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«L’Alighieri», 37 (2011)
162 francesco laurenti
poi incoraggiato molto nella stesura del mio Dante scrittore (Dante écrivain ou
l’“Intelletto d’amore”, Paris, Seuil, 1982, trad. it. di M. Galletti: Dante scrittore,
Milano, Mondadori, 1984). La sua edizione fu per me importantissima perché
“lavava” il testo di Dante pubblicandone delle varianti tirate fuori dalle prime
edizioni.
Sappiamo che non c’è un manoscritto di Dante e che non si conosce nemmeno
la sua scrittura. Il suo nome compare scritto solo una volta: dal cancelliere di
Firenze sulla lista dei condannati a morte. Esiste però una serie di manoscritti e
Petrocchi, partendo dai più antichi, aveva deciso di levare le deformazioni che si
erano introdotte nel testo, all’apparenza talvolta insignificanti, come ad esempio,
l’esclamazione dantesca «Ahi» di fronte alla visione della foresta selvaggia che
era poi diventato semplicemente «Ah». Al pari «entrai» era in realtà «intrai»,
con delle corrispondenze foniche inevitabilmente scomparse e con delle asprezze
che erano state “addolcite” dalla tradizione. Questi elementi quindi, «Tel Quel»
e Sollers da una parte e Petrocchi e la sua edizione dall’altra, hanno giocato
insieme nel riavvicinarmi a Dante e spingermi a fare qualcosa.
Allora però non pensavo affatto che l’avrei tradotto. Pensavo soltanto che avrei
parlato di Dante per far vedere ai miei contemporanei che questo scrittore non era
“polveroso” come loro pensavano ma che anzi era moderno. Per questa ragione
ho chiamato il mio testo non «Dante poeta» ma «Dante scrittore» riprendendo il
titolo di un testo di Roland Barthes su Sollers intitolato Sollers scrittore. Anche
lì Barthes difendeva Sollers da quanti lo vedevano come un ideologo, un politico,
per riportarlo alla sua dimensione di scrittore.
L’operazione che io facevo col mio titolo era quasi inversa. Il termine «poeta»
preso senza una riflessione su una certa poetica diventa una specie di piedistallo,
dà l’immagine di qualcuno che è ispirato e “che non capisce niente” e la tradi-
zione vedeva Dante come “poeta”. A me interessava quella che Yves Bonnefoy
chiama «la conscience de soi de la poésie» e man mano che leggevo la Divina
commedia, con gli altri testi poetici e gli scritti teorici di Dante, mi stupiva proprio
la sua coscienza di scrittore.
In Francia la grande questione in quegli anni era la riscoperta del linguag-
gio: venivano ripubblicati i testi di Saussure, anche quelli più sconosciuti sugli
anagrammi (pubblicati da Starobinski), si discuteva di Batkin e entrava in scena
la Kristeva con la sua semanalisi che legava semiologia e psicanalisi. In quel
contesto mi sembrò allora che Dante assumesse la sua parte, soprattutto per la
sua evidenza poetica, ovvero per la forza, la modernità e l’arditezza della sua
lingua. Poco a poco mi diventò quindi necessario tradurlo.
Lavorando su Dante scrittore, infatti, dovevo fornire degli esempi e le tradu-
zioni preesistenti non mi aiutavano, anzi facevano crollare tutto il mio discorso.
Compresi allora che l’idea di “polveroso” proveniva proprio dalle traduzioni.
C’era la tendenza a un rispetto eccessivo nei confronti dell’autore tradotto, che
fissava Dante in una posizione accademica e troppo solenne. Contribuiva a tutto
ciò l’alessandrino francese, strumento troppo simmetrico e nel XX secolo ormai
scontato, soprattutto dopo la contestazione del verso libero che a partire da Mallar-
mè e Rimbaud (come disse un giovane critico) aveva ormai “disossato” la poesia
la divine comédie francese di jacqueline risset (intervista) 163
F.L.: Un ritmo e una metrica dantesca che, anche attraverso la terza rima,
in parte evocavano però il sirventese della tradizione francese?
J.R.: In questo risiede un problema supplementare che renderebbe impossi-
bile la traduzione. La terza rima con cui è costruita tutta la Divina Commedia è
la terzina in cui il primo verso rima col terzo e il secondo col primo verso della
terzina seguente. Con la terzina dantesca si verifica qualcosa di straordinario che,
è vero, esisteva nel sirventese della tradizione medievale, ma quest’ultimo era
legato a composizioni brevi. Dante invece inserisce questa struttura di rimando-
attesa in una catena ben più lunga in cui ogni terzina è chiusa, come un sigillo,
ma è al contempo rilanciata. Allora mi sono chiesta: “che si fa?”.
Intanto in francese manca l’abbondanza di rima che c’è in italiano; lo notò nel
1933 il poeta russo Ossip Mandelstam che scrisse il più bel testo a mio avviso su
Dante in cui parla della ricchezza “infantile” del “disio” che si legge nelle rime
italiane. La ragione risiede nel fatto che quasi tutte le rime sono nelle vocali (che
convogliano maggiore dolcezza) mentre in francese subentrano le consonanti.
Il francese ha però, a mio avviso, un’altra ricchezza che è nella “e muta”, fon-
damentale in poesia. In francese quindi non potevo riproporre le rime italiane e
questo rappresentava una mancanza terribile. Mi accorsi comunque che solo le
traduzioni del Cinquecento erano rimate.
Allora, ogni volta che non potevo ricreare questo tessuto riccamente inner-
vato, ho cercato di compensare questa mancanza con la precisione del ritmo e
con delle omofonie.
F.L: Anche l’omofonia quindi, potendo essere anche interna alla parola, “com-
pensa” la rima in fine di verso. Oltre alla terza rima quali sono state le rinunce
inevitabili davanti a un testo come la Divina Commedia e, se ci sono state, quali
sono state le altre forme di compensazione? Penso ad esempio al registro.
J.R.: Sì, in Dante c’è un registro che è molto più ricco del registro “poetico”
della lingua francese. Qualcosa che Céline ha tentato di rompere nel romanzo e
164 francesco laurenti
F.L.: L’ulteriore scoperta di Dante negli anni Sessanta del Novecento, l’am-
missione di quella poesia e la sua traduzione, che lo ha reso più vicino, hanno
avuto riflessi nella poesia francese contemporanea?
J.R.: Credo che non ci sia stata un’influenza diretta, parlerei piuttosto di allu-
sioni. Ci sono stati due libri di Marcelin Pleynet, che era in «Tel Quel», intitolati
Rime il primo e l’altro Spirto, da un titolo della Vita Nuova di Dante. L’eco di
Dante è presente poi nell’opera, edita da Gallimard nel 2006, TransParadisExpress
di Alain Jouffroy, che ha affermato d’aver letto la mia traduzione e attraverso
quella di aver compreso il ritmo di Dante che, a mio avviso, egli riesce a ripro-
porre. Egli è riuscito anche a tradurre, cosa che io non sono riuscita a fare, quella
che Contini chiama «l’onomastica di Dante», ovvero tutti i nomi che ci sono in
Dante, che danno anche il senso della rudezza del reale. Lì egli nomina luoghi e
persone dell’attualità contemporanea, ma con una grande libertà anche rispetto
a Dante, che egli interpella direttamente o critica, riproponendo così esattamente
l’approccio dantesco alla libertà. Libertà dantesca di reinterpretare tutto, anche
l’inferno che termina nel gelo, come nella tradizione musulmana ch’egli aveva
letto nel Libro della Scala arabo.
A livello personale, avevo superficialmente immaginato la traduzione come un
campo separato dalla poesia in proprio, o meglio non li avvicinavo. Mi sono accor-
166 francesco laurenti
F.L.: È possibile che la “libertà dantesca” abbia contribuito alla sua riscoper-
ta negli anni sessanta caratterizzati in Francia, come in Italia, dalle avanguardie
e le abbia nutrite?
J.R.: Certamente è così, si sentiva infatti la necessità di nutrirsi altrove. Una
conferma è l’interesse di allora per Joyce, che al pari aveva sentito la necessità
di prolungare la sua opera traducendo e che, in Francia, aveva lavorato a una
traduzione della propria opera coinvolgendo anche Beckett. Joyce affermò che
voleva spingersi fino alla «dissoluzione del significato» e quando si mise a tra-
durre in italiano, si rivolse a quello che definì «padre Dante» traducendo i punti
più trasgressivi del poeta, quelli in cui si “inventava” un linguaggio.
F.L.: L’impressione è che si assista oggi, almeno in Italia, a una deriva della
parola poetica verso il significante che forse mina il significato. Cosa può inse-
gnarci ancora Dante rispetto a questo?
J.R.: È vero, succede spesso. Anche in Italia si assiste ad un rinnovato interesse
per Dante. Sanguineti, ad esempio, ha pubblicato la raccolta Purgatorio dell’in-
ferno in cui usa anche il latino come radice viva dell’italiano e in quel campo egli
è vicino a Dante, tanto da generarmi quasi invidia per l’abilità nel giocare con
un latino così vicino. Penso poi a Luzi e Caproni in cui Dante è molto presente
e molto presente è l’attenzione al rapporto significante-significato. C’è stato poi
un rinnovato interesse che, e questo mi ha interessato, è seguito ad un mio scritto
in un libro collettivo sugli scritti italiani di Dante. Lì avevo commentato e pub-
blicato due brani di Finnegan’s Wake tradotti da Joyce che alcuni giovani poeti
italiani hanno poi ripreso come se Joyce fosse un loro contemporaneo italiano.
Questo è stato possibile perché quel Joyce, come io avevo affermato, ruotava
la divine comédie francese di jacqueline risset (intervista) 167
così tanto intorno a Dante da farmi ammettere che il poeta irlandese fosse l’unico
discepolo di Dante. Anche Beckett lo è stato. Lui stesso ammise che Dante lo
aveva accompagnato per tutta la vita col suo “purgatorio”.
Questa attenzione per il significante si ritrova anche in Francia ed è, a mio
avviso, una caratteristica delle epoche di avanguardia che ha il ruolo importante
di distaccamento dall’egemonia delle vecchie poetiche, che sono anche una
ideologia. Arriva un momento in cui ci si immerge nel significante, e poi si
riemerge. Ho l’impressione che questo sia un momento di riemersione. Ci sono
poeti, anche non giovani, come Michel Deguy (direttore della rivista «Poésie»,
tradotto anche in italiano) per cui Dante è molto presente. Insieme a un gruppo di
altri poeti ha tradotto alcuni brani e versi di Dante, segno evidente della volontà
di riprendere il poeta fiorentino. C’è poi Philippe Beck, un giovane poeta in cui
la presenza di Dante è necessaria, anche nella volontà etica. Un altro giovane
poeta da menzionare al riguardo è Martin Ruef.
F.L.: Riferendosi alla traduzione della poesia, nel Convivio, Dante parla di
rottura del «legame musaico». Il poeta-traduttore, al fianco del poeta tradotto,
non è forse l’unico a cui è concessa veramente l’esperienza di questo «legame
musaico»? Con quali esiti?
J.R.: Credo di sì. La traduzione diviene in questo senso una sorta di verifica
di questo “legame”. Da questo punto di vista è anzi sconvolgente perché si speri-
menta la violenza al legame significante-significato e la fondamentalità di questo
legame, come pure la possibilità di reinventarlo. La traduzione diviene allora uno
spazio di metamorfosi: ci trasmette che un testo non è fissato una volta per tutte
e che ha, per lo stesso autore, delle potenzialità non esplorate fino in fondo. Il
traduttore segue così delle indicazioni che sono “sotto”, non dichiarate, ma che
egli percepisce in alcune parti del testo e cerca di seguire. È come se, rientrando
nella stanza-laboratorio della poesia, si abbia la possibilità di riattivare alcuni
fili che erano stati interrotti, o addormentati.
Chi traduce è comunque fermo a un dovere di fedeltà. Una libertà infinita è
invece riscoperta nell’autotraduzione. Si sperimentano in questo caso entrambi gli
aspetti di crudeltà e di dubbio (su di sé), portati dal fatto che il «legame musaico»
si può rompere con violenza. La traduzione è, infatti, violenza. Traducendo da
un idioma all’altro si “rompono” la dolcezza e l’armonia precedentemente create
dall’autore. Dante stesso però, non dimentichiamolo, traduce.
Non concordo con Paul Valery quando afferma che una poesia è infinita,
perché lui la immagina piuttosto come un esercizio. Ci credo però sulla base di
quanto detto finora: i materiali poetici si rivelano infatti, attraverso la traduzione,
ancora vivi.
ha firmato dei libri di poesia. Non è necessario aver pubblicato della poesia e
nemmeno averla scritta, ma percepirla. È necessario essere un lettore di poesia
che ha riflettuto, con una coscienza della poesia. Ci sono “poeti” che non hanno
riflettuto un granché. Alcune traduzioni da Baudelaire di Raboni o Caproni ci
lasciano perplessi, perché a volte non è sufficiente essere poeti.