2Bertozzi, Marco, Documentario come arte: Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema
contemporaneo, Marsilio Editori, Venezia, 2018.
cinema narrativo che per definizione tradizionalmente chiamiamo “di finzione”. Il
potenziale a livello visivo ed estetico è in parte escluso già a livello definitorio per quanto
riguarda questo macrogenere ed è qui infatti largamente sottovalutato. Per questo si ha
spesso una concezione del documentario come lavoro compilatorio, raccoglitore di
informazioni con una pressoché massima attendibilità al reale e poco dedito ad una
sperimentazione a livello artistico sull’immagine, sull’aspetto visivo. Le immagini scelte per
finire all’interno di un documentario tradizionale, devono asservire più ad un fine
informativo che alla soddisfazione del piacere visivo. Ciò che si cerca è il parossismo della
riproduzione fotografica del reale. In questa concezione del documentario si cerca di
sfruttare al massimo la capacità della macchina da presa di catturare la natura. Per questo è
così forte il legame tra il cinema documentario e la pratica “found footage” che utilizza
materiale d’archivio. L’archivio riconosce il valore “documentale” e storico di una
fotografia e un film e cerca di conservarle per il fatto che esso costituisce una prova del
passato, per ricordare insomma, ma questo valore non risiede solo nel pallido riflesso del
reale catturato sull’emulsione. Senza considerare la valorizzazione data al supporto e al fatto
che anch’esso ci comunica un’enorme frammento di storia di quella pellicola e di quelle
immagini, il “documentario” si appropria del riflesso di quell’immagine per rimediarne e ri-
contestualizzarne il significato in un nuovo oggetto. Non è importante quello che di
quell’immagine si perda in questo processo: ll linguaggio cinematografico del montaggio
sarà affiancato da quello rassicurante delle didascalie e della voice over che semplificano il
nostro rapportarci come spettatori ad una documentazione del passato e quindi alla verità
storica o scientifica. Partendo dal presupposto che con l’avvento del digitale si ha avuto una
ridefinizione del concetto di “documento”, per il fatto che esso include ora sia componenti
fisiche che virtuali e si è dunque persa la focalizzazione sugli aspetti indicali del documento,
poiché nel secondo caso ridotti a una sequenza di 1 e 0, Jamie Baron sostiene che le
definizioni forgiate da Wees “compilation film” e “appropriation film”, come termini, siano
superabili e non rappresentino più esclusivamente una definizione negativa. Anche
Giovanna Fossati suggerisce che appropriarsi completamente di un’immagine d’archivio è
quasi impossibile per il fatto che qualsiasi sia l’uso che verrà fatto di quelle immagini, esso
non può che costituire una ricontestualizzazione. Questo perchè, soprattutto con l’avvento
del digitale, i cambiamenti a livello mediale, comunicativo e dunque di fruizione, senza
contare quelli prettamente culturali, sono stati enormi e ci allontanano in moltissimi aspetti
da quello per cui quelle immagini erano originariamente state pensate e il loro potenziale
comunicativo è enormemente cambiato. Jamie Baron in particolare sostiene che sia
possibile superare il concetto di “appropriation” così come è inteso da William C. Wees nel
saggio intitolato Recycled Images: The Art and Politics of Found Footage Films, ma anzi,
che sia possibile utilizzarlo a mo’ di manifesto di una nuova cinematografia che tenta di
stimolare nello spettatore una specifica sensibilità nei confronti dell’archivio, da lei definita
“the archive effect - a sense that certain sounds and/or images within these films come from
another time and served another function”3. Lo studio della Baron è peraltro alimentato
dalla forte prospettiva spettatoriale e dunque dalla convinzione che il commento d’archivio
“may be better understood less as a reflection of where the particular document has been
stored than as an experience of the viewer watching a film that includes or appropriates
documents that appear to come from another text or context of use”4. Secondo Baron
dunque, nel contesto mediale contemporaneo il documento d’archivio può più facilmente
essere compreso se concepito come esperienza spettatoriale piuttosto che come luogo
d’origine o di deposito del documento. Analizzando il film di Morrison invece, è possibile
vedere come entrambi questi aspetti siano fondamentali per il divenire dell’opera. Il luogo
in cui quelle immagini sono state depositate prima di finire in un archivio è estremamente
rilevante ai fini dell’opera: si tratta infatti delle pellicole del cinema muto degli anni 10
ritrovate a Dawson nel 1978 sotto un campo da hockey su ghiaccio. Esse si sono
praticamente conservate in un “archivio naturale”. Nessuna gerarchia e nessun gioco di
potere hanno influito nel sceglierle come degne di protezione. Nessun processo a livello
decisionale è stato affrontato affinché esse dovessero sopravvivere. Gli abitanti di Dawson
anzi sapevano dell’alta instabilità di queste pellicole, a causa degli incendi che li
riguardarono in prima persona e, una volta esaurita la voglia di gettarle nel fiume,
probabilmente perché considerato anche il fattore inquinante, le affidarono
fondamentalmente al caso, precludendosi dalla possibilità di rimanere vittime di altri
incendi senza però trovar loro un vero e proprio riparo sicuro. Queste pellicole dunque sono
state deliberatamente protette dalla terra sulla quale erano state abbandonate. Quello che si è
3 Baron Jamie
4 Baron Jamie, The archive effect, pag 17
instaurato tra la città di Dawson e quelle pellicole divenne una sorta di legame simbiotico in
cui un tacito accordo stabiliva che l’uno si faceva carico della custodia della memoria
dell’altro e viceversa. Il ritrovamento di queste pellicole apre infatti una sorta di vaso di
Pandora dal quale emersero moltissimi aspetti della storia di Dawson ma anche della
cinematografia americana del muto. Quelle pellicole erano infatti definibili come “reietti”:
rifiutate dagli studios perché non di fondamentale importanza ma anche dai cittadini di
Dawson City per il fatto che già troppe volte alcune pellicole al nitrato avevano causato
incendi segnando eventi tragici per la storia della cittadina. Nessuno voleva sostenere i costi
di spedizione per rimandarle agli studios, né da un capo né dall’altro. Queste pellicole erano
già cariche di energia negativa, data da traumi che avevano a che fare con la paura e
l’abbandono. Energia che non si è completamente esaurita nemmeno dopo tanti anni e che le
ha precluse dall’essere destinate ad un tour internazionale ipotizzato per il 1980 durante il
quale archivisti e cinefili competenti in tutto il mondo avrebbero potuto ammirarle. Tanta
era l’attenzione che questo episodio aveva ricevuto e regalato al mondo del restauro e della
preservazione come istituzione: si trattava infatti perlopiù di pezzi unici5 ma i film non
erano famosi abbastanza da pensare che potesse valere la pena investire in un’esperienza del
genere. Ancora una volta esse furono rifiutate a causa di un calcolo dei profitti al quale si
aggiunse questa volta, una scarsa considerazione del corpo di quelle immagini. L’attenzione
e la motivazione per cui questo famoso episodio poi non riuscì a sfondare i confini
nazionali, è da ricondurre ad una sorta di gerarchia nella quale ciò che esse rappresentano
corrisponde più all’intenzione narrativa originaria che all’hic et nunc della pellicola,
considerando anche le condizioni dell’immagine ora ed il supporto. A farle uscire
dall’archivio e restituirle ad un pubblico più vasto che possa apprezzarle è Bill Morrison
che, ci dimostra quanto esse possano effettivamente comunicarci pur senza essere di una
rilevanza elettiva per il cinema narrativo americano degli anni del muto. Fondamentale è il
fatto che egli riconosce e successivamente rende materializzabile all’interno del film, il
rapporto di necessità e continuità tra il luogo raccontato e la storia del cinema muto di
quegli anni, per la quale questo ritrovamento fu senz’altro fondamentale. Nonostante a
livello narrativo il rapporto tra i mondi finzionali all’interno di quei film degli anni dieci e la