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GIOVANNI PASCOLI

SUL LIMITARE
PROSE E POESIE
SCELTE

PER LA SCUOLA ITALIANA

4"" edizione

-^ \

REMO SANDRON — Editore


Libraio della Real Casa
MILANO-PALEKMO-NAPOLI
INTEODUZIONE

Cari^ là dentro qualcuna^ tessendo una grande sua tela,

canta un suo canto soave: il vestibolo tutto ne suona.

Chi parla ? A me par di sentire questa voce e quel canto, tra


il silenzio d'un mattino non molto inoltrato, in un'isola dove è
una sola casa, grande, di marmo liscio. Avanti il grande pala-
gio, SUL LIMITARE, è un gruppo di stranieri, approdati all'iso-
la. È uno di loro che parla:

diva f oppur donna f Compagni, affrettiamoci a dare una voce.

Questa irresolutezza, questa aspettazione, questo mistero ope-


rano sulle nostre anime.
Disse Polite, e la voce levavano gli altri chiamando.

Le loro voci che chiamano, echeggiano nel vestibolo.

Quella di subito uscita dischiuse le lucide porte


e li chiamava....

Ma qui voi m'interrompete. È la storia di Circe maliarda, co-


desta; di Circe dalle molte erbe, che mutava gli uomini in be-
stie: voi dite. La storia di Circe voi la conoscete (1), e sapete
«he cosa significa. Ma che volete! Le favole, o almeno certe favole,
-onodi così mirabile natura, che preiulonoil signi ficcato dalla nostra
anima: come certi animali prendono il colore di ciò che li cir-

(1) K (111 non la conosce, va<ia. in qm-sto libro, al XIV. L'eroe dall'odio, 35 e seguenti.

— VII —
— vili —
conda: il grigio della pietra, il verde della foglia, il vitreo del-
l'acqua. Ora questa di Circe che significa per me 'ì

Ascoltate: Circe non è più, per me, la maga che imbe*<tia gli
uomini, madea che ammansa le lìere. Questa faccia sola io
la
vedo, ora, di lei. Essa è la figlia del sole: la luce, dunque. Tesse
una gran tela,
una grande sua tela immortale : una tela
lucida^ morbida^ bella^ di quelle che tessono in cielo.

E questa tela che sarà Quella del pensiero umano: la tela in


cui Pordito è il il nuovo-, la tela che non si sa


noto e il ripieno è
quando ella fu piegata sul subbio, ma si sa bene che non ne
sarà spanata mai. Immortale dunque? Immortale, la fatica sì,
non la mano, veramente. Muore l'uomo ciò che egli pensò in :

comune, resta.
E i raminghi che si consultano; i venuti dal mare che mai non
si ferma} quelli che sono rimasti irresoluti e che ora chiamano

(la loro voce risuona nella pace del mattino e si spande nell'am-
pio vestibolo); quelli che essa chiama di sul limitare Ì
Quelli sono la novella generazione degli uomini: siete voi!
11 mare sempre mobile, il mare della vita, trabalza sulle sue
onde sempre nuove esistenze. Imi^iccolite la cosa, disegnandovela
nel pensiero; come è non arte di poeta ma natura poetica di tutti,
ora impiccolire ora ingrandire per veder meglio. Guardate dunque.
Un'armatetta veleggia nel mare infinito. Ora la calma che ar-
resta, ora il ft)rtunale che travolge; ora la nuvola nera minac-
ciosa nella serenità dell'alba; ora gli strali d'oro benauguranti
di tra la nuvolaglia del tramonto. Le navi sono fragili, e il mare
è possente, e il vento è instancabile. Quante d'esse api^roderanno'
all'isola dell'aurora? Una sola: la vostra. Yoi prendete terra,

lieti scampati da morte, perduti de^ cari compagni.

E caso che ha fatto ai)prodar voi: pensateci bene: è la for-


il

tuna. La
fortuna, gli altri l'ebbero nemica. Errano senza più spe-
ranza sulle onde; remano con inutile fatica; come a dire: lavorano
per vivere. Il loro solo pensiero è già quello di avere un po' di
pane per rifare le forze e bastare alla loro inutile fatica. E il pa-
ne non l'hanno sempre. E la terra non la vedono mai: la terra
luminosa, dove è il riposo per il corpo e la gioia per lo spirito;
la terra dove è la scuola, la terra dove è la scienza, dove l'uo-
mo imo più sacro de' suoi diritti e adempire il più santo
ottenere il

dei suoi doveri: diritto e dovere che sono una moneta sola, con
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faceia e parola: sapere. E gli altri quella terra non la vedran-
no; essi che con voi entrarono nella vita.

L'alba nel del mattutino stampava le dita di rose,

quando moveste voi e quelli. Voi giungeste, essi no. Pensate a


loro: nel vostro cuore la gioia faccia a mezzo col dolore:
lieti scampati da morte ^ perduti de^ cari compagni.

Il poeta il dolore non lo nomina, lo fa solo intendere : perduti !

La letizia sì la esprime: lieti^ scampati da morte.


Ma voi, o venuti nell'isola della luce, la sentite veramente
sempre questa gioia? Ve ne accorgete voi della fortuna che vi ha
favorito, che ha soffiato nella vostra barca e vi ha portati alla
riva? Non sempre, non veramente, non tutti.
E alcuni restano presso la nave che li ha portati, vicini al
mare, e, cullati da quello sciacquìo e da quel sussurro, dormono.
Oh! non basta che la fortuna vi abbia portati all'isola privilegia-
ta; bisogna che la vostra volontà vi conduca alla dea!

Xoi non sappiamo per dove è la sera, per dove l'aurora;


né da che parte quel Sole ch'è luce ai mortali, va sotto,
né da che parte vien sopra. compagni, prendiamo consiglio.
E di quelli che s'inoltrano nell'isola per apprendere e sapere,
non tutti entrano. C'è chi resta sul limitare.
Uno solo, in Omero. Ma io dico, nell' interpretare in questo
nuovo modo l'antica favola, io dico, molti, troppi! ISTon hanno
udito essi come soavemente ella cantava tessendo la sua tela
immortale^ Forse no. Se avessero udito, sarebbero entrati. In
\oro che è quel canto?
Molte cose noi non stiamo a guardare e a udire, molte non
diciamo, molte non facciamo, perchè sentiamo in esse la mancan-
za d'un non so che; di, come usiamo dire, poesia. Questa poe-
sia, si cai)isce subito, non è quella che un antico chiamava ^if-
tura che parla. Non è insomma proprio quell'arte che presenta
immagini vive con ])arole ritmate. E non è nemmeno, che so io f
h» Molte cose sono buone e belle e
bontà, la beltà, la verità !

non c'è poesia. Pensateci un poco, e ve-


>pra tutto vere, in cui
drete che ho ragione. La poesia non è pr<)[)riainente nemmeno
ciò. È piuttosto il bello del bene, il bene del bello, il bello e il
bene del vero. Oh è una gran cosa, anche se non è proprio code-
!

sto o tutto codesto. È una gran cosa, perchè è quella che fa che
noi ci contentiamo. Il desiderio è in noi instancabile. Avuta una
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gioia, ne vorreiiiiiìo subito altve due, i)er lo meno. Da gioia a gioie
noi non avremmo mai pace. E non avremmo mai gioia, perchè nel
momento in cui ella venisse a noi, noi non sentiremmo se non la
mancanza di (iiullc clic coininciaiiio allora a desiderare. La poesia
mette un freno a quel cavallo veloce. Voi potete così fermarvi
a una gioia, a una casa, a un amore. Voi dite: Questo è benej
e lasciate di correre dietro il meglio. E la gioia può essere pic-
cola (a misurarla secondo la credenza comune) e la casa povera
e l'amore umile: voi riposate. C'era dentro voi chi diceva inces-
santemente con impeti come di respiro, sempre più ! sempre più !
Finalmente ora udite, da voce soave e piana assai ! il stata la :

poesia, a parlare. Ed ella dice, assai ! anche per il dolore. Il do-


lore ci strazia dentro; ci dice, con iscosse come di rantoli e sin-
gulti: mai più ! mai più ! E finalmente si forma nel nostro spiri-
to un pensiero di grande tenerezza, e dai nostri occhi spunta
allora la prima lagrima. Il nostro dolore, ijer così dire, ha fiorito,
è sbocciato, è divenuto bello c'è poesia^ ora. Assai ! ci ha detto
:

quella voce a cui dobbiamo di vivere, quella voce che ci fa fer-


mare al bene e non ci fa sommergere nel male: che ora ci ap-
paga, ora ci consola.
Ebbene quel canto, con cui la dea tessitrice accompagna il pet-
tine e la spola, quel canto è questa poesia. Senz'essa voi non
udreste che un monotono tricche tracche^ tricche traccile. Manche-
rebbe il dolce invito a fermarvi e a entrare. Ora quelli di voi
che non entrano, non hanno udita quella voce. O forse la voce
non si levava nel puro mattino f Può anche essere. Non c'è poe-
sia, non c'è attrattiva in quella entratura o i)er colica vostra o
per colpa... di lei] o per il vostro debole udito o per quel mono-
tono tricche tracche, che solo veniva alle vostre orecchie nel
grande e freddo vestibolo. Voi intendete: da parte vostra ci ha
a essere l'attenzione e la docilità: da parte di lei, da parte della
scuola e della scienza, dico, ci deve essere quel canto. Se non
ci sono, ci si hanno a mettere, o tutto è vano.

Canti dunque la figlia del Sole. La scienza e la verità faccia


sentire la sua voce persuasiva e dilettosa. Perchè, ripeto, ella
non è la maliarda che Omero vuole. Il cieco cantore dovè cre-
dere al racconto di quelli che restarono presso la nera nave e
che non videro e non udirono nulla. Vedete: anche le sirene han-
no tanto biasimo a torto. Esse cantano invero così:
Ferma la nave a che tu possa udire la voce d^ entrambe!
Che non alcuno di qui trapassò con la nave sua nera
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senza ascoltare la voce soave che c'esce di bocca.
Ma qui ne gode, poi va, ma sapendo più cose di prima.

E Omero stesso narra quante cose seppe Odisseo da Circe e


quanti consigli n'ebbe. I quali se i suoi compagni avessero se-
guiti come li seguì esso, non sarebbe Odisseo tornato solo.
Entrate dunque. Non rimanete sul limitare, ritornandone poi
tra vergognosi e indispettiti, e dicendo male della tessitrice, e
della sua tela, e del suo canto. Entrate, ed ella v' insegnerà per-
sino come vedere il mondo dei morti e rivedere quelli che ama-
ste, e sentire tuttora grandi e sapienti parole da bocche suggel-
late per sempre.

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