ri-
succhio” determinato dalla «straordinaria lettura»76 fa tutt’uno col
repentino venir meno del confine che separa l’immaginario dal reale
ed è dunque, prima di tutto, risucchio della presenza soggettiva nel-
l’universo della finzione.
È estremamente significativo, da questo punto di vista, che il
collasso della distinzione fra reale e fittizio coincida con la scelta di
dedicarsi alla scrittura autobiografica. La memorialistica e l’auto-
biografia possono infatti essere considerate la più diretta espressione
letteraria della dinamica che spinge il soggetto a cercare nel discorso
il mezzo per acquisire un’unità di senso e un’identità attraverso la
proiezione di un’immagine di sé che possa divenire oggetto di co-
noscenza e di rappresentazione. Su questa immagine oggettivata del

73
Ivi, p. 584, corsivi nel testo.
74
Il doppio dice al narratore di essere stato indirizzato a lui da «una donna
che lo ama», ciò che suscita la seguente riflessione: «Chi potrà mai essere la
donna che mi ama e che ha parlato di me a costui? Non ho mai saputo che
una donna mi amasse e se ciò fosse accaduto non l’avrei permesso perché
non c’è posizione più incomoda e ridicola di quella che hanno gli idoli di un
animale qualunque…» (Ivi, p. 581). È appena il caso di ricordare che, come
già notava Otto Rank, è quasi sempre «il rapporto con la donna a provocare la
crisi» che consente la comparsa del doppio (Il Doppio…, cit., p. 25).
75
R. D. LAING, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Torino,
Einaudi, 1969, p. 53.
76
G. PAPINI, Storia completamente assurda, cit., p. 582.

168
Sé, su questo vero e proprio doppio testuale della sua esistenza, lo
scrittore vuole esercitare la propria autorità, la propria capacità di
conferire una forma e un significato77. È, al pari di un autoritratto, il
tentativo di farsi autori della propria immagine, di disegnare noi stessi
i lineamenti del nostro riflesso nello specchio della pagina scritta. Ma
Papini presenta esplicitamente tale tentativo come un’operazione
consapevolmente menzognera e deformante78, e l’immagine che ne ri-
sulta come falsa e ingannevole. Accade allora di questo evocato
doppio letterario e testuale esattamente ciò che accadeva del doppio
equoreo di Due immagini in una vasca: esso fa luogo all’insorgere nel
reale di tutto ciò che esso nega ed occulta, di quella profonda e
inconfessabile verità del soggetto che la rappresentazione nasce per
escludere. Ecco allora che al primo doppio immaginario e fasullo –
cioè al protagonista dell’autobiografia – si aggiunge un doppio dello
scrittore in quanto narratore della propria vicenda esistenziale il quale
evoca a sua volta, leggendo la storia di cui è autore, un ulteriore
riflesso finzionale dello scrittore che, al contrario del primo, è il suo
autentico alter ego poiché riproduce la sua immagine con «esattezza
impeccabile» ed «inquietante scrupolosità»79.
Il «lettore maledetto»80 irrompe nella vita del protagonista di
questo racconto come un «fantasma inopportuno»81 per metterlo di
fronte a realtà psichiche un tempo familiari e oggi dimenticate, a
pensieri e azioni che questi vorrebbe oggi dissimulare ai propri occhi
e a quelli degli altri. Ma al di là delle viltà nascoste, dei calcoli
ignobili, dei desideri turpi e degli atti inconfessabili, la più profonda
verità con la quale lo scrittore deve confrontarsi è la natura im-

77
Sul problema della scrittura autobiografica si vedano il bel libro di A.
BATTISTINI, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, il
Mulino, 1990; le interessanti considerazioni teoriche formulate (a partire
dall’opera di Walter Pater) da M. RYAN, Narcissus Autobiographer: Marius
the Epicurean, in «ELH. English Literary History», XLIII (1976), pp. 184-208;
e le pagine raccolte a c. di B. ANGLANI, Teorie moderne dell’autobiografia,
Bari, B. A. Graphis, 1996.
78
«Non avevo mai scritta, né per me né per gli altri, una relazione completa e
sincera della mia vita e proprio in quei giorni stavo fabbricando delle finte
memorie per nascondermi agli uomini anche dopo la morte» (G. PAPINI,
Storia completamente assurda, cit., p. 584).
79
Ibidem.
80
Ivi, p. 582.
81
Ibidem.

169
maginaria della sua stessa identità: alla pretesa autobiografica di
pensare l’Io come preesistente ad una rappresentazione testuale di cui
sarebbe il fondamento, si sostituisce la convinzione perturbante che
esso non sia altro che un effetto o una conseguenza di tale rap-
presentazione; all’ambizione di attribuire all’Io una illimitata so-
vranità sulla propria immagine, si sostituisce la consapevolezza che
quest’ultima può essere veracemente delineata, conosciuta e amata
solo dall’Altro che ci fronteggia. È – direbbe André Green – il nostro
autre che, con imperfetto ma significativo anagramma, si fa nostro
auteur82.
Tematiche molto simili ritornano in una novella della raccolta
Parole e sangue che ha per protagonista una donna, una scrittrice di
nome Speranza83 che è «riuscita a trar fuori un mestiere, qualcosa che
somiglia alla letteratura» dalla propria «impressionante tristezza», da
una «solitudine senza vista di cielo»84. Ella è angosciata dalla so-
miglianza inesorabile e perturbante che esiste fra la protagonista delle
sue opere e lei stessa, fra i fatti narrati e quelli reali:

Da qualche tempo mi sono accorta che fra i tanti spunti di racconti che
tengo pronti fra i miei fogli e nella mia testa soltanto alcuni son capace di
svolgere; e, quel ch’è più strano, questi argomenti hanno qualcosa di comune
– anzi hanno in comune il fatto più importante, cioè si riferiscono tutti a una
donna e questa donna, per quanto faccia per mutarla e trasfigurarla, somiglia
precisamente a me.85

Tutto ciò, come le fa notare un po’ seccato l’interlocutore al quale


ella confessa le proprie perplessità, non sarebbe affatto “strano”
poiché, si sa, «la letteratura è uno specchio. Si fanno agire gli altri,
ma non si conosce e non si rappresenta che sé stessi»86. La stranezza
sta piuttosto in un altro aspetto della vicenda che ella chiarisce
immediatamente: «Quando ho scritto le storie della donna che mi
somiglia accade che le stesse avventure immaginate da me per l’im-
maginaria eroina, si ripetono nella vita per me, proprio per me in

82
A. GREEN, La déliaison, Paris, Les Belles Lettres, 1992, cit. in P. JOURDE e
P. TORTONESE, Visages du double..., cit., p. 68.
83
G. PAPINI, Speranza, in Tutte le opere, vol. I (Poesia e fantasia), cit., pp.
824-832.
84
Ivi, p. 824.
85
Ivi, p. 827.
86
Ivi, p. 828, nostro il corsivo.

170
carne ed ossa»87. Si tratta, evidentemente, di un caso lampante di
onnipotenza dei pensieri, o meglio, di onnipotenza dell’immagina-
zione e della scrittura; ma, come è tipico dei fenomeni perturbanti,
lungi dall’ampliare magicamente le facoltà del soggetto e la sua
capacità di influire sul mondo, tale onnipotenza è piuttosto subita e
vissuta come minacciosa. La cancellazione della linea di demar-
cazione fra reale e irreale che in essa si determina appare subito
foriera di insidie micidiali per la stabilità e l’integrità della coscienza:
quella «equazione tra i mondi rivali, tra il mondo dato dall’esperienza
primitiva e il mondo costruito dall’immaginazione e dalla riflessione»
nella quale Papini riconosceva la «grande impresa» alla quale dedicare
tutte le proprie energie88 mostra qui il suo inaspettato risvolto
inquietante e fa piuttosto balenare – com’è fatale che accada nel do-
minio della scrittura fantastica – «il terrore che emana dall’ipotesi
d’una contiguità e d’una continuità inesplorate ed orribili o, che è lo
stesso, dal venir meno dell’ipotesi d’una rassicurante discontinuità,
d’una garantita separatezza»89.
Confrontandosi con la propria immagine riflessa nello “specchio”
della letteratura la scrittrice scopre di essere subalterna ad essa, scopre
che la gerarchia ontologica che afferma la priorità del mondo rispetto
alla rappresentazione può essere facilmente ribaltata facendo
assumere al simbolo – direbbe Freud – la funzione di ciò che è sim-
boleggiato90, degradando il soggetto “in carne ed ossa” ad ombra di
quel doppio immaginario senza il quale esso non potrebbe affermare
la propria presenza. La prometeica, e decadente, ambizione papiniana
a fare della vita un’imitazione dell’arte, dell’universo «la docile creta
colla quale l’Uomo-Dio darà forma ai suoi fantasmi»91, mostra qui di
contenere i presupposti del proprio capovolgimento. L’onnipotenza
della fantasia e della parola si traduce infatti in una tragica e an-
nichilente impotenza dell’Io, la scrittrice è posseduta e “dominata” da
un double tirannico che soggioga la sua volontà, padroneggia la sua
scrittura e quindi la vita che ad essa docilmente e misteriosamente si
uniforma:

87
Ibidem, corsivo nel testo.
88
G. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi, cit., p. 176.
89
L. LUGNANI, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in
*La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 192-193.
90
S. FREUD, Il perturbante, cit., p. 297.
91
G. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi, cit., p. 181.

171
Ogni volta che prendo la penna in mano ella, cioè io, mi si fa innanzi e
s’impadronisce del mio spirito. D’altri non posso immaginare che di lei. Ho
tentato – oh se ho tentato! Quante reti ho mai teso alla mia fantasia riluttante!
– quanti vecchi temi ho tratto fuori dalle mie carte per imporli alla mia
ispirazione! Era inutile – non ero buona a infilare un periodo. Ma appena mi
lasciavo dominare e guidare da lei – cioè da me, dal mio doppio letterario e
profetico – allora tutto diventava facile e piano, le avventure si presentavano
con abbondanza, senza sforzo, l’intreccio si snodava elegantemente fino
all’ultimo e la novella veniva giù in un momento, piena di vita. Ma ognuno
di quei racconti era una condanna per me. […] E sempre, ogni volta, ciò che
predicevo con la fantasia s’avverava senza ritardi.92

Come il Gentiluomo Malato e lo scrittore di Storia completamente


assurda, Speranza si rende conto che ciò che consideriamo più reale e
più nostro – la nostra stessa esistenza – appartiene invece all’Altro e
all’immaginario: il venir meno della distinzione fra reale e fittizio (fra
simbolo e simboleggiato) fa tutt’uno con la cancellazione di quella fra
Io e non-Io (qui: fra “Io” e “Lei”). Il Gentiluomo Malato scompariva
senza lasciar traccia – forse prigioniero di un incubo senza fine, forse
annichilito dal risveglio del suo indescrivibile sognatore –; il disperato
corpo a corpo di Speranza col suo «doppio fantastico» e fatidico ha
invece la più esplicitamente tragica, e perturbante, delle conclusioni:

L’immagine del suo doppio fantastico non le dava pace e le suggeriva


giorno e notte nuove e straordinarie avventure. Allora s’era data in balia della
ispirazione e, appena aveva scritto, la realtà veniva a imitarla come prima,
come sempre. Non poteva più liberarsi; tutto ciò che l’altra dettava doveva
prima raccontare e poi subire. L’ultima novella era la più terribile di tutte:
annunziava la morte. L’infelice aggiungeva di non temere la morte ma
voleva avvertirmi perché ci fosse un testimonio della sua triste chiaro-
veggenza. Appena ebbi scorsa la lettera corsi alla pensione. Una serva che
venne ad aprirmi col viso stravolto mi disse che la signorina Speranza era
morta da poche ore per un attacco di mal di cuore. Sopra la tavola fu trovata
l’ultima sua novella nella quale una melanconica e bruna eroina moriva
perseguitata da un’ombra che nessuno vedeva al di fuori di lei.93

Questa conclusione è particolarmente interessante perché ci offre


un esempio piuttosto esplicito di quell’«uso estremo dell’autorifles-

92
G. PAPINI, Speranza, cit., p. 831.
93
Ivi, p. 832.

172
sione» che Jean Bellemin-Noël attribuisce al fantastico94. In essa in-
fatti, come sempre accade nel fantastico, viene rappresentato il
verificarsi (il divenir-reale) di qualcosa che era stato categorizzato
come irreale, ma il quid di irreale che accede al reale è, in questo
caso, proprio un racconto fantastico e, più precisamente, un racconto
fantastico il cui contenuto (una donna muore uccisa da un’ombra che
nessuno vede al di fuori di lei) coincide con quello del testo che
stiamo leggendo. Nulla sembra dunque impedirci di identificare la
novella di cui si parla nel racconto con il racconto stesso, con il testo
che abbiamo fra le mani, che sarebbe così esso stesso la novella fatale
e, ad un tempo, il resoconto della propria genesi e dei propri mortiferi
effetti.
È vero, a questa perfetta chiusura del circolo metanarrativo pare
che manchi un elemento: nel racconto non si dice che l’eroina
dell’ultima novella di Speranza sia anch’ella una scrittrice che vede
avverarsi le predizioni involontariamente formulate nella propria
opera. E allora, pur ritenendo sempre possibile tale lettura, si dovrà
convenire che il testo non la impone e ci si limiterà ad osservare che
in ogni caso, anche prescindendo da essa, la circolarità adombrata
nell’explicit risulta comunque – per i motivi sopra ricordati – tale da
autorizzarci a parlare di “fantastico nel fantastico” o di “fantastico al
quadrato”: perché la novella tematizza le modalità secondo le quali la
narrazione fantastica tende ad impostare la propria relazione con il
mondo extra-testuale; essa, cioè, mette in scena quell’effetto di
sconfinamento del racconto nel reale e di verificazione dell’impos-
sibile a cui sono finalizzati strutture e procedimenti narrativi del modo
fantastico.
Ci troviamo insomma di fronte a quel tipo di narrazione speculare
che – come direbbe Lucien Dällenbach – riflette «la maniera in cui il
racconto concepisce i suoi rapporti col proprio autore e il proprio
lettore»95 e che, così facendo, potenzia ed approfondisce la portata
metaletteraria di un tema, quello del doppio, che già appare in sé le-
gato ai processi di produzione e ricezione dell’opera letteraria da

94
J. BELLEMIN-NOËL, Notes sur le fantastique. (Textes de Théophile
Gautier), in «Littérature», n. 8 (dicembre 1972), p. 19.
95
L. DÄLLENBACH, Il racconto speculare. Saggio sulla mise en abyme,
Parma, Pratiche, 1994, p. 98.

173
un’innegabile «analogia di fondo»96. Per quanto riguarda i rapporti
con l’autore, osserviamo che Papini realizza qualcosa di molto simile
alla mise en abyme come la intendeva André Gide, e cioè un’opera in
cui si ritrovi «trasferito, sulla scala dei personaggi, il soggetto stesso
di quest’opera» e che additi «l’influenza del libro su chi lo scrive»97,
un’opera – chiosa ancora Dällenbach – nella quale si assiste allo
«sdoppiamento di un narratore, di una storia e della dialettica che si
instaura tra essi»98. Per quanto concerne invece la funzione lettore, se
si riflette sul fatto che il narratore-testimone che ci comunica gli
accadimenti e, con essi, il tema dell’ultima novella di Speranza, è , di
necessità, egli stesso lettore di questa novella, si dovrà convenire che
il racconto intitolato Speranza è, fra le molte altre cose, anche la storia
di un lettore che legge un racconto che narra i fatti di cui egli stesso è
testimone99, racconto la cui trama coincide – non dimentichiamolo –
con quella del testo che noi stessi teniamo sotto gli occhi. Ce n’è
quanto basta, ci pare, per fare scattare quell’effetto di intrappo-
lamento del lettore che è fra le finalità principali dell’organizzazione
testuale fantastica100. Effetto eminentemente perturbante, perché que-

96
«L’analogia di fondo fra il doppio e la scrittura letteraria trova conferma
nei processi di produzione e ricezione: come è stato notato, l’autore proietta
sempre un’altra immagine di sé nell’opera, sdoppiandosi, così come sim-
metricamente il lettore deve assumere un altro io un sosia per entrare appieno
nel mondo fittizio» (M. FUSILLO, L’altro e lo stesso…, cit., p. 28).
97
A. GIDE, Diario 1889-1913, cit. in L. DÄLLENBACH, Il racconto
speculare…, cit., pp. 11 e 20.
98
Ivi, p. 25.
99
La lettura assume qui, in altre parole, una funzione simile a quella che le
attribuisce Poe in The Fall of the House of Husher, ma con un’inversione
temporale. Il ruolo predittivo che essa ha nel racconto americano – e che è
invece qui riconosciuto alla scrittura – diviene infatti retrospettivo e assi-
milabile, piuttosto, a quello dell’«oggetto mediatore di verità» così come lo
ha brillantemente teorizzato L. LUGNANI, Verità e disordine…, cit., pp. 177-
288. Per la mise en abyme della lettura nel racconto di Poe cfr. invece T.
HELLER, The Delights of Terror. An Aesthetics of the Tale of Terror, Urbana-
Chicago, University of Illinois Press, 1987, pp. 127-146; M. ARNAUDO,
Biblioteche ed elenchi di libri in letteratura: per un’apologia dell’im-
precisione, in «Intersezioni», anno XXII, n 1 (aprile 2002), pp. 61-87.
100
Cfr. ampiamente T. HELLER, The Delights of Terror…, cit. Anche Remo
Ceserani attribuisce al fantastico «la volontà e il piacere di usare tutti gli
strumenti narrativi per attirare e catturare il lettore dentro la storia […]. Il
racconto fantastico punta a coinvolgere il lettore, a portarlo dentro un mondo

174
ste acrobazie testuali di una letteratura che si fa immagine di se stessa
finiscono immancabilmente per indebolire la distinzione fra reale e
immaginario, e per suggerire – come notava un maestro del fantastico
novecentesco che riconosceva di essere indebitato coll’opera di Papini
– «che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o spettatori,
noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizî»101.
La perversa autobiografia che gli scritti di Speranza vanno
progressivamente a formare giunge ad includere e a rappresentare,
con la novella che ne costituisce l’ultimo capitolo, quel micidiale
conflitto con il doppio che è condizione della sua possibilità e ar-
gomento del racconto che stiamo leggendo. È proprio questo conflitto,
invece, ciò che resta escluso sia dalla menzognera autobiografia dello
scrittore protagonista di Storia completamente assurda, sia dalla pur
veridica narrazione del suo inconsapevole e perturbante biografo. I
due testi, infatti, elidono e tendono a non dire quell’originante di-
visione dell’Io da se stesso, quella sua condanna a conoscersi solo in
quanto Altro, che è la loro essenza e il loro fondamento e che
entrambi, al contrario dell’ultima novella di Speranza, finiscono per
lasciare nell’ombra, inarticolato a priori della loro articolazione.
Questa lacuna, che è in primo luogo lacuna del discorso del double e
“punto cieco” del suo sguardo, sembra lasciare al soggetto uno spazio
di libertà e di auto-determinazione: ciò che il Doppelgänger non sa è
appunto di essere tale102; ciò che la prodigiosa biografia di cui egli è
autore non contempla è esattamente l’incontro a cui il racconto ci
permette di assistere. Proprio questo punto cieco dello sguardo del-
l’Altro sembra offrire al protagonista un varco attraverso il quale sot-
trarsi all’esser-visto e all’esser-rappresentato-dall’Altro sfuggendo co-
sì alla crisi della presenza e dell’identità che il confronto con il doppio

a lui familiare, acettabile, pacifico, per poi fare scattare i meccanismi della
sorpresa, del disorientamento, della paura» (Il fantastico, cit., pp. 76 e 79).
Rosalba Campra parla invece di testi «che hanno la forma di una rete, di una
ragnatela, di una trappola nella quale deve cadere il protagonista perché vi
possa cadere anche il lettore» (Territori della finzione. Il fantastico in
letteratura, Roma, Carocci, 2000, p. 133).
101
J. L. BORGES, Magie parziali del “Don Chisciotte”, in Tutte le opere,
Milano, Mondadori, 1987, vol. I, p. 952.
102
Da un certo punto di vista si può dire che ciò che il doppio non sa è di
trovarsi in quella posizione in cui Speranza, invece, sa di essere: egli è infatti
un “autore” che verrà ucciso dal suo “personaggio” senza riconoscerlo in
quanto tale.

175
fa precipitare. Gli offre – in altre parole – la possibilità di farsi autore
di quella parte – circoscritta ma decisiva – della propria autobiografia
che è narrata nel testo che stiamo leggendo.
Anche lasciando da parte i dubbi che investono l’attendibilità del
suo resoconto103, sarà comunque lecito dubitare che egli sappia fare
buon uso di questa opportunità. Tenta infatti di liberarsi del proprio
inquietante biografo con il più diffuso e deleterio degli espedienti cui
abitualmente ricorrono i personaggi che fronteggiano il proprio dop-
pio. È lo stesso espediente cui già aveva fatto ricorso il protagonista di
Due immagini: l’assassinio, l’eliminazione fisica del Doppelgänger.
Poco importa che, in questo caso, essa prenda la forma di una con-
sapevole istigazione al suicidio; più significativo, dal nostro punto di
vista, che, come già avveniva nel racconto precedente, la morte del
double avvenga per annegamento. Alle acque putrescenti di una vasca
piena di foglie morte si sostituisce ora un fiume che corre «gonfio e
fragoroso» fra «nere muraglie di pietra»104, ma la sostanza non
cambia: ancora una volta la coscienza vuole annegare nelle torbide
profondità dell’anima quelle perturbanti verità che ne erano emerse. A
questo scopo, tenta di riassorbire il doppio in quell’elemento, l’acqua,
che riaggancia la nostra esperienza di individui alla dimensione
fusionale dell’esistenza intrauterina e che, come insegna il mito di
Narciso, è la sostanza simbolica in cui si manifesta il profondo e
reciproco implicarsi di identico e diverso, unico e molteplice, reale e
immaginario, amore e morte nell’inestricabile nodo del desiderio.
Certo, al contrario di quanto avviene a Speranza e al Gentiluomo
Malato, al contrario di quanto avviene alla maggior parte dei
personaggi del fantastico che soccombono allo scontro con l’alter
ego, il protagonista di questo racconto, come già quello di Due
immagini, sembra sopravvivere alla morte del proprio double. Ma
questa sopravvivenza – come testimonia chiaramente la conclusione
di entrambi i racconti – è una sopravvivenza dimidiata e spettrale.
L’esistenza di coloro che hanno ucciso se stessi è per sempre
«abbattuta e fiaccata dall’inesplicabile»105, irresistibilmente risuc-

103
Poiché il narratore autodiegetico si presenta come consapevole falsario
delle proprie memorie, si può dire che su tutta la novella si stenda l’ombra
del noto “paradosso del mentitore”.
104
G. PAPINI, Storia completamente assurda…, cit., p. 586.
105
Ivi, p. 586.

176
chiata nell’orbita della morte alla cui forza d’attrazione non è più,
ormai, capace di sottrarsi:

Stamani mi sono destato assai tardi e con una strana impressione. Mi


sembra di essere già morto e di attendere soltanto che vengano a seppellirmi.
Sento già di appartenere ad un altro mondo e tutte le cose che mi circondano
hanno un’aria indicibile di cose passate, finite, senza nessun interesse per me.
Un amico mi ha portato dei fiori e gli ho detto che poteva aspettare a metterli
sopra la mia tomba. M’è parso che abbia sorriso ma gli uomini sorridono
sempre quando non capiscono nulla106

Nel momento in cui sente spalancarsi ai suoi piedi l’abisso che


finirà per risucchiarlo in questa condizione di morte-in-vita e di
insanabile smarrimento esistenziale, il personaggio è dapprima tentato
di ricorrere ad uno specchio, come già inutilmente aveva fatto il
protagonista di Chi sei?, per esorcizzare il “fantasma” che lo
insidia107. È più che probabile che tale espediente – evocato ma non
attuato – si sarebbe rivelato, ancora una volta, inefficace. La lette-
ratura fantastica – e quella papiniana non fa eccezione – rovescia la
funzione costruttiva ed «ortopedica»108 dello specchio facendo
dell’avventura originaria della soggettività umana il momento del suo
disarticolarsi e dissolversi. È ciò che dimostra chiaramente Due imma-
gini in una vasca in cui lo specchio diveniva luogo dell’emersione
dell’intima irriducibile disunità del soggetto ed origine dell’esperienza
del doppio; è ciò che conferma un racconto come L’uomo che ha
perduto sé stesso109, in cui Papini ci offre un ottimo esempio di
declinazione novecentesca del classico tema fantastico della Schat-
tenlosigkeit.
106
Ivi, p. 587, corsivo nel testo. Si ricordi ancora ciò che scrive O. Rank:
«Con l’uccisione del proprio Doppio, il protagonista tenta di proteggersi dalla
persecuzione del suo io, ma in realtà ci troviamo di fronte ad un suicidio, reso
indolore dal fatto che è un altro a morire» (Il Doppio…, cit., p. 99).
107
«Se avessi veduto la mia faccia in uno specchio forse avrei riso e tutto
sarebbe passato, perché probabilmente doveva essere dipinta di abietto stu-
pore e di ferocia indecisa» (G. PAPINI, Storia completamente assurda…, cit.,,
p. 582).
108
J. LACAN, Scritti, cit., p. 91.
109
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto sé stesso, in Tutte le opere, vol. I
(Poesia e fantasia), cit., pp. 801-808. Raccolta in volume nel ’12 (Parole e
sangue), la novella era già stata pubblicata nella «Riviera Ligure» del
novembre 1908.

177
L’emulo di Peter Schlemihl e di Erasmus Spikher110 che agisce in
questa novella racconta ai lettori di aver partecipato ad uno
«stravagante» ballo in maschera dell’ultima notte di carnevale al quale
«tutti quanti si doveva andar vestiti con un domino bianco e una
maschera nera e ballare senza far parola». L’«unica ragione» per la
quale egli, contrariamente alle proprie abitudini, si è convinto a par-
teciparvi è una sorta di misteriosa e invincibile curiosità, ciò che uno
psicoanalista chiamerebbe «pulsione scopica» allo stato puro: «Tanto
per vedere ci andai»111. Ma lo spettacolo che si offre ai suoi occhi è
tutt’altro che rassicurante, molto simile a quello che aveva impaurito
il protagonista dei Trous du masque di Jean Lorrain112. Irriconoscibili,
muti, sospesi in un atmosfera allucinata e impegnati in un movimento
apparentemente senza scopo, gli «incappati» suscitano paura e tene-
brosi paragoni: «Quel silenzio sotto le grandi lumiere calme – quella
folla bianca e nera erano più paurose di una messa di morti la not-
te»113. La «confusione» e lo «smarrimento» dell’uomo sono tali che
egli vorrebbe scappare, ma non ne ha la forza: «Mi pareva che il san-
gue scendesse a poco a poco giù dal cervello, che le gambe si
piegassero: sentivo una fasciatura angosciosa intorno allo stomaco e
alle spalle»114. È a questo punto che si verifica l’evento centrale del
racconto: «una grandissima specchiera che andava da terra fin quasi al
soffitto e larga tanto da coprire più di mezza parete» si para dinanzi al
protagonista che è ancora una volta vittima di una pulsione scopica di

110
Il riferimento è ovviamente al celebre personaggio delle hoffmanniane
Avventure della notte di San Silvestro.
111
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto se stesso, cit., p. 801.
112
Il racconto – che presenta molteplici e significative analogie col testo che
stiamo leggendo – è stato raccolto da I. Calvino nella sua antologia di
Racconti fantastici dell’Ottocento, Milano, Mondadori, 1983, vol. II, pp. 130-
135.
113
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto sé stesso, cit., p. 801. Si colga qui il
riflesso di una verità ben nota a coloro che hanno approfondito il significato
simbolico delle celebrazioni carnevalesche: «È evidente che dietro figure e
personaggi mascherati si nascondono i morti» (A. BUTTITTA, Ritorno dei
morti e rifondazione dalla vita, in C. LÉVI-STRAUSS, Babbo Natale giu-
stiziato, Palermo, Sellerio, 1995, p. 20). A completare il quadro si ricordi che
secondo Freud il mutismo è «un modo consueto di raffigurare la morte nel
sogno» (Il motivo della scelta degli scrigni, in Opere, Torino, Boringhieri,
1967-1980, vol. VII, p. 211).
114
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto sé stesso, cit., pp. 801-802.

178
cui non si nasconde la valenza regressiva. Ma il cedimento alla
«stupida voglia bambinesca di guardarsi»115 gli costa assai caro e fa
precipitare la crisi della presenza soggettiva che il suo malessere
preannunciava:

Guardo… riguardo… cerco… fisso lo specchio… mi spaurisco. Ma dove


sono, perdio? Chi sono? Qual è il mio corpo fra questi corpi eguali? Non ci
son più, io! Tutti eguali, tutti a un modo! Ch’io non sia capace di
trovarmi?116

La grande specchiera – così simile a quella davanti a cui si era


trovato, sempre durante una festa in maschera, William Wilson117 –
duplica lo spazio e l’identità, proietta il soggetto in una dimensione
nella quale non sa più tracciare il confine fra Sé e Altro, dove l’in-
dividuo si smarrisce nell’indistinto e nel molteplice. L’Io nella sua
circoscritta singolarità, l’Io «differente, staccato dagli altri»118, è
esattamente ciò che nello specchio – che riflette una fantasmagorica
moltitudine di doppi, una vera e propria «costellazione di altri»119 –
non può vedersi e dunque non può esserci:

Dove sono dunque io fra tutti costoro? Dov’è il mio me fra tutti questi
estranei silenziosi? Tutti bianchi con i visi neri… Anch’io come gli altri…
Tutti eguali, tutti… Ma io voglio me! Voglio cercarmi! Voglio sentire me
stesso! Vedermi con gli altri ma differente, staccato dagli altri! Voglio
vedermi, essere io! Mi son perduto – ho perduto me stesso… Dove sono?
Cercatemi, ritrovatemi!…120

115
Ivi, p. 802.
116
Ibidem.
117
«Egli indossava un costume perfettamente identico al mio […]. E sul viso
portava una maschera di seta nera. […] Dove prima non c’era che il legno
della parete vedevo adesso, nel mio turbamento, uno specchio enorme; e sic-
come terrorizzato mi avanzai verso di esso, la mia immagine mi venne in-
contro, pallida in viso e coperta di sangue, con passo debole, malfermo» (E.
A. POE, William Wilson, cit., pp. 162-163).
118
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto sé stesso, cit., p. 802.
119
V. RODA, Homo duplex. Scomposizioni dell’io nella letteratura italiana
moderna, Bologna, il Mulino, 1991, p. 7.
120
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto sé stesso, cit., p. 802.

179
Colpito dall’«impossibile disgrazia di perdersi»121 il protagonista
stesso della novella paragona la propria disavventura a quella del suo
precursore Peter Schlemihl, «che aveva venduto la sua ombra e
l’andava ricercando per il mondo», ma conclude che la sua condizione
è assai peggiore di quella in cui si trovava il personaggio di Chamisso:
«Lui non aveva perduto quasi nulla appetto a me, che avevo perduto
anima, corpo, tutto!»122. La sua sorte, aggiungiamo noi, è forse più si-
mile a quella del narratore del racconto di Lorrain che pure, spec-
chiandosi, arrivava «a contemplare la sparizione di se stesso»123, o a
quella che tocca a Bonaventura nella decima delle sue celebri Veglie:

E le maschere volteggiano intorno a me in una folle danza sfrenata –


intorno a me che mi chiamo uomo – e io barcollo qua e là in mezzo al
cerchio, stordito da ciò che vedo, cercando vanamente di abbracciare una
delle maschere e di strapparle la copertura dal vero volto; ma quelle danzano
e danzano soltanto – ed io – cosa ci faccio mai nel cerchio? Chi sono mai io
se le maschere dovessero scomparire? Datemi uno specchio, voi com-
medianti carnevaleschi, affinché per una volta io possa vedere chi veramente
sono – mi è venuto a noia di guardare i vostri volti cangianti. Voi scuotete la
testa – come? Non c’è alcun “Io” nello specchio quando mi pongo davanti
ad esso – son io forse solo il pensiero d’un pensiero, il sogno di un sogno –
non potete aiutarmi a ritrovare il mio corpo […] Ah! È spaventosamente
solo il mio Io se chiudo gli occhi davanti a voi, maschere, e voglio guardare
dentro di me – nient’altro che spenta eco priva dello scomparso suono – in
nessun luogo l’oggetto, eppure io vedo… ma è il Nulla che vedo!124

In preda al «desiderio» e allo «struggimento»125, il personaggio pa-


piniano si muove dunque alla disperata ricerca di quel possesso
inalienabile di cui egli è stato inspiegabilmente derubato126. Tuttavia, i
suoi tentativi di rimediare alla sciagura e di ritrovarsi si rivelano vani
finché egli, dopo varie traversìe, non recupera il costume (il domino
bianco con maschera nera) che indossava di fronte alla fatale spec-

121
Ivi, p. 806.
122
Ivi, p. 804.
123
Così Calvino sintetizza la conclusione del racconto francese in Racconti
fantastici dell’Ottocento, cit., p. 130.
124
BONAVENTURA, Veglie (a c. di P. Collini), Venezia, Marsilio, 1990, pp.
221-223 (nostri i corsivi).
125
G. PAPINI, L’uomo che ha perduto sé stesso, cit., p. 806.
126
«Tutti quanti gli uomini hanno questo bene. Ognuno possiede sé stesso:
nessuno può essere derubato di sé stesso» (Ibidem).

180
chiera, quel costume che «era stato la cagione principale della sua
disgrazia»127. Indossatolo cedendo ad «una bramosia senza ra-
gione»128, l’uomo corre immediatamente a cercarsi là dove si era per-
duto, sulla superficie in cui si segna il confine fra identità e alterità, la
medesima superficie che aveva inghiottito il suo Io e che ora sembra
l’unica capace di restituirglielo – quella di un «grande specchio»:

Mi guardai… Eccomi! Ero io! Son io! M’ero ritrovato. Ero proprio io, io
in persona – io solo. Non c’erano altri uomini intorno a me. Il vestito bianco
era mio e sentivo che dentro c’era il corpo mio; la maschera nera era mia e
ricopriva davvero il mio viso. Mi riconobbi. Ero tornato. Avevo riacciuffato
me stesso. Risi e piansi dal piacere. Mi accarezzai.129

Se è di per sé evidente la qualità patologicamente narcisistica di un


«ritrovarsi» che fa tutt’uno coll’«accarezzarsi» ridendo e piangendo
dal piacere, la conclusione del racconto sbaraglia ogni possibile dub-
bio di trovarci di fronte ad una sorta di «lieto fine» della crisi della
presenza soggettiva. La paura di «perdersi» è infatti ora tale da
rendere impossibile ogni confronto, potenzialmente annichilente, con
l’Altro; tanto debole è la riconquista dell’esserci da condannare il
personaggio al totale isolamento. Egli è inoltre costretto ad indossare
per sempre quella maschera che è ora divenuta l’ultima ed unica
garanzia della sua presenza; sollevandola egli teme di doversi con-
frontare, come già era accaduto al personaggio di Jean Lorrain, con
quel nulla, quel vuoto, che essa nasconde e che noi chiamiamo Io:
«Da quel giorno non ho avuto più il coraggio di spogliarmi, e sto
sempre in casa, solo, vestito col mio domino bianco addosso, colla
mia maschera nera sulla faccia, per essere sicuro di non perdermi mai
più»130.
È come se il soggetto per riscattare il senso della propria presenza
dovesse pagare il prezzo della totale cancellazione della propria
identità e consegnarsi senza riserve all’alterità che lo fronteggia. È
come se la maschera – che, in quanto occultamento del suo nulla
originario e centrale, è il mezzo che consente al soggetto di darsi-a-
vedere – si fosse staccata dal volto del personaggio per fissarsi di
fronte a lui e impadronirsi del suo sguardo e della sua autonomia. In
127
Ivi, p. 808.
128
Ibidem.
129
Ibidem.
130
Ibidem.

181
questa pagina papinana si consuma insomma qualcosa che –
prendendo a prestito le parole con cui il rilchiano Malte Laurids
Brigge descrive un’esperienza assai simile – potremmo definire come
una «rivalsa» dell’immagine speculare, immagine che si dimostra qui
«più forte» del soggetto – capace cioè di farne il riflesso della propria
«estranea, incomprensibile, mostruosa realtà»:

Accaldato e incollerito mi precipitai davanti allo specchio seguendo con


difficoltà, attraverso la maschera, il lavorio delle mani. Ma lo specchio aveva
atteso solo questo. Era venuto per lui il tempo della rivalsa. Mentre mi
affannavo, con un’angoscia che cresceva a dismisura, per liberarmi in
qualche modo del mio travestimento, quello, non so come, mi costrinse ad
alzare gli occhi e mi dettò un’immagine, no, una realtà, un’estranea, incom-
prensibile, mostruosa realtà da cui io fui pervaso senza volere: perché adesso
era lui il più forte, e io ero lo specchio. Fissavo quel grande terribile
sconosciuto davanti a me, e mi pareva incredibile trovarmi solo con lui. Ma
proprio nell’istante in cui pensavo questo, avvenne il peggio: persi co-
noscenza e crollai. Per un secondo provai un desiderio indescrivibile,
doloroso e inutile di me stesso, poi ci fu lui soltanto: non ci fu niente
all’infuori di lui.131

Non meno pericoloso dell’immagine riflessa sembra essere, del


resto, quell’altro tipo di alter ego con cui deve confrontarsi chiunque
contempli il proprio ritratto132. Per sincerarsene basterà ricorrere ad un
testo apparso sulla «Riviera Ligure» nel marzo del 1912 e poi raccolto
in Parole e Sangue con un titolo – Il ritratto profetico133 – quasi iden-

131
R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Milano, Adelphi, 1992,
pp. 83-84 (nostri i corsivi).
132
È chiaro che la tematica del Doppelgänger tende qui a sconfinare in
quella, altrettanto illustre, del ritratto animato e perturbante. Fra i molti testi
che la esplorano cfr. almeno: T. ZIOLKOWSKI, Disenchanted Images. A
Literary Iconology, Princeton, Princeton University Press, 1977; M. BETTINI,
Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi, 1992; S. PEROSA, L’isola la donna il
ritratto. Quattro variazioni. Torino, Bollati Boringhieri, 1996; S. FERRARI,
La psicologia del ritratto nell’arte e nella letteratura, Roma-Bari, Laterza,
1998; P. PELLINI, Il tema del quadro animato nella letteratura del secondo
Ottocento, in «Belfagor», anno LVI, n. 1 (gennaio 2001), pp. 11-33; ID. Il
quadro animato. Tematiche artistiche e letteratura fantastica, Milano,
Edizioni dell’Arco, 2001.
133
G. PAPINI, Il ritratto profetico, in Tutte le opere, vol. I (Poesia e fantasia),
cit., pp. 854-863.

182
tico a quello di un racconto di Hawthorne134 al quale lo scrittore
fiorentino si è evidentemente e cospicuamente ispirato. Il protagonista
del racconto italiano nutre verso l’arte – e in particolare verso l’arte
del ritratto – sentimenti contraddittori, caratterizzati da una forte am-
bivalenza emotiva. Dapprima, egli si dice animato da una vera e
propria «passione dei ritratti»135 che lo spinge a frequentare pittori e a
posare come loro modello quasi mosso da un’irresistibile compulsione
a veder riprodotte le proprie fattezze. Allo scopo di «contentare»
questa sua ingordigia di simulacri egli fa «di tutto per arrivar presto al
tu coi pittori giovani e poveri per indurli a fargli il ritratto» e con-
vincerli poi a regalarglielo. Quando ha disponibilità di danaro, d’altra
parte, arriva al punto di frasi ritrarre «non meno di tre quattro volte
per anno e sempre da pittori diversi»136. Ma il risultato di tanta
frenesia non è affatto soddisfacente: la particolarissima collezione
d’arte che egli raccoglie fra le mura della sua casa tende fatalmente, e
prevedibilmente, ad assumere tratti inquietanti:

La mia casa è una specie di odiosa galleria dove almeno tre stanze son
riempite di faccie mie di tutte le età, dai diciotto anni in su, che mi guardano
dai fondi chiari o neri delle tele, affacciate dai telai dorati delle cornici di
stucco. Ho un corridoio un po’ buio che n’è pieno da tutte e due le parti.
Confesso che verso sera mi secca doverci passare: quei visi, tutti ineguali e
che pure si rassomigliano tutti, mi turbano, mi fanno quasi paura. Mi pare di
avere dato un po’ dell’anima mia a ognuno dei miei doppi di tela e colore, e
d’esser rimasto con un’anima impoverita, e stupefatta.137

Ciò che spinge quest’uomo a farsi ritrarre non è, evidentemente,


l’amore della pittura, ma una vera e propria coazione a ripetere che lo
costringe a riprodurre senza sosta, con meccanica insistenza, un com-
portamento destinato ad alimentare l’angoscia da cui sorge. È la clas-
sica dinamica perturbante della moltiplicazione dell’immagine in-
dividuale, cui il soggetto ricorre come garanzia d’identità e difesa
contro la labilità della presenza, e che finisce invece per servire da ca-
talizzatore della crisi che dovrebbe contrastare. È come se la casa di

134
Per quanto riguarda il titolo, Papini si limita in sostanza a volgere al
singolare quello del racconto americano sul quale si veda P. PELLINI, Il
quadro animato…, cit., pp. 177-205.
135
G. PAPINI, Il ritratto profetico, cit., p. 854.
136
Ibidem.
137
Ibidem.

183
questo personaggio si fosse trasformata in una «odiosa galleria» di
specchi che si rinviano vertiginosamente la sua figura in un gioco di
rifrazioni che, lungi dal rafforzare la sua identità, la deformano e la
disperdono in una frastornante moltitudine di «altri» fra i quali egli si
aggira con ciò che gli rimane di un’anima «impoverita, e stupefatta».
Questi «altri» che lo guardano «dai fondi chiari o neri delle tele», che
si affacciano «dai telai dorati delle cornici di stucco» sono – Papini lo
dice a chiare lettere – dei «doppi» del protagonista, «doppi di tela e di
colore» che, come spesso accade nel dominio del fantastico, rivolgono
contro il soggetto il suo stesso sguardo, di cui sono stati capaci di
impadronirsi:

E son sempre io, e sempre diverso, e soltanto io […]. E da tutte le parti


son coppie di occhi grigi o celesti o verdastri che mi guardano e fissano i
miei occhi e sembra che chiedano qualcosa a me, come se avessi la colpa
della loro immobilità. Mi ricordo di sere in cui ho creduto di perdere per
sempre quella apparenza di ragione che mi ha permesso fin qui di salvare la
mia libertà.138

Il personaggio giunge dunque al limitare della follia, ma tutto ciò


non è certo sufficiente a spezzare la spirale della ripetizione e della
riproduzione, l’incessante lavorìo del Wiederholungszwang: «Eppure
la passione durava e se mi accadeva di conoscere da vicino un pittore
nuovo, non avevo pace finché non mi avesse fatto il ritratto»139.
Accade così che egli faccia la conoscenza di un artista russo dal nome
tedesco, un certo Hartling, autore di immagini «vivissime e invero-
simili»140 che si propone – certo memore del suo predecessore
hawthorniano e di Dorian Gray – di dipingere non tanto il volto,
quanto l’anima del suo modello. Espressamente richiesto di posare per
il quadro che dovrebbe mettere in pratica questa «teoria del ritratto
spirituale»141, il protagonista e narratore del racconto decide di pre-
starsi all’esperimento. Il risultato è sconcertante: mentre il pittore
sembra convinto di aver realizzato il proprio capolavoro, il modello si
trova di fronte «un orribile pasticcio di colori» accostati e sovrapposti
«senza disegno», un caotico guazzabuglio di pennellate dal quale
emergono i tratti di una figura informe, di un volto vagamente mo-

138
Ivi, p. 855.
139
Ibidem.
140
Ivi, p. 857.
141
Ivi, p. 859.

184
struoso nel quale egli non può davvero riconoscersi. Quella faccia che
si distingue solo guardando il quadro da una data posizione, «un po’
da lontano», non è certo la sua142. Anzi, egli si persuade

di non aver mai visto un così grottesco tradimento. Lì dentro non c’era
nulla di me. E questo non mi sarebbe importato molto, ma l’insieme non era
bello, né armonioso, né profondo. La stranezza finiva nella negazione di sé
stessa, tornava allo scarabocchio imbecille, all’arabesco sgradevole, alla
macchia fortuita, al nulla.143

Non potendo tollerare che quel «mostro» sia pubblicamente


esposto colla pretesa di rappresentare «la sua persona e di riflesso la
sua anima»144, compra il quadro, lo nasconde «in un soppalco»145 e
quasi si dimentica della sua esistenza. Passano gli anni. In occasione
di un trasloco, l’uomo si trova il ritratto fra le mani e, incuriosito, pen-
sa di aprire la cassa per decidere se conservarlo o distruggerlo. Ac-
cade, a questo punto, qualcosa di sorprendente:

Aprii la cassa e misi il ritratto un po’ nell’ombra in terra, appoggiato al


muro, sotto un grande specchio. Quale non fu il mio stupore nell’accorgermi
che il ritratto ora mi somigliava! Nella penombra della stanza il mio viso si
staccava come un’apparizione imprevista, tutto meravigliato e pensieroso,
quasi volesse riconoscere il mondo. Le macchie degli occhi, viste così da
lontano, avevano un’espressione singolare, quella stessa espressione di cat-
tiveria e di disillusione che leggevo ora nei miei occhi riflessi nello specchio
di sopra.146

Come quelle singolari composizioni pittoriche che prendono il


nome di anamorfosi147, il quadro rivela il suo segreto solo se
osservato nella penombra, dall’alto in basso, e da una precisa
distanza. Dall’informe coacervo di colori emerge «un’apparizione
imprevista»: in quella «macchia fortuita”, in quell’«arabesco sgra-
devole» nel quale il suo sguardo si era sprofondato per riconoscervi
«il nulla», il personaggio papiniano vede ora disegnarsi i tratti del pro-
142
Ivi, p. 858.
143
Ivi, p. 859.
144
Ivi, p. 860.
145
Ivi, p. 861.
146
Ivi, p. 861.
147
Il punto di riferimento fondamentale in proposito è J. BALTRUŠAITIS,
Anamorfosi, o Thaumaturgus Opticus, Milano, Adelphi, 1990.

185
prio volto. Quella che sei anni prima appariva «una abbaruffata
spazzatura di colori»148 è nel frattempo divenuto un «ritratto preciso e
profondo»149. Lo «strano genio» del pittore aveva dunque saputo ve-
dere e rappresentare non tanto l’anima del suo modello quanto il suo
futuro, ciò che egli sarebbe diventato:

Hartling aveva visto il mio me futuro di sei anni dopo e quello aveva
dipinto. Aveva indovinato le mie sofferenze, le mie noie, le mie malinconie;
aveva precorso col pennello le pieghe della mia bocca e le alterazioni de’miei
lineamenti. Non era stato capace di fissare il mio viso d’allora ma aveva
presentito il mio viso di ora.150

Il fatto che questa perturbante agnizione avvenga coll’indispen-


sabile mediazione di uno specchio – che è l’oggetto emblematico col
quale Papini ripetutamente contrassegna il deflagrare dell’Unheim-
liche e il precipitare della crisi della presenza – è un ulteriore indizio
della continuità che lega questo testo alle altre papiniane epifanie del
Doppelgänger. Dal punto di vista della sua capacità di anticipare il
futuro, il «ritratto profetico» è infatti assai simile all’alter ego con cui
deve confrontarsi la Speranza dell’omonimo racconto. Se non fosse
per il fatto che il fantasma evocato dalla sventurata scrittrice sembra
determinare gli eventi più che limitarsi a prevederli, si potrebbe dire
che il «doppio di tela e di colore» di cui ci stiamo occupando sia una
sorta di variante pittorica del «doppio letterario e profetico»151 cui
Speranza soccombe. Fatta salva, dunque, la distinzione – di per sé
evanescente – fra cronologia ed eziologia (fra post hoc e propter hoc),
si converrà che entrambi i testi affermano la priorità dell’immaginario
sul reale; parlano di una vita che tende fatalmente a conformarsi alla
propria rappresentazione; descrivono una parabola al termine della
quale i personaggi giungono ad identificarsi con simulacri di cui in
principio avvertivano l’assoluta e radicale alterità.
Qualcosa di assai simile accadeva, del resto, anche in Storia
completamente assurda. Si ricorderà, infatti, come l’«inopportuno» e
«maledetto»152 scrittore che compariva in quella novella avesse com-
posto un’opera nella quale il narratore riconosceva la minuziosa ed

148
G. PAPINI, Il ritratto profetico, cit., p. 860.
149
Ivi, p. 862.
150
Ibidem.
151
G. PAPINI, Speranza, cit., p. 831.
152
G. PAPINI, Storia completamente assurda, cit., p. 582.

186
esatta rappresentazione della propria vicenda esistenziale insieme alla
manifestazione dei propri più segreti pensieri. Con quella «narrazione
precisa e completa»153, il perturbante biografo aveva cioè realizzato,
in forma di parola e di racconto, quel ritratto spirituale «preciso e
profondo» che Hartling realizzerà sulla tela. La differenza fra il
racconto del Pilota cieco e quello di Parole e Sangue, tuttavia, non è
solo quella relativa al passaggio dalla scrittura alla pittura, ma anche e
soprattutto quella che distingue il resoconto di eventi passati dalla
prefigurazione di un destino a venire. La biografia di cui si parla in
Storia completamente assurda è sì inspiegabile e sconvolgente, ep-
pure, diversamente dal dipinto di Hartling e dagli scritti di Speranza,
non ha un valore profetico; essa determina, in altre parole, una pro-
fonda e forse irreversibile crisi della presenza soggettiva, ma, con ciò,
non sembra mettere il “prima” al posto del “dopo” e implicare, in tal
modo, uno stravolgimento della normale precedenza cronologica del
reale sulla rappresentazione.
Guardare al Ritratto profetico dal punto di vista delle sue
implicazioni temporali (delle «strane leggi del tempo», avrebbe detto
Papini154), risulterà, del resto, utile anche a delineare un confronto con
la novella da cui il nostro discorso sul fantastico papiniano ha preso le
mosse. Il testo che stiamo esaminando sembra infatti operare un vero
e proprio capovolgimento della situazione rappresentata in Due im-
magini in una vasca. Il protagonista di quel racconto, infatti, vede
disegnarsi sulla superficie dell’acqua stagnante l’immagine «ch’egli
rifletteva sette anni innanzi»155. Vede cioè, sia detto per inciso, un ri-
flesso che funziona esattamente come un ritratto: immagine im-
mutabile che fissa una volta per sempre le fattezze del soggetto
sottraendole al divenire e alla temporalità156. Inversamente e sim-
metricamente, il frenetico collezionista di ritratti, quando osserva per
la prima volta il capolavoro di Hartling, si trova a contemplare, senza

153
Ivi, p. 584.
154
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 573.
155
Ibidem.
156
Come scrive M. Bettini, al contrario del ritratto, il riflesso «non solo lascia
correre il tempo, ma tende esplicitamente a marcare il suo passaggio. L’im-
magine riflessa è rigidamente, puntigliosamente, aequaeva al suo referente, le
ore corrono con lei: ogni specchio regge uno specchio al tempo» (Il ritratto
dell’amante, cit., p. 137). Che l’inversione di funzioni che fa dello specchio
un ritratto e viceversa finisca per trasformare questi oggetti in «strumenti di
morte» è quanto suggerisce S. PEROSA, L’isola…, cit., p. 104.

187
saperlo, l’immagine che il suo specchio gli rinvierà sei anni più tardi.
L’uno vede nella vasca il riflesso di «un sé passato da un pezzo»157,
l’altro vede nel quadro «il suo sé futuro di sei anni dopo»158. Evidente
il rovesciamento di prospettiva che fa dei due racconti – scritti proprio
a sei anni di distanza! – quasi due versioni del medesimo evento per-
turbante osservato da opposti e complementari punti di vista: nel
primo caso, infatti, la voce narrante appartiene all’Io del futuro che si
confronta con l’impossibile presenza di colui-che-non-è-più, nel
secondo all’Io del passato che si trova esposto allo sguardo di colui-
che-non-è-ancora.
Le prospettive, insomma, si intrecciano e si capovolgono; la
scrittura si trasforma in anamorfosi pittorica; lo sguardo e la parola
scivolano dall’uno all’altro double; i classici motivi dell’Unheimliche
si contaminano a vicenda facendo del riflesso un ritratto e del ritratto
un doppio. Ma in questo gioco di specchi e di sostituzioni, di
slittamenti tematici e capovolgimenti strutturali, il fantastico
papiniano non sembra discostarsi da quei problemi centrali che la
letteratura del perturbante, nei due secoli della sua storia, instan-
cabilmente contorna e riconfigura: la radicale disunità e inconsistenza
di un Io che può riconoscersi solo come Altro e nell’Altro rischia
costantemente di smarrirsi; la minaccia di annientamento che il
soggetto deve affrontare nel momento in cui cerca di superare i limiti
che lo inchiodano alla sua desiderante incompiutezza.
Anche la cancellazione del discrimine fra immaginario e reale,
realtà psichica e realtà materiale, non concede certo al soggetto quella
demiurgica facoltà di dar forma al proprio mondo che sostanzia «il
gran sogno taumaturgico” del pragmatismo papiniano: «l’uomo si-
gnore da quanto Iddio, l’anima padrona del mondo, la mente creatrice
di verità, la volontà madre di miracoli, tutto l’universo una pasta
molle, duttile e docile sotto le mani del vero Iddio»159. Fedele alla più
autentica vocazione della scrittura perturbante, Papini ha fatto anzi
della sua frequentazione del fantastico una «mefistofelica” esplo-
razione dell’«altra metà»160 di questo sogno di potere illimitato,

157
G. PAPINI, Due immagini..., cit., p. 573.
158
G. PAPINI, Il ritratto profetico, cit., p. 862.
159
G. PAPINI, L’altra metà…, cit., p. 189.
160
Così il titolo del libro del 1911: L’altra metà. Saggio di filosofia
mefistofelica.

188
un’esplorazione del suo lato «buio, negativo e cattivo»161 e della con-
sapevolezza che «l’onnipotenza sarebbe, per gli uomini, la fine di loro
stessi»162. Nello specchio del fantastico l’«Uomo-Dio» vagheggiato da
Papini scopre con sgomento che i suoi sogni possono realizzarsi solo
in forma di incubi; scopre il volto del suo alter ego: un inetto e
maldestro demiurgo che rischia ad ogni passo di essere travolto dalle
conseguenze del proprio operare e dall’ingovernabile tumulto di forze
che il suo gesto ha evocato; scopre di aver demolito, insieme ai muri
che lo imprigionavano nella sua impotenza, anche tutti i baluardi
faticosamente eretti a difesa di una presenza pericolante sul margine
dell’orrore e del nulla.

161
G. PAPINI, L’altra metà…, cit., p. 205.
162
Ivi, p. 249.

189
CLAUDIA SERENI

Due immagini in una vasca: approdo a un “fantastico”


papiniano tra “volontà” e “poesia”

1. Dalla filosofia all’arte

Il pilota cieco di Giovanni Papini segna il momento in cui la


letteratura di modo fantastico fa ingresso nel panorama culturale
italiano sotto una forma nuova, in linea con le visioni filosofiche e
culturali del primo Novecento, in particolare quelle legate alla
corrente del Pragmatismo.1 Il “fantastico” papiniano nasce per
derivazione diretta dal pensiero pragmatista dell’autore che raggiunge
la massima maturazione proprio nelle raccolte novellistiche Il tragico
quotidiano (1906) e Il pilota cieco (1907)2. I testi narrativi ripropon-
gono gli assiomi pragmatici accentuati da uno spirito dionisiaco,
estatico e oscuro di forte influenza nietzschiana. Con questi toni Gio-
vanni Papini indica la necessità di recuperare - dopo due millenni di
decadenza della cultura occidentale - una libertà d’espressione e di

1
Le teorie pragmatiste furono diffuse per la prima volta in Italia sulle pagine
della rivista «Il Leonardo» (1903-1907), diretta da Papini in stretta
collaborazione con Giovanni Prezzolini. Il Pragmatismo, per sua natura, non
si presta a una compiuta definizione: «chi desse in poche parole una
definizione del Pragmatismo farebbe la cosa più anti-pragmatica che si può
immaginare». Cfr. G. PAPINI, Il Pragmatismo non si può definire, in ID.
Opere dal «Leonardo» al futurismo, a cura di L. Baldacci e G. Nicoletti,
Milano, Mondadori, 1977, p. 55. Il termine indica sostanzialmente una ma-
niera di fare filosofia, i cui assiomi sono in parte variabili secondo le nu-
merose ascendenze dei suoi interpreti. Queste furono in particolare quelle di
Giovanni Papini: «il nominalismo che si richiamava ai fatti particolari per il
significato dei termini, il primato della ragione pratica sottolineato da Kant, il
volontarismo dello Schopenhauer che aveva messo in luce le radici alogiche e
le influenze della vita affettiva sull’intelligenza, l’apologetica religiosa
risalente a Pascal e lo stesso positivismo con la sua polemica antimetafisica».
Cfr. A. SANTUCCI, Il Pragmatismo in Italia, Bologna, Il Mulino 1963. Tale
margine di indefinitezza genera una similitudine col “fantastico”, anch’esso
di difficile definizione.
2
Cfr. G. PAPINI, Il tragico quotidiano, Lumachi, Firenze, 1906; G. PAPINI,
Il pilota cieco, Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1907.

191
pensiero3 capace di rivelare un senso4 nuovo della vita attraverso
un’intima e oscura battaglia che ha luogo nell’anima stessa del-
l’uomo: questo è il ‘sottile’ ambito in cui «il tragico» nasce dal «quo-
tidiano» e il «fantastico» emerge dalla più ordinaria esistenza. Tale è
la realtà interiore che ritroviamo espressa e descritta in modo
esemplare in Due immagini in una vasca.5
Esaurita l’azione rinnovatrice del «Leonardo», l’autore decide di
abbandonare la filosofia per intraprendere la strada della scrittura
letteraria. Le due raccolte papiniane sono «memorie indirette»6 di
questo passaggio, testimonianze ‘archeologiche’ del papiniano ap-
prodo alla letteratura e, cosa che più qui interessa, della modalità
fantastica che caratterizza alcune delle sue narrazioni.
Nell’ambito del nostro discorso, è pertanto essenziale soffermarsi
su alcuni concetti chiave del pensiero filosofico di Papini, con-
siderando ciò che emerge dalla raccolta di scritti Sul Pragmatismo,
pubblicata nel 1905. Qui l’autore indica nella filosofia una strada
privilegiata per dominare enti ed eventi tramite il pensiero: in lotta
con la cultura positivista e in linea con le nuove inclinazioni jame-
siane e bergsoniane, l’autore intende spronare l’uomo all’azione e alla
ricerca di un nuovo ideale post-romantico che aumenti la sua potenza
sulle cose: «è questo, oggi, il compito di chi sente che qualche grande
cosa si va compiendo, di tutti quelli che voglion esser dei non solo a
parole»7. Tale concezione, detta «pontificale»8, se da un lato mostra
3
Per Nietzsche è il recupero della libertà di pensiero dei filosofi presocratici
(premetafisici).
4
Secondo Nietzsche tragico e intenso.
5
Tutti i racconti papiniani descrivono questa dimensione interiore ma solo
alcuni la rappresentano secondo la modalità fantastica. Due immagini in una
vasca è l’esempio più evidente di tale appartenenza ma le raccolte presentano
molti altri racconti in cui si registra una variazione dei simboli e delle figure -
quindi minore aderenza alla tradizione - i cui toni però raggiungono talvolta
effetti perturbanti di maggiore intensità. Si veda ad esempio G. PAPINI, Non
voglio più essere ciò che sono in ID., Il tragico quotidiano, cit.
6
«“Memorie indirette” sulle cangianze del mio spirito nei dieci anni decisivi
della seconda formazione. Necessari dunque a chi voglia conoscere, oggi e
dopo, il centrale tema di quasi tutto il lavoro (passato) di Giovanni Papini».
Così l’autore nella seconda edizione di Parole e Sangue, presenta il com-
plesso della sua opera narrativa dal 1906 al 1914. Cfr. G. PAPINI, Parole e
sangue, Firenze, Vallecchi 1919, p. VIII. Il corsivo è dell’autore.
7
G. PAPINI, Sul Pragmatismo, in ID. Opere dal «Leonardo» al futurismo,
cit, p. 44.

192
aderenze con le contemporanee correnti di pensiero europee e
americane, dall’altro manifesta la personale inclinazione papiniana al
dominio sul mondo, filosoficamente identificata come una via di
elevazione di sé da uomo a Dio9; Papini insegue il miraggio del
miracolo in cui è possibile questo trapasso, autoproiettando un’im-
magine di sé quale creatore, alimentatore di anime, guida e spirito di
uomini in cerca del proprio risveglio10. Questo concetto limite,
ontologico simbolo di potere, porterà Papini ad abbandonare la strada
della filosofia per percorrere quella dell’arte poetica.
Indicando tre tipi di uomo-Dio,11 l’autore si sofferma sul senso
«magico» di questa elevazione ricorrendo a uno dei principi creativi
per eccellenza, quello d’imitazione: «L’idea d’imitazione; l’anima
cerca di acquistare i poteri attribuiti a Dio, diventa divina in quanto le

8
«Concezione pontificale, che riguarda la filosofia come una delle strade per
arrivare a comandare le cose per mezzo del pensiero. Rispetto a questo fine
tanto i tonici morali che rendono l’uomo forte, tanto i principi universali che
tendono a darci in mano le redini del mondo, come pure la descrizione delle
cose, che ci permette la previsione, cioè il potere di modificare gli
avvenimenti, non sono che mezzi subordinati, viottoli per salire alla strada
maestra». Ivi, p. 27.
9
Dalla lettura di Un uomo finito emerge con chiarezza la tendenza di Papini a
questo obiettivo: in lui viveva, sin dall’infanzia, un desiderio di rivincita
verso il mondo esterno da cui si sentiva schernito e offeso per il suo brutto
aspetto, quasi deforme, e la sua condizione di povertà. Ciò lo mosse alla
ricerca di un «mondo nuovo», fatto a sua immagine, dove egli fosse l'unico
vero creatore, l'unico Dio capace di piegare gli eventi secondo la sua volontà.
Egli formula una concezione laica di uomo-Dio che fa leva e si fonda sulla
potenza dello spirito, su un potenziamento della volontà tale da generare un
attivismo capace di fare «miracoli». Del resto ha del miracoloso lo sforzo che
il Papini e i suoi sodali sono chiamati a fare per cambiare il mondo politico e
culturale italiano, le cui basi poggiano stabili nelle sedi del potere culturale
ufficializzato: egli chiede a sé stesso, ai leonardiani e a tutti i suoi lettori, di
superare certe convinzioni e credenze, nonché di operare un vero e proprio
salto culturale e generazionale che necessita di una determinazione asso-
lutamente non ordinaria. Per mantenere in piedi una tale visione del mondo,
Papini è costretto a trovare rifugio in una visione magica della vita che presto
abbandonerà.
10
Lo stesso concetto lo ritroviamo, come vedremo, nella parabola del pilota
cieco: il simbolo narrativo eredita questo valore filosofico.
11
Cfr. G. PAPINI, Dall’uomo a Dio, in Sul Pragmatismo, cit., p. 45.

193
cose sono parti obbedienti di essa»12. In sostanza ciò corrisponde al
pragmatico tentativo d’invertire il tradizionale rapporto tra Dio e
l’uomo: «non è più Dio che s’incarna ma l’uomo che s’india»13.
Questa sarà la chiave di accesso papiniana alla letteratura, arte da lui
in principio tanto odiata e poi ricercata quasi per istinto quando, dopo
essersi tolto la maschera di pragmatista, intende vestire quella di
narratore:

Il famoso Pragmatismo non m’importava già in quanto regola di ricerca,


cautela di procedimento, e raffinamento dei metodi. […] fingevo di partire da
un precetto di logica (Pragmatismo) ma l’anima più segreta mia era assetata e
invidiosa della divinità.
Un istinto simile mi condusse verso l’arte. Io non potevo soffrire la
letteratura […]. Ma la filosofia mi ricondusse all’arte14.

Il Tragico quotidiano e il Pilota cieco sono dunque frutto di un


progetto filosofico che trova compiuta realizzazione nell’arte appunto
e in particolare nella narrazione fantastica. Il passaggio da uomo a Dio
implica per Papini il raggiungimento pieno e volontario (non spo-
radico e saltuario) di un’arte del miracolo, intesa proprio come pra-
tica15 sistematica con una serie di norme e regole16 capaci di svilup-
pare un potere assoluto dell’uomo sulle cose. Egli indica la via del-
l’onnipotenza17 come l’unica nuova via (alternativa a quella della
rinuncia praticata dagli yogi e dai mistici) d’elevazione alla divinità.
In questo egli opera un’aggiunta consapevole al Pragmatismo
americano. Attraverso il dominio assoluto sul mondo, l’autore in-
travede la possibilità di un ritorno all’unità e la conseguente sconfitta
di ogni metafisica: possedendo in sé tutte le cose si giunge a in-
generare nell’uomo-Dio la morte di ogni desiderio e la sconfitta di
ogni conflitto18. Affinché ciò sia realizzabile, è necessario avere in

12
Ibidem.
13
Cfr. Ibidem. In questo il Pragmatismo papiniano si trova in linea con quello
del James e del Bergson.
14
Cfr. G. PAPINI, Un uomo finito, in ID. Opere dal “Leonardo» al futurismo,
cit., p. 234.
15
Cfr. G. Papini, Sul Pragmatismo, cit., p. 48.
16
Cfr. Ivi, p. 50.
17
Cfr. Ivi, p. 46-47.
18
Cfr. Ivi, p. 52.

194
mente dei «modelli di cambiamento»19, un’«idea», un «progetto» di ciò
che si vuole ricreare al posto di quello che c’è; quattro sono i serbatoi
di cambiamento che egli indica:

l’arte
la religione
le metafisiche
le scienze immaginarie.20

La nostra attenzione si focalizza su questa quarta indicazione: le


scienze ordinarie, che si basano su ciò che accade o su ciò che accadrà
in certe condizioni, non sono sufficienti per apportare il cambiamento
di cui parla Papini, per cui è necessario approntare una «scienza di ciò
che accadrebbe» se certe condizioni e realtà cambiassero:

Per cambiare e cambiare coscientemente bisogna sapere prima ciò che


succederebbe cambiando certe parti. Bisogna scegliere tra i vari mondi
possibili e perciò bisogna che si creino tante fisiche, tante biologie, tante
psicologie quanti sono i cambiamenti possibili, sia pure attualmente fanta-
stici, che noi possiamo fare nei corpi, negli organismi, nelle anime. […] Fra
queste varie prospettive offerte dalle scienze immaginarie il creatore sce-
glierà quelle che vuol vedere realizzate in modo che la sua capacità di rifare
il mondo possa avere un numero indefinito di prove possibili.21

Siamo, come s’è detto, nel 1905 e il Papini stende ormai un


progetto pratico, programmatico della sua visione filosofica che con-
duce direttamente alle due raccolte. La dimensione narrativa è luogo
d’espressione privilegiato dei pensieri e dei caratteri che vivono nella
mente dell’autore come incarnazioni dei suoi «possibili» mondi inte-
riori: essa è lo spazio in cui il «creatore» può finalmente esercitare il
proprio potere, dando vita ai suoi immaginari universi, «possibili» in
quanto verosimili rispetto alla loro, pur fantastica, natura. Su questa
linea di sviluppo, è possibile offrire una lettura assai più ampia del
pensiero papiniano e dello sforzo volontaristico che lo spinge a libe-
rarsi da vecchi condizionamenti culturali e personali: vediamo il Pa-
pini di questi anni combattere il positivismo perché asservito alla
realtà, rifugiarsi nelle scritture dei grandi del passato per odio del

19
Cfr. Ivi, p. 53.
20
Ibidem.
21
Cfr. Ivi, p. 54.

195
presente, nel sogno per odio dell’esistente, nella solitudine della sua
terra per odio degli uomini:

Volevo spogliarmi e spogliare: tornare alla nudità perfetta, alla


spaventosa libertà dell’ateo radicale e universale. E quando mi parve d’esser
nudo e che i dolori e i pensieri della terra non fossero più miei volli rifab-
bricarmi il mio mondo. In due maniere: colla potenza dello spirito e col-
l’evocazione del fantastico, - colla volontà e colla poesia.22

Con l’uso della volontà («potenza dello spirito») e della poesia


(«evocazione del fantastico») dunque, Papini ricostruisce nuovi
mondi, prefigurati dalla scienza immaginativa, densi dello spirito del
tempo e della sua personalità, facendoli diventare anche i luoghi d’e-
spressione della sua arte poetica:

Era quello un mondo torbido e chiuso, dove l’ombra soverchiava la luce e


il tragico usciva fuor dall’ordinario; un mondo abitato da giovani pallidi e
senza illusioni, da uomini posseduti e martoriati da idee fisse e da nuovi
spaventi; un mondo in cui gli atti eran radi ma turbinosi i pensieri; e dove
non eran distinti i confini del verosimile e dell’immaginario, della vita e della
morte. Era un altro mondo: era il mio mondo: oscuro e terribile, sì, ma che
non era almen questo mondo, il mondo di tutti.23

In siffatto intreccio di verosimile e immaginario, dove non è chiaro


il confine che distingue ciò che è possibile da ciò che non lo è, Papini
recupera uno dei parametri fondamentali del “fantastico”, creando una
verosimiglianza coerente al testo, funzionale alla finzione dram-
matica, che inscena i suoi mondi interiori, animati da sogni e visioni,
densi di credenze pragmatiche e volontaristiche.

E così mentre aspettavo di piegare e rifare il reale coi prodigi della


volontà sublimata andavo creando il rifugio di una realtà provvisoria po-
polata dai docili spettri dei sogni. La poesia è scala alla divinità e il lavoro
dell’arte è già principio di creazione. Poeta e profeta per oggi – e Dio forse,
domani.24

22
Cfr. G. PAPINI, Un uomo finito, cit., p. 234.
22
Cfr. Ivi, p. 235.
23
Ibidem.
24
Cfr. Ivi, p. 236.

196
2. Dalle tre prefazioni de Il tragico quotidiano al Commento al
titolo de Il pilota cieco

A prefazione del Tragico quotidiano, Giovanni Papini illustra -


con tre diversi linguaggi25- le qualità della sua narrazione in rapporto
alla tradizione precedente. L’elemento di maggior novità che l’autore
intende ribadire è la sorgente «interiore» del suo fantastico, prendendo
le distanze da quello che lui definisce il «fantastico ordinario» che
scaturisce da una fonte «materiale, esterna, obiettiva»26. Quello
papiniano è un «fantastico dell’anima» che spinge a pensare in modo
eccezionale alle cose della vita e che mette in scena uomini dotati di
una «coscienza più acuta e più vasta» davanti ai quali egli pone «il
loro stesso mondo»,27 al fine di svegliarli dal torpore che rende in-
visibile e inafferrabile l’essenza della propria esistenza. Oltre a essere
vicino alla scoperta dell’inconscio, Papini rivela di avere, per il
fantastico, lo stesso obiettivo che si è dato in filosofia: svegliare le
anime dormienti e spingerle, volontariamente, verso la conquista di
altri mondi e la dominazione sulle cose esteriori. Papini intende
smascherare il quotidiano, spogliarlo da quel velo di normalità dietro
cui tutto scompare e mostrare così l’immagine delle «sue ombre»,
degli «abissi», degli «enigmi» e delle «tragedie» che esso miste-
riosamente contiene:

Io ho voluto far scaturire il fantastico dall’anima stessa degli uomini, ho


immaginato di farli pensare e sentire in modo eccezionale dinnanzi a fatti
ordinari. Invece di condurli in mezzo a peripezie bizzarre, in mondi non mai
veduti, in mezzo ad avvenimenti incredibili, li ho posti davanti ai fatti della
loro vita ordinaria, quotidiana, comune ed ho fatto scoprire a loro stessi
tutto quello che c’è in essa di misterioso, di grottesco, di terribile. […] Noi
siamo abituati a questa esistenza e a questo mondo e non ne sappiamo più
vedere le ombre, gli enigmi, le tragedie e ci vogliono ormai spiriti straor-
dinari per scoprire i segreti delle cose ordinarie.28

25
L’autore premette alla prima raccolta tre prefazioni – ai filosofi, agli eruditi
e ai poeti – le quali rappresentano i luoghi di giustificazione teorica
dell’opera, soprattutto riguardo alla natura fantastica degli avvenimenti nar-
rati.
26
Cfr. G. PAPINI, Prefazione ai filosofi, in ID. Il Tragico quotidiano, cit.
27
Cfr. Ivi, p. XV.
28
Cfr. Ivi, pp. XIV-XV. Il corsivo è dell’autore.

197
Nei testi papiniani, assistiamo a una sorta d’inversione dei
meccanismi produttivi del fantastico che s’introietta nello spirito del-
l’uomo ‘straordinario’ e si arricchisce di valori ontologici ed esi-
stenziali primo novecenteschi. Insorgono, in tal maniera, elementi di
novità rispetto alla tradizione fantastica: al centro del cambiamento vi
è l’uomo stesso, potenzialmente dotato di una straordinaria forza crea-
tiva che lo eleva a Dio.
Nella compilazione della sua seconda raccolta, Papini pone a
prefazione un unico Commento al titolo in cui non vi sono più tracce
di giustificazione teorica: qui il discorso assume la forma di una
confessione - privata e d’autore - il cui senso è già simbolicamente
espresso nel titolo della raccolta. Il lettore entra immediatamente in
contatto con la natura dei mondi che incontrerà, trovando indizi
importanti per orientarsi nei testi.
Assistiamo dunque, in apertura di volume, alla parabola del pilota
cieco, uomo che esorta all’azione, alla scoperta di sé e di una vita
migliore.

Rampogne, squilli, favole, confessioni ad alta voce, sfoghi lirici,


monologhi ridotti a colloqui: tutto quanto io sapevo ho messo a profitto per
questa opera di guida e di svegliatore. […] Al suono della mia voce si sve-
gliarono i dormienti […]. “Perché ci hai destati? - dicevano con gli occhi
[…]”. Ed erano tutti intorno a me, […]. Tutti aspettavano che il profeta par-
lasse.
Ma il profeta non parlò né volle parlare29.

Il pilota, che è dunque anche profeta, sta navigando nelle acque di


un «oscuro mondo» che lui stesso non conosce. Egli si trova alla guida
di un viaggio che non potrà condurre fino in fondo in quanto sorge in
lui la consapevolezza che la rotta che sta seguendo è diretta verso un
“miraggio sempre nuovo di un isola sempre non raggiunta»30. Perso
ogni orientamento, in quanto ciò che prima vedeva si rivela falso e
illusorio, al pilota non rimangono che due possibilità:

Non ti restano ormai che due vie da seguire: o tornare al porto dal quale
partisti con dispetto, lasciando sulle banchine le folla muta delle madri e
delle sorelle, oppure abbandonare i paesi sopramarini, e calare per forza la

29
G. PAPINI, Commento al titolo, in ID., Il pilota cieco, cit. pp. 3-4
30
Ibidem.

198
tua nave nelle valli meravigliose del fondo, dove altre foreste e altre mol-
titudini attendono gli uomini che non hanno paura di ricominciare la vita.31

L’eroe papiniano è colto e rappresentato di fronte a un bivio


cruciale per la sua esistenza, una diramazione di vie che non indica
una possibilità di scelta ma sancisce una definitiva separazione di
strade senza ritorno. La prima via è quella dell’esteriorità, della super-
ficie, ed è la via del fantastico ordinario che abbiamo visto abban-
donata già nella prefazione de Il tragico quotidiano; la seconda via è
quella della profondità, dei segreti dell’esistenza, dell’interiorità che
trova maggiore maturità tra le pagine de Il pilota cieco. La scelta tra le
due strade in realtà è obbligata (è quella che l’autore gli destina) in
quanto si è ormai instaurato un processo d’indagine e riscoperta dei
meccanismi interiori dell’uomo che Papini intende rivelare a ogni co-
sto alla coscienza dei suoi lettori, vestendo, come vedremo, egli stesso
i panni dei suoi personaggi. Il prezzo da pagare è alto e il senso di
smarrimento è quello di un radicale e tragico trapasso:

Forse il porto che tu cercavi non è di questa terra, ma questa terra non è
che una breve parte della terra. Tu puoi andare nell’altra. Che cosa costa il
viaggio? Una semplice cosa: la vita.32

La linea dell’orizzonte subisce una rotazione: da orizzontale


(quella della superficie del mare) diviene verticale (quella delle pro-
fondità). È proprio questa traslazione che l’autore imposta in apertura
di volume inducendo il lettore a leggere i suoi testi secondo questo
andamento verticale e profondo, non nascondendo i dubbi e l’in-
certezza che la traslazione comporta. Tale verticalità, dunque, traccia
la rotta di una possibile esplorazione interiore e Papini, uomo a ca-
vallo tra antico e moderno – animato da un mondo di leggenda «che di
antico ha le figure e di moderno i sensi»33 – se ne fa promotore, esalta-
tore e tramite34.

31
G. PAPINI, Commento al titolo, cit., pp. 3-4.
32
Cfr. Ivi, p. 4.
33
G. PREZZOLINI, Discorso su Giovanni Papini, Firenze, Libreria della
Voce, 1915, p. 26.
34
Questo spostamento di orizzonte conduce per associazione all’«orizzonte di
mutamento» di cui parla Jauss in merito alla rivoluzione che la nascita del
romanzo porta nella teoria del genere letterario: con orizzonte egli intende il
luogo di riferimento che rimane fisso - in quanto modello - fino al momento

199
Interiore, profonda e inconscia è anche la provenienza delle due
parole del titolo, che rispecchia perfettamente la natura del testo:

Soltanto molto tempo dopo, rivedendo improvvisamente le due parole


sotto il mio nome, scoprii che il mio secondo io, quello che veramente mi
comanda, aveva pensatamente attaccate insieme le due parole. In questa biz-
zarra maniera volle costringermi alla confessione.35

La confessione rivela dunque che il pilota e il profeta sono in


realtà espressioni della parte inconscia dell’autore, lasciando intendere
che dietro i volti dei personaggi e dei loro fantastici interlocutori

in cui cambia il paradigma di realtà su cui è costruito, cambiando di


conseguenza anche il modello. Cfr. H. R. JAUSS, Alterità e modernità della
letteratura medievale, Torino, Bollati Boringhieri 1989, pp. 232-233. Senza
voler qui entrare in merito alla complessa questione relativa al fantastico, se
sia esso un modo o genere letterario, il progressivo allargamento del-
l’orizzonte di Jauss ci introduce alla visione evolutiva del fantastico
formulata da Calvino, la quale risulta valida in ogni caso: «Calvino, pur non
utilizzando mai il termine genere, ha ragionato secondo una chiara logica
evolutiva, individuando nella tradizione ottocentesca europea del racconto
fantastico una linea che, ha partire da Hoffmann, tenderebbe verso una
sempre maggiore “interiorizzazione del soprannaturale”, sanzionando il
primato novecentesco del fantastico “mentale” su quello tipo “visionario”».
Cfr. S. BELLOTTO, Le metamorfosi del fantastico, Bologna, Pendragon
2003, p. 8. Inoltre si veda I. CALVINO Racconti fantastici dell’Ottocento
[1983], ora in ID. Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mon-
dadori, vol. II, pp. 1654-1665. E ancora: «Infatti, se un elemento tipico della
narrazione fantastica tradizionale era rivendicabile nella violazione del “pa-
radigma di realtà”, ora sembra prevalere non tanto il fattore trasgressivo
quanto l’epifania di un nuovo paradigma, dove in modo “surrealistico”, come
suggerisce Lugnani, il plausibile e l’implausibile si fondono, l’immanente
continua nel materiale, il mistero si annida nelle pieghe del quotidiano». Cfr.
S. BELLOTTO, cit., p. 15. Il Papini nel Commento al titolo de Il Pilota cieco
rappresenta un cambiamento rispetto al modello fantastico ottocentesco, una
variazione la cui entità, in chiave evolutiva, sarà quantificabile e riscontrabile
solo a posteriori ma che egli intende rivendicare. Il suo fantastico rappresenta
una zona di confine tra due epoche, quella ottocentesca e quella nove-
centesca, e come tale si carica di significati appartenenti a entrambe le parti,
segnando un cambio di rotta netto e inarrestabile che conduce sim-
bolicamente all’esplorazione di queste profondità marine, sconosciute,
oscure, unica alternativa al miraggio della superficie.
35
G. PAPINI, Commento al titolo, cit., p. 1.

200
troveremo la costante presenza del suo polimorfo e molteplice io36. Il
«pilota cieco», dunque, è il primo simbolo della raccolta indagabile
«quale espressione della personalità inconscia» dell’autore in fun-
zione di una «duplice relazione» tra «l’io creatore e l’io sociale»37 che
in tal modo apre la via interpretativa ai testi. Ricostruendo dunque le
varie identità dei personaggi, la morfologia dei loro io, potremo
comporre uno spettro, non molto vario (in quanto lo schema si ripete)
ma completo, della condizione dell’io papiniano a quel tempo. La
confessione rivela anche che le incertezze del pilota sono le stesse
dell’autore il quale non potrà guidare il lettore con chiarezza di orien-
tamento nel corso della lettura dell’opera. Siamo in un ambito ancora
sconosciuto, indagabile solo per segni ed immagini, attraverso un
residuo magico e ottocentesco da cui il Novecento presto si di-
staccherà con l’inizio dell’era freudiana.
Il viaggio a cui assistiamo è dunque ambiguo e incerto su molti
fronti, rivelatore di regioni occulte che sono uscite allo scoperto.
Siamo di fronte all’emersione di ‘qualcosa’ che è nascosto e privato:
il familiare - il quotidiano vivere tenuto al sicuro tra le mura protette e
nascoste della nostra cara casa - è venuto allo scoperto e si è tra-
sformato nel suo opposto: «Unheimlich, dice Schelling, è tutto ciò che
avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto e che invece è affiorato»38.
Due immagini in una vasca è il primo attraversamento di questo
spazio privato – non più protetto e intimo, bensì rivelato – denso di
quel fantastico sentimento che penetra nel personaggio e s’insinua
nelle pieghe del suo quotidiano esistere.
Il viaggio, dunque, si tinge di toni ontologico-esistenziali che
generano - non senza conseguenze tragiche e perturbanti - il crollo
della concezione quotidiana e cartesiana della vita, lineare e continua,
ribaltando i principi di realtà e di non contraddizione, lasciando il po-
sto ad altre leggi governanti altri mondi in cui non sono più

36
«Potremmo rimproverare a Papini il fatto che i suoi personaggi non
vivono al di fuori della finzione che successivamente animano. Questo è un
altro modo di dire che il nostro scrittore fu inguaribilmente un poeta e che i
suoi eroi, sotto molteplici nomi, sono proiezioni del suo io». Cfr. J.L.
BORGES, Introduzione in G. PAPINI, Lo specchio che fugge, Parma-
Milano, Franco Maria Ricci editore 1975, p. 10. Il corsivo è dell’autore.
37
Cfr. Ch. MAURON, Dalle metafore ossessive al mito personale, Milano, Il
Saggiatore 1966, p. 35.
38
S. FREUD, Il perturbante, in Opere, vol. IX, a cura di C. Musatti, Torino,
Bollati Boringhieri, 1977.

201
nettamente tracciabili «i confini tra l’Io e il mondo esterno e gli
altri»39. La nuova consapevolezza del limite sensoriale (cecità) e la
relativa perdita dell’orientamento generano una frattura interna che ha
sede proprio in quella linea su cui dovrebbe avere sede l’identità di
una persona in relazione a ciò che è stato, ciò che è e che desidera es-
sere in futuro. Tale frattura non impedisce l’evocazione del ricordo e
del passato (la sua formazione)40 ma annulla la sua rilevanza poiché
l’uomo (il pilota, l’eroe papiniano) non può più utilizzare il suo sapere
(né la sua identità) di fronte alla nuova consapevolezza e a un nuovo
mondo la cui natura è altra rispetto a ciò che ha conosciuto fino a quel
momento. Tutto ciò che è stato fino a quell’attimo presente cambia
forma e significato: la linea spazio-temporale che unisce passato,
presente e futuro si è interrotta generando un profondo cambiamento
negli ordinari legami logici tra le persone e le cose, tra i tempi e gli
spazi. Il senso di disorientamento finale è forte poiché in questa
‘nuova’ – se pur arcaica e magica – percezione della vita, l’uomo è
costretto a nuove esplorazioni in cui incontri straordinari, dagli esiti
fantastici, si affacciano alla sua coscienza. Questa sarà anche la realtà
che incontreremo nei suoi racconti, proseguimento e sviluppo di quan-
to contenuto nel titolo.
Aggiungiamo infine una nota importante per l’analisi che segue,
ossia che il tempo di emersione di questi racconti dal profondo
dell’autore – rapido, non mediato dalla coscienza – coincide con quel-
lo della scrittura:

Ed è infatti un volo, un gesto improvviso che dà origine a questi racconti


o confessioni. Papini è uno scrittore di estro. […] non c’è un perché o un
progetto. Qualche ora prima di scriverle non sapeva che le avrebbe scritte.
Non sono nemmeno la maturazione lunga che scoppia d’un tratto. Son come
finestre che si aprono e danno su un pezzo di cielo.41

La testimonianza prezzoliniana, sebbene non vada accolta


strettamente alla lettera, ci dice tuttavia molto sul tipo di narrazione
che incontreremo, la quale segue processi lineari, dovuti ad asso-
ciazioni rapide, in parte consce e in gran parte inconsce, che si tra-

39
Ibidem.
40
«Pilota cieco - povero pilota cieco! È inutile che tu abbia studiato nella tua
adolescenza le carte marine antiche e recenti e che tu abbia imparato da quali
forze è governato il timone». Cfr. G. PAPINI, Il pilota cieco, cit., p. 3.
41
G. PREZZOLINI, cit., pp. 33-34.

202
ducono in semplici sistemi narratologici. Tali sistemi procedono
sostanzialmente attraverso simboli che inducono a fantastiche asso-
ciazioni partendo dall’io intradiegetico dell’autore e attingendo a pie-
ne mani dal serbatoio immaginativo dell’ottocento. In questo Com-
mento al titolo, dunque, Papini dichiara l’originalità del suo approccio
alla tradizione fantastica, dando il via a un processo di rinnovamento
destinato a evolversi nel tempo.

3. Due immagini in una vasca

L’analisi del racconto che segue intende mostrare come i pre-


supposti fin qui evidenziati si manifestino a livello narratologico,
penetrando in ogni ambito del testo.
Due immagini in una vasca si presenta come un racconto il cui
protagonista - nonché narratore - ritorna dopo sette anni di assenza
nella città dove ha trascorso il lustro del suo noviziato studiando «con
dei maestri dalle classiche barbe bianche, le scienze più germaniche e
fantastiche».42 La narrazione del ritorno è preceduta da un fram-
mentario collage memoriale relativo al luogo in questione, dominato
soprattutto dal giardino dove l’uomo era solito, in quel tempo, tra-
scorrere interminabili ore sostando sul bordo di una vasca che si
trovava al suo interno. Egli s’incantava a guardare il suo viso riflesso
nello specchio d’acqua e a osservare il moto delle foglie che vi
roteavano in superficie e nel fondo. Così, appena giunto in città, il
narratore si dirige a visitare questo suo antico ritrovo pieno di ricordi
grati. Niente qui appare cambiato, come se tutto fosse rimasto im-
mobile dal giorno della sua partenza. Il protagonista torna sui suoi
passi e ripete l’azione di riguardarsi in quella stessa acqua, come tante
volte aveva fatto in gioventù: accanto al suo volto che si mostra ai
suoi occhi «impallidito e trasfigurato»43 dal tempo, appare questa
volta il viso di un altro che egli riconosce come il suo io di sette anni
prima. Dopo alcuni giorni felici trascorsi all’insegna delle rie-
vocazioni, l’uomo inizia ad avvertire un senso di oppressione cre-
scente, seguito da un irrefrenabile desiderio di definitiva separazione:
l’incontro tra i due si chiude tragicamente con l’uccisione del doppio
per annegamento e il parziale rientro del protagonista nella ‘nor-
malità’.

42
G. PAPINI, Due immagini in una vasca, in ID. Il pilota cieco, cit., p. 7.
43
Cfr. ivi, p. 9.

203
Il testo si struttura secondo due strati di ricordi che il narratore
rievoca a distanza di tempo: il primo, quello recente, è relativo al
ritorno nel piccolo paese44 mentre il secondo, quello remoto,45 de-
scrive i cinque anni del suo noviziato. L’intreccio procede tramite una
serie di analessi temporali - omodiegetiche (sulla stessa linea del rac-
conto primo) e ripetitive (la narrazione torna sui suoi stessi passi con
allusioni, confronti, reinterpretazioni) – interrotte da alcuni richiami al
presente e da una breve prolessi in cui il personaggio si spinge verso
una previsione futura. La narrazione dei ricordi si struttura entro
ampie parti descrittive che delineano lo schema compositivo del rac-
conto secondo cui una singola storia – quella del soggetto narratore e
protagonista – si sdoppia a partire da uno di questi arcaici luoghi (la
vasca) generando una seconda storia, quella dell’anti-soggetto (il
doppio). Le parti descrittive assumono quindi alcune delle funzioni
diegetiche fondamentali.
Le strutture spaziali e temporali costituiscono l’impianto
architettonico del testo, la cui decodificazione è essenziale per
evidenziare i meccanismi della produzione del senso e l’emersione del
fantastico. Partiremo dall’analisi topologico-percettiva degli spazi,
con cui è possibile individuare una parte importante dei sistemi
assiologici del racconto. L’incipit evidenzia con grande efficacia tale
struttura:

Solo per rivedere il mio viso in una vasca morta, piena di foglie morte, in
un giardino sterile, mi fermai dopo tanto tempo nella piccola capitale? –
quando vi fui presso non pensavo di avere altra ragione che questa.46

Lo spazio si organizza secondo uno schema concentrico al cui


centro è la vasca, circondata dall’area intermedia del giardino,
entrambi contenuti nella superficie più ampia della piccola capitale. Il
centro è il luogo dell’antitesi, punto culminante (Spannung)47 delle
contraddizioni e del conflitto: dalla vasca – luogo dove è ancora vivo
il ricordo – emerge l’anti-soggetto sotto le spoglie di un doppio che

44
Non è chiara quale sia l’effettiva distanza temporale che separa il momento
della narrazione da quello del ritorno alla piccola capitale.
45
La distanza temporale questa volta è definita precisamente: sono passati
sette anni dalla sua partenza. Cfr. ivi, p. 10.
46
G. PAPINI, Due immagini…, cit., p. 7.
47
B. TOMAŠEVSKIJ, Teoria della letteratura, Milano, Feltrinelli 1978, p.
184.

204
riproduce l’aspetto del protagonista ai tempi del noviziato, e nella
vasca esso nuovamente ritorna scomparendo per sempre. Dall’acqua,
dunque, si genera e muore il doppio.
Lo spazio che topologicamente rappresenta la piccola capitale
emerge per contrasto con quello più ampio della città costiera dove
vive il protagonista nel presente: la piccola capitale è rappresentata
come la città dei morti, un luogo ameno esiliato «dal mondo e dal
tempo»48 mentre la grande città della costa è la «città dei viventi»49
dove tutto procede secondo un’apparente normalità.
Narratologicamente, l’autore organizza l’assetto spaziale descrivendo
da una distanza ravvicinata la città del passato e ponendo in lon-
tananza lo spazio ampio e vitale delle città marinare che rimangono
una costante presenza solo accennata. Da questo contrasto si evi-
denzia lo spazio narrativo. Questa polarità riproduce la distanza
ideologica tra due mentalità che rappresentano due epoche in
contrasto tra le quali non può esserci conciliazione. La strutturazione
dello spazio è tracciata secondo i parametri e i codici assiologici del
primo Novecento, in cui sono evidenti i segni di un cambiamento
storico, sociale, culturale, scientifico di grande rilievo che ancora non
è stato compiuto interamente. Con Due immagini in una vasca
assistiamo all’atto estremo con cui il protagonista – con lui Papini e la
sua epoca - si distacca dal passato ancora vivo come residuo, nascosto
nell’interiorità del personaggio e riemerso in quell’antico luogo che
ancora in parte rappresenta vecchi codici esistenziali. Il contrasto tra i
due modelli spaziali rispecchia, inoltre, il conflitto interiore al
protagonista che non ha ancora maturato un completo distacco dalla
sua giovinezza, dai valori che essa rappresenta e che nel presente
rifiuta. Per il gioco dei mascheramenti papiniani, questo contrasto è
infine quello dell’autore stesso che reagisce agli anni della sua
educazione intellettuale – peraltro di stampo positivista – alla ricerca
di un distacco e di una maturità ancora non raggiunti.
Lo spazio è filtrato e descritto a partire dall’attitudine percettiva
del narratore che a livello narrativo è intradiegetico – in quanto si
rivolge, se pur implicitamente, al lettore – mentre nei confronti della
storia è autodiegetico (grado forte dell’omodiegetico).50 La pro-

48
Cfr. ivi, p. 11.
49
Cfr. ivi, p. 15.
50
Cfr. G. GENETTE, Figure III, Torino, Einaudi 1976, p. 296.

205
spettiva del racconto51 segue dunque costantemente le coordinate
interne al protagonista che propone l’unico punto di vista narrativo. In
Due immagini in una vasca le caratteristiche interiori del personaggio
invadono gli spazi e i tempi che legano gli eventi. Tutto il narrato
risente di questa ambiguità che si traduce nel dato dominante la
strutturazione. Conseguentemente anche la focalizzazione del rac-
conto risulta essere in parte compromessa in quanto tecnicamente è
interna e fissa ma effettivamente si presenta come multipla, in quanto
tale è l’identità del narratore. L’instabilità è al massimo grado poiché
lo scontro a cui assistiamo tra l’io presente e quello passato è
destinato a ripetersi nel futuro, stabilizzandosi in un meccanismo
psichico da cui non è possibile uscire; neanche l’uccisione del doppio
potrà generare l’unità sperata ma solo un vuoto incolmabile e l’attesa
di un nuovo conflitto. L’ambito spaziale è simbolico e s’inserisce in
quella verticalità di cui si è fatto esploratore in apertura di volume il
“pilota” Papini.
Veniamo adesso ad analizzare le strutture temporali lungo le quali
scorre il flusso degli eventi e notiamo che esse coincidono con quelle
dei ricordi, assumendo l’andamento del processo mentale, mnemonico
ed emotivo, del narratore, negando uno lo sviluppo logico-con-
sequenziale della diegesi. Una tale dimensione permette che passato e
presente si trovino faccia a faccia nel “fantastico” incontro col doppio.
Andando a verificare il tipo di sistema verbale presente nel testo,
notiamo che quasi tutta la narrazione procede tramite l’alternanza di
due tempi narrativi, il passato remoto e l’imperfetto, a cui si affianca
sporadicamente il presente, tempo commemorativo. Precisiamo che lo
studio di tale alternanza permette d’indagare la fenomenologia del
tempo testuale che vincola narratologicamente lo sviluppo del rac-
conto. Secondo quanto Weinrich osserva sulla «messa in rilievo»,52 il
passato remoto indica una sequenza in «primo piano» mentre
l’imperfetto indica ciò che rimane sullo «sfondo»; nel nostro caso,
l’intero racconto si sviluppa in una continua alternanza tra questi due
piani; il presente è invece utilizzato limitatamente a un numero
ristrettissimo di frasi concentrate per lo più nel capoverso finale. Il
risultato è un forte accento espressivo – espressionista, diremmo –
derivante dalla continua soggettiva alternanza dei piani narrativi. La

51
Cfr. ivi, p. 233 e ssg.
52
H. WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, Il
Mulino 1978.

206
proposta critica di Weinrich risulta particolarmente fertile nello studio
critico di questo racconto che dunque faremo seguendo la dinamica
dei tempora verbali, andando a verificare l’uso che Papini fa di questa
alternanza e tentando d’individuare le modalità narrative con cui si
delinea lo sfondo e il primo piano, mostrandone le immagini e i si-
gnificati.
Secondo quanto indicato da Weinrich, l’introduzione e la
conclusione della storia hanno un tempo di sfondo. Guardando
all’incipit, ci accorgiamo subito che il racconto mette in evidenza
un’eccezione rispetto alla regola, in quanto la storia si apre con un
brano al passato remoto, proiettando subito il lettore nel vivo della
narrazione. La conseguenza è un inizio di straordinaria intensità che
offre un immediato contatto con molti aspetti del testo subito
introdotti in tono fantastico in quanto quella domanda senza risposta
implica un’incertezza interna al narratore stesso, creando suspence e
generando nel lettore l’attesa di un qualche “perturbante” avve-
nimento. Ma non sono solo questi i motivi che segnalano questo
incipit come uno dei luoghi salienti del testo: ‘l’altezza’ di queste
poche righe sta nel punto di vista che esse offrono, grazie a un impeto
descrittivo, a uno slancio lirico che stacca la narrazione da terra e
fornisce uno sguardo aereo su quel ritorno, sull’uomo in viaggio, sulla
città e sul giardino:

Subito il principio, con quella prosa numerosa e battente, ci butta sulle


sue ali nell’aria compiacente. C’è, nel piacere del volo, qualche po’ di
vertigine e il gusto delle cerchiate discese.53

La particolare prospettiva (panoramica) dell’incipit mostra


un’intima immagine dello stato d’animo del protagonista, nonostante
il testo sia appena iniziato. Giovanni Prezzolini nel suo Discorso su
Giovanni Papini indica proprio in questi “spunti lirici” la grandezza
dello scrittore, non sufficientemente apprezzata dalla critica:

[…] Spero di fare vedere che la forza, la bellezza, la grandezza di Papini


scrittore nei suoi tempi primi fin quasi ad oggi, sta in quei suoi “spunti lirici”
specie di esordi balzanti per un impeto musicale intimo, che si sente, son
sbocciati impetuosi come la piena da un nevaio che dimoia al primo sole.

53
G. PREZZOLINI, op. cit., p. 33.

207
[…] Così la potenza poetica sta in questa resistenza che il lirismo offre alla
stanchezza prosastica che tenta di tirarlo giù.54

L’incipit mostra così il punto da cui inizia il viaggio del


protagonista. È un «primo piano» dinamico che si dirige progres-
sivamente, sul finale di capoverso55, verso lo «sfondo» la cui de-
scrizione segue nel brano successivo. Osserviamo che l’autore non
delinea in questo ambito un universo secondario dove sono relegate
informazioni di contorno per la diegesi, ma circoscrive i ricordi e le
descrizioni della piccola città ai tempi del noviziato. Questo fa sì che
lo sfondo abbia l’importante funzione narrativa di situare a una certa
distanza l’immagine della vita passata: esso è portatore dell’elemento
rimosso intorno a cui si sviluppa la diegesi; in primo piano invece
troveremo le percezioni, i sentimenti e le credenze del nuovo io alle
prese con la riemersione del doppio. La distinzione tra i due piani non
è però netta, poiché vi è un forte carattere iterativo56 dovuto al fatto
che azioni, luoghi e personaggi dei vari strati di ricordi sono gli stessi;
ciò rinforza la sensazione di una diacronia monotona in cui spazio e
tempo sono bloccati e dominati da una irrisolvibile incertezza.
La narrazione prosegue nei successivi due capoversi con l’im-
perfetto, focalizzando l’attenzione sul desiderio che spinge il pro-
tagonista a tornare indietro nel tempo, in quel luogo rimasto ancora
intatto nel suo ricordo:

Tornando dal mare e dalle grandi città della costa, sentivo il desiderio
delle cose nascoste, delle vie strette, delle mura silenziose e un poco annerite
dalle piogge. Tutto ciò io sapevo di trovare nella piccola capitale, nella città
dove per cinque anni avevo studiato, con dei maestri dalle classiche barbe
bianche, le scienze più germaniche e fantastiche.57

Con toni intimisti e nichilisti, il narratore fa il primo riferimento al


presente attraverso l’associazione tra la grande città dove vive e il
desiderio delle piccole cose nascoste in cui poter ritrovare sé stesso:
emerge così l’attrazione che lo spazio recluso della piccola città eser-
cita sul protagonista. In questo brano, inoltre, ci vengono fornite in-
formazioni preziose sulla sua formazione, di cui sappiamo la durata e

54
Ivi, pp. 23-24; 32.
55
Il testo inizia con il passato remoto e finisce con l’imperfetto.
56
G. GENETTE, op. cit., p. 163.
57
G. PAPINI, Due immagini…, cit, p. 7.

208
il contenuto: i cinque anni di studio delle «germaniche scienze
fantastiche» sotto la guida dei maestri dalle «classiche barbe bianche»
rappresentano l’universo assiologico di riferimento a cui il propago-
nista reagisce nel corso del testo. Il Papini sembra mettere dunque
sullo sfondo la cultura e i valori del fantastico ottocentesco, in-
scenando il ritorno del protagonista e quindi un confronto-scontro con
quel mondo che ormai si profila lontano nella memoria e nel tempo.
Non a caso ciò avviene proprio attraverso uno dei simboli più
rappresentativi della tradizione fantastica, il doppio, che va incontro –
per suscitato odio - alla sua definitiva morte portandosi dietro quella
cultura e i suoi valori di riferimento.
Tornando al testo, si apre una parentesi descrittiva sulla «cara
città» introdotta da un «io ricordavo» in cui la mente dipinge il luogo
secondo i propri parametri58. È una descrizione astratta che procede
per sottrazioni, in cui la città appare isolata da ogni contesto, priva di
ogni ornamento, dove l’unico polo in parte attivo sembra essere il
palazzo di corte, emblema profano della città. Segue una descrizione
delle strade in cui risalta l’elemento acquatico: per le vie vi sono molti
pozzi, uno ogni cento passi, ognuno dei quali raddoppiato da una
vicina fontana. L’acqua è uno degli elementi predominanti del rac-
conto, anch’essa preludio al doppio e simbolo archetipo di morte.59
Ancora con l’imperfetto si profila la prima descrizione del giardino e
della vasca contenuta al suo interno:

Io ricordavo pure la casa ove abitai negli anni del mio noviziato
scientifico. Le mie finestre non si aprivano sulla piazza ma sopra un grande
giardino, chiuso tra le case, ove c’era, in un angolo, una vasca recinta di
rocce artificiali.60

58
«Io ricordavo spesso la cara città, così sola in mezzo alla pianura, come
un’esiliata – (ho pensato sempre che vi sono anche delle città esuli dalla loro
vera patria) – senza fiume, senza torri né campanili, quasi senza alberi, ma
tutta calma e rassegnata intorno al gran palazzo rococò, in cui ciarla e dorme
la corte. Per le vie, a ogni cento passi, c’è un pozzo e presso il pozzo una fon-
tana e sopra ogni fontana un guerriero di terra cotta, dipinto d’azzurro e di
rosso scialbo»; ivi, pp. 7-8.
59
L’acqua assiologicamente è riferibile alla morte e, contemporaneamente, a
un valore ancestrale che precede la nascita. Essa è l’elemento in cui queste
due forze contrarie (morte/vita) si esercitano simbolicamente in un rapporto
dove, in questo nostro caso, prevale la prima.
60
G. PAPINI, Due immagini.., cit., p. 8.

209
Il giardino ripercorre il modello dell’Hortus conclusus,61 luogo
intimo e circoscritto dove ricercare, con i toni decadenti del-
l’abbandono, antichi valori di esistenze perdute e lontane. Nella
descrizione che segue, molti sono gli aggettivi e le figure che dif-
fondono la sensazione di sospensione e morte, già espresse
nell’incipit. Risalta tra queste la figura ambigua e melanconica della
figlia del vecchio giardiniere morto che, «annoiata e devota, […] con-
siderava gli alberi come dei miscredenti e i fiori come dei vanitosi»,62
a cui è imputata la ‘morte’ della vasca; qui il tema del tempo tocca il
suo apice: «l’acqua sembrava così immobile e stanca come fosse la
stessa da un numero enorme di anni» e le foglie degli alberi che ri-
coprivano la superficie «sembravano cadute là dentro in autunni
miticamente lontani».63 Questa percezione temporale assurge a tema
dominante del racconto e nasconde significati esistenziali, preludio
alla narcisistica apparizione. A questo punto il narratore introduce un
richiamo, breve ma netto, alla storia inserendo una frase al passato
remoto che ribadisce, per contrasto, che i fatti fin qui narrati sono
avvenuti in un lontano passato: «questo fu il luogo delle mie gioie
finché abitai nella piccola capitale»64. Questa prima parte si chiude
con la descrizione delle azioni svolte in quell’intimo giardino, sul
bordo della vasca:

mi sedevo con qualche libro presso la vasca, e quando ero stanco di


leggere o la luce scemava, cercavo di vedere i miei occhi riflessi nell’acqua o
contavo le vecchie foglie e seguivo con estatica ansia i loro lenti viaggi al
respiro ineguale del vento. Qualche volta le foglie si diradavano o si rac-
coglievano tutte verso il fondo e allora vedevo dentro l’acqua il mio volto e
lo fissavo così lungamente che mi sembrava di non esistere più per mio
conto, ma di essere soltanto un’immagine fissata nella vasca per l’eternità.65

Nell’incanto di quel momento, egli percepisce la realtà del riflesso


come quella parte di sé che realmente è (e non solo appare) e sarà per
sempre (eternamente) a tal punto da diventare parte di quell’eco-

61
Cfr. in questo stesso volume il contributo di A. M. MANGINI, Il maldestro
demiurgo...
62
G. PAPINI, Due immagini.., cit., p. 8.
63
Ibidem.
64
Ibidem.
65
Ibidem.

210
sistema simbolizzato dallo specchio d’acqua, autonomo e autore-
ferenziale, svincolato dalle leggi ordinarie dell’esistente. Questa de-
scrizione contiene tutte le azioni e tutti i luoghi di riferimento che in
maniera rituale saranno ripetuti ogni qual volta il protagonista tornerà
ad affacciarsi a quello specchio. All’incipit segue quindi una parte,
lunga circa due pagine, di ricostruzione del passato che funziona,
nell’architettura del racconto, come antefatto indispensabile per com-
prendere la storia. Lo stacco tra questa prima parte e il resto del
racconto è segnato da una spaziatura, a scandire una pausa netta e un
cambiamento di scena.

La narrazione riprende con un primo piano in cui vediamo il


protagonista appena arrivato nella piccola capitale correre al suo
mitico giardino. Egli dice di trovare la città com’era nel passato ma,
confrontando questa descrizione con quella del ricordo, notiamo
alcune importanti differenze nella scelta degli aggettivi, tutti curvati in
accezione disforica: le vie sono diventate «anguste», le donne «nane e
giallastre», i guerrieri sopra le fontane «inutili e ridicoli». Il luogo è
descritto con molto più distacco poiché se la città è rimasta la stessa, il
protagonista invece è mutato e con lui la percezione diretta (non più
quella del ricordo) del paesaggio. Dove il tempo appare invece bloc-
cato su tutti i fronti (quello del ricordo e quello del ritorno) è nella
descrizione del giardino e della vasca, dove niente è cambiato se non
per «qualche ciuffo di più nelle aiuole, qualche foglia di più nella
vasca»,66 tanto che il tempo verbale ritorna all’imperfetto, riportando
la mente del lettore a quanto descritto nello sfondo67.
Assistiamo adesso all’azione indicata nell’incipit quale possibile
motore del viaggio, descritta in questo terzo primo piano: «Io volli
ancora rivedere la mia faccia nell’acqua e mi accorsi ch’era diversa,
assai diversa da quella ch’io ricordavo così lucidamente»68. La realtà è
dunque altra rispetto al ricordo ma l’atto di riguardarsi nella vasca
riproduce lo stesso «incanto” da cui scaturisce la «fantastica” appa-
rizione:

66
Ivi, p. 9
67
«E anche il giardino era com’io l’avevo lasciato – anche la vasca era
com’io la vidi per l’ultima volta, prima di tornare alla mia patria. Qualche
ciuffo di erba in più nelle aiuole, qualche foglia di più nella vasca e tutto il
resto come nel tempo passato». Ibidem.
68
Ibidem.

211
Stavo alcuni minuti mirando la mia immagine e pensando alle leggi del
tempo, quando vidi disegnarsi nell’acqua, accanto alla mia, un’altra
immagine. Mi volsi impetuosamente: un uomo s’era seduto accanto a me e si
specchiava accanto a me nella vasca. Lo guardai trasognato – lo guardai
ancora e mi parve che mi rassomigliasse un poco. Volsi ancora l’occhio alla
vasca e contemplai di nuovo la sua immagine riflessa sul cupo fondo. In un
momento mi accorsi della verità: la sua immagine rassomigliava perfet-
tamente a quella ch’io riflettevo sette anni innanzi!69

Assistiamo all’evento in cui tutti i fili del passato e del presente


convergono nello stesso punto e nello stesso istante, in quell’attimo
che di fantastico ha la dimensione, i toni e le figure. Vi è un’interes-
sante contemporaneità tra l’aver rimosso le foglie morte sulla
superficie dell’acqua (apparizione dello specchio), l’attimo in cui egli
si ferma a pensare alle leggi del tempo e l’immediata riemersione del
doppio accanto al riflesso del nuovo io. In questa singolare con-
vergenza, l’elemento temporale acquista nuovamente un ruolo di
primaria importanza poiché la sospensione del tempo, che riproduce
uno stato simile a quello della morte, è la condizione necessaria per
mantenere immobile l’acqua e quindi avere quella superficie per-
fettamente piatta (lo specchio) che può restituire il riflesso: un minimo
movimento e l’immagine diventerebbe frammentata, perdendo vero-
simiglianza. Emerge, a questo punto, con tutta la sua forza la
componente narcisistica che nel Tragico quotidiano era ancora
piuttosto nascosta tra sdoppiamenti ben mascherati in entità
demoniache o in alcune figure di sogno mentre nel Pilota cieco essa è
citata esplicitamente70. Anche questa volta lo specchio è uno stagno,
luogo dove l’acqua è sempre la stessa, e in quel ri-guardarsi nasce
l’immagine di un altro se stesso, apparentemente integro e unitario,
tanto da dare vita a un personaggio distinto: c’è all’origine un de-
siderio di unione con l’altro che spunta «dalle profondità di quel
liquido specchio di Narciso» che è la «superficie ontologica del-
l’originarsi del mondo (e del soggetto) sul bordo del Nulla», bordo sul
quale «il soggetto incontra sé stesso, la propria immagine e l’Altro»71.

69
Ivi, pp. 9-10. Il corsivo è dell’autore.
70
In questo caso il mito classico è citato nel suo complesso. A proposito si
veda anche A. M. MANGINI, Il maldestro demiurgo…, cit.
71
Ibidem. Per le citazioni interne cfr. P. GAMBAZZI, l’occhio e il suo
inconscio, Milano, Cortina 1999, p.160.

212
Introduciamo così un altro tema storico del fantastico – questa volta
legato al nichilismo – che nella letteratura contemporanea è simbolo
dell’esistenza di alcuni «buchi vuoti»72 che sono nella biografia73 e
nella personalità dei personaggi. In questo caso, ciò che era
sprofondato in uno di questi vuoti temporali riappare alla coscienza
sotto forma di doppio che, privo di ogni possibilità di essere
reintegrato, dovrà essere al più presto eliminato. In questo richiamo
preciso e intenso, il protagonista non può riconoscersi nell’immagine
riflessa «senza inquietudine, né amarsi senza pericolo»74 e infatti
questo atto gli costerà la perdita di una parte della sua stessa vita. È
interessante notare che il protagonista non riconosce direttamente il
volto del doppio ma il suo riflesso sprofondato sul «cupo fondo”:
questa particolare spazialità riporta ancora una volta alla profondità
marina del Commento al titolo e al significato interiore, inconscio, che
è connesso all’evento.
L’ambiguità del tema del doppio (che è l’altro e lo stesso) viene
utilizzata dal Papini in maniera originale rispetto al passato in quanto
se l’identità è resa in modo fantastico a livello profondo («io so che tu
sei me»),75 l’alterità non risulta inquietante ma quasi accettabile come
meccanismo psichico inevitabile (il mondo di ieri non corrisponde a
quello di oggi, ed entrambi non somiglieranno a quello di domani).
Infatti, dopo l’impeto con cui il protagonista si volta avendo scorto
nell’acqua il viso di un altro e dopo un breve, trasognato e incredulo
sguardo, la tensione si scioglie con una stretta di mano:

In altri tempi, forse, ciò mi avrebbe spaventato ed avrei certamente


gridato come chi è preso nel cerchio di qualche invincibile ossessione. Ma io
sapevo ormai che soltanto l’impossibile diviene qualche volta reale e perciò
non fui per nulla atterrito. Porsi la mano all’uomo, che me la strinse.76

Il Papini conosceva bene certa letteratura fantastica e un certo tipo


di filosofia magica, spiritistica, esoterica che ha permeato la cultura

72
R. CESERANI, Le radici storiche di un mondo narrativo, in AA. VV., La
narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi 1983, p. 23.
73
Cfr. G. PAPINI Il mendicante di anime, in ID., Il tragico quotidiano, cit.
74
G. GENETTE, Figure I. Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi 1988,
p. 19.
75
G. PAPINI, Due immagini in …, cit., p. 10.
76
Ibidem.

213
europea tra i due secoli, occupando le pagine del «Leonardo» soprat-
tutto nell’ultima fase (1906-07)77.
Superato ogni spavento, il protagonista decide dunque di amare il
suo doppio78. Si assiste così alla prima scena di dialogo tra i due io in
cui si evidenzia uno dei meccanismi di drammatizzazione tipici della
letteratura contemporanea:

il mezzo più comune per riassumere, nella narrativa contemporanea –


sostiene Seymour Chatman – consiste nel lasciarlo fare ai personaggi, sia
all’interno della loro coscienza sia all’esterno nel dialogo. Ma non si tratta di
“riassunti” nel senso classico del termine, dato che il rapporto non è tra la
durata degli eventi e la loro descrizione ma tra la durata del ricordo relativo
agli eventi e il tempo che è necessario per leggerlo, rapporto che è più o
meno di uguaglianza e quindi scenico79.

Il testo papiniano si configura come un soliloquio di dieci pagine


in cui il tempo del discorso e il tempo della storia coincidono: dal
punto di vista strutturale l’evento narrativo su cui ruota la vicenda non
è il materiale riassunto nei ricordi ma l’apparizione e l’uccisione del
doppio. Ancora con Chatman ricordiamo che la tecnica del soliloquio
è tipica del teatro in cui il personaggio sta solo sul palco parlando,
implicitamente o esplicitamente, a un pubblico chiamato ad ascoltare
le sue parole. Pertanto esso è più simile a una scena che non a un
monologo interiore e ciò aggiunge valore al discorso narrativo che nel
nostro caso prende la forma di un dialogo diretto tra i due io a
confronto. La narrazione di Due immagini in una vasca presenta
quindi una componente teatrale con forti accenti contemporanei, in
cui domina una discorsività di tipo cinematografico per la fluidità di
alternanza e complessità di movimento tra primi piani e sfondo.
Lo stupore e l’esitazione che mancano nelle parole del prota-
gonista sono invece avvertibili nella reazione del doppio80. Il Papini
opera una sorta d’inversione di caratteri che genera contrasto con
quanto previsto nello schema fantastico. Il doppio sapeva che l’uomo
sarebbe tornato poiché nell’acqua di quella vasca il giovane aveva

77
Cfr. G. PAPINI – G. PREZZOLINI, La fine, in «Leonardo», V, 3°, (25
agosto 1907).
78
«Qualunque cosa tu chieda forse non saprò negartela»; ivi, p. 10.
79
S. CHATMAN, Storia e discorso, Parma, Pratiche 1981, p. 78.
80
«L’uomo mi guardò con un certo stupore»; G. PAPINI, Due immagini…,
cit., p. 10

214
lasciato la parte più sottile della sua anima, ciò di cui egli si è nutrito
fino a quel momento. Sette anni prima, nel giorno della sua partenza,
è avvenuta la separazione tra il soggetto (S1) e l’anti-soggetto (S2) e
adesso si profila la loro ricongiunzione (S1∩S2): «ora vorrei ricon-
giungermi con te, starmene stretto con te, vivendo con te, ascoltando
da te il racconto delle tue vite di questi anni. […] Abbimi di nuovo
tuo compagno, finché non partirai ancora una volta da questa città
esiliata dal mondo e dal tempo»81. Con l’immagine dei due mano nella
mano che escono di scena, e il richiamo al simbolo della città che
continuamente ritorna nel testo, la narrazione s’interrompe con una
pausa dovuta a un nuovo, vuoto capoverso, l’ultimo del racconto.

La dinamica dei comportamenti che lega soggetto e anti-soggetto,


destinata a seguire la progressiva evoluzione negativa del sentimento,
ha inizio in questo quarto primo piano: «Cominciò allora per me uno
dei momenti più singolari di questa mia vita, già così diversa da
quella di ogni altro uomo. Io vissi con me stesso – col me stesso
trascorso – alcuni giorni d’impreveduta gioia»82. Questa sequenza,
seguita da un brano all’imperfetto, che vede le due anime passeggiare
insieme fino a giungere in prossimità di uno stagno (altro luogo che
ribadisce la ridondanza dell’elemento acquatico dalle valenze
narcisiste), si conclude con una frase al presente che funziona come
cornice alla fase d’unione, ultimo abbaglio di unità interiore.
Il quinto primo piano apre la fase di discesa del sentimento che
dalla «gioia» iniziale si converte in «inesprimibile tedio»83. Al tempo
imperfetto Papini descrive il carattere del doppio e la natura dei suoi
pensieri, calando il narrato nel pieno di una critica a quella cultura
romantica e fantastica sette-ottocentesca84 da cui il narratore, e con lui
l’autore, intende prendere la distanze; e se all’inizio questo gioco di
ricordi, addolcito dalla lontananza, poteva essere vissuto con
eccitazione ed entusiasmo, nel confronto diretto crolla: nel sesto
primo piano la gioia, diventata «compassione sprezzante» e poi
«repugnanza», si converte definitivamente in «odio»85.
81
Ivi, p. 10-11.
82
Ivi, p. 11.
83
Ivi, p. 11-12.
84
La città, così come il suo io incarnato dal doppio, si è bloccata al tempo
che datava «il secolo decimottavo!». Cfr. G. PAPINI, Due immagini.., cit., p.
11. Questa è la cultura che essi rappresentano.
85
Ivi, p. 12.

215
A questo punto l’autore inserisce una pausa temporale attraverso
l’unica prolessi del testo che, come detto, normalizza l’esperienza
presente:

Dopo il me presente un altro si formerà che giudicherà la mia anima di


oggi come io giudico oggi quella di ieri. Chi avrà pietà di me se io non l’avrò
per me stesso?86

È la riflessione di un uomo diviso interiormente e sprezzante87 nei


confronti della sua stessa vita, che sa di non poter trovare la propria
unità interiore.
Successivamente la narrazione riprende con l’imperfetto, de-
lineando uno scenario di totale incomunicabilità tra due soggetti, in
cui ogni sforzo di comprensione è vano e controproducente. Il doppio
tenta in ogni modo di evitare una nuova separazione esprimendosi con
una certa «passione teatrale»,88 che procede per «declamazioni»89
piene di «certe ingenuità, certe brutalità, certi modi grotteschi»90
veicoli «di idee ridicole, di teorie ormai defunte, di entusiasmi pro-
vinciali»91. Questo è uno dei punti più alti del conflitto: il Papini, da
poco approdato all’arte narrativa, esprime in questa polemica il suo
stesso desiderio di completare il distacco da quel residuo enfatico ed
esasperante di chi cerca l’esagerazione a tutti i costi, ancora presente
nei suoi scritti recenti (Il tragico quotidiano) e recentissimi (Il pilota
cieco). Non a caso nelle prefazioni alle due riedizioni del 1913 e del
1943, il Papini critica proprio questo aspetto del suo stile passato.
Così scrive nel 1913:

ho corretto ad ogni pagina forme e parole per rendere lo stile meno


letterario e più d’accordo coi miei gusti di oggi ma non sempre son riuscito a
togliere una qual patina di lirismo enfatico che m’indispettisce. […] Ma que-

86
Ivi, p. 13.
87
«[…] ricordo che allora disprezzavo il mio me passato, il mio piccolo me di
fanciullo ignorante e non ancora raffinato. Ora io disprezzo colui che di-
sprezzava. E tutti questi sprezzatori hanno avuto lo stesso nome, hanno
abitato lo stesso corpo, sono apparsi agli uomini come un solo vivente».
Ibidem.
88
Ivi, p. 14.
89
Ibidem.
90
Ivi, p. 12.
91
Ibidem.

216
ste avventure, paure e speranze non son proprie soltanto di quel me di tanti
anni fa ma di tutti quei giovani che s’avvezzano a far la notomia di sé
medesimi […].92

E nel 1943 aggiunge:

Siamo dunque in pieno clima romantico, di quel romanticismo un po’


astratto, un po’ tenebroso, un po’ malizioso e un po’ magico che piace ancor
oggi, nonostante tutto ai giovani.
Questi racconti mi sembrano, a momenti, scritti non da me ma da un
altro”.93

Queste osservazioni indicano qualcosa di molto simile a ciò che il


protagonista di Due immagini in una vasca critica del vecchio sé:

La sua testa era piena ancora di quel romanticismo generico, a grandi


masse, fatto di chiome disordinate, di montagne maledette, di foreste oscure
di tempeste e di battaglie con rullìo di tuoni e di tamburi e il suo cuore si
disfaceva in quel pathos germanico […].
Ora il mio me presente disprezza il mio me passato – eppure in quel
tempo io credevo, ancor più di oggi, di esser l’uomo superiore, esser l’alto e
il nobile, il sapiente universale, il genio in attesa.94

Nel 1913 e nel 1943 il distacco dai testi delle raccolte aumenta al
punto che questi acquistano quel valore archeologico di cui abbiamo
detto, confermando che quel meccanismo psichico rivelato nella
prolessi è in realtà dell’autore. Il dramma dell’uomo Papini si
trasferisce direttamente in questi racconti densi di un valore autobio-
grafico che maturerà nel 1913 in Un uomo finito.
La narrazione prosegue in uno scenario di totale incomunicabilità,
a cui il protagonista reagisce con il disperato tentativo, ostacolato con
tenacia dal doppio, di fare ritorno nella città della costa95. Dopo sei
giorni riassunti in poche parole, il protagonista giunge alla
conclusione che l’unica via possibile di separazione è quella del-

92
G. PAPINI, Il tragico quotidiano e Il pilota cieco, seconda edizione
accresciuta e corretta, Firenze, Libreria della Voce 1913, pp. VI-VII. Il
corsivo è mio.
93
G. PAPINI, I racconti di gioventù, Firenze, Vallecchi 1943, p. 6.
94
G. PAPINI, Due immagini…., cit., p. 12.
95
Ivi, p. 14.

217
l’eliminazione del doppio: la descrizione del settimo giorno è in
rilievo in questo ultimo primo piano:

Andammo, anche quel giorno nello sterile giardino […] e ci accostammo,


anche quel giorno alla vasca morta […]. Anche quel giorno ci sedemmo
sopra le rocce finte e allontanammo colla mano le foglie per contemplare le
nostre immagini riflesse. […] io mi volsi rapidamente, afferrai il mio me
passato per le spalle e lo gettai col viso sopra l’acqua, nel punto ove appariva
la sua immagine. Spinsi la sua testa sotto l’acqua e la tenni ferma con tutta
l’energia del mio odio esasperato. […] Dopo qualche minuto sentii che il suo
corpo si accasciava e diveniva floscio. Allora lo lasciai ed egli cadde giù,
verso il fondo dell’acqua. Il mio odioso me passato, il mio ridicolo e stupido
me degli anni passati era morto per sempre.96

Questa azione, carica di un senso di liberazione, riporta


nuovamente a uno dei temi fantastici per eccellenza, quello del-
l’omicidio del doppio che in realtà è «un suicidio reso indolore dal
fatto che è un altro a morire. Pensiamo che premessa di ogni suicidio
sia l’inconscia illusione di separarsi da un io malvagio e riprovevole.
Il suicida non è in grado di annientare, con un atto diretto di
autodistruzione, l’angoscia di morte provocata dalla minaccia al suo
narcisismo. Perciò l’unica possibile forma di liberazione è il suicidio,
che però riesce a realizzare solo sul fantasma del Doppio, tanto
temuto e odiato, perché ama e apprezza troppo il suo io per nuocergli
o per tradurre in realtà l’idea del suo annientamento»97. Non
accettando l’idea della propria morte, il narcisista scinde se stesso in
un doppio che diventa simbolo di uno stato psicologico che indica
l’incapacità di superare una fase fondamentale dello sviluppo (la fase
narcisistica appunto) in cui l’io è ancora vincolato alla madre tramite
una unione indistinta98. Lo sdoppiamento è quindi una strategia
primitiva della mente che tenta di evitare la separazione dal luogo di
origine e rimandare il confronto con la propria morte; la scissione e
l’apparizione del doppio portano inevitabilmente la consapevolezza
del destino mortale che sembra essere quello di un altro ma che si
rivela essere il proprio. Papini stesso ha una personalità narcisistica e
con gli autori fantastici studiati da Otto Rank nel suo saggio,

96
G. PAPINI, Due immagini.., cit., pp. 15-16.
97
O. RANK, Il doppio, SugarCo, Milano, 1972, p. 99.
98
Cfr. A. M. MANGINI, op. cit.

218
condivide la componente eccentrica99 che genera un interesse enorme
per se stesso, per i propri stati d’animo e per la propria sorte. Ciò
implica anche un’assoluta incapacità d’amare che trapela dai testi di
queste raccolte, dove il tema dell’amore è quasi totalmente assente o
meglio fagocitato dal narcisistico atteggiamento trasferito sui
personaggi.
Il racconto si chiude con una strana incertezza, ironica e distaccata:
di qualcosa che realmente è accaduto (nel nostro caso segnata dalla
sensazione di vuoto interiore) senza averne nessuna oggettiva cer-
tezza. Il dubbio, a questo punto inestricabile, è amplificato dal suono
delle «stupide risa» del narratore che riecheggia nell’ampio spazio
della città della costa. Così l’ultimo brano al presente, tempo
commentativo che chiude il racconto, ci mostra il protagonista nel
luogo e nel tempo da cui ha narrato l’intera storia:

Ed ora io vivo ancora nel mondo, nelle grandi città della costa, e mi
sembra che qualcosa mi manchi di cui non ho il ricordo preciso. Quando la
gioia mi assale con le sue stupide risa io penso che sono il solo uomo che ha
ucciso sé stesso e che vive ancora. Ma ciò non basta a farmi star serio.100

Il finale, sebbene in tono diverso dall’incipit, si stacca dal narrato


con un accento umoristico che ha l’effetto di aumentare il distacco
dagli eventi narrati, riportando il lettore nella vita che torna a scorrere
‘normalmente’. L’uso di toni sarcastici e umoristici è l’ultimo segno
di aderenza al fantastico con cui Papini decide di chiudere il racconto,
gettando lo sguardo ancora più in profondità, oltre l’istanza retorica e
linguistica:

L’umoristico rinvia in prima istanza a elementi di gioco letterario, di


distanziamento parodico dalla narrazione; ma in seconda istanza esso rinvia a
qualcosa di più profondo, alle operazioni linguistiche del comico, agli
affioramenti dell’inconscio, alla vita del corpo e alla materialità.101

Niente di più adatto alla narrazione papiniana. Il rumore di una


paradossale risata risuona a lettura ultimata, evidenziando la possibile
eppur assurda condizione interiore dell’essere umano.

99
Ivi, p. 64.
100
G. PAPINI, Due immagini…, p. 16.
101
R. CESERANI, Le radici storiche di un modo narrativo, in AA. VV. La
narrazione fantastica, cit.

219
Ne L’altra metà Papini rivela il senso di questo suo amaro umo-
rismo legato a una profonda mancanza di quella fede che egli cerca
disperatamente e che troverà solo in una fase successiva della sua
vita:

S’io credessi a qualcosa di serio io sarei serio più profondamente di tanti


altri – e di non poter credere mi duole tantissimo – ma s’io non credo a nulla
(a nulla) cosa debbo fare? Per essere rispettabile, almeno ai miei occhi, per
essere sincero bisogna ch’io faccia vedere di non credere, bisogna ch’io non
sia “serio” nel senso solito. La mia serietà consiste appunto nel non essere
serio a quel modo – per essere veramente serio io debbo scherzare.102

E proprio ne Il tragico quotidiano e ne Il pilota cieco il Papini


inizia una sua guidata confessione in cui manifesta tutta «la sua
incapacità di credere, il suo scontatto con la realtà»103.

Concludiamo la nostra analisi con un primo piano sull’uomo


Papini, spirito eroico che intende mettersi alla guida del risveglio
intimo e sociale della sua generazione di giovani intellettuali italiani,
attraverso una “possibile” rappresentazione del suo segreto, sma-
scherato ancora una volta dal suo compagno Prezzolini:

Papini è uomo che ha creduto di avere il centro d’equilibrio dappertutto


salvo dove lo aveva.
Cosa di cui va tenuto conto perché non può esser chiaro agli altri quel che
a lui stesso non è; il dolore che reca è prima dolore per lui; e gli urti che
riceviamo ci son dati per mascherar il suo male e la sua confessione. Perché
non gli si ficchi gli occhi in fondo.
[…] Come gli andrebbe bene quel costume che ha con tanta facilità di
spunto fatto indossare a Nietzsche sul principio di uno dei più gustosi saggi:
“Con quante drappeggiature, con quanti paraventi, con quante tinte graziose
Federico Nietzsche ha cercato di nascondere il suo triste segreto! Con quale
involontaria malizia ha dato per sfondo al suo pensiero un grande scenario di
proporzioni eroiche, con valli profondissime e montagne altissime, con
caverne oscure e animali araldici! E quale diabolico accompagnamento in
tempo accelerato di ruggiti di leoni, di gemiti di venti, di rombi di vulcani e
di risate convulse! – Ma tutto ciò non ha servito a nulla. Malgrado gli ampi

102
Il brano è tratto da G. PAPINI, L’altra metà. Saggio di filosofia
mefistofelica, Ancona, G. Puccini 1911, citato in G. PREZZOLINI, op. cit.,
p. 49.
103
Ivi, p. 48.

220
orizzonti scenografici e i crescendi delle sinfonie il segreto di Nietzsche è
stato scoperto. In una parola – in una piccola parola – sta il segreto di
Nietzsche, nella parola debolezza! – Perché non sorridete? Perché vi
meravigliate? Forse perché Nietzsche ha fatto l’apoteosi della potenza e della
forza? Ma è precisamente per questo ch’io son sicuro ch’egli fu un debole in
tutta la malinconica estensione della parola.”
E perché non sarebbe questo il segreto anche di Papini?
Qualcosa di simile, certo.104

104
Ivi, pp. 14-15.

221
LUIGI WEBER

“Una polveriera di fantasia”


Esotismo, fiaba e fantascienza nel movimento futurista

1. Introduzione

Nel campo degli studi accade talvolta che un’opera abbia la


funzione di spartiacque, di istituire per sempre un prima e un dopo di
sé. Nell’ancora recente storia critica del fantastico, è indiscutibile che
tale ruolo sia toccato a Todorov con la sua Introduction à la litté-
rature fantastique e, sia pure per prenderne le distanze, evidenziarne
limiti o contraddizioni, proporre revisioni o integrazioni, tutti co-
munque prendono le mosse proprio da lui.
Invece, l’idea di fantastico adatta a questa occasione è, più che
anti-todoroviana, serenamente a-todoroviana, incurante di una delle
opinioni più note di quello studio fortunatissimo, vale a dire quella
secondo cui alla fine del XIX secolo scompaiano le condizioni, intese
soprattutto come censure psichiche e sociali, che giustificavano l’esi-
stenza del racconto fantastico. Il motivo è strettamente connesso alla
natura del nostro oggetto: nelle sue linee generali il futurismo si
presenta come un modello culturale, o se si vuole come una struttura
di pensiero, fortemente assertivo e dogmatico, fideistico addirittura.
Anche l’esoterismo e il misticismo futurista, cioè i risvolti più sco-
pertamente irrazionali della poetica del gruppo, a ben vedere sono
vissuti con atteggiamento positivo – nel senso della scienza positiva –
non c’è sgomento di fronte all’ignoto o al soprannaturale, c’è invece il
postulato fiducioso che quanto al momento si relega nella sfera del-
l’invisibile o dell’impossibile verrà presto grammaticalizzato in no-
zioni pacificamente accettate.
Inoltre, posto che sia vero che «la psicoanalisi ha sostituito (e di
conseguenza reso inutile) la letteratura fantastica»1, non è altrettanto
vero che l’imponente repertorio di temi e simbologie diffusosi in
almeno un secolo e mezzo di racconti fantastici, o meravigliosi, o
strani, o comunque li si voglia classificare, sia finito istantaneamente
in disarmo. Al contrario i generi sopravvivono, magari disinnescati

1
T. TODOROV Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil 1970,
trad. it. La letteratura fantastica, Milano, Garzanti 2000, p. 164.

223
delle loro pulsioni più innominabili, a volte come prodotti di
consumo, a volte ibridandosi e aggiornandosi, e i simboli invecchiano
cercando tenacemente di farsi rifunzionalizzare. Così, i romanzi di
area futurista di cui vogliamo occuparci non rientrano affatto nella
griglia tassonomica predisposta dal critico bulgaro, la cui definizione
di fantastico, come si sa, è così rigorosa da rischiare l’angustia. Dal
rigore non si può prescindere, quando è in questione la teoria – tanto è
vero che chi ha ridiscusso gli steccati todoroviani, come Lucio
Lugnani in un intervento ormai quasi altrettanto classico2, talora li ha
perfino rinserrati – eppure l’infinita varietà delle manifestazioni
letterarie non cessa di esistere nel caso di mancata aderenza a una
norma, a un paradigma, a un identikit. Proprio Lugnani in apertura del
suo saggio scrive: «va data per scontata l’evenienza di imbattersi
frequentemente in racconti di frontiera che, dunque, intratterranno col
fantastico rapporti di intersezione anziché di inclusione». Così,
diciamolo subito, questi testi vivono piuttosto all’incrocio di generi
non problematici come il racconto fiabesco, la storia d’avventure o la
fantascienza, già praticati con vasto successo di pubblico dalla fine
dell’Ottocento. Etichette più pertinenti, nel caso se ne senta il
bisogno, ci sono: siamo nell’area che Todorov qualifica come mera-
viglioso, tra il meraviglioso strumentale, l’esotico e lo scientifico3.
Niente fantastico puro. Ma le etichette non spiegano nulla, servono
solo, forse, a metterci sull’avviso. Gli esempi di Todorov provengono
dalle Mille e una notte, e Le Mille e una notte appaiono una scelta
quasi obbligata perché l’esotismo si pone da sempre o come strategia
retorica per eludere le trappole del senso comune, per gettare uno
sguardo critico su ciò che non tollera critica frontale (è il caso delle
Lettere persiane), o come una forma del fantastico, in quanto
l’Altrove è per definizione il luogo del possibile, e addirittura del-
l’impossibile. Per di più, il vero esotismo si incontra nei libri, non
attraverso i viaggi. Foucault osservava che

il XIX secolo ha scoperto uno spazio di immaginazione di cui le età


precedenti probabilmente non avevano sospettato la potenza. Questo nuovo
luogo di fantasmi non è più la notte, il sonno della ragione, il vuoto incerto
spalancato davanti al desiderio: è al contrario la veglia [...]. L’immaginario

2
L. LUGNANI Per una delimitazione del “genere”, in AA.VV. La
narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi 1983, pp. 37-73.
3
T. TODOROV La letteratura fantastica, cit., pp. 58-60.

224
non si costituisce contro il reale per negarlo o per compensarlo; si stende tra i
segni, da libro a libro [...] E’ un fenomeno da biblioteca.4

La suggestione – esotismo più biblioteca – fa al caso nostro. Non


tratteremo di capolavori, eppure il loro studio (e perfino l’utilizzo
abusivo di un termine quale “fantastico”, che vorremmo per una volta
restituire alla genericità del pre-Todorov) permette di evitare che il
profilo dell’intero movimento si appiattisca sulla sola figura di
Marinetti.
Lasceremo allora da parte la più nota anima “naturalista”,
descrittiva, del futurismo5, per adottare un punto di vista in qualche
misura inedito. Mentre la prima avanguardia novecentesca viene di
solito ricondotta all’etimo del dandysmo simbolista, segnale anche
sociologico della definitiva frattura tra autori e pubblico, suprema
espressione di una idea “alta” di scrittura, in realtà i testi a volte di-
mostrano un assai più basso profilo, e contaminazioni con le strategie
e i codici della letteratura di consumo, nel probabile tentativo di
diffondere il ‘verbo’ futurista attraverso sentieri meno impervi, sfrut-
tando il potenziale effetto di immedesimazione nei lettori di
avventure. E’ nota l’inventiva reclamistica, in stile americano, che
Marinetti dispiegò a favore del suo movimento6, mentre assai meno si
è parlato di questo genere di prassi, una sorta di avanguardismo
morbido, da persuasione occulta. Una prassi che segnala l’ingresso
nell’epoca della cultura di massa guardando all’indietro, sbandierando
cioè ideali aristocratico-feudali, poetiche elitarie, disprezzo per il
4
M. FOUCAULT Un “fantastico” da biblioteca, in ID. Scritti letterari,
Milano, Feltrinelli 1971, pp.137-138.
5
«Nell’analisi delle tematiche futuriste soprattutto di questi anni e soprattutto
della produzione artistica e letteraria [...] non c’è nessuna rappresentazione
del futuro nel senso letterale del termine, non c’è nessuna prefigurazione del
mondo venturo [...]. Le uniche eccezioni si trovano, et pour cause, nel campo
dell’architettura e dell’urbanistica (Sant’Elia)». Cfr. A. ASOR ROSA Il
futurismo nel dibattito intellettuale italiano dalle origini al 1920, in AA.VV
Futurismo, cultura e politica, a cura di Renzo De Felice, Torino, Fondazione
Giovanni Agnelli 1988, pp. 61-62.
6
Dopo averla attentamente studiata in D’Annunzio. Cfr. L. DE MARIA Il
ruolo di Marinetti nella costruzione del futurismo, in AA.VV Futurismo,
cultura e politica, cit., pp. 40-41, ma anche le belle pagine di A.
PALAZZESCHI nella sua Prefazione a F. T. MARINETTI Teoria e
invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano, Mondadori 1983,
pp. XV-XXVI [da qui in poi citato come TIF con il numero di pagina].

225
pubblico, ma affidandosi, viceversa, a mezzi quanto mai divulgativi e
accessibili. E non ci stiamo riferendo soltanto alla «stilistica del
megafono»7 di cui si avvarranno di lì a poco anche Papini e Marinetti,
che pure ne è un epifenomeno8. Si tratta di un nodo più complesso
della cultura italiana tra Otto e Novecento, particolarmente visibile
proprio in due protagonisti di quel delicato trapasso epocale, D’An-
nunzio e Morasso9.
Abbiamo scelto due romanzi poco studiati, l’uno di Paolo Buzzi,
l’altro di Bruno Corra, per porci in questa specola inusuale.
Rappresentano bene le due anime contrapposte del fenomeno: da un
lato la naturale filiazione di ogni modernolatria, che si proietta in
quella particolare regione del futuro che è il fantastico oltremondano,
ora tecnificato ora mistico, dall’altro la tentazione dell’evasione
irrazionale per eccellenza tra i due secoli, dunque il soprannaturale, lo
spiritismo, il magico. Due aspetti, non dimentichiamolo, maggioritari
se si guarda al trentennio 1909-1944, ma entrambi poco presenti
proprio nell’opera di Marinetti. Il quale non scrisse mai opere di
intonazione realmente avvenirista, preferendo narrare reali esperienze
di guerra o di viaggi, o tutt’al più evadere nelle sue memorie africane,
tra Mafarka, Gli Indomabili e Il Fascino dell’Egitto, né tantomeno
aveva interessi particolarmente spiccati per l’occultismo, che era
invece la bandiera della cosiddetta “pattuglia azzurra” di Settimelli,
Corra, Ginna, Chiti e altri. Infine, se Buzzi sfoggia il cipiglio serioso,

7
Cfr. P. PIERI La politica dei letterati. Mario Morasso e la crisi del
modernismo europeo, Bologna, Clueb 1993, p. 114.
8
«Come D’Annunzio, anche Morasso ricorre volentieri alla demiurgia dello
choc, anch’egli mostra di avere capito la forza persuasiva che l’articolo
provocatorio ha sul pubblico italiano», ivi, p. 61.
9
«Il discorso sul nesso aristocraticità dei concetti e democratizzazione del
genere letterario sembra, in apparenza, condurre a una forte contraddizione.
Siamo dinnanzi a un atteggiamento antidemocratico sul piano delle scelte
politiche e [...] a un aristocraticismo mirato, sul piano dei valori contrastivi
esibiti. Il magistero dannunziano del superuomo si fonda proprio su questa
apparente contraddizione: criticare la democrazia moderna e i suoi fermenti
sociali attraverso gli strumenti forniti dalla democratizzazione della cultura e
dalla industrializzazione della letteratura. [...] L’esperienza letteraria di
Morasso appartiene all’epoca delle comunicazioni avanzate e di massa che,
appunto per la composizione generico-elementare del pubblico dei lettori,
non può che esprimere forme altrettanto generico-elementari di scrittura e
ricezione». Ivi, p. 64.

226
tetro, del futurismo prometeico, tra il peggior D’Annunzio e il più
oratorio Marinetti, Corra ne incarna invece la vocazione grottesco-
parodica, la propensione eversiva a un riso incendiario che, come si
sa, ha avuto il suo più alto esponente in Palazzeschi.

2. Paolo Buzzi L’ellisse e la spirale (1915)

Non cerchiamo, come certi banditori poco seri, di sopravvalutare


la nostra merce. Nella storia del movimento futurista, tutta scandita da
avvenimenti pubblici quali happenings, risse, mostre, e naturalmente
giocata sulla dimensione altrettanto pubblica, letterariamente
parlando, del manifesto e delle riviste, non v’è dubbio che un ro-
manzo, lettura privata e di per sé più impegnativa di un breve articolo
di giornale o di una poesia, tanto più un «panciuto romanzone»10
tutt’altro che sintetico come questo (ben 345 pagine), pubblicato per
le Edizioni Futuriste di «Poesia» nel 1915, non poté avere grande
influenza. E infatti nelle storie della letteratura novecentesca Paolo
Buzzi rimane, quando rimane, come il poeta di Aeroplani (1909) e di
Versi Liberi (1913), mentre di quest’opera singolarissima si son
sempre occupati in pochi, anche tra i sodali futuristi, al di là dei
complimenti di rito. Nella raccolta postuma buzziana Futurismo:
Scritti, carteggi testimonianze11, che riunisce pagine biografiche,
selezioni dagli epistolari, recensioni o interventi editi e inediti, e
rassegne critiche a lui dedicate, si trovano più menzioni per il
mastodontico primo romanzo, Esilio, che sfiorava le mille pagine e
con il quale il giovane scrittore lombardo vinse il concorso di
«Poesia” nel 1906, entrando così precocemente nelle grazie di
Marinetti, che per L’Ellisse e la Spirale, titolo di «splendore geo-
metrico» e di senso indefinito, reso ancor più oscuro dall’ambiguo
sottotitolo in cui si promette un «Film + Parole in libertà».
Il generale silenzio culmina con quello di Marinetti, il più pesante
di tutti, mentre nella storia critica singolarmente esigua del libro, ben

10
E’ una espressione del Manifesto futurista del romanzo sintetico, cfr. TIF
p. 223.
11
P. BUZZI Futurismo: scritti carteggi testimonianze, a cura di Mario
Morini e Giampaolo Pignatari, 4 voll., Milano, Biblioteca Comunale di
Palazzo Sormani 1983.

227
compendiata in appendice alla ristampa in anastatico del 199012, brilla
luminosa la presenza, per ironia acume e tempestività, di Giovanni
Boine, che lo recensì su «La Riviera Ligure» già nell’agosto del ’15.
Così Boine:

Fino a pagina mi pare 262 per aeroplani che ci rombino e parole in libertà
che ci frullino, è un romanzo d’avventure uso Salgari Il re della montagna
con Fatima e Nadir, i castelli e gli harems, o Il mistero della Jungla coi pirati
della Malesia. [...] Ci son delle figure bizzarre che incuriosiscono [...] c’è la
stranezza, la fantasia, le cavalcate dell’avventura in ricerca di nuovo, ma non
s’esce insomma granché da quel maraviglioso da due soldi, da quel
meccanismo coloniale, che piace ai ragazzi di ginnasio [...] 13.

Giudizio severo eppure non definitivo, visto che a sorpresa si


capovolge nella seconda parte dello scritto. Ma su Boine e sui suoi
preziosi spunti di lettura torneremo. Intanto, sono necessari una
esposizione per sommi capi dell’ipertrofico plot, e un avvertimento:
L’Ellisse e la Spirale si presenta costruito per stazioni, ognuna assai
diversa dalle precedenti, così che nessun predicato viene a rap-
presentare l’opera nel suo complesso. Qualcuno14 lo ha liquidato
come un «ibrido», il «tentativo di applicazione a un testo, consistente
per sei settimi di scrittura dannunziana-tradizionale, di elementi
propriamente futuristi (o che tali sembravano all’autore)», altri hanno
puntato l’obiettivo solo su una o sull’altra parte, mossi forse dal-
l’intento di salvare il salvabile, e così nessuno ha tentato di
interpretare, salvo con l’idea del fallimento artistico, di un progetto
non dominato, la natura composita di questo oggetto. Per spiegare tale
eccezionalità, possiamo invece avanzare un’ipotesi: nel libro Paolo
Buzzi ha percepito e rappresentato, consapevole o no, l’anima an-
siosa, stilisticamente e commercialmente ansiosa, dell’avanguardia, la
sua continua coazione al nuovo. Nello stesso tempo, L’Ellisse e la
Spirale è un grande racconto allegorico che compendia l’evoluzione,
già notevole, del movimento futurista dai suoi esordi nel 1909 fino al

12
P. BUZZI L’Ellisse e la Spirale, con postfazione e antologia critica a cura
di Luciano Caruso, Firenze, S.P.E.S. 1990 [da qui in poi citato come P.
BUZZI 1990].
13
G. BOINE L’Ellisse e la Spirale (1915), in ID. Il peccato Plausi e Botte
Frantumi Altri scritti, Milano, Garzanti, 1983, p. 198.
14
S. M. MARTINI Resultanze di lettura, in P. BUZZI 1990, pp. LVI-LXX.

228
presente 1914. E’ solo un postulato, al momento. Questo scritto
servirà ad argomentarlo.
Ma veniamo al testo, da cui partiremo per delineare la trama e i
temi portanti. Come lettori comuni, comunemente svogliati, saltiamo
l’introduzione-dedica a Marinetti e cominciamo dall’inizio, dalla
prima pagina:

Naxar, nel suo letto di acciaio e di raso, non poteva dormire. Aveva
spente, accese, rispente e riaccese le lampade elettriche multicolori e
multiformi che tempestavano l’aula cubicolare dalle pareti alla volta.
Nelle luci pazze, l’affresco della foresta propagantesi sulle muraglie gli
dava una sensazione di smarrimento anche maggiore del buio. Il verde cupo,
rifratto in una policromia tragica, lo opprimeva come un volume d’acque. Il
silenzio della notte esterna e dell’edifizio ermetico pareva aumentato
dall’immobilità di quella enorme distesa d’alberi dipinti fra i quali non si
scorgeva traccia di sentiero. Da tale insonnia, fenomeno per lui affatto in-
consueto, sembrava nascesse a Naxar un nuovo mondo di sensazioni e di
pensieri.
Qualche incubo grande pesava sul Castello Imperiale. Ora si udivano,
fuori, le voci delle sentinelle incalzarsi nei richiami febbrili. Una campana
riempì la notte di rintocchi accelerati. Naxar balzò a sedere sul letto. La sua
fronte era gelata, i suoi occhi fissavano un baratro, le sue mani, aduncando le
coltri, saltavano via nei tremiti.
Una porta, sullo sfondo forestale, si spalancò.
- Naxar, l’Imperatore muore!
- Mio padre muore!15

Siamo in un interno da melodramma, una sala riccamente


affrescata con solo un letto al centro e intorno una illuminazione da
teatro dell’opera, o magari sul set di un precocissimo film del genere
“peplum” (più che il clima di Vita Futurista, del 1916, si avverte la
prossimità con Cabiria, che è del 1914). E’ solo una impressione, ma
le impressioni offerte dalla prima pagina sono spesso cruciali.
Subito evidente la compresenza di antico e moderno, le lampade
elettriche con le pareti affrescate, e all’interno di questa una seconda
dicotomia, stavolta fra due modi d’antichità, una romana (mediata
soprattutto dal lessico smaltato di latinismi: «l’aula cubicolare») e una
cristiano-medievale (le sentinelle, le campane), che trova la sua sintesi

15
P. BUZZI L’Ellisse e la Spirale. Film + Parole in libertà, Milano,
Edizioni Futuriste di «Poesia» 1915, pp. 3-4 [da qui in poi citato direttamente
nel testo con il numero di pagina tra parentesi tonde].

229
nell’ibrido «Castello Imperiale». In scena abbiamo un personaggio dal
nome esotico, Naxar, e già dalla prima battuta di dialogo
(«l’Imperatore muore!» – «Mio padre muore!») il testo s’incarica di
informarci che si tratta del principe ereditario. Fortissima è la con-
notazione estetizzante, con quasi tutti i sensi coinvolti: il tatto,
vellicato dal contrasto tra acciaio e raso, la vista, doppiamente
sollecitata dal lampeggiare delle luci e dallo spettacolo del bosco
dipinto, fino all’udito, che scandaglia silenzi, voci e scampanii pro-
venienti dall’esterno. E il bosco fittizio, che in un autore di giovanili
Rapsodie leopardiane (era il lontano 1898) non può non far pensare ai
versi delle Ricordanze, agli armenti dipinti sul soffitto, ci racconta
anche un’altra cosa: il fatto che tra gli alberi «non si scorgeva traccia
di sentiero» insinua nel lettore un sottile senso di oppressione
attraverso la soggettiva del personaggio, abitante di questa reggia in
cui evidentemente, un po’ come Leopardi a Recanati, si sente pri-
gioniero.
La tonalità, nel complesso, è così alta, così sostenuta, da lambire
continuamente il falsetto, rischio cui non si sottraeva affatto neanche
il D’Annunzio romanziere, modello di tutti all’epoca. Nondimeno è la
norma, anzi l’unica costante in tutto il libro. Le mani che «aduncano
le coltri» non sono un accidente quanto il sintomo che del suo for-
mulario classico il futurista Paolo Buzzi non ha proprio, né ora né
mai, intenzione di sbarazzarsi. Eppure l’enfasi togata diverrà comune
solo nel secondo futurismo, mentre nel 1914 rischiava di passare per
esecrabile vezzo passatista.
Abbiamo dunque un principe inquieto e un non meglio
specificato impero. Vicino al letto di morte dell’anziano regnante e
proprio attraverso le sue ultime parole, sullo sfondo della famiglia
riunita che comprende l’Imperatrice, i due figli minori Fanio e Aliso,
due gentiluomini e - nientemeno - il Pontefice (inteso naturalmente
come figura classica, come Pontifex romano, e perciò stridente con i
due gentiluomini che sanno invece di cortigiani cinquecenteschi, con
un effetto bizzarro e kitsch di film in costume sovrapponente epoche
diverse), comincia a prender forma il ritratto di Naxar: solitario, non
più giovane, recalcitrante al matrimonio: «solo, triste, buio di fronte e
di pupille» (p.7). Maledetto dal padre sul letto di morte per la ri-
luttanza a prender moglie, questo principe, che entra in scena evo-
cando il triste Amleto e il misogino Ippolito, compie allora una scelta
singolare: accetta il trono, ma solo per un giorno. Governerà il paese

230
per ventiquattro ore, poi se ne andrà in esilio volontario, lasciando la
corona al fratello Fanio.
E mentre l’imperatore muore, la folla invade le stanze,
offrendo a Buzzi, autore nient’affatto implicito, la possibilità di
sciorinare subito un disprezzo di repertorio tutto dannunziano per il
popolo, per quell’ «acciottolato di volti umani» (pp. 9-10) che so-
praggiunge a «stuprare il mistero della Reggia», per i «piedi plebei»
calzati di «zoccoli e ciabatte», disprezzo peraltro subito manifestato
anche dal neo regnante Naxar, il cui primo ordine è quello di cacciare
fuori «la canaglia», a costo di morti e feriti. La totale insensibilità, ta-
lora il compiacimento, al cospetto della morte degli umili, rap-
presentati sempre come una mandria di bestie che si calpestano tanto
nell’entusiasmo quanto nel terrore, appare un sintomo tipico del cli-
ma superomista tra i due secoli, ed è probabile conseguenza, a un
livello meno consapevole, del diffuso malessere che le sempre più
frequenti esperienze di massa ingeneravano negli abitanti delle grandi
metropoli.
Ma in che tipo di città ci troviamo? Per capirlo giriamo
pagina. Il secondo capitolo si apre con una immagine non più di
interni, al contrario con una panoramica da un punto di vista
elevatissimo: Naxar assiste ai funerali del padre dall’alto di una torre
della reggia, e a questo punto cominciano a emergere le dirette ascen-
denze del romanzo, che sono da un lato Flaubert, il Flaubert ar-
cheologico e crudele di Salammbô, dall’altra, assai più recente e
necessario anello evolutivo della catena che lega i tre testi, il Marinetti
di Mafarka il futurista16. Spesso infatti Mafarka osserva la sua città

16
F.T. MARINETTI Mafarka le Futuriste, Paris, Sansot 1910, trad. it. (di D.
Cinti) ID. Mafarka il futurista, Milano, Edizioni Futuriste di «Poesia», 1910.
A proposito del legame con il romanzo di Flaubert, è utile leggere cosa
Marinetti scriveva nel maggio del 1910, dunque pochi mesi dopo aver
licenziato il suo libro, in L’uomo moltiplicato e il regno della macchina: «La
fusione apparentemente indiscutibile delle due concezioni di Donna e Bel-
lezza ha ridotto tutto il romanticismo a una specie di assalto eroico che un
maschio bellicoso e lirico dà a una torre irta di nemici, stretti intorno alla
divina Bellezza-Donna. Romanzi quali I Lavoratori del Mare di Victor Hugo
o Salammbô di Flaubert possono spiegare la mia idea. Si tratta di un leit-
motiv dominante tedioso e sciupato del quale noi vogliamo sbarazzare la
letteratura e l’arte in generale». Cfr. TIF, pp. 297-298. Infatti sia Marinetti sia
Buzzi eliminano dal modello il tema amoroso, l’uno facendo sì che il suo
eroe concepisca senza la donna, l’altro sostituendovi la guerra dei sessi.

231
dal tetto di una torre, una torre piatta come i grattacieli yemeniti di
fango cotto al sole, e gli scorci che Buzzi ci offre, con questi edifici
monumentali ma non moderni, le strette viuzze da casbah ingombre di
folla, le mura a picco sul mare, la Necropoli e il Mausoleo, dichiarano
che il modello, tanto suo quanto di Marinetti, era proprio la impres-
sionante Cartagine flaubertiana, scenario forse del primo kolossal in
costume dopo le tele giganti di Delacroix e prima di Hollywood.
Ecco un altro elemento importante. La patria ideale del futurismo,
come ben ha notato Niccolò Zapponi17, non è (o non è soltanto) la
moderna città industriale, ma anche quel mondo geometrico e inu-
mano, fatto di fiumi rettificati, di porti quadrati, di edifici in forma di
solidi, come in un delirio costruttivista, che Marinetti immagina nel
Manifesto futurista dell’architettura aerea (1934), influenzato però
dai suoi ricordi di bambino: è l’Egitto delle basse case cubiche, delle
piramidi, del porto di Alessandria, del deserto. Una sorta, scrive
Zapponi, di «correlativo primordiale del futuro, di seconda patria
degli spiriti forti»18, non solo subìto in oleografie di seconda mano, in
fondali da Aida, ma vissuto direttamente. Dal canto suo, Buzzi è
evidentemente debitore di un gusto coloniale ormai vecchio di oltre
un secolo, passato per Flaubert e Nerval, i bagni turchi di Ingres e
innumerevoli giornali illustrati, rinvigorito proprio dal padre del
futurismo, che per primo aveva incrociato il barbarico con il mo-
dernista. Connubio consumato specie nell’ossessione del volo (il fi-
glio non umano della volontà di Mafarka, Gazurmah, è un grande dio
meccanico volante, e il 1909 è anche l’anno dell’impresa di Blériot).
La differenza di carattere tra il pragmatico Marinetti e il sognatore
Buzzi si misura già nella scelta strategica dei temi nel novero offerto
dal macchinismo: dopo l’iniziale esaltazione, ancora impregnata di
simbolismo, dell’aeroplano nei primi manifesti, l’attenzione di Ma-
rinetti retrocede sui più attuali e praticabili treno e automobile, mezzi
di spostamento veloce già prodotti in serie, con una opzione in favore
dell’imponente stazza metallica della locomotiva, sorta di officina in
movimento dalle articolazioni bene in vista, contro l’evidente so-
fisticatezza dell’aereo, le cui delicate ali di legno e tela richiamano in
D’Annunzio il paragone con la liuteria. Marinetti si stacca dai suoi
maestri francesi perché degli oggetti ora pregia non il potenziale

17
N. ZAPPONI Futurismo e fascismo, in AA.VV Futurismo, cultura e
politica, cit. pp. 161-176.
18
Ivi, p. 171.

232
contenuto ideale bensì la diffusione e l’utilizzo, e per il momento
l’aereo è ancora un giocattolo lussuoso per pochi, tanto è vero che lo
recupererà molto più tardi, tra le due guerre, quando la sua efficacia
come strumento bellico sarà indiscussa. Buzzi invece è strenuo can-
tore dell’aereo come macchina sublimante, elevatore spirituale, porta
aperta verso l’affrancamento dalle condizioni terrene. In virtù di quan-
to s’è detto risulta chiaro come in questa genealogia un posto a parte
spetti a D’Annunzio, a sua volta autore, nel 1910, di un romanzo dalle
non rare divagazioni africane, Forse che sì forse che no, il cui eroe è
per l’appunto l’aristocratico aviatore Paolo Tarsis19. Resta il fatto che
questa Africa magica, il più antico dei continenti, sembra imporre per
contrasto le fantasie icarie più sfrenate, anche perché spazio vuoto
destinato alla conquista coloniale, dunque ispiratore di futuro.
In realtà l’Africa non si nomina mai ne L’Ellisse e la Spirale, né vi
ha posto alcun toponimo, siamo in un mondo di nomi comuni, e
parimenti in un tempo parallelo, né passato né presente né futuro.
L’assenza di cronotopi reali è una norma della fiaba, ma qui assume
una forma particolare: il sincretismo culturale tra antica Roma,
Cartagine, Medio Evo e modernità produce effetti continui di stra-
niamento quando spade, lance e corazze si affiancano a cannoni e
moschetti, le luci elettriche alle fiaccole, i monaci tonsurati, con cotte
e piviali, ai borghesi in panciotto, le donne velate come in un fregio
antico alle beghine, perfino i francobolli alle monete che recano
l’effige del re, come sesterzi augustei. Non si fa nemmeno mai
allusione all’Italia, sebbene si parli di dominazione coloniale, spe-
culando sull’ambiguità del termine «colonia», che potrebbe valere
tanto per l’antica Roma quanto per la recentissima impresa di Libia
(1911).
Riprendiamo il filo della trama. Abbiamo lasciato Naxar a
dominare sui sudditi in lutto e in festa per l’avvicendarsi del regnante.

19
Roberto Tessari fa notare che, nel repertorio mitico della macchina,
D’Annunzio sceglie proprio «quella aeronautica [...] perché l’automobile da
corsa è, per il Vate, velocità ‘prona’ all’infido elemento terrestre», cfr. R.
TESSARI Macchine e rari merletti. Alcune fonti del futurismo nell’ideologia
e nella letteratura, in AA.VV. Futurismo, cultura e politica, cit. p. 95.
Illuminanti, in margine a Forse che sì forse che no, sono le ricerche di Niva
LORENZINI in G. D’ANNUNZIO Prose di romanzi, vol. II, a cura di A.
Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori 1989, per comprendere
quanto fosse generalmente di seconda mano l’idea dell’Africa al tempo, tra
l’Egypt del Baedeker e i resoconti di viaggi di Formentin.

233
Qui, al rombo dei cannoni che sparano per salutare in forma marziale
entrambi gli eventi, compare un protagonista del libro, che non è però
un personaggio, bensì uno stimolo sensoriale: il sonoro. Proprio quel
che mancava ai film dell’epoca, surrogato da una performance in sala
durante la proiezione, e parimenti manca a ogni testo letterario,
diventa l’asintoto quasi ossessivo verso cui tendono tutti gli sforzi
dello scrittore. Non si tratta solo di ricerca di musica, o di musicalità,
il che ci riporterebbe in pieno milieu simbolista, sebbene come ve-
dremo Naxar sia un compositore, ma proprio di sonoro, in tutte le sue
articolazioni. Presentificato attraverso un uso insistito della sinestesia
e, più spesso, pedissequamente in forma di catalogo, puro accumulo
di notazioni descrittive20. Non è casuale che siano proprio salve di
cannoni e grida di folla, cioè rumori, a condurre il lettore in una prima
scorribanda nei territori del titanismo artistico, nella mitologia del
genio, e nello stesso tempo a dar barlumi sulla strana decisione del
principe di rifiutare il trono:

Sì. Egli possedeva il genio, l’impero degli imperi. Ciò gli bastava e lo
rendeva orgogliosamente beato.
(p. 12)
Un giorno di schiavitù coronata, d’altronde, e la divina libertà dell’esilio.
(p. 18)

Dunque, Naxar sceglie l’esilio mosso dalla voluttà-velleità di


creare, di dedicare l’intera esistenza alla musica. Ma questa, oltre che
una opzione, è anche una necessità. Perché, insegna Propp, in una
fiaba le funzioni sono necessarie, e una delle più urgenti, per in-
nescare la trama, è quella dell’allontanamento dell’eroe. Tanto più
che in quest’epoca sulla funzione suddetta vengono a convergere
differenti valori e relativi orizzonti di attese ormai codificati: in altre
parole, l’allontanamento può preludere a una forma di Bildung, a quel

20
Basti un esempio: «Nel Castello solo i richiami delle scolte notturne
rompevano il silenzio. Ma Fanio non udiva che suoni d’organo, echi di cori,
clangori di trombe, rombi di campane e di cannoni. Odiando la musica
quanto l’adorava il fratello, nutriva, ora, per lei l’avversione ossessa che
contraddistingue i deliri a fondo paranoico» (p. 67). Dove si nota, a parte la
terminologia pseudo-scientifica che infesta un po’ tutto il romanzo, e per il
suo carattere positivista stride con l’ambientazione fiabesca – ma pro-
babilmente è studiata ad arte per impressionare il lettore – che già suono e
rumore sono silenziosamente sussunti sotto l’unitaria etichetta di ‘musica’.

234
rito di iniziazione che assume forma visibile nel viaggio, oppure può
essere discesa nel mondo a fini predicatorii, il cui archetipo è
Zarathustra che abbandona la sua montagna e scende nel mondo, o
ancora può essere mera peripezia, dilatazione della trama che prelude
a un finale ricongiungimento con tutti i valori positivi incarnati dal-
l’Eden iniziale. Qualunque soluzione aspetti Naxar, egli non sarà solo:
al suo fianco compare fin d’ora il servo Oten, mostruoso factotum, un
incrocio tra Puck (servizievole e dispettoso) e Calibano (pura
istintualità ferina), descritto con una climax di grottesco che attraversa
l’intero romanzo, e punta sulla continua contaminazione di umano e
bestiale. Oten sembra una creatura del Dottor Moreau, un uomo
ibridato con un rettile o con un pesce, dalle articolazioni imprevedibili
e dalla pelle viscida e squamosa. Ma la coppia saggio-mostro (o
padrone-servo, se si vuole) non è affatto una rarità, anzi è la norma
dello sguardo esotista: si prenda il quasi perfettamente coevo Victory
(1914) di uno scrittore nient’affatto estraneo alle problematiche
dell’esotismo come Joseph Conrad, dove l’Antagonista di turno, lo
spietato e misterioso Mr. Jones, tutto algide buone maniere oc-
cidentali, è accompagnato dal bruto Pedro, di cui Conrad non perde
occasione per sottolineare forza, fattezze e gesti scimmieschi21. Su
Oten, Buzzi scrive: «Di scheletro lungo e sottile, quasi cartilagineo,
egli si sarebbe detto nato dagli amori d’una giraffa con un cavalluccio
marino», una formula degna di Lautréamont, che si proietta ben
lontana da paragoni anche iperbolici, e brucia completamente, nella
sua figuralità, ogni residuo della immagine umana, sfondando nel
fantastico teratologico. Eppure l’evidente anormalità di Oten non
suscita turbamenti, il mondo della reggia in cui s’aggira questo
«musicale coboldo» (Boine) lo considera senza orrore né ribrezzo, e
così il narratore, che al momento ne accentua i tratti deformi più per
gusto di retorica amplificatio che per reali necessità narrative. Non si
pone il problema, insomma, se sia o meno un essere umano. La sua
alterità, accettata senza essere dissimulata, anzi malgrado continue
sottolineature, appare come il segno che nel racconto l’immaginario
non è fonte di scandalo epistemologico, non fa problema. Dunque
siamo in pieno regime di meraviglioso. Buzzi opera una sistematica

21
Sulla coppia saggio-mostro, e sullo sguardo esotista più in generale, ha
pagine molto interessanti A. FAETI Le figure del sogno degli eroi, in
AA.VV. Il romanzo (a cura di Franco Moretti) vol. II, Le forme, Torino,
Einaudi, 2002.

235
elusione delle potenzialità del fantastico: non c’è spazio qui per
l’esitazione, per l’assurdo, per l’oscillazione e perfino la crisi dei
paradigmi di sapere che caratterizzano l’esperienza fantastica, perché
solo quando la metafora ammutolisce, diventa letterale, si apre uno
spiraglio alla compresenza tra mondi, logiche, esperienze incom-
patibili. Fin quando il simbolo non si opacizza concretandosi in una
presenza aberrante, anzi si struttura, come qui, in una complessa tra-
matura tanto da farsi allegoria – già lo notava Todorov – il lettore ne
coglie la trasparenza, non sperimenta alcun disorientamento. Di Oten
si dice anche:

Era buono [...] e quasi incorporeo, dalle evanescenze prodigiose di passo,


quasi un puro spirito materiato di poca materia diafana, una voce dalla
sonorità divina, un canoro d’istinto e di regola [...] Egli cantava i versi e le
musiche del suo signore. [...] Era il naturale intermedio fra il raffinato artista
della Reggia e le moltitudini inconsciamente artistiche della strada. (p. 23,
corsivo nostro)

Per la prima volta il testo si produce in una affermazione


precisamente riferibile alla elaborazione futurista, quasi a un suo
presupposto, cioè alla formula marinettiana del «proletariato dei
geniali»22. Idea che, incoraggiando il velleitarismo di tanti piccoli bor-
ghesi insoddisfatti, così tanto contribuì al successo e alla diffusione
del movimento. Un altro indice della originaria poetica del movi-
mento si incontra quando l’autore, nel descrivere l’emozione della
folla dinanzi all’abdicazione di Naxar, scrive: «eravi lussuria
d’ascoltare una Potenza che si sarebbe dissolta non appena affermata»
(p. 33). E la mente corre alla pagina finale del primissimo Manifesto
22
Su posizioni analoghe si troverà, proprio a partire dal 1914, Ardengo
Soffici nello stendere disorganicamente tra Poggio a Caiano, Napoli, Pistoia e
la zona di guerra (la parte più cospicua risale all’agosto 1917) i Primi principi
di un’estetica futurista, editi poi a Firenze presso Vallecchi solo nel 1920:
«Tutta la vita degli uomini – scrive Soffici – cominciai a vederla sotto un
aspetto nuovo di manifestazione artistica [...] non più come uno svolgersi di
azioni disordinate, arbitrarie, incomposte, ma invece come una rap-
presentazione, – molto simile a quella del teatro – dove ognuno fa la sua parte
secondo un principio d’arte – un’estetica. [...] Cosicché, giunto a questo pun-
to, avrei potuto concludere che avendo ogni popolo civilizzato assorbito a
poco a poco e posto in atto i principi delle arti, sarebbe stato possibile
stabilire che gli uomini sono destinati a diventare, col tempo, tutti artisti».
Cfr. A. SOFFICI Opere, Firenze, Vallecchi 1959, vol. I, p. 722.

236
del Futurismo, all’idea di una gloria artistica che predice e auspica il
proprio tramonto nell’atto stesso di fondarsi:

I più anziani fra noi hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un


decennio per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri
uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino come
manoscritti inutili. – Noi lo desideriamo!
Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni
parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita
adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il
buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe
delle biblioteche.
Ma noi non saremo là... essi ci troveranno alfine – una notte d’inverno –
in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia
monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e
nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri
libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini23.

Il terzo personaggio principale a presentarsi è Deliria, nome


parlante quant’altri mai, una «bambola magnificamente capricciosa,
d’una bizzarria di umori e gesti che, talvolta, pareva confinare con
una deliziosa follia» (p. 21). Insomma, una tipica (e topica) femme
fatale tardo ottocentesca, tutta eccessi e accensioni, una lolita isterica.
Deliria, al momento solo una classica trovatella, «abitava in una città
di fronde, pensile, nel più remoto del parco imperiale. Era l’amadriade
sospesa di quel bosco vastissimo, dalle verzure eterne, profumate di
ragia e d’alloro» (p. 19). Una sorta di piccola Semiramide, segregata
ma regale in una altrettanto piccola Babilonia-harem descritta con
lussureggiante terminologia dannunziana. Eppure, anche qui il
modernismo si affaccia come un’inquietudine:

Sotto una cupola di foglie, i cui rami, d’un ordine architettonico naturale,
facevano chiosco, i due personaggi videro, abbandonata dentro un’amaca di
liane, la più deliziosa inverosimiglianza femminile dell’universo. [...] La
creatura pareva vestita, più che d’altro, dello stesso concentrato tetro della
foresta estesa sotto la pioggia [...] E le luminose fisse delle lampade, sparse
pei rami o celate tra le foglie, prospettavano la sua figura incantevole quasi
sullo schermo magico d’un riflettore. (pp. 52-53)

23
F.T. MARINETTI Fondazione e Manifesto del Futurismo (1909) ora in
TIF, p. 13.

237
Non estranea al ricordo di Ermione nella Pioggia nel pineto,
questa creatura che vive nella sua foresta privata fa però
l’impressione, proprio per quel malriuscito effetto di illuminazione
elettrica, di una bestia in gabbia allo zoo, di una ninfa per finta, così
come l’amaca di liane e la cupola di foglie in forma di chiosco, di cui
invano si predica la naturalità, distruggono l’illusione panica. E’ un
set, questo, non un’epifania.
Nel suo unico giorno di regno, Naxar celebra il matrimonio del
fratello Fanio con la mite Delizia, intrattiene relazioni diplomatiche
con suoi pari grado, invitando a cena il reggente di un vicino Impero e
il presidente di una Repubblica, infine libera la sua amadriade e la
affida al borghese repubblicano, il quale promette un futuro di ascese
sociali e grandi emancipazioni per le donne nella sua terra. In questo
gruppo di capitoli emerge per la prima volta il motivo politico,
l’aspetto forse più interessante e certo più trascurato di tutta l’opera.
Perché L’Ellisse e la Spirale, per quanto scritto fra il 1912 e il 1914,
sembra un libro a tesi, composto in margine e a illustrazione di quella
famosissima battuta, quasi uno slogan, con cui Walter Benjamin
concluderà, oltre vent’anni dopo, il suo saggio sulla riproducibilità
tecnica dell’opera d’arte: il fascismo ha inventato l’estetizzazione del-
la politica24. Raramente un solo romanzo lo si racchiude con tanta
chiarezza in un concetto, ma questo è il caso: L’Ellisse e la Spirale è
davvero il romanzo dell’estetizzazione della politica.
Vediamo perché. Nelle prime scene, Naxar si mostra solo
intollerante degli obblighi di governo, del suo ruolo istituzionale,
della politica tout court. Ogni volta però che la famiglia si riunisce,
emerge l’ostilità del gruppo compatto contro di lui e contro la sua
musica, ostilità già sensibile al momento della morte del vecchio
imperatore, e passo passo nel lettore balugina la comprensione che, in
questo nucleo familiare che domina nientemeno che su un impero, si
sta verificando una conflittualità interna tipicamente piccolo borghese,
vale a dire si mette in scena la riprovazione collettiva dei genitori (il
Pontefice funziona come una silenziosa figura paterna vicaria, sempre
ritto a fianco della Madre) per il primogenito che indulge a un
qualsivoglia ideale artistico, spregiando una sana e redditizia
occupazione.

24
W. BENJAMIN Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen
Reproduzierbarkeit (1936), Frankfurt 1955, trad. it. L’opera d’arte nel-
l’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi 1966, p. 48.

238
Nessuno di quei Grandi della nascita voleva riconoscere a Naxar il diritto
di fare della grandezza ideale. Era un pazzo che giocava colle sue dita pazze
sulla tastiera. (p. 63)

E’ chiaro che, trapiantata in una scenografia simile, a un simile


livello di grandeur di cartapesta, la cosa scade nel caricaturale, ma per
un altro verso è significativa di quanto le fantasie megalomani di una
intera generazione potessero, mascherandosi il minimo indispensabile,
riproporre i problemi di un frustrante quotidiano.
E che Naxar evochi i grandi manipolatori di consenso e facitori di
politica-spettacolo che verranno tragicamente nel corso del XX
secolo, lo illustrano già alcune battute dell’incontro tra governanti. In
particolare una, quando Naxar esorta il Presidente della Repubblica di
Artalea a riprendere la giovanile e da tempo dismessa veste di poeta.
Il Presidente si domanda «a che pro», e Naxar ribatte prontamente: «A
sbigottire il vostro paese, unico fine che dovrebbero avere i capi di
Stato» (p. 50). Per parte sua, questo presidente appare animato da un
rispetto e da una ammirazione assai poco repubblicane verso il suo
ospite, tanto da augurarsi, con una espressione abbastanza tipica
dell’antiparlamentarismo futurista (e non solo): «Che il vostro spirito
sovrano rechi tutti gli influssi della buona sorte al mio paese marcio di
democrazia» (ibidem, corsivo nostro). Ormai da molti anni, d’altron-
de, l’ascesa elettorale dei socialisti e l’allarme a ciò connesso nella
piccola e media borghesia avevano conferito, attraverso la mediazione
di intellettuali come D’Annunzio, Corradini e lo stesso Morasso, al
termine ‘democrazia’ una connotazione prevalentemente dispre-
giativa, entro la quale leggere compendiati insieme l’odiato Giolitti, la
cultura pacifista e umanitaria, la sclerosi burocratica dell’istituzione
parlamentare, e ovviamente il timore dell’orda proletaria. Così, dopo
aver spruzzato gli scenari di romanità imperiale, avervi aggiunto
l’allusione coloniale, Buzzi trova una terza via per parlare dell’oggi,
suo e dei lettori, senza infrangere la cornice intemporale della favola
in costume.
Frattanto, in margine alla cena, che si svolge su una delle terrazze
della reggia, fanno la loro prima comparsa, nuova e più ardita
contaminazione modernista, le macchine volanti. Ma sono, ancora, fi-
gurazioni del tutto fantastiche, senza peso, come avrebbe potuto
immaginarle uno scrittore ignaro dei fratelli Wright: «come aquile,
frementi, degli aeroplani volavano sulle loro teste» (p. 42), «Le

239
macchine s’erano adagiate, esili come libellule, sui rami, dove
aspettavano, ferme, l’ordine della partenza» (p. 55).
Il giorno seguente, finalmente libero, Naxar si allontana dal suo
regno rifiutato. E la voce autoriale, petulante come quella di un
biografo di corte, avverte che egli non ha banalmente ceduto il potere
per coltivare senza intralci la sua vocazione artistica, anzi «pareva che
un nuovo Impero cosmico cercasse, con tutte le sue maggiori pompe,
il nuovo Imperatore» (p. 99); il profilo dell’ambizione del prota-
gonista è alfine compiuto, e coincide con quello dell’Übermensch,
con un oltre-uomo che non può accontentarsi di nessuna grandezza
umana, persino di quella smisurata di un soglio imperiale, o se non
altro con l’Egoarca morassiano, la più recente versione offertane
dall’intellettualità italiana. Ed è talmente vero che «il darwinismo
ideologico-letterario di Morasso diventa uno stereotipo culturale»25,
frutto del connubio mostruoso fra Marx e il Nietzsche della Volontà di
potenza accoppiati in una medesima ottica di struggle for life politica,
che qui possiamo misurarne appieno il successo: come ogni ste-
reotipo, viene replicato e riutilizzato in maniere sempre più su-
perficiali.
La sequenza si chiude con il ritrovamento di una barca e con la
decisione di continuare il viaggio al di là del mare, scelta che evoca la
figura dell’Argonauta, assai cara anche al giovane Savinio26, lui sì
scrupolosissimo lettore di Nietzsche. Ma, salito sulla barca, Naxar per
poco rischia di essere ucciso da una misteriosa mano armata, e solo
dopo una breve concitata lotta lui e il suo servo Oten si riconoscono.
Qui occorre far pausa. Perché anche il re arabo Mafarka se ne va in
esilio su una barca, e anche Mafarka, quasi in maniera identica, viene
aggredito. Questa, che è l’ultima e più evidente di numerose coin-
cidenze tra i due libri, induce una domanda: è certo possibile che
Buzzi si sia spinto così prossimo al plagio per mera deficienza di
fantasia, ma è possibile che un plagio tanto conclamato non venisse
avvertito da nessuno del gruppo? In realtà, questa prima parte de
L’Ellisse e la Spirale segue così fedelmente Mafarka il futurista, per il
fascino della barbarie, per lo stile turgido e magniloquente, per la

25
P. PIERI La politica dei letterati... cit., p. 42.
26
Cfr. A. SAVINIO Hermaphrodito, Firenze, Libreria della Voce 1918, dove
il mito dell’Ebreo Errante si coniuga con la figura del Wanderer romantico, e
naturalmente con il suo distillato ultimo, il Viandante nietzschiano, di cui
l’Argonauta è una sorta di doppio marittimo.

240
contaminazione antico-moderno, per la presenza solo embrionale di
spunti attribuibili al futurismo (ovvia nel 1909, inspiegabile nel 1914),
e per di più alle sue iniziali formulazioni, infine per l’assoluta man-
canza di qualsiasi sperimentalismo, oltre che replicandone intere
scene, da sembrare un falso. Una imitazione in stile, non una parodia.
L’impressione si rafforza voltando pagina perché, con il capitolo I
motori della polizia, il lettore si trova catapultato in un mondo
totalmente differente. E scopre di aver superato la prima (nonché la
più evidente) delle numerose soglie che staccano le varie parti del
romanzo l’una dall’altra. Ora, non staremo a ripetere le considerazioni
di Lucio Lugnani in merito all’ «effetto-soglia» e al dispositivo del-
l’oggetto mediatore che caratterizzerebbero la modalità del fan-
tastico27, piuttosto dobbiamo riconoscere che lo scrittore lombardo qui
inventa una soglia sui generis, una soglia alla rovescia, e sarebbe
incauto ridurla al mero valore di indicatore spaziale. Infatti Naxar e
Oten si trovano all’improvviso catapultati, dal loro reame africano-
medievale, in una città moderna e cupa, segnata dai tipici emblemi
della miseria, del degrado e della delinquenza post-zoliani. E’ una
città di vie fangose, come lo era per definizione la Parigi del-
l’Ottocento, ma anche nebbiosa e lugubre come Londra, percorsa da
automobili e carrozze a cavalli, da strilloni che agitano l’emergenza di
attentati anarchici, da pattuglie della polizia. Taverne, bagni pubblici,
dormitori per poveri fungono da fondali.
Proprio nel dormitorio, durante una perquisizione, avviene una
scena brevissima ma altamente significativa: i poliziotti svegliano uno
a uno i miserabili ospiti di una camerata in cerca dei due stranieri e
all’improvviso, quando Oten sbuca da sotto le coperte, alla vista della
«testa microscopica e pendula sulle spalle», della «pelle squammea,
d’una lucidità ittiologica e d’un viscidore rettileo insieme», ecco che
«- Io dico che sono spettri - mormorò un agente facendosi, di soppiatto,
il segno della croce» (pp. 108-109). Per una volta Buzzi ha il dono
della sintesi, gli basta una reazione emotiva a raccontare tutto. Il
poliziotto, con il suo gesto di scongiuro apotropaico trascende se
stesso, diventa un simbolo culturale, e il mondo attorno a lui torna a
farsi cristiano, cioè europeo. Dopo le auto e i quotidiani, è questo
l’elemento che ancora mancava a dar compiutezza alla soglia. Ma
non è tutto. Diretta ispiratrice dell’atto superstizioso, ecco la paura,

27
L. LUGNANI Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in
AA.VV. La narrazione fantastica, cit. pp. 177-288.

241
paura di fronte a Oten. Quest’unica volta, nell’arco dell’intero libro,
l’impredicabile corporeità del servo, di cui si può parlare solo
attraverso metafore ardite, sfocia in una questione intorno alla sua
natura, alle sue origini. E allora, ecco la supposizione: «Io dico che
sono spettri». Sciocca, irrazionale, ma certissima e sgomenta, di fronte
alla presenza dell’essere mostruoso. E’ Oten, insomma, a svolgere la
funzione dell’oggetto mediatore, rispecchiata e resa percepibile nel
timore che la sua presenza ingenera. Non è la deformità a spaventare,
giacché la deformità spesso risulta un simbolo ambivalente, su-
scitatore in pari misura di rispetto e disgusto, quanto l’irriducibilità a
leggi, in un mondo nel quale le categorie della biologia non si
confondono impunemente.
Non si potrebbe immaginare contrasto maggiore con quella reggia
nella quale suonava le musiche del suo re. E la novità sta nel trapasso
da un non-tempo fiabesco in un tempo dai caratteri inequivo-
cabilmente moderni. E’ l’inverso di ogni logica del fantastico, dove
necessita proprio un fondato e credibile orizzonte realistico come
habitat entro il quale possa aprirsi l’increspatura di uno spiraglio
aberrante, irriducibile tanto alle leggi del naturale quanto a quelle del
soprannaturale. Ma è lo stesso, in un’ottica diacronica da storia let-
teraria, che avviene nella produzione del padre del futurismo, con lo
scarto tra il fantasy barbarico di Mafarka e l’intento mimetico, al li-
mite da corrispondente di guerra, per quanto parolibero, che investe
Zang Tumb Tumb, o il suo palinsesto Battaglia Peso + Odore28. Al
momento Buzzi non si uniforma al decalogo del paroliberismo e
sposta soltanto l’enfasi della sua scrittura tardo scapigliata d’en haut a
uno sguardo d’en bas, sublime pur sempre, ma ciò che conta è proprio
la sostituzione delle scenografie: l’esotico fumettone cede il passo alla
fisicità incomprimibile del mondo metropolitano. Altrettanto libresco
e artefatto di quello finora visitato, in quanto l’alta dose di letterarietà
appare connaturata al lavoro di Buzzi, forse limite intrinseco del-
l’artista, forse consapevole strategia comunicativa, quella appunto di
speculare sui codici comuni ai lettori di romanzi d’avventure.
La soglia significa anche un altro mutamento, stavolta co-
stituzionale. Siamo passati da un impero a una repubblica, e Buzzi
non fa mistero di identificare questa forma di governo con tutti gli
aspetti più repulsivi della contemporaneità, dal sovraffollamento al

28
Pubblicato in appendice al Manifesto tecnico della letteratura futurista, ora
in TIF, pp. 59-62.

242
degrado sociale e urbano, dalla violenza istituzionale della polizia a
quella eversiva degli anarchici, senza peraltro affiancarvi nessuna
retorica nobilitante filoindustriale o macchinista. Non siamo, insom-
ma, nella milanese «città che sale» raffigurata da Boccioni come un
eccitante magma di forze e di sviluppo, e in cui pure Buzzi atti-
vamente lavorò per una vita come segretario provinciale29, ma in una
periferia derelitta, simile a quelle che Sironi dipingerà di lì a un lustro.
Solo che chi ora si aspettasse una metamorfosi in senso naturalista
si sbaglierebbe, perché la trama de L’Ellisse e la Spirale ci porta,
sorprendentemente, di nuovo in una sacca di deja-vu, tanto evidente
che è singolare nessuno l’abbia mai notata, e del tutto coerente con
quella parabola storica del futurismo di cui dicevamo sopra. Dopo il
‘falso’ 1910 della prima parte, imitato attraverso gli stereotipi di
Mafarka, ora abbiamo un falso 1911, indicato in ogni cronologia del
movimento come l’anno del Codice di Perelà. Di Perelà, in
particolare, la trovatella Deliria replica abbastanza fedelmente l’ini-
ziale successo:

Artalea, piena di famiglie di mercanti arricchiti le cui nuove generazioni


bollivano dalla smania di intellettualizzarsi, era il paese tipico per una
dominazione a base di fascino musicale. [...] Si poteva ben dire che, dalla
prima presentazione al Palazzo della Signoria, Deliria non avesse parlato se
non cantando. E allora, dalle cime alle basi della società, tutti si erano dati a
scoprire nelle proprie viscere, la vena sacra del canto [...] lanciando ancor di
più la fama della Fata canora e l’ideale dell’ugola magica per tutti gli strati
della società.. [...] I maschi, infiammati dal grande successo [...] e presi
d’adorazione per l’Eroina del dramma, avevano propagandata l’idea di
deferire la suprema dignità della Nazione alla Creatura ch’era simbolo del
loro nuovo ideale. (pp. 123-125)

L’infatuazione collettiva, che nel Codice riguarda il fumo e la


leggerezza di Perelà, qui è attivata dall’ideale tardo-romantico della
musica come regina delle arti, in particolare dal successo divistico di
un melodramma con Deliria protagonista, quasi trasposizione ro-
29
Pagine interessanti sulla “doppia vita” di Buzzi, di giorno scrupoloso
funzionario pubblico e attento studioso delle emergenze economiche e
sanitarie nella realtà lombarda, dall’assistenza sociale alla lotta contro
pellagra e turbercolosi, di sera prolifico prosatore poeta e drammaturgo dalle
sfrenate fantasie antidemocratiche, si leggono nel profilo dedicatogli da E.
MAZZIALI in Novecento. I Contemporanei, Milano, Marzorati 1979, vol. II
pp. 1815-1836.

243
manzesca del culto tributato a Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse. Ma
non sfugga la rapida diagnosi sulla repubblica «piena di famiglie di
mercanti arricchiti le cui nuove generazioni bollivano dalla smania di
intellettualizzarsi», pronta per «una dominazione a base di fascino mu-
sicale»: Buzzi, seguendo l’esempio di Palazzeschi e del suo omino di
fumo che attraversava tutti i settori della società come un reagente
demistificatorio, sta parlando dell’Italia, e ne sta indovinando, sotto
un velo allegorico sottilissimo, il tragico futuro, molto di là da venire.
L’estetizzazione della politica non può comunque fermarsi qui,
così tangente alla critica della politica, magari a rischio di diventare
strumento di riflessione. Deve estremizzarsi fino al limite del grot-
tesco, fino a diventare estetica da salone di bellezza. Ed ecco allora,
con mossa di una superficialità troppo affascinante per non essere
consapevole, che Buzzi si distacca dal modello neutrale, vuoto, di
Perelà, e inventa con Deliria una tra le più incredibili autocrati della
letteratura italiana:

Giunta al potere, essa aveva tradito anche le sue grandi elettrici, non
mantenendo affatto la promessa di chiamarle al governo. Postasi, anzi, in
pieno accordo con le più belle, che prima l’avevano aspramente avversata per
la gelosia di vederla favorita dall’altro sesso, era con loro partita subito in
una lotta senza quartiere contro le brutte. (p. 125)

Le brutte contro le belle, a questo si riduce il confronto partitico.


Un intellettuale di formazione rigorosamente classicista trae, senza
tema del ridicolo e dell’anacronismo, la logica conseguenza dal-
l’ideale aristocratico antico della kalokagathìa, l’unione di bellezza
fisica e valore morale. E l’estetizzazione della politica, anche alla
lettera, è fatta. Ma non basta. Queste pagine, in cui si apprende che le
donne tolgono agli uomini ogni potere e che «abolito l’amore, non era
rimasta che della lussuria rapida a base dell’energia repubblicana» (p.
126), mostrano evidente contiguità con uno dei “casi” più scandalosi
del primo periodo futurista, al solito orchestrato ad arte da Marinetti.
Ci stiamo riferendo ai due provocatori scritti di Valentine de Saint-
Point, il Manifesto della donna futurista (25 marzo 1912) e il
Manifesto della Lussuria (11 gennaio 1913), nei quali la spregiudicata
poetessa francese si poneva come corifea dell’emancipazione
femminile attraverso un prototipo di virago che assemblasse Erinni e
Amazzoni, Cleopatra e Messalina, Giovanna d’Arco e Carlotta
Corday, una donna guerriera più feroce dei maschi, o addirittura una

244
super-donna. La Saint-Point equiparava la guerra alla sensualità, e
tentava di sottrarre il desiderio al senso del peccato e alla comune
morale borghese30. Dal canto suo Marinetti, dopo essersi compromes-
so non poco fin dalla fondazione del movimento con quel proclamato
«disprezzo della donna», nel giugno 1910 aveva rilanciato, in Contro
l’amore e il parlamentarismo:

Affrettiamoci dunque ad accordare alle donne il diritto di voto. [...] Noi


che disprezziamo profondamente i mestieranti della politica, siamo felici di
abbandonare il parlamentarismo agli artigli astiosi delle donne, poiché alle
donne, appunto, è riservato il nobile compito di ucciderlo definitivamente.
[...] Avremo, inoltre, la guerra dei sessi, indubbiamente preparata dalle
grandi agglomerazioni delle capitali, dal nottambulismo e dalle regola-
rizzazione del salario delle operaie. Degli umoristi misogini sognano forse
già una notte di San Bartolomeo per le donne31.

Eccolo qua l’umorista misogino, imbeccato dal suo mentore: si


chiama Paolo Buzzi e, detto fatto, trasforma in prosa romanzesca le
previsioni non del tutto serie di Marinetti, chiamando in aiuto un altro
libro fortunatissimo dell’epoca, prima grande epopea dello sterminio
di massa, La guerra dei mondi di Herbert George Wells32. Ma
osserviamo un po’ più nel dettaglio il passo marinettiano, che si rivela
palinsesto prezioso degli sviluppi seguenti. Ospita il titolo del pre-
sente capitolo, per l’appunto la guerra dei sessi, l’idea che l’apertura
alle donne (ai loro «artigli astiosi») coincida con la fine del par-
lamentarismo – esattamente quanto accade, poiché Deliria e le sue
compagne33, restaurano la monarchia – infine, l’immagine di una

30
Del personaggio e della sua breve militanza futurista traccia un vivace
ritratto C. SALARIS nella sua Storia del Futurismo, Roma, Editori Riuniti
1985, pp. 52-56.
31
F. T. MARINETTI Contro l’amore e il parlamentarismo, in TIF, pp. 292-
297.
32
Scritto nel 1898, The war of the worlds fu pubblicato in Italia nel 1901 a
Milano dall’editrice Vallardi nella traduzione di Angelo Maria Sodini.
Potrebbe non essere sfuggito a Buzzi, sempre del medesimo autore, anche il
più recente The war in the air (1908), edito tempestivamente per la prima
volta a Milano dai Fratelli Treves nel 1909 con il titolo La guerra nell’aria,
nella traduzione di Irma Rios, e poi riproposto in edizione economica, segno
di un chiaro successo commerciale, solo due anni dopo, nel 1911.
33
Ognuna uno stereotipo: Edenia, «una nerissima adusta», racconta la
passione, anche marinettiana, per le bellezze di colore, Lycamor,

245
notte di san Bartolomeo, destinata a prender corpo testuale di qui a
poco.
Impressiona un poco leggere, in parallelo con quanto Papini e
Marinetti scrivevano giornalmente invitando all’intervento bellico,
frasi come questa: «Non sarebbe, o sorelle, magnifica risorsa pei no-
stri terreni una irrigazione abbondante di sangue per la primavera?»
(p. 129). Sì perché, non paghe di aver preso il potere, e di aver avviato
una corsa agli armamenti potenziando al massimo la flotta aerea,
queste dittatrici al femminile sono pure animate da fantasie di
genocidio. Il sogno, in cui si incontrano il mito delle Amazzoni e la
futura stagione dei lager, è quello di eliminare tutti gli uomini, dei
quali al momento si dice che «proni ai gioghi servili, militavano nelle
loro rigidità d’automi plumbei tenuti a mercede. Le loro evoluzioni,
sulle piazze d’armi, mandavano rulli di marcia funebre» (p. 140).
Ecco dove ritroviamo Wells, il quale, fin dalla prima pagina della
Guerra dei mondi, due anni fuori dalla soglia del XX secolo,
avvertiva che i conflitti non si combattevano più tra soldati, ma mi-
ravano all’estinzione totale del nemico, e così avrebbero fatto i “suoi”
marziani, così tenteranno di fare le feroci donne del clan di Deliria.

Frattanto, che ne è stato di Naxar e Oten? Sfuggiti all’arresto,


rubato un aereo, si nascondono fuori città, dove trovano, abbandonata
in un capannone, una tipografia clandestina. E siccome la regola di
ogni trasfigurazione fantastica della realtà è quella di nasconderne le
componenti economiche, così come gli aerei in questo mondo volano
senza bisogno di aeroporti né di benzina, allo stesso modo chi desideri
dar sfogo al proprio talento poetico deve solo trovare una tipografia
abbandonata, nella quale siano ancora presenti scatole di caratteri e
risme di carta, dare una spolverata, e tutto è pronto. Ma non solo:
«l’unico germe di musica rimastogli nell’anima era quello che gli
derivava, come un suono del suo stesso polso vitale, dal rombo
frenetico del motore e dell’elica per l’arie» (p. 135). La rivelazione,
che salda in Naxar l’antica passione per le note con i più moderni
rombi dell’aeroplano, viene mediata dal fremito delle macchine che

«biondissima come la regina dei giocattoli», con «occhi di smalto” e «sulle


labbra di minio un sorriso di sfinge», è l’eterno femminino fin de siècle,
gelido e impenetrabile, Vistea, «dalla chioma rossa e dalle gote d’una bian-
chezza di camelia», è la tipica donna lussuriosa e pericolosa così ben rap-
presentata da Klimt, e così via.

246
riprendono vita. Si recupera l’esaltazione futurista dell’industria per
gettare un ponte verso l’aeropoesia, per altro piegata a fini propa-
gandistici e dimostrativi, visto che l’ex-imperatore fa preparare mi-
gliaia di volantini e li carica sul suo aereo, da cui li rovescerà sulla
repubblica. Questa scena, preceduta nella realtà dai lanci di manifesti
irredentisti sopra Trento e Trieste, prelude al più famoso lancio di
manifesti dell’epoca, l’impresa viennese di D’Annunzio del 9 agosto
1918. Eppure, ancora una volta Buzzi segue la via dello svuotamento.
I manifesti irredentisti avevano un preciso contenuto politico, e così
pure non faranno mistero di averlo, nel 1922, i giganteschi libri-
riflettori che propiziano la rivoluzione nel finale de Gli Indomabili34
(sono le opere di Rousseau, Vico, Pascal, Machiavelli, Nietzsche,
Kant, perfino Marx, fino allo stesso Marinetti), mentre i volantini di
Naxar contengono solo molto generici appelli a una militanza tutta
artistica. La retorica tenta di occultare, dietro l’apoteosi del gesto fine
a se stesso, la sua assoluta vacuità.
Ad alta quota i due titani Naxar e Deliria si incontrano di nuovo,
ognuno sul proprio velivolo e, dopo una sorta di duello-ratto cosmico,
tornano a terra trovando l’intero mondo travolto dalla furia di una
guerra totale, scatenata appunto dalle donne contro gli uomini. Guerra
al cui cospetto Naxar esclama: «Nasce la polifonia nuovissima! Ecco:
il mondo ha una nuova teoria acustica da esprimere. Quali suoni!
Quali canti! La guerra è la madre delle sinfonie» (p.156). Il commento
di Naxar, nella sua banalità, ci ricorda quanto cospicua fosse la
componente estetizzante nell’entusiasmo futurista per la guerra. La
polemofilia, insomma, si spiega sì con l’apologetica indiretta del
grande capitale e dell’industria bellica, con il vitalismo e la retorica
nazionalita-irredentista, ma prima di tutto l’esperienza del fronte fu
pensata come l’irripetibile tuffo in un calderone di stimoli sensoriali
violentissimi. In margine a frasi come questa: «Lo shrapnel,
scoppiando, aveva riempito l’atmosfera di una luce violetta, quasi di
una elettricità di lampo estatico che poté agire sui sensi spenti di Aliso
come un cordiale eroico» (p. 169), non ci si può esimere dall’os-
servare che la vera caffeina d’Europa, purtroppo, non era Marinetti,
era la guerra stessa, «la voluttà fanatica ma cosciente di un suicidio
collettivo» (p. 193).

34
Cfr. F. T. MARINETTI Gli Indomabili, in TIF, pp. 995-999.

247
Intanto, dall’orchestra alla fabbrica-orchestra, alla battaglia-orche-
stra35, l’universale analogia gira a vuoto, rimane impigliata in un
termine e svela la propria falsa coscienza. La foresta di simboli getta
la maschera e si confessa rigidamente sovradeterminata. Nondimeno,
qui confluiscono anche numerosi spunti diversi, afferenti in vario mo-
do a quell’area del sonoro cui abbiamo accennato, definendola un
protagonista del romanzo. In effetti, Buzzi si dimostra molto attento
alle elaborazioni della teoria musicale, se nelle prime pagine ci
presenta Naxar come un compositore più o meno tradizionale, amante
della polifonia, esecutore in prima persona all’organo, mentre gra-
dualmente vediamo la sua sensibilità aprirsi sempre più a stimoli
d’ordine caotico, non organizzati, in una parola al rumore.
Concediamoci un piccolo excursus: nel manifesto tecnico La
musica futurista (29 marzo 1911), Francesco Balilla Pratella, dopo
aver dichiarato ruderi il contrappunto e la fuga, proponendo di so-
stituirli con la polifonia armonica - proprio quella di Naxar - aveva
anche esaltato come conquista tutta futurista la ricerca e la realiz-
zazione del modo enarmonico. Il termine enarmonia, che indica un
sistema liberato dalle costrizioni dal cromatismo tonale (ovvero dai
dodici semitoni maggiori e minori contenuti in una scala temperata),
ricorre con grande frequenza nel testo de L’Ellisse e la Spirale, sia
come vocabolo tecnico sia, più spesso, con valenza metaforica,
nobilitante per qualsiasi tipo di suono. Del resto, già Pratella apriva la
strada a una semantica allargata del termine:

L’enarmonia, col contemplare anche le minime suddivisioni del tono,


oltre al prestare alla nostra sensibilità rinnovata il numero massimo di suoni
determinabili e combinabili, ci permette anche nuove e più svariate relazioni
di accordi e di timbri. [...] Noi futuristi amiamo da molto tempo questi
intervalli enarmonici che troviamo solo nelle stonature dell’orchestra,
quando gli strumenti suonano in impianti diversi, e nei canti spontanei del
popolo, quando sono intonati senza preoccupazioni d’arte. [...] Bisogna [...]
considerare la istrumentazione sotto l’aspetto di universo sonoro inces-

35
Una metafora facile, già sperimentata fin dal titolo in uno dei testi più
famosi di Zang Tumb Tumb, quell’Adrianopoli Assedio Orchestra che inizia
«ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare spazio con un accordo tam-
tuumb» e comparve per la prima volta sul n. 6 di «Lacerba» (15 marzo 1913)
per diventare poi, in volume, l’ultimo capitolo del libro, rinominata
Bombardamento. Cfr. TIF, p. 773.

248
santemente mobile e costituente un unico tutto per la fusione effettiva di tutte
le sue parti36.

Pratella, per quanto futurista, era un musicista di conservatorio,


allievo di Mascagni, e per trarre tutte le conclusioni dal suo manifesto
ci voleva l’audacia di un profano geniale come Luigi Russolo. A lui si
deve, nel marzo del 1913, lo scritto L’arte dei rumori, in cui si traccia
una affascinante storia del rumore, dalle cadenze simili a quelle del
mito: «La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, con
l’invenzione delle macchine, nacque il Rumore»37. Con osservazioni
di notevole acume:

Il Medio Evo, con gli sviluppi e le modificazioni del sistema greco del
tetracordo, col canto gregoriano e coi canti popolari, arricchì l’arte musicale,
ma continuò a considerare il suono nel suo svolgersi nel tempo [...] Non
esisteva l’accordo. [...] Il desiderio, la ricerca e il gusto per l’unione si-
multanea dei diversi suoni, cioè per l’accordo (suono complesso) si ma-
nifestarono gradualmente, passando dall’accordo perfetto assonante e con
poche dissonanze di passaggio, alle complicate, e persistenti dissonanze che
caratterizzano la musica contemporanea [...] Ci avviciniamo così sempre più
al suono-rumore38.

Teleologia della simultaneità, si potrebbe definire. E se la parola


magica del futurismo può avere un sinonimo musicale, questo è
senz’altro accordo. Naturalmente Russolo, dopo aver descritto con
entusiasmo i mille suoni della metropoli, non dimentica «i rumori
nuovissimi della guerra moderna», anticipando l’invenzione e le
applicazioni dell’intonarumori. E conclude: «La nostra sensibilità
moltiplicata, dopo essersi conquistati degli occhi futuristi, avrà
finalmente delle orecchie futuriste». Ma Buzzi non si limita a far
tesoro di queste e simili indicazioni provenienti dai teorici della nuova
musica: già Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista
(11 maggio 1912) aveva ingiunto:

36
F. BALILLA PRATELLA La musica futurista. Manifesto tecnico, in L.
DE MARIA (a cura di) Marinetti e i futuristi, Milano, Garzanti 1994, pp. 55-
59.
37
L. RUSSOLO L’arte dei rumori, in L. DE MARIA Marinetti e i futuristi,
cit. p. 92.
38
Ivi, p. 93.

249
Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora
trascurati:
1) Il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti)
2) Il peso (facoltà di volo degli oggetti)
3) L’odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti)39

Carlo Carrà, dal canto suo, nel manifesto La pittura dei suoni,
rumori, odori (11 agosto 1913)40, che attacca riprendendo Russolo
(«Prima del 19° secolo la pittura fu l’arte del silenzio»), aveva so-
stenuto la necessità di ricondurre suoni, rumori e odori a forme
diverse di vibrazione, traducendole poi in un arabesco equivalente di
forme e colori. C’è, come ben aveva visto Asor Rosa, sia in Marinetti
sia in Balilla Pratella e Russolo sia in Carrà, un approccio al fe-
nomenico fortemente razionale: pecca di ottimismo semplificatorio e
dimostra una mentalità cartesiana dell’equivalenza perfetta, della
misurabilità assoluta, tuttavia gli scritti di questi anni non si limitano a
lanciare slogan ma propongono soluzioni, proprio come quando
Russolo spiega che ogni rumore ha un suo tono e persino un suo
accordo dominante, e che l’intonarumori non intende offrire un piatto
mimetismo sonoro, quanto riprodurre intere scale cromatiche
ascendenti o discendenti modulando le vibrazioni degli oggetti.
Ancora, Russolo:

L’orecchio di un uomo del settecento non avrebbe potuto sopportare


l’intensità disarmonica di certi accordi prodotti dalle nostre orchestre
(triplicate nel numero degli esecutori rispetto a quelle di allora). Il nostro
orecchio invece se ne compiace, poiché fu già educato dalla vita moderna41.

Analogamente, Naxar comincia ad apprezzare cannoni e grida nel


suo regno, ma è solo l’incontro con la vita moderna, prima la città poi
la tipografia poi il motore dell’aereo poi la battaglia, a educare il suo
orecchio. In questi anni, tra il 1912 e il 1913, dopo una prima stagione
di poetica sostanzialmente concentrata sui contenuti, sull’elaborazione
di una mitografia dell’avvenire, la progettualità del gruppo futurista,
guidato soprattutto dal genio pratico di Boccioni, Balla, Carrà e

39
F. T. MARINETTI Manifesto tecnico della letteratura futurista, ora in TIF,
p. 51.
40
C. CARRÀ La pittura dei suoni, rumori e odori, in L. DE MARIA
Marinetti e i futuristi, cit. p. 123.
41
L. RUSSOLO L’arte dei rumori, cit. p. 94.

250
Russolo, si concentra sulle forme e sulle tecniche. Davvero la mira è
quella di far saltare i confini tra le arti, di operare una «ricostruzione
futurista dell’universo», come teorizzano Balla e Depero nel celebre
manifesto del 1915. Paolo Buzzi con L’Ellisse e la Spirale sogna la
stessa impresa, in più con l’ardire di servirsi del più tradizionale libro,
mettendolo in competizione con i due media espressivi maggiormente
avanzati e duttili, la musica e il cinematografo (e nel 1916 il
Manifesto della cinematografia futurista esordirà proprio con-
dannando, implicitamente, una simile fiducia: «Il libro, mezzo as-
solutamente passatista di conservare e comunicare il pensiero, era da
molto tempo destinato a scomparire»42).
Torniamo allo scenario bellico. Tra cannoneggiamenti, paesaggi
craterizzati, shrapnel e gas velenosi (questi ultimi, prima del funesto
debutto a Ypres, potrebbero derivare proprio dal succitato Wells e dal
terribile gas nero dei marziani), il quadro è di inconsueta vivezza, per
un libro scritto avanti lo scoppio della Grande Guerra. Dal-
l’esaltazione della macchina siamo arrivati alla guerra, sola igiene del
mondo, e vedremo che Buzzi prende il suo maestro davvero in parola
perché, al termine del conflitto, le donne sono state totalmente ster-
minate, altro che notte di san Bartolomeo.
In un mondo ridotto a una landa infernale di roghi e sangue, i
protagonisti incontrano dei sorprendenti sopravvissuti. Liberati della
carne dal fuoco, sono rimasti puri scheletri, «vibranti come congegni
esatti d’acciaio» (p. 197): il ricordo del raggio ardente marziano di
Wells che scarnifica gli uomini si contamina con un famoso passo da
L’uomo moltiplicato e il regno della Macchina e con un simbolo
purificatorio e palingenetico come la fiamma. Marinetti aveva scritto

Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni


umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono
delle ali. [...] Il tipo non umano e meccanico [...] sarà dotato di organi ina-
spettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fatto di urti continui.
Possiamo prevedere, fin d’ora, uno sviluppo a guisa di prua della sporgenza
esterna dello sterno [...].43

postulando darwinianamente un futuro uomo-cyborg; Buzzi, più


impaziente, lo sottrae alle lungaggini evoluzioniste, e lo forgia nel
42
F. T. MARINETTI, B. CORRA, E. SETTIMELLI, A. GINNA, G.
BALLA, R. CHITI La cinematografia futurista, in TIF, pp. 138-144.
43
Cfr. TIF, pp. 299.

251
crogiuolo del conflitto globale, identificando nello scheletro una
matrice robotica, nella carne un elemento di peso e di corruzione (o
meglio di corruttibilità), tutto da rimuovere. Merita notare come
l’autore abbia di nuovo evitato una comoda porta d’ingresso al
repertorio tematico del fantastico, anche di quel fantastico che si
incardina per un verso alla letteratura dell’orrore, dall’altro alla fan-
tascienza. Davvero incapace di tentazioni perturbanti, Buzzi rigetta
tanto la via più elementare, vale a dire far di questi ‘morti viventi’
degli spettri, una folla di apparizioni non placate e terrificanti, senso
di colpa di quanti sono scampati alla catastrofe bellica e ne sono
ideologicamente responsabili, quanto l’altra, a cui sarebbe in realtà
estremamente agevole accedere dal presente snodo testuale,
dell’uomo artificiato, golem statua o manichino che sia, anch’esso di
grande efficacia fantastica perché confonde le categorie di animato e
inanimato, naturale e sintetico, biologico e meccanico. Ma sarebbero
divagazioni non organiche al progetto illustrativo del futurismo che
sorregge L’Ellisse e la Spirale, perciò il romanzo le scarta, neu-
tralizzandole. Il paradigma di realtà del narratore si dimostra sempre
più elastico, e ingloba senza traumi anche questa scena grazie a una
focalizzazione estremamente selettiva sul sema della durezza (l’osso
come l’acciaio), della pulizia (lo scheletro è lindo, la perdita della
carne è igienica), del movimento (la struttura ossea è soprattutto
articolazione). Non si dà psicologia, né dell’oggetto descritto né nel
soggetto che guarda, non c’è componente emozionale, impressione
del dolore, la descrizione è davvero disumanata. E intanto l’orizzonte
di possibilità spalancato da una tale invenzione visionaria, medievale
Totentanz od orrifica resurrezione dei cadaveri dai campi di battaglia,
si richiude su se stesso e si atrofizza. Il racconto lo oltrepassa.
Ma, ancora una volta, gli sviluppi sono imprevedibili. Perché dalle
ceneri del vecchio mondo distrutto non nasce la metropoli disegnata
da Sant’Elia bensì una nuova, più vasta città di fronde – e la
prospettiva ecologista è curiosa per uno che si dichiara futurista – ad-
dirittura una sorta di Età dell’Oro richiamata, classicamente,
attraverso i suoi più tipici emblemi: la vita agricola, il culto delle
messi e del latte, i liberi canti. A capo di questa neonata civitas tro-
viamo, per spontanea acclamazione, una tetrarchia composta da
Naxar, Deliria, Oten, e dal fratello di Naxar Aliso, entro la quale la
ripartizione dei poteri si identifica nientemeno che con le pratiche
artistiche. Nel dolce far niente, Naxar abbandona la musica al fido
Oten per dedicarsi alla poesia, Deliria si scopre pittrice, Aliso

252
scultore. In filigrana, la fiaba racconta l’azzeramento dei contenuti
politici a favore di una prassi spettacolare, esclusivamente estetico-
decorativa. E, anche, la resurrezione dell’ideale antico dell’otium
fecondo, reso possibile da un popolo senza nome e senza volontà di
schiavi mansueti, i quali non solo sono soddisfatti di stare al loro
posto, ma acclamano gli individui superiori per farsi governare.
Fantasticheria compensatoria abbastanza evidente per degli intel-
lettuali costretti, viceversa, al lavoro di impiegati, come il Gino
Bianchi di Jahier, che negli stessi anni assurge a figura della massima
frustrazione.
Purtroppo, i superuomini sono per natura inquieti, presto anche
l’Eden li annoia. Allora Naxar ordina di dare l’attacco al cielo, scelta
ormai obbligata visto che il cielo è simbolo dell’ordine sacro del
cosmo, e il titano che ha soggiogato il mondo non può arrestarsi, a
maggior ragione in quanto il cielo è concepito in tutte le religioni
come elemento maschile, la cui potenza è contenuta e implicata nella
sua stessa superiorità sulla terra, principio femminile. L’assalto di
Naxar si configura allo stesso tempo come un empio tentativo di
usurpare il trono superno (Zeus che spodesta Crono), e come un
trovare finalmente se stesso, riconoscersi divinità. In fondo, l’attributo
precipuo dell’essere divinizzato è il suo accedere alle regioni celesti.
E la macchina che media questa ascensione, l’aeroplano, così fragile,
rapida e difficile da governare, condensa in sé l’idea dell’esistenza
spesa come grande avventura iniziatica.
L’aeropoesia, tanto a lungo presentita e tenuta a freno, può sca-
tenarsi con due capitoli interamente paroliberi e vertiginosamente
calligrammatici, che sfruttano fino in fondo l’abilità del tipografo
Cesare Cavanna. Sono trenta pagine di delirio in cui sorprende quanto
il delirio possa essere applicazione scrupolosa di un prontuario,
organizzato secondo i dettami dei più recenti manifesti tecnici dell’
«immaginazione senza fili» e del «lirismo telegrafico»44. L’attenzione
di molti critici si è concentrata su questa parte, ma singolarmente
considerati, crocianamente delibati come un pezzo di “poesia”, i due
44
Dopo il Manifesto tecnico della letteratura futurista, erano venuti
Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - parole in libertà (11
maggio 1913), cfr. TIF pp. 65-80, dove tra l’altro si propone la “rivoluzione
tipografica”, e Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità
numerica (18 marzo 1914), cfr. TIF pp. 98-107, che inventa le tavole
sinottiche. Di entrambi i testi Paolo Buzzi fa tesoro in questa parte del
romanzo.

253
capitoli non aggiungono gran che all’antologia ideale delle parole in
libertà, mentre il compito di un lettore dovrebbe essere quello di dar
ragione del nesso organico che li lega al resto dell’opera. Nesso che
appare essere, ancora, l’adeguamento alla punta più avanzata della
formalizzazione futurista, di cui Marinetti aveva da poco fornito gli
archetipi, Zang Tumb Tumb o Dune (1914).
Al risveglio da questa apoteosi-sbornia parolibera, la narrazione
riprende sotto l’egida della sintassi, non più della razionalità.
Scopriamo di aver attraversato un’altra soglia. Della flotta di
aeroplani non c’è traccia, Naxar e Deliria sono rimasti soli, disin-
carnati, sospesi in un cielo che è puro colore, regressione simbolista
oltre la sfera del fuoco («In fine l’azzurro, sempre l’azzurro, li
comunicava. Erano tuttora nel grande bagno di zaffiro fluido. E l’oro
d’una luce immobile li punteggiava sopra le loro teste», p.260).
Ritroviamo qui Dante, l’azur di Mallarmè e il Somnium Scipionis, ma
in quanto ad apoteosi celesti anche il futurismo possedeva i propri
incunaboli, se si pensa ai finali di Mafarka il futurista e del Codice di
Perelà. Il fatto è che l’azzurro è il colore più profondo e più intan-
gibile, in natura si dà solo come trasparenza, dunque come vuoto. E’ il
colore che smaterializza, la soglia dove il reale si capovolge ne-
l’immaginario, il luogo simbolico del distacco dai valori mondani,
nonché – ovviamente – il colore della morte, dei Campi Elisi. Dunque
l’ascensione si può leggere tanto come fuga nella fantasia, in un anti-
mondo rovesciato dove ci si libera dalle costrizioni terrene, quanto
come tuffo nella morte, a suo modo anch’essa negazione del mondo,
divenuto inabitabile.
Il racconto cede al film – nel senso della visione, cinematografica
e mistica insieme – e abdica a ogni referenza, si fa pura verbalità
senza oggetto, tentativo di suggerire con le parole una dimensione
tutta ascensionale, scorporata e senza peso, senza divinità cui tendere.
Vent’anni dopo, in un padiglione dedicato all’aeropittura, la cosa
sarebbe sembrata assai più normale. E non pensiamo all’arte tutto
sommato realistica di Ambrosi, Tato, Tullio Crali, illustratori di
paesaggi visti dal cielo quasi come certi cartografi del Settecento, ma
al filone cosmico-spiritualista di cui furono i maggiori interpreti
Enrico Prampolini e Gerardo Dottori, Fillia e Farfa. La «sensibilità
aerea», scrisse Prampolini, equivale «a una nuova spiritualità
extraterrestre» che punta a «superare la trasfigurazione della realtà

254
apparente» per «lanciarsi verso l’equilibrio assoluto dell’infinito»45. I
rapporti gerarchici interni al movimento erano ormai profondamente
cambiati: quando nel 1929 Marinetti (insieme a numerosi cofirmatari)
pubblica il Manifesto dell’aeropittura, non inventa nulla bensì
canonizza una tendenza già esistente da alcuni anni, e i nuovi potenti
del gruppo, Prampolini e Fillia su tutti, hanno gioco facile, nel 1931, a
fargli comporre perfino un Manifesto dell’arte sacra futurista,
definitiva e malinconica abiura di un anticlericalismo militante
infinitamente ribadito ma ormai, in epoca post-lateranense, del tutto
impresentabile. Questa svolta mistica, coerente con la rimozione
dell’apparato ideologico-politico originario del futurismo, e in qual-
che modo obbligata dall’accerchiamento patito negli anni Trenta, tra il
successo del gruppo di «Novecento» e le critiche dell’estrema destra
fascista, incline a bollare tutto il modernismo come «arte degenerata”
secondo l’esempio hitleriano, arriva però solo a dittatura pienamente
insediata. Invece, ricordiamolo ancora, qui siamo soltanto nel 1914. E
se la prospettiva storica, la facile sapienza da senno di poi, ci permette
di individuare questo ovviamente inconsapevole profetismo, non è per
accreditare doti medianiche all’incolpevole Paolo Buzzi, quanto per
sottolineare come, alla fine, la sua linea, non quella marinettiana, si
sia rivelata vincente. Per sopravvivere al filisteismo del regime, anche
il futurismo sarebbe stato costretto a sublimare i propri ideali46.
L’ultima parte de L’Ellisse e la Spirale si consuma in un empireo
laico: la coppia Naxar - Deliria, divaricata dalle reciproche, con-
trapposte volontà di dominio, invece che procedere verso una
conciliazione romantica, si configura sempre più come coppia
antagonista di principi opposti, maschile contro femminile. Auto-
assuntisi in cielo, i due fondano una città di nubi47, e incorrono in una

45
Citato in C. SALARIS Storia del futurismo, cit. p. 204.
46
Per il contrastato trapasso del futurismo da forza ispiratrice del fascismo a
corrente minoritaria, scomoda e a malapena tollerata dal regime, cfr. il
puntualissimo saggio di E. GENTILE Il futurismo e la politica. Dal
nazionalismo modernista al fascismo (1909-1920), in AA.VV. Futurismo,
cultura e politica, cit. pp. 146-147. La non facile vita dell’arte futurista negli
anni Trenta è ricostruita da E. CRISPOLTI in La politica culturale del
fascismo, le avanguardie e il problema del realismo, ivi, pp. 247-283.
47
Quasi prolungamento della immagine su cui si conclude Il Codice di
Perelà, quel sintomaticamente ambiguo e caleidoscopico esercizio collettivo
di decifrazione d’una sfuggevole epifania celeste: le nubi lette di volta in
volta come «il popolo nuovo, di uomini nuovi» che solcano il cielo, come

255
grandiosa trasfigurazione architettonica: la donna si muta in una
chiesa, l’uomo in un teatro.
La donna-chiesa è un simbolo abbastanza comune nella mistica
medievale, ricorrente nelle visioni dei santi, in virtù della catena
associativa che fa della chiesa la sposa di Cristo, grande madre della
comunità dei fedeli, sovrapponendosi anche alla Vergine, con uno
slittamento di campi metaforici tra il vaso mistico che accolse il figlio
di Dio e l’edificio che ospita il rito; la sua attualizzazione paga-
neggiante ne fa il tempio di una Dea, Nostra Signora degli Abissi,
immagine di quell’amore sentimental-passionale che il futurismo con-
dannava come retaggio passatista. Facciata contro facciata, le si
oppone Naxar-teatro, dove il teatro non è tanto simbolo del mondo,
ma il tempio dell’arte. Arte tutt’altro che in salute: proprio dentro il
ventre-platea di Naxar, un classico teatro all’italiana a palchi, ven-
gono riconvocati tutti i protagonisti della vicenda, come in un
grottesco giudizio universale particolarmente macabro e visionario. Al
posto dei sedili, infatti, uomini e donne sono adagiati su letti-bare, e
tutta l’aria è satura di iodio come in una corsia d’ospedale. Immobili
sui catafalchi, morti in attesa di essere risvegliati come il pubblico
borghese che adombrano, i personaggi assistono alla penultima con-
taminazione artistica del libro: sulla scena Oten e Delizia (l’infelice
sposa di Fanio) danno vita a una performance di danza che occupa
una quindicina di pagine. Questa dettagliatissima descrizione, mal-
grado lo sforzo vano di Buzzi per trascendere la monodimensionalità
del linguaggio sfociante al solito in barocchismi e turgore oratorio,
risulta di grande interesse in quanto anche la danza ricevette in ambito
futurista il suo bravo manifesto, leggermente posteriore al libro, ma
utilissimo per decodificarne gli intenti. Stiamo parlando del
marinettiano Manifesto della danza futurista (8 luglio 1917), dove si
legge tra l’altro:

Molto interessante artisticamente il balletto russo organizzato dal


Diaghilew, che modernizza i balli popolari russi con una meravigliosa
fusione di musica e di danza [....] Col Nijinsky appare per la prima volta la
geometria pura della danza liberata dalla mimica e senza l’eccitazione
sessuale. Abbiamo la divinità della muscolatura.

«aquile bianche, candide aquile, come cigni», che «vanno a strappare a Dio il
velo sopra il suo mistero», come «le bandiere» che «salgono a schiaffeggiare
l’azzurro». Cfr. A. PALAZZESCHI Il Codice di Perelà, Milano, SE 1991, p.
198.

256
Isadora Duncan crea la danza libera, senza preparazione mimica,
trascurando la muscolatura e l’euritmia, per concedere tutto all’espressione
passionale, all’ardore aereo dei passi. [...]. Vi sono molti punti di contatto tra
l’arte di Isadora Duncan e l’impressionismo pittorico, come pure tra l’arte del
Nijinsky e le costruzioni di forme e di volumi di Cézanne.
Così, naturalmente, sotto l’influenza delle ricerche cubiste e in particolar
modo di Picasso, si creò una danza di volumi geometrizzati e indipendenti
quasi dalla musica. La danza diventò un’arte autonoma, equivalente della
musica. La danza non subiva più la musica, la rimpiazzava.
Valentine de Saint-Point concepì una danza astratta e metafisica che
doveva tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale.
[...]
Bisogna superare le possibilità muscolari, e tendere nella danza a
quell’ideale del corpo moltiplicato dal motore che noi abbiamo sognato da
molto tempo. Bisogna imitare coi gesti i movimenti delle macchine; fare una
corte assidua ai volanti, alle ruote, agli stantuffi; preparare così la fusione
dell’uomo con la macchina, giungere al metallismo della danza futurista.48

Tralasciando il seguito, in cui Marinetti teorizza, in pieno conflitto,


esecrabili danze della mitraglia e dell’aviatrice, l’analisi dello stato
presente della danza appare ben documentato e penetrante, proiet-
tando retrospettivamente la medesima impressione sul passo del ro-
manzo, che rivela col più tardo manifesto precise concordanze,
dall’attenzione alla muscolarità sovresposta di Oten alla puntuale
sottolineatura di movenze asimmetriche e antigraziose, dalla im-
postazione conflittuale del duetto (simile più a una violenza che a un
idillio) fino all’idea di una «musica tempestosa, tutta rumori
barbareschi ed elettrici che parevan giungere da opifici meccanici» (p.
320). Marinetti l’adotta unendo nel suo programma le performance
dei ballerini al suono dell’orchestra di intonarumori di Russolo.
In più, il simbolismo tradizionale viene futuristicamente capo-
volto: la danza nasce come rituale per ristabilire i rapporti fra terra e
cielo, si invochi la pioggia la vittoria la fertilità o quant’altro, è un
elemento ordinatore e pacifico, mentre qui l’esibizione, con il suo

48
F. T. MARINETTI Manifesto della danza futurista, in TIF, pp. 145-147 e
ssg. Il primo abbozzo delle idee ivi contenute pare essere un passo dei
Taccuini, datato 12 aprile 1917, dove si rammentano insieme la poetica
futurista nascente sotto forma, nietzschiana, di un assalto «a passo di danza»,
il movimento frenetico dello shrapnel, e il genio di «Serge (sic) Diaghilew».
Cfr. ID. Taccuini 1915-1921, a cura di A. Bertoni, Bologna, Il Mulino 1987,
p. 70.

257
pathos, diffonde gradualmente brividi di indignata resurrezione fra i
cadaveri in platea e, come ogni serata futurista, anche questa, per
quanto allegorica, punta alla provocazione e allo scandalo. Scandalo
che puntualmente si verifica all’incrocio di due diverse dissacrazioni
care al primo futurismo, vale a dire l’oltraggio congiunto al Trono e
all’Altare. Sovraeccitato il pubblico fin quasi al parossismo con la sua
danza, Oten svela infatti, come nell’epilogo di un romanzo a enigma
(altro filone paraletterario cui Buzzi ha attinto), un’antica tresca
dell’Imperatrice con il Pontefice, dando così ragione dei misteriosi
natali di Deliria. Agnizione in piena regola, più vicina comunque al
feuilleton che ad Aristotele, da cui si origina una selvaggia rissa
all’interno del teatro, in perfetto stile futurista.
L’ultima scommessa di Buzzi arriva adesso: l’esplosione della
violenza repressa del pubblico, la regressione dei borghesi-morti a
nude forze istintuali, o addirittura a pura energia, il collasso apo-
calittico del Naxar-teatro vengono narrati con diciotto pagine di
magnifiche tavole sinottiche, e il romanzo si dissolve in una mai ten-
tata galleria di immagini testualizzate, o di carmi figurati, come
voleva Giovanni Pozzi49. Dobbiamo a Lamberto Pignotti e Emanuela
Andreani alcune osservazioni in merito a questo, che sicuramente è
uno dei capolavori della tipografia italiana protonovecentesca, in
primo luogo il rilievo che «la tavola buzziana si differenzia da quella
futurista, aperta e dinamica, perché non vi è nessun accenno al mondo
contemporaneo, nessun stralcio pubblicitario, non la compenetrazione
di piani prospettici, non una lettera che assuma valore grafico
autonomo al di là del proprio referente; nessuna figurazione, tutto è
demandato alla scrittura, la quale rispetta il proprio ordine lineare»50.

49
Il carme figurato, spiega Giovanni Pozzi, è un’entità composta da un
messaggio linguistico e da una formazione iconica, non giustapposti ma
conviventi. «La lingua si sottopone alla funzione rappresentativa iconica ma
conserva in primo piano l’intenzionalità di esprimersi col proprio mezzo».
Cfr. G. POZZI La parola dipinta, Milano, Adelphi 1981, p. 25
50
E ancora: «Sicuramente futurista è la visualizzazione del movimento dei
corpi; sette tavole sono proiezioni geometriche di corpi in movimento. E’ il
movimento proprio di un corpo in quanto energia integrata con il tra-
scendentalismo della materia di natura boccioniana. Non visione simultanea
del reale ma moto perpetuo, travolgente, caos magmatico». Cfr. il saggio
senza titolo di L. PIGNOTTI e E. ANDREANI in P. BUZZI 1990, cit. pp. IL-
L.

258
Giovanni Pozzi preciserebbe che non v’è uso del tratteggio51, ma non
si può davvero dire che non vi sia figurazione. Il simbolismo che ha
attraversato l’intero romanzo, tendendone in più punti la superficie
narrativa fino al limite della frattura e dell’incongruo, si confessa
infine nella sua nudità di segno, o di-segno, svestito di parole. Le pa-
role continuano a formicolarvi intorno, ancora grammaticalmente
disciplinate, ma si trovano in una condizione minoritaria, di fronte
all’impatto visuale della tavola. Come nella prima immagine della
serie, figurata in forma di vaso alchemico, il simbolo si scuote di
dosso la lingua e si accampa sulla pagina negando se stesso, la sua
natura di tramite, di connettore che rimanda ad altro da sé. Il vaso
alchemico-teatro-Naxar, entro al quale la rissa diventa crogiuolo di
rinnovamento, è lì, sulla pagina, pietrificato in icona.
Alla fine di questo lungo percorso, ecco finalmente comparire,
nelle ultime due pagine, l’ellisse e la spirale, ancora l’una affrontata
all’altra come erano state, in forma linguistica, cioè mediata, sulla
prima del frontespizio. In qualità di emblemi ambigui e mercuriali
hanno percorso tutto il libro sotterraneamente, ora si pongono come
approdo definitivo, porta sbarrata del senso. All’interno dell’ellisse,
disegnata con mano infantile come in certe Rarefazioni govoniane, si
vede una figura umana: è Oten, unico sopravvissuto, «ilare marionetta
meccanica, il vero uomo a venire» (p. 344). Dunque l’Ellisse è l’uovo-
matrice, l’Atanor (fornello alchemico) in cui fluttua lo spirito del
mondo, il luogo delle trasmutazioni fisiche e spirituali. Ma se l’Ellisse
è l’uovo, ciò significa che assomma in sé tutta la sequenza metaforica
del polo femminile, per cui sarà anche la terra, la metà inferiore del
più grande uovo del cosmo, la corporeità, la passività. E ad essa si
contrappone, nella spirale, un analogo spettro di principi speculari: il
maschile, il cielo, la superiorità, il pensiero, l’attività. La spirale
possiede anche una serie non trascurabile di addentellati a simboli di
natura femminile, dalla Luna alla vulva alla conchiglia, ma fon-
damentalmente è una figura dinamica e ascensionale, rappresenta
l’evoluzione di una forza, al limite una compresenza di morte

51
Con tratteggio si intendono tutte quelle singole entità grafiche che possono,
in determinati testi (per es. le tavole parolibere futuriste), rappresentare
iconicamente marche del significante, come il tono, il volume, l’altezza, in
altri casi creare percorsi secondari di senso nel testo, come l’acrostico o il
notarico, ma che in generale pertengono alla scrittura e non alla lingua. Cfr.
G. POZZI La parola dipinta, cit.

259
iniziatica e rinascita, il doppio movimento opposto centrifugo e
centripeto. Il rifiuto di Naxar di prender moglie, l’avversione
fierissima che oppone lui e Deliria, la guerra dei sessi, l’assalto al
cosmo e il distacco dalla terra, appaiono ora tutte epifanie parziali di
quest’unico grande conflitto binario tra chiuso (l’ellisse) e aperto (la
spirale), non difficile da leggere, futuristicamente, anche nell’ac-
cezione di tradizione contro rinnovamento52.
E torniamo, finalmente, a Giovanni Boine, il quale concludeva
così la sua recensione:

Però da pagina 263 fino ai ghirigori grafici che finiscono il volume la mia
opinione quando l’ho letta [...] era che la spirale si contorca così per i
paesaggi del sogno che se non fora, almeno certo (mi parve questo) rasenta la
genialità. [...] Dirò che in quel teatro stipato di cataletti, guarnito di derelitti e
di pagliericci come un ospedale e una morgue, dov’è infine tutto il mondo e
Oten e Delizia vi danzano una danza di ansia, proprio ci soffochi d’afa e di
angosciosa elettricità. Ci saran i modelli anche di quest’arte [...] ma ci sono
qui brani di un diabolismo lirico-descrittivo ch’io non ne ho presenti d’eguali
[...] cosicché quando arrivi a quegli scarabocchi di parole in cerchio, di

52
Da non sottovalutare anche il suggerimento di Mario Verdone: «L’idea
della spirale, che diventò emblema del costruttivismo, dopo che del
futurismo, ‘assurta a simbolo’ – come ha detto Ilya Ehrenburg – ‘dell’arte
rivoluzionaria’, nasce forse da questa pagina del 1908 di G.P. Lucini, dal
Verso Libero: “Desideravo di condurre l’opera mia a procedere per gradi ed a
spirale, sopra il cono (così raffiguro la vita sistematicamente) della vita.
Eccovene il segno grafico (è un cono con spirale) come il serpente mitico che
stringe nelle sue spire la diota de’pensieri eleusini, il mio pensiero si attorce e
si sviluppa, vita perpetua, elica, sopra la vita. Giovan Battista Vico mi avvisa
che codesto mio ascendente deve essere elicoidale; Bergson, che deve essere
continuativo. Elementi identici vi si ripetono e vi si evolvono, mutano le
espressioni, permane l’essenza, ma tutto emana dal mio essere [...]” Le
immagini dell’ellisse e della spirale dunque possono nascere da qui: dove la
forma chiusa, irregolare, dell’ellisse è sezione, quasi piano inclinato, in
ascesa, del cono della vita, attorno al quale il pensiero aperto e partecipe della
perfezione – la spirale – “si attorce e si sviluppa” in un continuum eterno».
Cfr. M. VERDONE in Cinema e letteratura del futurismo, nuova edizione
accresciuta, Trento, Manfrini editore 1990, p. 143. Il riscontro con il passo di
Lucini è prezioso in quanto dà conto della oggettiva interrelazione tra i due
simboli, di cui s’è detto, e tuttavia sacrifica, a nostro modo di vedere,
l’impostazione fondamentalmente oppositiva voluta da Buzzi.

260
zampilli e fantocci che chiudono il libro, e di cui poco prima hai riso... eh sì,
concedi che a un certo punto, dir le cose in sintassi non è più possibile53.

L’intuizione geniale di Boine sta proprio nell’esprimere che a


questa sorprendente persuasione, sorprendente per lui lettore non
futurista, che «dir le cose in sintassi non è più possibile», è condotto
non da un singolo effettaccio, un artificio applicato come una
decalcomania su un romanzo che ne avrebbe potuto fare a meno, ma
proprio dall’evoluzione interna del libro, dentro il quale si apprezza
un tempo diverso, una evidente diacronia scandita quasi annali-
sticamente all’interno della illusoria sincronia dell’oggetto-libro. Un
libro la cui composizione a tecniche miste è rigorosamente stori-
cistica, non casuale come in tanti altri patchwork sperimentali, dello
stesso storicismo auto-riflessivo che imponeva a Marinetti di rie-
pilogare sempre, in tutti i suoi manifesti, i passati proclami, le tappe
del suo percorso di teorico.
Per concludere, possiamo ipotizzare che in questo sogno
postwagneriano di Gesamtkunstwerk stia, forse, la ragione del silenzio
di Marinetti. Perché se è vero che «agli artisti Marinetti non chiede il
capolavoro, ma opere che formalizzino i canoni del movimento»54, da
un lato Buzzi è estremamente scrupoloso a tornire una trama ro-
manzesca con tutti gli ingredienti che cinque anni ruggenti di
futurismo gli fornivano, dall’altro, però, è innegabile che egli tenti il
capolavoro. Il miraggio dell’opera totale, che facesse interagire tutte
le arti e allo stesso tempo narrasse allegoricamente la parabola del
futurismo, è esattamente quanto Marinetti non poteva perdonargli.
Salvo poi imitarlo, qualche anno dopo, con 8 anime in una bomba
(1919), analogamente costruito di parti narrative sintatticamente
ordinate, sezioni di paroliberismo sfrenato, disegni e tavole sinottiche.
Il fatto che quel romanzo sia un romanzo-autoritratto, e proponga una
identificazione nemmeno troppo velata tra il movimento che era una
sua creatura e se stesso, dovrebbe far riflettere su quanto, a volte, un
despota preferisca, anche gli encomi, forgiarseli da sé piuttosto che
lasciar fare ai collaboratori troppo zelanti.

53
G. BOINE L’Ellisse e la Spirale (1915), cit. p. 200.
54
P. PIERI La politica dei letterati, cit. p. 179.

261
3. Bruno Corra Sam Dunn è morto (1915)

Incommensurabilmente più sintetico è il romanzo di Bruno Corra


Sam Dunn è morto, anch’esso comparso nelle Edizioni Futuriste di
«Poesia» per la prima volta nel 1915, e poco dopo a puntate su
«L’Italia futurista». Tanto sintetico, in senso tecnico, da muovere
l’autore, in occasione della ristampa presso lo Studio Editoriale Lom-
bardo (1917), a una orgogliosa auto-prefazione nella quale si afferma
che la sua opera sarebbe «di importanza decisiva nella letteratura» in
quanto la prima «senza capitoli di preparazione, senza squarci riem-
pitivi, senza particolari oziosi, senza luoghi comuni diluiti e riposanti
ecc. ecc.»55. Vanto sottilmente polemico, dal momento che riprende
quasi alla lettera, attribuendole però a se stesso, le parole spese nel
1913 da Marinetti per presentare il Codice di Perelà di Palazzeschi56.
Da ciò si arguisce che la poetica del romanzo sintetico era condivisa
da Corra, non così la stima per l’autore dell’Incendiario, ed è facile
comprenderne il perché, se si pone mente alla vivace avversione che
aveva a lungo contrapposto il gruppo fiorentino della «Voce” e poi di
«Lacerba», di cui aveva fatto parte Palazzeschi, e quello riunito
attorno alla rivista «Il Centauro», capitanato da Corra ed Emilio
Settimelli. Ma su questo punto torneremo.
Rapportare Sam Dunn è morto alla dimensione del racconto
fantastico, rispetto a L’Ellisse e la Spirale, si dimostra impresa più
agevole, sebbene anche in questo caso sia necessario parlare in
termini di prossimità e somiglianza, piuttosto che di piena coincidenza
di profili. Pur soddisfacendo una serie di condizioni preliminari della
produzione di senso – o anti-senso – fantastico, queste non sono di per
sé esaustive a comporre la costellazione così sfuggente e fragile di
tematiche e approcci emotivo-cognitivi che dà vita al modo, limitando
quindi l’escursione, per di più tangenziale, a livello del genere. Le

55
B. CORRA Prefazione alla seconda edizione in ID. Sam Dunn è morto,
riedito nel volume antologico A. MASI (a cura di) ZIG ZAG. Il romanzo
futurista, Milano, Il Saggiatore 1995, p. 125 [da qui in poi citato direttamente
nel testo con il numero di pagina tra parentesi tonde].
56
«Spirito rivoluzionario e assolutamente futurista in tutte le sue opere,
Palazzeschi diede, nel suo Codice di Perelà, il primo romanzo sintetico,
senza legami né ponti esplicativi, senza quei capitoli grigi pieni di belle zeppe
necessarie, nelle quali Flaubert si rammaricava di aver sciupato tanto in-
gegno». Cfr. F.T. MARINETTI Il poeta futurista Aldo Palazzeschi, TIF,
p.64.

262
condizioni qui intese come preliminari sono: in primo luogo la scelta
di un argomento di natura soprannaturale, o meglio paranormale,
come i poteri psichici, che espone un discrimine forte tra reale e non-
reale, campi integralmente oppositivi di cui non si può immaginare
l’incontro e tanto meno l’interazione, perché in tal modo si violerebbe
il principio di non-contraddizione. Tale violazione è comune nel-
l’ambivalente logica del fantastico, per quanto non ne sia un presup-
posto obbligato, e in Sam Dunn è morto assume la modalità, ben
illustrata da Neuro Bonifazi nel suo Teoria del fantastico, di un pa-
radossale sforzo per render credibile e razionale l’incredibile e l’ir-
razionale non spiegandolo bensì imponendolo con la sua tangibilità di
fatto avvenuto57. Il romanzo si apre infatti, molto più che in medias
res, quasi nel bel mezzo di una conversazione o di un acceso
soliloquio vertenti proprio su questo punto:

Senza dubbio. Una enorme importanza! Perché fingere di ignorarlo? La


congiura del silenzio non servirà a nulla. I fatti non si demoliscono. E questi
fatti hanno un significato gigantesco. So bene: ciò che è avvenuto è spia-
cevole per moltissimi, è sconcertante per tutti. Ma il progresso si è sempre
effettuato attraverso le crisi più imprevedute. D’altra parte, la verità è una
forza che niente può arrestare: la più fatale di tutte le fatalità. (p. 127)

Da ciò discende, seconda condizione, l’opzione diegetica di un


narratore-testimone vivacemente coinvolto nella vicenda, l’impostarsi
del racconto in un difficile equilibrio tra lo storico-cronachistico e il
para-evangelico, nel senso letterale di “comunicazione di una buona
novella”. Con da un lato una scrupolosa ricostruzione evenemenziale
a posteriori, ed è la facies più ortodossa e narrativa, dall’altro – già lo
si avverte dalle prime righe – il continuo scivolamento verso la
profezia, che disorienta il lettore. Chi scrive, sul piano finzionale
naturalmente, è un convertito, qualcuno per il quale la verità è data,
non supposta, e non importa quanto inverosimile o miracolosa possa
sembrare, anzi la sua totale implausibilità si capovolge in garanzia
ontologica, è scandalo che si fa prova. Perciò la precisione delle lo-
calizzazioni spazio-temporali e delle indicazioni onomastiche non
collide con l’assurdo bensì se ne gloria come del suo punto di forza
ultimo. Strategia, questa, di molti narratori fantastici, i quali
57
Cfr. su questo aspetto le tesi di N. BONIFAZI in Teoria del fantastico e il
racconto fantastico in Italia: Tarchetti, Pirandello, Buzzati, Ravenna, Longo
1982.

263
esordiscono proprio affermando di non essere pazzi, e di dover in ogni
caso raccontare fatti, sicuramente veri, che esulano da ogni possibile
esplicabilità. Non è la loro “esitazione”, la quale spesso non esiste
affatto, a dar corpo al fantastico, bensì il rapporto critico tra le loro
certezze e quelle altrui, che siano del senso comune o della scienza,
spesso confinate nella cornice. Così, se è nel giusto Gianluigi Goggi
sostenendo che «una caratteristica di fondo del racconto fantastico [è]
un percorso conoscitivo che comporta per il soggetto il confrontarsi
con una crisi e una falla del proprio paradigma di realtà»58, occorre
aggiungere che, nel caso almeno del narratore intradiegetico di Sam
Dunn è morto, questa crisi è avvenuta in uno stadio anteriore all’atto
affabulatorio ed è già stata riassorbita in un sistema di coordinate
assiologiche nuove.
Infine, terza condizione, il romanzo gioca a contrasto la sua
frenetica, pirotecnica galleria di eventi straordinari sul fondale di un
panorama urbano assolutamente contemporaneo e realisticamente
individuato, quello di una Parigi ancora capitale del XIX secolo, con
tutte le sue vie, i suoi palazzi e i suoi abitanti illustri nominati a chiare
lettere. Però la dimensione pubblica e collettiva dei fenomeni para-
normali si fa apprezzare come una peculiarità che stacca la storia di
Sam Dunn dai canoni del fantastico, giacché qui non è in causa
l’apparizione di un fantasma nel chiuso di una camera, la passeggiata
notturna di una statua assassina, la presenza di un essere invisibile che
tormenta un pover’uomo, un sogno che si richiude imperfettamente
lasciando tracce materiali nella realtà, e quant’altro i racconti fan-
tastici hanno immaginato nei termini di un faccia a faccia privato e
sconvolgente con l’impossibile, quanto piuttosto una serie di mira-
bilia, ognuna in sé inspiegata, che ha coinvolto milioni di persone nel-
lo stesso momento. Rispetto a tutto ciò il narratore si pone come un
investigatore-àugure, colui che lega le fila sparse di una vicenda
oscura, e giunge a suggerire un nome per il colpevole della morte
predicata fin dal titolo, interpretando i segni grotteschi e comici di una
rivoluzione mancata, ma pur sempre imminente.
Risulta allora comprensibile, in virtù di tale inaudita estensione dei
fatti, lo spostamento cronologico in avanti di quasi mezzo secolo (la
vicenda si suppone accaduta nel 1952), che apparenta Sam Dunn è
morto ai testi di soggetto avvenirista, alle storie del futuro. Nessun

58
G. GOGGI Assurdo e paradigma di realtà: alcuni nodi del fantastico, cit.,
p. 133.

264
lettore, per quanto volenteroso nel sospendere l’incredulità, avrebbe
accettato che certi fenomeni venissero spacciati per accaduti nella
vicina Francia, ma è un fin troppo ovvio escamotage che non ha
alcuna ricaduta a livello testuale, non modifica la percezione di un
racconto sostanzialmente attuale, ambientato nella Parigi del 1915. Il
clima parigino nelle pagine di Corra resta inequivocabilmente da tarda
Belle Epoque, fatto di salotti aristocratici e cosmopoliti, di artisti e
locali notturni, di ballerine attrici e baronesse in un gran turbinare di
smoking, champagne, hashish e oppio. E anche i possibili roman-
zeschi che lo abitano sembrano sopravvivenze di un mondo fatuo e
inconsistente, un mondo di tresche e chiacchiericci come lo aveva già
mostrato Flaubert ne L’éducation sentimentale, ridotto in questo caso
a puro presupposto di imprevedibili sviluppi.
Per la trama del romanzo non a caso abbiamo speso l’aggettivo di
para-evangelico, poiché al fondo di tutto questo è il racconto di una
redenzione (fallita) e di un potenziale redentore che soccombe
all’enormità del suo progetto. Mentre Perelà, cui il protagonista in-
ventato da Corra deve più di qualcosa, è un messia senza verbo, Sam
Dunn si presenta addirittura come un messia scettico del suo stesso
verbo, anzi, «un umorista» (p. 166). Un ricco ozioso, che passa gran
parte delle sue giornate nella più torpida immobilità, tanto di corpo
quanto di spirito, un individuo dall’aspetto perennemente sonnac-
chioso e distratto, quasi un personaggio keatoniano, capace solo di
inanellare gaffe per una sorta di perpetua asincronia con il mondo
circostante, che diventa a modo suo una dote: la dote di comportarsi
sempre nel modo meno consono alla situazione. C’è una forte
componente comica nei tratti di Sam Dunn, ben visibile quando si
dice che «tutti i suoi amici riferiscono di averlo veduto spesse volte
tentare ostinatamente di passare attraverso una porta senza aprirla» (p.
140), e tuttavia l’arguzia di Corra sta nel suggerire in questa im-
magine l’ipotesi che Sam stia effettuando esperimenti di incorporeità,
stia cioè cercando di muoversi al di là delle leggi della fisica,
sovrapponendovi la gag dell’imbranato che cozza per distrazione
contro un battente chiuso. Altre volte, gli strani poteri mentali di Sam
danno effettivamente prova di sé, per esempio in un caso di pre-
monizione.
Dalla rapida sequenza di aneddoti che il narratore sciorina nel
costruire il ritratto di Sam Dunn, asciugando ma non sovvertendo, in
termini di impianto narrativo, quel medesimo sommario di episodi
sintomatici cui ogni romanzo ottocentesco ricorreva per presentare i

265
suoi attori, l’uomo Sam Dunn emerge come un fascio di negazioni,
una summa di dis-valori: anti-romantico, anti-eroico, anti-dinamico,
questo strampalato messia non è solo provocatorio nei confronti della
morale borghese, lo è anche, almeno altrettanto, per il rigoroso codice
etico dei futuristi. Dichiaratamente vigliacco di fronte a un marito
furioso, restìo a qualunque attività intellettuale, clamorosamente goffo
nelle pratiche sentimentali, inetto fino al punto di veder sfilacciarsi e
decomporsi sotto il proprio sguardo alienato i normali gesti quotidiani
(«Egli stesso confessava di essersi alzato molte volte da tavola senza
mangiare perché non riusciva a ricordarsi quale metodo si debba
seguire per far passare le vivande dal piatto alla bocca», p. 137), egli
appare un’icona vivente del disadattamento, più radicale di qualsiasi
nevrotico59. Ma si tratta di un disadattamento presentato come stig-
mata di eccezionalità, vertiginoso salto evolutivo che, mentre apre
spiragli sul futuro dell’uomo e del suo rapporto con il mondo, si
manifesta anche come contraccolpo sull’araldo, quasi del tutto
incapace di vivere in una dimensione che ormai non gli appartiene
più. La creatura romanzesca di Corra è infatti un sensibilissimo col-
lettore di energie invisibili, un po’ come un rabdomante urbano. Ad
attrarlo sono minuzie quali i movimenti ascensionali del fumo, e
soprattutto ogni simbolo della divisione:

Venivo, dopo cena, verso i boulevards. Sboccando da l’Avenue de


l’Opéra ho visto Dunn fermo al bivio di Rue de la Paix col Boulevard des
Capucines. Ciò mi ha indotto a una osservazione. Non ricordo di averlo mai
veduto fermo, così, in quella sua attitudine di intensa meditazione, lungo una
strada, ma sempre nel punto di incrocio di due o più strade. Giurerei che non
lo fa a caso. Mi sembra che egli debba sfruttare questi vasti ingorghi di folla
fermentanti di strepiti e di colori incanalandoli nel suo spirito. [...] L’ho
sorpreso molte volte a considerare attentamente i grovigli di rami degli alberi
lungo i viali e gli intrichi di binari nelle stazioni. Entrando nel suo studio l’ho
trovato spesso intento a studiare con la lente lo svolgersi delle radici di
alcune piante acquatiche poste in vasi di cristallo. (p. 137)

59
«Un personaggio che sembra aver fatto propri i principi fondanti del
Pirandello dell’Umorismo (1908), attento agli effetti della figura umana come
“maschera nuda”, in uno sfondo di silenzio metafisico». Così, forse
generosamente, A. BERTONI definisce Sam Dunn nel saggio Elementi del
futurismo emiliano-romagnolo, in G. M. ANSELMI - A. BERTONI, Una
geografia letteraria fra Emilia e Romagna, prefazione di E. RAIMONDI,
Bologna, Clueb 1997, p. 255.

266
La divisione pare affascinarlo in quanto emblema di una assoluta
libertà di differenziazione, e insieme segno premonitore. Rami, binari
e radici in realtà sono forme di organizzazione complessa ma
profondamente funzionale e non caotica, mentre quel che davvero
rappresenta l’attesa di Dunn è il bivio, lo scarto radicale e palin-
genetico, la nuova strada da imboccare, al di fuori o contro il reale.
Ben presto il romanzo giunge all’acme, nel capitolo Parigi
impazzita. Qui si narra, in un susseguirsi di trovate, una giornata – il 5
giugno – di sconvolgimento totale della realtà, un “incantesimo” che
il narratore non esita a salutare con il fervore di un Battista:

Tutta Parigi cominciava a fermentare di fantasia. (p. 143)


[...]
La realtà si dibatteva col furore pauroso di un organismo che sta per
morire o per rinnovarsi attraverso una crisi febbrile. [...] La materia respirava
e fantasticava. (p. 146)
[...]
La più complessa delle rivoluzioni era iniziata. Le vecchie apparenze
materiali crollavano. Nel mondo degli uomini si aprivano crateri di
imprevedibilità, emergevano foreste di capricci, irrompevano torrenti di
nuove leggi e di nuove logiche. La decrepita immobilità della materia era sul
punto di venir sostituita da una viva elasticità multiforme, zampillante di
fenomeni elegantemente effimeri. (p. 150)

Ecco il bivio che Sam Dunn presentiva. Nel luogo della più grande
rivoluzione dei tempi moderni, questo cinque giugno oltrepassa lo
choc dell’Ottantanove e ogni angolo della città produce il suo frutto
aberrante: si comincia con gesti isolati, eccentricità di poco conto e
tutte umane, come persone che gettano in aria il berretto e si mettono
a correre o si azzuffano per inverosimili motivazioni, verdurai che
declamano versi, prefetti che scendono nudi in strada, ma ben presto
tutti i regni naturali, vegetale animale e minerale, appaiono sconvolti,
con alberi che mutano colore, gioielli che di comune accordo
prendono il volo, muli che pattinano, gardenie all’occhiello che
scoppiano, marciapiedi esalanti profumo di rosa, macchine da caffè
che allagano i bar, perfino l’intera foresta di Fontainebleau che scom-
pare mentre la torre Eiffel germoglia come un arbusto, dalla torre alla
vetta, di centinaia di rami immensi di metallo, e il sarcofago di
Napoleone «con un balzo tigresco» si sradica dalle sue basi di granito
e sfonda la cupola dell’Hôtel des Invalides. Dopo dodici ore di simili

267
e ancor più bizzarri sconvolgimenti, quattro milioni di parigini sono in
strada, come un unico corteo, a gridare il nome di Sam Dunn.
Non per acclamarlo, no, è solo il canto del cigno di una
rivoluzione abortita. Sam, misterioso trasformatore di energie occulte,
è chiuso da un giorno nella sua camera d’albergo, in overdose da
droghe ed eccitanti vari, i capelli biondi repentinamente fatti canuti. Il
narratore non spiega in che modo lo strano individuo funzioni come
una porta spalancata tra due mondi incompatibili, temporaneo abo-
litore delle leggi fisiche e logiche note, lascia solo che il lettore lo
osservi, venga informato minuziosamente di quanto nel frattempo sta
accadendo, e tragga le sue conclusioni. Non sappiamo perché, ma
assumiamo dalla certezza del testimone – e naturalmente dall’ultimo e
più clamoroso dei prodigi, l’invocazione collettiva del popolo
parigino – il fatto che Sam Dunn è la chiave di volta di questa inva-
sione sui generis del fantastico ai danni del mondo preesistente.
In questo momento, dinanzi all’abisso spalancato di una tale
catena di nonsense, il racconto subisce una triplice inattesa dislo-
cazione: spostamento nel tempo – la vicenda retrocede di alcuni anni
– nello spazio – si trasferisce in Italia – e cambio di soggetto: entra in
scena, contro ogni regola romanzesca, ma con perfetta scelta di
tempo, il fino a questo punto ignoto cavalier Angelo Santerni. E di
nuovo, come prima con Sam Dunn, in poco più di due paginette il
narratore sbriga la formalità di presentarci il nuovo personaggio,
anch’esso dotato di una formidabile inettitudine al presente:

Il cav. Santerni si chiamava Angelo. Circolavano sul suo conto due voci
altrettanto accreditate: che fosse un pazzo e che fosse un idiota. Egli tentava
di lanciarne una terza, affermando di essere un genio. (p. 155)

Strano doppio di Sam Dunn, in parte a lui perfettamente omologo


(eccentrico oltre ogni misura, incapace di pensare secondo gli schemi
correnti e di percepire il mondo come fenomenicamente si presenta),
in parte suo esatto rovesciamento (imprenditore iperattivo e marito
fedele), Santerni impiega alcuni anni della sua vita a rovinarsi
metodicamente, scialacquando il patrimonio ereditato in imprese
commerciali una più cervellotica dell’altra, con peraltro una crescente
stima di sé mano a mano che i tracolli finanziari si fanno più gravi.
Accanto a lui, a completare la concidenza oppositiva con Sam, tro-
viamo la corpulenta moglie Giuseppina, detta Peppona, la quale
«possedeva delle spiccatissime attitudini medianiche» e «passava

268
intere giornate coricata sopra una poltrona, in ozio» (p. 162). L’ultima
delle imprese di Santerni, quella che riconduce a unità i due corni
della vicenda, è la costruzione, in una piccola baia della riviera ligure,
del Portorosa hotel, un magnifico esempio, seppur solo verbale, di
architettura futurista, incrocio tra una scultura astratta di Balla o di
Boccioni e il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin:

Era l’edificio meno verticale del mondo: [...] La sua forma esteriore era
una piramide quadrangolare e le sue diciannove camere avevano la forma di
una sfera. [...] La hall centrale era l’ambiente più vasto: una specie di
poliedro bizzarrissimo, irregolare, disposto in maniera che la parte più
spaziosa restava situata dentro l’edificio, mentre la parte più ristretta si
spingeva come un balcone oltre la parete: questa estremità sporgente era
chiusa da una magnifica cristallata e rimaneva sospesa come una gabbia
trasparente [...]. Il pavimento della hall, inclinato come tutto l’edificio,
saliva, con una pendenza che avrebbe reso pericoloso il camminarvi se non
fosse stato coperto di tappeti di gomma antisdrucciolevole [...] Le diciannove
camere [...] sferiche [...] contenenti come unico mobilio un letto di ebano [...]
una poltroncina di mogano e un tavolinetto di metallo; questi tre mobili non
poggiavano coi pedi a terra, ma erano tenuti sospesi in aria da robuste corde
di acciaio fissate al soffitto [...]. All’esterno l’hotel Portorosa era avviluppato
da una larga spirale metallica la quale saliva, in cinque volute, sino alla
sommità [...]. (pp. 159-161).

Invece di fallire come tutte le sue precedenti operazioni, il


Portorosa hotel riscuote un enorme successo di pubblico fin dal giorno
dell’inaugurazione, ma un successo alquanto particolare: infatti, la
stranezza tanto del luogo quanto del suo proprietario attira da ogni
dove tipi stravaganti, pazzi e dementi, trasformando ben presto
l’albergo in un manicomio volontario. Che, dopo aver funzionato per
quattro anni come un «gigantesco serbatoio di quelle sfuggevoli e
fosforee energie avviluppanti il nostro mondo che da cinquant’anni le
scienze nuove si sforzano di dominare» (p. 165), diventa, insieme a
Parigi, uno dei due «poli d’irrealtà» del mondo durante la rivoluzione
medianica tentata da Sam Dunn, anzi il polo più potente, perché men-
tre la capitale francese assiste agli sconvolgimenti di cui s’è detto, la
terra in Liguria si apre, un terremoto cancella il Portorosa hotel con
tutti i suoi abitanti, e l’influsso di Peppona e di tutte le energie da lei
imbrigliate in qualche misteriosa maniera devia il corso degli eventi.
A questo punto il resoconto del narratore, pur non perdendo affatto in
compattezza asseverativa, senza insomma che l’ombra di un dubbio

269
scalfisca la superficie delle farraginose illazioni in cui si avventura, e
senza nemmeno offrire supporti esplicativi a quanto racconta – il che,
sia detto per inciso, gli conferisce la forza apodittica del vero racconto
profetico, tanto più persuasivo quanto meno è permeabile all’intelletto
– tratteggia una sorta di grande conflitto invisibile tra forze occulte,
tra l’immaginario nobile e lirico di Sam Dunn, mirante a una ride-
finizione dei rapporti tra fenomeno e fenomeno, cioè una sorta di
concretizzazione nel mondo reale di una pratica poetica quale l’ana-
logia o la metafora, e la sua parodia perversa e banale che finisce per
averne ragione. Lo slancio lirico si converte in semplice frenesia dei
sensi, la quale oltretutto scompare dopo dodici ore così come era
venuta, senza lasciare nulla di mutato. Sam Dunn viene miste-
riosamente ucciso mentre sonnecchia nella sua stanza, placido e
inerme come un agnello sacrificale, da una cameriera al termine della
grande crisi medianica di Parigi.
Ma, a parte i ricordi delle persone coinvolte, qualcosa resta a
svolgere la funzione di oggetto mediatore, testimonio incomprensibile
di un’avvenuta infrazione alle leggi conosciute e comprensibili del
mondo. E non si tratta di un ninnolo sconvolgente ma tutto sommato
di poco ingombro come il piede di mummia del celebre racconto di
Gautier o l’osso di morto di Tarchetti che probabilmente vi si ispira,
entrambi esempi canonici di oggetto mediatore, né come la terrifi-
cante chiave della cripta di Vera nell’omonimo racconto di Villiers de
L’Isle Adam. Qui, e certo con una buona dose di ironia nei confronti
di quel peculiare espediente narrativo del racconto fantastico grazie al
quale lo scioglimento si converte in inestricabile enigmaticità, tro-
viamo nientemeno che una montagna d’acqua, alta quasi cinquecento
metri, sorta d’improvviso nel mezzo di un fiordo norvegese. Non
l’allucinazione di qualche pescatore, non una nave fantasma, ma una
formazione «segnata oggi in tutte le carte geografiche col nome di
Monte Dunn», dunque già accettata dalla più positiva di tutte le
scienze, la cartografia. Una montagna che erutta ogni anno il sei
giugno, giorno della dipartita di Sam, e quasi per ulteriore scrupolo
d’autenticità la sua lava è composta da milioni di piccoli sassi recanti
le iniziali S. D.
Fin qui, imbozzolato nei suoi enigmi, aperto sul vaticinio finale di
una futura, forse imminente, ripresa del progetto dunniano, il
racconto. La via d’accesso alla più esatta comprensione di esso si
rintraccia, ancora una volta, in un manifesto, eccezionalmente fe-
condo eppure poco considerato, Pesi prezzi e misure del genio

270
artistico, comparso a Milano l’11 marzo 1914 e firmato proprio da
Bruno Corra e da Emilio Settimelli. Solo che questo manifesto, a sua
volta, possiede una storia eccentrica, e non è un punto di partenza,
bensì un punto d’arrivo.
Al tempo di Sam Dunn è morto, l’adesione al futurismo del
ravennate Bruno Ginanni Corradini e di suo fratello maggiore
Arnaldo – entrambi debbono all’inventiva di Giacomo Balla la sintesi
‘sportiva’ del loro doppio cognome in Corra (da corsa) e Ginna (da
ginnastica) – era piuttosto recente, e in qualche modo inattesa. Mentre
il lombardo Buzzi faceva parte della schiera marinettiana fin da molto
prima del Manifesto su «Le Figaro», Corra e il fratello avevano a
lungo approfondito le proprie ricerche artistiche, l’uno come letterato,
l’altro come fotografo e pittore, in solitudine, legandosi in amicizia
solo a Balilla Pratella, romagnolo come loro. Tra il 1911 e il 1912,
dopo che Pratella era già diventato futurista, e che i Corradini avevano
spedito il loro saggio Arte dell’avvenire alla sede milanese del
movimento, senza riscuotere particolari attenzioni, avvenne che,
contro ogni supposizione, i due entrarono nell’orbita di un litigioso
piccolo gruppo fiorentino, i cui intelletti propulsori erano Emilio
Settimelli e Mario Carli, schierati in netta opposizione tanto al
futurismo quanto ai Vociani. Nato nel 1909 insieme alla rivistina
letteraria «La difesa dell’arte», il cenacolo cosiddetto ‘cerebralista’,
tutt’altro che d’avanguardia, percorse una parabola di sintomatica
imprevedibilità, muovendo da premesse inflessibilmente razionaliste,
positive, stigmatizzando la corruzione della cultura attuale (D’An-
nunzio e Croce, quest’ultimo accusato di aver foggiato un’estetica rea
di «soggettività») e finendo invece per propiziare la scrittura di alcuni
tra i testi più compromessi con i versanti oscuri della psiche, dalla
superstizione all’animismo, dal pensiero esoterico alla fantasticheria.
Di Corra e Ginna solitamente si afferma che contribuirono
attivamente alla svolta in senso occultista del futurismo fiorentino,
apportandovi ricche letture di prima mano, cultori com’erano di
magnetismo, ipnotismo, spiritismo, di teosofia e di scienze me-
dianiche in genere, di fenomeni inspiegabili quali la rabdomanzia, la
telepatia, perfino di magia. Ginna stesso ricorda:

Ci rifornivamo di libri spiritualisti e occultisti, mio fratello e io, presso gli


editori Dourville e Chacormac. Leggevamo l’occultista Elifas Levi, Papus,
teosofi come la Blavatsky e Steiner, la Besant, segretaria della Società
Teosofica, Leadbeater, Edouard Schuré. Seguivamo le conferenze della

271
Società Teosofica, a Bologna e Firenze. Quando Steiner fondò la Società
Antroposofica restrinsi la mia attenzione a Steiner. C’erano anche le
discussioni con Evola. Ma [...] con Steiner l’occultismo si elevava in senso
spirituale: lasciarsi andare verso le forze occulte dell’Universo60.

Eppure il pregio maggiore di Sam Dunn e anche del più tardo Le


locomotive con le calze (1919)61 di Ginna sta proprio nella loro
leggibilità, nel non essere ingolfati di simbologie misteriche, tanto che
quest’ultimo, specie nella parte introduttiva, somiglia più a una
raccolta di fiabe carrolliane (senza il genio di Carroll e con in più
l’estro popolare di Pinocchio) che all’opera di un dotto di saperi
iniziatici62, mentre dalla seconda prosa si apparenta evidentemente
alla raccolta di impossibilia calati in un contesto urbano e realistico
visti nell’opera del fratello63. Il richiamo a Carroll, e al fantastico
vittoriano che egli incarna al più alto grado, in ogni caso, non è
meramente impressionistico. Nel suo saggio Il fantastico. La
60
Il passo si legge in M. VERDONE Cinema e letteratura del futurismo cit.,
pp. 21-22. Il saggio di Verdone, uscito originariamente nel 1967 come
numero speciale della rivista «Bianco e Nero», poi in volume l’anno seguente
presso la collana dello stesso periodico, contiene una gran quantità di
informazioni preziose sulla vita, la cultura e l’opera dei fratelli Corradini.
61
Ora riedito in A. MASI ZIG ZAG. Il romanzo futurista, cit. pp 233-306.
62
«Queste composizioni di Arnaldo Ginna stupiranno molto i lettori. Li
stupiranno e li disorienteranno prima di tutto per la impossibilità di farle
rientrare nel cerchio di qualsiasi definito genere letterario. Esse non sono né
novelle, né fiabe, né racconti fantastici né poemetti: non sono nessuna di
queste cose, pur partecipando dei caratteri di ognuna di esse» (corsivo
nostro). Con tali accenti, sostenendo la necessità per la nuova letteratura di
scavalcare le barriere di genere nonché l’obbligo della significazione, e
prendendo come modello teorico di riferimento proprio la pittura astratta, che
Ginna era stato tra i primissimi in Europa a praticare con il quadro
Nevrastenia del 1908, B. CORRA introduceva il volume del fratello. Cfr. ivi
pp. 235-236.
63
Il tono umoristico di Ginna comunque taglia fuori ogni possibilità di proto-
surrealismo e meno ancor di metafisica, malgrado una ricorrente insistenza
sull’irrigidirsi in forma di manichino dei corpi, siano quelli dei piccoli che
degli adulti: un più evidente rimando è a Palazzeschi, e più in generale al lato
iconoclasta e buffonesco di certo Futurismo. In particolare, il capitolo
intitolato I bimbetti vanno dai loro nonetti mostra una evidente filigrana di
Controdolore, con l’invenzione dei fanciulli che vanno nel cuore della notte a
far visita ai loro nonni morti e li coinvolgono nei loro allegri girotondi in un
camposanto travestito da campo giochi.

272
letteratura della trasgressione64, Rosemary Jackson evidenzia come
l’opera del reverendo di Christ Church sia interamente percorsa da un
fortissimo interesse per il mondo della significazione e della logica, e
al tempo stesso dal rifiuto per gli elementi violenti e amorali del
fantastico. Il nonsense, tra tutte le forme di letteratura fantastica, è la
più altamente organizzata e razionale, non sorprende che sia diventato
tanto popolare presso la classe media vittoriana. Parimenti questi libri,
pur essendo privi della densità simbolica riscontrabile nel Codice di
Perelà e ne L’Ellisse e la Spirale, appaiono ricchi di una fredda
sistematica del paradosso, di una allenata consuetudine all’etero-
geneo; ci portano, inoltre, in direzione dell’antiletterarietà, anzi della
«villania stilistica» di cui Corra fa professione nella prefazione a
L’Isola dei baci (romanzo definito «erotico-sociale», scritto nel 1918 a
quattro mani con Marinetti), all’intendimento non problematico di
«divertire» cui sarà in seguito improntata sempre più la sua prolifica
attività di romanziere. Infatti, per quanto nella pagina introduttiva a Le
locomotive con le calze Corra indossi ancora tardivamente i panni del
sostenitore acceso del «più radicale rinnovamento che mai si sia
compiuto nel campo delle ricerche artistiche»65, in realtà l’arco
cronologico non ampio tra quest’ultimo scritto e la prefazione alla
seconda edizione del Sam Dunn di cui s’è detto, appena due anni,
vede appunto in lui l’involuzione da una impostazione dichia-
ratamente di ricerca, a quella del più corrivo disimpegno. Convertitosi
al progetto di diventare scrittore di successo, progetto per altro
destinato a una realizzazione assai incompleta, il conte Corradini si
limitò a produrre racconti occhieggianti in parti eguali alla tendenza
umoristica e all’ammiccamento erotico.
In Sam Dunn il fantastico non si manifesta, pur stazionando quasi
in una continua imminenza, per un motivo diverso, ma non troppo, da
quello che esclude il surrealismo dall’orizzonte del fantastico: ba-

64
Cfr. R. JACKSON Fantasy: the literature of subversion, London & New
York, 1981, trad. it. Il fantastico. La letteratura della trasgressione, Napoli,
Pironti 1986, pp. 135 e ssg. Va aggiunto per inciso che Alice nel paese delle
meraviglie, uscito nel 1865, fu tempestivamente tradotto anche in italiano già
nel 1872, in una edizione stampata a Londra, con traduzione di T. Pietrocola-
Rossetti e supervisione dell’autore, e riedito poi nel 1908 nella traduzione di
Emma Cagli, mentre Attraverso lo specchio (in originale 1872) usci a Milano
solo nel 1914.
65
B. CORRA Prefazione in A. GINNA Le locomotive con le calze, cit. p.
235.

273
sandosi ancora sul criterio todoroviano, la Jackson afferma che «la
letteratura surrealista è molto più vicina al meraviglioso poiché il
narratore stesso si trova raramente in una posizione di esitazione. Gli
avvenimenti straordinari raccontati non sorprendono il narratore –
infatti egli se li aspetta e li registra con blanda indifferenza e una certa
neutralità»66. Abbiamo già notato come il narratore di Sam Dunn non
esiti perché per lui l’incredibile è ormai realtà indiscussa. Ben lungi
da essere – come spesso si ripete67 – anticipazioni del surrealismo, in
quanto non basta la comune curiosità per l’occulto (peraltro assai
diffusa nel primo Novecento) a fare di Corra e Ginna dei precursori di
Breton e Aragon, le loro opere appaiono piuttosto l’applicazione
metodica di una poetica preesistente, anteriore allo stesso futurismo,
improntata a un rigore quasi matematico. Lo sforzo di trovare con-
tinue invenzioni sorprendenti, di costruire il libro a tavolino, ap-
parenta infatti l’opera di Corra alla poetica barocca della meraviglia,
accostamento spesso sollevato a proposito del futurismo, tra gli altri
da Gianni Scalia, seppur mai in questo particolare contesto, dove
appare particolarmente giustificato.
Contesto che comprende numerosi libri apparsi nelle edizioni
fiorentine de «L’Italia Futurista» come Montagne trasparenti di Maria
Ginanni, Mascherate futuriste di Settimelli, Retroscena e le Notti
filtrate di Mario Carli, Le locomotive con le calze di Arnaldo Ginna, e
naturalmente proprio Sam Dunn è morto; peccato però che spesso al
di là del catalogo non si vada, dimenticando quanto questa fioritura di

66
R. JACKSON Il fantastico, cit. p. 33.
67
Ne discorre anche, sia pur con maggiore cautela e con più convincenti
argomentazioni, A. BERTONI nel suo Elementi del futurismo emiliano-
romagnolo, dove si legge tra l’altro: «Non è affatto da escludere che il
futurismo “eretico” (rispetto alla cognizione anche oggi più diffusa del
movimento futurista) di Ginna e Corra rappresenti in realtà un antefatto
dell’evoluzione storica delle avanguardie tutt’altro che trascurabile. E questo
non solo in qualità di anticipazione più o meno consapevole del movimento
dada o di quello surrealista, ma come potenzialità ricostruttrice di un’an-
tropologia nuova del fare letterario», cfr. p. 257. E ancora: «Sul versante
storico letterario, Sam Dunn è morto ha agito anche sulle prose narrative di
Tozzi e di Govoni, senz’altro significanti nel processo che, nell’immediato
dopoguerra, conduce dal “frammentismo” vociano alla rinascita di forme
letterarie più articolate, fino poi alla riscoperta solariana del romanzo».
L’allusione è naturalmente al Tozzi di Bestie, del 1917, e al Govoni de La
Santa verde, 1919.

274
testi continui il lavoro e le condivise premesse teoriche del gruppo,
entrambi provenienti da un ambito indipendente dalla meditazione
marinettiana. Nel nostro caso, insomma, la canonica distinzione tra
futurismo milanese, macchinista e industriale, e futurismo fiorentino,
lacerbiano, ironico e fantastico, risulta solo fuorviante, in primo luogo
perché lo stesso futurismo fiorentino ebbe due anime tra loro ne-
miche, quella presto transfuga di Papini Soffici e Palazzeschi, e quella
più tardiva ma di lungo corso guidata da Settimelli, Carli e i fratelli
Corradini, in secondo luogo perché il gruppo in questione, pur
continuando a aver sede in Toscana, si fuse profondamente con l’uni-
verso concettuale dei milanesi. Inoltre, l’avversione ai lacerbiani era
tanto decisa che, per reazione, sulle pagine de «Il Centauro» (la rivista
nata a raccogliere l’eredità de «La difesa dell’arte», e vissuta per 14
numeri dal 3 novembre 1912 al 9 febbraio 1913) il movimento fu-
turista non veniva trattato con particolare simpatia o indulgenza, anzi
ne venivano criticati recisamente l’attivismo politico, il programma di
abolire tutta l’arte passata, nonché la prassi parolibera. Invece, subito
dopo la celebre polemica Papini-Boccioni, da cui fu segnata la sorte di
«Lacerba»68, i fratelli Corradini poterono porsi come trait-d’union tra
Settimelli e Marinetti, e riunire i due gruppi. Unendoli fra l’altro
grazie al teatro, a quel teatro di varietà cui Marinetti proprio pochi
mesi prima (21 novembre 1913) aveva dedicato forse il più lun-
gimirante dei suoi scritti programmatici, mentre Settimelli e Corra in
settembre davano vita alla «Grande Compagnia Drammatica»,
debuttando a Palermo proprio con un suo testo, Elettricità.
Fu lo stesso Marinetti, così come aveva fatto con il concetto di
«simultaneità» coniato da Boccioni, ad appropriarsi dell’ipotesi di la-
voro critico-ideativo settimelliana (definita “teoria della valutazione
del pensiero”) attorno alla quale si era riunito il gruppo cerebralista, e
a caldeggiarne la stesura in forma di manifesto. La si può sintetizzare
così: il pensiero, in quanto costruzione di immagini, concetti, col-
legamenti, è una forma di lavoro, e dunque necessita di energia,
energia tanto maggiore quanto più ampio è l’intervallo coperto. Il
valore di un pensiero, e di un’opera come insieme di pensieri, sarà di

68
I due cruciali articoli, Il cerchio si chiude di Papini, del 15 febbraio 1914, e
la risposta polemica di Boccioni Il cerchio non si chiude!, del 1 marzo
seguente, di cui abbiamo parlato nelle parti iniziali di questo studio, si
possono leggere affrontati nell’antologia curata da L. DE MARIA Marinetti e
i futuristi, cit. pp. 278-285.

275
conseguenza misurabile in base alla sottigliezza dei nessi rinvenuti o,
per dirla con Settimelli, delle “scoperte” effettuate. Perciò, una volta
che sia stato stabilito un criterio numerico assoluto, estraneo a ogni
considerazione di tipo estetico-soggettivo, ogni opera sarà matema-
ticamente valutabile, e di conseguenza prezzabile. La tesi, che
presenta ascendenze simboliste e positiviste in una imprevedibile
seppur equilibrata convivenza, sposata precocemente (già nel 1912)
da Corra, il quale vi dedicò un saggio intitolato Il Liberismo, abil-
mente riciclata e modernizzata due anni dopo dallo stesso Corra e da
Settimelli nel manifesto futurista Pesi prezzi e misure del genio
artistico, spiega la bizzarria di Sam Dunn è morto e dei testi con-
comitanti molto più che una generica e indimostrabile “anticipazione”
del surrealismo.
Leggiamo alcuni punti del manifesto:

Non c’è nessuna diversità essenziale tra un cervello umano e una


macchina. [...] Un cervello d’uomo è un apparecchio molto più complicato. I
rapporti logici che lo governano sono numerosi. Essi gli sono stati imposti
dall’ambiente in cui s’è formato. Il ragionamento è un’abitudine di con-
catenare le idee in un certo modo [...].
Il bello non ha niente a che fare con l’arte [...]. L’emozione è un carattere
accessorio dell’opera d’arte, può esserci e può non esserci, varia da individuo
a individuo e da momento a momento [...]. Unico criterio uguale per tutti: il
valore, determinato dalla rarità necessaria [...] la quale non è un’opinione.
Nel campo intellettuale la rarità necessaria (non casuale) di una creazione è
in proporzione diretta con la quantità di energia occorsa a produrla69.

A questo punto entra in campo la figura del «misuratore» futurista,


al quale spetterà di abolire tutte le forme di superbia e modestia,
rilasciando persino «tessere di imbecillità, di mediocrità e di genialità
da allegarsi ai documenti di riconoscimento personale», ruolo che
spesso Marinetti rivestì in prima persona, compilando scrupolose
misurazioni futuriste di opere letterarie e drammatiche. Ma, assai più
importante,

l’azione del misuratore futurista avrà come effetto immediato la


sistemazione definitiva dell’artista nella società. L’artista geniale è stato ed è

69
B. CORRA – E. SETTIMELLI Pesi, prezzi e misure del genio artistico,
ora in M. VERDONE (a cura di) Prosa e critica futurista, Milano, Feltrinelli
1973, pp. 276-277.

276
ancora oggi socialmente uno spostato. Ora il genio ha un valore sociale,
economico, finanziario. L’ingegno è un genere attivamente richiesto su tutte
le piazze del mondo. Il suo valore è determinato, come per ogni altra merce,
dalla rarità necessaria. [...] Il produttore di forza creatrice artistica deve
entrare a far parte dell’organismo commerciale che è il muscolo di tutta la
vita moderna. Il denaro è uno dei punti più formidabilmente e brutalmente
solidi della realtà [...]70.

Quest’ultimo aggancio alla realtà commerciale moderna, con


l’utopia dell’integrazione definitiva degli artisti, è probabilmente il
maggior tributo pagato dagli autori a Marinetti nell’arco del
manifesto, dove peraltro si abbracciano anche l’antipassatismo inte-
grale e la teoria parolibera. Ma se ora torniamo alle pagine di Sam
Dunn è morto, possiamo facilmente spiegarci la sua struttura cata-
logica, il suo essere assemblato intorno a due fuochi non narrativi
quali la grande fantasmagoria d’immagini di Parigi impazzita e la
comica inverosimiglianza del Portorosa hotel con i suoi assurdi
gestori e frequentatori e gli ancora più assurdi rituali. Di fatto, Sam
Dunn è morto è la più razionale celebrazione della pazzia che si possa
immaginare. E il manifesto chiosa il racconto: presentando il cavalier
Santerni, Corra gli attribuisce una delle sue idee forti: «La sua idea era
chiara: quanto più un genere è raro, tanto più viene apprezzato e
pagato – bisogna eliminare la concorrenza» (p. 155). Più tardi, quando
già l’hotel ha aperto i battenti, si legge: «dopo qualche mese la
clientela del cav. Angelo (la pazzia del quale, indubbiamente già
abbastanza interessante, andava sempre più complicandosi) si trovò
ad essere composta quasi esclusivamente di tipi stravaganti, di mezzi
détraquès o anche di autentici dementi» (p. 161).
Il manifesto monetizza l’encomio, abbastanza di maniera tra Otto e
Novecento, del folle: «è tempo che anche della pazzia (sconvol-
gimento di rapporti logici) si faccia un’arte cosciente ed evoluta. Un
individuo che riesca a costruire nel proprio cervello una pazzia
complicata, assume un valore. Un buon pazzo può valere migliaia di
franchi»71.

70
Ivi, pp. 281-282.
71
Ivi, pp. 281. Senza andare molto lontano (la pazzia è un tema fortunato fin
dal Romanticismo) anche Buzzi nella prefazione-dedica a Marinetti de
L’Ellisse e la Spirale scrive «Comunque, se l’opera è folle, appunto per
questo so che tu, non a torto, le vorrai un bene più grande. L’arte fugge ormai
la saggezza come l’aeroplano in carica fugge il terreno», e i pazzi sono

277
Insomma, nei romanzi e racconti del secondo futurismo toscano
non c’è nessuna logica onirica, nessun automatismo psichico, nessuna
voce dell’inconscio, ma soltanto una ben consapevole soppressione
dei legamenti logici e causali, alla ricerca della più alta valutazione di
mercato possibile. E dalla sua cultura di occultista, eccetto avva-
lersene come spunto tematico, Corra non prende altro, anzi fa molta
attenzione a non venirne influenzato: a differenza di tante pagine de
L’Ellisse e la Spirale, rese impenetrabili dal nefasto connubio di sim-
bolismi e retorica, quelle di Sam Dunn mantengono dall’inizio alla
fine una clarté quasi settecentesca. Mentre per Buzzi il fantastico era
stato una comoda veste allegorica di cui rivestire il suo apologo sulla
parabola del futurismo, in Corra diventa sottoprodotto di una poetica
iper-razionale, quasi conseguenza inevitabile ma non sostanziale. In
questo senso si può leggere anche il finale del romanzo:

Il mutamento continuo da uno stato più semplice a uno stato più


complesso è una fatalità della vita. Dato lo stadio di evoluzione a cui siamo
giunti non sarà possibile evitare che la compagine della nostra vita venga, a
breve scadenza, sgretolata, fluidificata e liricizzata da una invasione di
energie fantastiche. Questa che io faccio è una facile profezia. La rivoluzione
fantastica di Sam Dunn non è stata che un’avvisaglia. Noi viviamo sopra una
polveriera di fantasia che non tarderà a scoppiare. (p. 171)

Purtroppo Corra era nel giusto, aveva assai più ragione di quanto
potesse immaginare. La polveriera di fantasia, in quel fatale 1914, era
l’Europa, e davvero non avrebbe tardato a scoppiare. Il fantastico,
inteso come “letteratura del desiderio”, e la letteratura tutta, non può
far altro che manifestare o espellere una pulsione, affermarla rico-
noscendola o negarla, assai difficilmente può reprimerla, specie se
riguarda milioni di uomini, un’intera generazione. Così, parafrasando
la celebre proposizione di von Clausewitz, almeno in questo caso, la
guerra fu la prosecuzione della letteratura, con altri mezzi.

protagonisti attivi di uno degli incunaboli del futurismo, il manifesto


Uccidiamo il chiaro di luna! (1909). Sullo sfondo, naturalmente, sta il grande
archetipo di Nietzsche che sprofonda nella demenza a Torino.

278
LUIGI WEBER

Il Doppio della critica: Savinio e Maupassant


in Maupassant e l’Altro

1. Di una strana predilezione

C’è in Savinio, in questo straordinario ulisside dell’intelletto dal


talento polútropos, tanto per riprendere un epiteto omerico che non gli
sarebbe dispiaciuto vedersi attribuito, almeno una frase “famosa”, e
non si tratta di una dichiarazione di poetica. Non si tratta, insomma,
della nota presa di distanza dal Surrealismo che si legge nella pre-
fazione di Tutta la vita, bensì di poco più che una battuta, citata dagli
studiosi spesso quasi come un motto di spirito particolarmente arguto.
Peraltro, proprio la sua relativa marginalità, e all’inverso l’alta fre-
quenza di arguzie nel corpus saviniano, dovrebbero spingere a
interrogarsi sul perché quella frase ritorni così di frequente nell’ancor
giovane bibliografia critica della tardiva – chiamiamola così –
Savinio-Renaissance1.
La frase in questione si trova in Scatola sonora, per la precisione
alle soglie della sezione intitolata Concerti all’Adriano: «Chi ha detto
che la sola funzione della critica è di criticare? La critica ha una
funzione molto più importante, che è di inventare»2. Il contesto im-
mediato, per quello che qui conta, è costituito dalla prima romana
della sinfonia di Dmitrij Šostakovič intitolata all’assedio e alla
liberazione di Stalingrado. Savinio pone questa cauda sorprendente in
margine all’osservazione che forse il compositore non aveva pensato
affatto tutto ciò che gli interpreti leggevano nel suo poema or-
chestrale. Dunque la successione logica del ragionamento saviniano
comprende per così dire un dubbio, un momento di scetticismo nei
1
Che proprio quest’anno festeggia il suo trentennale, se vogliamo apporvi
come data inaugurale o terminus post quem il bel contributo sanguinetiano al
convegno sul surrealismo del ’73 (Alberto Savinio, in AA.VV. Studi sul
surrealismo, a cura di F. MENNA, Roma, Officina 1977, ora in E.
SANGUINETI La missione del critico, Genova, Marietti 1986), oppure la
prima monografia di U. PISCOPO, Milano, Mursia 1973.
2
A. SAVINIO Scatola Sonora, Torino, Einaudi 1971, p. 301. La prima
edizione di Scatola Sonora uscì nel 1955 a Milano presso Ricordi con una
introduzione di Fausto Torrefranca.

279
confronti della funzione esegetica dei critici musicali, cui si oppone
subito dopo la riaffermazione del diritto a una sorta di licenza poetica
anche per il commentatore. Savinio parla di “invenzione” in senso
strettamente nobilitante, questo è fuor di dubbio.
Ma l’incertezza non deriva dal passo citato, deriva piuttosto
dall’uso che se ne è fatto fino a oggi. Anche alcuni tra i più acuti e
partecipi interpreti della sua opera, quali Sanguineti o Alfredo
Giuliani in Autunno del Novecento3, riportano questa frase con una
condiscendenza che Savinio non merita, o peggio con simpatia, che è
un magnifico sentimento umano ma non dovrebbe aver peso alcuno
nell’esercizio dell’analisi letteraria. Perché la sensazione, nitida, è che
da un lato la critica saviniana esponga questo tassello estrapolandolo
senza alcuna considerazione della sua origine, e godendolo proprio
come un motto di spirito, come a rappresentare quant’era dotato di
ironia il geniale Dioscuro minore (e, implicitamente, rimarcando in
maniera meno bonaria che invece il lavoro critico è serio assai, e solo
a un artista si può permettere tanta irriverenza), dall’altro facendosene
scudo, chiedendo venia per interposta parola di certe proprie arditezze
ermeneutiche. In un caso e nell’altro, è stata trascurata una terza pos-
sibilità, forse non irrilevante: che cioè Savinio stesse parlando non
d’altri, non intendesse svalutare né viceversa fornire alibi al lavoro di
chicchessia, ma piuttosto volesse riferirsi precisamente a se stesso, al
proprio universo di scrittore.
Torniamo allora a Scatola sonora, ai Concerti all’Adriano, e
allarghiamo un po’ l’obiettivo della contestualizzazione: il brano su
Šostakovič non è datato, ma fa parte di un gruppo di venti recensioni
scritte tra il luglio del ’40 e il maggio del ’43. Malgrado la sua po-
sizione liminare induca a supporre una priorità cronologica, in realtà il
breve testo incorpora una allusione alle V1 tedesche che obbliga ad
attribuirlo agli anni terminali del conflitto. Più il ’44 che il ’40,
insomma. E proprio a Roma nell’aprile del ’44, per sua esplicita
ammissione, Savinio scrive Maupassant e l’Altro, che sarà oggetto
del nostro discorso4. Ma in quegli anni, come ognun sa, compone
3
A. GIULIANI Qualche libro di Savinio (è una recensione a Scatola sonora)
in ID. Autunno del Novecento, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 71-77.
4
A favore dell’ipotesi di datazione tarda (post maggio ’43) del brano su
Šostakovič depone anche la seguente frase: «[il] suono […] un giorno diverra
corpo e sopra l’orchestra raccolta sul palcoscenico dell’Adriano noi vedremo
i suoni formarsi, confondersi e svanire in una plastica sonora», cfr. A.
SAVINIO Maupassant e l’Altro, Milano, Adelphi 1995 [d’ora in poi si citerà

280
molti dei suoi libri più famosi, ancora impostati sul tema, per lui
irrinunciabile e quasi ossessivo, dell’identità5, finalmente capovolta
sul binario speculare del bíos: dopo aver licenziato infatti nella prima
parte della sua carriera letteraria scritti di natura prettamente auto-
biografica, come Hermaphrodito, Tragedia dell’infanzia e Infanzia di
Nivasio Dolcemare, che è del ’41, a partire dal ’42 dà alla luce i
medaglioni di Narrate, uomini, la vostra storia, nel ’43 la Vita di
Enrico Ibsen, e l’anno successivo finalmente Maupassant e l’Altro. E
se l’egotismo rimane in primo piano, grazie alle passeggiate
stendhaliane che si leggono in Dico a te, Clio (1940) e Ascolto il tuo
cuore, città (1943), è anche vero che il Savinio biografo di uomini
illustri non fa distinzione, come suo solito, tra il raccontare la vita
d’un uomo e quella d’una città (Milano) o di una regione (l’Abruzzo,
l’Etruria). Sono gli anni in cui, osserva giustamente Alessandro
Tinterri nel suo breve ma stimolante libretto Savinio e l’Altro6,
Savinio cerca – lo ammetterà egli stesso anche con un magnifico
disegno che entra nel testo della Vita di Enrico Ibsen – di «farsi degli
amici».
A Maupassant e l’Altro, in particolare, che molto più della Vita di
Enrico Ibsen è un evidente prolungamento dei racconti di Narrate,

direttamente nel testo con la sigla MA e il numero di pagina], p. 38. Frase da


cui si evince, per via congetturale, che ancora nell’aprile del ’44, mentre
lavora su Maupassant, Savinio considera le sue esperienze come recensore
dei concerti all’Adriano in un’ottica di assoluta contemporaneità. Lo scritto
sul narratore francese comparve come introduzione dell’antologia Venti
racconti di Guy de Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savinio, Roma,
Documento Editore 1944, e solo nel settembre del 1960 fu ristampato con
l’attuale titolo a Milano, numero XLVII della collana mondadoriana del
Saggiatore. La breve nota introduttiva di quel volume oggi si trova raccolta in
G. DEBENEDETTI Preludi. Le note editoriali alla «Biblioteca delle
Silerchie”, a cura di M. GULINUCCI, introduzione di E. Sanguineti, Roma-
Napoli, Theoria 1991, pp. 127-129.
5
«Ecco il profondo e autentico dramma di Savinio – scrive Maurizio Calvesi
– del diviso, del senzacasa e senzapatria, tra la Babele delle lingue, in cerca
della propria identità, nostalgico dell’Androgino e di Noé, dell’essere
perfetto, l’opposto della cilindrica torre di Babele, come babelico nei diversi
linguaggi è il suo stesso, sconsolato-ironico romanzo. Contrariamente a
quanto si crede, Hermaphrodito non celebra l’unità del franco-italiano, ma
depreca la fatale dissociazione del linguaggio». Cfr. M. CALVESI La
Metafisica schiarita, Milano, Feltrinelli 1982, p. 131.
6
A. TINTERRI Savinio e l’Altro, Genova, Il Melangolo 1999.

281
uomini, la vostra storia, pare attagliarsi la formula di “critica
d’invenzione”, intesa proprio nel senso di una finzionalità letteraria
capace di curvarsi sulle sue fonti ispiratrici apportandovi un’il-
luminazione interpretativa. In tale accezione, la messa in intreccio si
dimostrerebbe modalità euristica. Forzando forse la mano a Giacomo
Debenedetti, potremmo risemantizzare la sua celebre idea di «rac-
conto critico» come proposta classificatoria per questo testo di
Savinio, definito fin dalla quarta di copertina adelphiana «felice e
inafferrabile». E peraltro si deve proprio alla debenedettiana
«Biblioteca delle Silerchie» la scelta di editarlo come opera a sé, in
una collana anfibia che teneva un piede sul terreno solido della
saggistica e l’altro nell’acquea indistinzione del letterario.
Il problema di una collocazione di genere – racconto o saggio? – è
il primo in effetti che ci si propone, sebbene gli studiosi, pur
tributando unanimi riconoscimenti alla scintillante intelligenza che
pervade questo scritto, si siano di rado interrogati sul suo corredo
genetico e sulla sua appartenenza sistemica. Depistati forse da due
dettagli non sottovalutabili: il primo sta nella genesi prettamente
funzionale, vale a dire l’esser nato come introduzione per una anto-
logia di racconti maupassantiani (il che spiegherebbe anche il taglio
discorsivo e divagante, sebbene lo sternismo della divagazione
annoveri in Savinio uno dei suoi maggiori esponenti moderni, e meriti
una più riposata analisi). Il secondo è che la tipologia di Maupassant e
l’Altro presenta una peculiarità importante, rispetto a tutti gli altri
scritti del periodo, cioè un imponente corredo di note. Ben centouno,
nel complesso ampie poco meno della metà del racconto vero e
proprio. Con ogni probabilità ciò è bastato come riconoscibile stemma
araldico d’appartenenza al regno della saggistica, pur intesa in senso
lato, come un poligrafismo da essay montaignesco, fecondissimo ma
non rigoroso né accademico. In realtà il caso Gadda basterebbe a
dimostrare che la nota a piè di pagina non inficia anzi moltiplica la
natura narrativa di un testo, è cioè il luogo dove la scrittura tracima
nelle sue risapute incontrollabili piene e insieme intraprende percorsi
alternativi; evidentemente, però, ciò che è troppo noto in Gadda non
vale altrettanto per Savinio. Ad ogni modo, l’aderenza scrupolosa e
ben documentata di Savinio alle più importanti biografie dello
scrittore francese, da quella di Paul Morand a quella come si dice «da
spogliatoio» del fedele domestico François Tassart, contribuì
ulteriormente a spostare l’ago della bilancia verso il sottogenere della

282
vita romanzata. Un modo perfetto per rimanere nell’ambiguità, con
una formula di compromesso che non soddisfa affatto.
Dunque, che cos’è Maupassant e l’Altro?
La risposta – una possibile risposta – la offre, enigmatica e lim-
pidissima, una e molteplice, l’autore stesso, nel testo che imme-
diatamente precede questo e che per tanti versi lo prepara, la Vita di
Enrico Ibsen:

Perché si scrivono le biografie? […] La biografia per noi è un gioco


segreto. Noi scriviamo di tanto in tanto anche delle biografie per desiderio di
compagnia: per farci un gruppo di amici; per aumentare il numero dei nostri
figli… Dico bene: per aumentare il numero dei nostri figli7.

Savinio pare insomma propendere, senza problematizzare, per la


biografia. Ma perché mette sullo stesso piano «figli» e «amici»? Ed è
davvero tutto qui? Se l’amicizia e perfino il colloquio fantasmatico
ma intensamente vissuto con i grandi uomini del passato è un topos
fin troppo classico in una letteratura nazionale che ha avuto, per non
dir d’altro, la lettera a Francesco Vettori, e la sbiadita metafora dello
scrittore che considera e ama i suoi libri alla pari della prole non pare
certo degna di considerazione, nondimeno dobbiamo stare attenti:
come al solito Savinio sta confondendo le carte, per non far capire – o
magari per far capire meglio, con l’efficacia dello spiazzamento – che
di relazioni emozionali in genere, e familiari in particolare, sarà
davvero il caso di parlare per comprendere il suo scritto. Solo, non di
quelle orizzontali e paritarie come l’amicizia, né di quelle verticali e
gerarchiche del tipo genitori-figli, salvo nell’eventualità che si sia
pronti, con perfetta logica simmetrica, a rovesciarle incessantemente.
In realtà il duplice asse, incompatibile e proprio per ciò prescelto,
come Savinio ama fare, su cui sia la Vita di Enrico Ibsen sia Maupas-
sant e l’Altro si strutturano, è in orizzontale quello istituito tra fratelli,
e in verticale quello che risale dal figlio al padre. Anzi, più spesso, dal
figlio alla madre.

7
Cfr. A. SAVINIO Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi 1998 [da qui in poi
si citerà direttamente nel testo con la sigla VEI e il numero di pagina], pp. 61-
62. Lo scritto apparve originariamente in sei puntate sul periodico «Film»
(nn. 20-22-24-26-28-30) dal 15 maggio al 24 luglio 1943.

283
2. Tentativi di classificazione

Se è così difficile definirlo, come sembrerebbe stando alle parole


di Filippo Secchieri, il quale peraltro è – a nostro modo di vedere –
l’interprete che più di tutti si è approssimato alla reale decodifica di
questo piccolo capolavoro, e che pure procede solo per via negativa,
accumulando opzioni scartate in un ritratto di sottrazione da cui tutte
le vie sembrano precluse8, non sarà forse perché la sua natura
mercuriale attraversa i generi e li gioca l’uno contro l’altro? E una
così semplice constatazione dovrebbe spingerci a rinunciare? Il fatto
che non esista un’etichetta univoca da apporvi, che nessuna singo-
larmente lo esaurisca, non è in realtà una caratteristica tipica di gran
parte della migliore modernità, che è l’epoca nella quale i generi non
tengono più? E dire che lo stesso Secchieri cita questa luminosa mas-
sima di Savinio:

Si tratta di togliere al cervello la sicura del domma e dei principii posti


una volta per sempre e imprimergli quel moto rotatorio che di ogni cervello
fa un macinino di idee9.

«Non biografia parziale né semplice interpretazione critica di


Maupassant, ma neppure autoritratto o trasposta autobiografia»,
afferma Secchieri. Purtroppo, non siamo d’accordo. Si tratta eccome
di una biografia, ed è anche un’interpretazione critica, per non parlare
di quanto giunga prossima allo statuto di autoritratto o trasposta
autobiografia. Ecco un primo paradosso da “macinare”. Come è pos-

8
«E’ senza dubbio più agevole dire cosa il Maupassant non è piuttosto che
azzardare una convenzionale definizione della sua singolarità: non biografia
parziale né semplice interpretazione critica di Maupassant, ma neppure
autoritratto o trasposta autobiografia di Savinio, non reinvenzione funzionale
né ironica elusione della referenzialità annunciata nel titolo». Cfr. F.
SECCHIERI Dove comincia la realtà e dove finisce. Studi su Alberto
Savinio, Firenze, Le Lettere 1998, p. 126. Devo al libro nel complesso, e a
questo capitolo in particolare, già apparso con il titolo di Savinio “critico
fantastico” sul numero monografico della rivista «Stazione di posta» (n.
51/52, gennaio-aprile 1993), la messa a fuoco finalmente soddisfacente di
alcuni punti cruciali del lavoro di Savinio.
9
Sono parole tratte da un articolo del 1946 intitolato Contro il fanatismo, ora
in A. SAVINIO Opere. Scritti dispersi fra guerra e dopoguerra (1943-1952)
a cura di L. SCIASCIA e F. DE MARIA, Milano, Bompiani 1989, p. 349.

284
sibile una tale coesistenza, se pare assodata e condivisa l’opposizione
netta fra «ottica autobiografica» e «ottica biografica»?10 Del-
l’autobiografia Savinio aggira la strutturale incompiutezza (l’im-
possibilità di dire la propria morte, e spesso anche la propria nascita)
grazie al racconto di quelle maupassantiane, e solo in questo par-
ticolare racconto la cosa, assurda di per sé, assume un significato; ma
lo vedremo più avanti. Inoltre incrocia senza pausa i metodi di lavoro
tendenzialmente opposti dei due generi (il biografo si basa sui do-
cumenti, l’autobiografo sulla memoria, Savinio su entrambe), e cede a
ogni piè sospinto a due tentazioni tipiche di chi scrive la propria vita,
ossia quella di ignorare la scansione cronologica, e quella di con-
taminare verità e finzione.
Beninteso, Secchieri ha una larga parte di ragione, Maupassant e
l’Altro non è solo questo. Ma allora, proviamo a ribaltare il pro-
cedimento, e con lo stesso buon diritto che fa negare una verità as-
sodata solo in quanto parziale, non esaustiva, affermiamo altrettante
verità consapevolmente incomplete, e chissà che l’area complessiva di
questo scritto, apparentemente tanto breve, non venga finalmente tutta
a ripararsi sotto un adeguato ombrello definitorio.
Per esempio, potremmo dire che in Maupassant e l’Altro Savinio
ci offre un inusitato esempio di Bildungsroman. Certo il
Bildungsroman in senso classico effettua, ben lo ha spiegato Franco
Moretti in un libro famoso11, una sintesi del conflitto tra l’ideale
dell’autodeterminazione e le esigenze della socializzazione, e dunque
in questo racconto si dovrebbe scorgere una precisa Bildung a
rovescio, ovvero il processo non di formazione di un uomo e di un
artista che decide di reprimere l’irrequietezza giovanile abbracciando
il senso di appartenenza a una comunità, bensì quello del suo pro-
gressivo disfacimento, fino allo sprofondare a testa bassa nel-
l’indistinta tenebra della follia. Ma Savinio fa ben di più che ribaltare
la vettorialità di un modello culturale, peraltro da tempo superato. Ne
10
A tutt’oggi il miglior testo italiano sull’autobiografia resta A. BATTISTINI
Lo specchio di Dedalo, Bologna, Il Mulino 1990, ma cfr. anche AA.VV.
Scrivere la propria vita. L’autobiografia come problema storico e critico a
cura di R. CAPUTO e M. MONACO, Roma, Bulzoni 1997. Si veda in
particolare F. D’INTINO I paradossi dell’autobiografia, ivi.
11
F. MORETTI Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti 1986. Scrive
Moretti: «Nella retorica temporale del Bildungsroman […] l’anelito
soggettivo al senso si risolve senza residui nella legislazione oggettiva della
causalità», cfr. p. 114.

285
inverte i valori. Infatti, il rovesciamento autentico sta nel considerare
questo iter malgrado tutto come ascensionale e progressivo. Il lettore
incontra fin dalle prime pagine una singolare insofferenza verso il
Maupassant realista, una considerazione quanto mai bassa del
personaggio e dello scrittore, riequilibrata soltanto dalle sue prove più
inquietanti e allucinate, racconti come Sur l’Eau, Qui sait? e na-
turalmente Le Horla12. L’incesso verso la demenza, si vuol dire, è
davvero narrato come una formazione, e anzi tutto il racconto critico
saviniano si imposta su questa scoperta di una alterità radicale che
sconvolge un comune io borghese e ne fa una sorta di re dei folli, un
principe lunatico della dissipazione per il quale, viceversa, le lodi non
mancano davvero13. Sconfessato qualsiasi principium individuationis
12
Ecco alcuni luoghi esemplari (il catalogo tuttavia sarebbe assai più ampio):
«i contes di Maupassant danno la stessa impressione di chiuso, di “non poter
scendere» che danno gli scompartimenti ferroviari […] anche dai contes di
Maupassant si esce con quella medesima fretta, con quel medesimo senso di
liberazione con cui si esce da un treno» [MA p. 34] – «Maupassant era
chiuso, era immerso come un bottinaio nella materia dei suoi racconti. I suoi
racconti perciò sono veri, incontestabilmente veri, terribilmente veri, ma
passeggeri e mortali come gli uomini e le cose passeggere e mortali» [MA p.
103] – «A Maupassant la facoltà di ascensione manca» [MA p. 116] –
«Maupassant non ci ha dato voglia di lavorare» [MA p. 117] – «Perché
Maupassant ha una scrittura molto efficace, ma non è scrittore. Scrittore è
colui che dà peso e durezza di eternità a ogni suo periodo, a ogni sua parola.
Il periodo, la parola di Maupassant servono al momento e subito dopo
muoiono» [MA p. 117] – «Uno scrittore mediocre» [MA p. 118]. A dir la
verità, questo atteggiamento non è peculiare al solo Savinio: nella vastissima
bibliografia scientifica dedicata al caso di Maupassant dalla psichiatria tardo
positivista francese, spicca un importante saggio del dottor Lucien Lagriffe,
comparso tra il 1908 e il 1909 sugli «Annales médico-psychologiques» (Guy
de Maupassant – étude de psychologie pathologique), che a lungo fece
scuola, e in cui per l’appunto si contrapponeva un Maupassant anteriore al
1890, osservatore senza immaginazione, a quello geniale ormai in preda al
male. Ancora nel 1929, Paul Voivonel e lo stesso Lagriffe pubblicarono il
libro Sous le signe de la P.G.:La folie de Guy de Maupassant, in cui
ribadivano tale valutazione critica. Per una scrupolosa ricostruzione dell’oltre
quarantennale interesse scientifico suscitato dal caso dello scrittore
normanno, si veda il documentatissimo scritto di C. A. MADRIGNANI Le
mal de Maupassant, in AA.VV. Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a
cura di A. DOLFI, Roma, Bulzoni 1993, pp. 213-234.
13
Analoghi esempi: «Il Maupassant numero due e poeta altissimo della
pazzia» [MA p. 83] – «Scrittore grandissimo questo, neppure i surrealisti

286
capace di rinsaldare nell’Io, affermandosi in pacifico accordo con il
principio di realtà, una condivisa stabilità di classe, in Maupassant
opera la moltiplicazione assoluta di sé, il cui telos è uno stato quasi
mistico di fusione con il mondo, come riportato in un impressionante
aneddoto risalente ai giorni del manicomio14.
Due in effetti sono i pilastri, naturalmente interdipendenti, di
questa singolare architettura narrativa, dissimulata sotto un impianto
erudito: riprendendo e amplificando una mossa identificatoria già
fortemente presente nella Vita di Enrico Ibsen, anche se ancora allo
stadio di figura retorica15, anzitutto si propone con assoluta disin-
voltura al lettore nientemeno che una continuità da metempsicosi tra
l’autore (Savinio) e l’oggetto del suo saggio (Maupassant).

Nivasio Dolcemare è la continuazione ineffabile di alcuni uomini che lo


hanno preceduto nel tempo […] citeremo soltanto i principali: Eraclito
d’Efeso, Platone, Luciano di Samosata, Voltaire, Stendhal, Achim von
Arnim, Federico Nietzsche. […] Il simile sarebbe capitato con Guy de
Maupassant, il quale morì nel 1893, ma “cessò di essere lui” due anni avanti,
nel 1891, cioè a dire nell’anno medesimo in cui Nivasio Dolcemare entrò
nella vita. [MA p. 14]

L’ipotesi di una trasmigrazione degli spiriti nobili, in realtà, non è


frutto integralmente saviniano. Compare già in un testo fondamentale
per il più giovane dei de Chirico, in particolar modo necessario per
capire Maupassant e l’Altro, vale a dire Ecce Homo, e in una forma
che pare plausibile intendere come anticipatoria. Nietzsche infatti af-
ferma:

La affinità con i propri genitori è minima: sarebbe il segno estremo della


volgarità essere affini ai propri genitori. Le nature superiori hanno la loro

ancorché così smaniosi di adozioni […] avrebbero trovato lo scrittore più


legittimamente surreale» [MA p. 119].
14
«Un giorno, passeggiando nel giardino della clinica in compagnia del suo
amico Bispalié, Maupassant prese un ramicello secco e lo conficcò nella nuda
terra d’inverno e disse con confidenza all’amico: “Piantiamo questo ramicello
e l’anno prossimo troveremo tanti piccoli Maupassant”. Ecco una nuova
versione del mito di Cadmo. Una versione da dottor Caligari» [MA p. 33].
15
«Più vado avanti a scrivere questa vita di Ibsen, più mi accorgo che
scrivendo la vita Ibsen scrivo la vita mia propria» [VEI, p.44] – «E’ ora di
confessartelo, Enrico: noi ci somigliamo. Ti dispiace se ti dico che siamo la
stessa persona?» [VEI, p.77] .

287
origine infinitamente più indietro, per arrivare a esse si è dovuto raccogliere,
risparmiare, accumulare come per nessun altro. I grandi individui sono i più
vecchi: non lo capisco, ma Giulio Cesare potrebbe essere mio padre – o
anche Alessandro, questo Dioniso in carne e ossa…16

In più, avvalendosi molto abilmente di una tecnica che potremmo


definire, rubando e alterando il termine alla filologia più specialistica,
di eco-schreibung, ossia di “scrittura a effetto d’eco”, Savinio imposta
il suo testo sulle personali ossessioni che hanno condotto Maupassant
alla follia, in particolare sulla paranoia e sul terrore dello sdop-
piamento. Propone in primo luogo se stesso – e questo è un rilievo che
manca in tutta la bibliografia critica – come l’Altro di cui si fa
menzione nel titolo. In secondo luogo, ed è un’altra mossa geniale,
costruisce il percorso testuale intorno a un passaggio di consegne tra
due soggetti diversi, tra «un Maupassant bianco e uno nero, tra uno
visibile e uno invisibile», vale a dire tra l’uomo in pieno possesso
delle sue facoltà mentali e quello del tutto spogliatone. Anche sotto
tale aspetto – torniamo a Moretti – siamo in un’ottica da
Bildungsroman straniato, non da semplice romanzo di iniziazione,
poiché in quest’ultimo esiste sempre una prova che funziona come
una frattura, istituisce un prima e un dopo azzerando il tempo, mentre
nel Bildungsroman non c’è soglia, solo compimento17. E non c’è
dubbio che nell’ottica di Savinio la vittoria del Maupassant “nero”
appaia appunto come un compimento. Preconizzata dal più che
illustre precedente di Nietzsche, appunto, che a sua volta per una o
forse due generazioni di europei è stato l’emblema di chi nella follia
trova la propria verità ultima. L’apparizione del Nietzsche di Ecce
Homo, apposto come vedremo sulla soglia dell’operetta, fornisce
un’indicazione di lettura molto precisa. Perché Ecce Homo è il testo in
cui il grande filosofo tedesco «prende congedo da se stesso»18. «Di-
ventare ciò che si è presuppone che non si abbia neppure una lontana
idea di ciò che si è»19, scrive Nietzsche.
Inoltre potremmo dire, con ancor più fondate ragioni, che
Maupassant e l’Altro è un racconto fantastico. Fantastico proprio nel

16
F. NIETZSCHE, Ecce Homo. Wie man wird, was man ist, 1888, trad. it.
Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Milano, Adelphi 1981, p. 22.
17
Cfr. F. MORETTI Il romanzo di formazione, cit. pp. 71-75.
18
E’ una espressione di R. CALASSO, tratta dal lungo saggio Monologo
fatale, in appendice all’edizione Adelphi di Ecce Homo.
19
F. NIETZSCHE, Ecce Homo, cit. p. 50.

288
senso rigoroso del termine, perfino in qualche modo todoroviano, se si
vuole. Racconto critico sì, ma fantastico. Prima però di spiegare cosa
si intende con la parola “fantastico”, che da trent’anni a questa parte –
un po’ come l’opera di Savinio – offre a una legione di studiosi
materiale per finissime discussioni, dobbiamo concederci una de-
viazione, e giustificare, non sembri scrupolo eccessivo, l’altra nozione
impiegata. Ossia quella di “racconto”.

3. Il racconto

Abbiamo utilizzato due categorie storico-formali proprie della


teoria narratologica e più in generale afferenti al macrogenere della
prosa d’invenzione: Bildungsroman e racconto fantastico. Ma non con
l’intento di procedere per definizioni generiche, per somiglianze
parziali o sensazioni epidermiche. Solo un accurato smontaggio della
macchina testuale costruita da Savinio permette di verificare se tali
formule sono state spese a cuor leggero o con cognizione di causa.
Maupassant e l’Altro si inaugura, se ci è concesso ridimensionare
metaforicamente un testo a un “percorso”, con tre passi in tre di-
rezioni diverse, incompatibili con qualsiasi riduzione a una strategia
comunicativa unitaria. I primi due, in particolare, sono stupefacenti:
abbiamo una sibillina citazione nietzschiana da Ecce Homo, secondo
la quale Maupassant era «un vero Romano»20, seguita, sempre in eser-
go, da un commento saviniano dove si sostiene che

20
«[...] per segnalarne uno della razza forte, un latino autentico al quale sono
particolarmente affezionato, Guy de Maupassant», cfr. F. NIETZSCHE, Ecce
Homo, cit. p. 41. Savinio afferma esplicitamente di aver letto Ecce Homo nel
1910, dunque nella prima versione italiana pubblicata a Torino dai Fratelli
Bocca con traduzione di Aldo Oberdorfer. Per spiegare questa espressione,
che Savinio dice di non comprendere, conviene rifarsi a due passi da essa
poco distanti nel corpus nietzschiano. Nel Crepuscolo degli idoli (anno 1887)
si legge: «Si riconoscerà in me, fin dentro il mio Zarathustra, l’ambizione,
molto seria, di raggiungere uno stile romano, l’aere perennius dello stile.
Non andò diversamente il mio primo incontro con Orazio. Non ho mai
provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico che mi
dette, fin da principio, un’ode di Orazio. In certe lingue quel che lì si è
raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in cui ogni
parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la sua
forza a destra e a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell’estensione e
nel numero dei segni, questo maximum, in tal modo realizzato, nell’energia

289
Le epigrafi sono poste in testa agli scritti, perché ne chiariscano in
pochissime parole il contenuto: questa epigrafe di Nietzsche illumina tanto
meglio la figura di Maupassant, in quanto non si capisce che cosa voglia dire
[MA, 9].

Un esordio da Giano bifronte, abnorme e spiazzante persino se


venisse dal più indeciso degli scrittori. Ma anche mossa astuta, che
inscrive tutto il testo (come la più assennata delle anticipazioni
narrative) sotto l’insegna di una generale doppiezza di voci e di
intendimenti. Parla Nietzsche, ma parla anche Savinio. E non solo. In
Savinio si mostrano all’opera due istanze differenti: in quanto autore
egli compie la scelta segmentante della citazione e la appone in limine
alla sua operetta, salvo poi contestarla e contestarsi. L’aggiunta
sembra giustificativa, autoassolutoria, d’accordo, ma proprio l’av-
vertire come necessario un gesto siffatto, la più canonica excusatio
non petita, e per di più il porvi rimedio ribadendo l’oscurità invece
che dissiparla, pone immediatamente il lettore in uno stato di pre-
allarme. Il normale galateo della scrittura si dimostra sospeso, e
qualcosa vorrà pur significare.
L’apertura da consumato scacchista, minacciosa e incom-
prensibile, allo stesso tempo mima e sovverte una quanto mai con-
solidata consuetudine tanto della saggistica quanto del romanzo,
giacché se è vero che critici e narratori amano spesso demandare a
parole altrui sull’anticamera del proprio lavoro scampoli o anti-
cipazioni non di rado ermetiche del senso che verrà a costituirsi solo
durante o alla fine della lettura, è anche vero che forse mai un autore
ha incrinato con così poco rispetto delle partizioni il confine tra
paratesto e testo, andando a contaminare persino quell’ormai bre-
vissima soglia di silenzio che vive a sipario alzato, quando tutti gli
spettatori e i presentatori tacciono. Aprire con un doppio e finanche
multiplo esergo è prassi nota e pacifica, molto meno lo si può dire di
una così spiazzante capriola, cui non soccorre neppure la categoria
inflazionata di polifonicità romanzesca. Per giunta, questa paradossale
precisazione apre su due diverse direttrici (ed è il terzo passo cui si

dei segni – tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, nobile par excellence».
E ancora: «Non si impara dai Greci – la loro maniera è troppo estranea, ed è
anche troppo fluida per avere un effetto imperativo, un effetto ‘classico’!»,
cfr. F. NIETZSCHE, Il Crepuscolo degli idoli, in Opere, Milano, Adelphi
1970. pp.154-155.

290
alludeva sopra): la prima nota cade qui, e crea subito un bivio. Così
come Hermaphrodito si concludeva sull’immagine dell’acrobata
caduto, che come più d’uno ha notato è l’immagine iniziale dello
Zarathustra, ponendo dunque Savinio se stesso prima e non dopo
l’opera del filosofo tedesco cui tanto deve, similmente qui la prima e
l’ultima parte del testo si con-vertono e si fondono. Con la medesima
facilità si può muovere il passo al di là di una sola riga bianca e
cominciare la lettura, oppure si possono saltare novanta pagine e
dedicarsi al post-scritto. Da una parte si va verso il racconto-saggio,
dall’altra verso la finta appendice esplicativa, in realtà una sorta di
altro testo, quasi un suo “doppio”. Unitovi tanto nell’intimo che, con
l’ultima delle sue infrazioni strutturali, Savinio conclude la narrazione
non già dove essa sembra terminare, bensì nell’ultima delle note,
quando questa riappare come un torrente carsico dopo essere scom-
parsa in grotta trenta pagine prima. E’ un colpo di teatro che rende
palpabile la fusione tra i due percorsi, paralleli eppure continuamente
intersecantesi, a differenza di quanto succede in un normale saggio,
nel quale le note intrattengono un rapporto esclusivo e modulare con
segmenti discontinui del testo principale, senza costituirsi in un
organismo, se non in maniera del tutto casuale e non programmata.
Quando finalmente, dopo cinque righe tanto terremotate, il lettore
si posa nella sua poltrona mentale e si accinge a farsi intrattenere sulla
vita e sull’opera di Guy de Maupassant, ecco cosa si trova a leggere:

Nivasio Dolcemare arrivò la prima volta a Parigi la sera del 25 febbraio


1910, e quando smontò dal vagone tedesco di terza classe che lo aveva
portato da Monaco capitale della Baviera nella Ville Lumière e pose il piede
calzato di spessi mocassini sul marciapiede lubrico e lucido della Gare de
l’Est, aveva esattamente diciotto anni e sei mesi, essendo nato ad Atene,
sotto l’ombra di un ulivo e sotto il vigile sguardo rotondo di una civetta
palladica, il 25 agosto 1891 [MA, 9].

Incontra cioè un attacco romanzesco a tutti gli effetti, con un


sovraccarico di dettagli descrittivi degno del miglior naturalismo
francese, e con il protagonista sbagliato. Poco importa che Nivasio sia
l’alter-ego di Savinio (di nuovo abbiamo a che fare con un doppio…),
e tale informazione sia quasi del tutto pacifica per i lettori.
Ammettiamo per ipotesi che l’incipit funzioni da cornice – il che, in
realtà, non è – e vedremo comunque che Nivasio sprofonda come un
Marlow conradiano all’interno della storia, se ne fa personaggio,

291
impudente e presenzialista. Un inizio simile, sforbiciato e apposto in
testa, per esempio, a La casa ispirata (anno 1920), avrebbe potuto
attecchire in quel non troppo diverso humus alla perfezione.
Con scrittori che attingono così esplicitamente alla propria vicenda
reale, inframmettendovi nello stesso tempo una simile dose di
invenzione, il concetto di autore implicito elaborato dalla teoria della
letteratura di scuola anglossassone, per esempio da Wayne Booth21,
gira a vuoto, poiché Savinio, malgrado il trasparentissimo schermo
pseudonimico offerto da Nivasio, è piuttosto un autore assolutamente
implicato22: consuma ogni distanza fra autore reale, autore implicito e
narratore, di questo e di tutti gli altri suoi libri. Inoltre, la tripartizione
narratologica, chiara in sede teorica, si mostra assai difficilmente
applicabile a un testo siffatto, dove si verifica una persistente ambi-
guità tra l’emittente della storia intesa come fabula e l’organizzatore
del testo, cioè dell’intreccio. Anzi vi si svela con chiarezza un limite
della nota distinzione formalista (riformulata dagli strutturalisti come
histoire versus récit)23. Come decidere infatti quale sia la fabula sot-
tostante, e di conseguenza quale lo scompaginamento in essa operato
dal narratore divagante? E’ la vita di Guy de Maupassant? Oppure è il
primo soggiorno parigino di Savinio-Nivasio, nel quale questi per-
cepisce l’atmosfera dell’epoca maupassantiana ormai in via di esau-
rimento e da ciò mosso si industria a ricostruirne il profilo, come in un
esercizio antropo-sociologico?
Si consideri il seguente passo, dove in tutta una tramatura
fittamente anaforica spicca l’anaforica ripresa dell’incipit, questa sorta

21
Il rimando è al classico W. BOOTH The Rhetoric of Fiction, The
University of Chicago Press 1961 and 1983, trad. it. Retorica della narrativa,
Firenze, La Nuova Italia 1996.
22
E’ una formula proposta da Giuliano Gramigna, cfr. G. GRAMIGNA in La
menzogna del romanzo, Milano, Garzanti 1980, pp. 100-104. Per una
ulteriore messa a fuoco della questione si vedano anche i due studi pre-
liminari in C. SEGRE Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del
Novecento, Einaudi, Torino 1991.
23
Scrive Peter Brooks: «L’apparente priorità della fabula rispetto all’intreccio
è una illusione mimetica in quanto la fabula […] è in effetti una costruzione
mentale che il lettore deriva dall’intreccio, la sola cosa che possa conoscere
in modo diretto». Cfr. P. BROOKS Reading for the plot: design and intention
in narrative Oxford 1984, trad. it. Trame. Intenzionalità e progetto nel
discorso narrativo, Torino, Einaudi 1995, p. 14.

292
di scena primaria con Nivasio alla Gare de l’Est che percorre a
rintocchi regolari tutta la prima metà dello scritto:

Parlando di Parigi e comunque della Francia anteriore alla Grande


Guerra, si parla implicitamente e più profondamente di Maupassant che se
personalmente e isolatamente si parlasse di lui. […] Maupassant era negli
uomini e nelle cose della Francia: della Francia che ha vissuto la sua vita
democratica e mediocre tra il Settanta e il Quattordici: in tutti gli uomini e in
tutte le cose. Egli stesso era un uomo e una cosa della Francia tra il Settanta
e il Quattordici: e quando Nivasio Dolcemare arrivò a Parigi nel febbraio del
1910, egli in ogni uomo e in ogni cosa di Parigi, e a poco a poco in ogni cosa
della Francia, dai Vosgi ai Pirenei e dall’Atlantico al Mediterraneo, trovò
altrettanti Maupassant. [MA, pp. 31-32]

E quale sarà il tempo della fabula, quale quello dell’intreccio? Ci


sono tre grandi assi temporali operanti nel testo, l’ultimo ventennio
del XIX secolo, il 1910, e il 1944, e come su una scacchiera la voce
scivola dall’uno all’altro senza incontrare ostacoli. Il confine tra in-
venzione e resoconto si fa evanescente, autore e narratore sono la stes-
sa persona e non lo sono. E’ una evenienza assolutamente ecce-
zionale, e non prevista dal pur previdentissimo Genette, quella nella
quale un narratore extradiegetico eterodiegetico sia anche intra-
diegetico omodiegetico.
L’inafferrabilità finora saggiata potrebbe essere già sufficiente a
considerare spuntati gli attrezzi narratologici, e consigliare un
prudente ritorno sotto le insegne della categoria, più elastica e forse
meno esigente, di saggistica. Al contrario, quel che permette di
rinsaldare l’ipotesi del racconto, è la constatazione che la critica tutta,
per sua intrinseca natura, non pone problemi di voce o di punto di
vista. La voce del critico è unica, non si sdoppia né si triplica, enun-
ciatore e locutore sono pacificamente coniugati. E poi, posto che dalle
vicende di Nivasio Dolcemare possiamo scremare senza troppa dif-
ficoltà quelle di Andrea de Chirico, alias Alberto Savinio, perché mai
la biografia di Guy de Maupassant si apre, invece che con la data di
nascita del canottiere normanno autore di Bel-Ami, con quella di
Savinio stesso?
Perché, direbbe Savinio sorridendo, i due sono la stessa persona. E
questa non può essere che una risposta fantastica, cioè obbediente a
una logica irriducibile a quella vigente e accettata in qualunque eser-
cizio critico, per quanto visionario e anti-accademico esso sia.

293
In verità, la contaminazione fra memorialistica privata e racconto
di vicende altrui era già prassi largamente invalsa in Narrate, uomini,
la vostra storia, e basta uno sguardo agli incipit per rendersene
conto24. Ma là ci si muoveva decisamente su un piano diverso. I
«libretti d’opera»25 ispirati a Savinio dalle vite (e soprattutto dalle
morti) di uomini illustri sono esercizi di reinvenzione poetica di eventi
reali, e possono prender l’avvio in maniera elegantemente marginale
da aneddoti privati. Poi l’immaginazione metafisica ne fa dei racconti
a tutti gli effetti. In quel caso l’incipit autobiografico non è probante,
piuttosto lo è la capacità saviniana di inserire a tocchi leggerissimi e
di far levitare per magia, nel corpo di narrazioni documentate con
rigore storico-erudito e talora con maliziosa vena pettegola, l’evento
soprannaturale, l’apparizione mitologica in borghese, l’anacronismo
folgorante, gli impossibilia spazio-temporali come nei dipinti di suo
fratello Giorgio. In un solo aspetto, ma fondamentale, somigliano a
Maupassant e l’Altro: nell’inventio. Che è esattamente quod erat
demonstrandum.

24
Eccone alcuni: «ATENE 1906. Si chiamava Angelo di cognome, e più
esattamente Angelo. Era un angelo cattivo, l’infesto araldo di quel bimbo che
ancora ero. Accanto ai miei ingrati quattordici anni, i diciassette di lui
sembravano l’età delle maggiori conquiste…» (Due momenti Venizeliani) –
«Uno dei ricordi più tristi della mia infanzia ha per oggetto un
portavivande…» (Seconda vita di Gemito) – «Una sera del gennaio 1910
cenavo a Parigi in casa di un alto magistrato…» (Jules Verne) – «La figura
corporea di Lorenzo Mabili rivive in un mio ricordo d’infanzia…» (Lorenzo
Mabili) – «Erano fioriti i campi di Provenza […] Venivamo da Parigi ed
eravamo diretti ad Avignone…» (Nostradamo) – «Grande privilegio essere
nati all’ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra.
Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi
trasformatori. Questo il privilegio toccato a Nivasio Dolcemare…» (Isadora
Duncan). Cfr. A. SAVINIO Narrate, uomini, la vostra storia, Milano,
Adelphi 1998. A riprova delle suddette ambiguità, l’esordio di Jules Verne,
salvo postulare un errore nel ricordo o un refuso sempre sfuggito, pone una
inconciliabile contraddizione con quello di Maupassant e l’Altro, dal
momento che naturalmente nel gennaio del ’10 Savinio non poteva essere a
Parigi, se vi arrivò la prima volta il 25 febbraio seguente.
25
Così è detto nella minima introduzione a Narrate, uomini, la vostra storia:
«I quali personaggi noi li abbiamo trattati come libretti d’opera, e la nostra
fatica è consistita più che altro a metterli in musica. Onde sono nate secondo i
casi ora delle opere e ora delle operette». Ivi, p. 11.

294
4. Il fantastico

La contaminazione, la coincidenza degli opposti, è un cardine della


poetica saviniana, infinitamente teorizzata e ribadita, a partire
dall’originario Hermaphrodito. Al bisessuato figlio di Ermes e Afro-
dite Savinio riconosce – preceduto in Italia forse dal solo
Michelstaedter26 – la valenza di «divino totale dei totali» e di figura
della pienezza, di una perfetta autosufficienza. Tra l’altro, Savinio non
fa del mito classico un uso reazionario o regressivo, bensì lo proietta
nel futuro come ideale di integrazione tra opposti e di umanizzazione
della società27. Solo che, nel caso in questione, il richiamo all’erma-
froditica consustanzialità dei contrari, molto in auge presso la critica
saviniana per dar una generica ragione delle infinite metamorfosi
intellettuali di questo autore, è assai meno superficiale del solito.
Perché Maupassant e l’Altro è un testo programmaticamente doppio,
nelle tematiche e nella forma, e più lo si osserva più suscita
l’impressione di trovarsi, come un cuore pulsante, almeno al pari
dell’irripetibile raccolta giovanile, al centro di tutta l’opera saviniana.
Abbiamo alluso al rapporto fra racconto e note, e all’oggettivazione-

26
«L’ermafrodita in Michelstadter – scrive Piero Pieri – simbolizza il
principio dell’essere persuaso nella forma della biunità sessuale. Questa
forma consente il privilegio della compiutezza e dell’autonomia, mentre alla
genitalità del satiro è concesso di completarsi solo attraverso l’altro sesso.
[…] Pensiamo che si possa affermare che la figura dell’androgino e quella
dell’uovo corrispondano entrambe al mito dell’uomo riconciliato con se
stesso attraverso il ripossesso della propria universalità. La figura del-
l’ermafrodita e quella dell’uovo stanno a indicare il culto per il valore
cosmogonico della redenzione universale», cfr. P. PIERI La figura
dell’ermafrodita e del satiro nella “Persuasione”, in ID. La differenza ebrai-
ca. Grecità, tradizione e ripetizione in Carlo Michelstaedter e in altri ebrei
della modernità, Bologna, Pendragon 2002, pp. 128-129. E’ ovvio ma
doveroso specificare che la figura di Ermafrodito in Savinio non dipende
certo da Michelstaedter, quanto dai comuni maestri di entrambi, vale a dire
dal mito classico, dal Simposio platonico e da Nietzsche.
27
«La convivenza sociale, il formarsi delle famiglie, delle tribù, delle nazioni
colma apparentemente l’abisso tra l’uomo e la donna, ma la profonda
differenza tra l’uomo e la donna rimane e la civiltà ha come scopo principale
di abbreviare a poco a poco questa differenza, mirando a un moderno ideale
che confonde in sé i caratteri di Ermete e Afrodite, ossia al divino
Ermafrodito» [VEI, p.37].

295
estraniazione di Savinio in Nivasio. Si trattava di preparare il terreno,
fornire armoniche introduttive. Ora dobbiamo fare di più.
Intanto va osservato, quasi a intonacare lo sfondo per tutto il
ragionamento a venire, che Ermafrodito è un caso particolarissimo di
doppio, si potrebbe anzi azzardare che sia il prototipo perfetto della
doppiezza, il Doppio conciliato, non più perturbante né persecutorio
né protettivo-proiettivo. E proprio a quello che a tutt’oggi è lo studio
italiano più documentato sull’argomento, vale a dire L’altro e lo
stesso di Massimo Fusillo28, dobbiamo rifarci per capire come una
tematica tanto ricorrente nella vicenda culturale dell’Occidente possa
avere sorprendenti riverberi anche a livello di organizzazione testuale,
e magari per cercare finalmente di decodificare Maupassant e l’Altro.
Fusillo non menziona l’ermafrodito, nella sua ricchissima tassonomia,
e lo si può capire, giacché l’arcitema di cui egli tende ad esaurire tutte
le possibili manifestazioni è quello dell’identità sdoppiata, ossia
dell’unità che gemma in coppia, non del duo che si fonde, tuttavia le
prospettive non sono affatto inconciliabili. Nel suo excursus di bi-
millenario respiro propone una tripartizione storico-formale del tema
del doppio, secondo la quale l’antichità avrebbe sposato il modo
dell’«identità rubata», il Rinascimento e il Barocco quello della
«somiglianza perturbante», la modernità quello della «duplicazione
dell’io». E dopo aver analizzato i due primi grandi esempi classici di
questo macrotema, vale a dire l’Elena di Euripide e l’Anfitrione di
Plauto, lo studioso osserva come entrambi siano prodotti di una forma
letteraria ibrida, ai confini tra il comico e il tragico. Come se lo sdop-
piamento – è proprio Fusillo ad avanzare la supposizione – si
rifrangesse sulle tecniche espressive29.
Difficile sentirsi di sottoscrivere un’affermazione tanto generale.
D’obbligo, al contrario, sottoscriverla per quanto riguarda l’operetta
di Savinio. Perché qui il doppio è tema doppiamente sovradeterminato
e quasi necessario: è l’argomento principe, in tutte le sue numerose
articolazioni, del fantastico ottocentesco, vale a dire di quel modo del-
la letteratura europea che proprio in Maupassant aveva trovato uno dei
suoi ultimi interpreti, ed è soprattutto l’argomento principe tanto della
produzione narrativa di Maupassant stesso, quanto della sua sven-

28
M. FUSILLO L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La
Nuova Italia 1998.
29
Ivi, p. 73.

296
turata esistenza30. Come per un irrefrenabile contagio, si riproduce in
un’infinità di modi all’interno del racconto, celebrando se stesso
persino in una monumentale mise en abîme, un paragone che, invece
di attingere al vastissimo repertorio classico e ottocentesco di doppi,
trova il suo più congeniale equivalente visivo in una sequenza
cinematografica, mentre l’autore spende di nuovo una formidabile
anafora ossessiva a climax come omologa dell’angoscia da du-
plicazione:

Ricordate Charlot in mezzo agli specchi? Ricordate Charlot in mezzo al


labirinto degli specchi? Ricordate Charlot in mezzo al labirinto della
“riflessione”? Ricordate Charlot circondato da innumerevoli Charlot, da in-
finiti Charlot, da nient’altro che Charlot che lo affrontano da ogni parte, lo
guardano da ogni parte, muovono contro di lui da ogni parte; e alzano tutti
assieme un braccio se lui alza un braccio, si voltano tutti assieme se lui si
volta, ridono tutti assieme se lui ride? [MA, p. 32]

Facciamo un passo alla volta. In questa storia ci sono tre


personaggi principali: lo scrittore Guy de Maupassant, suo fratello
Hervé, la madre Laura. Ci sono anche due personaggi di contorno,
vale a dire i due padri di Guy, entrambi di nome Gustave: il padre
biologico, inetto donnaiolo, e quello ideale, amato e ammirato, ossia
Flaubert31. Ma i due padri non devono distoglierci, a contare è la

30
Nella sua monografia, Marcello Carlino sostiene: «Aver lacerato
l’iconografia di un realista a tutto tondo, inoculando il tarlo della deiezione e
del ribaltamento, è una novità storiografica eclatante; ma radicale addirittura
è l’innovazione del metodo che, proprio nella dialettica di microscopio e
telescopio, apre nuove frontiere teoriche. Savinio, per primo in Italia, si serve
della psicanalisi per il discorso critico-letterario». Cfr. M. CARLINO Alberto
Savinio. La scrittura in stato d’assedio, Roma, Istituto della Biblioteca
Italiana 1979, p. 171. Nostra opinione è che qui accada proprio l’inverso, cioè
che alla psicanalisi si attinga per trascenderla, proprio come ne La coscienza
di Zeno, e l’ottica analitica risulti più utile a noi lettori per intendere
rettamente l’opera di quanto non sia stata all’autore per capire Maupassant.
31
Proprio nel rapporto con Flaubert, come lo descrive Savinio, abbiamo una
ulteriore variante di grande interesse della simbologia del doppio: la paternità
ideale che genera somiglianza, cioè volontà di emulazione-identificazione, e
poi perfetta coincidenza. Dal rapporto padre-figlio si scivola metonimica-
mente su quello paritario tra eguali, e si culmina nella fusione, a suo modo
ermafroditica (intesa in accezione non sessuale, come ben si vede): «E’ d’uso
riconoscere un’affinità letteraria tra Flaubert e Maupassant. E si capisce.

297
triade principale, percorsa da rapporti e tensioni di una intensità
straordinaria. E c’è, naturalmente, Nivasio Dolcemare, che allo stesso
tempo è più e meno di un personaggio.
Tuttavia ogni storia ha un antefatto importante, e l’antefatto di un
libro si trova in un libro precedente. Così qui. L’antefatto (o, come mi
suggerisce un refuso di gusto molto saviniano, l’ “anteffato”, vale a
dire ciò che è stato detto prima) si rinviene nella Vita di Enrico Ibsen.
Perché anche là c’era un fratello, e una difficile coesistenza con
questo.

La nascita di Enrico determinò la morte del suo fratello maggiore. Uno


dei due era di troppo e vinse il più prepotente, il più “destinato” [VEI, p.17].
Come per consentire a lui l’ingresso nella vita il suo fratello maggiore “si
era dovuto” morire, Ibsen a sua volta “si dovette” morire per consentire
l’ingresso nella vita ai nuovi fratelli, ai “successori” che dopo di noi vengono
a colmare altre lacune nel campionario dei tipi [VEI, p.25].

Come si sa, e lo dice a chiare lettere Alessandro Tinterri nel già


citato Savinio e l’Altro, in tutta la vita di Andrea de Chirico l’Altro
per eccellenza fu suo fratello Giorgio, e sul legame fra i due andrebbe
scritto un libro, un giorno. Un legame tanto importante, così intenso
pur nella radicale differenza di temperamenti e visioni del mondo, da
far passare in secondo piano la disparità anagrafica tra i due (Giorgio
era nato nel 1888, Andrea nel 1891) e da renderli noti agli intellettuali
di mezza Europa come due Dioscuri moderni. Ossia come due
gemelli. Risulta allora particolarmente eloquente la dissimmetria, o se
si vuole la perfetta specularità di situazione tra i due fratelli di Ibsen e
di Maupassant, maggiore l’uno, minore l’altro, che incrociano da
comprimari il racconto delle loro vite. Non bisogna compiere l’errore
di supporre una elementare identificazione proiettiva di Savinio nel
debole o nell’inferiore, giacché il sacrificato in un caso è il più

Affinità manifesta, incontestabile, giustificata. Maupassant è stato formato


letterariamente da Flaubert. Che più? Maupassant somigliava anche “fi-
sicamente” a Flaubert. […] Non tutte le somiglianze sono ereditarie. […] La
somiglianza viene per simpatia, per fedeltà, per devozione, per discepolismo.
[…] Più profondamente, la somiglianza acquisita è il tentativo di diventare
simile a colui che si ama, che si ammira, che si rispetta – non esclusa la
metafisica speranza di confondersi con lui e diventare lui» [MA, pp. 47-48] –
«Flaubert e Maupassant costituiscono in verità un solo personaggio»” [MA,
pp. 55].

298
anziano dei due, nell’altro il più giovane. Hervé Maupassant venne
internato in manicomio, anche grazie alla connivenza di Guy, quattro
anni prima di lui, e per ciò lo maledisse con il terribile grido «Ma il
pazzo sei tu, mi ascolti? Sei tu il pazzo della famiglia!”32, incidendo
un solco bruciante nell’anima già turbata dello scrittore, destinato in
breve a seguirlo.

Fin dove può arrivare l’amore fraterno? Ecco l’esempio singolarissimo di


un fratello minore che sacrifica se stesso per dare una rappresentazione
anticipata di quello che sta per capitare al suo fratello maggiore [MA, p.71].

Non sono banali corrispondenze, ovvie supposizioni spicciole su


complessi di inferiorità o non digeriti antagonismi con Giorgio de
Chirico a fare l’interesse di questi testi, ma piuttosto il modo in cui la
simpateticità – potremmo dire congenita – di Savinio per le questioni
legate al mito dei gemelli assume sostanza testuale. Un mito che
ondeggia ambiguo fra amore e odio, fra offerta di sé e prevaricazione
subita. Riecheggiando sempre sinistramente l’archetipo classico dei
Dioscuri, essi pure costretti dal Fato a dividersi tra l’Ade e il mondo
dei vivi, e prima ancora separati fin nella loro natura, l’uno mortale
l’altro immortale. Uniti eppure costretti proprio dalla simbiosi a
vampirizzarsi reciprocamente33.

32
Cfr. MA, pp. 71-72.
33
A questo proposito si veda l’interessante studio di P. MARZANO
Maupassant e “l’Altro”. tre soprannomi e un nome misterioso: Horla o
Gorla?, in «Il Nome nel testo. Rivista internazionale di onomastica let-
teraria», 2002, n. IV, Edizioni Ets, pp. 97-124. Marzano offre una vasta
casistica di interpretazioni proposte per l’enigmatico nome della creatura cui
si intitola il più famoso tra i contes maupassantiani, e tra queste evidenzia
anche la somiglianza fonica tra HeRvé e HoRlà. E aggiunge: «non si può
certo negare un certo processo di identificazione e di scambio di ruoli
instauratosi tra i due fratelli Maupassant […]. In effetti, in diverse circostanze
Guy dovette materialmente sostituirsi ad Hervé, per rispettare gli impegni
morali e finanziari che spesso questi non fu in grado assolvere. In un caso
almeno fu Hervé a mettersi letteralmente al posto di Guy, facendosi passare
per lui e usurpandone il nome per contrarre debiti che non avrebbe saldato,
inducendo così il fratello a chiedere urgente “consiglio giudiziario” per
salvaguardare le sue finanze e la sua identità. Secondo Bernard Pingaud
l’identificazione di Hervé come doppio biografico di Guy sembra aver
trovato espressione letteraria soprattutto nel confronto tra i due fratelli del
romanzo Pierre et Jean (1887), ma il medesimo discorso può valere per il

299
Si badi, questo è un punto molto importante, una prima stazione
sul percorso di approssimazioni che ci porterà fino al cuore di tenebra
del saggio preso in esame. Perché – malgrado Fusillo con scrupolo
forse eccessivo escluda il gemello dal novero delle situazioni nar-
rative propriamente generatrici del doppio34 – in realtà fin dal primo
studio novecentesco dedicato al doppio in un’ottica post-freudiana,
l’ancora imprescindibile Der Doppelgänger35di Otto Rank, noi sap-
piamo che spesso il doppio viene identificato con il fratello, e in
special modo con il gemello. Il fratello è naturalmente un rivale, e lo è
in particolar modo all’interno di una struttura psichica segnata da forti
caratteri di narcisismo primario. E’ vero, il rapporto tra i miti ge-
mellari, le rivalità fraterne e la figura del doppio non è stato par-
ticolarmente approfondito né dagli storici della letteratura né dagli
antropologi né dagli psicanalisti, tuttavia nel poco meno di un secolo
che si squaderna tra il 1914 del saggio di Rank e i nostri giorni, alcuni
aspetti sono stati illuminati con certezza e si possono dare per
acquisiti.Vediamo cosa sappiamo, in merito, e cosa quel che sappiamo
può dirci sul racconto di Savinio.
Il primo punto riguarda la natura del fenomeno che va sotto il
nome di Doppio. E’ già Otto Rank a sostenere «non può essere ca-
suale il fatto che il significato di morte legato alla figura del Doppio
sia in stretta relazione con il narcisismo»36. La funzione fondamentale
di questa insorgenza psichica è difensiva, essa si attiva di fronte
all’angoscia, tipica del pensiero infantile o primitivo a contatto con
l’idea della morte (Freud ribadirà queste tesi pochi anni dopo nel suo

racconto Le Horla, come lo stesso Pingaud suggerisce». Come vedremo tra


poco, Le Horla è proprio la chiave di tutto il sistema Maupassant e l’Altro.
34
Mentre l’elenco completo delle variabili simili organizzato da Fusillo
all’inizio del suo studio comprende: a) i personaggi speculari (Justine e
Juliette o i due fratelli nel Signore di Ballantrae) – b) i personaggi com-
plementari – c) il doppio apparente (che comprende la possessione, la schi-
zofrenia e il doppio onirico, il travestitismo, lo scambio di identità e la
reincarnazione) – d) i gemelli – e) lo sdoppiamento tra il personaggio e un
oggetto esterno (come il ritratto, lo specchio, la maschera, l’abito, l’ombra o
la creatura artificiale) – f) la metamorfosi – g) il sosia – h) il doppio. Cfr. M.
FUSILLO L’altro e lo stesso, cit. cap. 1.
35
O. RANK Der Doppelgänger (1914 poi 1925), trad. it. Il doppio. Il
significato del sosia nella letteratura e nel folclore, Milano, SugarCo 1987.
36
Ivi, p. 91.

300
scritto sull’Unheimliche37, che a Rank deve molto), cioè alla più in-
flessibile manifestazione del principio di realtà. In seguito, a partire
almeno dal fondamentale studio lacaniano sullo stadio dello specchio,
si è visto che nella formazione dell’identità del bambino, tra i 6 e i 18
mesi, la più difficile conquista è quella di abbandonare il contenitore
materno, cosa che suscita nel piccolo fantasie di frantumazione. Bene,
se riconoscersi intero nello specchio sancisce il proprio distacco dal
corpo della madre, è anche vero che l’immagine preserva dal terrore
dell’annientamento. Così, secondo una perentoria sintesi di Enzo
Funari, il doppio è un «fenomeno-ponte tra un mondo fantasmatico
pre-oggettuale e il mondo delle molteplicità oggettuali. Ultimo baluar-
do del desiderio fusionale, primo risultato di una struttura sogget-
tivizzante» e rappresenta «il massimo equilibrio, in un processo di-
namico, tra resistenze narcisistiche e refusionali e vissuti di cambia-
mento e defusionali»38.
Fin qui, la psicanalisi contemporanea, dalla quale arriva anche la
raccomandazione a non considerare l’insorgenza di doppi come un
sintomo esclusivamente patologico. Nel caso di Maupassant, però,
certe ottimistiche cautele non servono, dal momento che un quadro
psicotico è esattamente l’orizzonte di riferimento, come purtroppo è
ben noto. Torniamo allora al saggio di Rank, nel quale non si poteva
non far menzione dello scrittore francese, e nel quale si sostiene, sta-
volta sulla scorta di Freud, che il Doppio persecutorio, tipica
espressione di uno stato paranoico, ha alla base una «fissazione al
narcisismo», e che i paranoici regrediscono nel narcisismo originario
movendo da una base di omosessualità sublimata; la scelta oggettuale
avverrebbe infatti a partire dalla propria immagine39. Il condizionale,
di fronte a definizioni tanto recise, è d’obbligo. Ora, da certi sche-
matismi della prima stagione psicanalitica è giusto e doveroso pren-
dere le distanze, e così avviene infatti nel volume collettivo curato da
Funari, dove parimenti si riconosce in Rank un pioniere, e si
evidenziano i limiti inevitabili del suo studio:

37
Cfr. S. FREUD Das Unheimliche (1919), trad. it. Il perturbante, ora in
Opere di Sigmund Freud, a cura di C. L. Musatti, IX, Torino, Bollati
Boringhieri 1977.
38
E. FUNARI Fenomenologia, processualità e struttura nel tema del
“Doppio”, in AA.VV. Il Doppio. Tra patologia e necessità a cura di E.
FUNARI, Milano, Raffaello Cortina Editore 1986, pp. 38 e 42.
39
Cfr. O. RANK Il doppio, cit. pp. 93 e ssg.

301
La parte più invecchiata del saggio, e che oggi appare meno convincente,
riguarda il capitolo in cui Rank tenta di individuare, negli artisti che si sono
serviti del tema del Doppio, un profilo personale e una patologia psichica
costante e comune. Lo stile con cui è condotta questa parte della ricerca
risente delle tendenze “patografiche” dell’epoca ed è ancora caratterizzato
dal bisogno di ricondurre la predilezione dei vari autori per il tema del sosia a
una loro ricorrente costellazione psicopatologica40.

Ma allo sguardo di chi non di psicanalisi bensì di letteratura si


interessa, la ricostruzione di Rank risulta per un verso straor-
dinariamente sovrapponibile al testo di Savinio, per l’altro totalmente
scavalcata da esso. Vediamo perché, partendo dalle aderenze. Ba-
steranno alcune citazioni, non sarà neanche necessario chiosarle, tanto
sono puntuali:

Maupassant aveva rapporti giornalieri e ripetuti con ogni sorta di donne,


ma sentimentalmente era privo d’amore e praticamente un isolato. Questa so-
litudine del “carnale” Maupassant è stranamente simile alla solitudine
dell’omosessuale [MA, p.40].
L’isolamento “da omosessuale” in cui venne a trovarsi Maupassant è da
imputare alla madre di lui. Essa stessa preparò Guy a quell’isolamento [MA,
p.41].
L’amore “più che materno” di sua madre egli lo ripagò con un amore
“più che filiale”. Guy rimase celibe. [MA, p.43].

Ricapitolando: narcisismo come impossibilità a separarsi dal corpo


materno, narcisismo come omosessualità sublimata. Doppio come
fenomeno psichico difensivo che insiste, sia nella manifestazione per-
secutoria sia in quella transizionale, cioè se reagisce contro il processo
defusionale o se vi collabora, su una base narcissica. Che cosa si vuol
dire con questo? Che Savinio conosceva Freud (non certo Rank) non
sarebbe davvero una scoperta.
Il punto è, invece, il seguente: nell’atto di redigere la biografia di
un uomo che è stato sotto molti aspetti l’interprete anche involontario
di un’epoca, incarnando talora i rigori e talora le mediocrità del
naturalismo, talora rappresentando (come in Bel-Ami) da scrittore le
meschinità della piccola borghesia francese, talora vivendole, e ancora
dando corpo più di ogni altro – anche patendo sulla propria carne, fino
al martirio del proprio Io – all’inquietudine fin de siècle di una cultura
40
F. PETRELLA Il Sosia perturbante: nota sul “Doppio” di Otto Rank, in
AA.VV. Il Doppio. Tra patologia e necessità, cit. pp. 64.

302
positiva messa alle corde da ogni sorta di montanti irrazionalismi, e
concludendo una stagione, come vuole Todorov, di fantastico e di fan-
tasmi, un Ottocento che ha espresso una autentica epidemia di doppi,
tra autoscopie (il Goljadkin di Dostoevskij e il William Wilson di
Poe) e personalità alternanti (Jekyll e Hyde), forse non a caso in epoca
di stretta medicalizzazione della follia, di un uomo insomma che, sia
stato il narcisismo o le conseguenze di un letale connubio tra i grandi
mali del XIX secolo, vale a dire i libri letti, le droghe assunte e una
lunga coabitazione con la sifilide, ha per anni sofferto di allucinazioni,
di sdoppiamenti, fino a perdere del tutto la ragione; ecco, nell’atto di
redigerne la biografia, Savinio opera la scelta culturalmente più ge-
niale, e dalla nosografia ancora imperante – ancora Rank ne era stato
influenzato – retrocede alla letteratura. Per spiegare Guy de
Maupassant, grande autore di racconti fantastici, scrive un racconto
fantastico. Non decifra la letteratura in base alle occorrenze del
vissuto, come i critici positivisti, ma assorbe la vita entro un orizzonte
finzionale. Ecco perché la psicanalisi è scavalcata, anche se Savinio la
conosceva e ne faceva un uso straordinariamente raffinato per i tempi.
Sul rapporto tra Savinio e Maupassant, astraendo per un istante
dalla tenace stratificazione di sensi che rende così complesso un testo
così breve e immaginando di avvicinare i due scrittori in sua assenza,
è doverosa almeno una sottolineatura: il racconto più “saviniano”, più
naturalmente tagliato per solleticare l’imagerie surrealista del de
Chirico giovane, non è né L’Horla né Lui, forse i due contes maupas-
santiani più famosi tra quelli fantastici (celebri anche per rifrazione
dell’oscura luce della cronaca nera poiché, inutile negarlo, co-
stituiscono quasi cartoni preparatori della tragedia psichica in seguito
vissuta dal loro creatore). E’ piuttosto Qui Sait?, con quella sequenza
notturna dei mobili che lasciano la casa del protagonista in disumana
processione sotto gli occhi allucinati di costui, una scena che anticipa
di oltre vent’anni le sintesi teatrali futuriste di oggetti (come la
marinettiana Vengono) e non poteva lasciare indifferente uno scrittore
tanto affascinato dalla vita segreta degli interni domestici, dallo
scivolamento di confini fra l’animato e l’inanimato, dalla metamorfosi
reificante dell’umano e dall’antropomorfizzazione delle suppellettili
(su tutte, si pensi alla Poltromamma e al Poltrobabbo). Malgrado tale

303
dichiarata predilezione 41, Savinio sa bene che per scrivere il suo
«racconto critico» dovrà agire alla maniera di Maupassant, non alla
maniera di Savinio, perciò il modello, se non addirittura il palinsesto
necessario, deve attingerlo altrove, per la precisione nella biografia, e
far reagire tra loro appunto le autoscopie patologiche, che lo scrittore
normanno ha effettivamente patito, con i suoi racconti, dunque
proprio con l’Horla, la storia della misteriosa entità invisibile che
infesta parassitariamente la vita di uno sfortunato personaggio.
La scelta de l’Horla è insieme scontata e cruciale, perché aggiunge
altri tasselli al discorso sul narcisismo e sul Doppio. A partire dalla
peculiarità più evidente del racconto, la soluzione di contaminare due
motivi classici del fantastico tradizionalmente contrapposti, vale a
dire il doppio persecutore e il vampiro, appartenenti secondo la tas-
sonomia todoroviana l’uno al gruppo di temi dell’io, l’altro a quelli
del tu42. Anche il vampiro, infatti, possiede un gran numero di
attributi simbolici che permettono di pensare a una costellazione
narcisistica di base: è un non-morto perennemente giovane, dunque
nega la morte, è un seduttore irresistibile ma non ha partner, in quanto
si riproduce per contagio o duplicazione, non può recidere il legame
con la terra natale anzi se viaggia deve portarsela dietro in casse e
dormirci per recuperare le forze (e peraltro la bara è un evidente
omologo del cavo uterino), ogni simbolo del mutamento come l’alba è
per lui mortale, e se si trasforma assume le fattezze del pipistrello,
animale solitario che vive in grotte e riposa appeso a testa in giù (posa
che rievoca una condizione fetale)43. E, non dimentichiamolo, se si
specchia, non riflette nessuna immagine.
Come è noto, l’Horla è una creatura invisibile e parzialmente in-
corporea, e in entrambe le versioni del racconto il protagonista si

41
«Qui Sait?, l’avventura […] più alta di tutte, un’avventura che supera i
racconti straordinari di Poe, un’avventura che lo stesso Nivasio Dolcemare
sarebbe stato contento di “vedere” e di narrare”» [MA, p.69].
42
Che riguardano rispettivamente «altrettante messe in opera della relazione
tra l’uomo e il mondo, del sistema percezione-coscienza» e «la relazione
dell’uomo con il suo desiderio, e di conseguenza con il suo inconscio». Cfr.
T. TODOROV Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil 1970,
trad. ital. La letteratura fantastica, Milano, Garzanti 2000, capp. 7 e 8. La
frase citata si legge a p. 144.
43
Siamo debitori per questa sintesi al bel saggio di Marco CASORATO
Dracula è infelice: non può specchiarsi, in AA.VV. Il Doppio. Tra patologia
e necessità, cit., cfr. pp. 99-102.

304
avvede della sua presenza in casa grazie a una serie di indizi
marginali, primo fra tutti la caraffa d’acqua che si svuota nottetempo.
A partire da questo segno, l’Horla si manifesterà sempre in modalità
vampiresca, cioè attraverso l’assorbimento di liquidi o di forza vitale.
Quel che rende particolarmente significativo l’Horla è l’utilizzo da
parte di Maupassant, nella scena centrale del racconto, vale a dire nel
primo e unico “faccia a faccia” tra i due protagonisti, la vittima e
l’essere alieno, di una immagine simbolica che mette in relazione i
due motivi, con una sconcertante aderenza a quelle che, molto più
tardi, saranno le tesi degli interpreti del profondo post-lacaniani: lo
specchio vuoto. Infatti, l’Horla come un vampiro non si riflette negli
specchi, essendo invisibile, ma l’unica prova visiva della sua esi-
stenza, dopo quelle oggettuali, si dà proprio quando, una notte, il pro-
tagonista seduto allo scrittoio percepisce la presenza accanto a sé,
d’improvviso si guarda nello specchio della camera, e non vede nulla.
Non vede nulla per qualche istante, perché poi la sua immagine
emerge come da una vibrazione acquatica, segno che l’altro essere,
inframmessosi tra lui e lo specchio, è in qualche modo scivolato via.
Ora si capisce bene perché questo Doppio persecutore, che come
moltissimi doppi si manifesta attraverso la riflessione speculare, è
particolarmente terrificante: perché se, come spiega Lacan, l’im-
magine nello specchio contiene anche una valenza rassicurante contro
il timore della nullificazione, in questo caso non v’è conforto né
protezione alcuna, ma solo una minaccia assoluta ed esplicita: il pro-
prio nemico – e il proprio Sé – non ha immagine, è pura assenza, dun-
que sfoggia un potere malefico incontrastabile, non ci sono armi da
imbracciare contro di esso (come nel caso di William Wilson che si
sfida a duello). E’ il volto della propria morte già in atto, della propria
avvenuta dipartita, senza mediazioni.
In tutto questo, Savinio come agisce? Proprio come Todorov
vorrebbe che agisse un narratore fantastico. Egli racconta la vita di
Maupassant, sia pure ponendosi in una rigorosa focalizzazione
esterna, e agendo come il più onnisciente dei narratori onniscienti, con
anticipazioni introspezioni e continue dislocazioni spazio-temporali,
ma facendo sua l’ottica del personaggio, dunque trattando con as-
soluto convincimento le insorgenze del doppio. Mai una volta,
insomma, Savinio lascia trapelare la benché minima nota di
scetticismo nel riportare la graduale abdicazione del “primo
Maupassant” al “secondo”, al suo nero inquilino segreto. Ne racconta
la sconfitta e l’estinzione passo dopo passo, dalle prime ma-

305
nifestazioni di perdita di lucidità e controllo nella parola, fino agli
impressionanti comportamenti da alienato che lo condurranno al
manicomio, mantenendo fede in ogni istante a un tono da cronista di
questo vampiresco rituale auto-antropofagico.
Vero è che il libro di Todorov, da quando apparve nel 1970, è
sempre stato più contestato che applicato, ma in questo frangente
certo qualcuno potrebbe insorgere, Todorov alla mano, negando in
toto la validità della definizione di “fantastico” fin qui messa in
campo, proprio in base alla osservazione, molto netta, secondo la
quale il fantastico non tollera letture poetiche né letture allegoriche44.
E qualunque lettore potrebbe osservare che in fondo Savinio ricorre a
un facile escamotage metaforico: parla in tutto il testo di un “altro”
Maupassant per significarne la follia insorgente e poi trionfante.
Metafora continuata, costantemente in rapporto con un universo di
sovrasignificazione univoco e chiaramente definibile, ovvero alle-
goria. Non c’è via di scampo, pare.
E invece no. Perché, proprio Todorov alla mano, dobbiamo
constatare che l’atteggiamento narrativo di Savinio è fantastico in
quanto Savinio prende alla lettera Maupassant. Crede alle sue visioni,
non a quelle del protagonista de L’Horla, ma proprio alle sue, di Guy,
a quelle copiosamente attestate dai biografi, dimostra di non metterne
mai in dubbio l’autenticità, le inserisce in un quadro interpretativo da
esse dipendente. E proprio il famoso strutturalista bulgaro scrive, in
un passo notissimo, che «il primo carattere del fantastico […] è un
certo uso del discorso figurato. Il soprannaturale deriva spesso dal
fatto di prendere alla lettera il senso figurato»45. Se il fantastico vive
nel tempo dell’incertezza tra una spiegazione irrazionale (mera-
viglioso) e una razionale (strano), o altresì se – è la nota rifor-
mulazione che si deve a Lugnani – si manifesta come la costitu-
tivamente inspiegabile compresenza di due ordini di logiche fra loro
aberranti46, ognuna assisa in sé e solida, in ogni caso Maupassant e
l’Altro corrisponde appieno a entrambi tali definizioni, instillando nel

44
Cfr. T. TODOROV La letteratura fantastica, cit., cap. 4, in particolare pp.
63-78.
45
Ivi, p. 80.
46
Cfr. i due importanti saggi di L. LUGNANI Per una delimitazione del
genere e Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore in AA.VV.
La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi 1983.

306
lettore la vaga e penetrante inquietudine che Freud così appro-
priatamente chiamò Unheimliche.

Una sera (è l’anno 1889), mentre sta seduto al suo tavolo di lavoro,
Maupassant sente aprirsi l’uscio dello studio. Come mai? Francesco Tassart,
il cameriere “fedele” ha ordine di non lasciare entrare nessuno mentre il pa-
drone lavora. Maupassant si volta e vede la propria persona entrare nello stu-
dio, la vede venire a sedersi al tavolo di fronte a lui, poggiare la testa alla ma-
no e mettersi a dettare quello che lui scrive [MA, p.70].

Savinio non è nuovo in questi anni a piegare ai propri fini


l’immaginario e finanche il repertorio del fantastico. Anzi. Lo
abbiamo visto in alcune emblematiche scene in Dico a te Clio47,
specie nella visita a Sulmona, quando lo scrittore e il suo amico
Concezio si trovano inseguiti nella notte dalla statua bronzea di
Ovidio, discesa minacciosamente dal suo piedestallo come la Venere
d’Ille di Mérimée, o quando, poco più tardi, ascoltano gli affreschi
parlanti nella Cappella Caldora. Questa canonica contaminazione fra
animato e inanimato si ritrova con particolare evidenza in Narrate,
uomini, la vostra storia, nel racconto Primo amore di Bombasto, tutto
giocato sulla reinvenzione ironica del topos del quadro vivente. E,
ancora in Dico a te Clio, va ricordato il davvero metafisico incontro
notturno di Savinio e Concezio nientemeno che con i Dioscuri.
Più spesso, al di là di simili casi macroscopici, il più giovane dei
de Chirico provoca il cortocircuito fra piani diversi dell’esperienza
senza ironia, con disinvoltura, disattivando – e questa è una pecu-
liarità del suo fantastico – ogni segnale di soglia, ogni confine tra
fenomenico e ideale, tra letteratura e mito, fra storia ed erudizione,
piuttosto costringendoli tutti a cooperare con le esigenze della sua
poetica di metafisico, di scrutatore del volto spettrale della realtà.
In qualche modo tutto l’impianto di sdoppiamento che sorregge
Maupassant e l’Altro e vi si invera, si trova preparato proprio in una
immagine ricorrente del Savinio biografo, non tanto di vite quanto di
morti illustri. Un’immagine odeporica che si lascia indietro sia
l’Argonauta sia il flanêur e partecipa, com’è proprio secondo Freud
del perturbante, di forme di pensiero infantili o primitive, vedendo

47
A. SAVINIO Dico a te, Clio (1940), Milano, Adelphi 1998. La visita a
Sulmona è datata 18 agosto.

307
nella morte nient’altro che un “andare via”48, che dona all’uomo una
copia immortale di se stesso. Ma, come ben dimostra il più bel
racconto saviniano evocato da tale idea, Il signor Münster, che altro
non è se non la lunga camminata nell’alba di Roma di un uomo
svegliatosi morto e in graduale decomposizione, non c’è alcuna esca-
tologia, anche la copia è destinata alla corruzione della carne. Al-
l’assenza di qualsivoglia anima, in Collodi fa da contraltare l’im-
mortalità donata dalla letteratura.

Trovarono Carlo Lorenzini appoggiato allo stipite del portone, “col capo
girato da una parte, con un braccio ciondoloni, con le gambe incrociate e
ripiegate a mezzo da parere un miracolo se stava ritto”, e la mano attratta sul
campanello che continuava a squillare lassù nella casa vuota. Lo portarono di
sopra, stecchito come un grosso burattino.
Ma questa era una finzione per la famiglia, per gli amici, per la gente. Il
vero Lorenzini, colui che firmava “Collodi” e aveva scritto quel Pinocchio
[…] era arrivato in fondo a via Rondinelli, aveva preso a destra in via
Cerretani, aveva iniziato il suo cammino nell’immortalità49.

48
Si veda per esempio il finale di Jules Verne, con Verne che abbandona la
camera ardente, o quello di Verdi uomo quercia, e soprattutto quello di
Collodi, cfr. A. SAVINIO Narrate, uomini, la vostra storia, cit.
49
A. SAVINIO Narrate, uomini, la vostra storia, cit. pp. 182-183.

308
AMBRA CARTA

Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo e il fantastico-meraviglioso

“Il modo fantastico utilizza sino in fondo


le potenzialità fantasmatiche del linguaggio,
la sua capacità di caricare di valori plastici
le parole e formarne una realtà”1.

In un saggio sul fantastico italiano Italo Calvino scriveva:

In Italia le fiabe teatrali di Carlo Gozzi non segnano un inizio, ma una


fine: la fine della linfa più generosa della letteratura italiana. […] Adotto qui
la distinzione propria della critica francese tra il ‘meraviglioso’, che sarebbe
quello dei contes de fées e delle Mille e una notte, e il ‘fantastico’, che
implica una dimensione interiore, un dubbio sul vedere e sul credere. Ma non
sempre la distinzione è possibile, e in Italia il termine ‘fantastico’ ha un si-
gnificato molto più esteso, che include il meraviglioso, il favoloso, il
mitologico. […] Possiamo dire che il meraviglioso è sempre stato presente
nella tradizione italiana: il libro dell’antichità latina la cui lettura non si è mai
interrotta, neanche durante il Medio Evo, è Le metamorfosi di Ovidio. Questa
corrente si direbbe che si fermi solo nel secolo XVIII, e che tanto il
classicismo quanto il romanticismo italiani nascano troppo preoccupati di
dimostrarsi seri e responsabili per abbandonarsi alla fantasia.2

1
R. CESERANI, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 78.
2
I. CALVINO, Il fantastico nella letteratura italiana, in ID., Saggi 1945-
1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1999, 2 voll., vol. II, pp.
1672-1682, [p. 1677]. In Resoconti del fantastico, vol. I, pp. 535-559 in una
ricognizione dei racconti di fate, orchi, elfi e di diversi tipi di letteratura del
soprannaturale, il posto occupato dall’Italia, rispetto alle altre letterature
europee, si limita alla citazione delle Metamorfosi di Ovidio, del
meraviglioso ariostesco e dell’epica cortese-cavalleresca e arcadica del Cin-
quecento e, nel Novecento, ai racconti di Buzzati e Landolfi le cui geografie
dell’immaginario si aggiungono a quelle elencate in L’arcipelago dei luoghi
dell’immaginario, ivi, pp. 545-49. L’autore ha dedicato allo studio del
fantastico numerosi saggi: ID., Racconti fantastici dell’Ottocento, Milano,
Mondadori, 1983, 2 voll., vol. I, pp. 5-14; ID, Definizioni di territori: il
fantastico (1970), pp. 260-2; I livelli della realtà in letteratura, (1978), pp.
374-390, in ID., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino
Einaudi, 1980.

309
Per Calvino in Italia dunque il fantastico ha sempre incluso anche
il meraviglioso, il mitologico e il fiabesco e la classificazione triadica
di Tzvetan Todorov in strano, fantastico e meraviglioso, risulta per lui
inadeguata alla tipologia dei racconti fantastici italiani. Todorov
assegnava infatti al meraviglioso un posto preciso nella sua
classificazione3, definendolo un genere dai confini non meglio definiti
di quelli ‘sempre evanescenti’ del fantastico: «Non è un atteggiamento
verso gli avvenimenti narrati a caratterizzare il meraviglioso, bensì la
natura stessa di quegli avvenimenti», per concludere che il me-
raviglioso, generalmente identificato con i racconti di fate, tuttavia
comprende altre varietà di narrazioni in cui il soprannaturale viene
accettato senza interrogarsi sulla sua natura (il che lo renderebbe
‘fantastico’) né tentare di spiegarlo razionalmente (trasformandolo in
‘strano’). Come sostiene un altro studioso del fantastico, Lucio Lu-
gnani, il meraviglioso caratterizza i racconti imperniati sull’asse
naturale/soprannaturale e impone l’aut aut di una scelta, accettare la
natura soprannaturale degli avvenimenti o no, escludendo l’esitazione
tipica del fantastico, di cui parla il critico bulgaro4; esso ha radici
molto più antiche degli altri due generi, lo strano e il fantastico: «[…]
il soprannaturale, come motivo o tema narrativo ha dato luogo ad una
letteratura che vanta una tradizione più volte millenaria e com-
prenderebbe il racconto mitico, mitologico e religioso, il poema epico,
il racconto folkloristico e la fiaba, la visione mitico-profetica e
l’agiografia, Le Mille e una notte e affini, il racconto e il poema ca-
valleresco»5. Le categorie todoroviane (meraviglioso, realismo ma-
gico, fantastico) dunque si mostrano insufficienti e inadeguate a
rappresentare lo specifico ambito narrativo italiano, e siciliano in
particolare, che mostra una sua peculiare identità e una specifica

3
T. TODOROV, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil 1970,
trad it. La letteratura fantastica, Milano, Garzanti 2000, p. 57.
4
T. TODOROV, La letteratura fantastica, cit., p. 28: «il fantastico occupa il
lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è scelta l’una o l’altra
risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere
simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico, è l’esitazione di un essere il
quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento appa-
rentemente soprannaturale. Il concetto di fantastico si definisce quindi in
relazione ai concetti di reale e di immaginario».
5
L. LUGNANI, Per una delimitazione del “genere”, in AA.VV., La
Narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 37-73 [p. 51 e sgg].

310
modalità di narrativizzare la relazione tra mito e storia, oralità e
scrittura, realtà e magia.
Lo scarso rilievo del fantastico italiano ottocentesco6 nell’ambito
della letteratura nazionale di età romantica, fu in parte riscattato nella
seconda metà del secolo XIX dagli autori scapigliati che mediarono
l’ingresso in Italia dei temi cari al fantastico europeo attraverso la
traduzione delle opere di Edgar A. Poe, E.T.A. Hoffmann, T. Gautier
e delle avanguardie francesi. Giunsero così nel nostro paese sug-
gestioni e atmosfere gotiche e simbolistiche che trovarono un terreno
fertile dove svilupparsi e trasformarsi. Non è un caso infatti che lo
stesso padre del fantastico ottocentesco, E.T.A. Hoffmann, ambienti

6
Una rassegna di studi italiani sul fantastico è proposta da Alessandro
SCARSELLA, Il racconto fantastico italiano nel secondo dopoguerra. Punti
di vista per una definizione trasversale, in I tempi del rinnovamento. Atti del
Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal
1945 al 1992. Leuven, 3-8 maggio 1993, Roma, Bulzoni-Leuven University
Press, vol. I, pp. 373-385; dello stesso autore si vedano anche Profilo delle
poetiche del fantastico, in «Rassegna della letteratura italiana», XC (1986),
pp. 201-220 e Fantastico e Immaginario. Seminario di letteratura fantastica,
Chieti, Solfanelli, 1988; si ricorda inoltre l’antologia curata da Monica
FARNETTI, Racconti fantastici di scrittori veristi, Milano, Mursia 1990.
Introduzione, pp. 5-20, la quale all’argomento ha dedicato numerosi studi: Il
giuoco del maligno. Il racconto fantastico nella letteratura italiana tra Otto e
Novecento, Firenze, Vallecchi, 1988 e ID. (a cura di), Geografia, storia e
poetiche del fantastico, Firenze, Olschki, 1995. Al fantastico italiano
dell’Ottocento si è dedicato E. GHIDETTI, Il sogno della ragione: dal
racconto fantastico al romanzo popolare, Roma, Editori Riuniti, 1987,
mentre a quello di epoca surrealista Gianfranco CONTINI dedica il suo Italia
magica. Racconti surreali novecenteschi, Torino, Einaudi 1988. Si ricordano
poi i principali studi teorici italiani sul fantastico di R. CESERANI, L.
LUGNANI, G. GOGGI, C. BENEDETTI e E. SCARANO, La narrazione
fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983; V. BRANCA, C. OSSOLA e S.
RESNIK, I linguaggi del sogno, Firenze, Sansoni, 1984; B. PISAPIA, I
piaceri dell’immaginazione. Studi sul fantastico, Roma, Bulzoni, 1984; V.
BRANCA, C. OSSOLA (a cura di), Gli Universi del fantastico, Firenze,
Vallecchi, 1988; C. Corti, Sul discorso fantastico. La narrazione nel romanzo
gotico, Pisa, ETS, 1989; S. ALBERTAZZI (a cura di), Il punto su: la
letteratura fantastica, Roma-Bari, Laterza, 1993; V. RODA, Alle origini del
“fantastico” italiano: il motivo del corpo diviso, in Aa.Vv., Il bianco e il
nero, Udine, Campanotto, 1994, pp. 119-169, ID., I fantasmi della ragione,
Napoli, Liguori, 1996 e il citato R. CESERANI, Il fantastico.

311
alcuni suoi racconti in Italia7, e che anche altri scrittori fantastici
europei scelgano le città italiane, e meridionali in particolare, come
teatro delle loro soprannaturali scenografie. Magia, esotismo, in-
cantesimi e stregonerie infatti hanno da sempre alimentato la fantasia
degli scrittori italiani che, come sopra ricordato da Calvino, hanno
intrattenuto con i racconti di fate e di magia, con il magico e il
superstizioso, un rapporto sempre assai stretto. Se dunque la patria del
fantastico nordico ottocentesco, la Germania, esprimeva con il nuovo
‘modo’ letterario, una sensibilità romantica bisognosa di varcare le
soglie del reale e percorrere liberamente i territori sconfinati del-
l’immaginario, di esprimere l’angoscia di una coscienza lacerata e
scissa, esiliata dall’infinito e dall’Assoluto, sdoppiata in un Io e anti-
Io e sprofondata negli abissi insondabili della psiche, in Italia il do-
minio della poetica del vero e del verisimile aveva impedito lo
sviluppo di una letteratura della fantasia e di uno scenario gotico-
fantastico che esprimesse quelle zone della coscienza non sottoposte
al dominio del logos. Nel Novecento poi nel periodo tra le due guerre,
la diffusione dei racconti neri e gotici, surreali e metafisici di Dino
Buzzati, Tommaso Landolfi e Massimo Bontempelli, riaprono le porte
a un fantastico novecentesco che ha ormai introiettato le scoperte
della psicoanalisi, le nuove teorie della conoscenza e una concezione
di realtà fantasticizzata. Se il paradosso linguistico del fantastico si
fonda sulla necessità di dire l’indicibile, nominare l’innominabile,
creare uno spazio di esistenza a ciò che per natura è irreale e ine-
sistente, è all’interno della concezione del linguaggio che ogni età ha
elaborato, che si deve cercare la modalità e lo spazio di esistenza
propri del modo fantastico. Il fantastico romantico possiede infatti ca-
ratteristiche tematiche e retoriche proprie della poetica simbolico-
onirica del Romanticismo letterario, quali sdoppiamenti della
coscienza, fantasticherie da sognatore, emarginazione del poeta che,
uomo d’eccezionale sensibilità e perciò predisposto alle visitazioni del
soprannaturale, ottiene la credibilità del lettore attraverso gli strumenti
del romanzo settecentesco (manoscritti ritrovati, trascrizioni fedeli di
altri racconti), e caratteristiche formali quali racconti di primo e
secondo grado, e a incastro, in cui spesso una cornice introduttiva pre-
senta gli attori protagonisti dei fatti narrati e le loro discussioni sulla
natura degli accadimenti prodigiosi e soprannaturali. La dimensione
metanarrativa del modo fantastico è infatti una delle sue principali

7
La principessa Brambilla, per esempio, è ambientato nel carnevale romano.

312
caratteristiche. Con i racconti fantastici della Scapigliatura (Arrigo e
Camillo Boito, I.U. Tarchetti), la trascrizione mimetica dei fenomeni
fantastici, corrisponde alle modalità proprie dei racconti realistici e
naturalistici che adottavano la metodologia della scienza positiva e la
registrazione diagnostica delle patologie, attraverso strategie narrative
quali la scelta di una voce narrante omo-intradiegetica, trascrive sulla
pagina la memoria e le allucinate impressioni di una coscienza malata
o delirante8. La storia del modo fantastico mostra i cambiamenti da
esso registrati in rapporto alle poetiche e ai movimenti letterari con
cui si è trovato a dialogare, passando così da un fantastico romantico-
gotico, simbolico e notturno, a un fantastico ‘scientifico’ positivistico,
a un fantastico decadente, estetizzato e solare e, nel Novecento, a un
fantastico ora surrealistico, ora metafisico, ora infine postmoderno9.
8
Nel caso di Hoffmann si può parlare di un fantastico-realistico o di un
realismo fantastico perché egli non intende inventare una realtà
fantasticizzata e allucinata, ma esserne il fedele, oggettivo trascrittore e
testimone. Egli infatti riproduce la schizofrenia del soggetto, scisso e
sdoppiato in tante personalità diverse e adotta procedimenti narrativi che
intendono registrare il meccanismo inconscio della conoscenza e farne un
‘documento’. Hoffmann anticipa molte conquiste della letteratura no-
vecentesca quali la descrizione degli stati alterati della coscienza, i fenomeni
di sdoppiamento e di pluralità dell’Io, ma adotta strumenti narrativi e formali
ancora legati a un linguaggio realistico, analogico o simbolico. Lontano
dall’automatismo della scrittura novecentesco, il suo discorso narrativo segue
la razionalità del logos interrotto solo da metafore o analogie che però
rientrano subito sotto il dominio della ragione aristotelica. Nel caso invece
dei racconti fantastici di Théophile Gautier (1811-1872) la consapevolezza
della scissione tra spirito e materia, tra individuo e totalità, assume modalità
decadenti in cui la venerazione della Bellezza e l’idealizzazione dell’arte
come unico mezzo di sublimazione della realtà, divengono non solo tema
dominante, ma anche cifra stilistica dello scrittore francese. Più in generale il
Romanticismo prima e il Decadentismo poi esprimono la tragica coscienza
che ha l’individuo di aver perduto per sempre la dimensione edenica
primigenia di simbiosi con il Tutto, identificato nel simbolismo femminile e
della maternità. Nell’Ottocento il soggetto è un centro propulsivo di tensioni
e di energie che si espandono all’infinito e teso al raggiungimento di una
circonferenza eternamente alla deriva e perennemente irraggiungibile. Per
questa tematica si veda Georges POULET, Le Metamorfosi del cerchio,
Milano, Rizzoli 1971, cap. Il Romanticismo, pp. 149-183.
9
Gli scrittori italiani del Novecento solitamente accostati al fantastico sono
Buzzati, Landolfi, Savinio, Delfini, Tabucchi, ognuno con modalità narrative
distinte, allegorico-metafisiche, influenzate dalla psicologia dell’inconscio,

313
Esistono dunque tante geografie fantastiche e tanti territori del-
l’immaginario che racchiudono stratificate mitologie di differenti
tradizioni culturali.
In questo senso la tradizione narrativa siciliana si distingue per
l’originalità delle modalità espressive e le suggestioni letterarie
provenienti dal mito, dal folklore, dai racconti fiabeschi e popolari che
si intrecciano al reale, innervandolo fino a creare un modo particolare
di osservare la storia, di comprenderla e di superarla, pur ricon-
fermandola come punto di partenza privilegiato. Terra di vocazione
realistica, la Sicilia si segnala anche per una vocazione formale
‘oltranzista’ sottolineata da più parti10, un’affezione alla lingua e alle
possibilità trasfigurative del reale che essa offre, presente in molti
autori siciliani del Novecento, da Pirandello a Joppolo, da Pizzuto a
D’Arrigo, Consolo fino al barocchismo lussureggiante di un Bufalino.
Fantastico e oltranza verbale trovano dunque in Sicilia un fertile
territorio di sintesi che esita in uno spiccato sperimentalismo stilistico
tale da rinnovare il canone narrativo siciliano del secondo
Novecento11.

dagli automatismi del sogno, dal Mito o dalle suggestioni offerte dalle
geometrie formali del linguaggio e dalle architetture perfette dell’universo dei
segni.
10
Di vocazione ‘formale’ parla Salvatore Guglielmino nell’Introduzione a
Narratori di Sicilia, a cura di L. SCIASCIA e S. GUGLIELMINO, Milano,
Mursia, 19912 (19671), p. 504: «C’è forse un aspetto, […], comune a
parecchi dei più rappresentativi esponenti della narrativa siciliana
contemporanea, ed è la “vocazione formale” intendendo con questa defini-
zione la particolare cura e quasi la pervicacia dedicate all’elaborazione di una
scrittura fortemente connotata sul piano espressivo, alla vera e propria
“invenzione” di uno stile. […] Era altra la lingua di un Pizzuto o del
D’Arrigo di Horcynus Orca o di Consolo se confrontata con la produzione
contemporanea: con la fredda referenzialità di un Moravia o con la cristallina
incisività di un Calvino o con l’anonimo “rispetto delle norme” che
caratterizza tanta altra produzione».
11
L’attenzione agli aspetti linguistici e retorici del genere fantastico erano
stati già sottolineati da TODOROV nel suo La letteratura fantastica, cit., p.
65, 85-6 dove affermava: «Oggi si è d’accordo sul fatto che le immagini
poetiche non sono descrittive, che devono essere lette sul piano puro e
semplice della catena verbale che costituiscono, nella loro letteralità […]. La
lettura poetica costituisce uno scoglio per il fantastico. Se leggendo un testo,
si rifiuta ogni considerazione e si considera ogni frase come una pura
combinazione semantica, il fantastico non potrà apparire: il fantastico non

314
Nella tensione sempre irrisolta tra parole e cose si misura lo scarto
irriducibile tra livelli e orizzonti di realtà inconciliabili, il reale e
l’immaginario, l’io individuale e quello collettivo, la parzialità e la
totalità. Il linguaggio fantastico si dispone a dire l’indicibile, a
nominare l’innominabile e all’interno della realtà testuale trova il
proprio spazio di esistenza. Affermare la retorica dell’indicibile si-
gnifica aprire il campo alla problematizzazione del linguaggio come
strumento capace di dire qualcosa su un oggetto sempre sfuggente e
irraggiungibile perché situato al di là dei confini del linguaggio stesso.
Di sperimentazione linguistica come mezzo di trasfigurazione della

sussiste se non nella finzione […]. Se il fantastico si serve continuamente


delle figure retoriche, è in quanto vi ha trovato la propria origine. Il
soprannaturale nasce dal linguaggio: ne è insieme la conseguenza e la prova.
Non solo il diavolo e i vampiri non esistono se non nelle parole, ma per di più
il linguaggio solo consente di concepire ciò che è sempre assente: il
soprannaturale. Questo diventa perciò un simbolo del linguaggio allo stesso
titolo delle figure retoriche, e la figura è, come si è visto, la forma più pura
della letteralità». Dopo il critico bulgaro, molti altri studiosi si sono con-
centrati su analisi formalistiche del fantastico (J. BELLEMIN-NOËL, Des
formes fantastiques aux thèmes fantasmatiques, in «Littérature» 2, 1971, pp.
103-118; C. BROOKE-ROSE, The Rhetoric of the Unreal, Cambridge
University Press, 1981; I. BESSIÈRE, Le Récit fantastique: la poétique de
l’incertain, Paris, Larousse, 1974) nel tentativo di rintracciarlo nelle strutture
della lingua. Rosalba CAMPRA in I territori della finzione, Roma, Carocci
2000, p. 133, afferma: «La letteratura fantastica, al pari tutta la letteratura del
nostro tempo, si risolve, nel suo fondamento, in una riflessione sulla natura
stessa dell’atto che la fa esistere». E Monica FARNETTI, Scritture del
fantastico, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a
cura di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi 2000, pp. 382-409, aggiunge: «Con
il ‘900 il fantastico si trasferisce sul piano del linguaggio, su un piano più
interno e meno visibile, come disse Calvino. A sdoppiarsi e duplicarsi così
non è più il protagonista ma il testo stesso come avviene nella prosa di
Borges. Alla definizione novecentesca del fantastico ha contribuito ne-
cessariamente quella di sogno come linguaggio figurativo, linguaggio delle
immagini. Il sogno nel ‘900 permetterebbe cioè di superare la tradizionale
dicotomia tra reale/immaginario, vita/morte, in cui si fondavano le
tradizionali discussioni sul tema del fantastico». Si ricorda anche lo studio di
Mary ERDAL JORDAN, La narrativa fantastica. Evoluciòn del genero y su
relaciòn con las concepciones de las lenguaje, Madrid, Iberoamericana 1998,
la quale sostiene la tesi dell’autonomia del linguaggio rispetto alla
referenzialità del mondo oggettivo e la sua vocazione a ‘modellizzarlo’
attraverso il proprio sistema semiotico.

315
storia si parla a proposito del lunghissimo romanzo di Stefano
D’Arrigo, Horcynus Orca, pubblicato nel 1975 dopo una lunga e
faticosa gestazione e non senza polemiche e accesi dibattiti. Il nucleo
embrionale del romanzo, La testa del delfino, scritto tra il 1956 e il
1957, fu rielaborato tra il 1958 e il 1961, anno in cui uscì col titolo I
fatti della fera, la prima versione di Horcynus Orca12. Da I fatti della
fera (1961) Elio Vittorini pubblica nel 1960 sul «Menabò» n. 3 due
episodi, intitolati I giorni della fera (d’ora in poi GF)13. Il confronto
tra le diverse stesure evidenzia un lavorìo ossessivo su ogni singola
parola che subisce radicali trasformazioni fino ad assumere una veste
linguistico-espressiva del tutto nuova. Le innovazioni infatti non si
limitavano al passaggio delle forme dialettali (GF) dal piano lessicale
a quello sintattico, ma giungevano alla creazione di una lingua as-
soluta e unica, «un linguaggio unico, la cui piena espressività deve
emergere frase per frase, entro l’orizzonte dell’opera», come si legge
nella Prefazione all’edizione Oscar Mondadori del 1982, curata da
Giuseppe Pontiggia14. Il dibattito suscitato dal romanzo verteva sia

12
Per facilitare il riferimento ai romanzi si useranno le seguenti sigle: GF (I
Giorni della Fera), FF (I fatti della fera) e HO (Horcynus Orca). Si precisa
inoltre che le citazioni da Horcynus Orca fanno riferimento all’edizione
Mondadori 1975.
13
S. D’ARRIGO, I giorni della fera, in «Il Menabò» 1960, 3, pp. 7-109. I due
episodi narrano la cattura e uccisione del delfino e il trasbordo di ‘Ndrja sulla
barca di Ciccina Circé e corrispondono a HO rispettivamente pp. 181-218 e
pp. 311-403. La lunga e tortuosa vicenda editoriale si può ripercorrere in W.
PEDULLÀ, Introduzione a I Fatti della fera, Milano, Rizzoli 2000, pp. V-
XXXVI; C. DE SANTIS, Intervista a Giuseppe Pontiggia, in Il mare di
sangue pestato. Saggi su Stefano D’Arrigo, a cura di F. Gatta, Catanzaro,
Rubbettino 2002, pp. 9-27; E. GIORDANO, “Horcynus Orca”: il viaggio e
la morte, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane 1984, cap. I: A proposito di un
“caso” editoriale, pp. 9-27.
14
Sulla lingua restano fondamentali i seguenti studi: F. GATTA, Semantica e
sintassi dell’attribuzione in “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, in
“Lingua e stile”, n. 3, a. XXVI, sett. 1991, pp. 483-495; G. ALFANO, Per
una definizione di “romanzo monolinguistico”: Horcynus Orca di Stefano
D’Arrigo, in “Filologia e Critica”, a. XIX, fasc. III, sett.-dice., 1994, pp. 393-
410; I. BALDELLI, Dalla Fera all’Orca, in “Critica letteraria», a. III, n. 7,
1975, pp. 287-310 ora in ID., Conti, glosse e riscritture, dal secolo XI al
secolo XX, Morano, Napoli, 1988; G. ALVINO, Onomaturgia darrighiana,
in “Studi linguistici italiani», XXII, 1996, pp. 74-88 e pp. 235-269 (ora in
ID., Tra linguistica e letteratura. Scritti su Stefano D’Arrigo, Consolo,

316
sull’impiego del dialetto in letteratura, che sul rapporto più generale
tra linguaggio letterario e realtà nel contesto degli anni Sessanta e
Settanta, quando il rifiuto del Neorealismo e dell’Ermetismo spingeva
gli intellettuali italiani a problematizzare la questione del ‘realismo’ in
letteratura, a riproporre la funzione dell’intellettuale nella realtà
storico-politica di quegli anni e a ricercare nuove‘poetiche’ in grado
di assumere il ‘nuovo’ nella Letteratura15. Il lavoro di D’Arrigo fu
tutto volto alla rifondazione lessicale-semantica della lingua, con
risultati di manierismo visionario e di sperimentalismo linguistico.
L’obiettivo era di giungere a una lingua assoluta come egli stesso
dichiarò: «Il problema, per me, non fu tanto quello di raccontare certi
fatti, ma come raccontarli, e, di conseguenza, di quale linguaggio
adoperare. Ho costantemente cercato di far coincidere i fatti narrati
con l’espressione […] rifiutando qualunque modulo che mi apparisse
parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo o assoluto»16,

Bufalino, in «Quaderni Pizzutiani», 4-5, 1999, pp. 1-59); G. ALFANO, Gli


effetti della guerra. Su Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Roma, Luca
Sossella editore 2000; Il mare di sangue pestato, cit., raccoglie saggi su
diversi aspetti dell’opera. Di recente ripubblicazione è inoltre il romanzo I
fatti della fera, Milano, Rizzoli 2000 con Introduzione di Walter PEDULLÀ
(pp. V-XXXVI) e i saggi di Andrea CEDOLA (pp. XXXVII-XLV) e di
Siriana SGAVICCHIA (pp. XLVII-LX), rispettivamente sull’epistolario di
D’Arrigo con Cesare Zipelli e sul passaggio da I fatti della fera all’Horcynus
Orca.
15
La fondazione del «Menabò» (dal 1959 al 1967 ad opera di Vittorini e Italo
Calvino) rispondeva all’esigenza di rinnovamento delle poetiche letterarie tra
Neorealismo e Neoavanguardia. Seguiva alla creazione della collana
editoriale dei Gettoni di Einaudi voluta da Vittorini il quale si impegnava nel-
la ricerca di nuove voci di scrittori capaci di rappresentare il nuovo orizzonte
della narrativa italiana. Non si dimentichi che proprio per i Gettoni era stato
pubblicato nel 1954 Il Sarto della stradalunga, primo romanzo di quel
Giuseppe Bonaviri che, qualche anno dopo avrebbe pubblicato tre romanzi
tra i più innovativi e interessanti del panorama narrativo degli anni Settanta
italiano e siciliano in particolare: La Divina foresta (1969), Notti sull’altura
(1971) e L’Isola amorosa (1973); romanzi che ricevettero la viva attenzione
di scrittori e critici all’avanguardia quali Calvino e Manganelli, e che dunque
contribuirono non poco a rinnovare il canone narrativo siciliano proponendo,
come il romanzo di D’Arrigo, un anti-realismo linguistico e un simbolismo
espressivo lontanissimi dalle poetiche veristiche e neorealistiche.
16
Intervista concessa a Stefano LANUZZA, Scilla e Cariddi. Luoghi di
Horcynus Orca, Catania, Lunarionuovo, 1985. Un elenco esaustivo dei

317
aggiungendo in un’intervista del 1967: «Il mio linguaggio non è né il
dialetto, né l’italiano letterario, lingua per me d’accatto. E’ come se io
avessi inventato una mia lingua diversa sia dal dialetto sia
dall’italiano. […] Si tratta di termini dialettali in grado di rap-
presentare situazioni ed emozioni […]». L’ossessivo scavo verbale,
sintetizzato nella metafora linguistica che suggella il romanzo:
«dentro, più dentro, dove il mare è mare»17, è evidente nelle ampie
perifrasi, nei giochi verbali e nelle ridondanze e ripetizioni di lemmi a
loro volta risuffissati e risemantizzati, tanto da poter individuare nel
fenomeno lessicale e sintattico della ripetizione, lo stigma stilistico
della lingua horcynusa, il suo tratto più rilevante; le metamorfosi che
la lingua subisce e le neoconiazioni così sfrenate pervengono infatti a
un’incessante ricreazione di sempre nuovi significati18. Il fluviale
romanzo di D’Arrigo irrompeva quindi con una straordinaria
imprevedibilità di linguaggio e di contenuto sulla scena letteraria
italiana allora alle prese con lo sperimentalismo della Neoavanguardia
e la questione dei nuovi orizzonti linguistico-espressivi con cui la
Letteratura doveva confrontarsi. Sebbene infatti la storia narrata, il
nostos del marinaio ‘Ndrja dalla guerra, il 4 ottobre 1943, non rap-
presenti affatto una novità e attinga al repertorio più diffuso di tutta la
letteratura occidentale19, tuttavia il modo in cui esso è trattato lo è per

neologismi lessicali è riportato da G. ALVINO, Onomaturgia darrighiana…,


cit., pp. 83-88 e poi pp. 235-264 cui segue l’elenco dei composti
giustappositivi e delle univerbazioni, pp. 264-269.
17
Si tratta dei versi di All’alba di Alfonso GATTO, Poesie d’amore, Milano,
Mondadori, Lo Specchio 1973, come D’Arrigo stesso dichiarò: «Come la
donna affonda e dice vieni / dentro più dentro dov’è largo il mare». Il
rapporto di D’Arrigo con la poesia non può trascurarsi; egli aveva infatti
iniziato scrivendo le poesie Codice siciliano (Milano, Scheiwiller, 1957) e
tutto il romanzo risente di una diffusa dimensione epico-lirica connessa alla
cifra antiromanzesca ed epica dell’opera poiché intreccia con il testo poetico,
relazioni determinanti e fondanti.
18
F. GATTA, La rigenerazione del lessico: lingua comune e neologia in
“Horcynus Orca”, in ID., Il mare di sangue pestato, cit., pp. 143-157, [p.
152]; I. BALDELLI, Dalla Fera all’Orca, cit. p. 288.
19
Ricco di informazioni sul romanzo è lo studio di E. GIORDANO,
“Horcynus Orca”: il viaggio e la morte, cit, cfr. cap. III, La trama. Alcuni
modelli, pp. 47-100. Oltre all’Odissea, anche il Moby Dick di Melville
influenzò certamente HO per il tema del mostro marino e per l’uso simbolico
del colore bianco. Si legga Moby Dick, cap. XLII, La bianchezza della balena
e HO, pp. 280-281 dove il bianco, colore delle ossa dei cadaveri, assume il

318
tanti aspetti. Il mare, la morte, il nostos dell’eroe in patria e
l’avventura infatti sono nuclei tematici ricorrenti attorno ai quali la
materia narrativa si intreccia e si sviluppa in molteplici modalità20.
L’acqua, principio di vita, qui è anche principio di morte mentre
l’Orca diviene il simbolo del Male Assoluto come il Leviatano bi-
blico21. Il romanzo autorizza una duplice lettura, una realistica e
limitata allo sviluppo orizzontale e diegetico della materia narrativa, e
una ‘simbolico-mitica’ anti-diegetica che frantumando di continuo la
linearità della trama, crea un percorso circolare o ellittico, digressivo e
verticalizzato che affonda nelle profondità dell’Io e in quelle
collettive dell’immaginario mitico22. Se a livello realistico è narrato il

simbolo della morte: «Tutto quel nereggiare, fitto e agitato, di Camicie Nere
che veniva allora dal bastimento in navigazione per l’Abissinia: nereggiare da
dove svaporava una ventosità di puzze di piedi, di divise nuove fiammanti, di
cuoio di scarpe, di rancio, di fumo di ciminiere e di creolina, quel nereggiare,
era diventato tutto un biancheggiare d’ossa, nude e fredde, che qua e là
andavano ingiallendo». Sul rapporto con lo scrittore americano e le fonti
eterogenee del romanzo, si veda anche D. MARRO, D’Arrigo verso il
romanzo: “Delfini e Balena Bianca”, in «Quaderni di Italianistica», a. XVIII,
fasc. 1, 1997, pp. 57-72). Numerose suggestioni saranno giunte attraverso Le
Avventure di Gordon Pym di E. A. POE (HO, p. 280) e anche dalla tradizione
novellistica di BOCCACCIO (Decameron II, 7 la novella di Alatiel per il
topos della fanciulla rapita e Decameron V, 9 la novella di Guglielmo
Rossiglione e Guglielmo Guardastagno per il topos del cuore dell’uomo
mangiato dalla donna ripreso in Horcynus Orca, p. 1186, a proposito del-
l’ultimo incontro di ‘Ndrja e Marosa: «Gli sembrò come di vedergliela
addentare la parola cuore, e s’immaginò il suo cuore, vivo vivo, mentre glielo
mordeva piano piano, pezzetto a pezzetto»). Per questi riferimenti si veda E.
GIORDANO, cit., pp. 90 e sgg.
20
W. PEDULLÀ, Congetture per un’interpretazione di “Horcynus Orca”,
Introduzione a S. D’ARRIGO, Horcynus Orca, cit., pp. VII-XXXI: “A
sentire Alberto Savinio, «uno dei probabili etimi di Mare, e proposto come
tale da Curtius, è il sanscrito Maru che significa deserto e propriamente cosa
morta, dalla radice Mar, morire» [p. VII].
21
G. DURAND Les structures anthropologiques de l’imaginaire, 1960, trad.
it. Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1972, pp. 88 e
sgg. per il simbolismo dell’acqua benefica e di quella invece legata al male.
22
La lettura simbolico-mitica dell’HO, qui appena suggerita, si avvale del
contributo di alcuni testi attinenti a una critica archetipico-simbolica quali: G.
DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., in parte già
utilizzato per la simbolica numerica presente nel romanzo, da P. FRARE,
“Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, in «Testo», 6-7, 1984, pp. 92-102; N.

319
ritorno in patria dell’eroe scampato alla catastrofe della Guerra
mondiale, a livello simbolico il romanzo narra l’apocalisse di una
civiltà intera e della sua etica, ‘straviata’ dall’etica di morte delle
civiltà contemporanee. L’ossessione dell’Assoluto, la ricerca di un
archetipo linguistico e ontologico cui pervenire, l’approdo a un’auten-
ticità primigenia, costituiscono le radici filosofiche ed estetiche dello
stile narrativo del romanzo. Studioso di Hölderlin, a cui dedicò la tesi
di laurea, D’Arrigo incentrò la propria riflessione sui due archetipi
primari, la Vita e la Morte, uniti fino quasi a coincidere in una
filosofia e in una religione di vita basata sull’abolizione del Tempo
mortale e l’inserimento in un Tempo cosmico, ciclico e ripetitivo.
Nella poetica darrighiana si avverte cioè l’eco da un lato del sim-
bolismo romantico e dall’altro dell’ascetismo orientale, in quanto
entrambi tendono all’annullamento dell’illusione terrena e alla vera
comunione divina in una superiore sfera di conoscenza oltre-mondana
ed eterna. A questo tende la maniacale ricerca di un’origine
archetipica, di un tempo perfetto ed eterno, che si serve di una retorica
e di un linguaggio corrispondenti. Nel romanzo l’empirico e il
realistico subiscono dunque un superamento e una trasfigurazione in
linea con la ricerca di una modalità linguistica capace di accogliere
una nuova dimensione del ‘reale’ in cui il passato, rievocato nei sogni
e nella rêverie, deforma un presente irriconoscibile, ‘straviato’ dalla
storia e da essa travolto. Nel mondo arcaico e mitico dei pellesquadre
di Cariddi, omphalos universale, micromondo in cui si specchia il
Cosmo, il linguaggio corrisponde alla realtà, i segni alle cose, al-
l’opposto di quanto avviene nel mondo della storia, nel romanzo rap-
presentato dal Duce e dalla Guerra Mondiale; così il Mito e la Poesia
si scontrano con la Storia e se i primi prevedono procedimenti
narrativi ripetitivi e regressivi, la seconda si serve invece della di-
namica lineare e progressiva del tempo, se le prime adottano la
retorica della ridondanza, la seconda invece ricorre alla variatio delle
forme espressive. L’opera è un sistema in cui ogni livello strutturale è
in relazione motivata, necessaria e non arbitraria con tutti gli altri. E
infatti in Horcynus Orca esiste una piena corrispondenza tra forma e
contenuto: se il ritorno è il tema semantico della narrazione, esso

FRYE, Anatomy of Criticism, 1957, trad. it. Anatomia della critica, Torino,
Einaudi, 1969, p. 198 e sgg; G. BACHELARD, La poétique de la rêverie,
1960, trad. it. La poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 1972, ID., La poétique
de l’espace, 1957, trad. it. La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975.

320
diventa figura retorica per eccellenza sia a livello lessicale e sintattico,
che nelle microstrutture fonetiche della lingua. Si aggiunga inoltre che
la ripetizione, come le ripetute citazioni in un testo, ottiene l’effetto di
snaturare il reale, perché svuota di significato le strutture verbali
attraverso processi di desemantizzazione, sottraendole alla loro
significazione primaria e disponendole a nuovi significati; la ri-
petizione è dunque uno strumento retorico del fantastico. In Horcynus
Orca dunque come la sintassi narrativa procede per arcate molto
ampie, per ricordi, digressioni e analessi23, così a livello lessicale e
fonetico, il testo presenta una tessitura fonica, fatta di allitterazioni,
assonanze e consonanze a distanza, e di figure retoriche quali ana-
diplosi, geminatio, raddoppiamenti analitici e sintetici, chiasmi e ite-
razioni continue di parole e/o di interi sintagmi, che garantiscono la
disseminazione fonica del significante, confermando così la piena
corrispondenza tra piano semantico e piano retorico dell’opera, tra se-
gno e significato24. Il recupero della dimensione sonoro-evocativa

23
Per il doppio registro temporale, quello del tempo che trascorre e quello del
tempo ricordato, si veda G. ALFANO, Tra due flussi. Grammatica e logica
dei tempi in “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, in Il mare di sangue
pestato, cit, pp. 77-102. In generale sulla categoria narrativa del Tempo e il
rapporto tra tempo imperfetto della reiterazione e del ricordo e tempo perfetto
dell’azione, si veda: H. WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo,
Bologna, Il Mulino 1978, pp. 125-146. G. Alfano nel saggio sopra citato di-
mostra come l’esistenza di un doppio registro temporale, quello percettivo e
quello rappresentativo, del ricordo e del vissuto, e la loro non-coincidenza,
determini nel romanzo l’assenza di un giudizio etico-linguistico da parte di
‘Ndrja. Lo scollamento tra la percezione del vissuto e il ricordo di ciò che è
stato determinerebbe cioè l’impossibilità a dire, a esprimere linguisticamente,
attraverso parole, un giudizio sulla realtà e dunque spiegherebbe il silenzio
del protagonista. In effetti tutto il romanzo si basa su una sproporzione mo-
struosa tra segno e significato, tra linguaggio e realtà; l’opera narra pochi es-
senziali accadimenti con uno sperpero irrefrenabile di linguaggio, come se
l’eccesso di parole celasse in realtà il vuoto di cose.
24
Per tali aspetti e, in particolare, per la semantizzazione delle catene foniche
dei significanti e sul modo in cui le innovazioni grammaticali, sintattiche e
dunque stilistiche traducono in realtà le innovazioni delle idee di un autore, si
vedano i seguenti testi: Jurij M. LOTMAN, La struttura del testo poetico,
cit.; Théorie de la littérature, a cura di Tzvetan Todorov, Paris, Seuil 1965,
trad. it. I formalisti russi, Torino, Einaudi 1968, e in particolare gli orien-
tamenti della critica stilistica di Leo SPITZER, Marcel Proust e altri saggi di

321
della lingua horcynusa, insieme ad altri aspetti che vedremo più
avanti, corrisponde alla volontà di proiettare l’universo testuale in un
mondo arcaico in cui miti, tradizioni popolari e riti religiosi trovano
espressione in una narrazione orale e collettiva anteriore all’af-
fermazione dell’isolamento dello scrittore nella prosa della civiltà
moderna25. La fluidità e la duttilità del segno linguistico horcynuso,
piegato a straordinarie metamorfosi, ottengono una cifra epico-lirica
che veicola l’ingresso del magico nel realistico, l’infrazione alla
norma e il riscatto fantastico del ‘reale’. Un primo esempio di come
l’universo semiotico della lingua crea la propria realtà, autonoma da
quella referenziale, è la coniazione del verbo «nuovoliare», ottenuto
dalla fusione di “nuotare” e “volare” e con l’aggiunta della vocale /i/
che produce un particolare effetto fonosimbolico perché «nuovoliare»

letteratura francese moderna, Torino, Einaudi, 1959 e ID., Critica stilistica e


semantica storica, Bari, Laterza 1966.
25
Sulla fine del consolante patrimonio collettivo del “narratore” si veda W.
BENJAMIN, Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in
ID., Schriften (1955), trad. it. Angelus Novus, Torino, Einaudi 1995, pp. 247-
274 a proposito del tramonto della narrazione come scambio di esperienze
con l’avvento della modernità che con i suoi orrori bellici e le radicali
trasformazioni economico-sociali ha di fatto eliminato gli spazi e le occasioni
di condivisione delle esperienze collettive sempre più a vantaggio
dell’isolamento individuale. Anche G. LUKÁCS parla della solitudine del
romanziere nell’epopea di un mondo abbandonato da Dio in Teoria del
romanzo. Nell’Introduzione ai Racconti notturni di E. T. A. HOFFMANN
(Torino, Einaudi 1994, pp. VII-XLI), Claudio MAGRIS interpreta l’origine
del fantastico hoffmanniano come espressione di una soggettività scissa tra
l’Io e il no-Io, secondo l’idealismo fichtiano di età romantica, che lo scrittore
tedesco analizza con estrema lucidità nella diagnosi di unacoscienza sdop-
piata e schizofrenica, sprofondata negli abissi della coscienza e che non esita
a percorrere i territori del magico e del favoloso per dar voce alla fantasia che
sola può svelare i misteri celati dietro la prosaica e piatta quotidianità bor-
ghese. Magris riconduce l’estetica letteraria di Hoffmann all’angoscia dell’Io
romantico per l’esilio dal sodalizio con gli dei dopo l’avvento della
modernità e la condanna ad un’inesauribile sete di Assoluto. Da qui la
rivalutazione della fantasia e del favoloso anche come risposta, in chiave
ideologica, di uno spirito romantico che sogna chimere, fate e imprese
cavalleresche e regredisce ad un’età antica mitico-favolosa in cui questi
valori erano ancora validi.

322
indica specificamente il nuoto a volìo e non il semplice nuoto (HO:
149, FF: 94)26.
Nel passaggio da GF a HO ogni singolo vocabolo si amplifica e il
ritmo progressivo della storia si trasforma in quello regressivo
dell’epos. Il tempo, scandito ritmicamente in GF, si sospende infatti
nell’intederminatezza in HO e al contempo subisce un’inten-
sificazione lessicale fonoespressionistica: «specchio di mare» (GF)
diventa «strabilio di mare» (HO: 181), «mandavano barbagli contro le
case» (GF: 9) diventa «facevano specchìo» (HO: 183). HO affolla
parasinteti, con suffissi e/o prefissi «sgridavano», neologismi «tea-
tranteria” e fonosimbolismi «ngangà» che in GF o in FF sono assenti;
alcune volte l’aggiunta si limita a qualche aggettivo: (GF: 15)
«mandavano bagliori» diventa (in HO: 189) «mandavano bagliori
scurocuro». Termini dialettali di GF sono italianizzati in HO pur
mantenendo però l’eco fonosimbolica: (GF: 20) «’nnacata posta
posta» in HO: 195 diventa «quel remeggio dell’ontro posta posta».
Tutte le voci analitiche di GF e FF diventano sintetiche in HO (là
dietro diventa laddietro, così come vistocogliocchi, percosidire,
sentitodire, Facciatagliata, Portempedocle, cannadastendere, tene-
brolucente, camerapermangiare). I segni grafici che introducono il
dialogo diretto dei personaggi, presenti in GF e FF, scompaiono in
HO dove la voce di un narratore anonimo e collettivo, come l’aedo
epico omerico, annulla la pluralità dei singoli a favore di un impasto
linguistico omogeneo e uniforme. Emblematico è il caso del tribolo
che in FF: 26-31 è ritmato dall’alternarsi delle singole voci dirette
delle femminote e che invece in HO: 45-51 confluisce nel coro col-
lettivo e sinfonico di voci diverse27. Allo stesso scopo infatti HO
scioglie il dialogo diretto delle singole voci in una lunga e complessa
architettura sintattica che si rivela l’eco lontana di un’oralità antica e
le voci di questo antico passato ritornano subendo però infinite

26
Cfr. C. MARABINI, Lettura di D’Arrigo, Milano, Mondadori 1978, p. 22.
27
Per il passaggio da FF a HO si veda S. SGAVICCHIA, Da I fatti della fera
a Horcynus Orca, in S. D’ARRIGO, I fatti della fera, cit., pp. XLVII-LX, in
particolare, p. LVII-LVIII. Nel saggio inoltre si suggeriscono le fonti
pittoriche e iconografiche del tribolo darrighiano e si ricorda un articolo di
D’ARRIGO, Omiccioli sino a Scilla (Roma, Galleria d’Arte Palma 1950, pp.
7-8) scritto in occasione di una mostra del pittore nel 1950 che può
considerarsi un archetipo stilistico del futuro Horcynus Orca anche perché in
esso compare l’espressione dentro, più dentro dove il mare è più mare con
cui il romanzo si conclude.

323
metamorfosi. Si vedano ad esempio le successive trasformazioni
subite da un sintagma nel passaggio da FF: 203: «Ogni fedele, quelle
deesse, lo considerano» diventa in GF: 42: «quelle – disse -» e in HO:
313: «Ogni fedele, quelle deisse, lo considerano», dove l’aggiunta di
elementi lessicali e sintattici ottiene l’effetto di ‘straviamento’ e la
creazione di nuove realtà linguistiche. Ogni passaggio da un livello di
realtà a un altro, come dalla veglia al sonno, scandito nettamente in
FF, in HO assume invece la nebulosità delle sfumature. Si legga la
sequenza del sogno, assente in FF:

Gli tornava a galla il sogno di quella notte d’agosto sulla corvetta e


issofatto vedeva che senso avesse per lui quella scena con sua madre al posto
di sua nonna Marchiona e lui muccusello a letto, al posto di Caitanello, e in
cui l’Acitana con la mano gli faceva segno di avvicinarsi, e lui, il figlio
ormai barbuto, ormai braghettone di porta, che lei non aveva conosciuto,
s’avvicinava e allora lei gli faceva vedere che stava preparando lo stomatico
per liberarlo dall’invasamento della feruzza, di quella tale Mezzogiornara,
quel muccusello a letto, laddèntro, con la faccia giallocanario28

E ancora: (FF: 218) «in un biancore di schiuma – s’immaginò – in


tutto simile a quello di un’onda che corre a frangersi», diventa in HO:
338 «in un biancore di schiuma, come l’ondata che viene a infrangersi
contro uno scoglio e speronata, gli si apre intorno schiumeggiando e
sembra allora che se lo risucchi e incorpori». In generale, la tendenza
è di intensificare l’espressività fonosimbolica dei significanti pun-
tando sullo spettro completo di sensazioni cromatiche, olfattive,
visive, uditive, su tutto il dominio dell’impalpabile e immateriale: GF:
55 «gli occhi fiammeggiarono come due piccoli tizzi di fuoco bianco
toccati da un soffio. Teneva il viso, tondo e schiacciato, a piatto, verso
l’alto, come aguzzasse la vista cercando gli occhi di lui», (identico in
FF: 213), in HO: 330 diventa «I suoi occhi fiammeggiarono bianchi,
d’un biancore come di due piccoli tizzi sbraciati da un soffio di fiato,
teneva il viso piegato da un lato, come appoggiato alla scapola, e
pareva così, che aguzzasse la vista, cercando gli occhi di lui: […]».
Una perfetta simmetria organizza il viaggio ricordato per analessi
(1-4 ottobre e corrispondente alla prima delle tre sezioni del
romanzo), quello cioè della rêverie, e quello compiuto (4-8 ottobre
1943). L’itinerario è duplicato come nel modello del palindromo o
della specularità invertita. Come suggerisce Ivan Fónagy nel suo La
28
HO: p. 287.

324
ripetizione creativa29, esiste una corrispondenza tra strutture
linguistiche e contenuti inconsci latenti. Figure retoriche quali la
ripetizione, la tensione e la ridondanza, schemi simmetrici come il
palindromo (a b c / c b a) o l’anadiplosi, tradurrebbero a livello
formale l’idea del ritorno dell’identico e corrisponderebbero, a livello
più profondo, all’espressione inconscia della pulsione di morte in
quanto schemi di proiezione regressiva a un passato primordiale e a
modelli temporali ciclici e ripetitivi. Nel romanzo in esame, come si è
provato a mostrare, esiste una simmetria costruttiva tra piano
semantico (il nostos) e piano retorico. ‘Ndrja nel romanzo torna in pa-
tria per morire e vive solo nella memoria del passato. Quando il
Tempo ricordato raggiunge quello raccontato, l’eroe muore e il
romanzo raggiunge il suo epilogo.30 Horcynus Orca metaforizza il
modello diegetico romanzesco come lunga narrazione che intreccia
una serie infinita di digressioni paraboliche per ritardare l’epilogo che
corrisponde al tempo stesso alla fine della storia e anche a quella del
suo protagonista.
La diegesi del romanzo ricalca il modello narrativo romanzesco di
un epilogo ritardato da una serie continua di ostacoli e prove che
distraendo l’eroe dall’oggetto desiderato, ritardano la fine della storia.
Il nostos di ‘Ndrja è infatti rallentato da vari incontri, tra cui quello
con le femminote contrabbandiere di sale, Sirene e maghe (le
«deisse», fate incantesimate) «femminote e fere, nei caratteri, in tutto,
si trattavano, le une con le altre, come si meritavano, e forse c’era del
vero in quello che sosteneva don Mimì Nastasi, che cioè erano
intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché discendevano tutt’e
due, per gradi, dalle sirene». E come la maga omerica Circe con i suoi
incantesimi, qui Ciccina Circé (HO pp. 323-403) ammalia i delfini,
fere «sdiregnatrici», col ‘dindin’ della sua campanella e avvolta nel
buio della notte, non rivela a ‘Ndrja le proprie fattezze, «nemica mor-
tale, a suo dire, della luce del giorno»31.
Nella seconda e terza parte in cui il romanzo si divide si inverte il
rapporto tra tempo ricordato, prevalente nella prima parte, e tempo

29
I. FÓNAGY, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera
poetica, Bari, Dedalo 1982.
30
G. GENETTE, Figures III, Paris, Seuil, 1972, trad. it. Figure III, Torino,
Einaudi 1976, in particolare i capp.Ordine (pp. 81-134) e Durata (pp. 135-
161).
31
HO: pp. 646-647.

325
vissuto, come dimostra l’aumentata percentuale dei verbi di
movimento al passato remoto («andò, giunse, arrivò»). Altri elementi
fantastici ricorrono in Horcynus Orca, quali ad esempio gli spazi
simbolici della casa, della terra natale, del mare e del labirinto32.
Approdato in patria, ‘Ndrja percorre i sentieri labirintici di una
Cariddi irriconoscibile e stravolta dalla guerra:

Girò attorno al villaggio a testaditenaglia: lo risalì per il lato della plaia,


camminando nella cannamele, rasente alle case, andò poi per il lato nord,
costeggiato dal canneto, e quando arrivò alla fine del camminamento, trovò
con sua meraviglia che nella casa d’angolo, la casa di suo padre, era acceso il
lume.33

L’ingresso a casa è a lungo ritardato perché ‘Ndrja si aggira


circospetto all’esterno di uno spazio in un certo senso sacro, separato
da un recinto invalicabile dove continuano a vivere i segni intatti di un
passato ancora vivo: «Girò ancora una volta, rasente a tutte quelle
pareti di case che parevano quasi attaccate l’una all’altra, come una
cerchia ininterrotta di mura traspiranti di fiati di addormentati, dove
c’era chi si lagnava in sonno, chi mandava esclamazioni e gridava di
paura, chi chiamava, invocava qualcuno, entrando e uscendo da
visioni»34. E come visioni si alternano i quadri della memoria: «Nel

32
A proposito dell’immagine metaforica del labirinto, spazio fantastico per
eccellenza, e del viaggio si notino le seguenti osservazioni: «Il labirinto» dice
Borges «è un evidente simbolo della perplessità» la stessa che si prova al
cospetto dell’inesplicabile. Il labirinto è contemporaneamente una sfida all’in-
telligenza ma anche il seducente annichilimento di ogni sforzo e dunque l’an-
nullamento e la resa alla morte, altro tema fantastico per eccellenza».
33
HO: p. 404.
34
Ivi, p. 437. Immagine dell’intimità riposta, la casa custodisce un’interiorità
«[…] oggettivamente duplicata dall’esteriorità del muro e del recinto, perché
la casa è accessioramente un ‘universo contro’, e attraverso questo può
suscitare fantasticherie diurne» scrive G. DURAND, Le strutture antro-
pologiche dell’immaginario, cit., p. 245 e sulla spazializzazione dei ricordi,
G. BACHELARD, La poetica dello spazio, cit., pp. 36-7, scrive: «Nel teatro
del nostro passato che è la nostra memoria, lo scenario mantiene i personaggi
nel loro ruolo dominante. […] Lo spazio comprime il tempo […]. La me-
moria non registra la durata concreta, la duranta nel senso bergsoniano. Non è
possibile rivivere le durate abolite, si può solo pensarle sulla linea di un
tempo astratto privo di ogni spessore. Attraverso lo spazio, nello spazio
rinveniamo i bei fossili della durata […]. Per la conoscenza dell’intimità, più

326
quadro seguente […]»35. Nello stato di semi-coscienza del pro-
tagonista i confini tra reale e irreale, sogno e veglia, sfumano facendo
coincidere la realtà empirica con quella percettiva e immaginativa:

Gli parve di ascoltare, […] le fere e il mare frusciante sotto di esse, sem-
pre più fino e oscuro, sempre più confuso al silenzio della notte. Poi, sopra il
silenzio, sentì solo il dindin della campanella, quel tintinnio d’unghia
sull’orlo di un bicchiere; e lo sentì ancora, anche quando quel bicchiere sem-
brò riempirsi d’acqua come se dovesse contenere tutta l’acqua del mare. E
poi o sentì ancora, anche quando intorno a lui, per aria, sul mare, nella notte,
gli diventò inafferrabile ai sensi: lo sentì ancora e continuò a sentirlo, o a
immaginare di sentirlo, nel suo orecchio, dentro, acconchigliato, senza suo-
no, come dovesse sentirlo ormai per tutta la sua vita 36
’Ndrja non sapeva più quando vegliava e quando dormiva; era forse
perché stava perlopiù in dormiveglia e certe volte le scene che suo padre gli
andava esponendo, gli passavano davanti agli occhi come sogni: però nel
momento in cui era certo di sognarsele, quelle scene gli pareva di vederle e
di sentirle da sveglio. Anche suo padre gli veniva in sogno da cantastorie,
eppure aveva l’impressione di poterlo toccare con la mano. Doveva essere,
perché la capacità della sua mente, intartarata di sonno, era ancora quella di
cui aveva avuto prova sulla marina femminota, quello di chi ha il delirio
lucido e dorme e veglia, sogna e vive, ricorda e vede, ha il presente passato
futuro, vita e morte, tutt’insieme37.

Svanita la soglia che separa il regno diurno della veglia da quello


notturno del sonno, la sostanza dell’uno trapassa in quella dell’altro
realizzando una commistione prolifica di immagini e visioni. Le
coordinate si alterano, ciò che è vicino si allontana, il passato si attua-
lizza, il sogno diviene realtà: «Il sonno allora gli risaliva di colpo a
galla negli occhi e le pupille gli si stringevano in un forellino […]. Gli
pareva allora, per quel forellino, di guardare come dentro un
cannocchiale, e di vedere suo padre distanziatissimo, dall’altra parte
del letto, piccolo piccolo, come fosse in cima all’Antinnammare
[…]»38. In questo modo procede la narrazione figliando ricordi uno

urgente della determinazione delle date è la localizzazione spaziale della


nostra intimità».
35
Ivi, p. 546.
36
Ivi, p. 403 (il corsivo è mio).
37
HO: p. 557. Il corsivo sottolinea l’uso grammaticale di verbi e con-
giunzioni indicanti l’incertezza e l’ibridazione di stati diversi della psiche.
38
Ibidem.

327
dopo l’altro, incintandoli l’uno nell’altro, acconchigliati, per
riprendere una delle espressioni metaforiche disseminate nel romanzo
evocanti il simbolismo della maternità e della fertilità39. Rispettando il
meccanismo onirico di passaggi lenti e di sovrapposizioni spazio-
temporali, a un gesto reale (la mano del padre stretta a quella di
‘Ndrja, sdraiati sul letto, HO: 626) si sostituisce il suo doppio ricor-
dato (l’episodio dell’uccisione del soldato tedesco a Napoli)40.
La scena del bagno nelle acque della ‘Ricchia, di notte quando le
case di Cariddi riposano addormentate, ha una valenza altamente
simbolica, dato che l’immersione nelle acque originarie riconduce
l’eroe a ripercorrere alcune tappe della propria vita:

S’era sentita voglia di fare il bagno, la cosa più naturale che potesse fare
alla ‘Ricchia […] Si muoveva per istinto, e si muoveva, faceva, come ten-
tasse di combaciare, dopo tanti anni, col muccuso che lì, forse nella stessa
impronta di piede insabbiata, si metteva nudo e si gettava in acqua […]41

Nel dormiveglia, spazio di confluenza di percezioni eterogenee, è


messo in risalto il bagliore luccicante dei raggi solari e lo sfarfallio del
pulviscolo luminoso:

Sentì di sotto e intorno come un fruscio, uno traviamento d’onde, un


increstarsi finofino di bollicine come un insorgere di vene sotterranee, di fili
di corrente che si rompevano contro di lui […]. Là era ancora tutto un mi-
scuglio fuligginoso […] e il mare, che al largo era ancora tutto un grande
ammasso bluastro, riveriva, […], affiorava già nel freddo grigio lattoso che

39
Horcynus Orca è costruito su una fitta rete di immagini simboliche e
archetipiche, imperniate sul simbolismo della vita e della morte. Il mare e
l’acqua, principio di vita e anche di morte, le geometrie spiraliformi e
labirintiche sono i tratti non solo di una geografia realistica ma di una
metaforizzazione del discorso narrativo in quanto metafore di un meccanismo
genetico della narrazione stessa. Insomma lo spazio con i suoi oggetti che
proiettano al loro esterno il simbolismo in essi contenuto, traccia a sua volta
l’eco di immagini archetipiche lontane. Per questi aspetti cfr. Mircea
ELIADE, Immagini e Simboli, Milano, Tea 1993, in particolare il cap. IV,
Osservazioni sul simbolismo delle conchiglie; anche il già citato G.
DURAND.
40
Si veda il passo del romanzo (HO: p. 626 e sgg.), citato più avanti, in cui al
gesto paterno di dare la destra si sostituisce il ricordo della mano
‘impistolata’ del soldato tedesco ucciso a Napoli.
41
HO: pp. 641-42.

328
lo colora di primo mattino. […] Tocco su tocco, l’ondicella di maitino
spingeva alla riva un chiarore sempre più vivo e questo si spandeva per terra
[…]. Tutte quelle particelle di luce, pareva che le onde le raccogliessero qui e
là, scagli e scintille perse dal sole, solari rimasugli galleggianti42

Immerso nelle acque primigenie della ‘Ricchia, ‘Ndrja si lascia


andare ai ricordi:

Anche ora, anche questo, era come lo facesse in forza di sogno, per
l'appunto come per un’ispirazione, e pensava che l’aria mezza da son-
nambulo doveva proprio averla, l’aria di chi ripete di notte, a occhi chiusi,
senza volontà né spirito, qualcosa che fece di giorno, un giorno, e un lontano
giorno. Insomma, si muoveva come per un istinto e si muoveva, faceva,
come se tentasse di combaciare, dopo tanti anni, col muccuso che lì, forse
sulla stessa impronta di piede insabbiata, si metteva nudo e si gettava in
acqua; ma la pelle del muccuso a lui gli andava ormai corta e stretta, e la sua,
al muccuso, gli andava così larga, che l’infagottava tutto […]43.

I vari segmenti del passato tornano a galla come frammenti di un


lungo sogno: «Quel sogno era un vecchio sogno che tornava; quel-
l’apparizione, quella figura a due facce: femminota e sirena, tre con la
faccia di fera, era apparizione, figura di mente che risaliva a galla
dentro di lui, dalle profondità del passato alla superficie di quel
maricello là […]»44.
A proposito della preferenza del fantastico per il tema del viaggio,
I. Bessière scrive: «il fantastico nasce dall’amplificazione del tema del
viaggio»45, sia come dilazione della morte e ricerca infinita del-
l’oggetto desiderato, che come spinta verso il nuovo, l’ignoto, come
ansia di conoscenza e di ricerca. Il racconto di viaggi, la memoria del
tempo passato, la rêverie come raddoppiamento dell’esperienza, la
prima volta vissuta e la seconda narrata, amplifica la dimensione
fittizia dell’opera letteraria rispetto all’esperienza concretamente
vissuta e trova nel Novecento una molteplicità di applicazioni nar-
rative.
Esempio emblematico della trasfigurazione linguistica della realtà,
di come le parole ‘figliano’ i significati, è la lunghissima sequenza

42
Ivi, pp. 643-4.
43
Ivi, pp. 641-42.
44
Ivi, p. 652.
45
I. BESSIÈRE, Le récit fantastique, cit., p. 35.

329
narrativa che mostra il lento passaggio, tutto giocato sul piano lin-
guistico, dalla barca all’arca e da questa alla bara, cioè dal mare alla
vita, dalla vita alla morte:

Bar…cabar…cabar…abar…cabar…a… Fu come se la voce, da quella


bocca intartarata, affogata di mare, non ce la facesse più a sdillabrarsi,
trattenendo il fiato e rifiatando in continuazione dentro quella parola […] Per
questo forse cominciò a perdere colpi, a deragliare, sdillabaviarsi, sdillab-
brarsi insomma, sempre di più 46.

Attraverso la ripetizione ossessiva dello stesso vocabolo D’Arrigo


ne dinamizza magicamente il significato: «Pareva che questo che
ripeteva, lo ripeteva come un ritornello, un ritornello che ripeteva
tanto per ripeterlo, senza ricordarsi più che senso aveva, se l’aveva, né
perché, percome l’aveva intesta e lo ripeteva: era per questo, forse,
che lo ripeteva»47. La prosa, tramata com’è di impressionismo lirico,
di sintagmi astratti che assolutizzano le proprietà visive al posto della
materialità corporea degli oggetti, «il suo chiarore sfumò; un biancore
di madreperla; quel biancore di luce netta, violenta che gli dilagava di
sopra a lui, per cui era come se la scena che gli si era presentata da-
vanti agli occhi, laddèntro, nell’ombrosità delle canne lampeggiata dai
raggi delsole, gli si ripresentasse ora agli occhi della mente come una
visione di delirio, una visione della sua mente in fiamme»48,
raggiunge l’elevatezza dell’epos, sfruttando le potenzialità fonico-
simboliche della lingua già presenti nella precedente esperienza
poetica di Codice siciliano49, una raccolta di poesia che risente
dell’eco del poeta tedesco Friedrich Hölderlin, sui cui temi la poesia
darrighiana intrattiene stretti rapporti50. Nell’universo narrativo

46
HO: pp. 1112 e sgg.
47
Ibidem.
48
HO: p. 556.
49
La prima edizione di Codice siciliano risale al 1957, Milano, Scheiwiller,
“All’insegna del Pesce d’oro”, la seconda è del 1978.
50
F. GIARDINAZZO, ‘Sui prati, ora in cenere, di Omero’. Elementi per una
genealogia poetica di ‘Horcynus Orca’, in Il mare di sangue pestato, cit., pp.
115-142. Temi comuni ai due scrittori sono il viaggio di allontanamento e di
ritorno alla patria, il tema del mare, legato all’Iperione di Hölderlin, ma
soprattutto il senso apocalittico della fine di un mondo, la perdita irreparabile
di valori di una civiltà che dopo l’armistizio del 1943, sono stati perduti per
sempre, dunque il senso della fine.

330
horcynuso l’unica possibilità di vita per l’eroe destinato alla morte, è
la parola, il racconto e il ricordo. Come avviene nell’epos omerico
dove Ulisse continuamente ripete la preghiera che si ‘possa dire il
ritorno», così anche nel moderno epos romanzesco la memoria salva
dalla morte anche se per andare incontro a una morte eterna51. Morte a
cui rimanda anche il colore bianco dalla fredda e accecante lu-
minosità, il colore dell’orcaferone e delle ossa dei cadaveri; in ge-
nerale il biancore veicola le visioni, le epifanie del passato che
riemergono alla coscienza di ‘Ndrja rievocate, proustianamente, da
colori, suoni e odori: «il senso di quella visione mortifera, di morti a
fera»52.
Ogni particolare realistico svapora subito nell’indefinitezza, dei
ricordi o dell’immaginazione, come mostra il cronotopo realistico
dell’incipit del romanzo:

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno,
che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio,
nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese
delle Femmine, al paese dello scill’e cariddi.53

dove è subito messa in evidenza la ciclicità del tempo epico-mitico


e il valore simbolico delle unità numeriche. Il quadro del duemari, di
un pezzo di mare sullo stretto, al tramonto vapora lentamente di-
sperdendo nell’aria soffusa i propri contorni:

Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava […] il mare si


era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza
mutamento alcuno […] e quello sventolìo flacco flacco dell’onda grigia,
d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio. […] le Isole sembravano
vaporare nel sole come carcasse di balene cadute in bonaccia. […] il cielo
passava dall’ardente imporporato a una caligine di guizzi catramosi. Quando
s’affacciò sul mare, e ancora si vedeva chiaro per quei barbagli madre-
perlacei dell’aria, la notte senza luna sopraggiunse di colpo […] 54

51
In Perché leggere i classici, Milano, Mondadori 1995, Italo CALVINO, a
proposito dell’Odissea, scrive: «Già nella Telemachia, incontriamo le
espressioni ‘pensare il ritorno’, ‘dire il ritorno’. […] Ulisse non deve di-
menticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma
non deve dimenticare l’Odissea» p. 15-16.
52
HO: p. 557.
53
Ivi, p. 7.
54
Ibidem.

331
L’uso dell’imperfetto, l’impressionismo lirico-pittorico delle
espressioni astratte dipingono un paesaggio incantato dove il tempo si
sospende nella rifrangenza dei riflessi cromatici.
Nel tentativo di sostituire le parole alle cose la lingua horcynusa
raggiunge effetti plastici di grande rilievo: la guerra per esempio «che
gli pittava sotto gli occhi maneggiando lo scorciatore come un pen-
nello apposito per quella pittura pericolosa, […], gliela rappresentava
personificata in una femmina laida e scarmigliata»55, è personificata a
femmina con cui «quel mascolone magno» del sole «s’incrignava […]
Così, fra i tanti spaventevoli fenomeni che si erano visti, si dovette
vedere pure questo, il fenomeno di quel mascoline magno che s’in-
crignava quella pidocchiosa, quella miserabile sanguinaria, il fe-
nomeno di sole e guerra, insomma, che s’appattavano e a maschio e
femmina facevano razza»56. E nel farlo la sintassi imita le movenze
del parlato:

la gransoldatara. […] agitando queste ali di sangue, fiammeggianti, la


guerra volteggiava sullo scill’e cariddi, infuriando in terra, in cielo e in mare,
[…], era dovunque, dove il sole le svampava addosso per pigliarla e lei si
gettava a faccia all’aria per farsi pigliare, con le sue vergogne, il suo can-
noneggiare, il suo mitragliare, il suo sconquassare e massacrare, spalancate
tutte alla luce, perché il dardone di lui le arrivasse sino all’unghia dei piedi e
natura maschia e femmina umana, liquefacendosi insieme, facessero razza,
finimondo57

Un romanzo “marino” come Horcynus Orca si presta anche a


letture di tipo antropologico-archetipico. Il mare, e il suo elemento
primordiale, l’acqua, diviene principio di vita ma anche di morte. Su
questi temi un interessante contributo proviene dallo studio di Gilbert
Durand che parlando della simbologia del pesce e dell’inabissamento
nelle acque marine richiama lo schema dell’inghiottimento o della ri-
nascita e della risalita indietro nel tempo: «La gulliverizzazione si
integra dunque in questi archetipi dell’inversione, sottesa com’è dallo
schema sessuale o digestivo dell’inghiottimento, iperdeterminata dai

55
Ivi, p. 497.
56
Ibidem.
57
HO: p. 498. La violenza della scena è amplificata sia dall’espressionismo
dei verbi che dalla scelta dell’infinito che, annullando la successione dia-
cronica, esprime la simultaneità temporale.

332
simbolismi del raddoppiamento, dell’incastro. […] Ma il grande
archetipo che accompagna gli schemi del raddoppiamento e i simboli
di gulliverizzazione è l’archetipo del contenente e del contenuto. Il
pesce è il simbolo del contenente raddoppiato, del contenente con-
tenuto. E’ l’animale multiplo per eccellenza. […] Il pesce sta quasi
sempre a significare una riabilitazione degli istinti primordiali»58. Il
tema del pesce si lega anche a quello della femminilità, come di-
mostrano le iconografie ittiomorfe legate alla dea-madre di molte
antiche civiltà59. Il simbolismo legato alla femminilità troverebbe
dunque punti di forte contatto con l’animale marino che inghiotte ed è
al contempo inghiottito dalla massa oceanica dell’acqua che lo
circonda e lo nutre lasciandolo intatto. E qui emergono i punti di
contatto con il romanzo dove l’incontro notturno di ‘Ndrja con la
maga Ciccina Circé è pervaso da un forte simbolismo e fantastiche
metamorfosi. Nel corpo della femmina fatata, l’eroe trova infatti
rifugio scivolando nelle cavità accoglienti del suo corpo per metà
antropomorfo, per l’altra ittiomorfo. La notte inoltre, doppio invertito
del regime diurno, con il suo buio confonde i contorni e sfuma le
fisionomie così da far sembrare ogni cosa l’effetto dell’imma-
ginazione:

Era uno scuro fitto, profondo alle sue spalle, come se per quella porta
nera si scendesse sottoterra […] Pareva che l’aria della notte circolasse
liberamente laddèntro, come se privo della parete di fondo, il fondaco si
aprisse direttamente sul mare, facendo volta col cielo senza luna: ma siccome
la sua ventosità non poteva provenire dal ristagno di scirocco, doveva […]
come un antro, comunicare con qualche cavità della roccia da cui aspirava
aria60

Ciccina Circé si rivela a poco a poco restando:

mezza dentro e mezza fuori […] con le trecce che le pendevano,


lunghissime, sino alle caviglie e rilucenti d’un forte splendore nero corvino

58
G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., pp. 215-
17.
59
G. DURAND ricorda che C. G. JUNG in Métamorphoses et symboles de la
libido, Montaigne, Paris, 1932 trad. it., La libido : simboli e trasformazioni,
Torino, Bollati Boringhieri, 1965, p. 241 accosta l’etimologia greca del
delfino, delphis, e di delphus, l’utero.
60
Ibidem.

333
[…] messa così sembrava solo faccia […] come se l’oscurità le tranciasse la
testa sulla fronte. Quella faccia, ovale e nera, specie di piatto colmo di grumi
tenebrosi, sospesa per aria, sul collo lunghissimo gli ricordava i girasoli che
spuntavano ai bordi della plaia di Cariddi, vicino alle palme. Però glieli
ricordava senza più il sole, come un giraluna in una notte senza luna?61

Durand afferma che «i simboli coloristici, melodici e notturni


spingono verso un archetipo della femminilità […]. Lo schema del-
l’inghiottimento, della regressione notturna, proietta in qualche modo
l’immagine materna attraverso il termine medio della sostanza, della
materia primordiale, ora marina ora tellurica. Il primordiale e supremo
inghiottitore è certo il mare […]. E’ l’abisso infemminito e materno
che è l’archetipo della discesa e del ritorno alle fonti originali della fe-
licità»62. Aggiunge inoltre: «In tutte le epoche dunque, e in tutte le
culture, gli uomini hanno immaginato una Grande Madre, una donna
materna verso cui regrediscono i desideri dell’umanità. […] i suoi in-
numerevoli nomi rinviano ora ad attributi tellurici, ora agli epiteti
acquatici, ma sempre sono simboli di un ritorno o di un rimpianto.
[…] La donna notturna – acquatica o terrestre – dalle acconciature
multicolori, riabilita la carne e il suo corteo di capigliatura, di veli e di
specchi. Ma l’inversione dei valori diurni, che erano valori dello
sparpagliamento, della separazione, del frazionamento analitico, porta
con sé come corollario simbolico l’avvaloramento delle immagini
della sicurezza chiusa, dell’intimità»63. Sembrerebbe allora che in
Horcynus Orca il nostos funzioni da nucleo tematico attorno al quale
si polarizza la rete simbolica del femminile, tellurico e acquatico, del
ritorno a un Tutto originario, primigenio e intimo. La separazione dal-
l’unità, sentita come irreparabile frattura e angosciosa parzialità è la
condanna dell’uomo cacciato dal consesso divino e in perenne no-
stalgia dell’Assoluto64.
L’Orca rappresenta invece il Male Assoluto, è il mostro marino, il
Leviatano biblico inghiottito dal mare e inghiottitore a sua volta degli
uomini, prigionieri nel suo ventre e soggiogati dal male, finché il

61
Ibidem.
62
G. DURAND, Le strutture…, cit., p. 226.
63
Ivi, p. 236.
64
La lettura di Hölderlin mostra la vicinanza di D’Arrigo alla sensibilità
romantica e l’eredità della concezione simbolica del linguaggio artistico
come mezzo per raggiungere una superiore forma di conoscenza e una
comunione con l’Assoluto.

334
Salvatore non verrà a liberarli, come si legge nell’Apocalisse.
Leggiamo in Northrop Frye: «Nella Bibbia il mare e l’animale
mostruoso sono identificati nella figura del leviatano, mostro marino
identificato anche con le tirannidi sociali di Babilonia e dell’Egitto»65
e oltre: «[…] delfino, che per la sua associazione con Arione rap-
presenta l’opposto del mostro divoratore del leviatano»66. Il critico ca-
nadese prosegue mostrando come nella Bibbia il concetto del Male sia
associato alla figura di un mostro marino, dunque assimilato al-
l’elemento idrico, e come il Leviatano tenga imprigionati dentro il
proprio ventre gli uomini ad esso (il Male) soggiogati: «E’ tipica
l’immagine dell’eroe che scende tra le fauci spalancate del mostro,
come Giona (in cui Gesù riconobbe un prototipo di se stesso) per
andare a liberare coloro che si trovano rinchiusi nel suo ventre […]»67.
La letteratura occidentale è piena di esempi di eroi che scendono a
liberare i prigionieri, rimasti intatti nelle viscere di un mostro spesso
assimilate a intricati labirinti sotterranei, uno fra tutti il mito cretese di
Teseo liberato da Arianna dal labirinto del Minotauro. Nell’Antico
Testamento è Mosè che libera il popolo di Israele dalla schiavitù
egiziana attraversando le acque del Mar Rosso e, per una strana
coincidenza, anche in Horcynus Orca68 il popolo siciliano, oppresso
dalla tirannia di un potere cieco e portatore di guerra, è assimilato a
quello ebraico, eternamente nomade e in fuga dall’oppressore69.
Continua Frye: «Se il Leviatano rappresenta la morte e l’eroe deve
entrare nel corpo della morte, il significato del mito è che l’eroe deve
morire; e, se egli ha compiuto il suo pellegrinaggio, l’ultimo stadio
sarà una rinascita in senso ciclico […]»70. Nel romanzo ‘Ndrja torna,
si direbbe, per morire e la sua morte è funzionale al compimento di un
ciclo dal quale la vita riparte. A completamento di questa complessa
architettura semantica-simbolica concorre la pubblicazione del se-
condo romanzo di D’Arrigo, Cima delle nobildonne (1985), incentrato

65
N. FRYE, Anatomia della critica, cit., p. 198.
66
Ivi, p. 200.
67
Ibidem.
68
HO: p. 12.
69
Ivi, p. 11-12: «per questo, quel pelleossa sfantasiato di Portempedocle, da
due giorni l’andava appellando Mosé, […], Mosé marinaro. […] Qualche
volta, se si girava a occhiàre verso di loro gli veniva di immaginare che quel
polverone […] fosse solo l’inizio di una lunga nuvola biancastra, dentro la
quale, […], il popolo ebraico, di guerra in guerra, si spostava […]».
70
N. FRYE, cit., p. 255.

335
sul mito egiziano della placenta idolatrata in quanto sede originaria
della vita, ma che si scopre contenere in sé anche il seme della Morte
e del Male. L’acqua detiene dunque anche un simbolismo negativo
che Durand così interpreta nei suoi usi letterari: «Accanto al ridere
dell’acqua, all’acqua chiara e gioiosa delle fontane, egli [Bachelard]
sa far posto ad una inquietante ‘stinfalizzazione’ dell’acqua. Questo
complesso si è formato a contatto della tecnica dell’imbarcazione
mortuaria, o forse la paura dell’acqua ha un’origine archeologica bene
determinata provenendo dal tempo in cui i nostri primitivi antenati
associavano i pantani delle paludi all’ombra funesta delle foreste?»71.
Lo studioso ricorda poi l’aspetto eracliteo dell’acqua, il suo riflettere
bergsonianamente l’inarrestabile scorrere del tempo72: «L’acqua
notturna […] è dunque il tempo. Con ciò essa è costitutiva di quel-
l’universale archetipo, insieme teriomorfo e acquatico che è il Drago.
[…] Questa ferocia acquatica e divorante si renderà popolare a tutti i
bestiari medioevali […] nell’Apocalisse il Drago è legato alla
Peccatrice e ricorda i Rahab, Leviatano, Béhémot e diversi mostri
acquatici dell’Antico Testamento. Esso è innanzitutto il ‘Mostro che è
nel mare’, la ‘Belva dalla fuga rapida’, la ‘Belva che sale dal mare’»73.
Un identico dinamismo simbolico lega il moto ondoso dell’acqua
notturna a quello dei capelli mossi dal vento. «L’acqua costituisce lo
specchio originario. […] Specchiarsi è già un po’ ofelizzarsi e
partecipare alla vita delle ombre. […] Lo specchio in molti pittori è
elemento liquido e inquietante»74. Acqua e luna sono isomorficamente
legate al potere germinativo della femminilità, la luna essendo
simbolo agrario per eccellenza e le acque essendo sottoposte al-
l’influenza lunare. «La luna è indissolubilmente congiunta alla morte
ed alla femminilità […] In effetti la luna appare come la grande epi-
fania del tempo […] la luna è un astro che cresce, decresce, scompare,
un astro capriccioso che sembra sottomesso alla temporalità ed alla
morte […] Per questa ragione isomorfa, numerose divinità lunari sono
ctonie e funerarie. […] Luogo della morte, segno del tempo, è dunque
71
G. DURAND, cit., pp. 88 e sgg.
72
E’ molto suggestivo cogliere le analogie pittoriche del simbolismo
acquatico del tempo in Salvador Dalí, La persistenza della memoria, 1931,
dove gli orologi liquefatti, simbolo della transitorietà del tempo, regrediscono
alla primordialità della materia magmatica e informe, la più idonea a fan-
tastiche metamorfosi e surreali ibridazioni.
73
G. DURAND, cit., pp. 88 e sgg.
74
Ivi, p. 93.

336
normale vedere attribuire alla luna […] una potenza malefica»75.
Spostando l’attenzione al campo linguistico, lo studioso fa notare: «La
femminilità è dunque linguisticamente […] respinta dalla parte del-
l’animalità, è semanticamente connaturale all’animale. Allo stesso
modo la mitologia infemminisce mostri teriomorfi come la Sfinge e le
Sirene. Non è inutile notare che Ulisse si fa legare all’albero della sua
nave per sfuggire allo stesso tempo al laccio mortale delle Sirene, a
Cariddi, e alle mascelle munite di una triplice fila di denti del Drago
Scilla. Questi simboli sono l’aspetto negativo estremo della fatalità
più o meno inquietante che personifica d’altra parte Circe, Calipso o
Nausicaa. Circe la maga è un’affascinante Nausicaa, Circe dai bei
capelli, signora dei canti, dei lupi e dei leoni, non introduce forse
Ulisse nell’inferno e non gli permette di contemplare la madre morta,
Anticlea? L’Odissea intera è un’epopea della vittoria sui pericoli
dell’onda come della femminilità»76. Anche il simbolismo della
tessitura si lega al femminile e alla temporalità. «Nell’Odissea già il
filo è simbolo del destino umano. Come nel contesto miceneo Eliade
avvicina assai giustamente il filo al labirinto insieme metafisico-
rituale che contiene l’idea di difficoltà, il pericolo di morte.»77. E
Durand così conclude: «I simboli nictomorfi sono dunque animati nel
loro fondo dallo schema eracliteo dell’acqua che fugge, o dell’acqua
la cui profondità per la sua oscurità stessa ci sfugge, del riflesso che
raddoppia l’immagine come l’ombra raddoppia il corpo»78.
La critica simbolico-archetipica contribuisce in questo modo
all’interpretazione di un’opera che come Horcynus Orca assomma
molteplici aspetti e livelli di lettura e racchiude significati letterali e
simbolici. Lo ‘straviamento’ diviene funzione retorica di una tra-
sfigurazione del reale i cui confini si estendono fino ad assimilare
anche i territori dell’immaginario e quelli della rêverie. In questo sen-
so Horcynus Orca ridefinisce la mappa narrativa di una Sicilia che,
terra di realismo per tradizione ed elezione, fa del linguaggio uno
strumento per metamorfizzarla e ricrearla.
La Sicilia, zona di confine e soglia di diversi regimi del-
l’immaginario, isola circondata dalle acque, offre nel Novecento
numerosi esempi di scritture estranee alla mimesi della realtà e assai

75
Ivi, p. 94.
76
Ivi, pp. 97-98.
77
Ivi, p. 99.
78
Ivi, p. 103.

337
vicine invece a procedimenti simbolico-onirici che attingono al mito e
agli archetipi universali. La metamorfosi del reale avviene sotto il
dominio del segno linguistico, avviene cioè nel territorio del
linguaggio e delle sue infinite possibilità fantasmatiche e ricreative.
Nel romanzo in esame, magia, mito, tradizioni e simbolismi arche-
tipici concorrono ad una radicale trasfigurazione della storia, a un’in-
venzione innanzitutto retorica dell’oggetto-mondo; l’oltranza espres-
siva degli scrittori siciliani misura una distanza dal reale che diviene
necessaria a una sua possibile riconoscenza. L’universo horcynuso
rifonda un sistema letterario primordiale in cui il mito sopravvive
accanto alla magia, il sogno accanto al soprannaturale, il fatto accanto
al suo doppio ricordato. Abolendo la storia, il romanzo si accosta
all’epos e alle origini della scrittura letteraria in cui la fantasia riesce a
inventare spazi di conoscenza alternativi a quello dominato dalla leg-
ge del logos. La vocazione lirica che innerva il sistema simbolico del
romanzo conferma infatti il meccanismo di dissoluzione e
scioglimento della concretezza materica del reale in un magma fluente
organizzato in suoni e colori, sinesteticamente percepiti. Così l’im-
pasto linguistico horcynuso riporta a un nucleo lirico in cui i confini
tra lo spirito e la materia si dissolvono e il ritmo del tempo è scandito
dalla dissolvenza di ogni istante nel flusso eracliteo delle acque
primordiali.
Se il fantastico si determina per i caratteri di ambiguità e di
incertezza rispetto al reale e all’immaginario, nell’universo horcynuso
il linguaggio offre al mito e alle credenze superstiziose in mostri e
magici animali marini, sirene e delfini incantati, lo spazio di esistenza
precario e sempre evanescente della finzione letteraria. Il mondo
‘straviato’ che ‘Ndrja non ritrova più al ritorno in patria, rinasce e
rivive esclusivamente nel dominio linguistico dei segni, cui un tempo
corrispondeva la realtà e che adesso invece vivono in autoreferenziale
isolamento. La fantasticizzazione del reale qui non prevede l’esita-
zione todoroviana, ma assicura la sopravvivenza di un universo antico
fatto di magia e di evocazione onirico-simbolica, di religiosità e riti
arcaici. Solo a partire da tali considerazioni teoriche, si può in-
terpretare l’invenzione horcynusa come una mitologia poetica nella
quale risuonano le sopravvivenze di immagini un tempo ritenute reali
e oggi, nell’epoca della storia demitizzata e abbandonata dal sacro e
dal divino, relegate al campo della fantasia e dell’irrealtà. Solo nel
linguaggio possono ‘esistere’ il soprannaturale e l’irreale.

338
Se dovessimo applicare lo schema di Todorov, saremmo forse in
presenza di eventi soprannaturali spiegati razionalmente o di un reale
meraviglioso e magico, in quanto nel romanzo le apparizioni delle
femminote o il trasbordo del duemari con Ciccina Circé avvengono in
uno stato di perdita di coscienza da parte di ‘Ndrja che, sprofondato
nel sonno, in preda alle visioni oniriche o alla rêverie, trasfigura il
reale mescolandolo all’immaginazione, la certezza all’ambiguità dei
ricordi e alle sensazioni più fantasiose. L’ingresso dei ricordi è infatti
veicolato dal forte simbolismo degli spazi, quali le acque marine in
cui ‘Ndrja si immerge o la spiaggia in cui si abbandona al sonno, zone
che segnano il confine tra regni limitrofi, quello delle acque e quello
terrestre, quello della regressione all’origine e l’altro della pro-
gressione del tempo; zone in cui si sospende la diacronia e le co-
ordinate spazio-temporali possono annullarsi e confondersi. Horcynus
Orca è attraversato perciò da un simbolismo onirico che garantisce
l’ingresso di un mondo immaginario, perduto e inesistente, in quello
apocalittico della storia.
Horcynus Orca si sviluppa in un certo senso come rivisitazione
novecentesca del simbolismo romantico inteso come poetica ed
estetica tendente alla ricomposizione armoniosa di un Tutto
primordiale disgregato e frammentato. La ricerca poetica darrighiana
mostra forti punti di contatto con l’estetica romantica dell’arte come
superiore forma di conoscenza in cui si realizza la fusione e
integrazione della parte nel Tutto e del simbolismo come poetica che
garantisce, per via analogica e sinestetica, la coincidentia oppo-
sitorum, la corrispondenza di particolare e universale. E’ proprio di un
fantastico simbolico, come si osserva nei racconti fantastici di
Hoffmann, Gautier, Nerval, Poe, l’adozione di modalità retoriche
quali l’analogia, la sinestesia e la metamorfosi, che traducono sul
piano formale la poetica o la filosofia che tenta di superare tutte le
manifestazioni della dissociazione e della rottura, sia tra Io e mondo
che tra Io e Io sdoppiato, come può verificarsi nei casi di rotture
psichiche e dissociazioni schizofreniche della personalità.
Horcynus Orca si sviluppa lungo due assi principali, simmetrici e
intrecciati in diversi punti, il tempo narrato e quello ricordato. L’ana-
lessi, prevalente nella prima delle tre sezioni in cui esso è diviso,
inaugura una dinamica regressiva che abbiamo visto essere una delle
cifre stilistiche dell’opera. Nella prima parte il ricordo fa riemergere
gli eventi avvenuti prima dell’arrivo di ‘Ndrja sulla costa calabrese
del promontorio di Scilla, già a notte fonda, in una notte piena di

339
nuvolaglie nere e buia perché senza luna. ‘Ndrja interrompe il tragitto
in una zona simbolica, lo stretto del duemari, il luogo del trasbordo
quando è ormai tramontato il sole e la notte, romanticamente presaga
di sogni e visioni, di fantastici incontri e orfiche sintonie, cala con la
sua funeraglia. L’incontro con le femminote ‘straviate’ nel boschetto
di aranci (HO: 13-53), quello con le due femminelle nel Golfo di
Sant’Eufemia (HO: 64-86), oppure l’incontro con lo spiaggiatore
(HO: 100-130), costituendo racconti incintati o figliati uno dentro
l’altro, metafora genetica per esprimere il simbolico materno e pri-
mordiale, interrompono la diegesi, occupando lo spazio che separa la
rêverie dalla cronaca degli eventi, il tempo ricordato da quello
raccontato specchiantisi simmetricamente l’uno nell’altro.
Appena giunto al paese delle femmine ‘Ndrja si incammina:
«Nello spazio buio fra le case, come in uno stretto labirinto, pregno e
affumicato […]»79. I golfi, le insenature marine sono luoghi simbolici
dell’archetipo femminile della maternità con i suoi simbolismi
dell’ingrottamento e del reinfetamento:

Da quello che se ne ricordava, senza mai esserci stato, ma solo per averlo
visto tante volte dalla facciata di mare, il paese femminoto dava l’im-
pressione di essere, più che altro, un aggrottamento, con le case alla calcarara
[…], gettate fuori dalla roccia, falde e coperchi di caverne e cunicoli. Era da
lì, da sotto, da dentro quelle caverne e cunicoli, che pareva vaporare
quell’acquìo vomitoso80.

E ancora: «S’aggirava sperso nel groviglio nero di passaggi fra le


case, confondendo aria e terra di tenebra, camminava in punta di piedi
[…] perché lui sentisse il mare: si orientava su quello sciacquìo, che
ora perdeva ora ritrovava, nella speranza di […] uscire dal labirinto di
case calcarare»81. La scenografia ricompone un paesaggio sfumato nei
ricordi, evocato nei colori evanescenti e nelle dissolvenze cromatiche
che sinesteticamente si fondono le une alle altre. L’uso di un lin-
guaggio così evanescente e liquido svapora i contorni materici dei
fonemi valorizzandone solo i passaggi sonori, i trapassi insensibili
musicali e timbrici che evidenziano la lenta metamorfizzazione dei
grafemi in fonemi, dei segni in note musicali. Il linguaggio horcynuso
si smaterializza nella simultaneità di percezioni olfattive e visive,
79
HO: p. 142
80
Ivi, pp. 142-43.
81
Ivi, p. 146.

340
nelle associazioni analogiche che solo un linguaggio di natura
simbolica dimentico della razionalità ordinatrice del logos, può
generare. L’acqua, elemento simbolico dominante in tutta l’opera, è il
medium regressivo per eccellenza, non solo come contenitore che
avvolge ‘Ndrja nel già citato episodio del bagno, ma anche quando
diviene metafora dello sprofondamento onirico in cui il passato torna
sottoforma di visioni: «Gli tornava a galla il sogno di quella notte
d’agosto […] e vedeva che senso avesse per lui quella scena con sua
madre al posto di sua nonna Marchiona e lui muccusello a letto, al
posto di Caitanello, e in cui l’Acitana con la mano gli faceva segno
d’avvicinarsi, e lui, il figlio ormai barbuto […]»82. A proposito di
luoghi simbolici che incarnano l’eredità archetipica di imperiture
immagini della regressione alla materia primordiale, sia essa la terra
oppure l’acqua, entrambe legate al simbolismo della maternità e della
femminilità, si vedano le seguenti modalità descrittive della voce
narrante che filtrando e ordinando in successione le confuse e in-
distinte impressioni del protagonista, se da un lato le ordina davanti
agli occhi del lettore, dall’altro però le priva delle sfumature e del
flusso subcosciente che un narratore intra e autodiegetico avrebbe
garantito:

Sulla spiaggetta faceva ancora più scuro che luce. Là, le ombre della
notte duravano più a lungo che altrove; e d’està, quando il sole, subito
raggiante, saliva in cielo dalla cime dell’Aspromonte, lassòtto, alla ‘Ricchia,
c’era sempre una bell’ombra: perché là era come una vallatela aperta davanti,
sul mare e dietro, sulle dune, una spiaggetta stretta e scavata fra lo sperone
che spuntava dalla testaditenaglia sporgendosi sulla linea dei due mari, e le
grotte della ‘Ricchia, che si elevavano di una ventina di metri sopra il mare e
sovrastavano la spiaggetta di rena nera per tutta la sua lunghezza, dalla riva
allo sbocco delle dune. Le grotte ricevevano il mare per una apertura lunga
una cinquantina di metri, con la falda orlata e scannellata come un grande
orecchio appoggiato alle onde in ascolto del mare: un vero e proprio ca-
priccio di natura, una tale eccentricità di utile e dilettevole insieme, che
poteva solo essere quello che era: l’Orecchio delle Sirene, la ‘Ricchia di
quelle celebri e celeberrime. […] La vallatela di sabbia, brillante di scaglie
nere, stava immersa […] in una solitudine d’ombre, in un’aria, tenera e
molle, di rugiada spruzzata sopra i nascondigli dello scirocco. Ritrovarsi là,
gli faceva un effetto di grande, appassionata malinconia, come se solo a
sfiorarla con lo sguardo, la spiaggetta gli si animasse sotto gli occhi e
parlasse dentro di lui con tante voci, gesticolasse con tanti gesti, si sfaccìasse

82
Ivi, p. 287.

341
con tante facce. […] S’era sentita voglia di fare il bagno, la cosa più naturale
che potesse fare alla ‘Ricchia, e detto fatto, cominciò a spogliarsi. […]
Anche ora, anche questo, era come lo facesse in forza di sogno, per l'appunto
come per un’ispirazione, e pensava che l’aria di mezzo sonnambulo doveva
proprio averla, l’aria di chi ripete di notte, a occhi chiusi, senza volontà né
spirito, qualcosa che fece di giorno, un giorno, e un lontano giorno.
Insomma, si muoveva come per un istinto, e si muoveva, faceva, come
tentasse di combaciare, dopo tanti anni, col muccuso che lì, forse sulla stessa
impronta di piede insabbiato, si metteva nudo e si gettava in acqua; […] Ma
poi si piegò in avanti, […] s’infilò in acqua con le bracci, tese e strette, […]
scivolò giù slanciato. […] Poi, cominciò a nuotare e dopo un po’ che nuo-
tava, il corpo rioccupò la sua posizione di mare come ritornasse al suo na-
turale, dopo tanto stare a terra sulle sole gambe, […], mischiato all’acqua,
tuttuno come un pesce. […] Nuotò un bel pezzo fra tenebre e trasparenze
azzurrastre, andando e venendo in giro fra gli scogli sabbiosi sopra, sotto,
orlo orlo alla ‘Ricchia scivolando velo velo, in un silenzio senza schiume, il
nuotare del pesce che nuota nel verso del pelo marino.83

Una così lunga citazione era necessaria a esemplificare il


meccanismo stilistico per cui l’occhio parlante del narratore elenca
ogni passaggio impercettibile, ogni sfumatura di colore e ogni
sensazione del protagonista come se fosse calato dentro il suo corpo e
dentro la sua mente visiva. Si tratta di una delle parti del romanzo più
pregna di valenze simboliche per la scenografia lunare, come specchio
metallico di mare che rifrange, in mille scaglie luccicanti, i bagliori
del satellite riflesso sulle sua superficie. L’immobilità silente pre-
sagisce misteriosi incontri e immersioni in altri mondi, quelli trascorsi
e recuperati dalla memoria. Tuttavia, come già altre volte si è os-
servato, lo sguardo esterno dell’osservatore impone un filtro razionale
che sostituisce alla sinestesia e al flusso percettivo di ‘Ndrja di
invadere la pagina e l’orizzonte sensitivo del lettore. I passaggi di so-
glia tra presente e passato, la sovrapposizione di immagini distanti nel
tempo e nello spazio, avvengono sotto gli occhi di un lettore in-
formato su ogni singolo momento del trapasso, come uno spettacolo
di immagini viste al rallentatore. Alla base di un simile procedimento
stilistico c’è come una vocazione ‘realistica’ nell’eliminare gli spazi
di incertezza e di attesa del lettore, a differenza di quanto avviene con
le metamorfosi dei romanzi europei del primo novecento o con il
sentimento di dislocazione come lo chiama Julio Cortazar, per cui le
analogie surrealistiche riproducono direttamente e senza filtri del
83
HO: pp. 641-42.

342
logos, sulla pagina, i movimenti sussultori e incontrollabili della
psiche84. Il caleidoscopio della mente trasforma e ricompone im-
magini sempre diverse a partire da una data realtà linguistica:
84
Sul sentimento fantastico nei racconti di J. CORTAZAR, si veda quanto
egli stesso dichiara in alcuni suoi scritti: Del sentimento del non esserci del
tutto, e Del sentimento del fantastico, in I Racconti, Torino, Einaudi-
Gallimard 1994, pp. XIX-XX: «Non-esserci-del-tutto non significa neces-
sariamente essere da qualche altra parte, essere in un altrove storicamente
definito: indica piuttosto il permanere dello straniamento, dell’eccentricità.
[…] Il bambino, il poeta, forse il criminale, senz’altro l’umorista esistono per
frammentare il mondo consolatorio dell’uomo contemporaneo che, con tutta
la sua informazione storica e scientifica, è riuscito al massimo a trasformarsi
da realista ingenuo in ingenuo realista. Scrivo per deriva per dislocamento,
scrivo da un interstizio, vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da que-
sta parallasse vera , e l’opera che ne risulta è composta da pietrificazioni di
questo straniamento. Chi non c’è del tutto è il camaleonte in quell’istante in
cui passa da un colore all’altro e può vederli entrambi». Sul concetto di extra-
località si veda Michail BACHTIN, L’autore e l’eroe, ed. it. a cura di Clara
Strada Janovič, Torino, Einaudi 1988, pp. 347-48: «Di grande momento per
la comprensionee l’extralocalità del comprendente, il suo trovarsi fuori nel
tempo, nello spazio, nella cultura rispetto a ciò che egli vuole creativamente
comprendere. L’uomo non può veramente vedere e interpretare nel suo
complesso neppure il proprio aspetto esteriore e non c’è specchio o fotografia
che lo possa aiutare; il suo vero aspetto esteriore lo possono vedere e capire
soltanto gli altri, grazie alla loro extralocalità spaziale e grazie al fatto di
essere altri». Ancora in Cortazar si legge: «E’ una modulazione particolare
del sentimento del non-esserci-del-tutto, una sua maturazione più auto-
cosciente in cui il punto di vista eccentrico si articola quasi in una forma.[…]
La capacità di vedere e sentire il fantastico, che non ha immagini ma re-
lazioni aperte, che non ha formule, ma valenze libere, è il frutto di un vero e
proprio esercizio, dell’educazione del poeta che, come sappiamo, ha lo
sguardo del veggente: ogni ars combinatoria, l’apprensione delle relazioni
soggiacenti, il sentimento che il rovescio smente, moltiplica, annulla il diritto,
sono modalità naturali di colui che vive per aspettare l’inaspettato. […]
L’ordine sarà sempre aperto, non si tenderà mai a una conclusione perché
niente conclude e niente inizia in un sistema di cui solo si posseggono
coordinate immanenti. Dove posa lo sguardo del veggente? Su un oltre in-
definito, sul movimento di immagini multiformi.. Il fantastico non è mai
rappresentato nel narrato del racconto, non è il fantasma, ma dimora nella
disponibilità ad accogliere le molteplici prospettive che il racconto attualizza.
[…] Così il fantastico forza l’apparenza dei fenomeni, ma non ha rap-
presentazione possibile, rimane pura virtualità. Per attualizzarsi necessita
però oltre a un sentimento camaleontico di feconda passività, di tecniche di

343
Sognò infatti, come se […] in quei vapori spumeggianti vedeva allora la
sagoma nera di Ciccina Circé […] come se […] fra una bracciata e l’altra si
alleggeriva […] perché si denudava e nuda, a vista, si faceva squame squame
dall’ombellico in sotto, il suo quartodidietro si trasformava in una gran cosa
ramata, in altre parole, pigliava almeno nell’essenziale, sembianze di sirena,
mentre nel busto, nel gran petto minuto, restava lei […]Tutto ad un tratto poi,
le cose si figuravano in modo tale ai suoi occhi, che quello lì gli pareva il
famoso Sole di giorno diciassett’agosto […]. In quest’abbaglio vicendevole,
si rovesciò allora all’indietro e […], nuotò a gran colpi di coda […]infilan-
dosi di filata dentro la ‘Ricchia, come se la grotta stessa l’avesse risucchiata.
[…] A questo punto era come se lui si trovasse già dentro la grotta e l’aspet-
tasse […] Fuori della grotta l’aria tintinniva ancora di dindin, tintinniva e
tintinnì per tutto il tempo salvo che non fosse solo un’eco lontana in testa a
lui. Erano nello scuro fitto della grotta […] stavano a galla85

Ma non appena il sole con i suoi raggi incandescenti inonda l’antro


buio dov’è avvenuto l’amplesso con la maga-sirena, regina delle
tenebre, simbolo della Guerra che semina morte, ‘Ndrja si risveglia:

appena in tempo, la intravedeva, in un solo selvaggio, animalesco


miscuglio della sua persona col mare tenebroso della grotta, […], ma per
davvero impazzita, […], scappando all’aperto, si sterminava nella gran luce
di sole, e scappando e sterminandosi si lasciava dietro prove su prove, prove
sempre più spaventose del suo vero essere, essere che non era essere, non era
suo e non era vero. La luce ne faceva una vampata: il fuoco però invece che
dalla faccia, l’attaccava alla coda, che bruciava tutta in un niente […] E men-
tre la luce la scodava, come fosse vera coda quella, […] il fuoco di luce, che
l’avvampava nel quartodiditero, ed era in questo rivoltarsi da belva che
pigliava profilo, becco e denti di fera […] [p. 651].

La metamorfosi di Ciccina Circé in sirena e poi in fera avviene


sotto gli occhi della mente di ‘Ndrja, inconsapevole e ignaro della
verità delle sue visioni. Il narratore cerca di spiegare le visioni attra-
verso altri sogni misti ai ricordi:

Quel sogno era un vecchio sogno che tornava; quella apparizione, quella
figura a due facce: femminota e sirena, tre con la faccia di fera, era appa-

costruzione. Insomma, il poeta si predispone a essere visitato dal fantastico,


ma a volte il visitante sono io e i miei racconti sono venuti nascendo da
questa buona educazione reciproca».
85
HO: pp. 646-652.

344
rizione, figura di mente che risaliva a galla dentro di lui, dalle profondità del
passato alla superficie di quel maricello là, dentro e fuori dalla ‘Ricchia, dove
era affondata tanti anni prima. Che meraviglia era se si sognava una fem-
minota che lì, alla ‘Ricchia, gli si trasformava sotto gli occhi in sirena,
[…]86.[p. 652]

Da qui inizia la lunga digressione di don Mimì che rivela il mistero


delle sirene:

le sirene le rivelò per tali, che gliele mise impupate e vive, sotto gli occhi.
E ogni volta che ne parlava, trafficando cogli ami fra le dita, […] faceva
pensare a una sarta che con ago e filo, spille e spilloni, ci lavorava intorno al-
la persona, alla vita e le imbastiva, impuntava, scimava, figura per figura,
modellandogli spalle, fianchi, petto, pettìna

metafora della tessitura per l’intreccio della materia narrativa


e inventiva87.

Il sogno nel Novecento diventa il cinematografo della mente dove


le scene, come a teatro, sfilano in successione. Così si legge in
Horcynus Orca: «S’addormentava e gli tornava tutto in sonno. […] Si
vedeva, in quel sogno, ancora scagnozzo, come non si fosse mai
mosso dallo scill’e cariddi. E si vedeva che vedeva, […]. Tornava
allora a guardare e vedeva […] Girava lo sguardo […] sotto lo sguar-
do […]»88; «A questo punto, nel sogno, cambiava la scena: se prima
stava a mare, ora stava sulla marina, allato della Ricchia»89. ‘Ndrja e
prosegue come se i ricordi emergessero dalle profondità marine, dagli
abissi oceanici di un’infanzia primordiale:

Quel sogno l’aveva fatto e scordato: né quella notte, […] né poi gli era
più tornato a mente. Era come se quel sogno l’avesse fatto allora per dopo,
aspettando il suo momento, e il suo momento era questo momento qua, sulla
marina femminota quando fra dormi e veglia, gli insorgeva nella mente il
delfino […] E qui capiva che i suoi sogni, a occhi aperti o a occhi chiusi, era-
no effetti del delfino di Baia […]. Gli tornava a galla il sogno di quella notte

86
Ibidem.
87
Ivi, p. 653.
88
Ivi, p. 279.
89
Ivi, p. 283.

345
d’agosto […] e vedeva che senso avesse per lui quella scena con sua madre
al posto di sua nonna Marchiona e lui muccusello a letto.90

La modalità onirica della rêverie impedisce a ‘Ndrja di distinguere


tra la veglia e il sonno come tra due regimi nettamente differenti:

Si lasciò andare sul fianco e poi si girò sulle spalle, tutto sulla rena: […] e
non avrebbe saputo dire se il mare l’aveva ai piedi o di fianco o in testa.
Muovendosi, sulla rena fina, gli sembrò di sfondare e di calarsene dentro:
allargò le braccia, come fosse a mare e facesse il morto, per tenersi a galla
senza nuotare. Stette così a faccia all’aria, schiacciato sulla rena, come livel-
lato con le carcasse, nel loro fosforescìo lontano lontano: gli pareva di ve-
dersi morto dentro un mare di cenere, in compagnia delle fere, fra quel
sentore di vulcanico, quel sapore di forgia, di arroventato e freddo, in
bocca91.

Il doppio come sdoppiamento e duplicazione reversibile di un


principio originario, reiterato nel tempo, articola e dinamizza la
diegesi del romanzo e disarticola estraniandolo, il reale ricordato; per
cui aggiungendo, deformando, coniando nuovi vocaboli-realtà, il
frammento di realtà originario si trasforma in altro da sé, deter-
minando al contempo la formula stilistico-poetica dell’intera opera, il
ritorno come raddoppiamento ‘straviato’ e deformante del reale. Un
meccanismo ridondante e manicale, ossessivo e straniante perché
regredire, duplicando analetticamente il passato, rende quest’ultimo
diverso e irriconoscibile, lo trasforma, come si è già detto, in un’entità
pronta a essere ricreata e trasformata infinite volte. Questa con-
sapevolezza è forse il segno più novecentesco del romanzo accanto al
recupero di elementi simbolici della scissione romantica che il se-
condo Novecento, attraverso il ritorno al pensiero heideggeriano, alla
filosofia e alla poesia romantica (Hölderlin), aveva attualizzato e fatto
propri, eccezion fatta per la salvifica funzione dell’Arte, garantita nel
Romanticismo e bandita per sempre dalla Modernità fino al
Novecento. ‘Ndrja torna nell’isola paterna come Ulisse a Itaca ma qui
trova la morte, l’apocalissi di una civiltà. I miti, disseminati nel
romanzo, (Arione, Euridice-Acitana, Orfeo-Caitanello) e i personaggi
dell’epos omerico (la Maga Circe-Ciccina Circé, Ulisse-‘Ndrja,
Penelope-Marosa) sono deboli sopravvivenze demitizzate e pro-

90
Ivi, p. 287.
91
HO: p. 300.

346
saicizzate in funzione del compianto su una civiltà tramontata per
sempre.
Nel Novecento e in Horcynus Orca la conoscenza avviene attra-
verso la simultaneità delle sensazioni e il predominio della sfera
percettiva su quella razionale: «[‘Ndrja] si regolava coi sensi, ma non
ancora in sensi: per un momento, infatti, perse la testa, non seppe più
dov’era mare e dov’era terra […]. Si scaricò subito di quell’im-
pressione. Anche qui, ora, era opera di suggestione e di sonno, ma
qui, in gran parte, era opera sua, colpa del traccheggio dei suoi pen-
sieri». I meccanismi analogici infrangono le barriere del tempo e dello
spazio, sovrapponendo una realtà a un’altra diversa e lontana:

[…] non poteva fare a meno di dire di quel tedesco che gli era tornato
davanti agli occhi, lui e la sua mano allungata in avanti, […] doveva dire di
quel tedesco riportatogli indietro dallo stesso Caitanello, dallo stesso modo di
porgere la destra, nello stesso attimo in cui, a conclusione di tutto quello
sproloquio della stretta di mano, si faceva avanti a mano tesa: lo stesso pre-
ciso identico modo di dare la mano che aveva quel tedesco, non a palma ro-
vesciata ma di taglio, puntata come una pistola, con quattro dita strette
insieme per canna e il pollice alzato a grilletto in posizione di sparo. […]
Subito si creava in lui come uno sbalordimento causato dal ricordo di quel-
l’altra mano impistolata che in quel momento gli passava davanti agli occhi
della mente ed era come se si accavallasse a questa che vedeva con gli occhi
della testa, sinché le due mani, macchiate tutte e due di sangue, quella di suo
padre del sangue della fera, quella del tedesco del sangue suo proprio, non
combaciavano tanto perfettamente e tanto enimmaticamente, da sembrare
una sola 92.

La lenta sovrapposizione delle due distinte scene viene descritta


così dettagliatamente da esemplificarne il meccanismo dell’analogica
coincidenza. La riscrittura della realtà, filtrata dai ricordi e delle
sensazioni che tentano di spiegare le meraviglie della mente, produce
incantesimi e ‘sfantasiamenti’ o ‘straviamenti’ dell’universo horcy-
nuso dove le magie si mescolano alla storia e ai fatti trasfigurandoli e
risemantizzandoli. E’ ciò che avviene nella trasformazione di ogni
simbolo positivo nel suo doppio negativo attraverso la metamorfosi
del segno, quella del suo significato: la barca, simbolo del lavoro per
mare e della vita, acquista la sacralità dello strumento salvifico per
eccellenza, l’arca, per trasformarsi beffardamente però in strumento

92
HO: pp. 626-627.

347
di morte, in «una grande bara galleggiante»93. Tutti i simboli della
vita in Horcynus Orca diventano al contempo simboli di morte, il
principio di vita coesiste con quello di morte ed è un tutt’uno con
esso, un’unità ossimorica che riflette la concezione di un Grande
Tempo ciclico e ripetitivo in cui non esiste un punto iniziale e uno
finale, ma ogni punto contiene in sé il principio e la fine con-
temporaneamente. Il mare stesso si prosciuga a simboleggiare l’apo-
calissi, «un diluvio all’incontrario»94. Il paesaggio nella sua totalità è
‘straviata’, e da isola edenica diventa un luogo spettrale da cui traspira
un forte senso di morte:

’Ndrja e Masino giravano per la città di Messina, […], tutta slabbrata di


crateri aperti dalle bombe. Giravano come anime perse per le strade di quella
fantasima di città. […] La città era come un grande cimitero sotto la luna. Il
viale principale, […] era tutto ingombro di mucchi di macerie e nel mezzo
aveva un passaggio che pareva il letto secco di un fiume: lo scirocco […]
faceva spirare zaffate di fetori mischiati insieme in un miscuglio vomitevole:
fetori come di cose fermentate e di corpi, umani o d’animali, in putrefazione
[…] Giravano come anime perse per le strade di quel fantasma di città95

E’ l’apocalissi della civiltà di Cariddi, la fine del mondo ‘in-


tartarato’ scomparso per sempre e la fine stessa del romanzo che si
inabissa insieme con il suo eroe, ‘Ndrja, nelle profondità silenziose e
immense del mare:

Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli


sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato,
dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, […], come in un mare
di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il
mare è mare96.

93
Ivi, p. 1119.
94
Ivi, p. 1124.
95
Ivi, p. 1222 e 1225.
96
Ivi, p. 1257.

348
Indice

I - Teoria e storia del fantastico moderno

Piero Pieri, L’ordine della scrittura fantastica


e il disordine della lettura p. 7

Angelo M. Mangini, Il signor Gaspari e lo stregone.


Riflessioni freudiane attorno al fantastico
e ad un racconto di Buzzati 33

Piero Pieri, Il simbolico nel racconto fantastico 51

II – Il fantastico italiano nell’Ottocento

Nunzia D’Antuono, Il doppio e la visione malinconica in un


romanzo napoletano di primo Ottocento 91

Piero Pieri, Il fantastico di Tarchetti tra realismo


autobiografico e verismo stilistico 109

III - Il fantastico italiano nel Novecento

Angelo M. Mangini, Il maldestro demiurgo.


Note sul “doppio” nel fantastico papiniano 151

Claudia Sereni,“Due immagini in una vasca”: approdo


a un “fantastico”papiniano tra volontà e poesia 191

Luigi Weber, “Una polveriera di fantasia”. Esotismo,


fiaba e fantascienza nel movimento futurista 223

Luigi Weber, Il doppio della critica. Savinio e Maupassant


in “Maupassant e l’Altro” 279

Ambra Carta, “Horcynus Orca” di Stefano D'Arrigo


e il fantastico-meraviglioso 309
Finito di stampare
nel mese di Novembre 2004
presso
Centro Stampa Digitalprint
Rimini