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FEDRO

Il genere della favola nacque come elaborazione letteraria di antiche tradizioni popolari
tramandate oralmente; in particolare il primo a legare il suo nome a tale genere fu Esopo,
scrittore greco vissuto nel VI secolo a.C, di cui si hanno poche informazioni riguardo la
vita; nato in Frigia, fece lo schiavo a Samo.

Le sue favole, redatte in varie edizioni anche in epoche differenti, sono caratterizzate da uno
stile breve ed essenziale, ma soprattutto da una breve morale, tramite cui si evince
l’intento principale dell’autore: mettere in luce satiricamente pregi e difetti dell’uomo; non
vi era, però, la volontà di osservare l’umanità collocandola in un contesto storico ben
definito, piuttosto quella di analizzare generalmente gli uomini e i loro comportamenti
davanti determinate situazioni.
I personaggi sono di solito animali che hanno caratteristiche umane e/o divine, talvolta
anche piante.

Il genere fiabesco ritorna nella letteratura latina con Fedro.


Nato in Macedonia, giunse a Roma molto probabilmente come schiavo per poi essere
affrancato, grazie alla sua cultura, dall’imperatore, per dedicarsi successivamente
all’insegnamento. Si può dunque supporre che la sua produzione abbia avuto origine proprio
dall’esercizio della sua professione, in quanto le favole, sia in Grecia sia a Roma, erano
comunemente adoperate come libri di testo nelle scuole.

In particolare ci sono pervenuti 100 componimenti tra favole, prologhi ed epiloghi,


contenuti in cinque libri in versi, le Fabulae, mentre un’altra trentina di favole è contenuta
nella cosiddetta Appendix Perottina.

Fedro, però, non si considera un passivo imitatore di Esopo, come esprime nel prologo del
terzo libro, affermando: “Ego porro illius semita feci viam et cogitavi plura quam
reliquerat”, ovvero “Io, quel sentiero, l'ho poi fatto diventare una strada e ho ideato più
storie di quante lui non ne abbia lasciate”.
Dunque se Esopo è l’auctor del genere, Fedro è colui che l’ha rielaborato, modificato e
perfezionato donandogli dignità letteraria e artistica.
In particolare le novità introdotte consistevano
➢ nella sostituzione dell’esametro con i senari giambici, i versi tipici delle parti
dialogate delle commedie, genere con cui la favola ha in comune l’intento di divertire
il pubblico, nonché il carattere realistico e umile delle situazioni.
➢ l'aggiunta di contenuti ricavati dal patrimonio tradizionale delle favole d’attualità,
dell’aneddotica (un esiguo numero di componimenti è basato su aneddoti storici di
ambientazione romana) e delle fabulae milesiae (vi sono anche storielle realistiche,
come quella della vedova e del soldato, la cui trama corrisponde alla novella della
matrona di Efeso narrata nel Satyricon di Petronio).

Tra i capisaldi della poetica fedriana si hanno, inoltre, la varietas, da cui può trarre diletto il
lettore, e la brevitas, da intendere come la capacità di condensare i contenuti narrativi e gli
insegnamenti morali, così da ottenere l’attenzione e il consenso dei lettori grazie proprio alla
stringatezza e alla tensione stilistica.

L’autore, però, non fu apprezzato dai contemporanei, restando ai margini del panorama
culturale del tempo. Seneca, in particolare, lo ignorò completamente definendo la favola
“un’impresa non ancora tentata dagli ingegni romani”.

Fedro affermava che le favole sono state inventate dagli schiavi, come unico modo di
esprimersi liberamente senza essere puniti, risultando quindi “la voce di chi non ha
voce”.

I protagonisti delle favole sono per lo più animali parlanti, seppure in concordanza con il
principio della varietas, nel passaggio dal libro I ai successivi, si anche ha l’introduzione di
personaggi umani, mitologici e storici.

La sua produzione, in particolare, è legata all’ambiente e alla situazione dell’età post–


augustea, in cui era evidente una profonda spaccatura tra il mondo dei potenti e dei
prepotenti e quello degli umili e degli oppressi. Il mondo favolistico di Fedro si caratterizza,
dunque, per la rappresentazione della società umana, dei suoi vizi, dei suoi errori e dei
suoi difetti.
Per questi motivi anche gli animali sono distinti in due categorie: da un lato i violenti,
dall’altro le vittime, coloro che le violenze le subiscono o devono nasconderle.

Celebre è la favola del lupo e dell’agnello, in cui vengono rappresentate l’arroganza e la


malvagità contro l’innocenza e la non-violenza. Questa termina con una breve spiegazione
del significato allegorico: se i deboli desiderano sopravvivere devono cercare nella prudenza
e nell’astuzia i mezzi per difendersi dall’ingiustizia e dalla prepotenza, imparando a stare al
loro posto.

Quello dimostrato da Fedro è quindi un atteggiamento disincantato, espressione di una


saggezza popolare che nasce dal buon senso e dall’esperienza. Ne è esempio la favola che
vede come protagonista un asino, espressione della povera gente, in cui l’autore deplora il
male ma lo ritiene inevitabile e non si illude di potervi porre rimedio.
Fedro sposa dunque pienamente la visione del mondo di derivazione esopica, ma presenta
anche spunti di derivazione diatribica, tra cui spicca la considerazione della libertà come
il bene più prezioso.
Nelle favole non emerge un atteggiamente propriamente satirico, ossia aggressivo e
pungente, ma l’intento moralistico e pedagogico sembra rivolto contro i difetti e gli errori
umani, piuttosto che contro i singoli individui. La morale che si ricava è infatti piuttosto
amara e pessimistica, ma anche rassegnata, basata sulla legge del più forte.

Si può dunque affermare che le finalità, così come dichiarato dallo stesso autore nel prologo
del libro I, siano quelle di divertire ma anche di ammaestrare.

Un altro aspetto del mondo favolistico di Fedro è la connotazione socio–politica di certi


componimenti, che si può cogliere in quelle favole in cui il potere politico, violento e
oppressivo, è preso di mira da parte del poeta che non risparmia frecciate e allusioni
malevoli, a volte neanche troppo velate, nei confronti dell’imperatore e di Seiano, politico
romano, nonché confidente dell'imperatore Tiberio, da cui fu perseguitato, processato e
condannato con un’accusa pretestuosa.
Tuttavia la sua favola non è connotata da violenza aggressiva contro persone identificabili
(egli obbedisce a un principio tipico della filosofia popolare dell’umile: “si dice il peccato e
non il peccatore”), per cui è vana ogni fatica di individuare personaggi precisi.

Anche autori vissuti in un’epoca più vicina alla nostra sono stati influenzati dallo stile di
Esopo e di Fedro, come ad esempio Carlo Alberto Salustri, più comunemente noto con lo
pseudonimo di Trilussa (anagramma del cognome), autore di un gran numero di poesie in
dialetto romanesco, alcune delle quali in forma di sonetti.

Il dialetto usato da Trilussa è limato, molto vicino all'italiano, come d'altronde veniva
parlato in quegli anni per via dell’innalzamento del livello culturale medio della
popolazione successivo alla caduta dello Stato Pontificio.
Per questo motivo Trilussa ricevette anche critiche da alcuni poeti dialettali più "puristi" del
suo tempo.

Caratteristica fondamentale delle sue opere sono gli animali che danno vita a divertenti
situazioni che mettono in ridicolo i molti vizi e difetti dell'uomo.

Tuttavia nonostante l’autore fosse immerso nella realtà politica del suo tempo, rimase
sempre un po’ distante da essa: era colui che dava voce alla classe operaia mentre amava
frequentare salotti e teatri.

Come gli altri favolisti, anche lui insegnò o suggerì, ma la sua morale non fu mai generica e
vaga, bensì legata ai commenti, quasi in tempo reale, dei fatti della vita. Non si accontentò
della felice trovata finale, perseguì il gusto del divertimento per sé stesso già durante la
stesura del testo e, ovviamente, quello del lettore a cui il prodotto veniva indirizzato.
LA PROSA TECNICA
Fioriscono le discipline tecniche, verso cui si aveva avuto un occhio di riguardo anche nelle
età di Cesare e di Augusto; questo va di pari passo con l’affermarsi della prosa tecnica, le
cui opere sono caratterizzate da un’impostazione enciclopedica, ovvero la tendenza a
raccogliere le nozioni relative ai più importanti campi dello scibile e ad esporle in modo
sistematico all’interno di grandi opere articolare per materie, e lo stile elaborato,
proponendosi uno scopo didascalico e divulgativo.
Vi sono esempi di trattati di grammatica, di agricoltura, di culinaria (Apicio), di medicina
(Celso), di geografia (Pomponio Mela).

APICIO
Sotto il nome di Apicio, cuoco famosissimo, è giunto fino a noi un tipico esempio di opera
puramente tecnica: il ricettario gastronomico De re coquinaria (“Gastronomia”), che
costituisce un interessante documento dell’elaborata e raffinata arte culinaria, nonché
l’alimentazione romana di età imperiale.

CELSO
Aulo Cornelio Celso visse nel periodo in cui era imperatore Tiberio e fu autore di
un'imponente opera enciclopedica. Nelle sue Artes (traduzione del greco téchne,
“disciplina specialistica”, “trattato sistematico”, “manuale”) trattò di agricoltura, medicina,
retorica, filosofia, giurisprudenza e scienza militare.

L’unica sezione conservata, però, è quella relativa alla medicina; tramandata con il titolo
De medicina, che consta di otto libri, ma non si connota esclusivamente come testo teorico,
in quanto, sebbene Celso con ogni probabilità non esercitò mai la professione medica,
presenta anche consigli pratici, esempi di sintomi, terapie e casi clinici, come ad esempio
una sezione dedicata all’estrazione dei denti, che avveniva senza anestesia.

L’opera costituisce uno dei documenti più importanti per la nostra conoscenza della
scienza medica nell’antichità, da cui ne deriva che ai tempi di Celso la medicina si basasse
in buona parte sul senso comune e sull’esperienza di vita, più che sulla ricerca.
1. L’uomo sano, il quale è in buona salute e non dipende da alcuno, non deve vincolarsi con
alcuna legge, e né del medico, né dell’aiutante medico deve aver bisogno.
Questi occorre che abbia un vario tenore di vita: trovarsi ora in campagna, ora in città e
molto spesso nel campo; viaggiare per nave, andare a caccia, talvolta riposare, ma
esercitarsi molto frequentemente; se mai la pigrizia indebolisce il corpo, lo rafforza la fatica,
quella da una vecchiaia anticipata, questa una lunga giovinezza.

2. Giova anche servirsi talvolta di un bagno, talvolta di acque fredde; ora ungersi, ora
trascurare questa stessa cosa; tenere lontano nessun genere di cibo, come il popolo suole
fare; talvolta trovarsi in un convito, talvolta ritrarsi da quello;
ora più del giusto e ora non più prendere; due volte al giorno piuttosto che una volta
prendere il cibo, e sempre il più possibile, purchè lo digerisca.

2.6. D'altra parte esercitano opportunamente la lettura ad alta voce, l'esercizio delle armi, la
palla, la corsa, una passeggiata, e questa non è più opportuna a ogni costo su terreno
pianeggiante, visto che anche una salita e una discesa muove meglio il corpo con una certa
varietà, a meno che tuttavia esso non sia oltremodo debole: è migliore poi a cielo aperto che
in un portico; migliore, se la testa lo sopporta, al sole che all'ombra, migliore all'ombra che
producono una parete o delle piante, ?

(2.6: http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Celso/Celso02.html)
PLINIO IL VECCHIO
Gaio Plinio Secondo, denominato “Il Vecchio” per distinguerlo dal nipote, nacque a Como
(Novum Comum) nel 23 o nel 24 d.C. e morì a Stabia, il 25 agosto del 79, durante la
terribile eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Stabia ed Ercolano.
Secondo la ricostruzione del nipote dovrebbe essere morto per asfissia, ma molto più
probabilmente morì per apoplessia (emorragia a carico di organi interni) o collasso cardiaco.

Fece una brillante carriera nella vita pubblica, dedicandosi parallelamente agli studi.
Fu funzionario imperiale sotto Claudio, prestando servizio in Germania anche durante
l’Impero di Tito. Sotto i Flavi fu procuratore imperiale in Spagna e nelle Gallie, mentre, a
Roma, fu tra i più stretti collaboratori di Vespasiano.

La maggior parte di informazioni riguardo l’autore derivano dalle lettere scritte dal nipote;
in una in particolare è narrato come Plinio il Vecchio, con zelo instancabile, dedicasse
moltissimo tempo a leggere e a farsi leggere libri, utilizzando a questo scopo perfino il
tempo in cui si asciugava dopo il bagno, i viaggi in carrozza e gli spostamenti in portantina,
durante i quali era accompagnato da uno schiavo che continuava a leggere mentre prendeva
appunti oppure, ancora, faceva pasti frugalissimi proprio per la smania di continuare a
leggere.

Della sua vasta produzione ci è pervenuta per intero solo la Naturalis historia,
un'enciclopedia di scienze naturali, composta da trentasette libri che trattano di
cosmologia, geografia, antropologia, zoologia, sostanze medicinali, metallurgia e
mineralogia, scritti con finalità pratiche, affermando -nell’epistola dedicatoria a Tito,
composta nel 77 in occasione della pubblicazione- che, a suo avviso, meritavano maggiore
riconoscimento gli scrittori che si preoccupavano più di giovare che di dilettare i lettori.

L’autore mira così a sottolineare anche il carattere tecnico-scientifico dell’opera, conferito


anche dai termini adoperati e che rendono il suo vocabolario eccezionalmente ricco,
sebbene il purismo classico portasse a non considerarla una letteratura elevata.

L’opera, definita dallo stesso autore un’impresa senza precedenti nella letteratura latina,
ha un grande valore documentario, in quanto raccoglie una miriade di informazioni e dati
ricavati da più di duemila testi, di cui molti sono andati perduti.

Tuttavia Plinio accumula dati su dati, arrivando ad interminabili enumerazioni di


informazioni, tanto che la sua principale preoccupazione risulti non tanto quella di indagare
la cause dei fenomeni, che ritiene per lo più oscure e inafferrabili per l’uomo, quanto più di
redigere con maggior completezza possibile un inventario del mondo, così come definito da
uno studioso moderno.
Il suo atteggiamento, però, non è completamente acritico, in quanto, sebbene sulla base del
buon senso piuttosto che di criteri scientifici, discute spesso interpretazioni e informazioni
relative ai fenomeni naturali, esprimendo dubbi, confutando e respingendo elementi che non
ritiene accettabili.

L’interesse vivissimo per gli infiniti aspetti della natura si rivela, in particolare, nell’ampio
spazio dedicato ai mirabilia, fatti e dati (veri o presunti) eccezionali e paradossali, su cui la
cultura greca aveva prodotto una ricca letteratura. Proprio sulla base dell’autorità di Plinio
molte credenze errate furono ritenute a lungo vere, per poi essere smentite dalla scienza
moderna.

Dalle prefazioni e dalle digressioni, inoltre, emerge un accentuato moralismo, tipico


peraltro del genere letterario; esso investe anche il giudizio sui progressi della scienza e
della tecnologia, le cui applicazioni pratiche sono considerate da Plinio fattori di
corruzione morale e incentivi all'avidità e all'ambizione.

Queste considerazioni, oltre che dal moralismo, sono motivate anche da timori di tipo
superstizioso, in quanto secondo Plinio l’uomo può migliorare la propria condizione per
mezzo dello studio della natura, ma senza superare i limiti fissati da essa, come salire
sulle montagne, scavare per estrarre i metalli preziosi o usare prodotti importati da regioni
lontane a scopi medicinali, in quanto tutto ciò risulterebbe empio.
QUINTILIANO
Marco Fabio Quintiliano nacque tra il 30 e il 40 d.C. a Calagurris, in Spagna, uno dei
principali centri della formazione culturale da cui provenivano i più importanti intellettuali.
Ignota è invece la data della morte, ma sicuramente, grazie alle informazioni ricavate dalle
lettere di Plinio il Giovane, non fu di molto posteriore alla fine della dinastia flavia (96).

Giunse a Roma, dove frequentò gli studi, nel periodo caratterizzato dalla morte di Claudio e
la presa al potere di Nerone. Lì svolse con grande successo l’attività di avvocato e fu tra i
primi ad essere stipendiato dallo Stato per iniziativa di Vespasiano per la sua attività di
docente, che svolse dal 70 al 90 d.C.; si avevano precedenti solo in Grecia, nel V secolo
a.C., con i sofisti.

Marziale lo definì “sommo maestro della gioventù volubile, gloria del Foro romano";
proprio questa definizione contribuisce a ribadire il grande prestigio di cui godette il primo
dei praeceptor tra i suoi contemporanei.

La sua fama fu tale che Giovenale, vissuto una generazione dopo, adoperò il suo nome per
designare per antonomasia la figura del precettore e anche Plinio il Giovane, suo allievo, ne
parlò con profonda ammirazione.

Ritiratosi dall’insegnamento, divenne precettore di due pronipoti di Domiziano destinati,


secondo quest’ultimo, alla successione imperiale.

Dopo aver lasciato la cattedra Quintiliano fu autore prima di un trattato (“de causis
corruptae eloquentiae” ovvero “le cause della decadenza dell’oratoria”) non pervenuto e
successivamente dell’Institutio Oratoria, la sua opera maggiore, composta tra il 90 e il 96.

Quest’ultima è un trattato suddiviso in dodici libri, un programma che il futuro oratore


deve seguire in maniera scrupolosa dall’infanzia fino all’ingresso nella vita pubblica,
affiancato dalla famiglia e dai maestri.

Pertanto la sua finalità è prettamente pedagogica: delineare, sia dal punto di vista
teorico, sia dal punto di vista pratico, la formazione del perfetto oratore, tramite la
trattazione di argomenti attinenti alla scienza retorica e all’attività oratoria.

Quintiliano predilige la composizione di un trattato didascalico alla forma del dialogo,


motivo per cui la sua opera è assimilabile a un’Ars, ovvero un manuale scolastico, in cui la
finalità di formare il perfetto oratore si accosta alla formazione di un cittadino e di un
uomo moralmente esemplare, in linea con la considerazione ciceroniana secondo cui la
scienza enciclopedica capace di formare l’individuo sotto ogni aspetto è la retorica.
Quintiliano, inoltre, affronta anche il problema dei rapporti tra la retorica e la filosofia,
ritenendo quest’ultima solo una delle scienze che concorrono alla formazione enciclopedica
del perfetto oratore, mentre la retorica era considerata l’unica capace di propagandare
l’ideologia imperiale attraverso l’apprendimento degli strumenti di persuasione, lontana
dalle speculazioni filosofiche, notoriamente pericolose per il potere. La minore importanza
riconosciuta alla filosofia si evince anche dall’ostilità verso i filosofi del suo tempo, su cui
esprime giudizi severi, in quanto li accusa celare vizi e comportamenti immorali dietro la
denominazione di studiosi sapientiae.

Egli, dunque, afferma il primato della retorica, ponendosi, quindi, sulla linea isocrateo-
ciceroniana, richiamando anche esplicitamente il De oratore, tramite l’affermazione che
solo chi possiede l’arte dell’eloquenza è in grado di trattare argomenti filosofici. Tale
posizione, tuttavia, è da inquadrare, più che nella polemica tradizionale tra retori e filosofi,
da sempre rivali nella formazione dei giovani destinati alla vita politica, nell’adesione e
nell’appoggio agli orientamenti degli imperatori flavi e specialmente di Domiziano,
promotore di ben due espulsioni di filosofi da Roma.

L’Institutio Oratoria, inoltre, si può considerare una summa della teoria retorica antica, in
cui Quintiliano cita numerosi fonti, sia greche sia latine, discutendo le differenti posizioni
dei suoi predecessori.

Di conseguenza l’autore si ritrova ad esaminare anche la mutata funzione dell’oratoria


nella società, affermando di assistere ad una sua decadenza* legata sia a problemi morali,
in quanto considera il crescente degrado del gusto e dello stile strettamente connesso alla
degenerazione dei costumi, sia a fattori quali la mancanza di insegnanti meritevoli,
all’eccessivo spazio dedicato alla trattazione di argomenti fittizi (come quelli mitologici) e
alla presenza di autori -tra cui menziona Seneca- che hanno contribuito, dal suo punto di
vista, a peggiorare il sistema linguistico latino.

*Tacito, invece, rinveniva il problema nella mancanza di libertà politica, in quanto poiché la
vita politica era gestita dal princeps, riteneva non fosse più possibile esprimersi liberamente.
Motivo per cui le orazioni iniziarono a trattare temi fittizi, come argomenti mitologici.

Critica, quindi, sia i modelli greci (l’atticismo), per la semplicità spoglia e disadorna dello
stile, sia i modelli contemporanei, attaccando soprattutto la concettosità e l’abbondanza di
sententiae, in cui ritiene sia totalmente assente il senso della misura, a favore della ricerca
del consenso da parte del pubblico. Accusa, quindi, i nuovi oratori di prediligere il fine
secondario, delectare, al fine primario, persuadere chi ascolta.

Nel libro XII dell’Institutio oratoria delinea, invece, le caratteristiche che attribuisce al
perfetto oratore: riprendendo la definizione di vir bonus dicendi peritus di Catone il
Censore, lo identifica nel cittadino subordinato agli interessi dello Stato, ma al tempo
stesso dotato di qualità morali e soprattutto di moderazione, disciplina e senso della
misura.

Il vir bonus risulta, quindi, colui che è in grado di anteporre il bene pubblico a quello
privato, riconoscendo maggiore importanza alla communis utilitas e, per questi motivi,
Quintiliano riconosce nella figura di Cicerone il massimo esponente dell’oratoria
romana.

A quest’ultimo, inoltre, va anche il merito di aver raggiunto pienamente i livelli


dell’eloquenza greca, sancendone la superiorità anche a paragone con il grande exemplum
greco di Demostene: da questo confronto l’oratore latino esce vittorioso grazie alla sua
capacità di emulare modelli greci, come Platone, Isocrate e Demostene stesso, raccogliendo
il meglio da ognuno di essi ed esprimendo personalmente tutte le virtù dell’eloquenza,
sorretto dalle sue abilità argomentative e stilistiche, ampiamente esaltate da Quintiliano.

Nonostante le importanti implicazioni in rapporto alle condizioni storico-culturali dell’età in


cui fu scritta, l’Institutio oratoria è priva di prospettiva storica in quanto in essa,
Quintiliano, propone di riprendere il modello ciceroniano, proprio dell'età repubblicana,
senza tenere in considerazione che l'oratoria, sotto il principato, è stata privata della sua
funzione politica.

Egli descrive la figura dell’oratore come se dai tempi di Cicerone tutto fosse rimasto
invariato: afferma che il perfetto oratore avrebbe mostrato il suo valore indirizzando il
Senato e portando il popolo sulla giusta strada, ignorando, tuttavia, che la capacità
decisionale risiedesse, ormai, nella mani del princeps.

LO STILE
Lo stile di Quintiliano, coerentemente con le sue intenzioni di non rendere la sua opera
arida e disadorna, bensì di conferirle una certa eleganza, risulta ricco di figure retoriche,
soprattutto similitudini e metafore.
Notevoli le differenze rispetto al modello ciceroniane, legate soprattutto ad un periodare
meno ampio e più variegato, ricercando una maggiore concentrazione del pensiero e di
una maggiore rapidità e incisività. Quintiliano, infatti, vedeva nella figura di Cicerone un
modello insuperato, ma non insuperabile.

L’EREDITÀ
Quintiliano e la sua opera, l’Institutio Oratoria, godettero di grande prestigio, oltre a
possedere una notevole influenza sulla cultura dell’epoca e su quella della generazione
successiva.

Durante il periodo medievale si diffusero particolarmente le Declamationes, opere a lui


attribuite ma ad oggi ritenute spurie; l'Institutio oratoria, invece, circolava in maniera
frammentaria.

Tuttavia nel 1416 avvenne il ritrovamento del testo originario e da allora fu considerato
fondamentale per la formazione dei giovani, tanto che, durante la stipulazione della Ratio
Studiorum, Quintiliano fu ritenuto, insieme a Cicerone, il modello classico per eccellenza
negli studi retorici.

La sua fortuna fu notevole anche nei secoli successivi, durante i quali fu riconosciuto come
il padre della moderna pedagogia e fu ripresa, da Jean-Jacques Rousseau, l'importanza che
attribuiva alla valorizzazione delle qualità naturali del discepolo.

Ad oggi lo studio dell'autore e della sua opera maggiore è principalmente legato al suo
valore come testimonianza dei tradizionali metodi educativi romani, nonché per la novità
costituita dalla considerazione degli aspetti psico-emotivi legati all'apprendimento.

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