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RELAZIONE DI FILOSOFIA

Tommaso Santambrogio
Cosa mi rende felice? Perché sono felice? Come posso essere felice? Sono solo alcune delle
domande che uomini e donne si pongono nell’arco della loro vita, ma sicuramente tra le più
importanti… Le risposte non sono certo scontate, ma ciò che invece è scontato è il fatto che la
felicità sia da sempre (e lo sarà sempre) un desiderio e un obbiettivo per ciascuno di noi! È quindi
interessante approfondire questa condizione umana, che condisce ogni giorno la nostra esistenza.
Per comprendere fino in fondo un tema tanto vasto e complesso come la felicità, Natoli parte con
analizzarne il significato. Nella lingua greca il termine eudaimonia indica non soltanto la “felicità”,
ma anche e soprattutto la “fortuna”. Questa parola deriva dal verbo daiomai che significa
“dividere” e in particolare “dispensare in sorte”. È quindi facile, in base a questa etimologia,
connotare la felicità come buona (eu) sorte (daimonia). Dapprima questo termine appare in
Esiodo, il quale indica per “daimones” degli spiriti divini, protettori dai mali e custodi degli uomini
mortali. I daimones mettono al riparo gli uomini e perciò colui che è eudaimon gode del favore
degli dei.
Nella nostra società chi è felice gode del beneficio della sorte: è quindi fortunato. Si può così
comprendere che il tema della felicità sia strettamente legato a quello della sorte e del caso. Agli
uomini accade di essere felici e per questo sanno in cosa consista la felicità: quel che invece
ignorano è il motivo del loro sentirsi felici. Quando si è felici infatti è impossibile interrogarsi sul
perché, se ce lo si domandasse si cesserebbe di essere felici…. la pienezza conquistata sarebbe
velata dalla possibile perdita (l’interrogarsi sul perché comporta l’idea che quel che c’è, potrebbe
anche non esserci e quindi che esso è mutevole).
La felicità è infatti precaria e dominata (come sopra scritto) dallo spietato gioco della sorte. Essa
non è del tutto diversa dal dolore: la cecità con cui il dolore colpisce è uguale alla gratuità con cui
la felicità è assegnata. Ciò non esclude che la felicità ce la si possa guadagnare con la fatica, il
lavoro, la determinazione… ma è forse più corretto dire che l’uomo è in grado di sfuggire ai danni
del destino. Natoli evidenzia due facce della felicità: la prima come “stato della mente”, la seconda
invece considerandola secondo il tempo. La prima è la forma più “divina”, che conserva tutte le
caratteristiche dell’incondizionato; mentre la seconda è una condizione difficile da mantenere. Chi
è felice inoltre non identifica il limite come ostacolo e continua ad espandersi, espansione che ha il
suo culmine nella fusione tre l’io e ciò che circonda (il cosiddetto “Piacere infinito” per Leopardi).
Freud evidenza invece che con questa fusione venga a mancare la “differenza” e che quindi la
felicità sia uno stato di pura indifferenza tra l’io e l’ambiente. A controprova della sua
affermazione, Freud aggiunge che nel momento dell’innamoramento il confine tra l’io e l’oggetto
d’amore rischi di dissolversi…. E l’innamorato considera quindi l’io e l’oggetto d’amore un'unica
cosa. Questa riflessione è però in linea con il sentimento di illimitata espansione e si può quindi
intendere la felicità come un tuffo nel tutto.
I motivi per cui scaturisce in noi la felicità sono dei più disparati, ma è importanti sottolineare che
questi non devono essere per forza inusuali, rari ed eccezionali… la felicità è infatti alla portata di
tutti, anche se il suo raggiungimento non è certo semplice. La felicità è indotta da occasioni di
qualsiasi genere, spesso comune e tipico della nostra quotidianità. A confermare questa tesi è il
fatto che tante persone, ricche di cose rare e preziose, non siano in verità felici al contrario di
uomini che trovano motivi di felicità in cose banali (la differenza la fa il modo in cui ci si pone verso
le cose). La felicità può anche scaturire in diversi casi dall’immaginazione, perché capace di
generare una momentanea soddisfazione, ma ugualmente soddisfacente (non è qualcosa
caratteristico solo dei bambini, ma anche degli adulti).
Nel descrivere la felicità è importante però analizzare ciò che accade entro i confini dello spirito
(comprendere quindi il mondo del “felice”). La felicità coincide con una condizione psicologica o
meglio con uno stato della mente, che non è però separato da un immaginario di felicità che prede
la felicità dei singoli. Esistono, come per il dolore, degli scenari che definiscono le modalità con cui
gli uomini si sentono felici… non vanno però intese come assolute, perché le individualità
rimangono ancora incondizionate.
I modelli di felicità non vanno interpretati come conclusi in sé, ma intesi per quel che sono:
pratiche che gli uomini hanno adottato per la loro autorealizzazione (da intendersi come
espansione di sé). La felicità diventa autorealizzazione quando vi è l’adempimento di un compito,
dove però l’adempimento non coincide con un già compiuto, ma nello stesso compiersi.
L’autorealizzazione è dunque per l’uomo la perfezione: l’uomo trae soddisfazione e quindi felicità
dal suo realizzarsi.
Altro tema affrontato è l’eternità, chi è felice raggiunge una sua completezza e questo avviene
nella brevità dell’attimo, che diviene in questo caso tutto… anche se l’attimo rappresenta una
porta sull’eterno. L’eterno va inteso come una diversa concezione del tempo, come un modo
differente di fare esperienza. L’attimo è discontinuo al tempo e interrompe il normale susseguirsi,
anche senza provocare una mancata concezione della durata. L’attimo sospende il tempo, lo
raccoglie in un sol punto, divenendo però “un attimo immenso”. L’eterno appare nell’attimo come
uno svolgimento senza intervallo. Natoli chiarisce al meglio questo concetto, citando dei versi di
Rilke: si fa riferimento a due amanti, il cui abbraccio è promessa quasi di eternità.
Gli amanti percepiscono l’eterno, ma per loro rimane soltanto una misera immagine; dovuta al
fatto che gli uomini possono avere relazioni talmente forti da sentirsi completi in esse. Ciò fa
presagire agli uomini di poter rimanere in quello stato per un tempo illimitato e quindi eterno.
Tale situazione viene riproposta analizzando anche la figura dei mistici, alimentati da un amore
non umano ma divino… i mistici infatti percepiscono l’eterno quando si sentono “risolti” in Dio
(cioè completi, percepiscono quindi una pienezza). Un valido esempio è Santa Teresa d’Ávila che
nei suoi scritti fa riferimento ad un’esperienza estatica, caratterizzato da un godimento al quale
partecipano tutti i sensi. Ciò che salta all’occhio è il fatto che Teresa evidenzi come l’estasi
comporti un’interruzione dall’ordinario… ella utilizza il tempo “ordinario” per quantificare il tempo
dell’estasi, che è però di un'altra dimensione. Questa riflessione viene fatta dalla Santa a
situazione terminata, è infatti impossibile che avvenga durante l’estasi stessa (nella quale tutti i
sensi sono alterati e di conseguenza anche la percezione della durata).
La felicità, come si è detto prima può durare un attimo, e di conseguenza o l’attimo si prolunga
(esperienza intensa) o, raggiunta una soglia, svanisce lasciando un sentimento di indifferenza o in
alcuni casi di morte. Dopo l’abbandono di questa condizione, gli uomini si rendono finalmente
conto di essere stati felici…. e perciò la felicità assoluta non è mai perduta o meglio mai negata,
ma si ristabilisce in una certa misura (gli uomini si sentono quindi più o meno felici).
Si può ritenere la felicità un pericolo nella cosiddetta “esperienza immediata”, perché questa può
falsare la quotidianità degli uomini, non permettendo loro di comprendere la complessità delle
situazioni. I Greci, ad esempio, non sono mai caduti in questo errore (seppur amanti del piacere,
uno su tutti Epicuro) grazie ad “una giusta misura”. Il tema della misura è ricorrente nella civiltà
greca, perché sottolinea il limite (concetto fondamentale nella filosofia dell’epoca) e la capacità di
controllo delle proprie passioni (non era concepito l’eccesso, perché denotava una perdita di
razionalità).
Una volta fatto esperienza della felicità gli uomini non possono viverne senza, tentando in tutte le
maniere di ritornare a quella sensazione di pienezza; o nel caso non la si possa raggiungere si
disperano rassegnandosi. Si può quindi intendere l’infelicità come rimpianto. Secondi Natoli è
infelice colui che non sa più sperare e che quindi si adatta alla condizione in cui si trova. Nel
rimpianto si ricerca un interlocutore e la felicità non scompare, ma si mostra come esperienza
della mancanza (non si avverte la pienezza tipica della felicità, perché si ha già sperimentato la
soddisfazione). Secondo un’analisi di Freud la felicità potrebbe essere paragonata ad un sogno:
infatti entrambi svaniscono, il sogno dopo il sonno e la felicità dopo una determinata soglia; e
hanno entrambi una componente allucinatoria. La felicità tuttavia assomiglia più ad un ricordo di
una pienezza ormai passata e di difficile raggiungimento.
Di conseguenza la felicità appare agli uomini sempre meno come un bene labile e tentano di
trasformarla in qualcosa di più stabile, chiedendosi cosa sia la vera felicità. E in questa prospettiva
la felicità non si identifica più con un godimento immediato ma diviene un obbiettivo, perciò
“questione morale”. Questo avviene quando si passa appunto da felicità come fruizione
immediata alla ricerca di “ciò che è meglio per me” (che non coincide sempre con il bene
assoluto). Secondo Nietzsche gli uomini devono impiegare le loro energie nella ricerca di ciò che è
meglio per loro. In questa ricerca però si cade in una banale contraddizione: la celebrazione
dell’eccesso viene opposta all’aspirazione della misura. Egli pensa che ci si debba “pietrificare” per
mantenere un dominio.
Per Socrate ma anche per Aristotele la felicità ha un carattere inclusivo. Per Aristotele la felicità è
autarchica (cioè di autosufficienza): bisogna essere in grado di godere la vita. L’accontentarsi è
un’azione saggia, ma che può avvenire solo se si è impermeabili alle situazioni esterne (la
condizione di felicità non viene intaccata da cosa accade in torno a noi, ma è invece qualcosa a noi
intrinseco). L’autarchia e l’auto dominio sono le caratteristiche principali di un uomo virtuoso e
perciò felice.
Tra le righe del saggio, Natoli evidenzia inoltre le due diverse concezioni di virtù e felicità di
Aristotele e di Epicuro. Per il primo la virtù è il mezzo con il quale giungere alla felicità, ossia (come
si è già detto) la piena attuazione del proprio io. Tra le virtù quella che spicca in Aristotele è
sicuramente la giustizia, infatti per lui l’uomo virtuoso (e quindi felice) è l’uomo giusto. La virtù è
però anche riflettere, pensare e riportare ogni aspetto alla propria condizione, perciò si è virtuosi
quando si fa diventare una seconda natura il giusto mezzo. In questo Aristotele si discosta da
Socrate, afferma infatti che non è solo necessario conoscere le regole ma soprattutto abituarsi
(riconoscere il bene, non significa per forza perseguirlo… le nostre pulsioni possono essere altre). È
quindi fondamentale essere virtuosi per discernere al meglio… Tutto questo mira naturalmente
all’unico bene, che è appunto la felicità individuale, collettiva e politica (viene affrontato
l’argomento da Aristotele nell’etica Nicomachea). La felicità non consiste nell’ottenere onori e
ricchezze, ma invece nel placare la sete di sapere tipica dell’uomo (in questo l’educazione
scolastica gioca un ruolo decisivo – la virtù non è qualcosa di innato, ma va coltivata).
La felicità secondo Epicuro è vivere con quanto basta (la felicità sta nella quiete non nel
movimento). Questo può avvenire solo se si riesce a distinguere i propri piaceri e propri bisogni. I
piaceri secondo Epicuro sono di due tipi: stabili e passeggeri. Il piacere stabile lo si sperimenta con
i bisogni naturali, mentre il secondo riguarda bisogni naturali ma non del tutto necessari. Punto di
contatto con Aristotele è il fatto che Epicuro ritenga che non si può essere felici senza essere giusti
e viceversa. Il bene è per Epicuro una cosa soggettiva. Ogni uomo percepisce in maniera differente
ciò che per lui è bene e di conseguenza anche ciò che è male. Virtù, bene e felicità coincidono
quindi con il piacere (etica edonistica – il fine di ogni azione umana è il piacere che provoca
all’individuo). L’esperienza del piacere risulta a sua volta soggettiva ma il piacere stesso è una
norna oggettiva perché connesso all’uomo. Il piacere è perciò la liberazione da dolori fisici e
spirituali dalla nostra vita.
Natoli conclude il saggio con il tema della felicità nella sfera cristiana, nel quale si evidenzia quasi
immediatamente un apparente paradosso. Infatti per il cristiano la condizione di felicità è
strettamente legata a quella di rinuncia (inoltre naturalmente a quella del piacere). La rinuncia e
quindi l’ascesi sono alcuni dei pilastri di questa dottrina e ne costituiscono lo stile di vita.
Natoli fa riferimento ad un episodio accaduto ad un antico Romano (naturalmente pagano), il
quale non riesce a comprendere come dei monaci possano trovare la felicità (e sentirsi quindi
pieni), seppur vivendo in condizione di povertà. Questo è spiegabile per il fatto il cristiano non si
accontenti del mondo (questo non vuol dire che lo disprezzi, per il semplice fatto che anche il figlio
di Dio ha preso la natura umana), e che quindi la sua rinuncia coincida con l’aspirazione a qualcosa
di più alto. Il credente si vede in maniera dualistica: come carne e mente. La carne infatti è la parte
sensibile dell’uomo e che quindi è soggetta alla volontà della mente… quando si pecca quindi, a
peccare non è il corpo bensì la mente, che concepisce qualcosa di avverso al pensiero di Dio. Il
cristiano dovrebbe invece essere come un tempio (corpo e anima) dello Spirito Santo (lo spirito di
Dio), attraverso il quale compiere la volontà divina. È quindi necessario l’auto dominio per
controllare le proprie pulsioni e desideri.
La felicità quindi non coincide del tutto con la rinuncia (questa è solo un mezzo), ma con la
capacità di padroneggiarsi; cioè di non essere schiavi delle proprie “voglie” … questa è la vera
felicità (la soggettività a un ruolo determinante in questa dottrina). La rinuncia è sicuramente al
piacere, durante la vita è il corpo che gode, che (nella concezione cristiana) alla fine però muore (la
rinuncia è quindi alla morte). Il cristianesimo supera quindi in un certo senso il limite della morte…
il corpo risorto è infatti immortale. Il corpo risorto vince la morte e non è soggetto alla corruzione,
non è però privo dei segni della sofferenza e del dolore (ormai però un misero ricordo), che si
stagliano sul corpo (Cristo quando risorge e si mostra ai suoi apostoli non è privo dei segni della
crocifissione, come segno tangibile della sua vittoria).
Il cristiano da solo non sarebbe in grado di padroneggiarsi (resistere alle sue passioni), se non
aiutato dalla “grazia” di Dio. Il bene del credente è quello quindi di rendersi disponibile agli occhi
di Dio e accogliere con gioia il suo intervento a favore della misera condizione umana. Dio è l’unico
che può condurre l’uomo alla vera felicità: l’uomo è infatti assetato di infinito, e l’unico che può
placare questo desiderio è Dio (Dio infatti è tutto). Per essere felice l’uomo deve mettersi nelle
mani di Dio.
Esplorare il mondo della felicità non è cosa semplice, data la complessità del tema… ma è
sicuramente di vitale importanza, visto l’influenza che questo “stato della mente” ha nella nostra
quotidianità.

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