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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Il danno cerebrale
L’espressione danno cerebrale denota una condizione in cui le influenze extra genetiche
arrestano o impediscono la struttura normale, la crescita, lo sviluppo ed il funzionamento del tessuto
cerebrale.
Il danno cerebrale può essere sia congenito che acquisito.
Il danno acquisito, nella maggior parte dei casi, risulta da traumi. La gravità della
disfunzione e la prognosi dipendono da molte variabili, incluso la natura, la locazione e l’estensione
del danno, il livello di sviluppo e fattori demografici quali l’età e il sesso.
Il danno cerebrale non sempre limita la capacità d’apprendimento, al contrario una limitata
capacità d’apprendimento non è sempre dovuta ad un danno cerebrale. Comunque è interessante il
fatto che molte spiegazioni, relative alle minorazioni d’apprendimento, spesso suggeriscono una
sottostante disfunzione cerebrale.
In molti casi la disfunzione cerebrale è dedotta dal comportamento, in assenza di qualsiasi
altro segno neurologico. Diagnosi speculative come un “minimal brain damage” (MBD) (minimo
danno cerebrale) non chiariscono né la causa della minorazione d’apprendimento, né specificano le
strategie di riabilitazione.
Tali etichette diagnostiche minimizzano l’importanza delle differenze individuali. La
classificazione dei bambini in ampi gruppi diagnostici come, per esempio: ritardati o disabili
dell’apprendimento, probabilmente genera più confusioni che chiarezze e non dà sufficiente
attenzione alle procedure di rimedio.
Il danno cerebrale è solo una delle molte variabili che influenzano il comportamento; per
capire i problemi d’apprendimento del bambino ed i fattori non neurologici, tutte queste variabili
devono essere studiate attentamente. In caso di danno cerebrale documentato, la minorazione nel
processo d’apprendimento può derivare da un impoverito ambiente familiare, da problemi di
adattamento emotivo, scarsa motivazione, problemi sistemici della salute, ritardi di sviluppo e
predisposizioni genetiche.
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Causa Organica
Neurologica Genetica
Sistemica
Individuale
Emotiva Cognitiva
Culturale
Di sviluppo
Sociale/Situazionale
Sociale Familiare
Scolastica
Il danno cerebrale può essere il fattore più importante in una determinata situazione, ma la
definizione “danno cerebrale” non offre chiarimenti a meno che non venga capita la natura, la
locazione e l’estensione del danno stesso. Esiste anche un considerevole pericolo nell’etichettare un
bambino con danno cerebrale in quanto ciò favorisce la permanenza, incoraggia il trattamento con
farmaci, minimizza l’importanza dell’educazione. Etichettandosi si possono ignorare le strategie di
recupero.
Lo sviluppo del cervello subisce rapidi mutamenti ed il danno cerebrale durante l’infanzia
può impedire il futuro sviluppo di talune capacità cognitive e comportamentali. Il cervello del
bambino presenta una capacità di sviluppo e di recupero della funzione, successivamente al danno
cerebrale. È stato affermato che il danno cerebrale, che generalmente si manifesta nei primissimi
anni di vita, produce effetti comportamentali meno drammatici rispetto al danno che si presenta in
età adulta. Quest’affermazione è corretta solo in parte. La prognosi relativa al danno cerebrale
durante i primi anni di vita dipende da molte variabili e può produrre disfunzioni permanenti, un
tipo di disfunzione ritardata o nessuna disfunzione in base allo stato di maturazione del sistema, per
esempio l’effetto del danno cerebrale inizialmente può esser lieve, fin quando le funzioni promosse
dal tessuto danneggiato diventano cruciali per la performance comportamentale durante lo sviluppo.
L’espressione “trasformazione in deficit” viene utilizzata per enfatizzare l’importanza dello
stato di maturazione nell’area del cervello al tempo della comparsa del danno.
Rourke afferma che i deficit dell’attenzione costituiscono un problema speciale per il
bambino cerebroleso mentre, per i soggetti più grandi di età il problema più grave è costituito dalla
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presenza di deficit cognitivi. Rourke sostiene anche che i bambini piccoli in realtà presentano
deficit nello sviluppo cognitivo, ma questi possono non essere evidenti a causa degli effetti
generalizzati di deficit nell’attenzione. Ma n mano che i deficit dell’attenzione si attenuano,
compaiono deficit cognitivi.
Parte del processo di recupero può coinvolgere la capacità del bambino cerebroleso di
risolvere vecchi problemi in modo nuovi, riorganizzando elementi funzionali del repertorio
comportamentale (Luria, 1973).
In base a ciò la natura e l’estensione del deficit può essere identificata nei primi anni di vita
e quindi si può progettare un efficace rimedio per minimizzare le conseguenze del danno cerebrale
sull’apprendimento futuro.
In sintesi, bisogna valutare le conseguenze delle lesioni cerebrali alla luce della natura
adinamica dello sviluppo cerebrale e delle sue asimmetrie anatomiche e funzionali. Solo tenendo
presente questi fattori possiamo sperare di comprendere l’apparente paradosso che il cervello
immaturo è simultaneamente caratterizzato da una maggiore vulnerabilità verso la minorazione
cerebrale che da un potenziale apparentemente accresciuto, per il recupero della funzione. Esistono
comuni schemi comportamentali che caratterizzano il danno cerebrale: disturbi dell’attenzione ed
iperattività rappresentano le prime, più comuni conseguenze relative al danno cerebrale, oppure i
deficit della memoria, dell’attenzione che possono essere permanenti e possono condurre a deficit
più generalizzati, a meno che non vengano curati efficacemente.
Talune funzioni di più altro livello coinvolgono un più complesso processo di informazioni
corticali. L’emisfero sinistro vaglia il materiale verbale e distribuisce tale materiale in modo
discreto; l’emisfero destro vaglia il materiale non verbale ed il nuovo materiale in modo più globale.
Un danno all’emisfero sinistro limita le funzioni sintattiche e l’accrescimento della gravità
di tale danno che può coinvolgere completamente il processo linguistico.
Un danno nell’emisfero destro sfocia in deficit nelle funzioni visivo-spaziali e nella
memoria spaziale. Il recupero di queste funzioni probabilmente, è successivo al linguaggio. I
cambiamenti di sviluppo sembrano spostarsi dalle funzioni globali dell’emisfero destro verso le
funzioni linguistiche dell’emisfero sinistro. Un danno cerebrale può portare anche conseguenze
emotive che sono sostanzialmente influenzate dal livello di funzionamento esibito dal bambino
prima della presenza del danno così come dai sistemi di supporto sociale successivi al danno stesso.
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La determinazione del danno cerebrale, acuta, cronica, ecc, e l’estensione del danno
cerebrale del bambino, è un compito difficile per il neuropsichiatra; la principale difficoltà riguarda
il ruolo dell’età e il livello di sviluppo del bambino.
Una regola di base per la valutazione dei bambini, consiste nell’utilizzare test multipli in
modo che possano essere analizzati tutti gli schemi ed i mutamenti che essi presentano. (Golden e
Anderson, 1979).
La valutazione delle potenzialità e delle debolezze intellettive e scolastiche, a scopo
riabilitativo e di recupero e la realizzazione di programmi educativi individuali, è molto importante
specie quando si intende venire incontro ai bisogni dei singoli soggetti.
In primo luogo devono essere valutate le capacità cognitive dei bambino e di metodi che
consentono di vagliare le informazioni seguendo un ordine migliore; tutto ciò deve esser valutato in
modo quantificabile, riproducibile e valido.
In secondo luogo la valutazione dovrebbe poi essere trasformata e diventare operante sul
piano educativo.
Le procedure valutative inoltre dovrebbero essere ragionevolmente efficienti in termini di
tempo e sforzi necessari per effettuarle ed interpretarle. In sostanza, il processo di valutazione
neuropsicologica dovrebbe essere designato per valutare il problema di riferimento specifico e per
fornire le informazioni necessarie per la pianificazione di un programma adeguato per il bambino
preso in esame.
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Il disturbo Tay-Sach, uno dei principali esempi di lipoidosi cerebrale, presente soprattutto
nei bambini di discendenza ebrea, rappresenta una varietà infantile di degenerazione
cerebromaculare. I sintomi che emergono durante la prima infanzia, e che poi sfociano nella morte
durante il secondo o terzo anno di vita, includono: la paralisi spastica, l’epilessia, la demenza e
l’atrofia ottica, la quale porta alla cecità completa.
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L’atassia di Friedreich è un disturbo recessivo con sintomi che si manifestano tra i sette ed i
quindici anni. Tali sintomi includono: l’atassia, disturbi nel portamento e scarsa coordinazione,
incluso frequenti cadute.
I disturbi degenerativi del sistema nervoso sono progressivi; frequentemente sono condizioni
ereditarie che danno luogo a significative minorazioni mentali, motorie e comportamentali che,
nella maggior parte dei casi, portano alla morte.
Dato che quasi sempre alla trasmissione di molte di queste condizioni è associata una
componente genetica, è consigliabile una consulenza per quei genitori che hanno un bambino
colpito da tali sintomi, in quanto il momento della prevenzione è un aspetto da privilegiare. Questo
percorso deve essere strutturato dagli specialisti del servizio sanitario locale (ASL), in quanto la
valutazione diagnostica deve assicurare particolare significato ai fini della costruzione di un
progetto educativo integrato, necessario per individuare metodologie, strategie educative e
rieducative.
La maggior parte del sistema nervoso dell’uomo è connessa con la regolazione del
movimento, con la preparazione dei movimenti in atto e la progettazione di quelli futuri.
L’organismo umano cosciente e sensibile è continuamente in stato di attività, muovendosi,
stando in piedi, camminando, correndo, parlando, manipolando oggetti o compiendo le intricate
sequenze di movimenti di un’attività sportiva o musicale. È molto interessante il fatto che
l’individuo può essere impegnato simultaneamente in diverse di queste attività più o meno consce e
abituali, come guidare nel traffico, accendersi una sigaretta e essere impegnato in una discussione
animata.
Ancora, quando un ostacolo impedisce alle sequenza di movimenti di raggiungere il suo
scopo, automaticamente può sovrapporsi una nuova sequenza1. Un atto motorio può essere
volontario, riflesso o automatico. È volontario se è compiuto dietro comando della nostra volontà e
con intervento della corteccia cerebrale.
Si tratta di motilità riflessa se al suo compimento non partecipano né la volontà né la
corteccia. Esistono poi dei movimenti che vengono compiuti automaticamente, senza rendercene
1
Raymond D., Adams, Maurice Victor, Principi di neurologia, McGraw- Hill, Companies 1994, pp.33-43.
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conto, malgrado alla loro attuazione partecipi la corteccia: è il caso dei movimenti muscolari degli
arti, dei movimenti dei muscoli facciali e degli arti superiori che, accompagnando il linguaggio,
costituiscono la mimica.
Il sistema motorio si fonda su quattro componenti:
Il neurone motore periferico è costituito nell’encefalo dalle cellule di origine e dalle fibre dei
nervi cranici motori, e nel midollo dalle cellule delle corna anteriori e dalle rispettive radici anteriori
e nervi periferici. Il suo compito principale è quello di trasmettere ai muscoli gli impulsi per il
2
Bergamini L., Manuale di Neurologia clinica, Ed. Libreria Corina, Torino 1986, p.18.
3
Ibid., pp.20-21.
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movimento, movimento che può essere volontario o riflesso. Per il movimento volontario il neurone
motore periferico è soltanto una struttura secondaria che esegue gli ordini che le giungono dal 1°
neurone (piramidale); è invece struttura primaria autonoma per il movimento riflesso.
Il neurone motore periferico non ha soltanto la funzione motoria ma anche altre funzioni:
invia al muscolo eccitamenti continui destinati a mantenere il trofismo e un sufficiente tono
muscolare. L’interruzione o distruzione delle vie di moto in qualsiasi punto del loro percorso o in
qualunque loro struttura, dalle grandi cellulare di Betz ella corteccia motoria al nervo periferico ha
come conseguenza una paralisi. I caratteri di tale paralisi sono diversi a seconda che la via di moto
interrotta sia il 1° neurone (piramidale) o il 2° neurone (periferico).
Quando la paralisi è grave e permanente, viene interessata un’area più estesa di quella delle
vie cortico-spinali dirette. Il 1° neurone va dalla corteccia alle cellule dei nuclei dei nervi cranici e
delle cellule delle corna anteriori del midollo: a queste cellule esso invia lo stimolo per il
movimento volontario, ma invia altresì impulsi sul tono muscolare e sui riflessi4.
Le paralisi, anche nelle forme più gravi, non interessa mai tutti i muscoli di una metà del
corpo.
I movimenti che sono sempre bilaterali, come quelli degli occhi, della mandibola, del
faringe, della laringe, del collo, del torace e dell’addome, sono poco o per nulla interessati.
Il sistema extrapiramidale (o sistema dei gangli della base) è formato dalla corteccia
sensorio-motoria e associativa dei lobi frontale, parietale e occipitale, dai gangli della base (lo
striato e il pallido) dal talamo, dal corpo subtalamico di Luys e dalla sostanza nera.
L’organizzazione extrapiramidale è basata sui circuiti riverberanti che, dalle aree associative della
corteccia, ritornano sulle aree corticali motorie dopo aver contratto una serie di articolazioni
sinaptiche nelle strutture sottocorticali. Il sistema extrapiramidale riceve, inoltre, informazioni dai
circuiti che mediano la vita emotiva e consente l’espressione mimica e gestuale degli stati emotivi.
I diversi segni o sintomi espressione clinica di una lesione del sistema extrapiramidale sono
rappresentati da: ipertonia extrapiramidale o rigidità, rallentamento della motilità involontaria,
4
Raymond D., Adams, Maurice Victor, Op. cit., p. 40.
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disturbi della motilità automatica e associata, alterazioni delle posizioni corporee, movimenti
involontari patologici.
Dalla varia associazione di questi segni in determinati quadri clinici sono state tratteggiate
differenti sintomi extrapiramidali. Si può distinguere infatti la sindrome acinetico-ipertonica,
caratterizzata appunto da acinesia e rigidità, dalla sindrome distonico-ipercinetica, caratterizzata da
movimenti involontari patologici e da distonia.
La sindrome acinetico-ipertonica sta ad indicare gli aspetti prevalenti del morbo di
Parkinson.
Le sindrome extrapiramidali possono essere raggruppate in:
a) Sindrome parkinsoniana;
b) Sindromi con movimenti involontari patologici (corea, atetosi, ballismo, ecc.)
c) Sindrome Wilsoniana.
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3 Le Paralisi
Le considerazioni diagnostiche sulle paralisi possono essere semplificate secondo gli schemi
seguenti basati sulla topografia e sulla distribuzione del deficit di forza:
1. Monoplegia: si riferisce alla perdita della forza o paralisi di tutti i muscoli di un arto, sia che
si tratti di un braccio che di una gamba;
2. Emiplegia: è la forma più comune di paralisi interessante il braccio, la gamba e la faccia di
un lato del corpo;
3. Paraplegia: indica la perdita della forza o paralisi di entrambe le gambe. È più spesso il
risultato di una malattia del midollo spinale.
4. Quadriplegia o tetraplegia: indica una perdita di forza di tutti e quattro gli arti. Può essere
conseguente a lesioni che interessano i nervi periferici, la sostanza grigia del midollo spinale
o i motoneuroni superiori bilateralmente a livello cervicale, del tronco e dell’encefalo. La
displegia è una forma particolare di tetraplegia nella quale le gambe sono colpite più delle
braccia.
5. Paralisi isolate di uno o più gruppi muscolari;
6. Disturbi del movimento non accompagnati da paralisi;
7. Paralisi isterica;
8. Paralisi muscolari senza alterazioni documentabili nel nervo o nel muscolo5.
3.2. Monoplegia
5
Raymond D., Adams, Maurice Victor, Op. cit., p. 44.
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senza atrofia muscolare. La monoplegia con atrofia muscolare è più frequente della monoplegia
senza atrofia muscolare. L’immobilità prolungata di un arto può portare ad atrofia. La sede della
lesione (nervo, radice spinale o midollo spinale) può essere determinata dal tipo di debolezza dei
muscoli interessati, dai segni e dai sintomi neurologici associati e dagli esami strumentali (esami del
liquor, radiografie della colonna, esame elettrico del nervo e del muscolo e mielografia)6.
3.3. Paraplegia
La paralisi di entrambe le estremità inferiori può verificarsi con le malattie del midollo
spinale, delle radici spinali o dei nervi periferici. Nelle malattie acute del midollo spinale con
interessamento dei fasci corticospinali la paralisi o il deficit di forza interessa tuti i muscoli al di
sotto di un certo livello; spesso, se la sostanza bianca è danneggiata estesamente, vi si associa
perdita sensitiva al di sotto di un certo livello. Anche la vescica e l’intestino possono essere
paralizzati nelle malattie bilaterali del midollo spinale.
L’origine più frequente di una paraplegia acuta è un trauma spinale, di solito associato a una
frattura o lussazione della colonna. Nell’età adulta le forme di paraplegia che si incontrano più
frequentemente sono la sclerosi multipla, la degenerazione combinata subacuta, i tumori, l’ernia
discale cervicale e la spondilosi cervicale e altre ancora, le malattie degenerative delle colonne
laterali e posteriori da causa sconosciuta.
3.4. Quadriplegia
Tutto quanto è stato detto circa le cause spinali della paraplegia si applica anche alla
quadriplegia, con la differenza che la lesione si trova a livello cervicale più che toracico o lombare.
Se la lesione ha sede nei segmenti cervicali bassi e compromette la metà anteriore del midollo
spinale la paralisi delle braccia può essere di tipo flaccido areflessico e quella delle gambe spastica.
6
Raymond D., Adams, Maurice Victor, Op. cit., p. 44.
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L’emiplegia interessa la sola metà del corpo (quella contro laterale cerebrale). Le alterazioni
prevalenti dell’arto superiore sono di tipo spastico.
Le malattie localizzate nella corteccia cerebrale, nella sostanza bianca del cervello (corona
radiata) e nella capsula interna di solito si manifestano con perdita di forza o paralisi della faccia,
del braccio e della gamba del lato opposto. Il verificarsi di crisi convulsive o la presenza di disturbi
del linguaggio (afasia), la perdita della sensibilità discriminativa, l’anosognosia o un difetto
omonimo del campo visivo, suggeriscono una sede corticale o sottocorticale. Tra le cause
dell’emiplegia le malattie vascolari dell’encefalo e del tronco cerebrale superano tutte le altre in
frequenza. I traumi (contusione cerebrale, ematoma epidurale e subdurale) vengono per secondi.
Altre eziologie importanti, in ordine di frequenza, sono i tumori cerebrali, le malattie demielizzanti
e complicanze della meningite e dell’encefalite.
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La fase flaccida si colloca subito dopo l’inizio dell’emiplegia e può durare dai sette ai
quindici giorni. Il paziente non può muovere il lato colpito, ha perso i suoi schemi di movimento
precedenti e quelli dell’arto sano non sono in grado di compensare la perdita di attività del lato
colpito.
È della massima importanza programmare il trattamento sulla base di una buona valutazione
delle necessità del paziente:
Il suo tono posturale e le modificazioni del suo tono in condizione di stimolazione in
posizioni e movimenti differenti;
La qualità dei suo schemi posturali e di movimento;
Le sue abilità e disabilità funzionali7.
Il processo della terapia rieducativa dell’emiplegio dipende dal raggiungimento dei suoi
obiettivi:
Quello di una migliore organizzazione dell’assistenza al malto nella fase acuta;
Quello di un più razionale e precoce trattamento recuperativo, anche questo da iniziare e
impostare già nella fase acuta.
Per quanto riguarda il primo aspetto, tutto è basato sull’ottenimento dell’autonomia
funzionale del paziente in tempi brevi e per processo spontaneo; potrebbe favorire, anziché
prevenire o limitare i meccanismi riflessi, sia spinali che sopraspinali, responsabili della comparsa o
della progressione della sindrome spastica e delle sincinesie globali.
Per ciò che concerne il secondo obiettivo, esso rappresenta lo sviluppo logico delle
osservazioni, ipotesi e critiche al di là di queste possibilità quel che deve essere immediatamente
fatto nella fase acuta e un trattamento assistenziale di premure e precauzioni, volte a prevenire:
1. Le complicanze generali e le deformità;
2. La deprivazione sensoriale e motoria;
3. La spasticità, nelle sue componenti epigenetiche.
7
Ibid., pp. 30-40
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del paziente ed è anche quella, altrettanto decisiva, di salvarlo dalla solitudine e dalla depressione e
di motivarlo positivamente ad accettare e a saper reagire alla disabilità8.
8
Soriani S., Emiplegia e riabilitazione, Bi e Gi, Verona 1991, pp.35-43.
9
Ibid., p. 87.
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recupero di una funzione ma anche il fatto che questo recupero debba rappresentare, per quanto
possibile, un ritorno alla normalità delle funzioni10.
Quanto maggiori saranno la motivazione e la partecipazione attiva del paziente, tanto più si
potranno conseguire recuperi significativi.
Le tecniche di trattamento sono state e devono essere considerate più come idee e
suggerimenti su ciò che si può fare con un paziente che come una successione di esercizi o di
schemi da eseguire in un dato ordine e per ogni paziente. Assumono particolare importanza ai fini
di una buona riuscita del trattamento i seguenti aspetti:
Precocità dell’intervento;
Significatività;
Motivazione;
Prevenzione della deprivazione sensoriale;
Ripetizione dell’esercizio;
Rinforzo;
Arricchimento dell’ambiente;
Interazione fra terapista e paziente11.
Lo scopo del trattamento è migliorare la qualità del trattamento del lato colpito e fare in
modo che i due lati lavorino insieme più armoniosamente possibile, nei limiti concessi dalla lesione
cerebrale. Le tecniche che il terapista sceglierà, tra le molte che gli sono proposte, dipenderà da
quanto per primo e più di tutto occorre al paziente per metterlo sulla strada di un recupero quanto
più vicino al normale possibile.
Le tecniche prescelte vanno allora provate sul paziente e il loro effetto va controllato nella
stessa seduta; l’effetto buono o cattivo si evidenzierà in termini di modificazioni del tono posturale,
degli schemi motori e dell’uso funzionale del paziente, come una reazione continua al trattamento
del terapista.
10
Formica M., Trattato di neurologia riabilitativa, Marrapese, Roma 1985.
11
Formica M., Op.cit., p.18
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Il trattamento implica una gran dose di sperimentazione e buona parte dipende dalla costante
interazione tra paziente e terapista. Le tecniche impiegate dipendono dallo stadio di recupero che il
paziente ha raggiunto o nel quale il progresso si è fermato. Questi stadi possono essere definiti
come:
12
Soriani S., Op.cit., p.17.
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Bibliografia
Bergamini L., Manuale di Neurologia clinica, Ed. Libreria Corina, Torino 1986.
Formica M., Trattato di neurologia riabilitativa, Marrapese, Roma 1985.
Raymond D., Adams, Maurice Victor, Principi di neurologia, McGraw- Hill, Companies
1994.
Soriani S., Emiplegia e riabilitazione, Bi e Gi, Verona 1991.
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