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Storia Della Filosofia Moderna

Storia della filosofia moderna (Università degli Studi Guglielmo Marconi)

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L’UMANESIMO DEL 400 E IL RECUPERO DEI CLASSICI GRECI E LATINI

In conseguenza della crisi della Scolastica nel 400 si sviluppa un movimento culturale che presenta un
rinnovato interesse per il mondo classico greco e romano. Si assiste al tentativo di far rinascere il mondo
classico e per questo si parla di Rinascimento.
Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle città italiane e nello specifico nella civiltà comunale
dove confluiscono molti aspetti dell’eredità classica: il libero comune tende a riprodurre la città-stato della
Grecia antica e nello stesso tempo assume come modello le istituzioni della Roma repubblicana.
Ma per realizzare la rinascita occorre recuperare il patrimonio letterario che la classicità aveva accumulato e
quindi operare un radicale rinnovamento degli studi. Parallelamente a questo si assiste alla moltiplicazione
e alla differenziazione dei centri culturali: università, scuole di grammatica e di retorica, scuole di latino e di
greco, cenacoli privati in cui si conducono dibattiti filosofici.
Il termine umanesimo con il quale si indica uno degli aspetti salienti dell’epoca rinascimentale, serve a
designare un orientamento di studi che si fonda sulle humanae litterae riferendosi alla necessità di una
cultura antropocentrica.

Il pensiero del 400 si presenta come una nuova concezione della realtà: l’uomo non è soltanto una parte
integrante del reale, ma ne è soprattutto l’artefice. Ne consegue ciò che è stato definito l’”umanesimo
civile”: letterati che sono al tempo stesso politici, giuristi, trattatisti morali, trovano nella celebrazione
letteraria dell’antichità greco-romana lo strumento per difendere il valore dell’impegno civile nella concreta
realtà in cui vivono.

EUGENIO GARIN

PICO DELLA MIRANDOLA

Nelle università di Bologna, Ferrara e Padova si convince della validità della tradizione scolastica e della sua
conciliabilità con gli orientamenti filosofici successivi. Ciò lo conduce al dissenso nei confronti di alcune
tendenze artificiosamente esasperate della filologia umanistica.
Successivamente nasce in Pico l’idea della possibilità di conciliare i diversi orientamenti di pensiero. Si
sviluppa così l’intento di realizzare una concordia filosofica all’interno della quale ciascuna tradizione
speculativa può essere considerata come depositaria di una parte di verità. Il grande progetto culturale di
Pico avrebbe dovuto concentrarsi in una sorta di congresso nel quale gli intellettuali di ogni formazione si
sarebbero confrontati in un dibattito su 900 tesi che egli stesso aveva catalogato. Il progetto non ebbe
realizzazione pratica poiché alcune posizioni sulle quali gravavano forti sospetti di eresia imponevano
maggiori cautele. Del resto il progetto di sintesi filosofica di Pico della Mirandola vuol essere un’esaltazione
della potenza intellettuale umana.
Sempre nella prospettiva della capacità dell’uomo di autodeterminarsi, Pico della Mirandola opera una
netta distinzione tra l’astrologia e la magia. Nel pensiero rinascimentale le due pratiche son considerare non
già manifestazioni di superstizione, ma tecniche pienamente legittime, rivolte o allo studio dell’ordine
naturale, nel caso dell’astrologia, o alla realizzazione del dominio dell’uomo sulla natura nel caso della
magia. Pico invece considera l’astrologia una dottrina che limita pericolosamente la libertà dell’uomo,
ricercando le cause del suo agire in fattori indipendenti dalla volontà umana. Al contrario la magia, intesa
come capacità di controllo della natura da parte dell’uomo, non inficia minimamente l’autodeterminazione
dell’uomo e può quindi essere pienamente giustificata.

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MACHIAVELLI

Si fa fatica oggi a dire che Machiavelli aveva torto nel volere una politica separata dalla morale.
Semplicemente perché la morale cui egli si riferiva era quella religiosa o che trovava nel cristianesimo le
proprie fondamenta. Ed era una morale ch’egli disprezzava profondamente, in quanto vedeva i cattolici
troppo passivi al cospetto delle ingiustizie, troppo fiduciosi nella provvidenza divina e nella magnanimità
delle istituzioni, soprattutto in quelle clericali.

Non c’è dubbio che non può esservi laicità della politica là dove questa è determinata dalla fede religiosa:
determinata o in maniera diretta, come accadeva nello Stato della chiesa, dove il papato costituiva una
monarchia assolutistica, e lo è ancora oggi; o in maniera indiretta, come accadeva negli Stati confessionali,
gestiti da laici credenti o comunque da governi che con una determinata chiesa avevano stabilito dei
rapporti privilegiati, come, in forza del Concordato, è ancora oggi in Italia.

E tuttavia ci si chiede: che bisogno c’era, separando la politica dalla morale religiosamente ispirata, separarla
anche dalla morale tout-court? Era forse questo l’unico modo per fondare una “scienza della politica”? Chi
l’ha detto che una disciplina può ritenersi “scientifica” soltanto quando non ha riferimenti alla morale? E se
fosse proprio questa mancanza di riferimenti a farle perdere il senso della realtà e quindi la propria
scientificità?

Machiavelli diceva che bisogna guardare la realtà così com’è, e rifuggiva da quelle costruzioni ideali di tipo
utopistico che prospettavano come una realtà avrebbe dovuto essere (molto famosa era l’Utopia di Thomas
More). Ma il giudizio ch’egli dava della realtà del suo tempo era estremamente negativo: gli uomini, per lui,
erano fondamentalmente guidati dall’ambizione e dall’avidità personale. Modificare una situazione del
genere era per lui impossibile, certamente non con gli strumenti della democrazia o della mera denuncia
etico-religiosa: non poteva non ricordarsi, visto che ne era stato un testimone oculare, del fallimento
dell’operato di Savonarola, “profeta disarmato”.

Ma allora a cosa doveva servire la politica? Doveva servire soltanto a gestire nel migliore dei modi
l’esistente. Cioè la politica era lo strumento che il governo doveva usare per consolidare lo Stato; e se, per
fare questo, si doveva ricorrere a mezzi immorali, come p.es. il tradimento o l’assassinio, il fine superiore –
ch’era appunto quello dell’integrità dello Stato, e possibilmente del suo rafforzamento – li avrebbe
successivamente giustificati. In politica, come non è sempre vero che una buona azione morale sia
politicamente utile, così non è detto che non lo sia un’azione moralmente illecita. Quante volte gli interpreti
del Machiavelli hanno giustificato le sue concezioni della politica semplicemente perché voleva
l’unificazione nazionale eliminando lo Stato della chiesa?

Machiavelli avrebbe detto che si può decidere dell’efficacia di una qualunque azione soltanto di volta in
volta, nella concreta contingenza. È l’utilità contestuale che deve decidere dell’efficacia di un’azione.

In sostanza egli parlava come un borghese ateo e fondamentalmente come una persona cinica, priva di
moralità. Gli storici han cercato di giustificarlo dicendo che l’idea che aveva di “sovrano” era quella di un
“uomo di stato” e non quella di un opportunista che entra in politica per coltivare i suoi interessi personali.
Cioè il suo cinismo sarebbe stato in realtà una forma di realismo politico, per cui, al massimo, si può parlare
di “amoralità” e non di “immoralità”. Tra i “grandi” la pensavano così anche Hegel, Gramsci e Althusser.

Questo però non giustifica nulla. Non si diventa meno cinici agendo come “uomini di stato”. Anzi, può
apparire in una luce alquanto perversa o mostruosa, il fatto che un politico, pur avendo un elevato senso
dello Stato, si pieghi ad accettare soluzioni particolarmente indegne sul piano morale.

Semmai ci si può chiedere da dove Machiavelli avesse preso una concezione della politica così
spregiudicata, la quale, peraltro, non si faceva scrupolo ad usare la religione come instrumentum regni. La
risposta è molto semplice: l’aveva presa dalla stessa chiesa romana. Il suo modello era il papato, non era

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certo la democrazia. Machiavelli non aveva elaborato una politica soltanto per separarsi dall’egemonia di
quella pontificia, ma anche per riprodurla in forma laicizzata. Sicché, mettendo all’Indice tutte le sue opere,
la chiesa non si rendeva conto di mettere all’Indice se stessa.

GIORDANO BRUNO

Giordano Bruno costruisce una dottrina in cui accoglie quella copernicana considerandola una verità
metafisica gravida di importanti conseguenze teoriche. La più importante di queste è l’affermazione
dell’infinità dell’universo. L’infinità del mondo è giustificata da Bruno più con argomenti metafisici che con
dimostrazioni scientifiche: l’universo è infatti l’effetto infinito, nello spazio e nel tempo, di un’unica causa
infinita, cioè di Dio. Insieme al concetto di infinità, l’unità è un tema dominante della filosofia di Bruno.
L’unità della forma è un’unità di origine, identificabile con la materia stessa. Contro l’unità dell’Universo non
vale addurre come obiezione il continuo mutare delle cose: si tratta di un mutamento del modo di essere
(delle forme) non dell’essere (della materia). La materia che conferisce unità all’essere è dunque materia
attiva. Si tratta di una materia vivente la cui vita è la stessa che anima ogni parte della natura. Questa vita
non differisce dalla divinità da cui deriva: Dio non trascende il mondo ma è il principio che inerisce
all’effetto. Sul punto di vista di Bruno influisce la nozione, tipica della tradizione neoplatonica, di “anima del
mondo”: in ogni parte dell’universo vi sono anima e vita e dunque vi è Dio.
Dio è dunque onnipresente e l’infinita potenza di Dio è potenza di essere qualsiasi cosa, e poiché d’altro lato
una potenza che non si traduca in atto è potenza di essere nulla, potenza e atto devono coincidere. Allora
Dio “è tutto quel che può essere”.

Se Dio è il tutto o in tutto, ogni essere, compreso l’uomo, deve tendere a ritornare in Dio e a confondersi
con lui. Bruno parla di “eroico furore” intendendo una spinta che tende a farsi uno con Dio.
Traspare inoltre che, risolvendosi l’agire umano nei ritmi della natura, la morale di Bruno si fonda sull’idea di
esclusione di ogni forma di libero arbitrio. In realtà, la vera libertà consiste nell’agire come è richiesto dalla
necessità della natura. Dunque l’etica di Bruno né appoggia la religione né trova appoggio in essa. Al più la
religione riveste una limitata funzione di edificazione morale e di controllo sociale nei confronti del popolo
rozzo e riottoso.

CINQUECENTO

Tra ‘500 e ‘600 si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze. A questa grande trasformazione si
suole dare il nome di rivoluzione scientifica. Il nuovo metodo scientifico poggia sul presupposto che la
scienza deve indagare i rapporti tra le cose ed esprimerli attraverso una misurazione oggettiva e
universalmente comunicabile. Per questo nella nuova scienza diventa indispensabile l’uso della matematica.

Nella scienza moderna la connessione tra la causa e l’effetto non viene tuttavia determinata soltanto dallo
strumento matematico, ma sottoposta anche a verifica empirica. Accanto alla matematica la
sperimentazione è il secondo mezzo cui i nuovi scienziati fanno metodicamente ricorso. L’esperimento che
consiste nella riproduzione artificiale di processi naturali in condizioni di massima osservabilità, deve servirsi
di strumenti di indagine e di misurazione sempre più raffinati.

CARTESIO

La RAGIONE  Il razionalismo moderno trova in Cartesio il suo principale termine di riferimento. La ragione
è definita come il potere di giudicare rettamente distinguendo il vero dal falso. Essa è sinonimo di buon

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senso. Non è inoltre una facoltà specifica ma rappresenta in generale la capacità che ogni uomo possiede
naturalmente di attingere a conoscenze certe.
La ragione è unica e come tale è uguale in tutti gli uomini. Dall’unità della ragione consegue
immediatamente l’unità del sapere.
Le diverse scienze non sono condizionate dalla specificità dei singoli contenuti, ma traggono i loro principi
da alcune verità fondamentali che la ragione ritrova intuitivamente in sé stessa. La ragione riflette dunque
sulle scienze la propria unità. La filosofia si configura pertanto come la scienza fondamentale.
Dall’unità della ragione consegue anche l’unità del metodo cui ci si deve attenere per poter attingere
conoscenze certe.

Il METODO  la prima regola del metodo cartesiano è quella dell’evidenza. Essa prescrive di non accogliere
come vero se non ciò che è evidentemente tale.
La seconda regola prescrive il procedimento dell’analisi come condizione essenziale per l’acquisizione
dell’evidenza. I problemi e le difficoltà sono facilmente risolvibili se vengono divisi nei loro elementi più
semplici.
Nella terza regola viene descritta la sintesi che consente di risalire dagli oggetti più facilmente conoscibili a
quelli più complessi.
La quarta ed ultima regola raccomanda di compiere enumerazioni che consentano di verificare di non aver
dimenticato nulla e di non aver commesso errori nei passaggi precedenti.
Cartesio individua due fonti della conoscenza: intuito e deduzione.
L’intuito ha per oggetto le conoscenze immediatamente evidenti alla ragione. Esso riguarda cioè le cose
semplici. La deduzione concerne invece la congiunzione necessaria delle cose semplici in modo da formare
cose composte, cioè consente di passare a verità costruite razionalmente che presentano un livello di
complessità sempre maggiore.

COGITO ERGO SUM  La prima regola del metodo prescrive di accettare come vero soltanto ciò che è
evidente. Questo significa sospendere l’assenso su ogni cosa che non offre tale garanzia, cioè dubitare di
essa. Ma come si potrà giungere alla certezza dell’evidenza? Non c’è altra via che trasformare il dubbio
stesso in uno strumento metodologico, cioè in un dubbio metodico.
La prima cosa di cui si deve dubitare è la testimonianza dei sensi. E’ infatti comune l’esperienza che talvolta i
sensi ci ingannano. Analogamente dobbiamo dubitare della nostra esistenza corporea e di tutta la realtà
esterna, poiché potrebbero essere il risultato di un’illusione analoga a quelle che subiamo nei sogni.
Tuttavia malgrado l’applicazione metodica del dubbio, una cosa si sottrarrà sempre al dubitare: il fatto
stesso di dubitare. Ma, se è evidente che io dubito, è altrettanto evidente che penso, e quindi che esisto
come sostanza pensante e come soggetto del mio pensiero. Cogito ergo sum.

ESISTENZA DI DIO  Al pensiero Cartesio riconosce la dimensione della sostanza. E definisce il pensiero
come tutto quel che accade in noi in tal modo che noi lo percepiamo immediatamente; ecco perché non è
solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è lo stesso che pensare.
Il pensiero esprime da un lato i modi in cui si formano le rappresentazioni attraverso l’intelletto (concepire,
immaginare, sentire sensorialmente) dall’altro i modi in cui il soggetto opera per mezzo della volontà
(desiderare, provare avversione, affermare, negare).
Rimane dubbia invece sia l’esistenza corporea del soggetto, poiché il corpo è qualcosa di diverso dalla
sostanza pensante, sia quella della realtà esterna in generale, poiché le idee potrebbero non avere alcuna
corrispondenza reale.
Ora Cartesio distingue 3 tipi di idee:
-Le idee innate, corrispondono a verità conseguibili per il solo esercizio del pensiero (le verità matematiche
ad esempio)
-Le idee avventizie sono quelle che sembrano provenirci dall’esterno, come le immagini degli oggetti
d’esperienza

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-Le idee fattizie sono quelle costruite o inventate dal soggetto stesso (sirene o ippogrifi).
Ma le idee fattizie per definizione non possono rinviare ad alcuna realtà esterna; e, analogamente, delle
idee avventizie si può dubitare che provengano veramente dall’esterno.
Rimane quindi soltanto la possibilità che il necessario rimando a un’esistenza esterna sia implicito in un’idea
innata.
Tale idea per Cartesio è l’idea di Dio.
2 dimostrazioni dell’esistenza di Dio:
1) L’idea di Dio che equivale all’idea della perfezione, non può essere prodotta né dall’uomo (la cui
imperfezione emerge chiaramente dal fatto stesso di dubitare) né dalle cose esterne (la cui imperfezione
risulta in maniera evidente dal fatto che posso dubitare della loro esistenza).
2) La seconda prova muove dalla consapevolezza personale di essere imperfetto. Ciò significa che io non
sono causa della mia esistenza, poiché, se fossi stato in grado di dare a me stesso l’essere, mi sarei dato
anche quelle perfezioni di cui ho l’idea. Di conseguenza deve esistere un Dio che mi ha portato all’esistenza.
Alla prima e alla seconda dimostrazione si potrebbe tuttavia obiettare che il soggetto, pur non essendo
perfetto, è in grado di pensare l’idea della perfezione come idea di ciò che gli manca, senza comportare con
ciò l’esistenza reale di un essere perfetto che lo abbia prodotto. Ma questo per Cartesio è impossibile
perché in tal caso si presupporrebbe una perfezione priva dell’attributo dell’esistenza, cioè una perfezione
non perfetta (perfezione non perfetta perché sarebbe una perfezione senza esistenza. La perfezione non
può dunque NON esistere. Perfezione=DIO).
L’esistenza è dunque già implicita nel concetto stesso di perfezione.

LA SOSTANZA Si è parlato di sostanza pensante e sostanza estesa. Ma che cos’è la sostanza? In senso
proprio il termine sostanza compete soltanto a Dio. In senso lato si può tuttavia intendere per sostanza ciò
che per esistere non ha bisogno di nient’altro che di Dio. In quest’accezione si distinguono 2 tipi di sostanza:
la sostanza pensante, priva di estensione e indivisibile, e, viceversa, la sostanza estesa e divisibile. In ciò
consiste il dualismo metafisico che comporta un effetto positivo, in quanto vi è il riconoscimento
dell’autonomia della materia corporea dalla sostanza spirituale.

IL MONDO FISICO (sostanza estesa, res extensa, materia)  Alla materia corporea Cartesio riconosce due
tipi di qualità. Alcune sono a essa oggettivamente inerenti, altre sono percepite soltanto soggettivamente
dai sensi umani. Le qualità materiali sono tuttavia riconducibili al solo attributo fondamentale
dell’estensione in lunghezza, larghezza e profondità.
Non esistono inoltre spazi vuoti all’interno della materia, cosicchè tutte le parti della sostanza estesa sono a
contatto reciproco e interagiscono le une con le altre.
In questo quadro l’azione di Dio è limitata a due generi di interventi. Il primo di essi è la iniziale creazione
della sostanza estesa cioè della materia e la comunicazione a essa del movimento.
Il secondo permette la conservazione della materia e il mantenimento costante della quantità di moto in
essa impresso.

IL CORPO UMANO (sostanza pensante, res cogitans, anima)  La materia unitaria che compone il mondo
naturale compone anche il corpo umano. Il centro di propulsione della macchina umana è il cuore, a cui si
deve la circolazione del sangue. E viene definita sostanza pensante (che si contrappone alla sostanza estesa)
l’anima. Cartesio distingue tra le funzioni della sostanza pensante, le azioni, che consistono negli atti della
volontà e dipendono esclusivamente dall’anima stessa, e le passioni, intese sia come percezioni che l’anima
riceve dai sensi, sia come vere e proprie emozioni.

SPINOZA

L’intera speculazione di Spinoza può essere ricondotta a un solo tema fondamentale: Dio.
Dio è la realtà stessa, la sostanza universale rispetto a cui le singole cose non sono che manifestazioni o

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modi di essere particolari. Un intelletto che conosca adeguatamente la realtà è quindi in grado di
comprendere come ogni cosa non sia che un aspetto di Dio e tutto derivi necessariamente da lui. Ma per
giungere a tanto l’intelletto umano dev’essere corretto e perfezionato nel suo uso.

LA SOSTANZA  attraverso la correzione e la perfezione dell’intelletto l’uomo può pervenire a una


conoscenza perfettamente adeguata della realtà. I modelli di Spinoza sono quelli geometrici. Il concetto da
cui prende le mosse la trattazione dell’Ethica è quello di sostanza, inteso in maniera insieme cartesiana e
anticartesiana. Cartesio aveva distinto tra un uso proprio del termine sostanza, per cui essa è causa di s
stessa e coincide con Dio, e un uso analogico, secondo il quale si intende per sostanza tutto ciò che per
esistere non necessita che di Dio. Spinoza ritiene invece che della sostanza si possa parlare soltanto in senso
proprio, poiché essa è per definizione “ciò che è in sé”, ciò che esiste di per se stesso, ciò che quindi è causa
di sé stesso. Di conseguenza la sostanza è infinita e unica, poiché se fosse finita o molteplice, esisterebbe
qualcosa di esterno da cui essa dipenderebbe.
Essendo infinita la sostanza contiene nella propria essenza un’infinità di proprietà o attributi. Di tali infiniti
attributi, tuttavia, l’uomo può conoscere soltanto quelli dei quali è egli stesso partecipe: il pensiero e
l’estensione nonché due momenti diversi di un’unica sostanza.

DEUS VIVE NATURA  La sostanza unica, infinita ed eterna è Dio stesso. La dimostrazione dell’esistenza di
Dio coincide con quella della sostanza.
Dio è la causa necessaria e necessitante di tutte le cose. Tutto deriva necessariamente da Dio. Dio soltanto è
causa libera: non nel senso che egli possa liberamente scegliere se una cosa sia o non sia, ma nel senso che
non è necessitato da null’altro che dalla propria natura. In Dio, dunque, libertà e necessità coincidono.
Dio e natura coincidono, ma quest’ultima può essere vista sotto due diverse determinazioni. La “natura
naturante” è la realtà considerata come sostanza infinita, come causa di se stessa e di tutte le cose. La
“natura naturata”, viceversa, è la realtà considerata come insieme delle cose particolari e finite e che senza
Dio non possono ne essere ne essere concepiti.

MENTE CORPO E CONOSCENZA  Poiché la sostanza è una sola, unico sarà l’ordine geometrico in cui essa si
articola. Di conseguenza, per quanto gli attributi della sostanza siano infiniti la connessione tra gli attributi
obbedirà a quell’unico ordine.
Due sono gli attributi che l’uomo può conoscere, con i loro rispettivi modi: il pensiero, i cui modi sono le
idee, e l’estensione i cui modo sono i corpi. Ordine e connessione delle idee uguale a ordine e connessione
dei corpi. Ciò significa anche che le idee non possono agire sui corpi (idee= corpi, non possono agire l’uno
sull’altro). Ciò sarebbe possibile solo se il pensiero e l’estensione fossero realtà distinte, e non già aspetti di
un’unica realtà.
La mente dell’uomo è un aspetto finito dell’intelletto infinito di Dio: essa è un’idea, cioè un modo
dell’attributo del pensiero, cui corrisponde, come modo dell’estensione, il corpo. L’uomo è dunque
composto di mente e di corpo. Ma il fatto che la mente abbia per oggetto il corpo non comporta che essa
conosca il corpo di per se stesso ma significa solo che essa conosce l’idea del corpo. Tali idee si presentano
alla mente non secondo l’ordine necessaria con cui derivano da Dio, ma secondo l’ordine fortuito in cui esse
appaiono nell’esperienza quotidiana. Esse sono quindi idee confuse che per Spinoza non hanno un
contenuto di per sé falso, poiché tutto viene da Dio, e qualsiasi contenuto di idee è di per sé vero. La
confusione, e quindi l’errore, sta semplicemente nel fatto che esse esprimono una conoscenza parziale,
sradicata dall’ordine necessario che mostra la loro derivazione dalle idee che ne sono causa e, se si risale
l’intera catena causale, da Dio.

LA MORALE  Le manifestazioni della vita emotiva dell’uomo sono anche esse cose naturali che
obbediscono alle stesse leggi che regolano le altre espressioni della necessità naturale. Anche le sue
passioni devono essere considerate con un metodo geometrico: solo così l’uomo può conseguire una
conoscenza adeguata degli impulsi che lo determinano ad agire e quindi, comprendendone l’intima

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necessità, può riuscire a non esserne più schiavo.


L’impulso fondamentale di ogni agire dell’uomo è lo sforzo di perseverare nel suo essere, di conservare se
stesso e accrescere la propria potenza. Se riferito alla sola mente, tale sforzo prende il nome di volontà, se
riferito insieme alla mente e al corpo si chiama invece appetito.
Spinoza abbandona così ogni atteggiamento tradizionalmente moralistico di rifiuto degli appetiti umani in
nome di un bene o di una perfezione assolutamente e astrattamente definiti.
In quanto l’uomo non ha una conoscenza adeguata dei propri affetti egli è completamente passivo nei loro
confronti. Ma ha tuttavia la possibilità di elaborare una conoscenza adeguata degli affetti, apprendendo le
loro vere cause e imparando a vedere la loro intrinseca necessità.

RELIGIONE  Spinoza intraprende una rigorosa critica storico-filologica della Bibbia, intesa a mostrare come
la forma espositiva e la struttura categoriale della Scrittura siano fortemente condizionate dalla situazione
storica che le ha espresse. I contenuti scritturali possono essere quindi legittimamente reinterpretati in
modo da essere adattati a forme di sensibilità storicamente più recenti e, a maggior ragione, possono essere
fatti oggetto di un’analisi razionale che, privandoli del loro carattere specificamente positivo, li trasformi in
una religione naturale accettabile da tutti gli uomini in tutti i tempi.

POLITICA  Il diritto di ciascuno è uguale al suo potere, cioè alla forza di cui dispone per affermare il
proprio essere. Infatti, il potere del singolo non è che la stessa potenza della natura, della quale egli è
espressione particolare. Lo stato di natura è quindi una condizione di insicurezza e di pericolo. La ragione,
che indica agli uomini la vera utilità, li induce a istituire un patto sociale, con il quale il diritto-potere di
ciascuno viene limitato in modo da garantire a tutti la sicurezza della propria persona. Si passa così dallo
stato di natura a quello civile. Spinoza non ritiene che nel patto i singoli rinuncino al loro diritto naturale, ma
al contrario che essi attuino semplicemente, attraverso la sua limitazione, le condizioni necessarie per
conservarlo.

LEIBNIZ

SOSTANZA INDIVIDUALE  La verità consiste per Leibniz nell’identità del predicato con il soggetto cui
inerisce. Finora per soggetto si è inteso una funzione logica definita dalla sua correlazione con il predicato.
Ma se si passa dal piano a logico a quello ontologico, il soggetto non è più soltanto una funzione, bensì un
supporto metafisico del predicato, cioè la sua sostanza. Si tratta di un vero e proprio essere in, un essere
dentro il soggetto. La sostanza nella quale sono contenuti i predicati è una sostanza individuale. Avendo
come sua caratteristica fondamentale l’individualità, la sostanza leibniziana, come quella aristotelica, è
assolutamente singolare. Tra le diverse sostante individuali (ognuna diversa dall’altra in quanto non è
possibile trovare due sostanze perfettamente uguali) non esistono rapporti di causalità reciproca, ma
ciascuna di essere è un mondo chiuso in sé, il quale si può accordare con gli altri mondi-sostanze.

IL CONCETTO DI FORZA  Se la dottrina della sostanza individuale consente di vedere la stretta connessione
che intercorre in Lebniz tra metafisica e logica, l’importanza rivestita nel suo pensiero dalla nozione di forza
mette invece in una luce un’analoga convergenza tra fisica e metafisica.
Leibniz ritiene si debba presupporre nei corpi una forza, in virtù della quale essi resistono alla penetrazione
da parte di altri corpi o al movimento che altri corpi possono indurre in loro. La vera essenza della materia è
la forza. Alla base di ogni fenomeno motorio vi è invece per Leibniz una energia in grado di produrre
spontaneamente un determinato effetto fisico.
Questa serie di innovazioni comporta il passaggio da una concezione meccanica e causale a una concezione
dinamica e finalistica della realtà. Una vera comprensione delle cose deve avere carattere finalistico.

LA METAFISICA DELLE MONADI  Leibniz ha sentito il fascino dell’atomismo, cioè della dottrina che risolve
la realtà in elementi non ulteriormente scomponibili. Tuttavia gli atomi vengono intesi come elementi

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materiali. Ciò presenta per Leibniz gravi difficoltà teoriche. La materia infatti è estesa e tutto ciò che è esteso
è per definizione divisibile. Ma la difficoltà scompare se gli elementi ultimi sono intesi come atomi di
energia anziché di materia (o assolutamente privi di estensione). La realtà anche quella che ci appare come
materiale, è composta di atomi di forza inestesi, ai quali Leibniz dà il nome di monadi per esprimere il loro
carattere unitario e indivisibile.
Il fatto che le monadi siano “prive di parti” conferisce loro altri due caratteri. In primo luogo, esse non sono
né generabili né corruttibili, poiché generazione e corruzioni sono processi che comportano la composizione
o la dissoluzione. Le monadi possono solo essere create da Dio con un atto di immediato passaggio dal non
essere all’essere. In secondo luogo, l’impossibilità di scomporre le monadi in parti implica che esse non
possono esercitare alcuna azione causale.
Malgrado ciò è ovvio che le monadi siano sottoposte a modificazioni (in caso contrario la realtà sarebbe
totalmente priva di mutamento). Ma tali modificazioni, non potendo pervenire dall’esterno, sono il risultato
dell’attività interna della monade. Leibniz fa coincidere questa attività interna con il fatto che la monade
rappresenta a sé stessa ciò che avviene nel mondo. Ecco perché essa è concepita come un “Punto di vista
sull’universo” o anche come “specchio dell’universo”. Le sue trasformazioni comportano la determinazione
di diversi stati interni.

LA GERARCHIA DELLE MONADI  Le monadi possono avere diversi gradi di perfezione che sono determinati
dalla chiarezza e dalla distinzione delle loro percezioni. Alla base vi sono le monadi le cui percezioni sono
tanto oscure e confuse da non essere consapevoli. Queste monadi costituiscono ciò che fenomenicamente
appare come materia.
Un salto qualitativo si ha nel passaggio alla percezione consapevole di se stessa. Negli animali la coscienza
del percepire si accompagna soltanto alla memoria, mentre negli uomini essa è congiunta alla
consapevolezza dell’identità del proprio io.
Il più alto livello di consapevolezza è comunque raggiunto in Dio. Dio è la monade delle monadi: in lui non
solo le percezioni del mondo sono perfettamente chiare e distinte, ma si realizza anche l’unità di tutte le
percezioni, di tutti i punti di vista sull’universo espressi dalle singole monadi.
Anche all’interno delle monadi fornite di appercezioni (percezione consapevole di sé stessa), com’è ad
esempio l’anima dell’uomo, ci sono percezioni che non giungono alla coscienza di sé. Dal fatto che la
monade è sempre attiva si deduce infatti che lo spirito dell’uomo pensa sempre, cioè non ha mai
interruzioni nella propria attività percettiva. Ma questo non significa che tutte le sue percezioni siano
coscienti, come dimostrano il sonno o i casi di manifesta incoscienza.
La dottrina delle piccole percezioni inconsce è inoltre strettamente legata alla concezione leibniziana della
conoscenza. Poiché la monade comprende in sé tutto il suo sviluppo (tutte le sue percezioni), essa involve in
sé anche tutta la sua conoscenza. Il sapere della monade è quindi completamente innato in essa e ciò che
appare come un processo di apprendimento non è in realtà che il passaggio delle percezioni dello stato di
oscurità e di confusione che le rende inconsce a quello della chiarezza e distinzione che ne consente la
consapevolezza.

TEODICEA LEIBNIZIANA  Ciascuna percezione di una qualsiasi monade è armonizzata anche con le
percezioni di tutte le altre monadi, cosicchè tra le sostanze può sussistere un rapporto di strettissima
interdipendenza, senza che esse esercitino alcuna influenza causale reciproca. Ciò presuppone la dottrina
dell’”armonia prestabilita” secondo la quale all’atto della creazione del mondo Dio ha dato a ciascuna
monade una legge di sviluppo che si armonizza con quella di tutte le altre. Alla dottrina dell’armonia
prestabilita è strettamente connessa quella secondo cui Dio ha creato il migliore dei mondi possibili.
Leibniz risolve anche il problema della teodicea, ovvero il problema della compatibilità del male nel mondo
con l’esistenza e la bontà di Dio. Quando dice che il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili,
egli non intende che esso sia immune da mali, ma che in questo si realizza un rapporto tra bene e male che,
tra tutti i mondi possibili, rende compatibile la massima quantità di bene con la minima quantità di male.
Leibniz mostra come una certa quantità di male, sia metafisico sia morale, è inevitabile in un mondo finito. Il

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male “metafisico” esprime la differenza tra il creato e il creatore, ovvero l’impossibilità che il mondo e
l’uomo abbiano la stessa perfezione di Dio. Ma anche il male morale nasce dall’imperfezione necessaria
dell’uomo.

LOCKE

DESCRIZIONE STORICO-POLITICA DELL’INGHILTERRA DEL 600

La filosofia inglese della seconda metà del ‘600 è influenzata da due centri accademici: Oxford e Cambridge.
Il presupposto fondamentale della scuola di Cambridge è la piena convergenza tra ragione e fede, ragione e
rivelazione. La ragione, infatti, non è più intesa come facoltà di dedurre o di calcolare, ma piuttosto come
lume interiore che consente di penetrare intuitivamente l’essenza della realtà. Le verità fondamentali della
fede – esistenza di Dio e immortalità dell’anima – nonché i principi generali della morale sono quindi
dimostrabili razionalmente. Un altro importante assunto di alcuni platonici di Cambridge è l’esistenza di una
“forza vitale” che permea tutta quanta la realtà, discendendo da Dio fino ai livelli più bassi della materia
inorganica.
Tutt’altro carattere presenta, invece, l’atmosfera culturale di Oxford più attenta a una forma di sapere
scientifico in equilibrio tra ragione ed esperienza.
Esse comunque rappresentano le due anime filosofiche dell’Inghilterra seicentesca e come tali costituiscono
imprescindibili termini di riferimento della riflessione di John Locke.

TRA EMPIRISMO E RAZIONALISMO  Locke è considerato il capostipite del cosiddetto empirismo inglese
moderno. L’empirismo di Locke viene rigidamente contrapposto al razionalismo di Cartesio, di Spinoza e di
Leibniz.
In Locke empirismo e razionalismo sono strettamente congiunti in un’unica soluzione filosofica.
Se per Cartesio l’esperienza non aveva alcun ruolo nella definizione del concetto di ragione e una funzione
secondaria nel processo conoscitivo, per Locke essa diventa imprescindibile termine di riferimento per
comprendere la natura tanto della ragione quanto della conoscenza.
Pe Locke la ragione è una funzione conoscitiva e argomentativa che non può fare nulla senza il soccorso
dell’esperienza, dalla quale dipende sia il materiale conoscitivo sia la verifica finale. Le possibilità conoscitive
dell’uomo, quindi, non sono più limitate ma rigorosamente confinate entro i limiti dell’esperienza.

FONTI DI CONOSCENZA  I sostenitori dell’esistenza delle idee innate fondavano la loro tesi
sull’affermazione dell’esistenza di verità fondamentali che riscuotono necessariamente il consenso di tutti gli
uomini. Ma in realtà, controbatte Locke, questo consenso non esiste affatto. Se consideriamo ad esempio i
principi teoretici che pretendono di essere innati vediamo che i bambini non ne sono affatto in possesso.
Per quanto riguarda i principi pratici la considerazione della storia dell’umanità e i resoconti degli esploratori
di terre lontane mostrano come non esista alcuna regola comportamentale che non sia ignorata o infranta
da qualche parte del mondo.
Se non può scaturire da nozioni connaturate in noi sin dalla nascita, da dove proviene dunque la
conoscenza? A questo punto la risposta è obbligata. Ogni nostra rappresentazione mentale, ovvero ogni
idea, giunge necessariamente dall’esperienza. Quest’ultima si presenta sotto due forme. Da un lato essa è
sensazione, la quale ci fornisce le idee che provengono dagli oggetti esterni attraverso i 5 sensi; dall’altro
lato essa è riflessione, che sta all’origine delle idee relative alle operazioni interne alla mente, compresi stati
d’animo e passioni. Sensazione e riflessione sono le due sole fonti della nostra conoscenza.

LA CONOSCENZA  La conoscenza è la percezione della concordanza, o della discordanza tra idee. Tale
accordo può essere colto immediatamente tramite l’intuizione, oppure discorsivamente attraverso una
dimostrazione. Nel primo caso, la conoscenza è assolutamente certa, poiché l’accordo o il disaccordo è
percepito in virtù delle stesse idee da confrontare, senza introdurre altri elementi che possano occasionare
l’errore. Nel secondo caso, invece, la concordanza o la discordanza tra due idee, troppo lontane una
dall’altra per essere confrontate immediatamente, può essere appurata soltanto inserendo tra di esse una o

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più idee intermedie che si chiamano “prove”.


Rimane aperto il problema di come si può dimostrare che le idee, soprattutto quelle complesse, che
derivano da un’attività di composizione che è opera del soggetto, non sono puri enti mentali, ma
corrispondono a oggetti realmente esistenti.
Locke distingue 3 ordini di esistenze.
-L’esistenza dell’io ci è data dall’intuizione: come già aveva detto Cartesio, io sono certo di esistere per il
fatto stesso di pensare e di dubitare
-L’esistenza di Dio è invece attingibile mediante dimostrazioni, poiché la ragione mi insegna che il mondo
non potrebbe esistere senza una causa esterna
-Rimane da dimostrare l’esistenza delle cose esterne. Locke introduce accanto all’intuizione e alla
dimostrazione, una terza forma di conoscenza: la percezione sensibile attuale, cioè considerata nel
momento stesso in cui si verifica. Nell’attimo in cui percepisco le idee semplici che costituiscono il materiale
della conoscenza ho infatti la coscienza vivissima, che molto si avvicina all’atto intuitivo, della realtà di ciò
che percepisco. Ma appena la percezione perde la sua attualità per entrare nella memoria, quando cioè non
ho più di fronte a me il Sole di cui vedo la luce e sento il calore, ma soltanto il ricordo di quelle percezioni, io
non posso più essere certo che l’astro continui a esistere. Dalla certezza si passa allora alla probabilità della
conoscenza, comunque sufficiente a garantire la possibilità dell’esistenza.

LA FILOSOFIA INGLESE DEL ‘700

Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 ha luogo in Inghilterra un vasto rinnovamento culturale destinato a
influenzare l’intera filosofia europea del XVIII secolo. Questo fenomeno fu favorito da due condizioni. In
primo luogo, sul piano socio-economico, nel corso del Seicento l’economia inglese aveva subito un processo
di trasformazione a favore del ceto medio, dedito all’attività manifatturiera e commerciale.
In secondo luogo la seconda rivoluzione garantiva definitivamente all’Inghilterra una monarchia di tipo
costituzionale. In questo modo veniva riconfermato il nuovo peso della borghesia e nello stesso tempo
iniziava un periodo di maggiore apertura religiosa e culturale.
L’evoluzione filosofica che accompagna o segue questi eventi è caratterizzata dal tramonto dell’egemonia
cartesiana e dall’abbandono di un modello metodologico astrattamente razionalistico.
In questo contesto si inserisce l’esigenza di un metodo empirico-sperimentale.
Nel quadro del pensiero etico la filosofia inglese del ‘700 sviluppa il tentativo di trovare una fondazione
autonoma della morale, che riconosca l’indipendenza della vita etica da motivazioni di carattere metafisico
e religioso.

Illuminismo o non illuminismo?


Certamente l’illuminismo, che conoscerà la sua grande stagione nella Francia del ‘700, prende le mosse da
alcune acquisizioni del pensiero inglese del tardo Seicento o del primo Settecento.
La ragione a cui l’illuminismo affida il compito di “rischiarare” l’umanità non è più la ragione assoluta di
Cartesio ma una ragione scientifico-strumentale empiricamente condizionata, assai vicina a quella di Locke
e di Newton. In questo senso si può dire che l’illuminismo nasca in Inghilterra, per svilupparsi poi
pienamente in Francia.
L’illuminismo francese tuttavia muove una critica della religione, dei costumi, delle convinzioni etiche, degli
ordinamenti politici e sociali, della concezione della realtà in generale. Critica sistemica che manca
completamente al pensiero inglese del ‘700, nel quale l’uso della ragione come strumento critico rimane
limitato ad ambiti ristretti.
Queste limitazioni non implicano tuttavia che non si possa parlare di illuminismo britannico. Nell’Europa del
tardo Seicento e del Settecento non si è sviluppato un solo movimento illuministico con una identità
unitaria, ma una pluralità di illuminismi con caratteri peculiari. C’è stato un illuminismo inglese, un
illuminismo scozzese, un illuminismo francese, un illuminismo italiano e tedesco. Ciascuno di esis presenta

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caratteristiche irriducibili a un unico modello, ma spiegabili attraverso la storia politica, sociale e culturale
della nazione in cui si sviluppa.

BERKELEY

Il bersaglio fondamentale di Berkeley sono i deisti e i liberi pensatori, contro i quali egli intende difendere il
valore della religione rivelata e della connessione tra religione e morale. L’empirismo di Locke viene
completamente riformulato da Berkeley. Esso si trasforma in una sorta di idealismo nel quale la riduzione
della realtà al suo essere percepita si traduce in un atteggiamento di mistica contemplazione delle idee in
Dio.

ESSE EST PERCIPI E MENTE DIVINA  Il processo di relativizzazione delle percezioni poggia su un
presupposto filosofico radicale. Dire che ogni nostra percezione è soggettiva e priva di riferimento a qualità
che esistano fuori della mente equivale per Berkeley alla negazione di ogni sostanza materiale extramentale
da cui derivino le idee. In altri termini, l’esistenza delle cose si esaurisce nel loro essere percepite: esse est
percipi. In questo senso la sua filosofia si propone come un radicale immaterialismo e, di conseguenza,
come un altrettanto radicale spiritualismo, secondo il quale non esiste altro che lo spirito. Il fatto che l’uomo
abbia idee dimostra l’esistenza di uno spirito che le pensa: e il fatto che l’uomo abbia coscienza di idee che
non è in grado di produrre da sé prova che esse provengano da uno spirito infinito. In questo modo l’uomo
ha nozione di una mente divina.

HUME

Hume rappresenta l’esito scettico di una corrente di pensiero che potrebbe essere fatta risalire ad Aristotele,
secondo il quale nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (niente è nell’intelletto che prima non
sia stato nel senso). Si tratta dell’empirismo, secondo il quale tutta la conoscenza deriva dall’esperienza,
ossia è mediata dai cinque sensi. L’empirismo, in altre parole, esclude la possibilità di attingere a “verità”
attraverso la sola “mente” (intelligenza o ragione), ricorrendo, ad esempio, alla dimostrazione per assurdo o
a prove basate sul criterio dell’evidenza o, ancora, a forme di illuminazione (o reminiscenza), capaci di
attingere direttamente a una sfera di nozioni inconfutabili (mondo delle idee, numeri, pensieri divini ecc.).
Dopo Aristotele (che, tuttavia, come ricordiamo, ammette la dimostrazione per assurdo e forme di
“intelligenza” capaci di superare i limiti del procedimento induttivo), tra gli esponenti dell’empirismo
possiamo ricordare, nel Medioevo, Guglielmo d’Ockham e Ruggero Bacone (XIV sec.) e, nell’età moderna,
Francesco Bacone (XVI sec.) e John Locke (XVII sec.), tutti di nazionalità inglese. Lo stesso Newton, secondo
il quale i guadagni della scienza erano da considerarsi validi “fino a prova contraria” può essere ascritto a
questa tradizione.
David Hume (Scozia 1711-1776) segue il filo dell’empirismo degli autori precedenti ed esamina il contenuto
della mente umana. Come John Locke, che a sua volta si ispirava a Cartesio, chiama “idee” le singole nozioni
contenute nella mente umana (nel nuovo significato cartesiano di “concetti” interni alla mente e non di
realtà trascendenti, quali erano le Idee di Platone).
Egli, tuttavia, distingue per la prima volta dalle idee le impressioni. Hume classifica come impressioni le
sensazioni che si manifestano solo quando l’oggetto è presente ma che poi svaniscono come tali. Quelle che
persistono sono le “idee” in senso stretto. Le idee, infatti, si manifestano quando l’oggetto non è più
presente .

Noi possiamo conoscere con certezza solo ciò che vediamo in quest’istante con l’impressione (e che non

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possiamo evitare di vedere), dunque ben poco del “mondo” come comunemente lo concepiamo
(empirismo scettico). Pertanto Hume può dubitare di tutto salvo che delle impressioni, per un verso, e, per
altro verso, delle relazioni tra le idee (concetti matematici, ad es. le definizioni), in quanto corrispondono a
costrutti elaborati arbitrariamente dalla stessa mente umana (oggi diremmo: convenzionali).
È però possibile continuare a comportarci “come se” avessimo conoscenze grazie alla credenza (belief), che
deriva dall’abitudine (custom), generata da una esperienza continuata di qualcosa che è molto probabile
che si verifichi ancora. In questo caso mi affido alle combinazioni di idee, ma non posso mai essere certo che
tali combinazioni si verifichino di nuovo.
Ad esempio se voglio conoscere il valore dell’accelerazione gravitazionale sulla superficie terrestre dovrò
eseguire esperimenti. Per avere dati in proposito dovrò eseguire un certo numero n di prove. Giunto
all’ultima prova noterò che la g ha un dato valore x che potrò comparare alle precedenti prove. A questo
punto si pone il problema: i dati precedenti non sono altro che ricordi e come tali possono essere fonte di
dubbio. A rigore, quindi, si ha la prova empirica solo dell’ultima misurazione effettuata. Hume introduce, a
questo riguardo, il concetto di abitudine. è per pura abitudine che quando vedo un oggetto in caduta posso
supporre che subirà un’accelerazione di gravità pari a 9,81 m/s2. L’abitudine è tuttavia solo un
fattore psicologico, non logico. Così l’empirismo assume la forma di neo-scetticismo.
La prima impressione che si ha guardando una mela è data da una sua caratteristica (il rosso, l’amaro…)
Questa impressione è poi elaborata in idee che non rispecchiano necessariamente la realtà in quanto (ad es.
la parte nascosta della mela) frutto della nostra stessa mente, ossia della fantasia e della memoria. Queste
considerazioni portano a questa conclusione: le leggi della scienza sono basate sull’esperienza (abitudine) e
sull’elaborazione d’idee complesse (di modo, sostanza o relazione) le quali possono essere errate. Vanno
quindi ritenute probabili e non certe.
Come avviene l’associazione di idee nella mente umana? Hume suppone che essa sia regolata da
tre leggi inflessibili (paragonabili alle leggi della fisica di Newton): quelle della successione, della contiguità e
della somiglianza. Se più volte assisto al susseguirsi di due eventi (p.e. fuoco e fumo), finirò per credere che
questa successione sia scontata (all’apparire del primo evento mi aspetterò il secondo); se più volte osservo
che parti del medesimo oggetto si presentano assieme (associate nello spazio), p.e. il pianale e la spalliera di
una sedia, mi abituerò a considerarli come parti, appunto, del medesimo corpo; se, infine, vedrò più oggetti
tra loro simili mi formerò un’idea generale circa la loro “essenza”, p.e. “sedia”.
Queste idee generali, tuttavia, sono idee solo per modo di dire. Infatti, ad esse non corrisponde alcuna
immagine mentale, ma soltanto nomi. Ad esempio, mentre mi posso formare l’idea complessa di un singolo
uomo (Giacomo, Giovanni ecc.) sulla base di percezioni e ricordi (impressioni e idee), non mi posso
rappresentare mentalmente alcuna idea generale di “uomo”. Se penso, ad esempio, alla proprietà tipica
dell’“uomo”, in generale, di avere due braccia e due gambe, non posso fare a meno che raffigurarmi
mentalmente un singolo uomo particolare (anche in forma stilizzata) come tipo o esempio dell’uomo in
generale. Questo vale anche per i triangoli e le figure geometriche. Posso studiare le proprietà geometriche
dei triangoli, in generale, solo a partire da questo o quel triangolo particolare, che funge per così dire da
schema per ogni possibile triangolo. Dunque parole come “triangolo” o “uomo” corrispondono, in ottica
empiristica a semplici nomi comuni, non a vere e proprie idee. Si tratta del nominalismo, dottrina che risale
a Ockham e viene ribadita da Hobbes, Locke e da ultimo Hume e che si oppone al realismo, secondo il quale
ai nomi comuni corrispondono idee (o specie) universali eterne e indistruttibili (le Idee di Platone, ad
esempio, come l’idea di triangolo, di uomo, di cavallo o di giustizia), più reali degli stessi fenomeni empirici
che “somigliano” loro.

GIAMBATTISTA VICO

LA CRITICA A CARTESIO: VERUM IPSUM FACTUM  Vico rimprovera alla critica moderna (cioè al metodo di
Cartesio) di non educare i giovani in maniera adeguata. Ma la nuova filosofia francese è viziata da un errore
ancora più grave: essa pretende che l’uomo conosca il mondo naturale così come è in realtà. Occorre invece
distinguere nettamente tra ciò che è opera dell’uomo, e in quanto tale può essere pienamente conosciuto e
dimostrato (come la matematica) e ciò che è opera di Dio, e in quanto tale può essere solo contemplato
senza essere conosciuto dimostrativamente (come la natura fisica).

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Si conosce solo ciò di cui si è causa, ovvero si conosce solo ciò che si fa. Il mondo naturale, che non è fatto
dall’uomo, ma creato da Dio, può essere conosciuto pienamente soltanto da Dio.
Ciò significa rifiutare il principio cartesiano dell’evidenza, la quale consiste appunto nel fatto che la verità si
presenta immediatamente alla coscienza. Di conseguenza a Vico appare impossibile porre a fondamento
della metafisica il cogito: esso, come semplice atto di coscienza non è causa della realtà metafisica che
pretende di conoscere. Il cogito non è, come credeva Cartesio, la verità fondamentale. Il primo vero
autentico è Dio.

LA SCIENZA NUOVA  La storia è la scienza nuova. Il mondo civile è opera dell’uomo e può essere oggetto
di un vero e proprio sapere scientifico. Vico anticipava quell’interesse per il significato generale dello
sviluppo storico che sarebbe stato alla base delle numerose filosofie della storia a partire dalla metà del
‘700.
La scienza storica è resa possibile dal concorso di due discipline. In primo luogo, la storia deve accertare i
fatti, distinguendo criticamente ciò che è veramente accaduto da ciò che è privo di fondamento. In ciò la
soccorre la filologia, intesa da Vico in senso molto lato come l’insieme delle discipline aventi una funzione
documentaria mediante l’analisi critica delle testimonianze del passato.
In secondo luogo la storia deve comprendere le ragioni e le cause dei fatti già filologicamente accertati.
Perciò essa ha bisogno della filosofia, che è la scienza del vero, delle cause che possono spiegare gli
avvenimenti. Vi è una quindi una stretta collaborazione tra filologia e filosofia.
Poiché il mondo civile è fatto dagli uomini, per conoscere e spiegare i fatti storici occorre fare riferimento al
modo in cui essi sono nati nella mente degli uomini, prima ancora che nella concretezza della realtà.
Il primo compito di chi coltiva la scienza nuova è dunque quello di ricostruire un vocabolario mentale
comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi. Questo lessico mentale costituisce la struttura
fondamentale della vita psichica dell’uomo. Indipendentemente dai luoghi e dalle culture in cui nascono, gli
uomini hanno pertanto alcune modalità comuni di sentire e di pensare.
Questo modello evolutivo della mente umana è la storia ideale eterna.
Il modello della storia ideale eterna libera così la ricerca storica da due pregiudizi che l’hanno
tradizionalmente viziata. Da un lato, ciascun popolo ha la tendenza a rivendicare a se stesso la scoperta
delle conoscenze o dei ritrovati che stano alla base della storia umana: ma tale presunzione è priva di
fondamento perché tutte le nazioni nel loro sviluppo seguono un ordine che, essendo quello della mente
dell’uomo in generale, vale nello steso modo per tutti i popoli. D’altro lato, gli uomini di studio tendono a
ritenere che la loro scienza sia antica quanto il mondo e sia già stata posseduta, nascosta da una forma
misterica, dai più antichi sapienti dell’umanità. Ma anche questo presupposto è errato perché lo sviluppo
mentale dell’uomo si svolge secondo una successione di fasi naturali.
Ma anche in questo caso il corso storico obbedisce a un disegno. Soltanto Dio può assegnare alle azioni
individuali una finalità che va al di là delle intenzioni di chi le compie, inserendosi in un disegno generale.
Ciò che si conosce (e si fa) non è fatto arbitrariamente perché la struttura mentale che lo condiziona è a sua
volta condizionata dall’azione provvidenziale di Dio.

LE TRE ETA’  Sono tre i momenti dello sviluppo ideale della metafisica della mente umana.
Nell’infanzia dell’umanità prevale il senso, che comporta una coscienza ancora oscura del proprio oggetto.
Nella giovinezza predomina invece la fantasia: la chiarezza della rappresentazione è accompagnata da un
intenso stato emotivo che ne limita però l’oggettività. Nella maturità, infine, gli uomini giungono alla ragione
che consente una riflessione serena, libera dalle oscurità del senso e dall’emotività della fantasia. A queste
facoltà Vico fa corrispondere tre età dello sviluppo storico. Ciò non significa che in ciascuna età operi una
sola facoltà con esclusione delle altre, ma solo che in essa una delle tre facoltà prevale sulle altre.
L’età degli dei corrisponde al senso e rappresenta la fase primitiva della storia umana. I primi uomini erano
stupidi, insensati ed orribili bestioni. Ma alcuni di questi raggiungono un livello spirituale sufficiente a
provare una sorta di meraviglia di fronte agli eventi della natura: essi identificano le forze naturali con le
divinità. Poiché tutta la realtà viene così sentita come divina.

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La facoltà della fantasia è invece prevalente nell’età degli eroi. In quest’età sorgono le prime istituzioni
politiche. Si configura negli Stati la distinzione tra due ceti fondamentali: patrizi e plebei. La tensione tra i
due gruppi sociale rimane permanente, fino a condurre al progressivo riconoscimento dell’uguaglianza di
tutti i cittadini.
Con la rivendicazione dell’uguaglianza si entra nell’età degli uomini. L’età degli uomini è la fase della ragione:
soltanto in essa può nascere la filosofia.

LA SAPIENZA POETICA  L’età degli dei e quella degli eroi hanno in comune l’elemento della poesia, intesa
come fare, creare. Attraverso la poesia i popoli primitivi ed eroici hanno creato idee, costumi,
comportamenti e, in generale, una realtà che prima non esisteva. Da qui deriva la grande importanza
attribuita da Vico alla sapienza poetica. La poesia costruisce universali fantastici, nei quali una particolare
immagine del senso e della fantasia esprime un contenuto conoscitivo a carattere generale: così nella
cultura omerica, Achille è la rappresentazione del coraggio e Ulisse quella della prudenza. Tenendo conto
che la sapienza poetica ha sempre un contenuto di verità anche l’universale fantastico non è mera fantasia,
ma è una realtà (ancorchè fantastica) superiore alla stessa realtà fisica.
La concezione vichiana della poesia si riflette su quella del linguaggio. Il linguaggio cantato precede quindi
quello parlato. Le lingue hanno un’origine naturale, poiché son la traduzione delle immagini poetiche che
hanno sviluppato i popoli.

IL LIBERTINISMO

Il movimento libertino è il principale sostenitore della critica dell’ortodossia religiosa in nome


dell’autonomia della ragione da ogni autorità ecclesiastica o scritturale.
Il movimento acquista forza in Francia nei primi decenni del Seicento, come reazione al tentativo di
restaurazione di una rigida ortodossia da parte della Riforma cattolica.
Il cavallo di battaglia del libertinismo è tuttavia il tema dell’impostura religiosa, cioè il rifiuto razionalistico
dei dogmi dell’ortodossia cattolica. Questa critica sortisce a volte esiti moderati, sfociando nell’affermazione
del “deismo”, cioè in una dottrina che di Dio ritiene dimostrabile l’esistenza, ma respinge gli attributi
dogmatici (trinità, incarnazione ecc.). Altre volte essa conduce a posizioni più radicali, affermando un
panteismo che risolve la divinità nella natura o giungendo a un’esplicita professione di ateismo.
DUE FASI 
1) Nei primi decenni del Seicento esso si manifesta come libertinismo radicale, in cui il rigore della critica
alla tradizione religiosa si accompagna alla polemica contro l’assolutismo politico, alleato naturale
dell’ortodossia.
2) La seconda fase, verso la metà del secolo, è invece rappresentata dal libertinismo erudito, nel quale la
critica razionalistica, esercitata in forma privata ed elitaria, non soltanto si esprime in toni più sfumati, ma
anche consente un paradossale sodalizio tra il libertino e il potere politico.

GIANSENISMO

Movimento religioso fondato sulle tesi esposte da Giansenio nel suo Augustinus e che ebbe un largo seguito
in Francia e ripercussioni anche all'estero. Trattando della grazia, della libertà e della predestinazione,
Giansenio affermava che a causa del peccato l'uomo è trascinato al male; la grazia salvatrice è concessa da
Dio solo ai predestinati dalla sua volontà; l'uomo non ha quindi libertà di scelta e la sua libertà è solo libertà
da coazione fisica. Questa dottrina s'inseriva tra le due grandi correnti dottrinarie del tempo: il
bannesianesimo, che sulla falsariga del pensiero tomistico, nello spiegare il rapporto tra l'uomo e la grazia,
tentava di salvare l'assoluta indipendenza dell'onniscienza di Dio e la sua necessaria e universale azione di

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Causa prima, addebitando all'uomo tutta l'oscurità di questo rapporto e gettando ombre sulla sua libertà; il
molinismo, che invece metteva l'accento sull'assenso della volontà umana per dare efficacia alla grazia
salvaguardando in tal modo la libertà dell'uomo e lasciando nell'oscurità il mistero di Dio. La posizione di
Giansenio troncava ogni questione affermando l'efficacia della grazia e la sua conseguente irresistibilità
sull'azione dell'uomo. La dottrina giansenista suscitò subito aspre polemiche: i gesuiti presentarono una
denuncia alla Santa Sede, l'internunzio a Bruxelles cercò di proibire la stampa dell'Augustinus e nel 1641
furono condannate cinque proposizioni del libro. Ma la polemica non cessò: con il suo libro De la fréquente
communion (1643) A. Arnauld riportava la questione dal campo teologico-dottrinale a quello disciplinare-
morale, rimproverando alla Chiesa di aver abbandonato il rigore della primitiva disciplina sui sacramenti. La
Santa Sede rispondeva, nel 1653, con una nuova condanna delle cinque proposizioni e interveniva ancora
l'Arnauld chiedendo alle autorità religiose perché avessero accettato la dottrina di Sant'Agostino, mentre si
condannava quella di Giansenio, che di quella era una riproduzione fedele. Nel 1656 una nuova condanna
riconfermava le precedenti. La polemica si spostò quindi sull'infallibilità pontificia per dedurre che il papa
poteva sbagliare nel suo giudizio. La Santa Sede allora impose a tutti di sottoscrivere un formulario di
sottomissione. Rispose questa volta P. Nicole con Les lettres sur l'héresie imaginaire (1665), dove l'autore
affermava che la scomunica, essendo ingiusta, non era valida. I giansenisti trovavano l'appoggio di B. Pascal,
che con Les provinciales (1656-57) contrastò efficacemente le tesi ufficiali sostenute dai gesuiti. Ma anche
Pascal, di fronte alla condanna al rogo delle lettere, e soprattutto per non inasprire ulteriormente la
polemica, fu indotto al silenzio. La polemica si riaccese con P. Quesnel, erede spirituale dell'Arnauld; con il
suo libro Le Nouveau Testament en français avec des réflexions morales (1699) sottopose a una severa
critica sia il corpo dottrinale della Chiesa sia la sua autorità. Questa intervenne ancor più pesantemente
condannando 101 proposizioni del libro di Quesnel (1713, ma già nel 1705 il re aveva dato una mano alla
Chiesa facendo abbattere Port-Royal, “nido di giansenisti”). In Italia il giansenismo entrò unitamente al
pensiero filosofico e scientifico d'Oltralpe ed ebbe un carattere spiccatamente illuministico. Il movimento
ricevette un'ultima, definitiva condanna nel 1794.

Il giansenismo fu un movimento religioso, filosofico e politico che proponeva un'interpretazione del


cattolicesimo sulla base della teologia elaborata nel XVII secolo da Giansenio.
L'impianto di base del giansenismo si fonda sull'idea che l'essere umano nasca essenzialmente corrotto e,
quindi, inevitabilmente destinato a commettere il male. Senza la grazia divina l'uomo non può far altro che
peccare e disobbedire alla volontà di Dio; ciononostante alcuni esseri umani sono predestinati alla salvezza
(mentre altri non lo sono).
Con tale teologia Giansenio intendeva ricondurre il cattolicesimo a quella che egli riteneva la dottrina
originaria di Agostino d'Ippona, in contrapposizione al molinismo (dal gesuita spagnolo Luis de Molina)
allora prevalente, che concepiva la salvezza come sempre possibile per l'uomo dotato di buona volontà.
Il giansenismo fu un fenomeno estremamente complesso: partito da un problema eminentemente
teologico, entrò ben presto in campo etico, assunse posizioni ecclesiologiche estremiste e si mosse anche
come una specie di partito politico; influenzò, infine, pratiche di religiosità popolare. Il movimento
giansenista accompagnò la storia della Francia lungo tutta l'epoca dell'ancien Régime e conobbe anche
un'importante ramificazione italiana nel Sette-Ottocento, di impronta giurisdizionalista e riformatrice.
La Chiesa cattolico-romana condannò il giansenismo come eretico e vicino al protestantesimo, per il suo
teorizzare la negazione del libero arbitrio di fronte alla grazia divina e suggerire l'idea di una salvezza
predestinata.

PASCAL

Nel 1654 Pascal trasforma in una vera e propria vocazione religiosa quello che fino ad allora era soltanto un
atteggiamento genericamente benevolo nei confronti della fede. Elemento catalizzatore di questa
conversione fu l’ambiente giansenistico di Port-Royal dominato dalla figura di Arnauld. Il giansenismo può

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essere considerato un’espressione eterodossa della riforma cattolica, essendo motivato dall’esigenza di
restituire al cristianesimo quel carattere di spiritualità interiore e di rigore morale che era stato trascurato
dalla politica spesso opportunistica dei gesuiti, attenti più al numero dei sedicenti cristiani che alla loro
intima coerenza.

SPIRITO DI GEOMETRIA E SPIRITO DI FINEZZA  I lunghi studi fisico-matematici insegnarono a Pascal il


valore della ragione. Anche all’interno di queste discipline la ragione non basta, poiché a essa sfugge la
conoscenza di quei primi principi che costituiscono il punto di partenza delle sue dimostrazioni. Tali principi
non possono essere dimostrati discorsivamente, ma devono essere colti in maniera immediata da un organo
conoscitivo pre-razionale. Esso è il cuore. Ragione e cuore sono complementari, ma le loro funzioni non
sono interscambiabili
L’antitesi tra ragione e cuore viene illustrata da Pascal attraverso quella tra spirito di geometria e spirito di
finezza. Il primo è la capacità di dedurre la conoscenza in maniera rigorosa da principi astratti e lontani dal
comune modo di pensare. Il secondo consente invece di cogliere quelle verità che non sono formalizzabili
attraverso un ragionamento.

LA CONDIZIONE DELL’UOMO  Soltanto attraverso lo spirito di finezza si può dunque cogliere la misura
dell’uomo: un essere intermedio tra tutto e nulla.
La tensione umana tra tutto e nulla si proietta sull’incapacità di conoscere il tutto per cui l’uomo è
altrettanto incapace di conoscere l’infinitamente piccolo, cioè quella regione dell’estremamente semplice.
La natura contraddittoria dell’uomo si manifesta infine nella sua oscillazione tra grandezza e miseria. La
grandezza dell’uomo consiste nella sua capacità di pensare. La fragilità del suo essere lo espone al continuo
pericolo di annientamento. La grandezza dell’uomo è però tale soltanto in quanto egli comprende la propria
miseria. Ma questo riconoscimento può avvenire soltanto in virtù del pensiero: un albero non può
riconoscersi miserabile.

ILLUMINISMO FRANCESE

In terra francese la nuova funzione critica assegnata alla ragione acquista ben presto un carattere
estremamente più radicale sia sul piano religioso sia su quello politico. Alla dimensione critica dell’attività
illuministica è sempre congiunta un’intenzione costruttiva. All’atteggiamento illuministico è dunque
connesso un sostanziale ottimismo, fondato sulla fiducia nel progresso storico e sulla identificazione della
natura con un principio di ordine e di razionalità.
Il cavallo di battaglia dell’illuminismo francese è la diffusione della cultura. In un primo tempo la fiducia nel
valore illuminante e liberatorio della cultura si indirizza soprattutto verso i sovrani, sulla base della
presunzione che un governante illuminato dalla ragione, pur continuando a detenere un potere assoluto, lo
eserciterà in funzione del bene della nazione. Gli illuministi cercano tuttavia di raggiungere con il loro
programma ampie cerchie della popolazione, soprattutto quella borghesia che comincia, seppur
faticosamente, a emergere nelle funzioni direttive del paese.

ROUSSEAU

All’interno dell’illuminismo francese Rousseau occupa una posizione particolare, avendo egli assunto
atteggiamenti teorici che lo portarono a distanziarsi dai philosphes.
Per Rousseau il progresso nelle scienze e nelle arti ha corrotto gli uomini facendo uscire gli uomini dal felice
stato di natura in cui si trovavano.
(stato di natura) Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, Rousseau delinea
le tappe che hanno segnato il passaggio dallo stato di natura alla società civile e la conseguente nascita della
disuguaglianza tra gli uomini. Allo stato di natura Rousseau conferisce un carattere meramente ipotetico,
ammettendo esplicitamente che esso è “uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che

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probabilmente non esisterà mai”. Ma questa ipotesi di lavoro si rende necessaria per opporre alla
condizione dell’uomo civilizzato e pertanto corrotto dall’educazione e dalle istituzioni, lo stato in cui l’uomo
si troverebbe se su di lui avesse operato soltanto la natura. In questa condizione l’uomo è perfettamente
autosufficiente, non dipendendo da alcun altro uomo per la soddisfazione dei propri bisogni: su questa
autosufficienza e indipendenza Rousseau fonda l’uguaglianza naturale degli uomini. Ma, per cause fortuite,
si avvia un processo per cui da un lato i bisogni naturali diventano sempre più complessi, dall’altro
aumentano le forme di interdipendenza tra gli uomini connesse alla soddisfazione dei nuovi bisogni. L’uomo
passa così a una condizione di vita in società, anche se ancora naturale. Ma la società e la dipendenza degli
uomini dagli altri uomini comportano necessariamente la perdita della naturale uguaglianza iniziale e la
nascita di una artificiale disuguaglianza sociale tra gli individui.
La proprietà è la base della disuguaglianza tra ricchi e poveri. Successivamente le istituzioni politiche
sanciscono e accelerano i progressi dell’ineguaglianza: infatti, l’istituzione della magistratura sancisce la
disuguaglianza tra potente e debole, mentre la trasformazione del potere introduce l’ultima e più radicale
forma di disuguaglianza, quella tra padroni e schiavi.

IL CONTRATTO SOCIALE  Il problema era quello di trovare una forma di contratto sociale, in cui gli uomini,
pur entrando nella società civile e godendo della sicurezza che essa offre, conservassero l’uguaglianza che
caratterizza lo stato naturale. Nel patto sociale ciascun individuo deve cedere tutto se stesso e tutti i suoi
diritti, ma il destinatario di questa alienazione non è un singolo individuo, bensì il corpo politico nella sua
interezza. Ora, per Rousseau ciascun individuo non solo fa part del corpo politico, ma si identifica con
l’intero corpo politico: egli quindi non fa che cedere se stesso a se stesso. Egli ritrova così tutta la sua
volontà che viene potenziata dalla volontà di tutti gli altri.
Nasce così una volontà generale, che esprime sempre la volontà dell’intero corpo politico. Per questo la
volontà generale non dev’essere confusa con la volontà di tutti che è la semplice somma aritmetica delle
volontà singole.

L’EMILIO  L’Emilio o dell’educazione. L’opera tratta dell’educazione progressiva che si deve impartire a un
fanciullo dal primo anno di età fino al momento in cui il ragazzo è pronto per il matrimonio.
Occorre lasciare che la natura, che di per sé è buona, compia la sua opera pedagogica.
-Fino ai 12 anni, l’educazione del bambino sarà incentrata sul disegno, il canto e la musica per affinare la sua
sensibilità. In questa fase non si deve ricorrere a nessun racconto storico o favoloso. Né tanto meno si deve
indurre il bambino all’uso della ragione.
-Dai 12 anni ai 15 anni si inizia a educare lo spirito. Il ragazzo imparerà a leggere.
-Nell’ultimo periodo, dai 15 ai 20 anni, lo spirito sarà spontaneamente indotto a conseguire le sue più alte
conquiste. Dapprima maturerà il sentimento morale e sociale, poi susciterà l’interesse per la storia. Infine
sboccerà il sentimento religioso.

ILLUMINISMO TEDESCO

La cultura illuministica ebbe ampia diffusione anche in Germania. Le origini dell’illuminismo tedesco
nascono dall’esigenza, largamente diffusa, di un rinnovamento culturale e religioso che si opponesse allo
sterile irrigidimento delle scuole accademiche e delle chiese.
In base a questa istanza uno dei filoni tematici è la rivalutazione degli aspetti pratici della filosofia.
Si fa ora strada la concezione di un’umanità destinata a realizzare primariamente la perfezione morale e la
felicità terrena.
Un secondo indirizzo dell’illuminismo tedesco è la ricerca dei fondamenti della conoscenza umana.
Un terzo ambito di ricerca dell’illuminismo tedesco è quello dei rapporti tra filosofia e religione.

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ILLUMINSIMO ITALIANO

Anche il Settecento italiano risente dell’influenza dell’Illuminismo europeo, soprattutto francese. Tuttavia
l’illuminismo in Italia è soprattutto un fenomeno di importazione culturale, per cui non presenta forti
caratteri di originalità. La ricezione dell’illuminismo in Italia si concentra soprattutto in due città: Napoli e
Milano. Il carattere fondamentale dell’illuminismo italiano è l’interesse per le questioni etiche, politiche e
giuridiche.

KANT

Per Kant l’esistenza non è mai deducibile dal pensiero, sulla base dell’assunto che ciò che è pensabile è
anche esistente. L’esistenza è invece per Kant qualcosa che non è costruibile con il pensiero e quindi
necessariamente lo è dall’esperienza.

LA DISSERTAZIONE DEL 1770  La conoscenza sensibile e quella intellettuale hanno per Kant una
distinzione netta.
Oggetto della prima sono “le rappresentazioni delle cose come appaiono”, mentre nella seconda ci si rivolge
alle “rappresentazioni delle cose come sono”.
La conoscenza sensibile riguarda la dimensione fenomenica delle cose, considerate non nel loro essere in
sé, ma nel loro essere modificate dalle forme della sensibilità.
La conoscenza intellettuale riguarda invece le cose in sé, nel loro vero essere.
Nella prima parte dell’opera, quella dedicata alla conoscenza sensibile, Kant perviene quindi all’idea che noi
non percepiamo le cose come sono in sé, ma necessariamente le modifichiamo nel procedimento
percettivo, adattandole alle forme soggettive.
Queste forme percettive, che sono a priori, perché non dipendono dall’esperienza, sono lo spazio e il
tempo.
La seconda parte riguarda invece la conoscenza intellettuale. I concetti dell’intelletto qui chiamati idee pure
escludono ogni contagio tra cognizione sensitiva e cognizione intellettuale. Le idee pure possono cogliere la
realtà nella sua essenza. Questa radicale contrapposizione della conoscenza ideale a quella sensibile
impedisce a Kant di estendere anche alla conoscenza intellettuale quell’analisi critica che aveva già
realizzato sul piano della conoscenza sensibile.

IL CRITICISMO  “La ragione umana ha il destino di essere tormentata da problemi che non può evitare, ma
dei quali non può trovare la soluzione.” L’ambito in cui la ragione dibatte è la metafisica.
Ma anche lo statuto delle scienze esatte – matematica e fisica – non è del tutto chiaro, poiché se nel loro
caso è indubitabile che siano possibili, non è perspicuo in che modo siano possibili.
L’esperienza non fornisce mai la necessità della connessione causale, ma soltanto una successione
temporale. Nella terminologia kantiana ciò si esprime dicendo che la necessità causale non può essere data
da alcun giudizio a posteriori (giudizio d’esperienza). In termini kantiani la causalità non è data da alcun
giudizio analitico. Se si vuol salvare la validità oggettiva della causalità, e con essa quella di tutti i concetti
intellettuali di cui la scienza si serve per dare leggi alla natura, il problema diventa allora quello di ritrovare
una forma di connessione tra causa ed effetto. In altri termini si tratta di indagare la possibilità di un giudizio
che per un verso non sia a posteriori, ma a priori.
La garanzia di una conoscenza che sia nel contempo universale e feconda può venire soltanto da tipo di
giudizi: i giudizi sintetici a priori, nei quali la sintesi tra soggetto e predicato si fonda su un principio a priori,
interno al soggetto conoscente.
Ma come sono possibili i giudizi sintetici a priori?
Le connessioni necessarie che costituiscono il carattere universale della conoscenza non provengono

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dall’oggetto, che ne è di per sé privo, ma dal soggetto stesso, il quale, nell’atto del conoscere, proietta
sull’oggetto la propria capacità sintetica  filosofia trascendentale.

L’ESTETICA TRASCENDENTALE  L’Estetica trascendentale ha per oggetto le forme a priori della sensibilità.
Ogni conoscenza comincia con l’esperienza attraverso un’intuizione, termine con il quale Kant indica
qualsiasi rappresentazione immediata, cioè non discorsiva. Ma se l’esperienza fornisce a posteriori il
materiale della conoscenza, sono invece determinate a priori le forme, cioè le modalità del soggetto che
condizionano la ricezione del materiale. Questa è definita intuizione pura; mentre la congiunzione di
un’intuizione pura con la sensazione materiale costituisce l’intuizione empirica.
Kant individua nel tempo e nello spazio le forme a priori della sensibilità: lo spazio è la forma del senso
esterno, il tempo quella del senso interno. Le intuizioni pure sono precedenti a ogni esperienza possibile.
Tutto ciò che è dato nell’intuizione, viene necessariamente rappresentato nello spazio e nel tempo. A causa
di questo processo di spazializzazione e di temporalizzazione gli oggetti sono conosciuti non come sono in
sé, ma soltanto come appaiono, ovvero come fenomeni. Più precisamente, lo spazio è l’intuizione pura dei
fenomeni del senso esterno, il tempo è l’intuizione pura dei fenomeni del senso interno.

L’ANALITICA TRASCENDENTALE DEI CONCETTI  Le intuizioni empiriche di per sé non costituiscono ancora
autentiche conoscenze. Manca quella connessione che li costituisce in un oggetto di conoscenza. La facoltà
che compie questa ulteriore operazione di unificazione è l’intelletto, il quale opera attraverso concetti.
Il concetto consiste nell’ordinare diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune.
La funzione unificante dell’intelletto è resa possibile da concetti puri. Kant chiama tali concetti categorie che
definiscono i modi universali del pensare.
Come si può dimostrare che i concetti puri diano luogo a conoscenze fornite di validità universale e
oggettiva? Kant comincia con l’osservare che, poiché ogni nostro pensiero comporta un’unificazione delle
intuizioni, dev’esserci una unità originaria che preceda tutti i singoli atti di unificazione. Poiché l’unificazione
è possibile soltanto attraverso un atto di spontaneità del pensiero, il termine di riferimento unitario
dev’essere un atto del pensiero. A quest’unità originaria Kant dà quindi il nome di Io penso, esprimendo con
tale termine l’autocoscienza. Affinchè io possa rappresentarmi qualcosa, occorre che la rappresentazione sia
presente alla mia autocoscienza: in caso contrario non posso rappresentarmi nulla. Ma poiché questo vale
per tutte le rappresentazioni, esse vengono unificate proprio dall’Io penso.
Le categorie saranno poi riferibili al solo mondo fenomenico. Oggetto della conoscenza umana è quindi
sempre soltanto il fenomeno. La cosa in sé non può essere conosciuta. Lo stesso soggetto pensante conosce
se stesso soltanto come fenomeno, cioè come appare a se stesso nell’esperienza interna.
Il non-fenomeno non può quindi essere riconosciuto, ma soltanto pensato come conetto-limite.

L’ANALITICA TRASCENDENTALE DEI PRINCIPI  Gli elementi costitutivi dell’intelletto, come si è visto, sono le
categorie, o appunto, i concetti puri. Rimane da chiarire in che maniera le singole categorie possano essere
applicate concretamente alle intuizioni, in modo da dare origine a quei giudizi di esperienza.
L’anello intermedio è dato da una sola facoltà: l’immaginazione pura. L’immaginazione ha per oggetto
intuizioni ed è in grado di operare un primo livello di sintesi dei dati empirici. L’immaginazione è ciò che ci
consente di intuire i dati empirici non soltanto nel tempo, ma in una determinata modalità temporale.
Queste determinazioni del tempo sono gli schemi trascendentali puri (tra categorie) successione causale.
In questo modo si stabilisce una corrispondenza precisa tra i singoli schemi puri e le singole categorie o
almeno i singoli gruppi di categorie.
Essendo tanto generali da fondare ogni conoscenza senza essere a loro volta fondate su norme più elevate,
queste regole prendono il nome di principi puri dell’intelletto.
I principi puri dell’intelletto coincidono per Kant con le leggi universali della natura. In questo modo Kant
giunge alla soluzione di uno dei problemi fondamentali della Critica: come sia possibile una natura in
generale. Intesa come insieme unitario dei fenomeni, la natura è resa possibile dalle leggi secondo cui le

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sensazioni sono percepite e ordinate nello spazio e nel tempo. L’unità che si riscontra nel mondo naturale è
dunque il riflesso dell’unità trascendentale.

LA MORALE  Il problema morale consiste nella ricerca delle condizioni a priori di un agire valido
universalmente. Quali movimenti soggettivi dell’azione umana possono dunque aspirare a valere
universalmente? La volontà buona, universalmente valida, deve essere determinata dalla ragione. Gli
imperativi della ragione, a loro volta, si distinguono in due tipi.
Gli imperativi ipotetici comandano un’azione in vista di un fine particolare e quindi non hanno validità
universale.
L’imperativo categorico comanda invece incondizionatamente: l’azione che esso impone dev’essere
compiuta in ogni caso, senza riguardo a situazioni o interessi particolari.
Esso non dice che cosa si deve fare, ma come si deve agire affinchè l’azione possa essere moralmente
positiva.

I POSTULATI DELLA RAGION PRATICA  Dal punto di vista teoretico l’esistenza della libertà non è
suscettibile di dimostrazione, poiché essa cade al di fuori dell’ambito fenomenico. Dal punto di vista pratico,
invece, la libertà è una condizione sostanziale della moralità: una moralità priva di libertà non sarebbe
possibile perché verrebbe meno la capacità del soggetto di essere causa prima della propria azione. D’altra
parte, attraverso l’esperienza della libertà l’uomo acquista la consapevolezza del fatto morale: la moralità è
dunque la condizione cognitiva della libertà. Pur non potendo mai accertarne teoreticamente la verità,
occorre quindi ammettere la libertà umana per non contraddire la realtà di fatto della leggere morale: la
libertà è un postulato della ragion pratica.
Accanto alla libertà, Kant riconosce altre due postulati pratici: l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. La
realtà di queste due nozioni è richiesta da un concetto: il sommo bene.
La virtù è il bene supremo e la felicità il bene sommo. L’unione di questi due concetti, virtù e felicità, in cui
consiste il sommo bene, appare problematica. Questi problemi trovano una soluzione, secondo Kant, nella
testimonianza della coscienza morale. Mediante il postulato dell’immortalità dell’anima viene infatti
garantita all’individuo la possibilità di un progresso morale infinito dopo la morte, in modo da potersi
avvicinare progressivamente e indefinitamente alla santità. Mediante il postulate dell’esistenza di Dio invece
viene riconosciuta una causa intelligente del mondo, in grado di ordinare la natura, sede e condizione della
felicità, in modo da armonizzarla con l’intenzione morale.

IL GIUDIZIO RIFLETTENTE  Nella Critica del giudizio al giudizio determinante viene contrapposto il giudizio
riflettente. Il giudizio riflettente si limita a interpretare gli oggetti naturali in base al principio della finalità. Il
giudizio riflettente assume una duplice forma a seconda di come viene applicato il principio di finalità. Se il
principio di finalità viene riferito al rapporto tra il soggetto e la rappresentazione dell’oggetto, in modo da
provare il sentimento dell’accordo tra di essi, si ha il giudizio estetico Se esso viene invece ricondotto ai
rapporti interni all’oggetto si dà il giudizio teleologico. Nel giudizio estetico vi è l’accordo spontaneo tra
immaginazione e intelletto. Su questo accordo si fonda il giudizio di gusto, che ha per oggetto la definizione
di bello. In questo modo il soggetto percepisce infatti nell’oggetto bello un’armonia interna che consente di
considerarlo come un fine in se stesso. A sua volta si produce nel soggetto un piacere che non deriva dal
godimento fisico dell’oggetto, ma dalla semplice rappresentazione di esso: il bello è dunque anche ciò che
piace senza interesse.
Accanto al bello, il giudizio estetico ha per oggetto il sublime. Quest’ultimo nasce dal duplice sentimento
che l’uomo prova confrontandosi con la grandezza e con la potenza della natura. Di fronte a
quest’esperienza estetica l’uomo prova, da un lato, un sentimento di dispiacere, per la constatazione dei
propri limiti e della propria impotenza; dall’altro, un sentimento di piacere, derivante dalla consapevolezza
che, malgrado ciò, la sua finalità razionale e morale gli conferisce un valore e una dignità che lo collocano al
di sopra di ogni grandezza e potenza naturale.

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IDEALISMO TEDESCO

Una corrente filosofica tra le più importanti è l'idealismo tedesco che si sviluppa a cavallo tra il diciottesimo
e il diciannovesimo secolo. Tale corrente filosofica è ovviamente distinta dalla dottrina platonica delle idee,
l'idealismo tedesco si colloca nel periodo post-kantiano dello sviluppo filosofico e vede come suoi maggiori
fondatori e interpreti Fichte, Schelling ed Hegel.

L'idealismo tedesco parte da una critica della concezione del noumeno kantiano. La cosa in sé è posta come
limite invalicabile della conoscenza, ciò che l'uomo non potrà mai conoscere direttamente per mezzo
dell'esperienza, l'uomo può solo conoscerne l'esistenza, ma non l'esatta forma e l'esatto aspetto. Ma
proprio questa conoscenza del noumeno contraddice la sua stessa inconoscibilità: è vero che non possiamo
conoscere l'aspetto noumenico delle cose, ma è anche vero che possiamo affermare la sua esistenza (Kant
scriveva che tutto ciò che possiamo comprendere per mezzo dell'esperienza è "conoscenza", mentre del
noumeno noi possiamo solo "sapere", ma non conoscere).

La dottrina idealistica parte quindi da questa contraddizione per affermare che proprio perché può essere
pensata, la cosa in sé non può rimanere "chiusa in sé", totalmente inconoscibile, ma rientra, una volta
pensata, nelle cose conosciute. E' da questa negazione della cosa in sé, quindi, che l'idealismo tedesco può
affermare che il pensiero è l'Assoluto, ovvero il pensiero è la stessa realtà.

Facciamo un passo indietro. Una volta considerato che il noumeno non esiste, e quindi non vi è alcuna
limitazione, alcun oggetto inconoscibile aldilà della capacità di pensiero, il pensiero diventa esso stesso tutto
ciò che esiste.
Prendiamo ad esempio la posizione di Cartesio: egli afferma che ciò di cui possiamo essere assolutamente
certi è la res cogitans, ovvero il pensiero. Il contenuto del pensiero, le idee, sono per Cartesio le immagini
della realtà, sue rappresentazioni, ciò significa che per Cartesio vi è pur sempre una realtà fuori dal pensiero
stesso del quale il pensiero è immagine.

Per l'idealismo invece il pensiero è già realtà, il pensiero contiene già la realtà di ogni cosa, perché non vi
è alcuna cosa aldilà di esso. Ecco perché il pensiero è l'Assoluto stesso, è la totalità delle cose, ciò aldilà
del quale non vi è nient'altro.

L'idealismo tedesco si configura così come la forma più completa di immanentismo filosofico: se nulla esiste
aldilà del pensiero come cosa a sé (il noumeno, ma anche lo stesso Dio cristiano), allora il pensiero stesso è
il Tutto. Non esiste tramite tra pensiero e realtà, il pensiero è la realtà stessa, e il pensiero si configura
quindi come identità con il Tutto (che è Dio stesso, l'Assoluto, l'Infinito, l'ogni cosa; il finito dunque non
esiste, tutto si risolve nell'Assoluto).

Riassumedo, mentre il pensiero per Kant e per tutti i filosofi pre-idealisti era lo strumento attraverso il quale
intepretare una realtà a sé (il pensiero faceva sempre riferimento a un oggetto, così che il pensiero era
prodotto del soggetto e l'oggetto cosa a sé), con l'idealismo il pensiero diventa egli stesso lo Strumento, in
grado di prodursi e porsi da sé (l'idealismo perviene all'identità del soggetto con l'oggetto, di più, l'idealismo
rende l'intera realtà soggetto).

FICHTE

L’io è considerato da Fichte principio formale e materiale della conoscenza. La sua attività determina il
pensiero della realtà oggettiva, ma anche la realtà stessa nel suo contenuto materiale. Per Fichte invece la
deduzione è assoluta o metafisica, in quanto dall’Io stesso non deduce soltanto le condizioni soggettive, ma
anche la realtà dell’oggetto stesso

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’Io oppone a sé il NON-IO, ovvero, il suo opposto (oggetto, mondo, realtà). Il mondo è dunque per Fichte
opposto all’Io.
Per l’idealismo critico trascendentale l’opposizione non si risolve rimanendo nell’attività teoretica. Lo si
affronta innalzandosi praticamente al di sopra delle barriere e riconoscendo nelle barriere l’espressione di
un compito morale. Il non-io è lo strumento della realizzazione dell’io che si fa libero attraverso la sua
attività. Infatti affinchè l’attività dell’Io possa essere esercitata, ci deve essere qualcosa su cui esercitarla:
essa può rivelarsi soltanto attraverso lo sforzo con cui oppone se stessa a una resistenza. Questo elemento
resistente è proprio il Non-Io.
Il dovere morale supremo è quindi quello della libertà, con la quale l’Io puro realizza la sua indipendenza dal
mondo della natura. Tuttavia la liberazione completa e definiiva dell’Io dal Non-io, dalla natura, non è mai
conseguibile in un essere finito come l’uomo: a ogni vittoria dell’Io sul Non-io succede immediatamente la
ricomparsa di un nuovo Non-io e la lotta conitnua.
L’io è libero perché si fa libero; è libero in quanto non è posto e tuttavia deve opporre a se qualcosa per
realizzarsi. La morale di Ficthe è dunque un’etica dell’azione, nella quale è fortemente sentita l’esigenza di
un intervento nell’ambito politico-sociale.
Dall’azione reciproca dell’Io sul non-Io nasce la conoscenza. Perché il non-Io pure essendo un effetto dell’Io
appare alla coscienza come un qualcosa di sussistente per sé? Come si spiega che l’Io è causa di una realtà
di cui non ha esplicita coscienza? E se essa non ha realtà autonoma cosa la distingue da un sogno?
Il Non- Io pur essendo un prodotto dell’Io non è una parvenza ingannatrice, ma una realtà di fronte cui si
trova ogni Io-empirico, il processo di conoscenza è percià un processo di interiorizzazione del Non-Io. La
centralità della libertà, come concetto pratico, esercizio della libera volontà, rende l’idealismo di Fichte
un idealismo etico. L’io si deve realizzare come libera attività infinita, e dunque risolvendo in sé ogni realtà.

SCHELLING

LA FILOSOFIA DELLA NATURA  Schelling condivide pienamente l’impianto idealistico. Schelling manifesta,
tuttavia, due esigenze che condurranno a un’aperta critica del suo maestro. In primo luogo, emerge il
bisogno di ricercare il fondamento primo della conoscenza non nell’Io puro, ma in un principio originario
che ricomprenda in sé sia il momento soggettivo della conoscenza sia la sua componente oggettiva. In altri
termini, il soggetto e l’oggetto, lo spirito e la natura, sono le due manifestazioni dell’unico principio assoluto.

In secondo luogo Schelling ritiene che, pur essendo strettamente connessa con lo sviluppo del soggetto, la
natura ha una realtà propria.
Da Kant Schelling mutua due importanti convinzioni. La prima è che l’organismo è una realtà unitaria che
possiede in se stessa il proprio principio di organizzazione. La seconda è che l’organicità può essere estesa
dal singolo essere vivente a tutta la natura considerata come una totalità.
Schelling giunge ad affermare che la natura costituisce un organismo universale nel quale opera un unico
principio vitale, l’anima del mondo. In altri termini Schelling arriva ad ammettere la stessa nozione di
materia vivente.
Asserendo che la natura è vita Schelling le attribuisce, come proprietà fondamentale, l’attività. Ciò equivale
a riconoscere la sostanziale omogeneità di natura e spirito. Schelling afferma, pertanto, la pinea circolarità
tra natura e spirito, che non sono né indipendenti, né conseguenti, mai due aspetti paralleli di un unico
processo.

L’IDEALISMO TRASCENDENTALE  Se la filosofia naturale mostrava come la natura indichi una presenza in
essa di una costituzione analoga a quella dello spirito, il Sistema afferma anche il fondamento della realtà e
dell’oggettività del mondo naturale.
La filosofia dello spirito descritta nel Sistema è fondata sulla nozione di autocoscienza o di Io. Per Schelling
l’autocoscienza è sintesi di due attività. Da un lato, essa contiene un’attività limitata che produce l’oggetto.

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Dall’altro è contenuta anche un’attività illimitata e limitante la quale consapevolmente va oltre l’oggetto.
Queste due attività sono anche dette attività reale e attività ideale.
Ciò da luogo a un infinito processo tra la produzione inconscia dell’oggetto da parte dell’attività reale e la
sua riconduzione alla coscienza dell’attività ideale. L’Io è quindi unità indissolubile di soggetto e oggetto, di
spirito e di natura, di attività consapevole e di attività inconscia.
Importante passaggio è quello che conduce dalla riflessione alla volontà. La volontà, punto di partenza di
ogni attività pratica è espressione di libertà. Ma il singolo soggetto libero trova di fronte a sé altre volontà
individuali altrettanto libere. Si pone quindi il problema dell’armonizzazione di queste volontà in un sistema
che, facendo salva la libertà individuale, garantisca tuttavia la compatibilità tra le diverse libertà. Questo
sistema è il diritto.

LA FILOSOFIA DELLA LIBERTA’  Il vero Dio è vita e persona, al pari dell’uomo che è fatto a sua somiglianza.
Come l’uomo, dunque, anche Dio è soggetto al divenire. Se Dio diviene, è possibile distinguere in lui un
momento attuale, in cui egli perviene all’esistenza. Soprattutto ciò indica la presenza della natura in Dio
stesso.
La creazione consiste nel progressivo passaggio dall’oscurità originaria alla luca. Tra tutte le creature l’uomo
è la sola in cui questo processo può avvenire completamente, in modo che la tenebra originaria
dell’inconscio si traduca nella luminosità dell’intelletto. Ma in Dio questi due principi sono insperabili e
costituiscono un’unità assoluta. Nell’uomo, invece, questi due principi sono separabili. Il principio oscuro
può opporsi al principio positivo. Nella possibilità di scegliere tra il bene e il male consiste, infatti, la libertà
dell’uomo. Come in Dio, anche nell’uomo la libertà coincide con la necessità. Ma in Dio tale coincidenza
significa che la necessità con cui egli procede dal fondamento dell’esistenza è insieme un atto di assoluta
libertà. Nell’uomo, viceversa, la convergenza tra libertà e necessità trova espressione nella natura
individuale.

HEGEL

LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO  In primo luogo la fenomenologia obbedisce al principio per cui “il
vero è l’intero”: la verità si consegue soltanto quando i diversi aspetti parziali della realtà sono considerati
come momenti della totalità. In secondo luogo Hegel ribadisce che la totalità, in cui consiste la verità, è il
risultato di un processo conoscitivo. In termini hegeliani, la verità è soggetto, spirito, cioè attività.
Le diverse fasi del processo che conduce alla verità non sono altro che i diversi modi in cui il soggetto
conosce se stesso. La Fenomenologia descrive quindi l’esperienza della coscienza che passa
progressivamente dai gradi più bassi della conoscenza al sapere assoluto.
I diversi momenti del processo fenomenologico si esprimono in figure dello spirito, che hanno una duplica
valenza. Da un lato, esse manifestano il punto di vista acquisito dalla coscienza in un particolare momento
del suo sviluppo. Dall’altro, esse sono considerate dal punto di vista della totalità del processo, in modo da
cogliere non soltanto ciò che esse contengono, ma anche ciò che non contengono ancora.
Ciascuna figura è insieme il superamento e la conservazione delle figure che la precedono.
Più precisamente la successione delle figure, e in generale il processo fenomenologico, obbedisce a un
movimento dialettico. Infatti il soggetto appare dapprima in sé come la semplice coscienza di un oggetto;
poi poiché l’oggetto appare come qualcosa di altro rispetto al soggetto, il soggetto viene negato dall’oggetto;
infine, il soggetto si rende conto che l’oggetto non è altro che la proiezione di se stesso al di fuori di sé.

La prima figura della fenomenologia è la coscienza naturale, considerata come il momento in cui il soggetto
sente l’oggetto come altro rispetto a sé. A sua volta, la coscienza trova la sua più immediata espressione
nella certezza sensibile (la sensazione), che solo apparentemente sembra essere la forma di conoscenza più
ricca e più piena. La sensazione si presenta come la conoscenza che un individuo particolare ha di un
oggetto altrettanto particolare, definito nella concretezza del qui e dell’ora. Ma a un superiore livello di

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consapevolezza il qui e l’ora appaiono essere applicabili a qualsiasi contenuto. Nello stesso modo il soggetto
appare un questi universale, che può essere riferito a qualsiasi soggetto. La certezza sensibile perde così
ogni autonoma valenza conoscitiva e si risolve nell’universalità formale del linguaggio.
Si passa pertanto alla percezione. Ma anche in questo caso ci si ritrova di fronte a una contraddizione,
poiché la cosa percepita appare nel contempo una e molteplice. Da un lato, infatti, essa è una molteplicità
di qualità (il sale è bianco, sapido, ha un certo peso ecc.); dall’altro, tali qualità si raccolgono nell’unità della
cosa (il sale appunto).
Il terzo momento della coscienza è l’intelletto, al quale l’oggetto appare come fenomeno. Questa legge
tuttavia non fa parte del fenomeno sensibile, ma è un elemento soprasensibile che dipende dal soggetto.
L’oggetto della sensibilità viene dunque ricondotto alla coscienza. In altri termini la coscienza si rende cono
del fatto che ciò che essa opponeva a sé come oggetto non è diverso da se stessa. In questo modo essa
diviene consapevole di sé, cioè diventa un’autocoscienza.
L’autocoscienza così realizzata è però un’autocoscienza individuale, che trova di fronte a sé una pluralità di
altre autocoscienze. Tra di esse, anzi, si instaura un rapporto conflittuale. Per affermare la propria
superiorità l’autocoscienza deve ottenere il riconoscimento da parte delle altre: ciò è possibile soltanto
attraverso una lotta a morte. L’autocoscienza che riuscirà in questo apparirà come il signore, mentre quella
che preferirà sottomettersi all’altra pur di aver salva la vita diventerà il servo: sorge con la figura della
signoria e servitù che rappresenta i rapporti di potere che si instaurarono tra gli uomini e il mondo antico.
Ma in questo modo, proprio attraverso il lavoro, egli si rende progressivamente conto di saper dominare la
natura e di trasformarla in un suo prodotto, trasferendo in essa la sua personalità di uomo, a diversità del
signore stesso che, incapace di provvedere ai propri bisogni, rivela la sua dipendenza dal lavoro del servo e
dalla natura. Il servo prende quindi coscienza della sua indipendenza dalla natura e, conseguentemente, dal
signore, conquistando in questo modo la propria libertà.
La libertà che l’autocoscienza conquista rispetto al mondo esterno non elimina tuttavia un’altra e più
profonda scissione: quella tra il finito e l’infinito, tra il mutevole e l’immutevole, ovvero tra l’autocoscienza e
la divinità. La consapevolezza di questa separazione, dà luogo alla figura della coscienza infelice. Per
risolvere questa scissione e realizzare pienamente la propria libertà, l’autocoscienza compie il tentativo di
perdersi nell’immutabile, nell’infinito: è il momento dell’ascetismo cristiano medievale, in cui l’uomo si
innalza a Dio e si perde in lui.
Ma quando consegue la certezza di essere ogni realtà, l’autocoscienza diventa ragione. Ciò che prima
appariva qualcosa di esterno alla coscienza, ora non è più che un suo momento interno.
Ma l’obiettivo della completa appropriazione del mondo da parte della ragione è raggiunto soltanto quanto
l’autocoscienza si realizza non più come ragione individuale, in singole azioni e singole opere, bensì come
ragione universale, nei costumi e nelle istituzioni di un popolo, cioè nell’elemento dell’eticità.
Non più confinata nella sfera dell’individualità, ma oggettivata nella concreta vita dei popoli, la ragione è
diventata spirito. Questa unità immediata e naturale dell’esistenza etica contiene in sé il germe della
scissione. Nella fattispecie la separazione tra legge divina e legge umana, ovvero tra legge dello Stato, fatta
di norme scritte e quella della famiglia, fatta di consuetudini consolidate.
L’abbandono dell’eticità naturale comporta il passaggio al regno della cultura, dove viene rifiutato tutto ciò
che è immediato e si assegna valore soltanto a ciò che è mediato e riflesso. La filosofia della riflessione da
un lato ha un valore positivo, perché segna il superamento dell’immediatezza naturale e l’ingresso in quella
mediazione del pensiero che è indispensabile per la comprensione dialettica della realtà. D’altro lato la
riflessione riveste una connotazione negativa poiché è opera dell’intelletto o di una ragione intesa ancora
intellettualisticamente come facoltà conoscitiva che, anziché cogliere la realtà nella sua totalità unitaria, la
frantuma in una molteplicità di aspetti parziali.
Dopo essere passato attraverso la negatività della riflessione, lo spirito giunge finalmente alla
consapevolezza di se stesso. Al termine del processo lo spirito riprende coscienza della sua unità non più in
forma naturale e immediata, ma con la consapevolezza della mediazione e della riflessione. In altri termini,

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esso prende coscienza di sé come Assoluto. E’ questo il momento della religione, che ha come oggetto Dio,
cioè appunto l’Assoluto.

(CARATTERI GENERALI DELLA) LOGICA  Per Hegel la verità si consegue soltanto con la conoscenza della
totalità. Il processo di costituzione dell’intero può avvenire in due modi diversi. Per un verso, può venire
rappresentato in termini di fenomenologia dello spirito, descrivendo il cammino della coscienza dalla più
bassa e più parziale consapevolezza di sé come coscienza naturale al sapere assoluto. Per altro verso, esso
può essere rappresentato in termini di sistema, analizzando le diverse determinazioni parziali in cui si
articola la realtà. L’esposizione completa del sistema hegeliano è contenuta nell’Enciclopedia delle scienze
filosofiche. L’oggetto generale della trattazione del sistema hegeliano è la totalità della realtà intesa come
ragione assoluta e infinita, che Hegel chiama Idea. L’Idea può essere considerata in tre modi diversi.
La logica nella quale l’Idea viene considerata in base alle categorie che costituiscono la struttura formale
della realtà conferendole un carattere assolutamente razionale. Malgrado queste categorie non siano
distinguibili dalla realtà stessa, nella logica esse vengono considerate come a sé stanti.
La seconda e la terza parte del sistema hegeliano sono la filosofia della natura e la filosofia dello spirito.
La filosofia della natura ha per oggetto l’estraniazione dell’Idea da se stessa, cioè la sua uscita dal puro
elemento del pensiero, per realizzarsi nell’altro da sé. In questo modo l’Idea perde il carattere universale
che aveva nella logica e, determinandosi nelle singole realtà naturali, si particolarizza.
Nella filosofia dello spirito, invece, l’Idea ritorna in se stessa, in quanto, si esprime come spirito, come unità
di reale.
Tornando alla logica per Hegel le categorie logiche sono anche elementi costitutivi dell’essenza della realtà.
Pertanto la logica coincide con la metafisica. Con ciò Hegel intende dire che, dal momento che le categorie
hanno una portata insieme logica e metafisica, la struttura razionale del mondo non è qualche cosa che
esista soltanto nella mente finita di un uomo ma è tutt’uno con l’essenza del reale.

LA FILOSOFIA DELLA NATURA  La filosofia della natura è la seconda parte del sistema hegeliano. La prima
parte di esso, la logica, riguarda, come si è visto, l’Idea in sé, considerata nella forma del pensiero puro. Per
oggettivarsi l’Idea deve quindi uscire, esteriorizzarsi, diventare altro. Questo altro è la natura. La natura è
particolarità e la natura obbedisce a uno schema dialettico. Infatti, essa si presenta come un sistema di
gradi. Questi gradi costituiscono una gerarchia in cui si rivela un progressivo passaggio che troverà il suo più
proprio terreno di espressione nell’ultima parte del sistema hegeliano, la filosofia dello spirito. La filosofia
della natura in Hegel ha dunque una funzione sistematica: è il necessario momento di passaggio dalla logica
alla filosofia dello spirito.
Hegel è fortemente polemico con le concezioni romantiche della natura. Rispetto a esse egli dissente su due
punti fondamentali. In primo luogo, non accetta l’identificazione della natura con Dio. In secondo luogo
Hegel non condivide la concezione romantica di una natura sostanzialmente convergente con lo spirito: al
contrario, per lui spirito e natura si oppongono e lo spirito non può sorgere se non laddove la natura viene
negata.

LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO SOGGETTIVO  Dopo essersi estraniata nella natura, l’Idea può completare il
circolo dialettico ritornando in se stessa arricchita dall’esperienza della negazione. Pensiero puro e natura
sono ormai uniti in una concreta realtà. L’Idea che ha questa consapevolezza di sé è lo spirito.
Essa si articola in tre momenti dialettici.
Il primo è lo spirito soggettivo, il quale rappresenta la consapevolezza che lo spirito ha di sé in quanto
singolo individuo e culmina con la presa di coscienza della sostanziale libertà dell’uomo. Il secondo è lo
spirito oggettivo, nel quale la libertà umana – termine del processo dello spirito soggettivo – si realizza o,
appunto, si oggettiva nella comunità sociale e nelle istituzioni. Il terzo momento è lo spirito assoluto, nel
quale lo spirito acquista consapevolezza di sé come totalità della realtà razionale, cioè come Assoluto.

FILOSOFIA DELLO SPIRITO OGGETTIVO E FILOSOFIA DELLA STORIA  Lo spirito oggettivo è il momento in cui
lo spirito si realizza anche esteriormente nella concretezza delle istituzioni storicamente esistenti.

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La prima determinazione dello spirito oggettivo è il diritto astratto o formale. Esso corrisponde in gran parte
alla concezione del diritto naturale. Lo scopo del diritto è quello di trovare un sistema delle libertà
individuali che consenta a ciascun individuo di oggettivare la propria volontà libera senza interferire con
quella degli altri.
Nel secondo momento dello spirito oggettivo, la moralità, tale universalità è completamente interiorizzata.
La moralità viene posta di fronte al contrasto tra bene universale cui essa aspira e il benessere o la felicità
particolare cui ogni uomo naturalmente tende; e soprattutto essa conduce al conflitto tra l’essere e il dover
essere. La moralità è inadeguata perché si esaurisce nell’interiorità, senza mai conseguire una vera
oggettivazione esterna.
Il terzo momento dello spirito oggettivo è l’eticità, nella quale l’universalità non si manifesta più né come
legge formale (diritto) né come idealità interiore (moralità), bensì come un ordine reale che esprime la vita
di un popolo. Il carattere fondamentale dell’eticità è quindi la concretezza.
L’eticità si articola a sua volta in tre momenti distinti. La famiglia è la prima espressione di concreta società
organica: in essa gli individui sono membri di uno stesso organismo. La famiglia si spiritualizza attraverso il
matrimonio e l’educazione dei figli.
Con il conseguimento della maturità da parte dei figli, la famiglia si dissolve dal punto di vista etico,
preparando il passaggio alla società civile, che è la seconda determinazione dell’eticità. La società civile è il
sistema dei bisogni dei singoli individui. Si tratta cioè di elaborare un sistema nel quale i bisogni concreti
dell’individuo, che spesso, contrastano con quelli degli altri individui, possano essere trasformati in bisogni
più generali che interessino l’intera società.
Il terzo momento dell’eticità è lo Stato. Esso viene definito da Hegel la piena realizzazione dell’eticità. Il terzo
momento dello sviluppo dialettico dello Stato è la storia universale. Il momento della storia universale si
colloca in una posizione intermedia tra lo spirito oggettivo e lo spirito assoluto, poiché in essa gli Stati si
rivelano anche come manifestazioni della ragione assoluta.
Lo spirito universale, la ragione assoluta, sarà colto nella sua purezza, nei diversi momenti della filosofia
dello spirito assoluto: l’arte, la religione e la filosofia. Esso può tuttavia rivelarsi anche in una maniera più
immediata nello spirito di un popolo, cioè in quell’insieme di manifestazioni etiche e istituzionali in cui si
sviluppa ‘esistenza di un popolo.

LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO ASSOLUTO  Lo spirito universale si manifesta già nella vita etica dello Stato e
soprattutto nello sviluppo della storia universale, come spirito del mondo.
L’Idea non è ancora ritornata completamente a sé, non è ancora giunta a comprendersi nella purezza
dell’elemento spirituale. Questo avviene soltanto nel terzo e ultimo momento del processo dello spirito, ch
Hegel indica con il nome di spirito assoluto. Lo spirito assoluto è la ragione infinita che diventa finalmente
consapevole di se stessa.
Lo spirito assoluto si articolare in tre momenti: l’arte, la religione e la filosofia. Ciascun momento dello
spirito assoluto coglie tuttavia l’infinito in una forma diversa.
L’arte è il momento in cui l’assoluto viene colto in forma immediata. Nell’arte una determinata realtà
sensibile si configura in maniera da lasciare trasparire l’Idea assoluta. Anche nel caso dell’arte si assiste a un
processo di sviluppo attraverso cui si perviene a una sempre maggiore consapevolezza dell’essenza infinita.
La determinazione che succede l’arte è la religione. In essa l’Assoluto viene colto sotto forma di
rappresentazione intellettuale. L’Assoluto viene cercato dalla riflessione. Nella religione l’uomo conosce già
l’Assoluto nella sua vera natura, che è spirito ma non giunge a cogliere tale spirito nella sua unità organica,
perché lo fraziona ancora in una molteplicità di rappresentazioni. Ad esempio, Dio viene ancora conosciuto
come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, dove il concetto unitario di Trinità si divide in tre Persone che,
seppure legate dialetticamente, rappresentano aspetti diversi.
Anche i limiti della religione vengono superati nella terza determinazione dello spirito assoluto: la filosofia.
La filosofia è quindi lo spirito assoluto stesso, che, per mezzo dell’autocoscienza umana, pensa se stesso e
giunge alla consapevolezza di sé.

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