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Decasia: ruderi e fantasmi cinematografici e la loro manifestazione

Come abbiamo già avuto modo di vedere nel capitolo precedente, il rapporto che si
instaura tra il regista e il materiale d’archivio che viene successivamente utilizzato
condiziona profondamente l’opera che ne deriva.
Quando è il regista a mettersi al servizio dell’opera e delle immagini con le quali viene
a contatto, il risultato potrebbe essere di tipo diverso e apprezzabile in quella che
potremmo percepire come un’aura1 molto diversa. Considerare un’immagine come il
risultato di un processo e allo stesso tempo il processo stesso, ci permette di lasciare
immacolata la “traccia” del passaggio del tempo e della materia, proprio a livello
organico, ovvero considerando la pellicola viva a tutti gli effetti. L’immagine è, in
quest’ottica, un divenire che coinvolge anche la propria componente materiale, il
proprio corpo, la pellicola. Premessa necessaria al percorso che faremo all’interno di
Decasia, opera multimediale nata dalla collaborazione tra il compositore Michael
Gordon e il regista Bill Morrison, è che la parte “visibile" di questo progetto deriva
interamente da archivi contenenti immagini originariamente appartenenti a “girati” su
pellicole al nitrato. Alcune presenti ancora sul loro “corpo” originale, altre ora esistenti
solo su delle copie. Questa particolare contingenza e il fatto che Morrison volesse
incentrarlo sul tema del decadimento hanno permesso di avere immagini letteralmente
“in rovina”, con diversi gradi di disfacimento. Le forze in gioco che si riversano su di
una stessa immagine sono molto di più di quelle esclusivamente riconducibili
all’artificio dell’uomo che ha fermato l’immagine originale, (letteralmente inteso), di
colui che l’ha rifotografata successivamente nel tentativo di preservarla o di Morrison
che le ha montate insieme a molte altre in uno stesso film. In ogni determinata
immagine che scorre sullo schermo, ciò che è leggibile2 intrattiene costantemente un
dialogo con ciò che non lo è, creando un nuovo insieme di significati e facendoci porre
in secondo piano la necessità di scoprire ciò che manca a quell’immagine. Al punto
che “mancanza” smette di essere il termine adatto a descrivere tutto ciò. Il genio di

1 intesa come intensità con la quale un’opera riesce ad investire i nostri sensi
2 ovvero che percepiamo come parte dell’immagine che non è stata consumata e rovinata dal tempo
Decasia è nell’ottenere tale esperienza spettatoriale con una meticolosa ricerca delle
immagini giuste, fatto al quale si aggiunge per altro la mai piena consapevolezza del
limite tra artificio e natura. Decasia non contiene effetti speciali ma è legittimo
domandarsi cosa si stia effettivamente guardando. Lo stesso Morrison confessa che
alle mostre e ai festival che ospitarono la loro opera, era diventato comune che, dopo
la proiezione, si avvicinassero a lui persone interessate a sapere come fossero stati
ottenuti quegli effetti, arrivando perfino a supporre l’ideazione di un qualche plug-in
per riprodurli3. A darci la misura di quanto magia e artificio siano coinvolti in
quest’opera, e in che percentuali, è possibile catapultarci al minuto 35:52 di Decasia
per osservare come la nitida immagine di un cosiddetto boxeur sia intento a scagliare
colpi contro quello che idealmente dovrebbe essere un sacco da boxe, ma che viene
invece sostituito da un ammasso informe di grigio e nero dai lineamenti indefiniti e
sempre in mutamento. La lotta persiste fino a quando i colpi dello sportivo sembrano
quasi avere un effetto nel far regredire quest’entità disturbatrice anche se poi, alla fine,
essa si impossessa di tutto lo schermo, pronunciando l’inevitabilità della morte, ma in
un modo silente, senza che l’attenzione ricada effettivamente sulla componente
inesorabile che è l’esito di questo.
Il lavoro di Morrison in Decasia è volto a restituirci questo fenomeno al limite tra la
magia e ciò che ci è possibile comprendere affidandoci alle leggi della fisica. Come già
visto, l’emulsione sulla pellicola si corrode e si cancella proprio come tutta la materia
che prima o poi si annulla. Ma cos’è che fa sì che si instauri un dialogo tra l’immagine
e ciò che tenta di distruggerla? Ciò che è davvero incredibile e al quale è possible
assistere mentre si guarda Decasia è come nelle singole scene al suo interno si creino
diverse diegesi del decadimento, piccoli microcosmi interni al film, in cui anche il
cammino verso la morte diventa una storia da raccontare. Immobilizzati alla sedia,
anche se in uno stato di continua tensione interiore al quale contribuiscono senz’altro i
toni ansiogeni della musica composta da Gordon, vediamo anche creazione e vita, non
solo distruzione ma queste due forze opposte sono continuamente in lotta e agiscono

3 B. MORRISON, a cura di André Habib, Matter and Memory: A conversation with Bill Morrison, in
https://offscreen.com/view/morrison2, alt.cons. 31 maggio 2021.
costantemente nel tentativo di prevaricare sul proprio opposto, non lasciandoci mai
una tregua. Su pellicole di negativo possiamo assistere ad una nascita, immagini di
maieutica, letteralmente un bambino che compare tra le mani di un’ostetrica. Su altre
scene invece vediamo persone costantemente in movimento, le vediamo sorridere, le
vediamo uscire da acque e antri minacciosi e le vediamo persino battezzarsi. In
particolare quest’ultima scena alimenta richiami ad atmosfere distopiche. A livello
percettivo si è infatti dentro un mondo quasi onirico, dove il continuo ripetersi
dell’immaginario della “rovina” ci fa perdere completamente la concezione del tempo.
Tutt’intorno il mondo sta cadendo a pezzi. Le figure all’interno di questa scena
decidono dunque di lanciarsi in un ultimo tentativo per aspirare alla salvezza, quella
“oltre” la vita perlomeno, facendoci rivivere una sorta di “Giubileo" del nitrato. Essi si
preoccupano di salvare le proprie anime a prescindere dal destino riservato alla
“carne” così come chi si occupa di proteggere il contenuto di queste delicate pellicole
spera di poter fare trasferendole su supporti più moderni, oggi prevalentemente il
formato video digitale. Entrambi questi processi sono considerabili praticamente una
scommessa e per quanto riguarda l’anima delle immagini, guardando Decasia è
difficile dire che la manifestazione di quest’anima, se non essa stessa, riesca a
prescindere dal suo corpo.
3.2. Articolazione della narrazione su spazio, tempo e memoria.
In Decasia, le diegesi si sovrappongono continuamente e si interconnettono. La
narrazione che l’immagine originale portava con sé si mescola al racconto della sua
più o meno lenta scomparsa, che a sua volta entra in contatto con tante altre immagini
con le quali condividono lo stesso destino. Nasce così una nuova narrazione nella
quale epilogo e prologo si confondono esasperando la durata dell’intera vicenda.
Questa fusione si verifica su più piani temporali: quello vero e proprio dell’opera,
identificabile con l’intervallo di tempo che corre tra l’inizio della proiezione4 e il
momento della sua fine, poi quello di ogni singola scena al suo interno e della loro
rispettiva durata. Inizio e fine si confondono continuamente poiché per ogni volta che

4o del momento in cui si schiaccia play poiché tecnicamente stiamo parlando di riproduzioni da
Digital Versatile Video o file multimediali riprodotti su dei computer
qualcosa scompare dallo schermo, inglobato dalla forza distruttrice del nulla, a volte
identificabile con il colore nero5, altre con la totale o parziale dissoluzione
dell’emulsione che cattura la luce e regge l’immagine, qualcos’altro successivamente
ne nasce. Questa confusione sul piano temporale è data anche dall’impossibilità di
collocare precisamente nel tempo le immagini che vediamo sullo schermo. A
peggiorare questa sensazione di spaesamento incorre inoltre il fatto che molte delle
scene scelte da Morrison sono state rallentate rifotografando a volte lo stesso
fotogramma per esasperare gli intervalli tra di essi e di conseguenza la durata dei
movimenti delle figure sullo schermo. Ciò contribuisce ad alimentare l’atmosfera già
onirica data dalla dura prova alla quale vengono costantemente sottoposti vista e udito.
Per quanto si è consapevoli che si sta assistendo a qualcosa di rappresentato e per di
più, gravemente danneggiato, non si può fare a meno di provare una sorta di
frustrazione a livello sensoriale, sia visivo, sia uditivo soprattutto. Questo continuo
servirci immagini vecchie e appartenenti al passato, provoca inoltre una sensazione
quasi di dejà-vu. Elementi simili infatti ricorrono all’interno del film e si accomunano
grazie al movimento circolatorio: dei rulli in un laboratorio di pellicole, una giostra, e
un danzatore che vediamo sia all’inizio, al centro, che a chiusura di tutta l’opera. La
stessa composizione di Gordon raggiunge un picco verso la metà del film e poi inverte
in qualche modo la rotta ripercorrendo a ritroso i toni e i colori della prima metà,
seguendo peraltro le immagini in parallelo. Tornando al deja vu, possiamo dire che
comunque il film di Morrison gioca tantissimo sulla memoria. Questa affermazione ha
senso in particolare se letta all’interno di quest’opera. La memoria va innanzitutto
esercitata su un piano interno al film: più elementi simili o identici la ripercorrono.
Inoltre, anche se essa non costituisce nello specifico un appello all’importanza del
lavoro di restauro e preservazione, senza questi valori e a senso di responsabilità nei
confronti del patrimonio filmico, Decasia non potrebbe esistere.

5fin dagli albori del cinema narrativo riconducibile nel linguaggio cinematografico alla chiusura di
una qualche sezione…
3.3. L’Archeologo e lo Sciamano
Se a parlare dovessero essere le lastre fotografiche e le pellicole, rimaste sepolte per
vari decenni e anche in circostanze burrascose, senza l’ego del regista a porsi come
Demiurgo con un’istanza di necessità, chi dice che non possano determinarsi le logiche
di causa ed effetto che normalmente donano senso ad un discorso? Chi dice che non
possa esistere ordine in quello che nasce dal Caos?
Il primo a sublimare questi quesiti è stato probabilmente Ken Jacobs che, dotandosi di
utilitaria e mente libera invece che di Jeep quattroruote e trowels varie, si recò in un
piccolo negozio di New York dove, rovistando tra vecchi oggetti, acquistò per pochi
spicci un intero rullo di pellicola, quello che divenne poi il suo Perfect Film: un’opera
che costituisce il grado zero del riuso d’archivio6. Quest’opera è di fatto pubblicata
come è stata trovata dal noto regista sperimentale americano. Costituita da scarti di
rulli girati per servizi televisivi su Malcolm X, questo metraggio inutilizzato era stato
però salvato da qualche addetto che non riuscì a credere che meritassero di finire
nell’immondizia. Furono dunque incollati tra loro e conservati. Ken Jacobs da
un’enorme importanza alla componente caotica che contribuisce al divenire del suo
Perfect Film. Capisce subito che la pellicola si è autodeterminata e non necessita
nessun tipo di azione di taglio o montaggio. Il paragone quasi parodico alla Indiana
Jones fatto prima con gli strumenti tipici dell’archeologo è stato suggestionato
principalmente dal suo richiamo ad un’idea dell’archeologo che è fondamentalmente
uno storico ma che vede anche l’oggetto come dotato di vita propria e che si ritrova
quasi sempre ad avere a che fare con del sovrannaturale. Non a caso Harry Kreisler
definì Ken Jacobs “a worshipper of film frame by frame” in un’ intervista fatta per
l’Università della California7. Effettivamente tale definizione ben rispecchia un tipo di
lavoro così vicino all’oggetto filmico e che poco ha a che fare con la consumazione di
lungometraggi così come nell’era delle multisale e delle grandi produzioni la

6Marco Bertozzi, Recycled Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Venezia, Marsilio Editori,
2012, pag. 40.
7HARRY KREISLER, Conversations with History: Ken Jacobs, in “https://www.youtube.com/watch?
v=CEVss-csGF8", ult. cons. 20 maggio 2021.
conosciamo. Tale definizione rispecchia sia il rispetto per il materiale delicato volto
alla perfetta preservazione sia un rispetto meno definibile e rivolto a ciò che non si
manifesta a livello materiale, ad una sorta di “anima” della pellicola, quella che ci fa
chiedere come possa instaurarsi in modo del tutto naturale una dialettica così viva e
così puntuale tale da generare fenomeni come quelli della “decomposizione” che ci
parla nella scena del boxeur in Decasia.
Nonostante questo Bill Morrison è molto meno associabile alla figura dell’archeologo.
Lo scavare e lo spolverare li lascia ad esperti restauratori e conservatori di pellicole e
quando “si trova davanti”8 i rulli di pellicole al nitrato che andranno a comporre il suo
Decasia non pensa nemmeno per un attimo a lasciarli così come li ha trovati. Il suo
non è semplicemente un manifesto che sbandiera l’importanza di preservare il
patrimonio filmico. Ai suoi occhi è senz’altro miracoloso che quelle immagini abbiano
percorso tutta quella strada per finire poi nelle sue mani. La sua volontà è comunque
quella di lasciarle parlare ma, a differenza dell’esempio fatto precedentemente con
Perfect Film di Jacobs, si chiede se sia necessario interrogarle. Il fatto che il corpo di
queste anime abbia resistito ad incendi e alla decadenza data dal tempo ma non si sia
completamente annullato li carica quasi di un’energia sovrannaturale. La
fenomenologia di questi corpi, diventa all’improvviso più interessante del loro
significato originario per Morrison: essi sono destinati ad un tempo finito ma
ambiscono all’immortalità. Il loro destino è troppo simile a quello dell’essere umano
che le crea ed è infatti da questo parallelismo che nasce Decasia. Le immagini e le
intenzioni originariamente incise su queste pellicole non impediscono alla pellicola
stessa di assumere vita propria e decidere come raccontarsi col passare degli anni. Le
emulsioni presenti sembrano scegliere cosa sia necessario continuare ad affermare e
cosa invece negare del proprio passato ogni volta che si presenta una situazione con
circostanze mutate, proprio come una persona che fa i conti con il proprio passato. Al
pari di uno sciamano che inizia un rituale attorno a pochi eletti rovistando tra le ceneri

8 in realtà non ebbe la possibilità di lavorare a diretto contatto con le originali e tanto delicate quanto
pericolose pellicole al nitrato per questa produzione, e tantomeno avrebbe potuto farlo in casa poiché è
illegale maneggiare questi materiali al di fuori dei laboratori. In questa occasione si limitò ad inviare
copie video con le immagini cronometrate di quello che gli interessava e ricevendole già rifotografate.
di un falò, egli evoca le immagini secondo lui più significative. Le immagini parlano
da sole ma è Morrison ad evocarle. Nasce dunque Decasia, dove le immagini
sembrano combattere contro la morte e la sparizione proprio come l’essere umano.
Questo film tratta della coscienza della pellicola. Essa parallelamente e ugualmente
all’essere umano sviluppa e si adatta alle nuove circostanze forgiando il suo carattere e
sceglie cosa raccontare di sé e come farlo. Diciamo però che tutto ciò fatica a sorgere
ad una prima lettura di quest’opera che tra l’altro nasce come progetto musicale e poi
come progetto multimediale prima ancora di divenire anche un’opera cinematografica.
È infatti nel 2001 che la Basel Sinfonietta e l’Europäischer Musikmonat
commissionano un progetto al compositore Michael Gordon. In seguito decideranno di
renderlo un progetto multimediale così da avere immagini da proiettare durante
l’esibizione. Per questo sarà anche contattato il Ridge Theater e con esso Bill
Morrison. A rendere questo racconto alquanto singolare si aggiunge il fatto che
Morrison stesse lavorando ormai da mesi in archivi di pellicole al nitrato cercando
specificatamente quelle che non erano rimaste perfettamente intatte ma anzi che
portassero i segni del tempo. L’idea del progetto e la possibilità di indirizzarla verso il
tema della decomposizione, si fece alquanto interessante per lui. Parlando con Gordon
poi di come dovessero procedere, Morrison propose di procedere seguendo questo
connubio di “decay” e “fantasia”9 e, mostrando le immagini reperite fino a quel
momento, diede l’ispirazione che portò Gordon a finire la sua “Symphony of Decay”.

9 titolo originale del progetto peraltro, precedentemente stabilito dalla Basel Sinfonietta

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