- I luoghi di Aristotele
- La vita
384-383: Aristotele naque nella penisola Calcidica a Stagira (forse colonia di Calcide in Eubea o di Andro
nelle Cicladi), dal famoso medico Nicomaco, uomo professionalmente in buoni rapporti con il re macedone
Aminta III e con Prosseno di Atarneo, e da Festide di Calcide.
Dopo la morte del padre venne affidato alla tutela di Prosseno (amico di Platone e di Ermia, tiranno di Asso
e Atarneo, di cui Aristotele sposerà la parente Pizia).
367: Aristotele, allora diciassettenne, si recò ad Atene, dove venne accolto nell’Accademia di Platone. Ciò
rappresenta un fatto straordinario perché tale scuola era considerata un circolo filosofico esclusivo per
l’elite aristocratica ateniese a cui chiaramente il provinciale Aristotele non apparteneva.
Al momento dell’ingresso in Accademia di Aristotele, inoltre, Platone era impegnato a Siracusa alla corte
del tiranno Dionisio II al fine di riconciliarlo con l’allievo Dione (anch’esso siracusano), pertanto la guida
della scuola era stata assegnata ad Eudosso di Cnido.
La singolare ammissione di Aristotele deve essere ricercata nelle raccomandazioni dei suoi conoscenti amici
di Platone (Prosseno ed Ermia). Tuttavia egli si dimostrò un valido allievo e per i vent’anni che trascorse
presso l’Accademia conservò un caratteristico spirito di indipendenza e una notevole avversione nei
confronti di alcune dottrine platoniche (le matematiche e la dottrina delle idee). Egli inoltre rimase defilato
rispetto al dibattito politico, forse anche a causa della sua condizione di meteco (cioè di straniero privo di
diritti) e si interessò alla lettura piuttosto che al dialogo di cui Platone era un forte estimatore.
Questa sua posizione particolare all’interno dell’Accademia dimostra il clima di libertà espressiva e di
assenza di dogmatismo tipico della scuola.
345-344: Aristotele si trasferì a Mitilene, dove conobbe il suo futuro successore alla guida del Liceo,
Teofrasto.
343-342: Filippo di Macedonia lo chiamò alla sua corte a Mieza per fungere da istruttore di Alessandro
(allora tredicenne) a cui probabilmente insegnò la superiorità antropologica dei greci sulle popolazioni
barbare. Alessandro tuttavia pretese di governare nella stessa maniera assolutistica su entrambi e giunse
addirittura ad uccidere Callistene (nipote di Aristotele) per il suo rifiuto a genuflettersi di fronte al sovrano.
335: Tornò ad Atene che, dopo la vittoria di Cheronea nel 338, era governata da Antipatro, generale
macedone, e che dunque non rappresentava più una minaccia per l’incolumità del filosofo.
Nello stesso anno fondò il Liceo (così chiamato perché sorgeva nei pressi del ginnasio di Apollo Licio), detto
anche Peripato (dal nome della camminata al coperto che vi si trovava all’interno).
Nonostante tale scuola non abbia mai avuto un riconoscimento istituzionale (anche per la condizione di
meteco di Aristotele), l’attività si dimostrò fiorente soprattutto per quanto riguarda quello strato di
popolazione di estrazione sociale elevata dedita allo studio della filosofia e delle numerose facoltà
scientifiche ivi insegnate.
L’esigenza di fondare una scuola presumibilmente è dovuta a due elementi fondamentali:
- lo scontro filosofico con gli accademici Senocrate e Speusippo da una parte, e con la suola isocratea
dall’altra;
- l’idea per cui lo studio risulta più produttivo se il sapiente che vi si impegna è affiancato da collaboratori.
Tra i più eminenti collaboratori di Aristotele si ricordano:
- Teofrasto, specializzato in botanica;
- Eudemo di Rodi, autore di una storia della matematica;
- Aristosseno di Taranto, teorico della musica;
- Dicearco di Messene, teorico politico;
- Stratone di Lampsaco, studioso di fisica;
- Clearco di Soli, interessato agli studi anatomici;
- Demetrio di Falero, uomo politico e governatore di Atene.
323: Dopo la morte di Alessandro Magno, temendo una possibile rivolta antimacedone, si rifugiò a Calcide.
322: Morì a Calcide, lasciando il proprio testamento, tramandatoci da Diogene Laerzio.
In questo scritto Aristotele designava capo della casa Nicanore (suo figlio adottivo, nonché figlio di
Prosseno), il quale avrebbe dovuto sposare sua figlia Pizia, nominava Teofrasto tutore del figlio Nicomaco e
infine affrancava tutti gli schiavi.
Nonostante, durante la sua attività, Aristotele modifichi fortemente la figura sciamanica e mistica che fino
ad allora aveva caratterizzato il filosofo, sostituendola con quella di un ricercatore appartato e
completamente immerso nel proprio studio, egli afferma allo stesso tempo la sua natura divina, intesa nella
sua vicinanza all’attività del dio che è primariamente e totalmente contemplativa, essendo esso puro
pensiero.
La molteplicità dei temi trattati e l’apparente incoerenza che tra essi molte volte sembra possibile
riscontrare, all’interno della vastissima produzione aristotelica ha dato adito a diverse teorie rispetto
all’effettiva posizione filosofica dello stesso Aristotele in rapporto alle esperienze della sua vita.
In particolare sono sorte due differenti interpretazioni riguardo il suo rapporto con il maestro Platone e con
la dottrina da lui ispirata, ovvero il platonismo.
La prima di queste (che ha avuto più fortuna) fu proposta nell’Ottocento da Theodor Gomperz, il quale
sosteneva la coesistenza di due personalità all’interno dello stesso Aristotele che si rispecchiavano nella
bivalente produzione filosofica:
- asclepiade, ereditata dal padre Nicomaco, dedita alla scienza empirica e alla ricerca naturale;
- platonica, ereditata dal maestro, volta all’ambito della teologia e della spiritualità.
La seconda (oggi quasi universalmente rigettata) fa capo a Werner Jaeger, il quale nel Novecento, sciolse
l’antinomia proposta da Gomperz rendendola una sequenza cronologica lineare (per questo si parla anche
di teoria “genetica”). Egli infatti sosteneva che Aristotele fosse stato un convinto platonico durante gli anni
trascorsi in accademia, per poi diventare “empirista” in età adulta. Tale concezione, che si basa sul
tentativo di ordinare cronologicamente tutte le opere di Aristotele, tuttavia non tiene conto del fatto che è
molto probabile che Aristotele abbia manipolato e revisionato progressivamente i propri scritti,
modificandone i significati. Inoltre va riportato che molte delle opere di datazione relativamente recente e
certa presentano delle affinità con la personalità platonica del filosofo e viceversa scritti accademici
dimostrino l’avversità di Aristotele nei confronti del maestro.
In base a quanto affermato dalla prima teoria sembra quindi che Aristotele intendesse porsi nel solco
tracciato dalla filosofia del proprio maestro al fine di rinnovare ed ampliare la dottrina platonica (come una
cattedrale medievale che sorge sui resti di un tempio romano).
Le differenze con Platone risultano tuttavia piuttosto evidenti e secondo Eduard Zeller sono riconducibili
alle diverse estrazioni sociali dei due filosofi. L’aristocratico maestro aveva infatti stabilito una realtà
bipartita in due mondi dalla posizione gerarchica ben definita, mentre l’allievo meteco rigettava veemente
la separazione ideale in favore di un’adesione totale al mondo sensibile.
Le antinomie rispetto al pensiero del maestro interessavano, nella filosofia aristotelica, numerosi ambiti
della conoscenza. Esse possono venire riassunte nei seguenti cinque punti.
Ontologia
Secondo Aristotele, il primo e fondamentale errore dei platonici consiste nell’aver duplicato il mondo
ammettendo l’esistenza del cosiddetto iperuranio, la sede delle idee, posto in una dimensione altra da
quella terrena e sensibile.
Tale errore nasce dalla constatazione della proprietà linguistica per cui un singolo predicato risulta riferibile
ad una molteplicità di soggetti. A partire da questo punto basilare i platonici hanno infatti supposto che i
predicati designassero entità ontologicamente più elevate rispetto ai soggetti a cui venivano associati (i
sensibili), perché più unitarie e più estensive, e gli hanno attribuito il nome “idee”.
Queste idee sono concepite come modelli di cui i singoli oggetti sono istanze particolari che ricevono
caratterizzazione per “partecipazione” alle idee stesse, le quali dunque rappresentano anche le cause delle
proprietà degli enti specifici.
Secondo Aristotele tuttavia, in questo modo si finisce, come già detto, con il raddoppiare vanamente il
mondo sotto il punto di vista ontologico (le idee infatti rappresentano modelli “separati” sia di sostanze sia
di proprietà), perdendo di vista il vero scopo della filosofia, che è quello di ricercare le cause prime
dell’essere in quanto tale, restando nell’ambito dell’essere, cioè del sensibile. [*]
Epistemologia
Nel campo della conoscenza, Aristotele rimprovera al maestro e ai suoi seguaci più stretti, di aver tentato di
spiegare ogni aspetto della realtà attraverso una singola disciplina suprema e universale, la dialettica
filosofica, dalla quale fosse possibile ricavare tutte le scienze ritenute minori.
Al contrario Aristotele sottolinea l’autonomia delle varie scienze all’interno del proprio studio di una
porzione specifica dell’essere, pur ammettendo l’interdipendenza di ciascuna disciplina dalle altre (tutte
infatti si occupano dell’essere).
In questo ambito, inoltre, Aristotele prende le distanze da quella tendenza squisitamente platonica allo
spiccato interesse nei confronti delle matematiche (principi di uno e diade), le quali all’interno
dell’Academia sembrano aver usurpato il ruolo preminente della filosofia.
Psicologia
Il terzo errore dei platonici consiste nell’aver considerato l’anima immortale e separata dal corpo
(collegando la sua dottrina al mito pitagorico dei cicli di reincarnazioni).
L’anima secondo Aristotele è invece l’insieme delle funzioni che fanno di un corpo un corpo vivente, al
quale essa è pertanto indissolubilmente legata (anche in questo caso il concetto di separazione è
completamente rigettato). Ne risulta dunque la sua finitezza e mortalità.
È necessario, tuttavia, ricordare che nel De anima Aristotele ammette l’esistenza di un intelletto (nous)
attivo, immortale ed eterno che regola l’attività psicologica universale.
Etica
Per quanto concerne l’etica, Platone commette un errore nel concepire un’idea del buono. Se essa infatti
fosse una sostanza separata essa sarebbe intrinsecamente diversa rispetto a tutti i beni perseguibili nella
realtà e a loro volta tutti i beni perseguibili saranno svuotati del loro valore per l’estraneità al bene in sé.
Nella prospettiva aristotelica, invece, il punto di partenza per una chiarificazione concettuale della natura
dei valori sarà l’analisi delle finalità perseguite dalle condotte umane, che rivela come orizzonte comune di
queste la ricerca della felicità.
Politica
Nella Repubblica infine Platone erra nel pensare un’utopica società collettivista slegata dagli aspetti
concreti della natura umana, radicata nella tradizione, negli affetti parentali e nella proprietà patrimoniale.
A questa concezione, Aristotele oppone, ancora una volta una prospettiva più “realista” proponendo un
semplice perfezionamento delle istituzioni caratteristiche della polis.
Capitolo 3 – L’enciclopedia del sapere: il trattato e il mondo
Per quanto concerne l’ambito gnoseologico Aristotele intende svolgere una ricerca enciclopedica del
mondo in base ad alcuni criteri fondamentali, i quali il più delle volte rappresentano non solo semplici
novità del panorama filosofico rispetto alla tradizione perpetuata fino a lui, ma delle vere e proprie
rivoluzioni.
Tali criteri possono essere ricondotti a quattro punti strettamente correlati tra loro.
3. Principi unificatori
Nonostante Aristotele sottolinei l’indipendenza propria di ciascuna disciplina all’interno della rispettiva area
dell’essere di cui si occupa, egli ammette l’esistenza di principi comuni ad ogni settore conoscitivo. Essi
possono essere riassunti come segue:
- le quattro cause (materiale, formale, efficiente o motrice e finale);
- atto e potenza;
- logica, come disciplina generale che regola lo stesso processo conoscitivo in base ad alcune regole
fondamentali, innate e indimostrabili attivamente (ad esempio del principio di non contraddizione esiste
una spiegazione passiva in Metafisica Γ3).
4. Metodo
Un indubbio contributo storico e filosofico è rappresentato infine dal metodo di scrittura impiegato da
Aristotele per rendere sistematico e quindi il più possibile fruibile il proprio patrimonio culturale.
La sua produzione è infatti costituita da trattati (mèthodoi) fortemente compartimentalizzati e sistematici.
Aristotele dunque si opponeva alla tradizione costituita dai presocratici che avevano prodotto “manifesti
sapienziali, talvolta oracolari, con un carattere di globalità che ignorava le pertinenze disciplinari e la
specificità epistemologica dei diversi ambiti di discorso”, e anche alle opere poste sotto forma di dialogo
come concepite dal maestro Platone.
Altri contributi alla produzione che sottolineano lo scopo didattico delle sue opere sono:
- l’enunciazione di una topica disciplinare, cioè una sorta di indice posto all’inizio di ogni scritto il quale
offre una mappa del territorio di indagine all’interno del quale si muove l’intera trattazione;
- la rassegna delle opinioni dei precursori che sottolinea l’approccio dialettico del filosofo nella propria
ricerca, all’interno della quale stabilisce un confronto con le posizioni di chi lo ha preceduto tramite una
sorta di ricostruzione dossografica.
Per quanto concerne l’ambito gnoseologico, secondo Aristotele esso può essere scomposto su due livelli
fondamentali.
1. Passività
Il primo è caratterizzato dal ruolo passivo del soggetto conoscente, cioè l’uomo.
Egli infatti ha accesso alla conoscenza del mondo attraverso la percezione fenomenica, la quale consta di
due veicoli conoscitivi fondamentali.
- Le sensazioni
Esse sono caratterizzate da un processo che prevede come primo passo la cattura delle impressioni
percettive provenienti dai sensibili (le loro qualità passibili di essere avvertite dall’uomo) attraverso i
rispettivi organi sensoriali (la vista percepirà il colore, l’udito il suono…). A questo punto si pone, ad un
livello intermedio tra sensazione e pensiero, la rappresentazione, cioè la capacità di replicare nella mente
un’immagine del tutto simile alla percezione sensoriale anche quando essa scompare. Infine si sedimenta
nel pensiero non più l’immagine specifica catturata nel primo passaggio, ma la forma priva della particolare
individualità di quella stessa immagine (non si penserà pertanto Socrate, ma la forma propria dell’uomo).
Da un punto di vista conoscitivo le sensazioni rappresentano quindi un legame indissolubile tra realtà dei
fatti e concezione umana. Da ciò deriva il ruolo preminente che Aristotele assegna all’esperienza rispetto ai
complessi discorsi teorici, poiché essa permette in qualsiasi caso un processo di verificazione degli enunciati
scientifici (dichiarativi) e ha dunque un valore dirimente per le ipotesi speculative.
- Il linguaggio
A partire dalla semplice contemplazione del linguaggio quotidianamente utilizzato è infatti possibile,
secondo Aristotele, comprendere alcuni fatti di fondamentale importanza riguardo il mondo.
È infatti evidente come la verità e la falsità degli enunciati siano proprietà linguistiche, poiché possono
essere attribuiti con certezza solo agli enunciati apofantici, dopo averne verificato il valore attraverso
l’esperienza del sensibile.
L’analisi delle strutture del linguaggio, inoltre, (come fatto notare da Wolfgang Wieland) costituisce per
Aristotele una linea di approccio basilare per la costruzione del sapere. A tal proposito va ricordato che non
era oscuro ad Aristotele il concetto di ontologia grammaticale, il quale evidenzia la funzione copulativa del
verbo essere all’interno degli enunciati predicativi, per cui risulta chiaro che l’essere non ha solo valore
esistenziale, ma può venir detto in molti sensi (secondo le categorie, come atto e potenza…).
Allo stesso modo i vari sensi della nozione di causa vengono suggeriti, secondo Aristotele, dal linguaggio
abituale che “spinge” i parlanti a concepire i quattro differenti tipi di causalità.
Infine, gioca un ruolo fondamentale nella conoscenza percettiva fenomenica la tradizione.
Gli endoxa trasmessi dai predecessori quindi costituiscono anch’essi un veicolo per l’apprensione del
mondo poiché è assurdo pensare che gli antichi, essendo uomini e dunque per natura spinti verso la
conoscenza, si siano sbagliati su tutti i punti delle loro ricerche.
La dialettica, seppur meno precisa della scienza empirica, risulta utile nei discorsi intorno ad oggetti di cui
non si ha esperienza (ad esempio la logica), anche se può apparire vuota senza le conferme dei sensibili.
In entrambi i casi comunque va sottolineata in questo primo momento l’immobilità dell’uomo che sembra
subire una volontà del mondo di rendersi chiaro ai suoi occhi.
Tuttavia tale passività permette una conoscenza solo parziale e limitata al “che”, cioè alla comprensione di
cos’è il mondo.
2. Attività
Il secondo invece è attivo: la ragione permette all’uomo di comprendere il motivo per cui il mondo è così
com’è, necessariamente, cioè i nessi di causalità che legano i diversi fatti del mondo, vale a dire il “perché”.
Secondo Aristotele la logica costituisce uno strumento utile ad affrontare lo studio di tutte le altre scienze e
propedeutico ad esse. Per questo motivo i trattati aristotelici che vertevano su questa disciplina vennero
riuniti in un unico blocco unitario che prese il nome di Organon, cioè appunto “strumento”. La sua
composizione, in ordine progressivo di complessità rispetto alla materia, è la seguente:
- Categorie, in cui vengono descritti i termini
- De interpretatione, che ha per oggetto gli enunciati;
- Analitici, Topici e Confutazioni sofistiche, i quali trattano di argomenti e dimostrazioni.
In questo capitolo verranno presi in esame De interpretazione, Analitici primi e Analitici posteriori.
1. De interpretazione
La traduzione latina del corrispettivo greco di questo trattato è piuttosto fuorviante poiché come si è detto
il contenuto non ha nulla a che fare con l’interpretazione. Una traduzione più letterale rispetto allo scritto
originale potrebbe essere quindi “sull’espressione linguistica”.
In qualsiasi caso il trattato si occupa dello studio della struttura degli enunciati e del loro comportamento
nei confronti dei concetti di vero e falso.
Tali concetti scaturiscono dal riscontro che si ha della realtà rispetto a quanto asserito unendo nomi e verbi
per comporre o dividere qualcosa da qualcos’altro. Vero e falso sono dunque un aspetto del linguaggio,
seppur sia necessaria una verificazione empirica per attribuire verità e falsità ai vari enunciati.
Secondo Aristotele nome e verbo indicano la medesima cosa in due modi differenti. Tuttavia il verbo ha due
caratteristiche peculiari:
- colloca il proprio significato nel tempo;
- è segno di qualcosa che viene predicato di qualcos’altro (il nome).
Ora, come si è detto verità e falsità sono una caratteristica del linguaggio prodotta dall’unione di nome e
verbo. Però questa definizione è valida solo nel caso in cui questa unione produca un enunciato (o logos)
dichiarativo.
Esso può essere di differenti tipologie in base alla quantità:
- Universale (Tutti gli uomini sono giusti – Nessun uomo è giusto)
- Particolare (Qualche uomo è giusto – Qualche uomo non è giusto)
- Indefinito (Un uomo è giusto – Un uomo non è giusto)
- Singolare (Socrate è giusto – Socrate non è giusto)
e alla qualità:
- Affermativo (vedi sopra)
- Negativo (vedi sopra)
Aristotele si sofferma poi sulle relazioni che intercorrono tra le varie tipologie di enunciato. Si avrà dunque:
- Contraddittorietà, quando si verifica che se un enunciato è vero, l’altro necessariamente sarà falso
e viceversa [intercorre tra universali e particolari di opposta qualità];
- Contrarietà (un corrispettivo della moderna incoerenza) quando due enunciati non possono essere
entrambi veri, ma possono essere entrambi falsi [intercorre tra universale affermativo e universale
negativo];
- Subcontrarietà quando si verifica che due enunciati non possono essere entrambi falsi, ma possono
essere entrambi veri [intercorre tra particolare Affermativo e particolare negativo].
Infine Aristotele si sofferma su problematiche che sorgono nell’assegnazione dei valori di verità rispetto a
situazioni particolari. Il caso più famoso è quello dei futuri contingenti.
Secondo Aristotele infatti, se ciascuno dei due membri di una coppia di enunciati contraddittori, che si
riferiscono a situazioni future non necessarie, è vero o falso nel presente (quindi uno è vero e l’altro falso
per la proprietà di cui godono), allora risulta necessario nel presente qualcosa che riguarda il futuro e come
detto non lo è, ma è appunto contingente.
Pertanto Aristotele afferma che è sempre vera la disgiunzione tra i due enunciati poiché almeno uno dei
due sarà sicuramente vero, ma nessuno dei due singolarmente lo è.
Risulta chiaro pertanto che secondo Aristotele verità e falsità sono condizioni relative al tempo.
2. Analitici primi
Questo trattato si occupa come detto degli argomenti e, nello specifico, di un particolare tipo di argomento,
il sillogismo.
Tuttavia nell’introduzione, Aristotele riferisce che illustrerà la dimostrazione. Ciò probabilmente è dovuto al
fatto che abbia concepito come opera unitaria gli Analitici primi e gli Analitici posteriori i quali
effettivamente si concentrano sulla dimostrazione.
Nell’opera Analitici primi Aristotele introduce alcune nozioni fondamentali, che fungeranno da presupposti
per concepire una chiara teoria della conoscenza:
- Proposizione = enunciato dichiarativo, con la sola differenza che in questo caso Aristotele si
concentra esclusivamente sugli enunciati universali (probabilmente perché anch’egli concepisce la
scienza come un fatto universale). Essa si costruisce mediante l’unione di soggetto e predicato
mediante l’inserimento del verbo essere sotto forma di copula.
- Termine = ciascuna delle due parti che costituisce una proposizione, cioè soggetto e predicato,
nome e verbo.
- Sillogismo = argomento non circolare costituito da almeno due premesse e una conclusione, tali
che le premesse sono sufficienti a generare la conclusione e non siano superflue. Per cui se le
premesse sono vere necessariamente la conclusione sarà vera. [In termini di logica contemporanea
il sillogismo corrisponde grosso modo ad un argomento valido].
Aristotele a questo punto distingue tre figure di sillogismo in base al ruolo che il termine medio (cioè il
termine che viene che si trova sia nella prima sia nella seconda premessa e grazie al quale la conseguenza
logica tra premesse e conclusione risulta evidente) riveste nel sillogismo:
- Prima figura = il termine medio funge da soggetto della prima premessa e da predicato della
seconda;
- Seconda figura = il termine medio funge sempre da predicato;
- Terza figura = il termine medio funge sempre da soggetto.
A questa distinzione segue quella tra:
- Sillogismo perfetto = sillogismo che non necessita di passaggi logici ulteriori per rendere evidente
la necessità dell’inferenza (prima figura);
- Sillogismo imperfetto = sillogismo che necessita di passaggi logici ulteriori per rendere evidente la
necessità dell’inferenza (le altre figure). Tali passaggi possono essere le conversioni, cioè regole
fisse che permettono di riportare al sillogismo di prima figura gli altri, o la riduzione all’impossibile
della negazione della figura stessa.
È evidente quindi che l’argomento fondamentale di cui Aristotele si servirà per stabilire una teoria della
conoscenza salda, a partire dalle strutture logiche, è il sillogismo di prima figura composto solo di
proposizioni universali affermativi (il cosiddetto “Barbara”). La scelta risulta ponderata dal momento che ad
esso ogni altra figura sillogistica può essere ricondotta ed è inoltre l’unico sillogismo ad avere il carattere di
universalità proprio della scienza.
È importante inoltre notare l’utilizzo di lettere enunciative per generalizzare i sillogismi, sintomo del fatto
che Aristotele avesse compreso la validità formale e dunque generale degli stessi.
3. Analitici posteriori
Resta ancora da spiegare in che modo si arrivi alla conoscenza dei principi e quale sia lo stato mentale al
quale si approda nel conoscerli.
Aristotele ovviamente rigetta l’ipotesi della reminiscenza propria del maestro, ma ammette l’esistenza di un
qualcosa di innato a partire dal quale l’uomo giunge alla conoscenza dei principi. Essa è la percezione
propria di ciascun animale. Tuttavia solo nell’uomo l’esperienza percettiva è in grado di svilupparsi in
memoria e successivamente in legge universale. Ciò è dovuto alla capacità induttiva propria dell’intelletto
umano.
Ma la conoscenza dei principi prevede uno stato mentale e conoscitivo superiore alla semplice
comprensione del particolare identificata dell’episteme. A questo proposito Aristotele conia il termine
“nous” inteso appunto come stato mentale in cui ci si trova al termine di un processo induttivo per cui si
giunge alla cognizione di un principio.
*Secondo Jonathan Barnes “lo scopo primario della dimostrazione è di esporre e rendere intellegibile ciò
che è già scoperto, non di scoprire ciò che è ancora sconosciuto”.
Capitolo 6 – La dialettica
Restando all’interno dell’Organon passiamo a trattare i Topici e le Confutazioni sofistiche attraverso i quali
sarà possibile delineare più chiaramente il concetto di dialettica.
4. Topici
Secondo Aristotele l’argomentazione dialettica è un’argomentazione che si svolge tra due interlocutori, un
interrogante e un rispondente. L’interrogante è colui che propone un problema, tipicamente in forma
disgiuntiva, al rispondente chiedendogli di prendere una posizione tra le due tesi individuate da ciascuno
dei disgiunti, con l’intento di ottenere dalle proposizioni pronunciate da quest’ultimo le premesse per
costruire un sillogismo che funga da confutazione alla sua opinione.
La confutazione può avvenire in due modi:
- Indirettamente, se da certe premesse accettate dal sostenitore si deduce una conseguenza che
contraddice altre premesse accettate dallo stesso sostenitore;
- Direttamente, se da certe premesse accettate dal sostenitore si deduce la contraddittoria della tesi
che lo stesso sostenitore vuole difendere.
L’obiettivo dell’interrogante sarà pertanto quello di indurre il rispondente a sostenere degli endoxa, poiché
essi solitamente sono difficilmente non accettabili, a partire dai quali costruire una confutazione.
Al contrario l’obiettivo del rispondente sarà quello di non ammettere premesse facilmente confutabili.
Il ruolo fondamentale degli endoxa viene sottolineato da Aristotele sin dal momento in cui definisce il
sillogismo dialettico come il sillogismo che procede per endoxa. Esso si distingue dal sillogismo eristico
costituito da premesse che sembrano endoxa, quindi si tratta di un argomento che sembra buono, ma non
lo è.
Lo scopo del trattato, per come concepito da Aristotele, è quello di fornire uno strumentario logico e
concettuale utile ad argomentare correttamente, tanto ad un interrogante quanto ad un rispondente.
Per fare ciò Aristotele si concentra anzitutto sui caratteri basilari delle proposizioni. Secondo il filosofo
infatti, ogni proposizione e ogni problema coinvolgono sempre almeno uno dei cosiddetti “quattro
predicabili”:
1) Definizione = locuzione che significa l’essenza dell’oggetto da definire. Con ciò Aristotele intende
esclusivamente la descrizione definitoria che si accompagna ad un determinato oggetto per
descriverlo (formata da genere più differenza specifica) nella sua essenza e non l’intera
proposizione (quindi “uomo” = “animale bipede implume”).
È evidente inoltre che la definizione si contropredica dell’oggetto (poiché è chiaro che qualcosa è
un uomo se e solo se è un animale bipede implume).
2) Proprio = ciò che non indica l’essenza, ma appartiene solo all’oggetto che si contropredica di esso.
Quindi si avrà questo predicabile nel caso di due oggetti della stessa estensione, ad esempio
“capace di imparare a leggere e scrivere” non è l’essenza di uomo, ma è chiaro che qualcosa è
uomo se e solo se è capace di leggere e scrivere.
3) Genere = ciò che si predica nel che cos’è di più cose diverse fra loro per specie. Dunque il genere è
predicato dell’oggetto come un elemento della sua essenza, ma non si contropredica dell’oggetto,
bensì ha un’estensione maggiore. Ad esempio “animale” è genere tanto di “uomo” quanto di
“gatto”.
4) Accidente. Aristotele ne dà due definizioni, sebbene preferisca la seconda poiché autosufficiente:
- ciò che non è nessuna delle cose precedenti, ma appartiene all’oggetto.
- ciò che può appartenere o non appartenere a una stessa e identica cosa, cioè è contingente.
Una diversa classificazione trasversale rispetto ai quattro predicabili, ma pur sempre legata al campo della
predicazione è quella categoriale.
Le dieci categorie individuate da Aristotele (che cos’è, quantità, qualità, relazione, dove, quando, essere
posizionato, avere, agire, patire) infatti sono modi di predicazione dell’essere più specifici di quelli
individuati in precedenza, anche se ad essi possono sempre essere collegati. Pertanto si starà trattando di
genere o definizione quando si parla del che cos’è, mentre ci si riferirà a accidente o proprio nel caso delle
altre nove categorie.
L’utilità del trattato, tuttavia, non si limita al solo insegnamento di nozioni. Infatti secondo Aristotele il
trattato risulta utile per le scienze di carattere filosofico, dal momento che, illustrando come argomentare
ogni posizione (anche entrambe le posizioni di un’aporia) aiuta a discernere le tesi vere da quelle false. A tal
proposito è chiaro (se si presta fede a quanto detto negli Analitici posteriori) che la dialettica sia utile anche
perché risulta essere la sola disciplina in grado di giustificare, seppur solo in maniera indiretta, i principi
primi propri delle varie scienze.
A questo punto resta da chiedersi quale sia lo scopo della dialettica (oltre a quello appena indicato).
Aristotele ne propone cinque:
1. Competizione
A tale obiettivo Aristotele non risulta interessato, poiché in un simile frangente la dialettica gli interlocutori
sarebbe disposti ad ogni imbroglio pur di risultare vincenti nella discussione, con il rischio di utilizzare i già
citati sillogismi eristici, inadeguati nel raggiungimento della verità.
2. Insegnamento
Anche questo punto non sembra interessare particolarmente Aristotele poiché in questo caso il
rispondente sarebbe spinto ad essere sempre sincero al fine di costruire un progresso nella sua conoscenza
e non in quella di entrambi gli interlocutori.
3. Esercizio
Cioè la dialettica in questo caso rappresenterebbe una sorta di ginnastica argomentativa in vista dei
successivi due scopi.
4. Esame
Se condotta dall’interrogante per mettere alla prova il rispondente.
5. Indagine
Nel caso in cui ci sia effettiva collaborazione tra i due interlocutori al fine di raggiungere nuove conquiste in
campo conoscitivo. Presumibilmente questo rappresenta il risvolto più interessante della dialettica per
Aristotele. Tuttavia bisogna ricordare che Aristotele considera la dialettica esclusivamente esaminativa,
poiché si muove nel campo dell’endoxa (vedasi sillogismo dialettico) e quindi la pone ad un livello inferiore
rispetto a quello della filosofia che è invece conoscitiva, poiché procede secondo verità.
Aristotele conclude il trattato annunciando che il tema su cui verterà la produzione successiva saranno i
“luoghi” (da qui il nome dell’opera), ovvero le forme adeguate di sillogismi, o meglio degli schemi di
argomento e regole di inferenza stabili, utili sia all’interrogante che al rispondente per preparare strategie
argomentative in vista di un confronto dialettico.
Aristotele nomina questi “topoi” forse intendendoli come sedi astratte di una molteplicità argomenti
concreti (cioè generalizzazioni di determinate strutture formali di argomenti sempre validi), oppure
riferendosi ad alcune tecniche mnemoniche (che avrebbero reso in grado di imparare a memoria tali
argomenti) che consistono nell’associare ciò che si deve ricordare ad un luogo determinato.
5. Confutazioni sofistiche
Il tema di quest’opera concerne, com’è suggerito dal titolo, le confutazioni apparenti con cui i sofisti e gli
eristi cercano di vincere in maniera disonesta le dispute. Tali confutazioni sono costituite da sillogismi
eristici, cioè apparentemente buoni, i quali trasmettono questa parvenza di validità all’intera
argomentazione di cui fanno parte.
In generale secondo Aristotele si ha un sillogismo non valido quando il “sillogismo della contraddittoria”
non è valido o quando la contraddizione che da essi si ricava non è genuina.
Le confutazioni apparenti individuate da Aristotele consistono in due classi fondamentali:
- Quelle che dipendono dall’espressione linguistica. A loro volta esse si dividono in:
- Confutazioni basate su ambiguità linguistiche o lessicali
- Confutazioni basate sulla forma dell’espressione linguistica
- Quelle che ne sono indipendenti ( ad esempio confutazione dipendente dall’accidente, o confutazione per
confusione tra predicato che appartiene assolutamente o che appartiene sotto un certo rispetto).
Capitolo 7 – Le categorie e la sostanza
Categorie
“Categorie” è il titolo di un trattato he a partire da pochi elementi essenziali si propone di gettare le basi
per la costruzione di un’ontologia alternativa rispetto a quella platonica.
Secondo Michael Frede, Aristotele innanzitutto combina tra loro due grandi distinzioni:
- Prima distinzione:
1) Entità generali o universali
2) Entità particolari o individui
- Seconda distinzione:
1) Oggetti, che sono indipendenti
2) Proprietà degli oggetti, che dipendono dagli oggetti a cui appartengono
Combinando queste quattro distinzioni tra loro si ottiene una divisione quadripartita di tutti gli enti in
oggetti particolari, oggetti universali, proprietà particolari e proprietà universali.
Aristotele a questo punto propone una divisione di tutti gli enti in quattro classi che si basa su due nozioni
fondamentali:
a) “dirsi-di un soggetto”. Gli enti che si-dicono-di sono attributi essenziali di qualcosa, cioè
rispondono alla domanda “che cos’è x?”. Ad esempio l’uomo si-dice-di un uomo particolare come
di un soggetto (poiché alla domanda “cos’è Socrate?” si risponderà “un uomo”)
b) “essere-in un soggetto”. Gli enti che sono-in un soggetto sono attributi non essenziali o accidentali
di qualcosa (le proprietà di cui sopra). Lo stesso Aristotele afferma: “dico in un soggetto ciò che,
trovandosi in qualcosa non come parte, è impossibile che sia separatamente da ciò in cui è”. Ad
esempio il coraggio è parte dell’anima e non esisterebbe se non esistessero le anime.
Combinando tra loro queste nozioni si ottengono le quattro classi di cui sopra:
1) Enti che si-dicono-di un soggetto ma non sono-in un soggetto.
Cioè gli oggetti universali, vale a dire quegli enti che sono attributi essenziali di qualcosa, ma non
sono attributi accidentali di alcunché.
2) Enti che non si-dicono-di un soggetto ma sono-in un soggetto.
Sono le proprietà particolari, cioè particolari occorrenze di proprietà, individuate dall’oggetto che
le possiede (attributi contingenti).
3) Enti che si dicono di un soggetto e sono-in un soggetto.
Cioè proprietà universali come la scienza, che è un attributo essenziale della grammatica e un
attributo non essenziale dell’anima.
4) Enti che né sono-in un soggetto né si-dicono-di un soggetto.
Oggetti particolari che non sono attributi né essenziali né accidentali.
Aristotele giunge poi ad identificare il “proprio” della sostanza, cioè una caratteristica distintiva che
appartiene a tutte le sostanze in maniera esclusiva. Tale è la capacità di ogni sostanza di rimanere identica a
se stessa attraverso il cambiamento da una proprietà alla proprietà contraria (contro Parmenide).
Al di fuori delle Categorie Aristotele sostiene che “ciò che è si dice in molti modi”, volendo con ciò
affermare che cose che appartengono a categorie diverse sono o esistono in modi diversi.
Aristotele sembra dire che il verbo essere assume “sensi” diversi a seconda della categoria a cui la cosa alla
quale viene associato il verbo appartiene.
In altre parole (come sostenuto da G.E.L. Owen) la sostanza costituisce il “significato focale” di ente, poiché
l’esistenza di una delle altre categorie consiste nell’esistenza di una sostanza che la possiede.
Fisica
Il libro della Fisica costituisce un’indagine sui principi e le cause del cambiamento.
Secondo Aristotele in ogni cambiamento è possibile identificare un soggetto (o sostrato) che persiste e per
cui il cambiamento consiste nella acquisizione di una caratteristica o struttura di cui prima esso era
mancante. Ciò vale per:
- Perdita e acquisizione di caratteristiche non-sostanziali (un uomo da ignorante diviene colto)
- La generazione. Essa consiste nel processo per cui un soggetto persistente acquisisce una certa
forma. Ad esempio, da un blocco di marmo (soggetto che persiste) si ricava una statua dandogli
una forma. Ciò funziona anche per i viventi, che si generano dal seme. In questo caso però la forma
non sarà una forma o struttura qualunque, ma quella in virtù della quale la nuova sostanza che si
genera è ciò che è. Questa forma sarà “quella di cui si dà la definizione”.
Forma e soggetto sono principi non solo della generazione di una sostanza, ma anche del suo
essere.
Inoltre Aristotele afferma che il soggetto non è tanto un’entità determinata, quanto una funzione presente
in ogni cambiamento e rivestita di volta in volta da entità diverse.
Quindi esso è un composto di materia (cioè il sostrato che subisce il cambiamento) e forma che è ciò che
cambia effettivamente. Pertanto secondo Aristotele le sostanze prime delle Categorie, non sono altro che
composti di materia e forma.
Tuttavia Aristotele si chiede cosa sia più ontologicamente fondamentale tra materia, forma o sinolo.,
questione che viene trattata nella Metafisica.
Metafisica
Nel libro Zeta Aristotele ribadisce la priorità della sostanza sulle altre categorie affermando che l’indagine
su ciò che è si riduce ad un’indagine sulla sostanza.
Il capitolo 3 dello stesso libro identifica quattro candidati a rivestire il ruolo di sostanza:
1) Essenza (o “che cos’era essere”)
2) Universale
3) Genere
4) Soggetto (o sostrato)
Bisogna innanzitutto notare il cambio di prospettiva rispetto alla ricerca intorno alla sostanza delle
Categorie: ora si ricerca che cosa renda sostanza ciò che nelle Categorie era identificato come tale.
Secondo Frede e Patzig Aristotele sostiene dunque che ogni sostanza è sostanza di qualcosa.
Bisogna inoltre ricordare i tre criteri per individuare precisamente che cosa sia sostanza:
a) La sostanza, per essere tale, deve essere un soggetto di attributi;
b) La sostanza deve essere un’entità “separata” (o separabile), cioè concepibile e definibile senza fare
riferimento ad altro;
c) La sostanza deve essere un “questo qualcosa”. L’idea sembra quella di un individuo (“questo”)
appartenente ad una specie determinata (“qualcosa”). Quindi essa deve essere individuale e
dotata di attributi essenziali.
4. Aristotele affronta per primo il soggetto e osserva che questo candidato necessita di un’ulteriore
distinzione concettuale. Aristotele infatti sostiene che come soggetto ultimo sia possibile indicare:
- La materia. Per materia Aristotele intende ciò che rimane una volta fatta astrazione da un oggetto
di tutti i suoi attributi.
- La forma. Essa, può essere soggetto, nel senso che può essere considerata ciò che la sostanza
veramente è (è essenzialmente), ma solo in senso penultimo perché la forma è a sua volta
predicata della materia.
- Il sinolo, cioè l’oggetto risultante dalla composizione dei due soggetti precedenti. Il terzo soggetto
indicato è chiaramente il più vicino alla sostanza prima indicata nelle Categorie.
La materia sembrerebbe il candidato perfetto, se essere un soggetto ultimo fosse l’unico requisito
necessario per essere sostanza, ma come detto sopra ve ne sono altri due (punti “b” e “c”).
Bisogna quindi notare che il punto “b” è rispettato dai concetti di forma e sinolo. Quest’ultimo infatti è
separabile in senso letterale poiché rappresenta un qualsiasi individuo, mentre la prima è separabile solo
tramite astrazione mentale (può essere concepita senza fare riferimento ad altro).
Anche il punto “c” vale esclusivamente per gli stessi due concetti, poiché è chiaro che la materia non è un
individuo di una specie determinata essendo privo di per sé di qualunque attributo.
Per questi motivi forma e sinolo risulteranno maggiormente sostanza rispetto alla materia.
Fra questi due tipi di sostanza, tuttavia, Aristotele stabilisce un’ennesima gerarchia. La forma infatti è
anteriore rispetto al sinolo sotto due punti di vista:
- La forma è anteriore al sinolo poiché ne è la causa, cioè il composto di materia e forma risulta
sostanza in virtù della presenza della forma.
- Un oggetto non è uguale alla mera somma dei suoi costituenti materiali, ma contiene qualcos’altro
di diverso tipo rispetto agli stessi costituenti, in virtù del quale esso è quel che è. Questo fattore
ulteriore è la forma sostanziale (forma-sostanza).
1. La forma evidentemente coinciderà con l’essenza il primo candidato a ricoprire il ruolo di sostanza.
2-3. Universale e genere sono discussi e respinti nel capitolo 13 di Metafisica Zeta.
In realtà il genere non viene nemmeno menzionato poiché, essendo considerato un caso particolare di
universale, gli argomenti contro la sostanzialità dell’universale varranno anche contro questo.
Tali argomenti sono i seguenti:
- La sostanza di una cosa deve appartenere a quella cosa in maniera esclusiva. Ciò non può valere per
l’universale poiché esso si predica dei vari casi particolari.
- La sostanza deve essere soggetto e non predicato. L’espressione “dirsi-di un soggetto” non fa più
riferimento alla predicazione essenziale, ma esprime la relazione tra qualunque universale e ciò che
lo esemplifica.
Ricapitolando, Aristotele ha indicato la sostanza con la forma, ha dato chiare indicazioni del fatto che la
sostanza sia individuale (per il punto “c” essa è un “questo qualcosa”) e infine ha dimostrato che la sostanza
non può essere un universale.
Stando così le cose dovrebbe seguirne che la forma stessa è individuale. Ciò sarebbe confermato dal fatto
che Aristotele ammetta in altre opere che la forma e sostanza di un vivente sia la sua anima.
Il problema è che altri passi suggeriscono che la forma sia universale e sia la stessa per tutti gli individui
della stessa specie.
In questi si fa riferimento alla forma con il termine “logos”, cioè formula definitoria. Una definizione
esprime l’essenza di qualcosa, ed essa è riconducibile alla forma.
D’altra parte, la formula definitoria è dell’universale e dunque dei composti particolari di materia e forma (i
sinoli) non esiste la definizione, poiché essi contengono la materia che è di per sé inconoscibile. Pertanto la
definizione risulta propria solo dell’universale e della forma.
La contraddizione che risulta da questa bivalente visione del concetto di forma può essere risolta (?)
assumendo che gli esemplari di una stessa specie possiedono forme numericamente distinte ma
qualitativamente uguali. Per cui le varie forme specifiche sono repliche individuali di un tipo generale (la
forma della specie) e sono distinte tra loro in virtù dell’essere congiunte a porzioni distinte di materia.
[Ma questa soluzione non sembra forse ricondurre alla dottrina platonica delle idee? Le forme sostanziali
individuali sembrano infatti istanziazioni di un modello di forma “ideale” della specie, proprio come per
Platone i sensibili erano semplici repliche individuali di un modello ideale unico.]
Questa ipotesi si accorda con l’idea aristotelica per cui l’anima di tutti gli uomini è strutturalmente identica.
In questo modo inoltre Aristotele può tener ferma la tesi per cui la definizione è universalmente vera di
tutte le identiche forme individuali della stessa specie e che questa verità universale è ciò che conosciamo.
La ricerca intorno alla physis di Aristotele si pone all’apice di due precedenti tradizioni:
- Naturalismo presocratico, caratterizzato dalla personificazione delle forze naturali e
concettualmente confuso e disordinato.
- Platonismo, secondo cui la natura rappresentava il campo dell’irregolarità (quindi del divenire) non
suscettibile di conoscenza stabile e rigorosa, mentre il livello normativo era rappresentato
dall’iperuranio ideale ed eterno. Ne risultava per il platonismo una difficoltà nel collegare questi
due distinti livello onto-epistemologici. Per Aristotele i concetti di “partecipazione” e “imitazione”
rappresentavano metafore poetiche.
dalle quali trae alcuni aspetti fondamentali per la sua concezione innovativa:
- Dai naturalisti riprende la via per la comprensione dei principi.
- Dai platonici l’attenzione nei confronti del rigore scientifico.
Aristotele concepisce quindi la natura come il dominio degli “enti per natura” o “cose per natura” la cui
unità è analogica e dettata dallo stesso “modo” di essere degli enti che ne fanno parte. Cioè si parla di
natura in generale per designare quell’insieme di enti accomunati dal fatto di esistere in uno stesso modo.
L’obiettivo di Aristotele (contro il platonismo) è quello di mostrare che la natura è dotata di una consistenza
ontologica e di principi d’ordine sufficienti a farne l’oggetto di un sapere epistemicamente legittimo, e non
soltanto un’opinione.
Le caratteristiche di questi “enti per natura” sono fondamentalmente due:
1) Tutti gli “enti per natura” presentano una componente materiale e perciò sono vincolati ai
processi di generazione e mutamento spazio-temporale. Questa caratteristica distingue gli enti
naturali da quelli eterni e immobili, poiché essi sono immateriali (oggetti di matematica e teologia).
2) Questi enti hanno in se stessi il principio del proprio mutamento. Ciò distingue gli enti naturali da
quelli artificiali.
Secondo Aristotele, i processi di mutamento che coinvolgono gli enti naturali sono:
- Non tutti necessari e invarianti (lo sono solo per gli astri), a causa del margine irriducibile di
indeterminazione della materia;
- “Per lo più”, cioè essi accadono con una regolarità non esente deviazioni eccezionali e anomale.
La via regia per la legittimazione epistemologica di un sapere sulla natura consiste, come si è detto, nella
comprensione dei principi e delle cause che spiegano le strutture e i processi degli “enti per natura”. I libri I
e II della Fisica sono destinati a questo scopo.
Il metodo da seguire per raggiungere tale obiettivo consiste nel partire dall’analisi di ciò che è “più noto e
più sicuro per noi” per giungere a ciò che è “più moto e più sicuro per natura”. Si tratta cioè di partire dalla
complessità immediata di quanto ci è familiare per giungere alla conoscenza derivata delle strutture
semplici che si sottendono alla complessità percepita.
Sarà fondamentale quindi l’osservazione alla quale verrà accompagnato il confronto con quanto scoperto
dai predecessori.
Questi avevano concepito i principi nel senso letterale della parola “archè” cioè “origine” e “comando”, e
quindi in base a quest’ultimo significato avevano personificato le forse che governano la natura e avevano
confuso gli elementi con i principi. Tuttavia il loro merito sta nell’aver compreso che i principi consistono
nei contrari.
Nel senso presocratico dell’espressione i processi naturali di mutamento sono identificati in un passaggio
dal non-essere all’essere.
Tuttavia per ammissione universale l’essere non può nascere dal non-essere. Pertanto bisognerà
riformulare il concetto in termini accettabili.
Il passaggio, dunque, avverrà da una assenza (privazione) di una certa determinazione (forma) alla sua
acquisizione. Ma questa determinazione formale deve essere riferita a un soggetto che funge sa sostrato
del processo. [esempio: un uomo (sostrato) non-colto (privazione) diviene colto (forma)].
Non fa eccezione a questo processo la generazione, poiché anche in questo caso è individuabile un sostrato
che subisce la determinazione (la pianta non nasce dal nulla, ma è solo il mutamento di un seme).
È chiaro il valore innovativo dei concetti di archai (sostrato, privazione e forma). Essi non hanno più valore
sostanziale (non sono cose determinate), ma solo posizionale, poiché qualunque cosa può occupare il
posto di sostrato e qualsiasi determinazione e assenza possono giocare i ruoli di forma e privazione.
L’identificazione dei principi all’interno dei processi naturali è quindi solo analogica, ma permette la
conoscibilità e quindi la classificabilità del mondo sensibile.
Aristotele passa poi alla trattazione della coppia potenza/atto in opposizione a materia /forma.
La differenza fondamentale tra esse è che la seconda descrive la struttura statica delle sostanze naturali,
mentre la prima descrive la dinamica di formazione di queste sostanze.
È inoltre importante sottolineare che anche la coppia potenza/atto, proprio come i principi, costituisce
un’unità solamente analogica, poiché essa è riscontrabile in ogni situazione naturale senza che abbia un
ruolo sostanziale.
Aristotele a questo punto stabilisce alcuni assiomi d’ordine relativi ai concetti di atto e potenza:
1. Nulla può essere in atto se prima non era in potenza.
2. L’atto è anteriore alla potenza, secondo:
a) Ordine concettuale (si può dire che questo seme è potenzialmente un albero solo se si
possiede già la nozione di albero);
b) Ordine sostanziale, poiché l’attuazione consiste nel fine dei processi di generazione (la casa è
anteriore ai suoi materiali perché essi sono raccolti in vista della sua costruzione);
c) Ordine cronologico. Esso esiste solo a livello della specie e non dell’individuo (il seme è
anteriore all’albero, ma esso esiste solo perché è esistito un altro albero che lo ha generato).
3. Non tutto ciò che è in potenza diviene in atto, il passaggio avviene solo se nessuno dei fattori
esterni lo impedisce.
Il processo che porta dalla potenza all’atto è nominato, con un efficacie neologismo, “entelècheia”, a
indicare che esso già in sé reca il fine (“tèlos”) cui è destinato.
Si può quindi leggere l’intero campo del divenire come un sistema di processi ordinatamente destinati a
realizzare le loro potenzialità. Pertanto risulta evidente che il mondo non sia retto da una causalità priva di
legge.
Per quanto detto il concetto di atto viene spesso associato, da Aristotele, a quelli di “forma” (l’assunzione
della forma da parte del sostrato costituisce il compimento dei processi, la loro attualizzazione) e di “fine”
(fine dei processi è il compimento delle potenzialità inizialmente inerenti al sostrato).
D’altra parte forma e fine fanno parte delle cause individuate nel libro II della Fisica.
Lo studio delle cause non viene aperto da un confronto con i predecessori, poiché tale confronto viene
effettuato nel libro Alpha meizon della Metafisica.
La causa viene indicata da Aristotele con il temine “aitìa” il quale ha in greco un significato molto ampio.
A partire dalla concretezza fenomenica dell’uso linguistico (basandosi sulle differenti tipologie di risposta
alla domanda “perché?”, Aristotele individua quattro differenti forme di causalità:
- Causa materiale, consiste in ciò di cui è fatta una cosa (il bronzo per una statua);
- Causa formale, consiste nel “che cos’è” una cosa, cioè nella sua essenza (l’effige di Zeus per la
statua);
- Causa efficiente, consiste in “ciò da cui deriva il primo principio del movimento o dell’immobilità”,
cioè chi ha fatto una cosa (l’artista per la statua);
- Causa finale, consiste nel fine per cui una determinata cosa avviene (il culto di Zeus per la statua).
Anche i modi della causalità sono unificabili solo per analogia (non esistono un’unica materia, un’unica
forma, un unico agente né un unico fine).
Va inoltre detto che non sempre è possibile individuare per ogni cosa tutte e quattro le cause (gli enti
matematici ad esempio non hanno causa né fine).
Tuttavia Aristotele è convinto che, dove sia possibile indicarla, la spiegazione finalistica è la più
soddisfacente perché la natura è fine. Questa infatti:
- costituisce una garanzia di senso che esclude disordine e casualità nel divenire naturale insieme ai
concetti di atto e potenza. Va ricordato che in campo biologico il fine è rappresentato dalla salvaguardia
della propria specie, quindi Aristotele esclude un finalismo universale e interspecifico.
- consente di assumere che ogni organismo è destinato a svolgere una funzione e che non possiede organi
superflui o ridondanti.
I quattro tipi di spiegazione causale possono essere ridotti a due nel campo della natura vivente, dal
momento che a livello della specie (quello proprio della scienza) la causa formale, quella finale e quella
efficiente tendono ad unificarsi. Infatti il fine dello sviluppo di un uomo è quello di realizzare
compiutamente la forma “uomo”, ma l’agente che inizia il processo, il genitore, è a sua volta un uomo.
A questa unificazione si oppone la causa materiale. La coppia polare così formata si combina secondo due
sensi che danno ragione della molteplicità del sensibile:
- Il meglio, che esprime il funzionamento dinamico del sistema agente-forma-fine;
- Il necessario, cioè la dimensione materiale che funge da supposto indispensabile al funzionamento.
Si tratta però di una necessità ipotetica, perché ciò che è necessario per svolgere delle determinate
funzioni in realtà è indispensabile per quelle funzioni finalizzate.
Tuttavia è evidente che alcune cose accadono:
- Per caso. Queste sono solo parzialmente in rapporto con l’azione finalizzata, poiché realizzano uno
scopo accidentale.
- Spontaneamente. Anche in questo caso la finalità è solo apparente.
Questi due tipi di causalità afinalistica, inoltre, non rientrano nell’ambito delle cose che accadono “per lo
più”.
Dopo aver stabilito la presenza di una coimplicazione tra natura e movimento o mutamento (kìnesis),
Aristotele passa a chiedersi quali debbano essere le strutture di fondo di mutamento e movimento affinché
il corpo mobile del mondo possa venir pensato come un cosmo chiuso, finito e ordinato. Le risposte
aristoteliche ruotano intorno a due assi:
- uno epistemologico (Fisica);
- l’altro cosmologico (Cielo, Generazione e corruzione, libri VII e VIII della Fisica).
Per quanto concerne il mutamento Aristotele afferma che esso è “l’atto di ciò che è in potenza in quanto
tale”. Si tratta quindi di un passaggio da una potenzialità pura e statica ad una realizzazione compiuta e
altrettanto statica, che costituisce una nuova potenzialità (si tratta quindi del massimo di “platonismo”
possibile in un mondo “eracliteo” dove tutto scorre).
Tuttavia in base alla “griglia” categoriale è possibile identificare diversi tipi di mutamento:
- Generazione e corruzione, che interessa la sostanza ed il suo venire ad essere (si riferisce
soprattutto al processo biologico di nascita e morte);
- Crescita e diminuzione, riguarda la quantità;
- Alterazione, interessa la categoria di qualità;
- Movimento locale o traslazione, vale a dire mutamento secondo luogo (rilevante a tutti i livelli
cosmologici).
Inoltre Aristotele individua due condizioni che permettono di pensare il movimento come proprio di un
cosmo unitario:
- La negazione dell’esistenza del vuoto e la conseguente concezione del mondo come di un corpo le
cui parti sono contigue;
- La negazione dell’esistenza dell’infinito in atto e che quindi il cosmo possa essere pensato come
uno e finito, cioè intero, compiuto e perfetto.
Se infatti lo spazio e il tempo fossero concepiti come insiemi infiniti di punti discreti, cioè separati dal vuoto,
avrebbe ragione Zenone ad affermare che percorrere un segmento spaziale formato da infiniti punti
richiederebbe un tempo infinito. Inoltre l’esistenza del vuoto prevederebbe che corpi dotati di grandezze
differenti si spostassero alla stessa incommensurabile velocità (poiché essa è data dalla resistenza del
mezzo).
Quanto all’infinito, se esso esistesse in atto bisognerebbe ammettere che il mondo sia infinito e/o che ci
siano infiniti mondi.
Aristotele dunque teorizza l’infinito potenziale. Esso prevede che da un punto di vista spaziale sia logico
pensare la moltiplicazione o la divisione di un segmento siano processi ripetibili all’infinito. Lo stesso vale
per il tempo. A differenza delle altre potenzialità naturali, tuttavia non può mai attuarsi.
Per quanto concerne il movimento bisogna ricordare che Aristotele concepiva il luogo solo in rapporto
all’esistenza di corpi in movimento nel cosmo. Il luogo quindi è costituito dalla superficie del corpo che lo
contiene (concezione che deriva dalla contiguità delle parti che formano il mondo). D’altra parte il carattere
finito di questo corpo fa sì che esso non abbia luogo perché al suo esterno non c’è nulla che lo contenga.
Questa teoria individua delle dimensioni assolute di spazio:
- alto/basso, determinata dal movimento verticale dei corpi;
- destra/sinistra, derivata dalla prima.
La temporalità, invece, è legata agli enti in movimento e pertanto è coestesa al campo delle “cose per
natura”. Al di fuori del tempo agiscono gli enti eterni e immobili.
Il tempo è dunque “il numero del movimento secondo il prima e il dopo” (l’ora è sia principio sia fine del
tempo). Il tempo rappresenta perciò la dimensione numerata cioè misurabile del movimento.
Il tempo, a differenza del luogo, è strettamente legato all’anima, perché l’attività del misurare è una
funzione propria dell’anima. Il tempo è quindi un concetto posto a metà strada tra soggetto e oggetto.
Da un altro punto di vista il tempo costituisce la connessione tra la sfera astrale e quella sublunare, poiché
la misurazione del tempo viene effettuata in rapporto ai moti circolari dei corpi celesti (del sole in
particolare).
L’adeguata strumentazione teorica definita nelle sue principali opere (Fisica e Metafisica) permette ad
Aristotele di giungere ad una comprensione più profonda (e soddisfacente) della natura vivente, rispetto ai
suoi predecessori. Ad essi egli obiettava:
- La loro tendenza a ridurre i fenomeni biologici ai componenti primari della materia, perdendone il
significato macroscopico. Ad esempio la funzione degli organi e la regolarità dei cicli riproduttivi non può
essere spiegata attraverso i moti casuali degli atomi. [Atomisti]
- Il disinteresse verso gli studi naturalistici causato dalla concezione dell’inconoscibilità del divenire
sensibile. [Platonici]
Allo studio degli esseri viventi Aristotele premetteva un trattato sull’anima (De anima) che fungeva da
“prologo” dell’intero corpus naturalistico.
Questa scelta era dipesa dal modo di concepire l’anima tipico dello Stagirita. Egli sosteneva che l’anima
(“psychè”) fosse coestesa alla vita, rappresentando l’insieme delle facoltà o funzioni proprie dei corpi
organici, quindi il principio dei viventi.
Tali facoltà rappresentano altrettanti strati in cui è articolata l’anima. Essa può dunque dirsi in più modi
secondo un ordine gerarchico:
- Vegetativa, consiste nelle funzioni nutritiva, accrescitiva, riproduttiva. [Tipica dei vegetali]
- Percettiva, consiste nelle funzioni percettive che sono alla base del movimento volontario. [Tipica
degli animali]. A questo stadio si pongono dunque i cinque sensi di cui uno, il tatto, rappresenta il
senso necessario alla vita perché offre le informazioni ambientali indispensabili alla sopravvivenza,
mentre gli altri (vista, udito, olfatto e gusto) sono “in vista del bene”, cioè di una migliore qualità
della vita stessa. Ad essi vanno ad aggiungersi tre classi di percezioni da considerarsi accidentali o
concomitanti, nel senso che si producono insieme agli atti percettivi primari (quelli dei sensi):
a) Sensibili comuni, cioè non propri di nessun senso, che sono movimento, grandezza, figura,
numero e differenza tra due sensibili propri (ad esempio colore e sapore);
b) Oggetti compositi, che risultano dalla somma di più sensibili (ad esempio il miele);
c) Consapevolezza del percepire o prima facoltà percettiva o percezione comune.
La percezione comune rappresenterebbe l’unità del processo percettivo che si articola nei
diversi sensi, ma che in ogni momento ne coordina e ne integra i dati producendo così
l’unificazione degli oggetti complessi percepiti e la coscienza della percezione (nei Parva
naturalia questa facoltà sembra essere compito del cuore).
Inoltre Aristotele sottolinea l’importanza dell’immaginazione (“phantasìa”) come collegamento tra
percezione sensibile e pensiero. Essa riproduce infatti le immagini che vengono captate attraverso i
sensi nella nostra mente eliminando la componente materiale. Ciò ci permette di avere conoscenza
delle forme noetiche.
- Razionale, consiste nelle funzioni di intelligenza e pensiero. [Tipica dell’uomo]
A questo livello Aristotele compie una distinzione fondamentale tra due gradi di intelletto:
a) Passivo. L’intelletto così definito è una facoltà che viene attivata dalle forme intelligibili
pensate, cioè immaginate, allo stesso modo in cui è l’oggetto della percezione ad attivare
l’organo di senso corrispettivo. Esso dunque è in grado di “diventare tutte le cose” pensate.
Questo tipo di intelletto tuttavia non viene collegato da Aristotele ad alcun organo somatico ed
è individuale e mortale.
b) Attivo. Esso è invece in grado di “produrre tutte le cose”, nel senso di rendere pensate le forme
pensabili e pensante l’intelletto passivo. Questo intelletto è, secondo Aristotele, “separabile,
impassibile e non mescolato, per essenza in atto” perciò “immortale ed eterno”. Ciò sembra in
contraddizione con la tesi per cui l’intelletto è parte dell’anima e l’anima è in stretto contatto
con il corpo organico. [pagine 166-167 spiegazione della controversia]. La soluzione proposta da
Kahn e Berti sta nell’identificare l’intelletto attivo con il patrimonio di sapere e verità eterne
accumulato dalla specie umana. Esso è in atto e produttivo perché precede e mette in
movimento il processo di apprendimento che ogni singolo individuo compie passando dalla
potenzialità della conoscenza al suo possesso attuale, ed è immortale perché sopravvive al
singolo individuo. *
Gli strati superiori dell’anima non potrebbero esistere senza quelli inferiori e viceversa questi ultimi sono
finalizzati, nei viventi che presentano una struttura più complessa, alla funzionalità dei primi.
È chiaro quindi che la psicologia possa svolgere il ruolo di scienza biologica generale. Infatti la concezione
dell’anima come insieme stratificato di facoltà/funzioni proprie dei viventi connette l’anatomofisiologia
degli organi alla psico-fisiologia delle facoltà. La struttura somatica dei grandi apparati può venire spiegata
in ordine delle funzioni “psichiche” di cui essi sono il supporto strumentale.
L’anima per Aristotele è:
- “Forma di un corpo naturale che ha vita in potenza”, cioè l’essenza di un corpo che permette al
corpo stesso di essere ciò che è;
- “Atto primo di un corpo naturale dotato di organi”, cioè è ciò che permette ai vari organi di
svolgere la loro funzione;
- Non separabile, poiché l’anima è per l’animale ciò che la vista è per l’occhio, senza occhio non vi è
vista e senza vista l’occhio perde la sua funzione. Inoltre è necessario che ci sia una reciproca
adeguazione tra tipo di anima e struttura del corpo di cui essa rappresenta la funzione vitale
(l’anima percettiva non può esistere in un corpo privo di organi di senso).
- Mortale, perché indissolubilmente legata alla materia, con l’eccezione dell’intelletto attivo.
Tutto questo rende assurda la tesi pitagorico-platonica di reincarnazione dell’anima.
Inoltre bisogna sottolineare il vincolo inestricabile tra corpo e anima (ilemorfismo) che permette una
doppia spiegazione di ogni funzione propria dei soggetti viventi: una dal punto di vista naturalistico e
materiale, l’altra da quello dialettico e formale. Così l’ira è sia “surriscaldamento ed ebollizione del sangue
intorno al cuore, sia “desiderio di vendetta”. Le due spiegazioni si coimplicano.
La teoria dell’anima fungeva, come detto, da prologo allo studio della natura vivente. Tuttavia la stesura di
una enciclopedia completa delle scienze naturali restò incompiuta a causa della mancata scrittura di un
trattato sulla botanica, poi aggiunto da Teofrasto. Al contrario la zoologia rappresentò un campo di sviluppo
quasi senza pari all’interno della ricerca aristotelica. Quasi un terzo dei suoi scritti riguardano questo
settore. Tra essi si ricordano:
- Historia animalium, una raccolta di stampo anatomofisiologico e etologico su circa 500 specie
animali;
- De partibus animalium, trattato in cui sono poste le basi dell’anatomofisiologia comparata;
- Parva naturalia, tra cui rientrano il De incessu, il De motu, il De repiratione e il De sensu, piccoli
trattati su problemi di fisiologia.
Attraverso questo lavoro il sapere teorico conquistava per la prima volta in modo sistematico il terreno
della natura vivente.
Le novità metodiche introdotte da Aristotele nello studio zoologico sono molteplici:
- Collaborazione con i depositari del sapere “tecnico” (allevatori, pescatori, cacciatori, macellai), ai
quali tuttavia Aristotele rimproverava la destinazione pratica della loro conoscenza, incapace quindi
di comprendere le finalità della natura e dunque le cause ultime delle cose di essere ciò che sono.
- “Empirismo aristotelico”, che consiste nell’osservazione metodica dei fatti al fine di comprenderne
le cause. Nel caso specifico dello studio zoologico è da identificarsi con la dissezione anatomica.
L’osservazione, tuttavia deve essere orientata da un punto di vista teorico che individui i principi
propri della natura vivente.
La realtà centrale dei fenomeni biologici è la sostanza, cioè la forma specifica. Non esiste in natura nulla che
sia superiore e inclusivo rispetto alla specie: esistono infatti le varie specie animali, mentre i generi animale
e quadrupede sono semplici astrazioni concettuali. Pertanto non c’è scienza biologica degli individui, ma
solo della permanenza invariante della forma.
L’indagine intorno ad essa è di tipo causale e riguarda sia la sua struttura specifica, sia i processi che
conducono alla sua formazione. Le cause che entrano in gioco in questo frangente sono le stesse
individuate nella Fisica:
- La materia, di cui l’animale è composto. Questa materia organica è necessaria, ma in forma
condizionale, cioè subordinata al fine a cui è destinate (le zanne saranno ossee e dure…). Dunque
secondo Aristotele è la funzione a spiegare la struttura dell’organo e non viceversa.
- L’agente che avvia il processo di formazione è il seme del genitore. Quindi il genitore stesso che
emette il seme.
- La forma essenziale che identifica l’animale come individuo appartenente ad una specie.
- Il fine (“tèlos”), esso rappresenta l’acquisizione della forma compiuta da parte del singolo
individuo.
Come già detto nel “Capitolo 8”, forma, agente e fine tendono ad uniformarsi per quanto concerne i
processi biologici.
Il ruolo fondamentale della causa finale nel mondo vivente dimostra che la forma esplicativa dominante
nella biologia aristotelica è quella teleologica. Pertanto risulta accettabile l’idea per cui ogni organismo
vivente e ogni animale sia perfettamente adatto alla propria destinazione che consiste nella sopravvivenza
e nella riproduzione della specie. L’unica finalizzazione prospettata da Aristotele, tuttavia, è quella della
singola specie in maniera egoistica rispetto a resto della natura vivente.
D’altro canto il libro XII della Metafisica sembra a favore di un’interpretazione globale della teleologia, che
prevederebbe una visione finalistica relativa alla perpetuazione dell’intero universo organico.
Lo studio tassonomico (Historia animalium), seppur poco sviluppato perché volto allo studio dell’anatomo-
fisiologia comparata, si dimostra essenziale nell’ambito della zoologia aristotelica.
La classificazione degli animali procedeva dividendoli in primo luogo in due gruppi:
- Dotati di sangue (i vertebrati). Questi a loro volta venivano divisi in:
1) Vivipari (mammiferi). Tra di essi includeva anche, sulla base della presenza dell’utero, cetacei,
delfini e foche (ciò dimostra l’importanza attribuita da Aristotele all’ambito anatomo-fisiologico
rispetto a quello ecologico o etologico).
2) Ovipari o ovovivipari.
- Privi di sangue (gli invertebrati). Essi erano suddivisi a loro volta sulla base del tegumento e dello
scheletro in:
1) Molluschi (dotati di esoscheletro);
2) Crostacei;
3) Ostracodermi;
4) Insetti (larvipari).
Aristotele inoltre indicava la struttura dei corpi viventi come l’esito di tre livelli successivi di composizione:
1) Aggregazione tra le qualità elementari della materia a cui corrispondono gli elementi, a formare le
parti omogenee, cioè indifferenziate (tessuti, ossa, sangue…).
2) Aggregazione dei tessuti a formare le parti non omogenee, cioè gli organi destinati a una funzione.
3) Aggregazione degli organi a formare l’unità del corpo vivente
Il primato assegnato nei processi fisiologici al calore organico innato e della sua sede, il cuore, rappresenta
un altro aspetto centrale della dottrina biologica aristotelica.
Questo privilegio era dovuto alla concezione dei maggiori processi fisiologici come fasi di una cozione che
risultava dovuta al calore cardiaco (ad esempio la digestione trasformava i cibi in sangue, il sangue veniva
trasformato in liquido spermatico…).
Inoltre Aristotele sosteneva che al calore cardiaco fosse dovuta la produzione di “pneuma innato”, un fluido
invisibile la cui contrazione permetteva il moto dei corpi. Tale pneuma giocava anche un ruolo
fondamentale nella teoria della generazione.
La differenza tra scienze umane (“filosofia antropica”), tra cui rientrano etica e politica, e scienze naturali si
distinguono per alcuni aspetti cruciali:
- Le prime fanno parte delle “scienze pratiche”, le seconde invece delle “scienze teoriche”;
- Il fine delle prime consiste nell’azione (buona), mentre quello delle seconde è la pura conoscenza;
- I fenomeni che interessano le prime sono mutevoli ed incerti, perché contengono un alto grado di
soggettività, mentre quelli delle seconde accadono per lo più;
- Il livello epistemico delle prime sarà più approssimativo di quello delle seconde.
Lo studio delle discipline pratiche dovrà essere pertanto volto al “che” piuttosto che al perché. Cioè colui
che studia l’etica e la politica dovrà, secondo Aristotele, soffermarsi sullo studio dei rapporti comunitari e
dei modelli di comportamento in sé, non tanto rispetto alle cause. Ovviamente, ancora una volta, alla base
di tale studio va posto il confronto con le opinioni dei predecessori (per i motivi già esposti). Lo scopo della
filosofia pratica sarà, dunque, quello di condurre ad una chiara certezza le verità già implicite nei discorsi
degli antichi (questa disciplina dovrà pertanto porsi in linea con la tradizione, limitandosi a darne una
solidità concettuale).
Tuttavia dall’indagine dei “dati di fatto” Aristotele intendeva ricavare dei “principi propri” che
consolidassero a livello epistemologico la filosofia pratica, assimilandola al discorso scientifico, al fine di
passare da un semplice livello descrittivo ad uno più strutturato prescrittivo.
In questo senso è fondamentale la definizione “l’uomo è per natura un animale politico”, che funge da
cerniera tra etica e politica. Con questa affermazione, infatti, Aristotele sostiene che la politicità dell’uomo
non è una decisione morale contingente e deliberata, ma è l’essenza (“per natura”) stessa di quella
determinata specie animale. Si noti che il concetto è espresso secondo una terminologia propria delle
scienze naturali. A tal proposito bisogna ricordare la divisione, effettuata in Historia animalium, degli
animali in sociali, solitari e politici (uomo, ape, vespa, formica, gru). Questi ultimi caratterizzati
dall’adoperarsi tutti per un fine unico e comune.
Ovviamente l’uomo fa eccezione in questo elenco, poiché a differenza degli altri animali, egli è capace
dell’interazione comunicativa (che ha luogo nella polis) tramite il linguaggio e la ragione, che gli permette
di mostrare l’utile e il nocivo, quindi anche il giusto e l’ingiusto.
Ad un livello più specifico, poi, l’uomo è “un animale che per natura è accoppiato”, ciò significa che,
secondo Aristotele, la dimensione familiare rappresenta il nucleo costitutivo di quella politica.
La politicità dell’essere umano come sua caratteristica essenziale produce due conseguenze:
- la perdita del proprio statuto di essere umano per chi vive al di fuori delle istituzioni della polis (barbari e
schiavi);
- la prescrizione di una vita eticamente determinata, per chi invece accetta il proprio statuto, al fine di
raggiungere una adeguatezza intellettuale e morale per vestire i panni di cittadino. Per essere
compiutamente uomo, l’uomo deve essere politico.
Da questo punto di vista, il compito dell’etica sarà dunque quello di analizzare le forme di vita adeguate al
quadro politico in cui si compie l’essenza umana.
La produzione intorno all’etica in Aristotele, riguarda in primo luogo le forme della vita umana (intese come
norme comportamentali e morali) le cui finalità devono essere perseguibili su scala più ampia, ovvero
politica. I destinatari di tale produzione risultano essere pertanto (primariamente, ma non solo) coloro i
quali giocano il ruolo di “architetto che stabilisce il fine”, cioè i legislatori.
Prima di tutto Aristotele sgombra il campo da due ingombranti lasciti platonici:
- l’idea del bene, considerata vuota e vana perché non perseguibile nell’azione morale degli uomini;
- i miti escatologici, i quali a partire dal presupposto dell’immortalità dell’anima invitavano l’individuo a
comportarsi rettamente per evitare le punizioni oltreterrene. Aristotele tuttavia aveva distrutto i
presupposti di tali miti negando l’esistenza di un’anima immortale.
A partire da questi presupposti egli poteva costruire un’etica totalmente “mondana”.
Aristotele a questo punto individua il fine ultimo dell’etica (a partire dagli endoxa) nella felicità. Pertanto
vivere bene significherà essere felici.
Tuttavia le opinioni su cosa effettivamente sia la felicità sono divergenti:
- Per la volgare maggioranza essa consiste nel piacere;
- Per le persone dedite all’attività politica consiste nel successo e negli onori;
- Per i filosofi consiste nella dedizione alla conoscenza.
Ora, secondo Aristotele ogni oggetto capace di svolgere una funzione specifica raggiunge la sua compiuta
realizzazione (il bene) nell’effettivo svolgimento di tale funzione. La funzione propria dell’uomo consiste
nell’attività dell’anima che è specifica dell’uomo, cioè la ragione. Poiché la felicità rappresenta una
condizione di perfezione, questa attività dovrà essere secondo virtù (nel senso di eccellenza prestazionale).
La felicità consiste dunque nell’attività dell’anima secondo virtù…:
1) …completa, cioè l’insieme di tutte le virtù che sarebbe necessario avere per essere felici
(concezione inclusiva);
2) …(e se le virtù sono più di una, secondo quella) più perfetta*. Tale espressione suggerirebbe la
superiorità di una virtù sulle altre (concezione della virtù dominante).
La felicità tuttavia per essere tale richiede alcune condizioni:
- Deve consistere in uno stato di autosufficienza (autarkeia), ma non di isolamento individuale
(l’uomo è infatti un animale politico);
- Devono essere a disposizione del soggetto beni materiali, doti naturali, buona sorte e buona salute;
- Non può consistere in uno stato transitorio, ma deve caratterizzare una vita intera;
- Non può esistere per chi è incapace di deliberare razionalmente intorno alla propria attività
(bambini, schiavi, lavoratori manuali).
I soggetti delle azioni virtuose in cui consiste la felicità sono le parti dell’anima. Essa viene suddivisa in:
a) Irrazionale, a sua volta composta da:
- Strato vegetativo, a cui corrispondono funzioni vitali irrilevanti dal punto di vista etico;
- Strato desiderante, negli uomini temperanti ascolta la parte razionale e le obbedisce, mentre negli
altri le si contrappone e le resiste, ma poiché è proprio il desiderio a volere i fini perseguiti nella
condotta è chiara la centralità morale di questa facoltà.
b) Razionale, a sua volta costituito da:
- Strato epistemico, puramente teoretico che verte su oggetti necessari e immutabili;
- Strato calcolatore e deliberativo, che verte su oggetti variabili e contingenti.
A ognuna di queste facoltà dell’anima corrispondono una o più virtù, cioè le rispettive forme di eccellenza
performativa:
a) Virtù etiche (coraggio, temperanza, generosità…), cioè pertinenti ai problemi morali delle condotte
dell’uomo come “animale politico”.
L’acquisizione di tali virtù non si basa sullo studio teorico, né tanto meno sulla dotazione innata. La
via maestra alla virtù consiste nell’abitudine a compiere azioni ripetutamente virtuose a partire
dall’infanzia in modo da edificare il carattere e la condotta dell’individuo. Ma ciò non basta. È
necessario introiettare le prescrizioni ricevute dagli agenti esterni in modo tale da renderle proprie
e seguirle in maniera consapevole e autonoma.
La virtù così acquisita sarà in grado di governare gli impulsi delle passioni derivanti dallo strato
desiderativo (cioè le coppie di opposti come ira e passività, temerarietà e viltà…) e di dirigere
l’azione del soggetto verso la medietà. Si tratta della capacità di tracciare, nelle singole circostanze,
la giusta rotta nella vita che eviti gli estremi opposti dell’eccesso e del difetto (il coraggio tra viltà e
temerarietà…), entrambi socialmente inaccettabili.
Di particolare rilevanza è la virtù della giustizia, costituita da tre tipi:
- giustizia politica, consistente nell’ossequio alla legge poiché le leggi tendono all’utile comune e
alla felicità della comunità;
- giustizia particolare 1, che consiste nell’equa distribuzione di beni materiali e simbolici nei rapporti
pubblici e privati;
- giustizia particolare 2, che consiste nella punizione nei confronti dei colpevoli di reati.
b) Virtù dianoetiche:
- Sapienza, inutile da un punto di vista pratico, ma dedita alla teoria pura.
- Intelligenza pratica o saggezza (phrònesis). Essa consiste nella capacità selettiva dei fini perseguibili
rispetto a quelli individuati dallo strato desiderativo e dei conseguenti mezzi da utilizzare per
raggiungerli.
Una condizione della saggezza è l’abilità, cioè la capacità di compiere con successo le azioni che
portano allo scopo prefissato (questa facoltà è dunque bivalente in rapporto alla qualità morale del
fine). Quindi è impossibile essere buoni senza saggezza, né saggi senza virtù etica (individuazione
dei fini).
Tuttavia è anche possibile che lo scopo perseguito sia retto, ma che si conducano degli errori nei
passi che conducono ad esso o che, viceversa, lo scopo sia errato, ma i passi giusti, oppure ancora
che entrambi siano scorretti. Si potrebbero avere così un virtuoso benintenzionato ma incapace e
un intemperante terribilmente efficace. In questi casi, però, la “normalità” positiva dei processi
educativi che formano il carattere sostiene la tesi per cui virtù etica ed intelligenza pratica non
vadano distinte. Questo nesso è formalizzato nel “sillogismo pratico”: la premessa maggiore
contiene il fine (posto dalla virtù), la minore la deliberazione sui mezzi (formulata dalla saggezza), la
conclusione l’azione che ne segue.
Aristotele afferma che possano essere valutate moralmente solo le azioni che vengo compiute
volontariamente e, contrariamente alla tradizione socratico-platonica, il male viene valutato volontario al
pari del bene. Pertanto si parla di azioni involontarie solo nel caso di costrizioni fisiche esterne o di
ignoranza delle circostanze.
Contro la tesi socratica Aristotele osserva che se fosse involontaria l’azione malvagia altrettanto dovrebbe
esserlo quella buona, che non potrebbe dunque essere lodata o premiata come l’altra non dovrebbe essere
deplorata e punita.
L’insistenza sulla volontarietà dell’azione morale comporta che le scelte che conducano all’azione siano
libere. Ma come sostenuto rispetto alla formazione dell’abito morale, è chiaro che la virtù si persegua solo
per abitudine e che ciò avvenga necessariamente. Aristotele afferma pertanto che il soggetto agente possa
venir considerato concausa della propria abitudine [ma essa è imposta da agenti esterni…].
Donini afferma che ciò che ognuno è dipenderebbe da un fattore umano, non soggettivo ma sociale.
Tuttavia ciò non risolve il problema dell’imputabilità individuali.
*Quale che sia la virtù di cui parla Aristotele, viene mostrato dal filosofo stesso solo nella parte finale
dell’Etica Nicomachea. Il tratto specifico dell’uomo è il possesso del pensiero teorico, il nous, che costituisce
l’elemento divino in noi, sia perché la sua attività è simile a quella della divinità aristotelica, sia perché esso
ha per oggetto gli enti divini. Dunque la vita secondo il pensiero sarà “divina” e perciò umana per
eccellenza. La vita filosofica è inoltre autosufficiente e assicura dunque la felicità più compiuta e più stabile.
Ne consegue un ridimensionamento dell’importanza della vita politica, la quale tuttavia acquisisce una forte
indipendenza. Aristotele, contrariamente a quanto prospettato da Platone nell’ideazione di Kallipolis,
sostiene la marginalità della filosofia in campo politico.
La città è la forma compiuta della comunità politica, l’ambiente creato dalla naturale politicità umana, che
in esso si può compiutamente realizzare: essa esiste per natura.
Essa può venire ridotta a due componenti fondamentali:
- La coppia riproduttiva, che si forma non per scelta, ma per necessità produttiva. Questa insieme
alla sua prole dà vita alla famiglia.
- La coppia produttiva, composta da padrone e schiavo.
L’aggregazione di più famiglie elementari, diramatesi da comuni progenitori, dà luogo al villaggio, più
villaggi riuniti formano infine la città.
Essa rappresenta la forma perfetta e compiuta della comunità politica per due motivi:
- Ha raggiunto l’autosufficienza (autarkeia), poiché rappresenta uno Stato autonomo dai punti di
vista politico, economico e militare;
- Garantisce le condizioni del “vivere bene”. Questo è permesso dalla divisione sociale del lavoro: la
presenza di masse di addetti ai “lavori necessari” permette ai cittadini propriamente detti di
disporre del tempo libero (scholè) necessario per dedicarsi alle opere della virtù (politica e filosofia)
degne di una vita buona e felice.
Lo sviluppo storico che ha portato alla creazione della città a partire dal nucleo famigliare non rappresenta
una possibilità contingente, ma un apice necessario. Esso deve essere interpretato come la crescita di una
quercia a partire da un seme di quercia. La città infatti è il fine del processo che conduce alla sua
formazione. Veniva così affermata la priorità della città (l’intero) sulle famiglie e i cittadini (le parti).
La stratigrafia della città veniva poi proiettata anche nel nucleo famigliare, stabilendo, a questo livello, gli
stessi rapporti di comando e autorità di quello superiore:
Al vertice era posto il capofamiglia, cioè il cittadino in senso pieno: maschio, adulto e greco. Il comando
esercitato dal capofamiglia è:
a) Sulla moglie di tipo politico (o aristocratico), perché fondato su una disparità di valore), cioè
come quello che si esercita fra liberi e adulti. L’inferiorità della donna consisteva nel fatto che
essa non possiede una adeguata autorità da affiancare alla capacità deliberativa
(giuridicamente ad Atene tutte le donne dovevano avere un tutore).
b) Sui figli di tipo regale, da cui i figli maschi si emancipano raggiungendo la maggiore età;
c) Sugli schiavi padronale e dispotico. Lo schiavo infatti funge da “strumento animato”
indispensabile per soddisfare le necessità del padrone, della famiglia e dunque dell’intera
comunità. La schiavitù viene giustificata “secondo natura” dalla dottrina di atto e potenza: dal
momento che esistono schiavi in atto, questo significa che essi erano potenzialmente schiavi.
Anche la prospettiva empirica tende a dimostrare l’esistenza di schiavi per natura. Essi
dispongono infatti di un corpo più robusto e adatto ai lavori manuali, mentre i corpi dei liberi
sono inadatti a simili attività. Infine alle obiezioni secondo cui la schiavitù non sia naturale, ma
venga imposta con violenza, Aristotele risponde che la superiorità nell’uso della forza implica
anche una superiorità in termini di virtù.
Infine Aristotele sostiene la convergenza tra la figura del barbaro e quella dello schiavo. Egli
riconosce infatti due tipologie di barbari:
- gli abitanti del settentrione europeo, coraggiosi ma privi di intelligenza e organizzazione
politica;
- i popoli dell’Asia, intelligenti e abili nelle tecniche, ma vili poiché vivono come schiavi, asserviti
al potere dei loro sovrani.
Ad entrambe le categorie venivano opposti i greci, coraggiosi, intelligenti e perciò capaci di
dominare su tutti se fossero uniti in una sola compagine politica. Attraverso l’arte della guerra
questi ultimi sono legittimati ad acquisire schiavi-barbari naturali.
Tali forme di potere venivano del resto estese da Aristotele alla natura intera, secondo il principio
universale del governo di ciò che è migliore su ciò che è peggiore.
Accanto al problema della produzione Aristotele pone la crematistica, cioè l’analisi delle strutture della
polis legate alla distribuzione e circolazione dei beni. Essa consiste nello scambio delle eccedenze
produttive che consente l’acquisizione dei beni necessari alla vita (ogni accumulo di beni è perciò superfluo
e privo di senso). Lo scambio viene facilitato dal denaro. Tuttavia, Aristotele nota la dissociazione tra valore
d’uso e valore di scambio dei beni prodotti, che portano il denaro ad essere da semplice mezzo (M – D –
M), un fine (D – M – D’). Questa seconda forma è considerata innaturale, non avendo come limite il
consumo necessario. Essa rappresenta una forma di arricchimento devastante per gli equilibri sociali.
Due aspetti particolarmente odiosi della crematistica innaturale consistono in:
- attività creditizia, poiché qui il denaro produce direttamente denaro (D – D’);
- lavoro salariato, poiché in questo caso il lavoro manuale non era svolto da schiavi ma da liberi cittadini.
La “naturalizzazione” delle forme sociali vigenti, conduce Aristotele ad un’aspra critica nei confronti delle
proposte utopiche, formulate in primo luogo da Platone. La pretesa platonica di sovvertire le strutture
naturali della società risulta contronatura e quindi oltre che irrealizzabile (nonostante la loro conoscenza
tali forme non sono mai state messe in pratica), anche indesiderabile. Aristotele pertanto, preferisce
attenersi al “sistema attuale” migliorato con buoni costumi e leggi corrette. L’importanza delle leggi deriva
dal fatto che esse siano assimilabili alla divinità e al puro pensiero, in quanto slegate dai viziosi desideri
umani, incarnati da chi governa.
La mancanza di un determinismo naturale-strico, che conduca necessariamente alle forme “normali” della
polis, include nell’analisi aristotelica il concetto di deviazione. Esso indica le anomalie che le forme politiche
presentano rispetto al piano di sviluppo corretto, a causa delle irregolarità delle condotte umane.
L’oggetto principale su cui verte l’indagine politica di Aristotele è la costituzione, di cui distingue sei forme
sulla base del numero di partecipanti al governo della città: tre di esse sono corrette poiché in esse il potere
è esercitato nell’interesse della comunità, le altre tre rappresentano le rispettive deviazioni perché
riguardano forme in cui il potere è esercitato negli interessi di chi governa. Esse sono:
Numero di governanti Costituzioni rette Costituzioni deviate
Uno Monarchia Tirannide
Pochi Aristocrazia Oligarchia
Molti Politeìa Democrazia
La preferenza di Aristotele va alla politeìa, cioè una forma moderata di democrazia che limita attraverso
elementi oligarchici i poteri dell’assemblea cittadina.
Quanto all’oligarchia e alla democrazia, cioè i regimi più diffusi, l’elemento che le caratterizza non è il
numero di governanti, ma l’opposizione tra ricchi e poveri (plutocrazia).
Quale che sia la forma di governo vigente (naturale o deviato) la sua stabilità è sempre preferibile al
sovvertimento istituzionale. Questo comporta la possibilità di dissociazione tra le virtù di buon cittadino
(lealtà verso la costituzione) e quelle di uomo retto (lealtà verso valori morali invarianti).
Comunque lo strumento più importante ai fini della stabilità dei regimi è l’educazione finalizzata ad essi. È
evidente la tensione tra educazione morale dell’etica e quella di educazione al conformismo di regime.
La ricerca della costituzione migliore, secondo Aristotele, bisogna partire dalle situazioni esistenti per non
incappare in visioni utopiche alla maniera di Platone.
Per prima cosa vengono esplorate le strade che partono dalle tre costituzioni “corrette”:
- La monarchia eccellente è possibile quando si verifichi una circostanza estrema, cioè che nella polis
sia presente un uomo superiore a tutti gli altri per virtù e forza politica tale da apparire un dio fra gli
uomini.
- Se gli uomini eccellenti dovessero essere più di uno si avrà l’aristocrazia con la conseguente
coincidenza tra uomo morale e buon cittadino.
- La politeìa è, infine, inferiore ai regimi precedenti perché la virtù non è un requisito per l’accesso al
governo. Tuttavia il dominio della classe media potrebbe essere il migliore poiché i suoi
appartenenti possiedono i mezzi materiali adeguati per esprimere la medietà. Quest’ultima come
detto è la prediletta di Aristotele, che tuttavia, con amaro pessimismo afferma che difficilmente
potrà essere realizzata.
Negli ultimi due libri della Politica, Aristotele si dedica a delineare i tratti della “arìste politeìa” libera da
vincoli di miglioramento, comportandosi esattamente come Platone nel suo intento di riformare
drasticamente le strutture sociali.
Per prima cosa Aristotele propone un nuovo criterio di diritto di accesso alla cittadinanza secondo cui i
lavoratori manuali, i contadini e i commercianti, non possono partecipare al governo cittadino perché privi
della scholè e dunque non in grado di esercitare la virtù. Cittadini, dunque, risultano solo proprietari adatti
a governare poiché in essi virtù morale e politica possono coincidere.
Grazie all’omogeneità così ottenuta le funzioni governative potrebbero venire assegnate in base alle fasce
di età:
- ai giovani andranno i compiti militari;
- agli adulti i compiti giudiziari e politici;
- agli anziani quelli sacerdotali.
Pertanto la dimensione educativa, da familiare dovrà divenire comunitaria e la formazione del buon uomo e
del buon cittadino dovrà essere “liberale” e pertanto non affidato a scuole filosofiche (la cui esistenza sarà
indipendente dall’ambito politico) né militaristiche.
Capitolo 13 – Poetica e retorica
Poetica
Secondo Aristotele la poetica rientra nell’insieme delle scienze produttive. L’intento del trattato consiste:
- nello spiegare come debba essere fatta o prodotta una buona tragedia;
- nell’analizzare un fenomeno di vasta rilevanza culturale e sociale, nel quale si dispiega un tratto distintivo
della natura umana: l’inclinazione all’imitazione.
A tal proposito il trattato esordisce affermando che tutte le specie dell’arte poetica sono forme di
imitazione o rappresentazione (“mìmesis”). Proprio questo aspetto era stato condannato da Platone per
due motivi:
- Uno etico: la poesia tende ad imitare caratteri emotivi, irrazionali e immorali ed eccita in chi ne
fruisce le stesse passioni;
- Uno ontologico ed epistemologico: l’imitazione è rivolta ad oggetti sensibili che a loro volta sono
imitazioni delle idee.
A questa concezione platonica Aristotele si contrappone fermamente nella sua esaltazione dell’imitazione.
Secondo lo Stagirita, infatti, l’imitazione è connaturata all’essere umano più che ad ogni altro animale e
gioca un ruolo conoscitivo fondamentale nell’apprendimento, tant’è che gli esseri umani provano piacere
nel vedere immagini ben eseguite di cose che per sé trovano ripugnanti.
Aristotele propone, poi, un confronto tra poesia e storiografia e ne traccia una duplice contrapposizione:
- Realtà/possibilità. Che i fatti raccontati siano realmente accaduti è indispensabile per lo storico,
mentre è irrilevante per il poeta, il quale può limitarsi all’ambito della verosimiglianza.
- Particolare/universale. La storia tratta i fatti particolari, mentre la poesia si occupa di universali,
cioè di tipi di persone e di azioni sebbene assegni loro un’apparente individualità.
L’apprendimento del fruitore sarà pertanto legato all’individuazione di somiglianze e analogie tra la propria
esperienza di vita e la vicenda portata in scena, la quale inoltre renderà più identificabili i nessi di causalità
tra le varie azioni, collegate in maniera piuttosto oscura nella vita reale.
Aristotele, infine, dà anche delle indicazioni concrete sul contenuto della tragedia. Pertanto distingue due
tipi fondamentali di snodo drammatico (i migliori, non quelli realmente rappresentati nel periodo a lui
contemporaneo):
- Il rovesciamento, della condizione di un personaggio dalla buona alla cattiva sorte o viceversa;
- Il riconoscimento, dell’identità di qualcuno o qualcosa.
In entrambi i casi è possibile riscontrare che Aristotele non attribuisca alcun ruolo al divino, limitandosi ad
affermare che esso possa prendere parte alle tragedie esclusivamente come personaggi esterni all’azione
drammatica (ad esempio per il ruolo di voce narrante rispetto ai fatti antecedenti a quelli portati sul
palcoscenico). Questa concezione deriva dall’idea per cui la divinità non interferisce nelle cose umane.
Dunque se la tragedia deve imitare la vita, e nella vita gli dei non hanno alcun ruolo, allora è chiaro il perché
nella tragedia non ci sia spazio per loro.
Retorica
A differenza delle singole arti e scienze, le cui argomentazioni si riferiscono a classi di enti e ambiti della
realtà ben delimitati, la retorica è priva di uno specifico ambito di competenza (in ciò essa è simile alla
dialettica). Un altro punto di contatto tra le due discipline è il fatto che la retorica, allo stesso modo della
dialettica, si occupi di argomentazioni le cui premesse sono endoxa.
Tuttavia esistono anche alcune differenze:
- la retorica si occupa, infatti, di questioni che sembrano ammettere possibilità alternative;
- il pubblico della retorica è costituito da ascoltatori che non sono in grado di cogliere gli elementi di una
questione e porli in ordine all’interno di ragionamenti, mentre gli uditori dialettici sono addestrati a seguire
argomentazioni complesse.
La caratteristica fondamentale della retorica è la persuasione. Essa consta di diversi strumenti e modalità:
- “Non tecniche”, come le testimonianze e i documenti. Così nominate perché non riguardano
l’abilità del retore.
- “Tecniche”. Queste si dividono a loro volta in tre tipi:
1) Persuasione attraverso il carattere. Si ha tele tipo di persuasione quando il discorso viene
pronunciato al fine di rendere credibile colui che parla e non l’argomento che viene trattato.
2) Persuasione attraverso gli ascoltatori. Essa si ottiene quando gli ascoltatori sono condotti a
provare un’emozione, poiché si emettono giudizi differenti in base alla propria condizione
emozionale.
L’oratore in questo caso dovrà tenere conto di alcuni caratteri propri del pubblico (la loro età, la
loro fortuna).
3) Persuasione attraverso i discorsi (la più importante). Essa consiste nel dimostrare il vero sulla
base di ciò che è persuasivo e si esplica attraverso due forme:
a) Esempio = un tipo di induzione caratterizzato dal fatto che procede da premesse particolari
a una conclusione altrettanto particolare;
b) Entimema = un tipo di sillogismo (il più delle volte incompleto, perché presenta delle
premesse implicite) in cui la conclusione non risulti di necessità dalle premesse, ma
universalmente o per lo più.
Essi sono costruiti basandosi su luoghi (“topoi”) e forme specifiche.
Le forme specifiche sono premesse che appartengono in modo esclusivo all’ambito di una
determinata scienza (degli endoxa autorevoli utili a dare contenuto alle argomentazioni di
un retore nei più svariati dibattiti).
I luoghi, invece, sono i corrispettivi delle forme specifiche nel loro valore universale, poiché
si adattano a più scienze differenti.
In generale, dunque, l’oratore deve muovere un’indagine sull’anima, distinguerne i diversi tipi e abbinare a
ciascun tipo di anima il discorso capace di persuaderla.
La Metafisica nasce dalla raccolta di alcuni corsi/trattati composti dal filosofo in tempi e su argomenti
diversi, compilata da Andronico di Rodi intorno al I secolo a.C.
È possibile che questa raccolta sia stata motivata da due ragioni:
- una negativa, consistente nella difficoltà di accorpare questi testi ad uno degli ambiti disciplinari
dell’enciclopedia aristotelica (in questo senso “metà ta physikà” = libri che vengono dopo quelli dedicati alla
fisica);
- una positiva, riguardante il riconoscimento di una certa unità teorica (in questo senso “metà ta physikà” =
cose al di là di quelle naturali).
Il tema focale di quest’opera consiste nella ricerca della cosiddetta “filosofia prima” ed in particolare le sue
origini, il suo ambito, i suoi oggetti e il suo statuto epistemico.
In base alle assunzioni più comuni ed autorevoli, nel libro Alfa, Aristotele individua tra gli oggetti della
sapienza (così chiama a questo punto la filosofia prima) le cause e i principi primi (di cui ancora non si
conosce la natura). Inoltre questa sapienza ha alcune caratteristiche fondamentali che la rendono
prioritaria rispetto alle altre scienze, poiché è:
- Universale, nel senso che si occupa dell’essere in quanto essere (o dell’ente in quanto ente), quindi
di quelle proprietà che appartengono a tutti gli enti per il solo fatto di partecipare dell’essere;
- Divina, nel doppio senso di appartenere per eccellenza alla divinità e di avere come oggetto le cose
divine;
- Inutile, perché perseguita in vista della pura conoscenza e finalizzata a se stessa.
L’oggetto della filosofia prima consiste dunque, da un lato nei concetti generalissimi dell’essere (l’uno, i
contrari, identico/diverso…), dall’altro negli assiomi o principi comuni a tutte le scienze (principio di non-
contraddizione, del terzo escluso…). Questi assiomi o principi non possono venir dimostrati se non in
maniera indiretta a partire dall’impossibilità di sostenere la loro invalidità.
Oltre agli assiomi, tutti gli enti condividono anche il fatto di riferirsi per omonimia una determinata
partizione categoriale dell’essere. Ma tutti i sensi categoriali dell’essere sono riferiti ad un significato
primario e unitario, cioè quello di sostanza. Pertanto “essere” si può dire in senso primo e autonomo solo
della sostanza.
La scienza dell’essere in quanto essere viene così configurata come la scienza della sostanza. La teoria della
sostanza, a questo punto, dovrà porsi il problema di cosa sia propriamente la sostanza, quindi del rapporto
tra materia e forma e tra potenza e atto.
Per evitare di identificare la filosofia prima con la fisica occorre effettuare una gerarchizzazione degli strati
ontologici e dei relativi saperi. A questo proposito, in Epsilon, Aristotele afferma che gli oggetti propri della
filosofia prima, sono eterni, immobili e separati e pertanto che essa riguarda l’ambito divino, cioè il più
degno di onore. Quindi la filosofia prima guadagna un ruolo di preminenza rispetto al sapere fisico.
Allo stesso tempo, tuttavia, assegnando alla teologia lo studio di uno specifico genere di sostanze (quelle
immobili ed eterne, perché immateriali), Aristotele garantiva la condizione perché essa potesse costituirsi
come una scienza vera e propria, dotata di specifici principi e di un’organizzazione dimostrativa, (e ne
garantiva altresì l’eminenza) ma appunto per questo sembrava escludere l’universalità che aveva attribuito
alla scienza dell’essere in quanto essere.
L’identificazione della filosofia prima con la teologia e al contempo la rivendicazione della sua universalità
costituiscono un’aporia difficilmente superabile.
Michael Frede propone una soluzione che esula dal fare violenza ai testi aristotelici:
- Le sostanze divine sono pure forme sostanziali senza materia. Così come tutti i modi d’essere vanno
ricondotti a un significato primario, l’essere della sostanza, a sua volta l’essere delle sostanze fisiche
andrà ricondotto all’essere delle pure forme che costituiscono le sostanze sovrasensibili. Dunque la
teologia può venir identificata con la “metafisica generale” perché a partire dalla primarietà dei
suoi oggetti dovrà occuparsi anche dei modi d’essere che sono da essi dipendenti.
Resta il fatto che la teologia così pensata goda di scarsa unità.
Per quanto concerne, ancora, la teologia Aristotele teorizza l’esistenza del primo motore immobile nel libro
Lambda della Metafisica.
Nell’ambito generale della teoria del movimento Aristotele aveva stabilito che per ogni cosa che viene
mossa deve esserci un motore. Molti dei motori sono a loro volta mossi, ma un regresso all’infinito della
serie dei motori mossi renderebbe impensabile il movimento stesso e quindi all’inizio ci deve essere un
primo motore. Esso non può venir mosso da altro e quindi deve essere immobile. Poiché il movimento è
eterno e ininterrotto, è necessario è necessario che questo primo motore immobile sia a sua volta eterno.
Esso sarà garanzia del movimento universale e della stabilità del mondo e possiederà alcune caratteristiche
fondamentali:
- Dovrà essere inesteso, cioè privo di grandezza, perché una grandezza infinita non può esistere e
una grandezza finita non può disporre di una forza motrice infinita. [Ma come può un corpo privo di
materia muovere un corpo materiale?*]
- Dovrà essere immateriale, poiché se comprendesse la materia sarebbe in uno stato potenziale, ma
solo un motore eternamente in atto può garantire il moto continuo e incessante dell’universo.
- Il movimento impresso da questo motore dovrà consistere in una traslazione spaziale ininterrotta e
quindi dovrà avere traiettoria circolare e uniforme, perché solo questo tipo di moto non presenta
un inizio e una fine (il che prelude al moto dei cieli);
Con una brusca svolta, Aristotele passa dalla cosmologia alla descrizione della divinità (il primo motore
immobile). La vita del dio è esercizio del pensiero e questo pensiero ha come oggetto ciò che è migliore.
Dunque l’intelletto divino pensa se stesso e in questo atto intelletto e intelligibile vengono ad identificarsi.
Risulta evidente il parallelo tra il dio e il filosofo, accomunati, seppur con le dovute differenze, dall’attività
teoretica. La teologia filosofica si costituisce pertanto come monoteistica, anche se Aristotele non nega la
possibilità dell’esistenza di più motori immobili, né in via subordinata un politeismo dato dalle intelligenze
astrali. [Ma qual è il rapporto tra il primo dio e le intelligenze astrali? Che cosa pensano queste intelligenze?
Com’è possibile che un dio non sappia nulla del mondo di cui esso è causa?]
A questo punto Aristotele si chiede se la presenza del bene nel mondo sia qualcosa di immanente o di
separato e di per sé. Anche in questo caso la discussione del problema è tutt’altro che esauriente venendo
in buona parte affidata a due metafore:
- Un esercito è in buone condizioni grazie al suo ordine e grazie al generale, ma soprattutto in virtù di
quest’ultimo poiché è da esso che dipende l’ordine. Tuttavia lo scopo dello schieramento ordinato
non è il generale, ma la vittoria, se mai la causalità del generale può essere efficiente. In questo
senso il mondo non avrà altra finalità che il proprio ordine, al quale tutte le sue parti contribuiscono
nel proprio ambito.
- L’ordine unitario del cosmo può inoltre essere paragonato a quello che regna in una casa, dove tutti
cooperano per l’ordine comune.
La risposta di Aristotele comunque è chiara: il bene appartiene al mondo in entrambi i sensi, ma è
prevalente il principio trascendente.
Secondo quanto riportato da Strabone e Plutarco le opere di Aristotele subirono un periodo di oblio in
epoca ellenistica, poiché vennero nascoste da Neleo (discepolo di Teofrasto) e dai suoi discendenti finché
essi non le vendettero ad Apellicone di Teo, il quale le “restaurò” in maniera piuttosto imprecisa. La
classificazione di queste opere avvenne in epoca successiva per mano di Andronico di Rodi, dopo che le
opere furono portate a Roma da Silla dopo la sua conquista di Atene nell’ 85 a.C.
Nonostante la scarsa quantità di riferimenti ad Aristotele da parte dei filosofi in epoca ellenistica è
comunque difficile pensare che non circolassero in quel periodo anche altre copie degli scritti aristotelici
presso i filosofi peripatetici o presso la biblioteca di Alessandria.
In qualsiasi caso si può riconoscere in Andronico una figura importante sia nel processo di fissazione del
corpus sia in quello della riscoperta della filosofia aristotelica.
L’attività di studio e di interpretazione di Aristotele raggiunse il suo culmine con Alessandro di Afrodisia.
Egli ricoprì l’incarico di insegnate di filosofia aristotelica ad Atene sotto il principato della dinastia dei Severi
(visse tra il II e il III secolo). L’obiettivo dei suoi studi e insegnamenti intorno ad Aristotele consisteva nel
respingere le obiezioni mossegli, risolverne le apparenti contraddizioni e mostrare la coerenza complessiva
e la sistematicità del suo pensiero.
Lo studio di Aristotele, tuttavia, non cessò con il declino della filosofia peripatetica, ma restò punto fisso
della nuova dottrina neoplatonica. In particolare Plotino (secondo Porfirio) ricorse spesso all’utilizzo delle
teorie aristoteliche poste in forma implicita all’interno delle proprie opere nonostante mantenesse sempre
una posizione critica nei confronti di Aristotele.
Al contrario, lo stesso Porfirio (allievo di Plotino) sostenne la compatibilità fra le dottrine di Platone e quelle
di Aristotele (sosteneva ad esempio che Aristotele avesse individuato 4 delle 6 cause indicate da Platone, il
quale aggiungeva anche quella “strumentale” e quella “esemplare”).
Altra figura importante per gli studi aristotelici fu Proclo, un filosofo neoplatonico vissuto ad Atene tra il IV
e il V secolo d.C. Egli sosteneva l’utilità dello studio delle opere di Aristotele come preparatorio a quello
delle opere di Platone.
Il principale allievo di Proclo fu Ammonio (morto tra il 517 e il 526) filosofo appartenete alla scuola
alessandrina, il quale similmente al maestro prescrisse un ordine rispetto al quale devono essere studiati gli
scritti aristotelici: logica, etica, fisica, matematica e teologia.
Un altro sostenitore dell’armonia tra Platone e Aristotele fu Simplicio di Cilicia, allievo di Ammonio, il quale
sopravvisse alla fine della scuola di Atene per mano dell’imperatore Giustiniano che nel 529 emanò un
decreto che proibiva ai pagani l’insegnamento della filosofia.
Allievo di Ammonio fu anche Giovanni il Grammatico, detto Filopono (cioè “amante della fatica”). Egli si
dedicò in particolare alla critica delle opere fisiche (in contrasto con Aristotele, affermò, ad esempio, che il
mezzo all’intero del quale avviene un movimento si oppone al movimento stesso e non ne rappresenta la
causa). Inoltre respinse la dottrina dell’eternità del mondo, sostenuta sia da Aristotele sia dai suoi
commentatori neoplatonici, affermando che il mondo ha avuto inizio in una creazione dal nulla ad opera di
Dio (egli infatti fu il primo commentatore ad essere cristiano).
Infine va ricordato Boezio, filosofo vissuto a Roma tra il 475 e il 526, autore di una fondamentale traduzione
latina degli scritti aristotelici di logica.