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1.1.

Parallelismi e interdipendenze tra la storia di Dawson City e quella della pellicola


cinematografica
Dawson City nasce nel 1896. Si tratta di un insediamento creatosi in seguito alla rilevazione
di giacimenti aurei in quella zona e in pieno periodo della famosa “corsa all’oro”. La
cittadina dello Yukon ne è peraltro l’esempio più celebre, largamente presente in letteratura,
ma anche in riferimenti creati dalla cultura pop, ne sono un esempio le storie di Paperon De
Paperoni, ambientate proprio in quel luogo. A Dawson accorsero ben presto moltissime
persone e la città divenne estremamente popolosa. Tuttavia gli esordi non furono
esclusivamente positivi. Per raggiungere e trovare il luogo che sarebbe stato più adatto ad
iniziare un largo insediamento, dovettero organizzarsi moltissime spedizioni in cui si
camminava per giorni su lunghi pendii innevati e sopra lastre ghiacciate. Intraprendere un
cammino del genere cositutì una scommessa sotto molteplici punti di vista e il lungo,
difficoltoso e dispendioso cammino non era di certo l’unica. Certo, le quantità d’oro trovate
erano sostanziose abbastanza da attirare persone fin da New York, ma le possibilità che le
risorse auree si sarebbero consumate prima di poter accontentare tutti non erano da
escludere completamente. Nonostante tutte queste considerazioni, la città raggiunse ben
presto un picco di 30000 abitanti e divenne il simbolo appunto di tutto il periodo della corsa
all’oro, ospitando personalità che sarebbero in seguito divenute molto importanti non solo
per la città di Dawson ma a quanto pare anche per il cinema americano ed internazionale.
L’oro c’era e, appena due anni dopo la sua fondazione, Dawson raggiunse il suo massimo
splendore e fece arricchire moltissime persone. Sid Grauman fu il primo degli abitanti di
Dawson a lavorare nel cinema e divenne successivamente un colosso del cinema
statunitense costruendo sale famosissime come il Million Dollar, l’Egyptian ed i Grauman’s
Chinese Theaters. Celebre anche l’esito e la fortuna della parabola intrapresa da “Klondike
Kate” Rockwell” e Alex Pantages che ricostruirono l’Orpheum Theatre dopo l’incendio del
1899 e vi investirono affinché potessero noleggiare films americani inviati appositamente
per proiezioni esclusive all’Oprheum. Negli anni seguenti il nome “Pantages” sarebbe
comparso sotto i nomi delle grandi case produttive, come ad esempio RKO1, e
successivamente sarebbe stato associato a quello di uno dei primi magnati del business del

1 minuto 00:34:30 in Dawson City: Frozen Time, Bill Morrison, 2016


cinema americano, arrivando a possedere più di 70 grandi sale in tutto il territorio
nordamericano. Anche William Desmond Taylor, uno dei registi più di successo del cinema
americano della seconda metà degli anni 10, trova le sue origini in Dawson City, dove
lavorò come cronometrista fino al 1912. Fu con la scoperta di nuovi giacimenti a Nome, in
Alaska e successivamente altrove, che Dawson City iniziò a vedersi drasticamente ridotta la
propria popolazione che negli anni precedenti aveva toccato il picco dei 40000. Curioso
osservare come gradualmente, dopo lo svanire dell’entusiasmo per la corsa all’oro a causa
dell’esaurimento dei giacimenti aurei, anche gli Studios e le sale di distribuzione e
proiezione come l’Orpheum Theatre, sature del successo e delle dimensioni raggiunte negli
anni precedenti, si dimenticarono delle proprie origini e di queste pellicole. Condivisero
insomma la prosperità ma anche l’aridità e l’oblio.
1.1. “Documentare” e poetica della ri-appropriazione
Dawson City: Frozen time è fondamentalmente un film documentario. Morrison mescola
più tecniche per raccontare questa storia. Il regista si affida ad un largo utilizzo di materiale
d’archivio ma utilizza anche metraggio inedito ricavato da un’intervista condotta
appositamente per il documentario del 2016. Per capire però dove Dawson City: Frozen
Time si collochi all’interno del “genere” (sempre che esso sia identificabile come tale)
documentario, bisogna ripercorrere brevemente quella che è la percezione odierna di questo
tipo di cinematografia e quali i suoi scopi generali e perché essa sia spesso così vicina alla
pratica del “found footage”.
Innanzitutto bisogna dire che è difficile trovare una definizione universale del cinema
documentario a livello produttivo ma soprattutto anche a livello spettatoriale. Perlopiù,
secondo Bertozzi, potremmo dire che il documentario è percepito come “un’opera semplice,
appartenente ad un genere minore, scarsamente interessata agli aspetti stilistici del cinema”2.
Il motivo per cui è così difficile trovarsi a condividere una stessa idea di “documentario” è
per il fatto che ci si può aspettare cose diverse già pensandolo a livello etimologico, e a
livello di definizione si possono avere diverse pretese da qualcosa che promette di
“documentare”. Documentum ci promette una prova, una dimostrazione di ciò che il film
tratta. Si tratta di qualcosa molto più vicino al concetto di verità di quanto lo possa essere il

2Bertozzi, Marco, Documentario come arte: Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema
contemporaneo, Marsilio Editori, Venezia, 2018.
cinema narrativo che per definizione tradizionalmente chiamiamo “di finzione”. Il
potenziale a livello visivo ed estetico è in parte escluso già a livello definitorio per quanto
riguarda questo macrogenere ed è qui infatti largamente sottovalutato. Per questo si ha
spesso una concezione del documentario come lavoro compilatorio, raccoglitore di
informazioni con una pressoché massima attendibilità al reale e poco dedito ad una
sperimentazione a livello artistico sull’immagine, sull’aspetto visivo. Le immagini scelte per
finire all’interno di un documentario tradizionale, devono asservire più ad un fine
informativo che alla soddisfazione del piacere visivo. Ciò che si cerca è il parossismo della
riproduzione fotografica del reale. In questa concezione del documentario si cerca di
sfruttare al massimo la capacità della macchina da presa di catturare la natura. Per questo è
così forte il legame tra il cinema documentario e la pratica “found footage” che utilizza
materiale d’archivio. L’archivio riconosce il valore “documentale” e storico di una
fotografia e un film e cerca di conservarle per il fatto che esso costituisce una prova del
passato, per ricordare insomma, ma questo valore non risiede solo nel pallido riflesso del
reale catturato sull’emulsione. Senza considerare la valorizzazione data al supporto e al fatto
che anch’esso ci comunica un’enorme frammento di storia di quella pellicola e di quelle
immagini, il “documentario” si appropria del riflesso di quell’immagine per rimediarne e ri-
contestualizzarne il significato in un nuovo oggetto. Non è importante quello che di
quell’immagine si perda in questo processo: ll linguaggio cinematografico del montaggio
sarà affiancato da quello rassicurante delle didascalie e della voice over che semplificano il
nostro rapportarci come spettatori ad una documentazione del passato e quindi alla verità
storica o scientifica. Partendo dal presupposto che con l’avvento del digitale si ha avuto una
ridefinizione del concetto di “documento”, per il fatto che esso include ora sia componenti
fisiche che virtuali e si è dunque persa la focalizzazione sugli aspetti indicali del documento,
poiché nel secondo caso ridotti a una sequenza di 1 e 0, Jamie Baron sostiene che le
definizioni forgiate da Wees “compilation film” e “appropriation film”, come termini, siano
superabili e non rappresentino più esclusivamente una definizione negativa. Anche
Giovanna Fossati suggerisce che appropriarsi completamente di un’immagine d’archivio è
quasi impossibile per il fatto che qualsiasi sia l’uso che verrà fatto di quelle immagini, esso
non può che costituire una ricontestualizzazione. Questo perchè, soprattutto con l’avvento
del digitale, i cambiamenti a livello mediale, comunicativo e dunque di fruizione, senza
contare quelli prettamente culturali, sono stati enormi e ci allontanano in moltissimi aspetti
da quello per cui quelle immagini erano originariamente state pensate e il loro potenziale
comunicativo è enormemente cambiato. Jamie Baron in particolare sostiene che sia
possibile superare il concetto di “appropriation” così come è inteso da William C. Wees nel
saggio intitolato Recycled Images: The Art and Politics of Found Footage Films, ma anzi,
che sia possibile utilizzarlo a mo’ di manifesto di una nuova cinematografia che tenta di
stimolare nello spettatore una specifica sensibilità nei confronti dell’archivio, da lei definita
“the archive effect - a sense that certain sounds and/or images within these films come from
another time and served another function”3. Lo studio della Baron è peraltro alimentato
dalla forte prospettiva spettatoriale e dunque dalla convinzione che il commento d’archivio
“may be better understood less as a reflection of where the particular document has been
stored than as an experience of the viewer watching a film that includes or appropriates
documents that appear to come from another text or context of use”4. Secondo Baron
dunque, nel contesto mediale contemporaneo il documento d’archivio può più facilmente
essere compreso se concepito come esperienza spettatoriale piuttosto che come luogo
d’origine o di deposito del documento. Analizzando il film di Morrison invece, è possibile
vedere come entrambi questi aspetti siano fondamentali per il divenire dell’opera. Il luogo
in cui quelle immagini sono state depositate prima di finire in un archivio è estremamente
rilevante ai fini dell’opera: si tratta infatti delle pellicole del cinema muto degli anni 10
ritrovate a Dawson nel 1978 sotto un campo da hockey su ghiaccio. Esse si sono
praticamente conservate in un “archivio naturale”. Nessuna gerarchia e nessun gioco di
potere hanno influito nel sceglierle come degne di protezione. Nessun processo a livello
decisionale è stato affrontato affinché esse dovessero sopravvivere. Gli abitanti di Dawson
anzi sapevano dell’alta instabilità di queste pellicole, a causa degli incendi che li
riguardarono in prima persona e, una volta esaurita la voglia di gettarle nel fiume,
probabilmente perché considerato anche il fattore inquinante, le affidarono
fondamentalmente al caso, precludendosi dalla possibilità di rimanere vittime di altri
incendi senza però trovar loro un vero e proprio riparo sicuro. Queste pellicole dunque sono
state deliberatamente protette dalla terra sulla quale erano state abbandonate. Quello che si è

3 Baron Jamie
4 Baron Jamie, The archive effect, pag 17
instaurato tra la città di Dawson e quelle pellicole divenne una sorta di legame simbiotico in
cui un tacito accordo stabiliva che l’uno si faceva carico della custodia della memoria
dell’altro e viceversa. Il ritrovamento di queste pellicole apre infatti una sorta di vaso di
Pandora dal quale emersero moltissimi aspetti della storia di Dawson ma anche della
cinematografia americana del muto. Quelle pellicole erano infatti definibili come “reietti”:
rifiutate dagli studios perché non di fondamentale importanza ma anche dai cittadini di
Dawson City per il fatto che già troppe volte alcune pellicole al nitrato avevano causato
incendi segnando eventi tragici per la storia della cittadina. Nessuno voleva sostenere i costi
di spedizione per rimandarle agli studios, né da un capo né dall’altro. Queste pellicole erano
già cariche di energia negativa, data da traumi che avevano a che fare con la paura e
l’abbandono. Energia che non si è completamente esaurita nemmeno dopo tanti anni e che le
ha precluse dall’essere destinate ad un tour internazionale ipotizzato per il 1980 durante il
quale archivisti e cinefili competenti in tutto il mondo avrebbero potuto ammirarle. Tanta
era l’attenzione che questo episodio aveva ricevuto e regalato al mondo del restauro e della
preservazione come istituzione: si trattava infatti perlopiù di pezzi unici5 ma i film non
erano famosi abbastanza da pensare che potesse valere la pena investire in un’esperienza del
genere. Ancora una volta esse furono rifiutate a causa di un calcolo dei profitti al quale si
aggiunse questa volta, una scarsa considerazione del corpo di quelle immagini. L’attenzione
e la motivazione per cui questo famoso episodio poi non riuscì a sfondare i confini
nazionali, è da ricondurre ad una sorta di gerarchia nella quale ciò che esse rappresentano
corrisponde più all’intenzione narrativa originaria che all’hic et nunc della pellicola,
considerando anche le condizioni dell’immagine ora ed il supporto. A farle uscire
dall’archivio e restituirle ad un pubblico più vasto che possa apprezzarle è Bill Morrison
che, ci dimostra quanto esse possano effettivamente comunicarci pur senza essere di una
rilevanza elettiva per il cinema narrativo americano degli anni del muto. Fondamentale è il
fatto che egli riconosce e successivamente rende materializzabile all’interno del film, il
rapporto di necessità e continuità tra il luogo raccontato e la storia del cinema muto di
quegli anni, per la quale questo ritrovamento fu senz’altro fondamentale. Nonostante a
livello narrativo il rapporto tra i mondi finzionali all’interno di quei film degli anni dieci e la

5 Slide, Anthony, Nitrate Won’t Wait, MacFarland, Jefferson, 2000, pag 99


storia della cittadina di Dawson non contenga nessuna corrispondenza immediata, Morrison
ci dimostra che, cercandola, essa esiste. Molte immagini tratte da quelle bobine finiscono
infatti per trovare perfetta corrispondenza con le didascalie che ci narrano le peripezie e i
traguardi dei pionieri e gli abitanti di Dawson. Le molteplici sequenze di gioco d’azzardo,
intorno al minuto 00:28:34, tratte da film come Until We Three Meet Again (1913), The Half
Breed (1916), The Bludgeon (1915) e The Recoil (1917) sono ottime infatti a dimostrare
quale fosse il clima all’interno dei locali dove si poteva giocare d’azzardo e come esso
costituisse effettivamente l’attrazione di maggior successo per gli abitanti della cittadina.
Quello che questo documentario fa dunque di significativo è restituire il diritto alla “parola”
a queste immagini evitando loro il mesto destino dell’essere relegate in archivio e aver solo
potuto sperare di uscirne per essere scoperte da restauratori, cineasti interessati al “found
footage”, ma anche a semplici cinefili consapevoli delle potenzialità critiche e di
sperimentazione sul visuale che questo tipo di cinematografia può permettersi. A Dawson
City e a queste pellicole viene inoltre restituita la notorietà dovuta e il potenziale
comunicativo latente che furono oppressi e solo sognati prima che entrambe entrassero in
letargo, l’una con la fine della “febbre dell’oro” e le altre in seguito al loro abbandono.
Dawson City torna in possesso dei suoi strumenti più significativi, e allo stesso tempo quelli
che teme di più, per poter parlare dei propri traumi, legati proprio al materiale con il quale
ce lo comunica. Si riappropria così degli eventi più difficili della propria vita e ne rinasce
consapevole di aver superato le proprie idiosincrasie e rispolverando il suo passato luminoso
come una fenice che risorge dalle proprie ceneri. Ecco che per questo documentario è
possibile parlare di una “poetica della ri-appropriazione” che concepisce un film,
individuabile sì come nato da riutilizzo di materiale d’archivio, perché così percepito dallo
spettatore, ma che torna anche in possesso di un legame inscindibile e materiale tra la terra
protagonista della narrazione e il corpo filmico da essa protetto.

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