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Actiones in rem

In personam

Per condictionem

Per manus iniectionem

Il ritualismo, quale sterotipia di comportamenti di cui è prescritta la scrupolosa ripetizione, è un


elemento centrale nel vissuto arcaico romano, di cui bene esprime il serrato intreccio di dimensione
giuridica e religiosa. Almeno nella prima fase (quella in iure), le legis actiones si presentano proprio
come riti: un’elaborata rappresentazione cui le parti davano vita col compimento e la pronunzia di
gesti e termini prestabiliti. Un’omissione o un errore avrebbe fatalmente comportato la perdita della
lite, giacchè l’involucro formale delle rispettive pretese assumeva un rilievo maggiore della stessa
fondatezza di queste ultime. E’ il ritualismo il carattere di fondo che segna tutte le legis actiones, e
attorno al quale ruotano e si connettono le altre loro caratteristiche. Gaio nelle Istituzioni descrive
quella che fu probabilmente la procedura più antica e significativa: la legis actio sacramento in
rem (in cui si aveva cioè il ricorso a un giuramento, ed era controversa la titolarità di un bene).
Colui che promuoveva la lite doveva far in modo che al cospetto del re o magistrato fosse presente
il bene conteso, o almeno una sua parte. Tenendo in mano una bacchetta (festuca), il primo
vindicante afferrava tale bene e quindi pronunziava – ponendo su di esso la festuca – la formula
vindicatoria. La controparte aveva due scelte: o taceva (nel qual caso la formula del primo
vindicante avrebbe sortito il suo effetto, ed egli ottenuto il bene: si sarebbe cioè dato luogo a una in
iure cessio), oppure procedeva a sua volta alla rivendica, col medesimo rito: la circostanza che il
bene fosse in suo possesso non gli conferiva infatti alcun vantaggio, ed egli non si sarebbe potuto
limitare a contestare quanto affermato dal primo vindicante. Proprio per uscire da questa fase di
stallo entrava in scena l’organo pubblico: l’ordine che (il re o) il pretore rivolgeva ai due
contendenti rappresenta infatti l’inibizione di ogni ricorso alla forza per risolvere l’incertezza
causata dal corretto compimento dei due riti di rivendica. La parola tornava così al primo
vindicante, che domandava [ti chiedo di dire in base a quale causa hai compiuto la vindicatio]. La
risposta del secondo vindicante [ho compiuto il rito imponendo la vindicta]: non solo la correttezza
del comportamento processuale viene invocata quale fondamento della pretesa, ma il termine ius
finisce con l’evocare tanto il rito quanto il diritto che essa ha prodotto. Proprio perché ritiene che il
suo avversario abbia rivendicato in maniera contraria al diritto (iniuria), il primo vindicante lo sfida
a giurare che la sua vindicatio era conforme al ius: giuramento che quello (se, di nuovo, non
preferiva cedere, temendo ora l’ira divina) poteva ritorcergli. Qualora la fase di stallo continuasse,
la risoluzione si poteva avere solo con l’intervento divino, evocato col sacramentum.

a) La “legis actio sacramento in personam”. Oltre che per reclamare che qualcosa era proprio, la
legis actio sacramento poteva essere impiegata a un altro fine, ossia per vedere accertato l’obbligo,
da parte del convenuto, di dare qualcosa. Si parlava in tal caso di legis actio sacramento in
personam. Questa legis actio assunse presto un carattere generale, essendo esperibile a tutela di
qualsiasi credito, quale ne fosse la causa – che però doveva essere indicata sin dalle solenni
dichiarazioni della fase in iure – e indipendentemente dal carattere “certo”, ossia determinato,
dell’oggetto della prestazione richiesta.
b) La “legis actio per iudicis arbitrive postulationem”. Si tratta della legis actio per iudicis
arbitrive postulationem, prevista dalle XII Tavole per i casi in cui l’attore procedesse per chiedere al
magistrato un arbitro – necessario ove si intendesse ottenere la divisione di un’eredità o di un bene
in comune – oppure un giudice. Quest’ultimo è il caso in cui l’attore mirava a ottenere il
soddisfacimento di un credito: ma questa procedura – preferibile alla legis actio sacramento in
fosse sorto da una sponsio.
c) La “legis actio per condictionem”. La legis actio per condictionem è l’ultima delle legis actiones
“dichiarative” (per contrapporle a quelle “esecutive”), e anche la più recente in ordine di tempo, in
quanto fu introdotta, non prima del III sec. a.C, dalla legge Silia per i crediti di una determinata
somma di denaro (certa pecunia), e poi estesa dalla legge Calpurnia a quelli aventi ad oggetto un
bene identificato (certa res). Ove alla solenne domanda dell’attore [affermo che mi devi dare 10 000
sesterzi: ti chiedo se lo ammetti o lo neghi] non seguisse l’ammissione del convenuto, l’attore così
proseguiva: [dal momento che neghi, ti invito per il trentesimo giorno al fine di ricevere il giudice].
Più che per questo rinvio di trenta giorni – ottenuto dall’attore col suo condicere e che
verosimilmente mirava a favorire l’adempimento, o un accordo fra le parti -, il dato più significativo
(e anche l’effetto più vantaggioso per l’attore) era costituito dalla possibilità di non indicare, nella
fase in iure, la causa da cui sorgeva il credito. Il fondamento di quest’ultimo doveva, ovviamente,
essere poi provato dinanzi al giudice, in un momento successivo: ma per ora la procedura assumeva
un carattere astratto, che evitava all’attore il rischio di soccombere per non avere, al cospetto del
magistrato, indicato correttamente la causa della sua pretesa. Questa natura astratta avrebbe poi
connotato anche l’azione (condictio) che col processo formulare si affermò in corrispondenza della
nostra legis actio e che presto la sostituì.
d) La “legis actio per manus iniectionem”. E’ la prima delle legis actiones esecutive. Il caso
fondamentale in cui essa aveva luogo era quello in cui il convenuto, già condannato con una legis
actio dichiarativa (iudicatus) o dopo aver ammesso in iure il fondamento della pretesa attorea
(confessus), non avesse poi corrisposto quanto dovuto (il debito da lui riconosciuto, o la somma
nella cui fissazione necessariamente consisteva la sentenza di condanna). Decorsi i trenta giorni
previsti a tal fine dalle XII Tavole, egli poteva essere trascinato con la forza dinanzi al magistrato
dall’attore vittorioso, il quale pronunziava la formula prestabilita e contestualmente ne afferrava una
parte del corpo. Il debitore non poteva difendersi o allontanare da sé la mano, ma semmai fornire un
garante (vindex), che avrebbe potuto contestare la fondatezza della richiesta dell’attore, col rischio
di dover poi pagare, se soccombente, una cifra doppia rispetto a quella del debito originario (è il
fenomeno noto come litiscrescenza), ed essere a sua volta soggetto a manus iniectio. I successivi
sviluppi della procedura mostrano assai bene come con questo rituale la violenza privata fosse
canalizzata e frenata, ma tutt’altro che rimossa; così come aiutano a comprendere il carattere
drammaticamente fisico e personale della soggezione in cui si trovava il debitore. Infatti, una volta
che questi veniva consegnato (addictus) dal magistrato al creditore, rimaneva nella disponibilità di
quest’ultimo (in catene e nutrito di quel poco che ne assicurasse la sopravvivenza) per sessanta
giorni: un termine che doveva favorire l’intervento di parenti o amici che volessero riscattare il
debitore. Dopo questo periodo egli poteva essere venduto al di là del Tevere (in età arcaica ciò
significava essere alienato come schiavo a stranieri) o anche ucciso: una possibilità che diveniva
ancor più cruenta qualora più di uno fossero i creditori, ciascuno dei quali avrebbe potuto
appropriarsi di una porzione del corpo del debitore squartato.
e) La “legis actio per pignoris capionem”. Una forma meno aggressiva di coazione sul debitore
era infine realizzata con la seconda legis actio di carattere esecutivo che ci è nota: quella per
pignoris capionem. Prevista solo per particolari tipologie di debito, essa presenta la particolarità di
potersi svolgere anche fuori del tribunale del magistrato (extra ius) e in assenza del debitore. Si
realizzava infatti tramite l’impossessamento di beni di quest’ultimo, che il creditore effettuava
procedendo contestualmente alla pronunzia dell’immancabile formulario. La finalità era non tanto
di soddisfare immediatamente il creditore, ma piuttosto di costringere il debitore all’adempimento.

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