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Francesco Laurenti

(Università di Roma Tor Vergata)

Preistoria di una traduzione:


La Divine Comédie francese di Jacqueline Risset
(intervista)

F.L.: La sua traduzione della Divina Commedia (Paris, Flammarion, 1985-


1990) colma un vuoto apparentemente incomprensibile nella tradizione lettera-
ria francese. Come si spiega questa assenza? È forse legata alla sfiducia nella
traducibilità di certa poesia o le ragioni sono da ricercare altrove? Cosa l’ha
mossa a tradurre Dante?
J.R: Ad un certo momento, scorrendo i titoli della collana Les ecrivains de
toujours, mi accorsi che tra il centinaio di titoli provenienti da tutto il mondo
non era presente Dante.
Allora ero nella rivista «Tel Quel» e, parlando col direttore delle Editions du
Seuil, una delle maggiori case editrici francesi, gli domandai le ragioni di una
tale assenza. Avrei immaginato Dante tra i primi della lista ma lui dette questa
risposta per me stupefacente: «Sa, Dante è uno scrittore poussérieux» ovvero
‘polveroso’. La parola mi impressionò, risi ma capii da questa frase che c’era
un problema relativo all’immagine di Dante in Francia che spiegava il senso di
questa assenza.
Per me, ch’ero partita da tutta un’altra “zona” (Petrarca) per arrivare lenta-
mente a Dante, contro la tradizione universitaria che conoscevo e contro quella
delle edizioni italiane con le note gigantesche, ebbe molta importanza l’incontro
con «Tel Quel», che risale al 1965.
Era l’anno dell’anniversario della nascita di Dante, uscì un numero speciale
al quale mi chiesero di collaborare con una traduzione di due testi molto inte-
ressanti di Vico sul poeta. Questa rinata attenzione si poneva nella prospettiva di
tipo linguistico-semiologico, allora dominante in Francia, ma applicata a Dante
apriva nuove prospettive. Nel saggio Dante et la traversée de l’écriture («Tel
Quel», n. 23, 1965), ad esempio, Sollers alludeva anche all’aspetto pittorico di
Dante e al rapporto, tra gli altri, con Botticelli. Ebbi allora la conferma che era
giunto il momento di fare qualcosa.
Avevo appena letto una nuova edizione italiana di stampo filologico. Era
di Giorgio Petrocchi che lavorava nella mia stessa università e che mi avrebbe

«L’Alighieri», 37 (2011)
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poi incoraggiato molto nella stesura del mio Dante scrittore (Dante écrivain ou
l’“Intelletto d’amore”, Paris, Seuil, 1982, trad. it. di M. Galletti: Dante scrittore,
Milano, Mondadori, 1984). La sua edizione fu per me importantissima perché
“lavava” il testo di Dante pubblicandone delle varianti tirate fuori dalle prime
edizioni.
Sappiamo che non c’è un manoscritto di Dante e che non si conosce nemmeno
la sua scrittura. Il suo nome compare scritto solo una volta: dal cancelliere di
Firenze sulla lista dei condannati a morte. Esiste però una serie di manoscritti e
Petrocchi, partendo dai più antichi, aveva deciso di levare le deformazioni che si
erano introdotte nel testo, all’apparenza talvolta insignificanti, come ad esempio,
l’esclamazione dantesca «Ahi» di fronte alla visione della foresta selvaggia che
era poi diventato semplicemente «Ah». Al pari «entrai» era in realtà «intrai»,
con delle corrispondenze foniche inevitabilmente scomparse e con delle asprezze
che erano state “addolcite” dalla tradizione. Questi elementi quindi, «Tel Quel»
e Sollers da una parte e Petrocchi e la sua edizione dall’altra, hanno giocato
insieme nel riavvicinarmi a Dante e spingermi a fare qualcosa.
Allora però non pensavo affatto che l’avrei tradotto. Pensavo soltanto che avrei
parlato di Dante per far vedere ai miei contemporanei che questo scrittore non era
“polveroso” come loro pensavano ma che anzi era moderno. Per questa ragione
ho chiamato il mio testo non «Dante poeta» ma «Dante scrittore» riprendendo il
titolo di un testo di Roland Barthes su Sollers intitolato Sollers scrittore. Anche
lì Barthes difendeva Sollers da quanti lo vedevano come un ideologo, un politico,
per riportarlo alla sua dimensione di scrittore.
L’operazione che io facevo col mio titolo era quasi inversa. Il termine «poeta»
preso senza una riflessione su una certa poetica diventa una specie di piedistallo,
dà l’immagine di qualcuno che è ispirato e “che non capisce niente” e la tradi-
zione vedeva Dante come “poeta”. A me interessava quella che Yves Bonnefoy
chiama «la conscience de soi de la poésie» e man mano che leggevo la Divina
commedia, con gli altri testi poetici e gli scritti teorici di Dante, mi stupiva proprio
la sua coscienza di scrittore.
In Francia la grande questione in quegli anni era la riscoperta del linguag-
gio: venivano ripubblicati i testi di Saussure, anche quelli più sconosciuti sugli
anagrammi (pubblicati da Starobinski), si discuteva di Batkin e entrava in scena
la Kristeva con la sua semanalisi che legava semiologia e psicanalisi. In quel
contesto mi sembrò allora che Dante assumesse la sua parte, soprattutto per la
sua evidenza poetica, ovvero per la forza, la modernità e l’arditezza della sua
lingua. Poco a poco mi diventò quindi necessario tradurlo.
Lavorando su Dante scrittore, infatti, dovevo fornire degli esempi e le tradu-
zioni preesistenti non mi aiutavano, anzi facevano crollare tutto il mio discorso.
Compresi allora che l’idea di “polveroso” proveniva proprio dalle traduzioni.
C’era la tendenza a un rispetto eccessivo nei confronti dell’autore tradotto, che
fissava Dante in una posizione accademica e troppo solenne. Contribuiva a tutto
ciò l’alessandrino francese, strumento troppo simmetrico e nel XX secolo ormai
scontato, soprattutto dopo la contestazione del verso libero che a partire da Mallar-
mè e Rimbaud (come disse un giovane critico) aveva ormai “disossato” la poesia
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francese. Tutto questo, paradossalmente, ci avvicinava a Dante che usa, è vero, la


regolarità dell’endecasillabo ma in una maniera che non ha nulla a che fare con la
regolarità implacabile dell’alessandrino, né del cosiddetto endecasillabo francese
(11 piedi). Era necessario quindi inventarsi qualcosa di diverso lasciandosi andare
al ritmo più essenziale della lingua francese, in grado comunque di ritrovare quello
che è fondamentale in Dante. Se un traduttore non fosse riuscito a riproporre
questo ritmo attraverso le parole francesi avrebbe fatto bene a non avvicinarsi a
questo testo: traducibile né con l’alessandrino né con l’endecasillabo né, come
fece Pézard nell’edizione della Pléiade, col decasillabo. Tutti questi versi sono
fuori luogo perché inadatti a catturare l’essenza del ritmo dantesco.
A me sorprendeva invece, anche per analogia con la poesia che scrivevo allora,
la straordinaria libertà dantesca all’interno della struttura ferrea della metrica.
Metrica e ritmo sono a mio avviso entità diverse e se lo si dimentica non si può
tradurre, né scrivere.

F.L.: Un ritmo e una metrica dantesca che, anche attraverso la terza rima,
in parte evocavano però il sirventese della tradizione francese?
J.R.: In questo risiede un problema supplementare che renderebbe impossi-
bile la traduzione. La terza rima con cui è costruita tutta la Divina Commedia è
la terzina in cui il primo verso rima col terzo e il secondo col primo verso della
terzina seguente. Con la terzina dantesca si verifica qualcosa di straordinario che,
è vero, esisteva nel sirventese della tradizione medievale, ma quest’ultimo era
legato a composizioni brevi. Dante invece inserisce questa struttura di rimando-
attesa in una catena ben più lunga in cui ogni terzina è chiusa, come un sigillo,
ma è al contempo rilanciata. Allora mi sono chiesta: “che si fa?”.
Intanto in francese manca l’abbondanza di rima che c’è in italiano; lo notò nel
1933 il poeta russo Ossip Mandelstam che scrisse il più bel testo a mio avviso su
Dante in cui parla della ricchezza “infantile” del “disio” che si legge nelle rime
italiane. La ragione risiede nel fatto che quasi tutte le rime sono nelle vocali (che
convogliano maggiore dolcezza) mentre in francese subentrano le consonanti.
Il francese ha però, a mio avviso, un’altra ricchezza che è nella “e muta”, fon-
damentale in poesia. In francese quindi non potevo riproporre le rime italiane e
questo rappresentava una mancanza terribile. Mi accorsi comunque che solo le
traduzioni del Cinquecento erano rimate.
Allora, ogni volta che non potevo ricreare questo tessuto riccamente inner-
vato, ho cercato di compensare questa mancanza con la precisione del ritmo e
con delle omofonie.

F.L: Anche l’omofonia quindi, potendo essere anche interna alla parola, “com-
pensa” la rima in fine di verso. Oltre alla terza rima quali sono state le rinunce
inevitabili davanti a un testo come la Divina Commedia e, se ci sono state, quali
sono state le altre forme di compensazione? Penso ad esempio al registro.
J.R.: Sì, in Dante c’è un registro che è molto più ricco del registro “poetico”
della lingua francese. Qualcosa che Céline ha tentato di rompere nel romanzo e
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che, analizzando la storia della lingua, ritrovava anche in Rabelais in contrasto


alla monovalenza del francese, molto più omogeneo. Rabelais, secondo Céli-
ne, aveva cercato di rendere una lingua multipla «ratant» – però – «son coup»
nell’innervare la lingua.
La lingua francese è il risultato di tutte le “riforme” della lingua, come quella
della Pléiade la quale, piuttosto che rivolgersi al medioevo francese, si rivolgeva
al Cinquecento italiano di Bembo (imitatore di Petrarca e non di Dante), ma la
maniera del francese è ancora più monovalente di quella, è quasi ciceroniana.
La lingua poetica francese è nata monocolore, rendendo quindi difficilissimo
introdurvisi evitando di cadere nel pittoresco. Dante, al contrario, riesce a passare
da un registro all’altro.
Il linguista cecoslovacco Jirí Levý, per la necessità della scelta ad ogni
mossa, parlava della traduzione come di una partita a scacchi: ogni momento è
condizionato da una scelta ed ogni scelta si ripercuote sulle scelte successive.
Se il traduttore non è consapevole e cosciente delle proprie scelte le traduzione
non regge.
A me è sembrato che la scelta fondamentale nel tradurre Dante fosse quella
del ritmo e abbandonare il ritmo dantesco, così fondamentale, sarebbe significato
abbandonare Dante, tradirlo fino a rendere qualcosa totalmente distante dall’opera
originaria. Questa scelta m’ha reso sopportabile la rinuncia al plurilinguismo che
distingue Dante da Petrarca per quella che Gianfranco Contini chiamava «fio-
rentinità trascendentale». Si sono create allora due linee quasi opposte e, ancora
secondo il critico, tutta la poesia occidentale (sicuramente è il caso della Francia)
ha scelto Petrarca a discapito di Dante. Sapevo quindi che dovevo rinunciare a
quest’aspetto, a questa coloritura. Nel mio caso ho avuto l’impressione che se
avessi trasmesso il ritmo sarei riuscita a trasmettere anche il resto.
L’altra rinuncia che m’è costata sono stati i neologismi, soprattutto nel Pa-
radiso. È questa la ragione per cui questa cantica mi interessò fin dall’inizio
più delle altre due. La sentivo, in virtù di questa caratteristica, più moderna e
più vicina a noi. Se prendiamo infatti tutti i più grandi scrittori del ventesimo
secolo, pensiamo a Kafka, Musil, Joyce, Proust ci accorgiamo che sono proprio
quelli che scrivendo fanno un’esperienza limite, che vanno a toccare dei punti
quasi indicibili. In Dante ci sono tali neologismi perché l’esperienza che com-
pie è talmente ardita e al limite della possibilità umana che, per parlarne, deve
necessariamente trovare un linguaggio al di fuori del linguaggio umano. La sua
operazione è al limite della grammatica ed è volontariamente trasgressiva. Crea
ad esempio dei verbi e dei nomi a partire dagli avverbi. Il più bello di tutta la
Divina Commedia, e forse di tutta la poesia, è nel canto xxxiii. Lì, parlando di
Cristo e del mistero dell’incarnazione, usa il verbo riflessivo indovarsi ovvero
‘mettersi nel dove’, che rende perfettamente l’idea dell’incarnazione nel tempo
e nello spazio della divinità che scende nel corpo. È formidabile.
Ho tentato ogni volta di trovare degli equivalenti e in questo caso ho scelto
s’innouer, in cui è contenuta l’immagine del “nodo” e del “dove”, anche se manca
l’evidenza immediata che è in Dante... Dobbiamo riconoscere che non si può
lottare con un gigante del genere.
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F.L.: Lei parla di “trasgressione dantesca”. È possibile rintracciare in questo


“eccesso di libertà”, antitetico al modello petrarchesco, una causa di quella che
lei definisce “assenza” di Dante nella tradizione francese?
J.R.: Dobbiamo riconoscere che Dante, in fondo, non ha avuto discepoli.
Non li ha avuti neanche in Italia. È apparso magari negli affreschi delle chiese,
ma era rappresentato più il racconto che la poesia. In Francia è mancato anche
questo, perché era difficile, era lontano e la poesia era concepita come poesia
petrarchesca e basta.

F.L.: Poesia petrarchesca intesa come?


J.R.: Poesia del “tu” e dell’“io”, poesia amorosa, poesia della lingua omogenea.
Trovo comunque Petrarca bellissimo. Quando ho smesso di tradurre Dante infatti,
immaginavo che il mio vecchio amore per Petrarca sarebbe diminuito. Non è
stato così, ho invece riscoperto Petrarca perchè in questo “giardino chiuso” che è
la sua poesia, ha delle radicalità formidabili: qualcosa che tocca profondamente
e che va oltre tutti i petrarchisti.
In Francia ci fu poi una rivolta contro il medioevo, quello cristiano, contro
la presa della Chiesa e nel Seicento sono stati i protestanti, che avevano piacere
nel ritrovare dei papi relegati all’inferno, a rivalutare Dante.
C’era poi l’ideologia della ragione e del gusto per cui, per due secoli, Dante è
sembrato un barbaro, come del resto Shakespeare, nel Settecento francese. Sus-
sisteva quindi una lontananza radicale, si era su un’altra via. Solo nell’Ottocento
si è assistito a una reviviscenza di Dante.

F.L.: L’ulteriore scoperta di Dante negli anni Sessanta del Novecento, l’am-
missione di quella poesia e la sua traduzione, che lo ha reso più vicino, hanno
avuto riflessi nella poesia francese contemporanea?
J.R.: Credo che non ci sia stata un’influenza diretta, parlerei piuttosto di allu-
sioni. Ci sono stati due libri di Marcelin Pleynet, che era in «Tel Quel», intitolati
Rime il primo e l’altro Spirto, da un titolo della Vita Nuova di Dante. L’eco di
Dante è presente poi nell’opera, edita da Gallimard nel 2006, TransParadisExpress
di Alain Jouffroy, che ha affermato d’aver letto la mia traduzione e attraverso
quella di aver compreso il ritmo di Dante che, a mio avviso, egli riesce a ripro-
porre. Egli è riuscito anche a tradurre, cosa che io non sono riuscita a fare, quella
che Contini chiama «l’onomastica di Dante», ovvero tutti i nomi che ci sono in
Dante, che danno anche il senso della rudezza del reale. Lì egli nomina luoghi e
persone dell’attualità contemporanea, ma con una grande libertà anche rispetto
a Dante, che egli interpella direttamente o critica, riproponendo così esattamente
l’approccio dantesco alla libertà. Libertà dantesca di reinterpretare tutto, anche
l’inferno che termina nel gelo, come nella tradizione musulmana ch’egli aveva
letto nel Libro della Scala arabo.
A livello personale, avevo superficialmente immaginato la traduzione come un
campo separato dalla poesia in proprio, o meglio non li avvicinavo. Mi sono accor-
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ta solo dopo di quanto mi abbia “influenzato” (qui possiamo usare l’espressione)


nel senso inverso da come avrei immaginato, ovvero come una lezione di poesia,
a distanza, di rigore e di continuità: mai avrei immaginato che avrebbe agito in
me nella direzione opposta della semplicità e dell’implicazione autobiografica.
In fondo infatti la Divina Commedia è un’autobiografia: è il mondo dell’aldilà,
è vero, ma descritto da uno che ci viaggia dentro, con tutto sé stesso. C’è quindi
sempre lo sguardo di Dante che è interessante e non gli spettacoli in sé.
Questo lo ha capito, a mio avviso, soltanto Botticelli. Gli altri pittori che illu-
strano la Divina Commedia illustrano gli spettacoli che Dante vede. Botticelli, in
ognuno dei suoi cento disegni, rappresenta invece prima il rapporto tra Dante e
Virgilio nelle minime variazioni, come il senso di affetto, paura, interrogazione:
tutti elementi fondamentali senza i quali non ci sarebbe la Divina Commedia. Si
rappresenta un dialogo amoroso: Dante e Beatrice si parlano e davanti alla scala
di Giacobbe Dante si getta impaurito tra le braccia di lei, che è più grande di lui
(perché sa di più). Questa è l’idea del dialogo amoroso che oltretutto, mancando
di un disegno, non finisce. Differentemente Gustave Doré, che ha condizionato la
nostra percezione di Dante, ha rappresentato un Dante oscuro, col naso che arriva in
bocca, quasi noioso, omettendo quei suoi momenti di ammirazione “infantile”.

F.L.: È possibile che la “libertà dantesca” abbia contribuito alla sua riscoper-
ta negli anni sessanta caratterizzati in Francia, come in Italia, dalle avanguardie
e le abbia nutrite?
J.R.: Certamente è così, si sentiva infatti la necessità di nutrirsi altrove. Una
conferma è l’interesse di allora per Joyce, che al pari aveva sentito la necessità
di prolungare la sua opera traducendo e che, in Francia, aveva lavorato a una
traduzione della propria opera coinvolgendo anche Beckett. Joyce affermò che
voleva spingersi fino alla «dissoluzione del significato» e quando si mise a tra-
durre in italiano, si rivolse a quello che definì «padre Dante» traducendo i punti
più trasgressivi del poeta, quelli in cui si “inventava” un linguaggio.

F.L.: L’impressione è che si assista oggi, almeno in Italia, a una deriva della
parola poetica verso il significante che forse mina il significato. Cosa può inse-
gnarci ancora Dante rispetto a questo?
J.R.: È vero, succede spesso. Anche in Italia si assiste ad un rinnovato interesse
per Dante. Sanguineti, ad esempio, ha pubblicato la raccolta Purgatorio dell’in-
ferno in cui usa anche il latino come radice viva dell’italiano e in quel campo egli
è vicino a Dante, tanto da generarmi quasi invidia per l’abilità nel giocare con
un latino così vicino. Penso poi a Luzi e Caproni in cui Dante è molto presente
e molto presente è l’attenzione al rapporto significante-significato. C’è stato poi
un rinnovato interesse che, e questo mi ha interessato, è seguito ad un mio scritto
in un libro collettivo sugli scritti italiani di Dante. Lì avevo commentato e pub-
blicato due brani di Finnegan’s Wake tradotti da Joyce che alcuni giovani poeti
italiani hanno poi ripreso come se Joyce fosse un loro contemporaneo italiano.
Questo è stato possibile perché quel Joyce, come io avevo affermato, ruotava
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così tanto intorno a Dante da farmi ammettere che il poeta irlandese fosse l’unico
discepolo di Dante. Anche Beckett lo è stato. Lui stesso ammise che Dante lo
aveva accompagnato per tutta la vita col suo “purgatorio”.
Questa attenzione per il significante si ritrova anche in Francia ed è, a mio
avviso, una caratteristica delle epoche di avanguardia che ha il ruolo importante
di distaccamento dall’egemonia delle vecchie poetiche, che sono anche una
ideologia. Arriva un momento in cui ci si immerge nel significante, e poi si
riemerge. Ho l’impressione che questo sia un momento di riemersione. Ci sono
poeti, anche non giovani, come Michel Deguy (direttore della rivista «Poésie»,
tradotto anche in italiano) per cui Dante è molto presente. Insieme a un gruppo di
altri poeti ha tradotto alcuni brani e versi di Dante, segno evidente della volontà
di riprendere il poeta fiorentino. C’è poi Philippe Beck, un giovane poeta in cui
la presenza di Dante è necessaria, anche nella volontà etica. Un altro giovane
poeta da menzionare al riguardo è Martin Ruef.

F.L.: Riferendosi alla traduzione della poesia, nel Convivio, Dante parla di
rottura del «legame musaico». Il poeta-traduttore, al fianco del poeta tradotto,
non è forse l’unico a cui è concessa veramente l’esperienza di questo «legame
musaico»? Con quali esiti?
J.R.: Credo di sì. La traduzione diviene in questo senso una sorta di verifica
di questo “legame”. Da questo punto di vista è anzi sconvolgente perché si speri-
menta la violenza al legame significante-significato e la fondamentalità di questo
legame, come pure la possibilità di reinventarlo. La traduzione diviene allora uno
spazio di metamorfosi: ci trasmette che un testo non è fissato una volta per tutte
e che ha, per lo stesso autore, delle potenzialità non esplorate fino in fondo. Il
traduttore segue così delle indicazioni che sono “sotto”, non dichiarate, ma che
egli percepisce in alcune parti del testo e cerca di seguire. È come se, rientrando
nella stanza-laboratorio della poesia, si abbia la possibilità di riattivare alcuni
fili che erano stati interrotti, o addormentati.
Chi traduce è comunque fermo a un dovere di fedeltà. Una libertà infinita è
invece riscoperta nell’autotraduzione. Si sperimentano in questo caso entrambi gli
aspetti di crudeltà e di dubbio (su di sé), portati dal fatto che il «legame musaico»
si può rompere con violenza. La traduzione è, infatti, violenza. Traducendo da
un idioma all’altro si “rompono” la dolcezza e l’armonia precedentemente create
dall’autore. Dante stesso però, non dimentichiamolo, traduce.
Non concordo con Paul Valery quando afferma che una poesia è infinita,
perché lui la immagina piuttosto come un esercizio. Ci credo però sulla base di
quanto detto finora: i materiali poetici si rivelano infatti, attraverso la traduzione,
ancora vivi.

F.L.: L’esperienza del «legame musaico» è propria del poeta-traduttore e non


del semplice traduttore, al quale è preclusa la possibilità di tradurre poesia?
J.R.: Su questo solitamente faccio molta attenzione. Dire che solo i poeti
possono tradurre poesia è forse una maniera troppo violenta di escludere chi non
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ha firmato dei libri di poesia. Non è necessario aver pubblicato della poesia e
nemmeno averla scritta, ma percepirla. È necessario essere un lettore di poesia
che ha riflettuto, con una coscienza della poesia. Ci sono “poeti” che non hanno
riflettuto un granché. Alcune traduzioni da Baudelaire di Raboni o Caproni ci
lasciano perplessi, perché a volte non è sufficiente essere poeti.

F.L.: Le tradizioni quindi si intersecano. Il suo libro di poesia L’Amour de


loin (Paris, Flammarion, 1988) è scritto, lei afferma, «nella prospettiva dei tro-
vatori» francesi. Gli italiani Dante o Petrarca hanno rafforzato il legame con la
Sua stessa tradizione letteraria? L’hanno aiutata al pari nell’autotraduzione in
italiano del “trobadorico” Amor di lontano (Torino, Einaudi, 1993)?
J.R.: Senz’altro sì. Credo che le esperienze fatte siano legate e che si prolun-
ghino nell’esperienza successiva. Anche quella di Petrarca non l’ho mai abban-
donata, anzi l’ho ritrovata e ho scritto un testo sul rapporto tra lui e Leopardi.
Esiste un nutrirsi di tutte le esperienze che permette anche di ritrovare esperienze
dimenticate o allontanate.

F.L.: Lei ha tradotto dall’italiano al francese e in direzione opposta dal


francese verso l’italiano. Quale è stato il ruolo rivestito da queste esperienze
relativamente alla sua opera in proprio? In che senso hanno influito?
J.R.: La traduzione di Ponge è stata importante relativamente alla riflessione
sul linguaggio, sulle differenze tra le lingue e sulla necessità di percepire lo
spessore linguistico delle parole, anche rispetto alla lingua italiana.
Non avrei potuto tradurre Dante se non avessi tradotto prima Ponge in italia-
no. L’esperienza di tradurre in un’altra lingua è rischiosa perché non si ha mai
la certezza di entrare abbastanza a fondo. Però, in quanto impresa temeraria, mi
ha aiutato ad avviare l’impresa ancora più temeraria di tradurre Dante. Tradurre
quindi dalla mia lingua in un’altra mi ha aiutato maggiormente al livello della
riflessione. Al livello poetico mi ha invece aiutato maggiormente tradurre dall’ita-
liano in francese, che è comunque la lingua nella quale scrivo in proprio.

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