Cardiochirurgia
SBOBINATORI SMC3
RILEGATRICE
Alessandra Rossi
12| 12 | 2017 Cardiochirurgia
Prof. Bonacchi
Teniamo a mente che da una semplice indagine anamnestica, da un semplice sintomo, possiamo avere delle
informazioni sulla gravità della situazione clinica del pz e quindi questo ci serve per capire se un intervento
chirurgico è giustificabile o meno.
Altri aspetti importanti che dobbiamo indagare all’anamnesi sono eventuali ALLERGIE O INTOLLERANZE
soprattutto ai farmaci che intendiamo usare prima, durante e dopo l’intervento; ci sono dei farmaci che usiamo
SEMPRE quando il pz viene operato in circolazione extracorporea come l’eparina e la protamina (che è un
antagonista dell’eparina).
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È importante sapere se il pz soffre di DIABETE. Questo è un fattore di rischio per tutti i tipi di operazione
chirurgica, in particolare quella cardiaca; è importante perché questa malattia altera il microcircolo e
aumenta il rischio infettivo del pz. Questi due aspetti aumentano il rischio operatorio.
Passiamo all'esame obiettivo: è importante saper fare bene un esame obiettivo. In questa fase è importante
ricercare segni di altre patologie quali:
- BPCO: quando noi andiamo ad operare il cuore necessitiamo di una via di accesso che solitamente è per via
sternale. Incidiamo dal giugulo fino al processo xifoideo con l’apertura che riguarda la regione centrale dello
sterno (sternotomia mediana longitudinale). Altre vie accessorie possono essere delle toracotomie (anteriori,
laterali o posteriori). Tutte queste sono modalità che compromettono la struttura della gabbia toracica.
[INVASIVITA’ CHIRURGICA: insieme di manovre e di lesioni che rechiamo per poter fare l’intervento chirurgico]
Se un paziente ha una BPCO il suo apparato respiratorio sarà compromesso dalla malattia e di conseguenza
la degenza post operatoria sarà più complicata e più lunga. Essere a conoscenza di eventuali malattie
dell’apparato respiratorio ci permette di mettere in atto delle terapie che ci permettono di utilizzare, per
quanto possibile, la funzione respiratoria del pz stesso. Questo vuol dire fare GINNASTICA RESPIRATORIA, fare
TERAPIE BRONCODILATATORIE, fare cicli di ANTIBIOTICOTERAPIA. Queste terapie ci permettono di ridurre il
rischio operatorio del pz.
- INFEZIONI IN ATTO (anche banali) questo perché la presenza di batteri può determinare nel post-operatorio
episodi di batteriemia.
- MALATTIE CHE COMPROMETTONO IL CIRCOLO ARTERIOSO DEGLI ARTI INFERIORI perché di solito i bypass
aorto-coronarici vengono fatti usando la vena grande safena (per cui serve che sia integra).
In questa fase non dobbiamo dimenticarci di valutare PESO, ALTEZZA, SUPERFICIE CORPOREA per decidere
le dosi dei farmaci da somministrare. Inoltre, la macchina cuore-polmoni durante l'intervento deve
garantire un flusso di sangue ossigenato proporzionale alla superficie corporea del paziente.
Per quanto concerne la cardiochirurgia, ci sono esami più approfonditi che ci permettono di valutare in
modo più preciso il paziente.
Innanzitutto possiamo affidarci all’ECOCOLORDOPPLER. Questo è un esame NON invasivo che ci permette
di valutare numerosi parametri quali: lo spessore delle pareti cardiache, i diametri delle camere
cardiache, le dimensioni delle valvole e dei lembi valvolari. Si valuta inoltre la frazione di eiezione
ventricolare (principale parametro usato per valutare la funzionalità del ventricolo sinistro). La frazione di
eiezione ventricolare è normale sopra il 50%; al di sotto di questo valore troviamo una disfunzione
ventricolare che può essere di varia intensità: LIEVE (40%), MODERATA (35%), GRAVE (<30%).
Adesso volevo spendere due parole su una tecnica invasiva che utilizziamo ancora per studiare le
coronarie: la CINEVENTRICOLOCORONAROGRAFIA. Serve per studiare le coronarie: andremo ad inserire
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dei cateteri a livello delle arterie femorali e risaliremo fino al livello cardiaco. Chiaramente questa
procedura ha dei grossi rischi che consistono in una possibile lesione vascolare. Inoltre non dobbiamo
dimenticarci che per ottenere delle immagini con questo metodo ci affidiamo a delle radiazioni ionizzanti
e dobbiamo utilizzare un mezzo di contrasto iodato che può causare reazioni allergiche nel paziente.
Nonostante questi rischi ad oggi rimane il “gold standard” per ottenere una arteriografia coronarica
selettiva.
Infine, per valutare le funzionalità respiratorie del paziente utilizziamo la SPIROMETRIA e l’emogasanalisi (EGA).
Adesso abbiamo tutti i dati che ci servono: conosciamo la diagnosi e le condizioni del pz e possiamo quindi
procedere nel programmare l’intervento chirurgico calcolando la mortalità operatoria e post-operatoria (max
30 gg dall’intervento).
Un’operazione chirurgica è un evento traumatico che ha i suoi rischi. Il rischio è definito alto se superiore al
10%. Quindi prima di procedere dobbiamo valutare attentamente il rapporto rischio-beneficio per il paziente
che stiamo trattando. Il passo successivo è quello di informare il paziente riguardo la propria condizione e
illustrargli tutti i rischi che può correre sottoponendosi ad un’operazione cardiochirurgica. Questa fase è molto
delicata e dobbiamo essere il più chiari possibile. E’ importante spiegare al pz tutte le soluzioni alternative a
quella che abbiamo scelto e motivargli perché le abbiamo scartate. Se il paziente firma il consenso possiamo
procedere.
Per fare l’intervento è necessario monitorare in modo costante dei parametri. In cardiochirurgia viene
approfondita la valutazione dei parametri emodinamici e qui sono elencati alcuni dei parametri più importanti
che noi abbiamo bisogno di valutare molto attentamente.
Come mai 5 ECG? Così siamo sicuri di non commettere errori e avremo una precisa analisi della condizione
della parete anteriore del cuore che è quella più a rischio di eventi ischemici.
Poi si analizza attentamente la Pressione Venosa Centrale (che è segno della VOLEMIA) e la Pressione
Arteriosa. La pressione arteriosa deve essere misurata costantemente. Come è possibile eseguire ciò? Tramite
l’utilizzo di un catetere arterioso che ci permette di misurare costantemente Pressione Arteriosa Sistolica,
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Diastolica e la Media (quest’ultima è quella correlata alla perfusione dei tessuti). Qual è il parametro clinico
che è misura della normale perfusione tissutale? La DIURESI.
La diuresi viene misurata tramite l’urinometro, una sacca tarata che ci permette di valutare i liquidi espulsi dal
paziente. Se la diuresi diminuisce questo ci fa sospettare una riduzione della volemia.
Come mai si utilizzano delle sonde termiche? Perché molte operazioni in cardiochirurgia vengono svolte con
il paziente in ipotermia indotta ed è necessario monitorare costantemente la temperatura di questo.
- A CUORE BATTENTE: il cuore continua a battere e a svolgere le sue funzioni durante tutto l'intervento. Con
questa tecnica si può effettuare interventi di riparazione di ferite della superficie del cuore o effettuare bypass
coronarici in quanto le coronarie decorrono sulla superficie del cuore e quindi non necessariamente si deve
fermare l’organo.
Questa procedura si divide in due sottotipi:
off CPB (senza circolazione extracorporea)
on CPB (collegando il paziente alla macchina per la circolazione extracorporea)
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La macchina cuore-polmoni è composta da una cannula venosa, cioè di un tubo da mettere dentro l'atrio
destro del cuore o dentro le vene cave, per drenare tutto il sangue venoso refluo del paziente. Questo
sangue raggiunge un reservoir e poi il sangue raggiunge il dispositivo che sostituisce il cuore, la pompa. Da
questo strumento il sangue a pressione raggiunge l'ossigenatore, che permette appunto di ossigenare il
sangue e trasformarlo da venoso a arterioso. Associato all'ossigenatore c'è di solito uno scambiatore di
calore, un sistema che serve a modificare la temperatura del sangue aumentandola. A questo punto il
sangue ossigenato, riscaldato e a pressione, viene reimmesso nel paziente tramite un'altra cannula che
viene localizzata in aorta ascendente.
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ARRESTO DI CIRCOLO: ci sono poi degli interventi in cui io devo arrestare completamente la circolazione.
Ovviamente senza le dovute misure con questa tecnica ucciderei il pz. Il primo tessuto a soffrire una situazione
di mancanza di circolazione è l’encefalo e già dopo 3-4 minuti in ischemia totale questo comincerebbe a
danneggiarsi via via in modo sempre più grave.
Un modo per allungare questi tempi è mandare il pz in IPOTERMIA. Riducendo la temperatura corporea io
allungo il tempo di resistenza del tessuto nervoso da 3-4 minuti a 30-40 minuti. L’ideale in cardiochirurgia è
l’ipotermia profonda (20°C circa). Chiaramente in 30 minuti si possono fare degli interventi, ma questo non è
valido però per interventi complessi. Allora si è cercato ulteriori strategie per aumentare la resistenza del
tessuto cerebrale all'ischemia
Sono essenzialmente 2 le tecniche con cui possiamo perfondere selettivamente il tessuto nervoso: la
perfusione cerebrale selettiva anterograda e retrograda.
La perfusione cerebrale selettiva retrograda è la più semplice da applicare dal punto di vista chirurgico:
prevede che il sangue ossigenato e a pressione raggiunga il sistema nervoso centrale dopo esser stato immesso
nella vena cava superiore (quindi fa un circolo retrogrado). Questo sistema ha mostrato tutta una serie di limiti
mentre il sistema che effettivamente si è dimostrato molto efficace è la perfusione cerebrale selettiva
anterograda. Con quest'ultima tecnica vengono perfuse selettivamente le carotidi (vengono introdotte due
cannule che portano il sangue ossigenato dalla macchina cuore-polmoni direttamente alle carotidi), per cui
abbiamo una perfusione cerebrale selettiva fisiologica, cioè anterograda. Questo sistema permette in teoria
di perfondere il sistema nervoso centrale normalmente e quindi la resistenza all'arresto di circolo è indefinita;
è chiaro che l'arresto di circolo non ha effetti negativi solo sul sistema nervoso centrale ma anche sugli altri
tessuti per cui più breve è e meglio è. Comunque la perfusione cerebrale selettiva anterograda ha dimostrato
di essere molto efficace nel determinare assenza di danno cerebrale durante l'arresto di circolo fino a un
massimo di 3 ore.
Prima di poter connettere il paziente alla macchina cuore-polmoni è necessario risolvere un problema
molto importante: quello della coagulazione.
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Il sangue quando entra in contatto con qualcosa che non è endotelio passa dallo stato liquido allo stato solido.
Il paziente deve pertanto essere trattato con alte dosi di eparina (3mg/Kg).
Si deve verificare che il paziente sia scoagulato perché se così non fosse una volta collegato alla macchina
cuore-polmoni, muore per coagulazione del sangue all'interno della macchina.
La valutazione viene fatta con l'ACT (Activated Coagulation Time), che è lo stesso del PTT, e che valuta il tempo
di coagulazione del sangue dopo che questo viene messo in contatto con sostanze pro-coagulanti. Il valore
normale è 100 secondi, noi dobbiamo arrivare a 400-450 secondi per poter avviare la macchina della
circolazione extracorporea in sicurezza.
Ogni mezz’ora è importante rivalutare L’ACT perché l'eparina ha un metabolismo piuttosto rapido ed
eventualmente vengono somministrate ulteriori dosi di eparina.
Dobbiamo tenere a mente che durante la circolazione extracorporea il cuore è vuoto di sangue ma è sempre
perfuso perché le coronarie originano sopra la valvola aortica, quindi quel cuore vuoto continua a pulsare.
Durante gli interventi cardiochirurgici però è necessario l'arresto cardiaco; per fare questo metto un clamp
aortico (una grossa pinza) in modo che schiacci completamente l'aorta prossimalmente rispetto al
posizionamento della cannula aortica. In questo modo determino un'ischemia completa del cuore.
L'ischemia che noi determiniamo porta all'arresto cardiaco.
Ci troviamo adesso di fronte a una situazione molto delicata perché un'ischemia completa può essere
tollerata dal cuore al massimo per 30 minuti. Se entro questo quantitativo di tempo non rimuovo la clamp,
determino una necrosi globale e la morte del paziente.
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In mezz'ora si riesce a fare interventi cardiochirurgici molto semplici. Dobbiamo trovare dei sistemi che
permettano di prolungare il tempo per effettuare un intervento più complesso.
Tutto ciò è possibile con la somministrazione della cosiddetta soluzione cardioplegica. La
componente fondamentale di questa soluzione è il cloruro di potassio ad alta concentrazione.
Questa soluzione si somministra con un ago tra valvola aortica e clamp aortico: in questo modo la soluzione
cardioplegica mi perfonde il miocardio passando dalle coronarie.
La soluzione cardioplegica permette di aumentare il tempo di resistenza all'ischemia del cardiomiocita di
ben 12 volte: si passa dai 30 minuti fino a 6 ore.
Dovete sapere che il cardiomiocita è una cellula che usa il 90% dell’ATP per favorire l’interazione e la
contrazione delle fibre di actina e di miosina. Se io vado ad inibire questo processo guadagno una quantità
di ATP elevatissima per poter mantenere gli altri cicli vitali della cellula. Per questo riesco ad ottenere un
aumento così elevato del tempo di resistenza all’ischemia.
La contrazione viene inibita grazie al potassio che iperpolarizza la cellula miocardica, impedendo l'entrata del
calcio, necessario per l'attivazione dell'accoppiamento eccito-contrattile.
I cardiomiociti, una volta somministrata la soluzione cardioplegica, sono rilassati, non c'è interazione actina-
miosina e si ha il cosiddetto arresto diastolico (l'arresto spontaneo cardiaco, che viene quando uno ha un
problema grave, è un arresto sistolico perché il cuore rimane contratto, in seguito alla massiva entrata di
calcio nelle cellule).
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possono ripercuotere sul paziente e che sono dovuti essenzialmente al contatto del sangue con materiale
esogeno (rappresentato dalla macchina per la circolazione extracorporea) ed alla conseguente attivazione delle
cascate proteiche del sangue (coagulazione, complemento, bradichinine). Tutte queste cascate vengono
attivate nel momento in cui il sangue passa nel circuito. Il sangue viene poi reimmesso nel paziente con tutta
una serie di effetti biologici, che non hanno un corrispettivo clinico se la circolazione extracorporea dura un
tempo limitato (fino alle 3 ore non si hanno gli effetti dell'attivazione degli elementi figurati e delle cascate
proteiche del sangue).
E’ importante quindi far durare il minimo tempo possibile l’intervento chirurgico per ridurre questi effetti nel
paziente.
Chiaramente, anche in assenza di segni/sintomi clinici, queste alterazioni possono essere riscontrate da
esami di laboratorio: vedremo la proteina C reattiva elevata, la VES aumentata, il paziente è leucocitosico.
Nel caso in cui la circolazione extracorporea debba durare un tempo più lungo, ci saranno effetti manifesti
sul paziente quali l’attivazione della “whole-body inflamation”, il consumo dei fattori della coagulazione,
un'emolisi causata dalla pressione esercitata dalla pompa del macchinario della circolazione extracorporea
ed infine una disfunzione di diversi organi. Qui mi voglio soffermare un attimo:
a livello dei polmoni si può avere un danno della barriera alveolo-capillare (edema lesionale) che può
portare ad una vera e propria ARSD;
a livello dei reni si può arrivare addirittura ad un'insufficienza renale;
a livello cerebrale possono manifestarsi tutta una serie di disturbi neuropsicologici
possiamo avere danni anche a livello cardiaco. Quest’ultimo, nonostante tutti gli accorgimenti presi con
l’introduzione della soluzione cardioplegica, vive un momento di grande stress ed è normale che ne esca
con qualche danno. Per fortuna di solito questi danni sono di lieve entità e solitamente sono reversibili.
Negli ultimi anni la tecnologia ci ha messo a disposizione circuiti per la circolazione extra-corporea sempre più
biocompatibili, cioè con una superficie ricoperta di eparina per impedire l'adesione e l'attivazione piastrinica.
Esiste una branca della cardiochirurgia che si occupa delle cardiopatie congenite.
La maggior parte di queste sono trattabili solo mediante ricorso alla circolazione extracorporea.
Tra le più frequenti troviamo il difetto del setto interventricolare (caratterizzato dalla presenza di un foro che
mette in connessione il ventricolo destro con il ventricolo sinistro) e il difetto del setto interatriale; tra quelle
complesse abbiamo sicuramente la Tetralogia di Fallot che avrete sicuramente già sentito nominare.
Le cardiopatie congenite possono essere classificate in vari modi. Una prima classificazione distingue forme
semplici da forme complesse.
Quelle semplici sono malformazioni in cui è presente un solo difetto.
Le cardiopatie complesse sono quelle in cui 2 o più malformazioni anatomiche sono presenti in quel cuore;
nella Tetralogia di Fallot per esempio ci sono 4 alterazioni: difetto del setto interventricolare, aorta a
cavaliere, stenosi della valvola polmonare e ipertrofia del ventricolo destro.
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Una terza classificazione importante è quella che valuta l'afflusso polmonare: ci sono malformazioni che
determinano una riduzione del flusso polmonare, ad esempio la Tetralogia di Fallot in cui troviamo una stenosi
dell'arteria polmonare e un difetto del setto interventricolare, per cui il sangue da destra passa a sinistra e
c'è poco flusso di sangue nel circolo polmonare; ci sono però anche malformazioni che determinano un
eccesso di flusso polmonare, ad esempio la pervietà del dotto di Botallo. L'eccesso di flusso polmonare
comporta una reazione del circolo polmonare che all'inizio è reversibile, successivamente se persiste
l'iperafflusso, l'alterazione diventa irreversibile e il problema da cardiaco diventa cardiopolmonare.
Parlando delle cardiopatie congenite da iperafflusso polmonare, abbiamo detto che il circolo polmonare
reagisce in modo da diminuire il flusso stesso. Inizialmente si ha una vasocostrizione delle arteriole dei
capillari polmonari: il bambino nasce con un difetto del setto interventricolare, abbiamo un iperafflusso di
sangue verso il polmone perché a ogni sistole del ventricolo sinistro parte del sangue va nel ventricolo destro
e si somma a quello che giunge dall'atrio destro.
Il circolo polmonare si difende con una vasocostrizione.
Questa vasocostrizione è un fenomeno funzionale, per cui una volta corretto il difetto del setto
interventricolare si annulla l'iperafflusso polmonare e dopo un po' il circolo polmonare torna alla normalità.
Il paziente torna ad avere una pressione polmonare normale e non abbiamo danni ulteriori.
Se questo trattamento non viene fatto nei tempi adeguati, nel corso degli anni questo iperafflusso di sangue
continua ad arrivare al polmone e le arteriole a un certo punto modificano la loro struttura della parete
ispessendosi, rendendo l’ipertensione polmonare da reversibile fissa e non più trattabile con i vasodilatatori.
Con il passare del tempo questa proliferazione porta a una stenosi quasi completa e l'ipertensione polmonare
tende ad aumentare finché non si arriva ad una condizione chiamata cuore-polmonare cronico.
Questa condizione è detta Sindrome di Eisenmerger ed è l'evoluzione di una cardiopatia congenita con
iperafflusso polmonare non trattata. A questo punto l’unica cosa che resta da fare è un trapianto di cuore e
polmoni, un intervento fattibile ma con mortalità estremamente elevata e risultati spesso non soddisfacenti.
In ogni caso le cardiopatie congenite si manifestano tutte nello stesso modo e la loro sintomatologia è
abbastanza stereotipate: abbiamo cianosi, dispnea, insufficienza cardiaca, aritmie e morte improvvisa. Per fare
diagnosi di queste malattie ci affidiamo ai soliti strumenti che ci permettono di evidenziare queste condizioni
in modo abbastanza diretto: RX del torace, ECG, Ecocardiogramma (strumento principe nella cardiochirurgia
pediatrica. Le immagini nei bambini risultano più nitide perché le coste nel neonato e nel bambino sono ancora
composte di cartilagine e questo tessuto rispetto all’osso non rappresenta un ostacolo per il passaggio delle
onde che partono dalla sonda) ed infine la coronarografia.
Per quanto riguarda la terapia per questi pazienti è quasi sempre chirurgica.
Gli interventi chirurgici possono essere palliativi oppure correttivi.
I primi si fanno nelle CC non correggibili per migliorare la qualità di vita del paziente, ma non viene risolto il
problema. Si possono applicare anche a pazienti con CC correggibili. Si tratta di un’operazione svolta in due
stadi: il primo stadio si basa sull’intervento palliativo che accompagna il paziente fino al secondo stadio dove
viene operato con un trattamento correttivo.
Gli interventi correttivi sono ulteriormente divisi in due sottocategorie: anatomici, quando vanno a risolvere
fisicamente un difetto anatomico, e fisiologici, i quali non vanno a riparare la struttura anatomica del cuore,
ma si interessano di mantenerne la corretta funzionalità.
Esiste una situazione patologica molto importante nella quale l’aorta nasce dal ventricolo destro e l'arteria
polmonare nasce dal ventricolo sinistro, una condizione chiamata trasposizione dei grossi vasi. Oggigiorno si
opera tagliando e riattaccando aorta e tronco polmonare nelle giuste sedi ma fino a 25 anni fa questa
procedura non era possibile ed erano state ideati degli interventi chirurgici fisiologici che non riportavano il
cuore alla sua struttura anatomica normale ma gli restituivano la sua funzione fisiologica. Questi consistevano
nell’inversione dei circuiti atriali in modo che il sangue dal lato sinistro arrivasse in ventricolo destro e il
sangue del lato destro venisse shuntato verso la mitrale e da lì poi verso l'arteria polmonare.
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2. In caso di insuccessi della terapia percutanea lo stent si può non aprire, lo stent va dilatato e non
riescono a dilatarlo;
3. In caso di complicanze iatrogene durante l’angioplastica talvolta vengono bucate le coronarie;
4. In caso di complicanze meccaniche.
Questi sono i 4 casi in cui si fa il bypass aortocoronarico nelle sindromi coronariche acute.
Diverso è nelle sindromi coronariche croniche, fondamentalmente, quindi, nell’angina stabile oppure
instabile, ma comunque stabile da un punto di vista emodinamico. Cose che avete fatto benissimo a
cardiologia.
Nel paziente cronico l'obiettivo non è la rivascolarizzazione precoce, ma una rivascolarizzazione il più
completa possibile, perché più rivascolarizzo e più avrò una ripresa contrattile del miocardio. Sapete cos’è un
MIOCARDO IBERNATO? Il miocardio ibernato è uno stato fisiopatologico legato all’ipoperfusione cronica, in
cui il tessuto miocardico è vitale, i miocardiociti sono vivi, ma sono funzionalmente inattivi, cioè vivi ma non
si contraggono.
A differenza della necrosi cicatriziale dove i tessuti, i miocardiociti sono sostituiti da fibrosi e non partecipano
alla contrazione, nel miocardio ibernato andando a rivascolarizzare il tessuto, passa dall’essere ibernato al
contrarsi. Per questo motivo nelle forme croniche bisogna rivascolarizzare il più possibile.
Quindi, se ho una placca sulla coronaria che non mi da una sindrome acuta, ma nel tempo da una
ipoperfusione cronica per chiusura dell’IVA, questo tessuto non si contrae. Ma andando a rivascolarizzare il
tessuto ibernato tornerà a contrarsi.
È estremamente dannoso andare a rivascolarizzare un tessuto necrotico ed è per questo che alla fine
servono e sono utilizzati i TEST DI VITALITA', proprio per capire quanto miocardio vive e quanto è necrotico.
Come faccio a decidere se rivascolarizzare o meno e con che tipo di rivascolarizzazione?
Per esempio se ho una placca del 20% su una coronaria che faccio? Terapia medica, metto uno stent, faccio
il bypass?
Chiaramente ogni procedura ha dei rischi e non dovete pensare che una volta messo lo stent, una volta fatto
il bypass, si guarisce, perché la malattia coronarica è metabolica, quindi va avanti. Intervenire con uno stent
su una placca del 20% è più dannoso che utile, perché ci possono essere complicanze e comunque si tratta
sempre di un corpo estraneo all’interno di una coronaria. Pertanto, a prescindere dal "se rivascolarizzare o
meno", per il tipo di rivascolarizzazione, percutanea o chirurgica, ci basiamo fondamentalmente su linee
guida internazionali. Le linee guida internazionali si basano si trials clinici precedenti e fondamentalmente
dicono che si ricorre al bypass aortocoronarico in tre casi:
1. Malattia critica del tronco comune presenza di una stenosi superiore al 50% nel tronco comune, che vi
ricordo essere la prima parte della coronaria sx;
2. Presenza di coronaropatia trivasale quindi interventricolare anteriore, circonflessa e coronaria dx.
3. In caso di malattia IVA prossimale quindi una stenosi dell’interventricolare anteriore, però prossimale,
associata alla stenosi di uno o due vasi coronarici.
Importante comunque è sempre usare il cervello, se ho una malattia di tre vasi, ma sono 3 vasi marginali
minuscoli, non c’è indicazione e non c’è indicazione nemmeno all’angioplastica. Bisogna sempre valutare il
quadro coronarico.
Per quanto riguarda il tronco comune negli ultimi anni ci sono stati dei cambiamenti, 20 anni fa un paziente
con stenosi critica del tronco comune andava a fare l'intervento cardiochirurgico. Negli ultimi anni c’è stata
una forte spinta verso le metodiche percutanee, gli emodinamisti hanno iniziato a trattare anche il tronco
comune. Comunque le linee guida sono chiare c’è indicazione a trattare tramite angioplastica il tronco
comune solo per lesioni anatomicamente favorevoli. Se la lesione è semplice da trattare, allora il paziente
può beneficiare dell’angioplastica altrimenti, se la lesione è complessa, si rientra nell’ambito della
cardiochirurgia.
INTERVENTO DI BYPASS
Avete idea di come si svolga un intervento di bypass? Per rivascolarizzare chirurgicamente il miocardio si
utilizzano dei condotti vascolari detti GRAFT, questi condotti possono essere sia venosi che arteriosi e sono
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del paziente, non esistono condotti artificiali (sono stati sperimentati, ma davano grossi problemi). Tra i
condotti venosi, molto utilizzato è la vena grande safena, che è bilaterale. Il prelievo della safena non lascia
deficit funzionali, tecnicamente non è difficile, è un vaso maneggevole, però vedremo successivamente che
non è il condotto ideale per il bypass.
Per i condotti arteriosi si ricorre alle arterie mammarie interne dx e sx, altre arterie sono le radiali, le
epigastriche inferiori e la gastroepiploica. Non entro in merito ai vantaggi e agli svantaggi di ognuna, perché
non è argomento di questa lezione. La migliore per pervietà a lungo termine è l’arteria mammaria, nello
specifico la mammaria sx. Le altre sono utilizzate raramente perché di diametro piccolo, tendenza allo
spasmo quindi gravate da effetti collaterali.
Tra le vene e le arterie ci sono differenze anatomiche, biologiche e istologiche tali per cui c’è una netta
differenza in termini di pervietà a lungo termine. In sostanza, mentre a 10 anni il 50% delle vene è chiuso e si
chiude non per aterosclerosi, ma per fenomeni di iperplasia intimale, perché la vena non è abituata a
pressioni come quelle del circolo arterioso (mostra una foto di un graft venoso a 10 anni), le arterie
mammarie a 10 anni sono pervie nel 90/95% dei casi. Abbiamo visto arterie mammarie messe a pazienti
negli anni novanta senza nemmeno una stenosi. A noi interessa la pervietà a lungo termine, perché
altrimenti il paziente avrà in breve tempo una nuova sindrome coronarica o comunque l’apporto di sangue
sarà ridotto: la pervietà a lungo termine condiziona la prognosi.
È stato dimostrata da vent’anni la superiorità di una rivascolarizzazione arteriosa verso una
rivascolarizzazione venosa, in termini di mortalità, in termini di eventi maggiori, quali fondamentalmente
infarti e di necessità di rivascolarizzazione.
La vena si usa perché il prelievo della mammaria è tecnicamente più complicato e le linee guida indicano che
sotto i 70 anni meglio una rivascolarizzazione totalmente arteriosa, sopra i 70 va bene una
rivascolarizzazione mista sia arteriosa con arteria mammaria che venosa. Chiaramente l’interventricolare
anteriore è sempre rivascolarizzata con l’arteria mammaria interna sx è l’unico bypass che ha dimostrato
miglioramento della prognosi.
Se ho una persona di 75/80 anni con una coronaropatia trivasale, magari obeso o con BPCO, prelevare
l’arteria mammaria può essere problematico si rischia la deiescenza della ferita sternale. Posso prendere la
mammaria sx e rivascolarizzare l’interventricolare anteriore e trattare gli altri due rami di minore importanza
con la vena safena.
(Mostra immagine arteria mammaria)
Non c’è dubbio che una rivascolarizzazione arteriosa totale sia migliore, però va sempre studiato in base al
paziente, anche perché il prelievo della doppia mammaria ha delle possibili complicanze a livello della parete
toracica soprattutto in pazienti obesi, diabetici, con BPCO... per cui bisogna sempre valutare il rischio.
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rivascolarizzazioni chirurgiche tutte in arresto cardioplegico, quindi fermando il cuore e in circolazione
extracorporea.
L’uso di particolari stabilizzatori, particolari strumenti, ha permesso di superare l’unico limite della
rivascolarizzazione a cuore battente e cioè la precisione dell’anastomosi. Vi faccio vedere l’immagine degli
stabilizzatori.
Vedete prima, questa era una forma di stabilizzazione, si mettevano questi lacci, il cuore continuava a
battere e le anastomosi erano imprecise. Un’anastomosi imprecisa significa infarto o sindrome coronarica
per il paziente.
Negli ultimi anni sono stati prodotti questi stabilizzatori, come funzionano: grazie ad una aspirazione il cuore
sottostante continua a muoversi normalmente, ma questa parte di tessuto che circonda la coronaria viene
tenuta ferma da una forza aspirante che è generata da questa struttura, questo in particolare si chiama
OCTOPUS®, ne esistono anche altri ma questo è il più utilizzato. Questo strumento vi consente di lavorare
sulla coronaria non completamente ferma ma mantiene più fermo il tessuto rispetto alle metodiche
precedenti.
Voi quale metodica utilizzereste a cuore battente oppure in circolazione extracorporea in arresto
cardioplegico?
Una studentessa risponde: se paziente è giovane per dare priorità alla precisione dell’anastomosi sarebbe
meglio in circolazione extracorporea.
Risposta del Prof: questa è un’ottima risposta e la collega ha detto una cosa fondamentale, la precisione
dell’anastomosi.
Non c’è paragone nel fare un'anastomosi con un cuore che seppur abbastanza fermo con questi dispositivi,
comunque sotto si muove e non è mai fermo completamente, poi chiaramente essendo il cuore attivo
quando vado ad incidere la coronaria butta sangue, noi mettiamo dei piccoli shunt microscopici.
Differentemente nella circolazione extracorporea il cuore è fermo e privo di sangue e lo posso lussare in tutti
i modi che non ho decadimento emodinamico invece a cuore battente a seconda di come lo lusso per
arrivare a certi vasi si ha un’alterazione del ritorno venoso e quindi un decadimento emodinamico. Da un
punto di vista di precisione chirurgica e di facilità non c’è paragone.
Ma allora perché non li facciamo tutti in circolazione extracorporea?
Perché non è ideale per il paziente. Entro certi limiti da un danno subclinico trascurabile, però se questi
tempi si allungano il danno sistemico aumenta, il danno infiammatorio, l’attivazione coagulativa. Quindi in un
paziente giovane posso permettermelo, ma nell’anziano 75/80 enne forse sarebbe meglio evitare sia gli
effetti collaterali legati alla circolazione extracorporea che all’arresto cardioplegico. Chiaramente noi
fermiamo il cuore e lo proteggiamo da un punto di vista metabolico, ma un minimo danno c’è sempre ed
esso è tanto maggiore quanto maggiore è il tempo di arresto. Quindi anche qui dipende dal paziente. Non
fare la circolazione extracorporea con l’arresto cardioplegico significa ridurre l’invasività dell’intervento.
L’intervento cardiochirurgico è più invasivo di una percutanea perché si fa la sternotomia (accesso
chirurgico), perché si utilizza la circolazione extracorporea e perché si ferma il cuore. Se la circolazione
extracorporea non viene utilizzata e non si ferma il cuore l’invasività è legata solo all’accesso chirurgico.
L’esperienza internazionale cosa dice, meglio cuore battente o la circolazione extracorporea?
Se la rivascolarizzazione è eseguita da chirurghi esperti non ci sono differenze. In termini di mortalità legata
alle complicanze maggiori, in particolare cerebrovascolari, non ci sono grosse differenze. Noi come centro
utilizziamo moltissimo l’intervento a cuore battente questo perché siamo un centro con esperienza.
La letteratura ci dice che a distanza, il graft failure ovvero l’occlusione del graft e la necessità di
rivascolarizzazione sono molto maggiori nel cuore battente rispetto all’intervento a cuore fermo e questo
deriva dalla minore precisione chirurgica.
Quindi queste due metodiche hanno dei vantaggi entrambe e quale scegliere dipende dal paziente
innanzitutto e poi dall’esperienza del centro.
Se ho un paziente di 82 anni con insufficienza renale cronica, con stenosi delle carotidi, diabete, obeso...
sottoporlo ad una circolazione extracorporea comunque un minimo effetto sui polmoni e a livello cerebrale,
quanto meno potenziale, c’è e quindi farò una operazione a cuore battente. Soppesando i vantaggi e gli
svantaggi considerando l’età e la situazione clinica farò una rivascolarizzazione a cuore battente che magari è
meno precisa, però a livello di mortalità e di complicanze maggiori è la stessa rispetto a quella a cuore fermo
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se eseguita a dovere.
Nel paziente giovane sano si può rivascolarizzare tranquillamente con un intervento a cuore fermo e non a
cuore battente.
Non entro nei dettagli di come si fa l’intervento perché non è materia d’esame, importante è sapere che
l’intervento richiede una sternotomia longitudinale mediana completa con apertura dello sterno, il prelievo
dei graft che siano le due mammarie o la safena, nel cuore battente si inizia subito la rivascolarizzazione
mentre nell’intervento a cuore fermo bisogna prima istituire la circolazione extracorporea per poi fermare il
cuore e a quel punto si inizia la rivascolarizzazione, che vi ripeto consiste in anastomosi vascolari tra la
coronaria a valle delle stenosi e il condotto, la vena safena non rimane in situ, ma viene anastomizzata
all’aorta.
Negli ultimi anni è stata introdotta la rivascolarizzazione ibrida, che significa sia chirurgica che percutanea, in
contemporanea o in momenti diversi, per sfruttare i benefici dell’una e dell’altra metodica, questo è un
processo più culturale che altro.
Facciamo un esempio: se io ho una stenosi dell’interventricolare anteriore non trattabile con angioplastica e
una stenosi dell’interventricolare posteriore, in teoria in tutto il mondo si metterebbe l’arteria mammaria
interna sx sull’IVA e un segmento di vena sull’interventricolare posteriore e poi si anastomizza all’aorta, però
questo paziente ha un’aorta a porcellana estremamente calcifica, impossibile da gestire, da clampare. Allora
utilizzo la doppia mammaria? Anastomizzo la mammaria dx all’interventricolare posteriore, la vena non la
posso utilizzare perché l’aorta è calcifica. In questo caso posso pensare ad una strategia ibrida, noi facciamo
il bypass della mammaria sx sull’IVA che è l’unico bypass che ha dimostrato miglioramenti nella prognosi. E si
lascia all’emodinamista il trattamento dell’interventricolare posteriore o comunque di altri rami di minor
importanza.
Ricapitolando:
quando rivascolarizzare
con che condotti
con quale metodica
Questa non è solo una suddivisione didattica, ma anche clinica, le forme acute hanno da un punto di vista
anatomico, fisiologico, fisiopatologico, clinico e anche terapeutico delle caratteristiche in comune. Quindi le
forme acute sono legate essenzialmente all’alterazione della formazione della cicatrice fibrosa a differenza
delle forme croniche che sono legate essenzialmente ad un’alterazione dell’evoluzione della cicatrice.
In seguito ad un’ischemia miocardica ho una necrosi e di che tipo è la necrosi?
La necrosi è coagulativa e poi a livello istologico abbiamo infiltrazione neutrofila (risposta infiammatoria)
seguita poi dal riassorbimento della necrosi e dal deposito di fibre collagene, cioè la formazione della
cicatrice.
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In medicina non c’è mai un solo processo, ma è sempre un bilancio fra due processi: nella stenosi coronarica
improvvisa da trombo non ho soltanto l'attivazione della coagulazione, si attivano anche i meccanismi
fibrinolitici, ma prevalgono quelli coagulatori e quindi ho la stenosi. La stessa cosa nel nostro caso, non ci
sono solo i meccanismi della necrosi c’è sempre un bilancio fra riassorbimento della necrosi e deposito di
fibre collagene. L’alterazione di questo equilibrio porta ad una complicanza di tipo acuto, cioè quando
prevalgono i meccanismi di degradazione e rimozione del tessuto necrotico rispetto a quelli di formazione
della cicatrice, manifesto le complicanze meccaniche acute. Quindi quando i meccanismi di degradazione dei
miociti necrotici sono preponderanti rispetto a quelli di formazione della cicatrice, non ho più una
formazione della cicatrice.
Il meccanismo alla base delle forme acute è un’alterazione della la formazione della cicatrice fibrosa, nelle
forme croniche invece la cicatrice fibrosa è già formata ma evolve in un certo modo.
Le forme acute possiamo raggrupparle insieme perché hanno delle caratteristiche simili, essendo dovute ad
alterazione della formazione della cicatrice, tendono a manifestarsi tipicamente in un periodo ben preciso
dopo l’infarto (dalla patologia dovreste saperlo quando è il periodo in cui la degradazione dei miocardiociti
necrotici avviene e si forma la cicatrice). Più o meno le complicanze insorgono tra il 3° e il 5° giorno dopo
l’evento necrotico, quindi un pochino più veloce rispetto a quanto si legge nei libri di patologia in cui si dice
che ci vogliono settimane. In realtà sono più precoci perché non si arriva nemmeno alla formazione della
cicatrice proprio perché processi di lisi e di degradazione dei miocardiociti necrotici sono maggiori.
Quindi queste complicanze si manifestano in 3°-5° giornata tipicamente, un’altra cosa che le accomuna è
l’aspetto clinico, sono tutte e tre gravi, la mortalità è elevata ed anche lo stesso intervento chirurgico in
queste 3 situazioni molto spesso è gravato da un’altissima mortalità. Sono situazioni che se il paziente non si
opera muore ma ha un’elevata probabilità di morire anche con l’intervento.
Fondamentalmente, a parte la rottura di parete libera, si manifestano con due effetti fisiopatologici:
- la sindrome da bassa gittata cardiaca
- la congestione polmonare
Nel difetto interventricolare post-ischemico ho uno shunt, passaggio di sangue, tra ventricolo sinistro e
ventricolo destro quindi parte del sangue che dovrebbe andare in aorta finisce nel ventricolo destro e quindi
nel polmone, quindi si ha sia una ridotta gittata cardiaca (sindrome da bassa gittata) sia una congestione
polmonare.
Nella rottura del muscolo papillare quindi nell’insufficienza mitralica acuta è lo stesso motivo, parte del
sangue dal ventricolo anziché andare in aorta finisce in atrio proprio perché ho rigurgito mitralico e siccome
ho rigurgito mitralico avrò un aumento delle pressioni del volume di sangue che si ripercuote a livello dei
capillari polmonari e si ha congestione polmonare.
Che terapia si utilizza nelle forme acute?
Bisogna sempre vedere il dato clinico perché io posso avere un DIV così piccolo che non mi crea grossi
problemi, è un evento raro ma può succedere. Quindi la clinica deve guidarci. L’obiettivo inizialmente è la
stabilizzazione del paziente, qualora non si raggiunga la stabilizzazione del paziente si porta in sala
operatoria. Teoricamente e concettualmente sarebbe meglio stabilizzare il paziente e operarlo dopo una
settimana/dieci giorni, questo perché dopo questo periodo il tessuto è già più stabile, è già più fibroso e
quindi il mio intervento è più semplice, se opero un DIV subito in acuto il tessuto attorno alla lesione sarà
infiammato, edematoso e quindi la tenuta delle suture è più a rischio. Quindi teoricamente sarebbe meglio
procedere prima con la stabilizzazione e dopo 7/10 giorni operare, praticamente però questa è una scusa di
tante cardiochirurgie (non della nostra), per non operare il paziente vista l‘elevata mortalità. Quando non si
raggiunge la stabilità andrebbe portato in sala operatoria.
La stabilità come si ottiene? Abbiamo una sindrome da bassa gittata cardiaca, quindi dovrò utilizzare dei
farmaci che aumentano la gittata ossia inotropi, vasocostrittori, nel caso del DIV non utilizzo vasocostrittori,
ma vasodilatatori, infatti devo ridurre le pressioni sistemiche perché maggiori sono le pressioni sistemiche e
maggiori saranno le pressioni nel ventricolo sx e maggiore sarà lo shunt verso il ventricolo dx. Dovrò
chiaramente ridurre la congestione polmonare e solitamente si riduce con farmaci diuretici, qualora non
bastasse devo aumentare la pressione di perfusione con strumenti e apparecchiature meccaniche quali
contropulsatore aortico ed ECLS, avete mai sentito parlare di ECLS, ECMO?
Quindi si tende a stabilizzare il paziente e le armi a disposizione sono queste: terapia farmacologia per
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aumentare la perfusione periferica, terapia diuretica per ridurre la congestione polmonare e qualora non
bastasse si ricorre al contropulsatore aortico o all’ECLS.
Le forme acute tendono a verificarsi nei pazienti giovani con malattia monovasale e funzione ventricolare
conservata. Secondo voi questo è un dato statistico o c’è una motivazione fisiopatologica? Cioè come mai le
sindromi delle complicanze meccaniche acute si verificano solo nei pazienti con patologia non trivasale, ma
monovasale e una funzione ventricolare conservata?
Perché questi pazienti sviluppano pressioni maggiori e quindi il cuore è sottoposto a pressione maggiore ed è
più frequente che si sviluppano. Questo spiega come mai succedono quando la funzione ventricolare è
ancora conservata, ma come mai accadono nella malattia monovasale?
Un monovasale giovane è diverso da un paziente anziano con malattia trivasale, perché cambiano i
meccanismi di compenso. Vi hanno parlato di circoli collaterali?
Il paziente anziano con storia di malattia trivasale da lungo tempo, ha tutto il tempo per la formazione di
circoli collaterali, questi circoli collaterali non sono mai come la circolazione nativa, ma un minimo riescono a
dare un contributo per quanto riguarda l’apporto di sangue al cuore. Nel paziente giovane con stenosi
improvvisa della coronaria questi circoli non si sono formati e quindi risentirà molto di più dell’ischemia
rispetto al paziente con circolo collaterale.
APPROCCI CHIRURGICI
Vediamo gli approcci chirurgici. I difetti interventricolari possono essere anteriori o posteriori e quindi
riguardare il setto anteriore o il setto posteriore. L’approccio chirurgico è vario: si può passare all’atrio dx per
via transtricuspidale, solitamente si tende a passare dalla parte infartuata perchè chiaramente dobbiamo
fare un accesso sul ventricolo, sulla parete ventricolare, che poi verrà risuturato, per accedere al setto.
Passiamo dal ventricolo dalla parte infartuata, quindi da zone già sofferenti. Si passa dal ventricolo sx e non
dal ventricolo dx anche per avere una maggiore superficie di attacco del patch che solitamente viene messo.
È raro che venga fatta una sutura diretta proprio perché il tessuto è edematoso e non abbiamo la garanzia
che tenga, quindi suturiamo con patch il pericardio. Una volta suturato con la patch a coprire la soluzione di
continuo, a livello del setto, si richiude la porzione di parete ventricolare. Questo è l’approccio chirurgico nei
difetti interventricolari.
Diverso è nella rottura di parete libera.
La rottura della parete libera può essere acuta, subacuta e cronica.
Le forme acute sono le più gravi e si ha una morte improvvisa da tamponamento cardiaco (immagino
sappiate cosa sia). La breccia è grossa e si ha improvvisa fuoriuscita di sangue nella cavità pericardica, quindi
un quadro di tamponamento cardiaco e morte per PEA senza polso, prima veniva chiamata dissociazione
elettromeccanica. Questo avviene in pochi minuti e la prognosi è infausta.
Nelle forme subacute la breccia è piccola, serpiginosa, il filtraggio è lento, il paziente non tampona nel giro di
minuti, ma di ore e ha tutto il tempo per manifestarsi ed è compatibile con la vita. Magari ho avuto un
evento ischemico 3-4 giorni prima, ho una rottura di parete libera è in una zona piccola, la quantità di sangue
che esce non è elevata e posso andare avanti con questo quadro anche per qualche ora, giorni prima che si
manifesti il quadro di tamponamento cardiaco.
Infine si può manifestare come evento cronico, sembra impossibile, ma in realtà si forma un coagulo che va a
tappare la breccia e il paziente non manifesterà tamponamento cardiaco ed evolverà magari in
pseudoaneurisma, vedremo cos’è.
Quindi nel caso di rottura di parete libera il quadro clinico è variabile. Noi cosa facciamo?
Chiaramente nell’evento acuto non si riesce a compensare. Nelle forme subacute viene fatta sternotomia di
emergenza, si apre il pericardio, si rimuovono i coaguli e si va a riparare la breccia o direttamente oppure
mediante interposizione di una patch, ma solitamente si riesce con una sutura diretta.
Mostra un’immagine: vedete c’è una breccia che può essere più o meno grossa, si interviene con sutura
diretta o tramite posizionamento di una patch.
Attenzione: se non sapete cos’è un tamponamento cardiaco riguardatevelo.
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INSUFFICIENZA MITRALICA DA ROTTURA DEL MUSCOLO PAPILLARE
Infine vediamo l’insufficienza mitralica da rottura del muscolo papillare, vi premetto subito che la rottura del
muscolo papillare non è l’unica causa dell’insufficienza mitralica acuta. Esistono delle forme da miocardio
stordito, quindi stordimento del miocardio a livello del muscolo papillare che può essere responsabile
dell’insufficienza mitralica acuta.
La rottura del muscolo papillare è un evento grave, con insufficienza mitralica acuta in un paziente che
magari non ha insufficienza mitralica preesistente, i meccanismi di compenso vengono meno. La rottura può
essere a tutto spessore, si può rompere tutto il muscolo papillare oppure parziale. In ogni caso avrò un
prolasso della valvola con insufficienza mitralica acuta.
Che terapia chirurgica facciamo?
Fondamentalmente, quando possibile, meglio la riparazione valvolare, rispetto alla sostituzione, che consiste
nel riposizionamento del muscolo papillare. Però spesso il tessuto è malacico e l’unica terapia possibile
diventa la sostituzione della valvola. Associata o meno ad intervento di bypass aortocoronarico in base alla
situazione coronarica.
Faccio un esempio: un paziente fa un infarto lo porto in emodinamica e rendo pervia la coronaria, dopo 3–4
giorni ha un’insufficienza mitralica acuta, intervengo sulla valvola e non faccio bypass perché la coronaria è
già stata riaperta dall’emodinamista.
Faccio alcune domande:
Tutte queste tre condizioni, clinicamente c’è un modo per riconoscerle, per esempio il DIV posso
riconoscerlo con l’esame obiettivo?
Se io ho paziente che ha fatto un infarto qualche giorno prima, faccio l’auscultazione e trovo un soffio che
prima non c’era ed è un soffio irradiato verso dx devo sospettare un DIV. Nell’insufficienza mitralica acuta è
lo stesso discorso, in un paziente senza soffio cardiaco se all’auscultazione c’è insorgenza improvvisa di un
soffio da insufficienza mitralica, mi deve far sospettare una insufficienza mitralica acuta. Quindi l'E.O. è molto
importante.
Come si fa la diagnosi di queste malattie?
Sono patologie molto gravi, ma diagnosticabili banalmente con un’ecografia cardiaca, verrà fatta anche una
radiografia successivamente per valutare il grado di congestione polmonare. L’Ecografia è unico esame per la
diagnosi tempestiva, anche la risonanza magnetica non posso dire di no, si vede tutto e non da solo
un’informazione anatomica ma anche funzionale, però è un esame che non viene fatto, è lento.
FORME CRONICHE
Andiamo a queste ultime due patologie, non sono rarissime. Sono manifestazioni cliniche di una complicanza
meccanica dell’infarto del miocardio, sono di tipo cronico cioè si sviluppano nel tempo per alterazione
dell’evoluzione della cicatrice fibrosa.
Queste due forme sono diverse sono diverse da un punto di vista anatomico, istologico e fisiopatologico.
L’aneurisma del ventricolo sx è una dilatazione del ventricolo sx costituita da tutti e tre i foglietti cardiaci,
endocardio, miocardio e epicardio. Questa dilatazione che sia apicale, inferiore o globale, fisiologicamente si
può manifestare o come un’area acinetica o come discinesia, ossia un movimento opposto a quello naturale,
cioè durante la sistole sappiamo che la parete cardiaca si contrae e si rilassa nella diastole, nella discinesia
avviene l’inverso si dilata nelle sistole e si accorcia come se si contraesse nella diastole. Quindi in sistole
parte del sangue del ventricolo sx invece di andare in aorta va direttamente nella camera aneurismatica. Vi
faccio vedere le immagini: vedete la parte con l’aneurisma in sistole anziché spingere il sangue in aorta lo
riceve e viceversa nella diastole. Quindi c’è una riduzione della gittata cardiaca, parte del sangue invece di
andare in aorta va in questa dilatazione.
Essendo l’aneurisma costituito da una cicatrice fibrosa spessa, la probabilità di rottura è bassa. Per cui
portiamo in sala questi pazienti in due casi: il primo è quando c’è una forte riduzione della gittata cardiaca, la
presenza dell’aneurisma condiziona la gittata cardiaca del paziente, allora c’è indicazione alla rimozione. Cioè
se io avessi un aneurisma di un centimetro difficilmente il mio cuore risentirà della presenza dell’aneurisma,
quindi non vado in sala proprio perché il rischio di rottura è basso e lo lascio stare. Lo porto in sala quando le
dimensioni dell’aneurisma superano i 5 cm, in questo caso il rischio di rottura c’è e quindi c’è indicazione
all’intervento. Il secondo caso in cui ho indicazione è quando ho aritmie intrattabili.
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Capite bene che avere una cicatrice fibrosa così estesa può favorire l’insorgenza di aritmie ventricolari
maligne e quindi metterò un defribrillatore e poi c’è indicazione all’intervento. L’intervento consiste in un
aneurisectomia, rimozione dell’aneurisma e nella chiusura del colletto, cioè il passaggio tra il tessuto
normale e l’aneurisma, appunto detta colletto, si sutura con il patch. La complicanza di questo intervento è
la riduzione della camera ventricolare.
Vediamo adesso l’ultima complicanza cronica lo pseudoaneurisma, è un aneurisma in cui la parete non è
costituita da cicatrice fibrotica, ma è costituita da un coagulo. Ritornando al paziente che fa un infarto del
miocardio e dopo pochi giorni ha rottura della parete libera, piccola, non troppo estesa, tende a cronicizzare
e il coagulo si organizza, non diventa stabile, ma delimita la perdita di sostanza.
A differenza dell’aneurisma in cui la parete è spessa e il rischio di rottura basso, in questi casi, essendo la
parete della dilatazione costituita da coagulo organizzato, è fragile ed a rischio di rottura. Per cui se ho due
pazienti uno con aneurisma ventricolare stabile e l’altro con pseudoaneurisma stabile e ho un solo
intervento a disposizione preferisco portarci il paziente con pseudoaneurisma perché è a rischio di rottura.
Non è semplicissimo distinguerli a livello ecocardiografico, lo pseudoaneurisma tende ad avere un colletto
più stretto mentre l’aneurisma il colletto è più dilatato. Lo pseudoaneurisma è più piccolo. Non è comunque
facile distinguerli.
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Valvulopatie
(lezione tenuta dal dott. Bugetti)
Allora ragazzi, se non ci sono domande rispetto alla lezione di ieri, inizieremo oggi a parlare delle valvulopatie,
un argomento importantissimo e chiaramente di interesse cardiochirurgico, che sicuramente avete già
trattato a cardiologia.
Innanzitutto vi dico che è importantissimo considerare i rapporti anatomici di questo apparato, composto dalla
valvola mitrale e dalla valvola tricuspide, che sono in rapporto con, rispettivamente, ventricolo sinistro e
ventricolo destro, e da altre due valvole, che sono le valvole semilunari, aortica e polmonare, le quali, invece,
sono in stretto rapporto con i tronchi arteriosi, rispettivamente aorta e polmonare. Vi dico queste cose perché,
considerando per esempio la valvola mitrale - ma questo è un discorso che si può fare anche per le altre valvole
- non dovete pensare alla valvola solo come a una struttura tendinea, formata da due lembi. In realtà la
situazione anatomica è molto più complessa e infatti, per l’integrità anatomo-funzionale della valvola mitrale,
è necessario che siano integri tutti i suoi componenti e quindi: i due lembi valvolari, l’annulus mitralico, il
muscolo papillare e la parete ventricolare. Questa cosa ci interessa tanto per due motivi:
1) perché l’alterazione di anche solo di uno di questi componenti può portare a un’alterazione della valvola
stessa;
2) per conoscere il meccanismo con cui si determina, in questo caso, per esempio, un’insufficienza mitralica,
che può essere fatto per tutte le valvole.
Se consideriamo la valvola aortica, il rapporto non è tanto con il ventricolo quanto con la radice aortica e anche
qui non dovete pensare alla valvola come solo il lembo o i lembi, ma dovete pensare a una vera e propria
struttura tridimensionale. In questo caso il problema di funzionamento della valvola aortica non dipende solo
dai lembi, ma dipende dall’annulus aortico, chiaramente dai lembi, dal seno di Valsalva, dalla giunzione
senotubulare e, in generale, dall’integrità della radice aortica. L’alterazione anche solo di uno di questi
componenti della valvola può portare a una valvulopatia. Quindi, per l’approccio, è molto importante il
discorso anatomico, sia per capire il difetto che per orientarci poi nell’intervento attraverso la comprensione
dell’eziologia delle valvulopatie.
Sapete che esistono:
• forme congenite: malformazioni congenite, di cui sicuramente la più frequente è la bicuspidia aortica, quindi
la situazione in cui la valvola aortica non è formata da tre lembi delle cuspidi, ma da due. Esistono poi
alterazioni della valvola mitrale congenite, quali la deficienza fibroelastica che porta poi, nel tempo, alla
malattia di Barlow - queste fondamentalmente sono le malformazioni, le valvulopatie congenite più
frequenti;
• forme reumatiche: quelle forme in cui il primum movens è un’infezione batterica, ma poi, sempre per la
nostra reattività, si innesca un circolo “immunologico”, immune, per cui si ha un danno continuo flogistico
sulle strutture non solo del pericardio, del miocardio e principalmente dell’endocardio, ma anche a livello
delle valvole - e quindi anche questa è una causa molto frequente di valvulopatia, che si vedeva soprattutto
in passato;
• forme degenerative: probabilmente le più frequenti, tipiche del paziente anziano;
• forme infettive: sono molto importanti, anche perché spesso sono veramente aggressive. Le valvulopatie su
base infettiva sono le endocarditi, che chiaramente possono interessare tutte le valvole, più frequentemente
valvola aortica o la mitrale, talvolta anche la tricuspide, per la quale esiste un sottogruppo di pazienti, come
quelli che utilizzano sostanze stupefacenti, oppure portatori di pacemaker o di cateteri venosi centrali,
particolarmente suscettibile;
• forme ischemiche: coinvolgono per lo più solo la valvola mitrale, e di queste abbiamo fatto un accenno nella
determinazione dei caratteri, sia acuti che cronici, della cardiomiopatia ischemica.
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Queste sono le cose generali, che interessano un po’ tutte le
valvole, e accanto a queste ci sono delle alterazioni un po’
particolari, come per esempio la sindrome da carcinoide, che
invece tende a interessare le valvole delle sezioni destre del
cuore.
Già sapete che le valvulopatie si possono manifestare come
difetti di apertura della valvola, le stenosi, oppure di chiusura
della valvola stessa, le insufficienze, anche se spesso il vizio
può essere combinato, quindi si può avere una
stenoinsufficienza. Sicuramente vi ricorderete da anatomia
che le valvole cardiache sono valvole unidirezionali, cioè
consentono il flusso del sangue solo in una direzione.
Chiaramente in caso di insufficienza questo non è più vero.
In linea generale, bisogna fare un discorso che vale un po’ per
tutta la medicina e a maggior ragione è necessario farlo bene:
in linea generale, in medicina, una malattia acuta dà sempre i
sintomi molto più severi rispetto a una forma cronica, questo
sia che si parli di insufficienza renale, sia che si parli comunque
anche di fibrillazione atriale, insomma in medicina questo è sempre vero perché, nelle forme acute, vengono
a mancare i meccanismi di compenso. Questo discorso è assolutamente vero anche per le valvulopatie, proprio
per la mancanza di quelli che sono i meccanismi di compenso di cui, immagino, avrete già parlato nel corso di
cardiologia. Per cui le forme di valvulopatia acute tendono a presentarsi in maniera molto più aggressiva
rispetto alle forme croniche. Per esempio, a parità di severità di insufficienza mitralica, io posso avere il
paziente cronico con un’insufficienza mitralica che sta a casa, tendenzialmente bene, sebbene chiaramente in
seguito a sforzo possa stare male, però tutto sommato è abbastanza tranquillo, e la stessa entità di
insufficienza insorta in modo acuto rende il paziente da portare immediatamente in sala - un po’ come
abbiamo visto ieri per esempio nel caso di rottura del muscolo papillare. Ricordate quindi che le forme acute
sono sempre più impegnative da un punto di vista clinico.
[Segue una carrellata di immagini, senza descrizioni. Vengono mostrate: valvola mitralica reumatica, valvola
aortica normale, valvola bicuspide già degenerata, con noduli fibrotici, calcifici, valvola verosimilmente
reumatica con fusione delle due commessure.]
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C’è poi una valvola verosimilmente reumatica in cui le due commessure sono fuse; molto spesso la reumatica
si manifesta proprio come fusione delle commessure, oltre alle alterazioni da parte dei lembi. Infine c’è una
valvola tricuspide, quindi normoconformata, degenerata - verosimilmente è una degenerazione calcifica
senile, quindi legata all’età.
Come ho già detto prima, non basta che i lembi siano sani affinché la valvola possa funzionare, ma una
dilatazione dell’annulus aortico o della radice aortica può determinare l’insufficienza della valvola aortica
stessa.
Ritornando alle endocarditi, chiaramente su base infettiva, sono patologie molto molto pericolose nel paziente
cardiopatico in generale, perché tendono a insorgere sulle valvole, sia su quelle native, che tendono più
frequentemente a degenerare o che comunque sono già in via di degenerazione, ma soprattutto possono
verificarsi anche su valvole protesiche, quindi su protesi valvolari. Tendenzialmente, quelle su protesi si
possono verificare o velocemente dopo un intervento oppure dopo un anno dall’evento. Quando dico
velocemente intendo entro un anno e intendo verosimilmente infezioni contratte o durante l’intervento o
nell’immediato post-operatorio, comunque collegate all’intervento stesso, che quindi sono “di pertinenza
chirurgica”. Vedremo successivamente che, appunto, c’è un ruolo fondamentale nella profilassi nei pazienti
cardiopatici in generale, ma soprattutto nei pazienti portatori di protesi.
Questa è un’immagine intraoperatoria, queste sono le cannule arteriose della circolazione extracorporea,
questa è la valvola mitrale, questo è il
lembo anteriore della valvola mitrale e
qui vedete c’è una soluzione di continuo,
un foro, verosimilmente da processo
endocarditico. Chiaramente
l’endocardite interessa i lembi, a volte
anche l’annulus, con la formazione poi
successiva dell’ascesso, ma può
interessare e spesso interessa le corde
tendinee, cioè l’anomalia cordale non è
un fenomeno legato all’ischemia
miocardica (quella è la rottura del
papillare), la rottura delle corde tendinee
può non essere collegata all’endocardite
però si può ritrovare nell’endocardite.
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Tra i diversi vizi valvolari, sicuramente le forme degenerative sono le più frequenti e tra queste
fondamentalmente la stenosi valvolare aortica, che è una delle malattie che si riscontrano più frequentemente
e una delle cause più frequenti di intervento cardiochirurgico. Tralasciando chiaramente la patogenesi - so che
ne avete parlato abbondantemente in altri
corsi - sapete che nella diagnostica delle
valvulopatie in generale ha il ruolo
predominante l’ecografia cardiaca. Non
che non esistano altre metodiche in grado
di studiare le valvulopatie o il cuore stesso,
come per esempio la risonanza magnetica,
però, di fatto, è la metodica principe. Nella
valutazione della stenosi valvolare aortica,
ad esempio, quello che interessa a noi è
poter andare a misurare l’area, con tecniche di planimetria, ma non sempre è possibile e quindi si ricorre a
metodiche quali la misurazione dei gradienti transvalvolari.
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Questo grafico dimostra ancora quello che ho detto: vedete, c’è una grossa differenza tra i pazienti che vanno
incontro a intervento - chiaramente una volta subentrati i sintomi: la sopravvivenza è intorno al 90%, mentre
è estremamente ridotta per pazienti che non vengono sottoposti a intervento. Non mi dilungo su cosa si può
valutare con l’ecografia, vi basta sapere che l’ecografia non solo vi consente di fare una diagnosi, vi consente
anche di caratterizzare la valvulopatia stessa e quindi di valutarne l’entità e la gravità. Nel caso di stenosi della
valvola aortica, infatti, si parla di forme severe quando l’area valvolare è inferiore a 1 cm^2 oppure quando i
gradienti superano un determinato valore, ovvero quando il gradiente massimo supera i 75 mmHg e il
gradiente medio è sopra i 50 mmHg. Questi valori, chiaramente, sono indicativi e variano in base al tipo di
individuo, però questo è per far capire proprio l’importanza dell’ecografia.
Lo stesso discorso che io lo sto facendo per la stenosi valvolare aortica, chiaramente può e deve essere esteso
a tutte le valvole, con parametri e valori diversi, dato che è valido per tutte le valvole.
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da utilizzare viene consentita al paziente. Qui ci sono degli esempi, non so magari vi sarà capitato di vedere:
sopra ci esempi di valvole meccaniche, da quelle più antiche alle più moderne, e qui esempi di protesi
biologiche.
→ Valvole meccaniche: sono valvole costituite da materiale artificiale, carbonio pirolitico, e hanno il grosso
vantaggio che non degenerano. In teoria durano a vita e quindi, sempre in teoria, una volta posizionate il
paziente non ha più bisogno del medico. Però dico in teoria perché:
• si possono comunque infettare - anche le biologiche, chiaramente;
• si possono bloccare, si può avere una disfunzione collegata alla degenerazione, però una disfunzione
della valvola stessa.
Queste hanno due svantaggi:
1. tendono a essere rumorose: in condizioni di silenzio si può avvertire un tic tac tipo orologio, però
devo dire che alcuni pazienti lo sentono, però insomma qualcun altro non lo sente, e alla fine
questo è uno svantaggio tutto sommato accettabile.
2. richiede un’anticoagulazione importante: questo è lo svantaggio maggiore della protesi
meccanica, richiede non una antiaggregazione ma una anticoagulazione con dicumarolici, dato
che, per il momento, i nuovi anticoagulanti orali non sono disponibili nel trattamento e la gestione
del paziente con protesi meccanica, e il livello di coagulazione varia in base al tipo di protesi
inserita. Si va da un INR fra 2.5 e 3 nella protesi aortica che aumenta se interessa anche la mitrale
e se sono sostituite entrambe le valvole.
Voi conoscete i dicumarolici per l’anticoagulazione? Al di là dell’aspetto proprio pratico del paziente, ovvero
che i primi giorni dopo l’intervento il paziente deve essere sottoposto a un controllo di questi valori - INR con
un prelievo, in base al quale si stabilisce la quantità di farmaco - e via via che passa il tempo basta un prelievo
una volta alla settimana e poi una volta ogni due settimane, è una terapia che condiziona la vita del paziente.
Prendere poco farmaco significa evitare il rischio trombogenico di molto, proprio perché il paziente ha una
struttura artificiale, non ha una struttura fisiologica, non ha una struttura biologica e quindi il concetto è:
prendendo poco farmaco e quindi tenendo l’INR basso, si rischia che sulla valvola meccanica si formi un
trombo o un coagulo e quindi si rischia che o la valvola si rompa, oppure magari che si abbia un’embolia. Se
invece prendo troppo farmaco e l’INR supera in alto questo range, allora siamo all’opposto, quindi una diatesi
emorragica, quindi un sanguinamento intenso, spiccato, sia spontaneo sia indotto da anche piccoli traumi
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anche se, chiaramente, l’esempio maggiore potrebbe essere un trauma cranico. Quindi quel range che vedete
lì chiaramente non è un valore perfetto, non si può escludere che i pazienti non abbiano eventi emorragici e
trombotici anche se hanno un INR compreso tra i valori, ma hanno un range di maggiore sicurezza. Sotto quei
valori il rischio trombotico è altissimo, sopra quei valori il rischio emorragico aumenta tantissimo. Quindi capite
bene che per il paziente, la volta in cui rischia un trauma - mettiamo che faccia un lavoro in cui rischia di
tagliarsi - una terapia con il dicumarolico lo mette sempre a rischio di sanguinamento. E’ una terapia che deve
essere fatta in maniera seria, non è una terapia che può essere fatta un giorno sì e un giorno no in base a come
uno si sveglia, perché i rischi sulla valvola e sistemici sono molto importanti. Quindi questa è la valvola
meccanica, però è anche vero che la valvola dura tutta la vita e ci sono persone che la tengono trenta,
quarant’anni.
→ Valvole biologiche: sono fondamentalmente valvole simili alle nostre, perfettamente funzionanti, che non
richiedono terapie particolari, nel senso che non esiste il rigetto, dato che vengono trattate, fissate e perciò
non dovete pensare a qualcosa di estraneo. Non fanno rumore, sono silenziose, però hanno un limite: essendo
fatte da materiale biologico, nel tempo tendono a degenerare e quindi, ovviamente, a diventare o stenotiche
per lo più o altrimenti anche insufficienti, ma, d’altra parte, non richiedono terapia anticoagulante se non per
i primi tre mesi, cioè il tempo necessario all’endotelizzazione della valvola stessa; una volta che è endotelizzata,
il rischio trombotico è praticamente vicino allo zero - comunque basso - per cui il paziente può sospendere
l’anticoagulante. Addirittura, nelle recenti linee guida, per la protesi valvolare biologica c’è indicazione
solamente a fare un antiaggregante, non ci sarebbe nemmeno la necessità di fare l’anticoagulante anche se,
storicamente, viene fatto per maggiore sicurezza. Però, in linea di massima, nella protesi biologica
l’anticoagulazione è solo per i primi tre mesi e quindi, appunto, questo è un grosso vantaggio rispetto alla
protesi meccanica. Lo svantaggio principale è quello legato al fatto che non dura in eterno, tende a degenerare,
però quant’è questo tempo? Chiaramente, se fosse un mese o un anno non se ne farebbe niente, e se fosse
quarant’anni non si porrebbe il problema, si metterebbe a tutti la biologica. Sfortunatamente siamo nell’ordine
di una media di una decina d’anni, più o meno. Dico più o meno perché si è visto che nel paziente giovane
queste valvole tendono a durare poco, quindi siamo sugli 8-10 anni, più 8 che 10, poiché le protesi di un
paziente giovane hanno un metabolismo aumentato, invece nel paziente anziano siamo sui 15 abbondanti, in
media.
Capite bene che non c’è una valvola perfetta e, quindi, come si fa a scegliere? Bisogna scegliere in base alle
caratteristiche del paziente anche se poi, chiaramente, la scelta è del paziente stesso. Però se io ho un paziente
anziano, diciamo 70-75 anni, che non ha motivo di fare l’anticoagulante, è chiaro che sono più i vantaggi a
mettere una protesi biologica piuttosto che una protesi meccanica, perché comunque più o meno la durata è
15-16 anni, il paziente arriva quasi a 90 anni, può essere anche che muoia per altri motivi. Poi ci sono tutte le
nuove metodiche in cui si posiziona una valvola mettendo una protesi biologica, insomma, in linea di massima,
chiaramente, bisogna valutare da paziente a paziente. Ci sono stati anche pazienti di trent’anni che hanno
scelto la biologica con la consapevolezza di stare bene per tre, quattro, cinque, massimo sei anni, con la
consapevolezza che poi si devono rioperare, ma nei pazienti giovani a cui chiaramente non si può fare 5-6
interventi al cuore, ci sarebbe l’indicazione a mettere una protesi meccanica, che comunque garantisce,
nonostante il Coumadin, una durata molto maggiore. Le linee guida, più o meno, sopra i 60 anni
consiglierebbero una protesi biologica, sotto i 50 anni consiglierebbero una protesi di tipo meccanico, e poi
c’è tutta una zona di grigi, diciamo tra i 50 e i 60 anni, in cui non ci sono dati che ci aiutano a scegliere e quindi
la scelta dipende molto dal paziente e dalle aspettative di vita che ha.
Qualsiasi lavoro, qualsiasi specializzazione voi facciate, dovete sempre ricordare che un paziente con
valvulopatie in generale, ma a maggior ragione un paziente operato sia in riparazione e soprattutto in
sostituzione valvolare, è un paziente sempre a rischio di endocardite e quindi bisogna evitare tutte le situazioni
in cui essa può avvenire. Quindi massima attenzione all’igiene e alle misure preventive, per quanto riguarda la
specie infettiva. Il paziente con protesi valvolare deve fare profilassi antibiotica ad ampio spettro, che viene
fatta un po’ a tutti, sicuramente in caso di procedure odontoiatriche invasive, proprio per l’atto effettivo, visto
che ha delle strutture non naturali, non biologiche, e il rischio di contaminazione batterica in seguito a una
batteriemia sulle protesi è altissimo e quindi il paziente deve essere sottoposto a una profilassi. Prima veniva
fatta la profilassi in seguito a manovre endoscopiche, ora nelle linee guida non c’è più questa richiesta, però è
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rimasta solo quando bisogna fare procedure odontoiatriche nei pazienti, però sappiate che il rischio c’è
sempre.
Qui abbiamo immagini di interventi di riparazione mitralica, giusto per farvi vedere. Anche qui chiaramente
come vi dicevo a inizio lezione è molto importante conoscere l’anatomia di tutti i componenti valvolari perché,
in base a quella si riesce a capire poi quali di questi fattori sono implicati nella genesi della valvulopatia e ciò
ci guida ovviamente poi nella strategia riparativa. Qui vedete fondamentalmente la valvola mitralica, questo è
il lembo posteriore, questo è il lembo anteriore, qui è stata fatta una resezione che si chiama quadrangolare
di questo segmento, di questo lembo posteriore che si chiama
V2, si ha un prolasso e in questo caso c’è il prolasso del lembo
posteriore e poi il successivo riposizionamento. Questa è
un’altra tecnica, stesso discorso della valvola aortica. In base
al tipo di lesione, in base al tipo di malattia, in base al tipo di
componente alterata, sono possibili interventi riparativi ma,
più frequentemente, sostituzioni della valvola stessa.
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CARDIOPATIE CONGENITE
Le cardiopatie congenite possono essere classificate in vari modi. Una prima classificazione distingue forme
semplici da forme complesse.
Quelle semplici sono malformazioni in cui è presente un solo difetto.
Le cardiopatie complesse sono quelle in cui 2 o più malformazioni anatomiche sono presenti in quel cuore;
nella Tetralogia di Fallot per esempio ci sono 4 alterazioni: difetto del setto interventricolare, aorta a
cavaliere, stenosi della valvola polmonare e ipertrofia del ventricolo destro.
Una terza classificazione importante è quella che valuta l'afflusso polmonare: ci sono malformazioni che
determinano una riduzione del flusso polmonare, ad esempio la Tetralogia di Fallot in cui troviamo una stenosi
dell'arteria polmonare e un difetto del setto interventricolare, per cui il sangue da destra passa a sinistra e
c'è poco flusso di sangue nel circolo polmonare; ci sono però anche malformazioni che determinano un
eccesso di flusso polmonare, ad esempio la pervietà del dotto di Botallo. L'eccesso di flusso polmonare
comporta una reazione del circolo polmonare che all'inizio è reversibile, successivamente se persiste
l'iperafflusso, l'alterazione diventa irreversibile e il problema da cardiaco diventa cardiopolmonare.
Parlando delle cardiopatie congenite da iperafflusso polmonare, abbiamo detto che il circolo polmonare
reagisce in modo da diminuire il flusso stesso. Inizialmente si ha una vasocostrizione delle arteriole dei
capillari polmonari: il bambino nasce con un difetto del setto interventricolare, abbiamo un iperafflusso di
sangue verso il polmone perché a ogni sistole del ventricolo sinistro parte del sangue va nel ventricolo destro
e si somma a quello che giunge dall'atrio destro.
Il circolo polmonare si difende con una vasocostrizione.
Questa vasocostrizione è un fenomeno funzionale, per cui una volta corretto il difetto del setto
interventricolare si annulla l'iperafflusso polmonare e dopo un po' il circolo polmonare torna alla normalità.
Il paziente torna ad avere una pressione polmonare normale e non abbiamo danni ulteriori.
Se questo trattamento non viene fatto nei tempi adeguati, nel corso degli anni questo iperafflusso di sangue
continua ad arrivare al polmone e le arteriole a un certo punto modificano la loro struttura della parete
ispessendosi, rendendo l’ipertensione polmonare da reversibile fissa e non più trattabile con i vasodilatatori.
Con il passare del tempo questa proliferazione porta a una stenosi quasi completa e l'ipertensione polmonare
tende ad aumentare finché non si arriva ad una condizione chiamata cuore-polmonare cronico.
Questa condizione è detta Sindrome di Eisenmerger ed è l'evoluzione di una cardiopatia congenita con
iperafflusso polmonare non trattata. A questo punto l’unica cosa che resta da fare è un trapianto di cuore e
polmoni, un intervento fattibile ma con mortalità estremamente elevata e risultati spesso non soddisfacenti.
In ogni caso le cardiopatie congenite si manifestano tutte nello stesso modo e la loro sintomatologia è
abbastanza stereotipate: abbiamo cianosi, dispnea, insufficienza cardiaca, aritmie e morte improvvisa. Per fare
diagnosi di queste malattie ci affidiamo ai soliti strumenti che ci permettono di evidenziare queste condizioni
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in modo abbastanza diretto: RX del torace, ECG, Ecocardiogramma (strumento principe nella cardiochirurgia
pediatrica. Le immagini nei bambini risultano più nitide perché le coste nel neonato e nel bambino sono ancora
composte di cartilagine e questo tessuto rispetto all’osso non rappresenta un ostacolo per il passaggio delle
onde che partono dalla sonda) ed infine la coronarografia.
Per quanto riguarda la terapia per questi pazienti è quasi sempre chirurgica.
Gli interventi chirurgici possono essere palliativi oppure correttivi.
I primi si fanno nelle CC non correggibili per migliorare la qualità di vita del paziente, ma non viene risolto il
problema. Si possono applicare anche a pazienti con CC correggibili. Si tratta di un’operazione svolta in due
stadi: il primo stadio si basa sull’intervento palliativo che accompagna il paziente fino al secondo stadio dove
viene operato con un trattamento correttivo.
Gli interventi correttivi sono ulteriormente divisi in due sottocategorie: anatomici, quando vanno a risolvere
fisicamente un difetto anatomico, e fisiologici, i quali non vanno a riparare la struttura anatomica del cuore,
ma si interessano di mantenerne la corretta funzionalità.
Esiste una situazione patologica molto importante nella quale l’aorta nasce dal ventricolo destro e l'arteria
polmonare nasce dal ventricolo sinistro, una condizione chiamata trasposizione dei grossi vasi. Oggigiorno si
opera tagliando e riattaccando aorta e tronco polmonare nelle giuste sedi ma fino a 25 anni fa questa
procedura non era possibile ed erano state ideati degli interventi chirurgici fisiologici che non riportavano il
cuore alla sua struttura anatomica normale ma gli restituivano la sua funzione fisiologica. Questi consistevano
nell’inversione dei circuiti atriali in modo che il sangue dal lato sinistro arrivasse in ventricolo destro e il
sangue del lato destro venisse shuntato verso la mitrale e da lì poi verso l'arteria polmonare.
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Tumori del cuore
Anche il cuore è suscettibile a fenomeni neoplastici. I tumori del cuore sono, nella stragrande maggioranza
dei casi, tumori primitivi, e solo in piccola parte sono tumori metastatici. La maggior parte sono tumori
benigni del cuore, in particolare il MIXOMA CARDIACO, che origina dalla porzione endocardica. È la neoplasia
del cuore più frequente, e lo si ritrova soprattutto a livello dell’atrio sinistro, più raramente nell’atrio destro.
Prende origine dalla fossa ovale, ma ci sono alcuni casi in cui può originare dalle strutture valvolari o dalle
pareti del ventricolo. In alcuni casi i mixomi possono essere anche multipli.
I mixomi possono essere a superficie liscia e regolare nell’atrio sinistro, nell’atrio destro invece sono
irregolari, con superficie slaminata e tendenza all’embolizzazione. Possono raggiungere 5-6 cm di diametro.
La sintomatologia è in parte legata a disturbi sistemici. Ancora non è chiarissima l’origine, ma si può avere
febbricola, astenia, deperimento, presenza di corpi circolanti e così via, sono sintomi piuttosto generici che
quindi possono passare inosservati, per cui il paziente può riferire come primo sintomo un evento cellulare
acuto.
Il tumore tende ad interagire con le valvole atrioventricolari, per cui può ostruirla improvvisamente
determinando quadri di bassa gittata, portando così a sintomi come improvvisa astenia. In altri casi la massa
può occupare completamente il lume della valvola, determinando una sintomatologia più simile a quella di
una stenosi valvolare: questo vuol dire che la valvola atrioventricolare si riduce di dimensioni. In altri casi può
portare ad una lesione della valvola rendendola insufficiente.
Per la diagnostica ci si basa sull’ecografia, transesofagea poi si possono usare anche TAC e risonanza
magnetica, che ci consentono di valutare la vascolarizzazione e la tendenza ad infiltrare. Nel 90% dei casi
avremo diagnosi certa, altrimenti anche la biopsia è possibile.
La terapia è chirurgica e consiste fondamentalmente nella rimozione della neoplasia e nella riparazione della
discontinuità che si viene a creare – a volte possono essere sufficienti dei punti di sutura, l’intervento quindi
consiste nella rimozione della neoplasia alla sua base di impianto.
La diagnosi di mixoma è un’indicazione alla chirurgia d’urgenza a causa del rischio di embolizzazione e della
tendenza ad ostruire la valvola atrioventricolare. Questi tumori hanno una scarsa tendenza a dare metastasi,
non sono tumori maligni, ma potrebbe esserci una recidiva locale.
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Aneurismi dell’aorta toracica
Con aneurisma si intende dilatazione di un’arteria, il cui calibro aumenta almeno del 50% rispetto al suo
calibro normale (o aumentato di una volta e mezzo).
Gli aneurismi dell’aorta toracica possono riguardare tutte le porzioni dell’aorta, dal piano valvolare fino allo
iato diaframmatico.
Che esami possiamo utilizzare per formulare un vedere eventuali ectasie o dilatazioni dell’aorta? Esistono
fondamentalmente due tipi di indagine: la più specifica è la TOMOGRAFIA ASSIALE COMPUTERIZZATA, in
particolare l’ANGIO TC, e in questo caso deve essere somministrato un mezzo di contrasto. Questo tipo di
indagine mi permette di avere una ricostruzione tridimensionale dell’aorta.
Un altro strumento molto utile, che vi darà lo stesso grado di definizione e precisione, è l’ecografia, in
particolare l’ECOGRAFIA TRANSTORACICA e TRANSESOFAGEA. L’ecografia transtoracica ci permette di
vedere molto bene la prima porzione dell’aorta toracica ascendente; l’ecografia transesofagea ci permette di
vedere non solo tutta l’aorta toracica ascendente, ma anche tutta l’aorta toracica discendente e rimane fuori
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solo la porzione dell’arco aortico che non può essere visionata nemmeno con l’ecografia transesofagea dal
momento che tra l’esofago e questa porzione dell’aorta ci sono la trachea e il bronco di sinistra.
Anche l’aorta, come le coronarie, dà delle sindromi acute che hanno una manifestazione molto simile a
quella delle sindromi coronariche acute, cioè sono caratterizzate da dolore anginoso, troppe volte infatti
pazienti con sindromi aortiche acute vengono portati in stanza per sindromi coronariche acute; esse sono
vicendevolmente una delle principali diagnosi differenziali.
Anche in questo caso il dolore domina il quadro clinico, dolore dovuto fisiopatologicamente alla lacerazione
della parete aortica.
La DISSEZIONE DELL’AORTA è tra queste la più frequente e la più rischiosa. Nell’ambito degli aneurismi
dell’aorta vi parlo della dissezione aortica perché la dissezione dell’aorta è anche chiamata ANEURISMA
DISSECANTE DELL’AORTA: gli anatomopatologi che andavano ad analizzare il corpo di pazienti deceduti per
questa malattia trovavano l’aorta dilatata.
La dilatazione che si ha nella dissezione aortica è però diversa dalla dissezione che si ha nell’aneurisma
aortico: è legata infatti ad una lacerazione longitudinale della parete aortica, per cui in corrispondenza di una
lesione tra intima e media si infiltra sangue che slamina la parete dell’aorta a livello della tonaca media, in
particolare tra i 2/3 interni e il terzo esterno della tonaca media. (Il professore sottolinea che spesso
all’esame viene riferito che il sangue si infiltra tra la media e l’avventizia ma che non è vero).
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Ci sono poi altri tipi di lesione che possono dare sindromi aortiche acute, tra cui l’ULCERA PENETRANTE, in
cui si ha una grossa placca aterosclerotica che si svuota del proprio contenuto. Mettendo in tensione una
parte della parete. anche in questo caso il paziente riferisce un caratteristico dolore anginoso. L’ulcera
penetrante è l’esito di una perforazione della parete aortica su una placca aterosclerotica. Questa soluzione
di continuo presenta una discreta componente emorragica che infiltra parzialmente la tunica media, ma
soprattutto quella avventiziale (definizione da Rugarli).
Infine, l’EMATOMA INTRAMURALE: in alcuni casi si può avere un ematoma all’interno della parete senza
lesione dell’intima, a causa di una fessurazione del vaso che fa passare il sangue dal lume del vaso nel
contesto della parete, dato probabilmente dal sanguinamento dei vasa vasorum. È in corso una discussione
per stabilire quale potrebbe essere la causa di questa formazione di sangue nel contesto della parete: è
sangue che penetra dal lume del vaso all’interno della parete, o è sangue che dal contesto della parete poi
fessura verso il lume del vaso? Molto probabilmente saranno coinvolti tutti e due i meccanismi, cioè si può
avere un ematoma all’interno della tunica, oppure un sanguinamento dei vasa vasorum con formazione di
un ematoma di parete, con il sangue che viene compresso. Si tratta di un’entità anatomoclinica ben definita,
costituita dalla raccolta ematica all’interno della tunica media aortica e senza alcuna comunicazione con il
lume dell’arteria: una sorta di dissecazione limitata ma senza porta di ingresso. Nelle immagini si vede
rappresentato uno slaminamento del vaso, e questo è il contesto anatomopatologico che porta alla
formazione del falso lume separato dal vero lume da questo strato intimale.
Perché alcuni pazienti si dissecano? Questa è una patologia tipica di pazienti sui 50-70 anni, colpisce sia
maschi che femmine, ma ci sono alcuni fattori predisponenti. Questi sono rappresentati fondamentalmente
da patologie che alterano la parete del vaso rendendolo meno resistente:
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Il fattore più diffuso è un fattore acquisito, ossia l’aterosclerosi, cioè l’accumulo nel contesto della parete
di tutta una serie di sostanze che vanno sotto il nome di ateroma; questo è un fattore di rischio
fondamentale, e infatti è una patologia il cui rischio di incidenza aumenta con l’aumentare degli anni.
Poi ci sono tutta una serie di patologie genetiche, quindi Sindrome di Marfan e collagenopatie: una delle
principali cause di morte nei pazienti affetti da Sindrome di Marfan è proprio la rottura dell’aorta, quindi
la dissezione o la rottura di un aneurisma dell’aorta. Sono coinvolte anche alterazioni del collagene in
generale: è stato visto per esempio che la bicuspidia aortica si collega ad un’alterazione collaginea che
rende i vasi arteriosi meno resistenti, e infatti quando c’è una bicuspidia aortica il rischio di avere una
dilatazione aneurismatica o una dissezione dell’aorta è maggiore.
Poi c’è il fattore scatenante: l’ipertensione, perché per rompere la parete del vaso la pressione deve essere
maggiore, o comunque deve esserci un picco ipertensivo. I motivi per cui si può avere un picco ipertensivo
sono vari, ma ci siamo resi conto che questi pazienti compaiono soprattutto in certi periodi precisi dell’anno,
in particolare quando si hanno riduzioni improvvise della temperatura.
Il dolore domina il quadro clinico. C’è la possibilità di distinguere un dolore dovuto alla rottura dell’aorta da
un dolore di origine coronarica? Ci sono alcune caratteristiche, alcuni segni di questo dolore, che possono
permettere di intuire qualcosa. Per esempio il dolore aortico è più irradiato posteriormente, soprattutto se si
tratta dell’aorta toracica discendente; poi tende a migrare con il migrare della dissezione, all’aumentare della
parete dissecata, quindi in genere dall’alto verso il basso.
All’esame obiettivo avremo altre caratteristiche, per esempio potremmo notare un’asimmetria del polso: per
esempio il paziente
potrebbe non avere più il
polso a destra, o
comunque averlo molto
ridotto come intensità, e
assolutamente normale a
sinistra. La dissezione
infatti non si limita
all’aorta, ma interessa via
via anche i rami
collaterali, di cui può
determinare o
l’occlusione completa o
l’occlusione parziale, e
quando colpisce il tronco
brachiocefalico o arteria
anonima può determinare
una riduzione del flusso nell’arto superiore destro, per cui posso non sentire più un polso. Lo stesso può
succedere per le arterie iliache o per le carotidi, in quest’ultimo caso con sintomi neurologici estremamente
gravi – gli ictus possono essere davvero devastanti se provocati da un’ostruzione in questa sede.
Gli aneurismi aortici non sono tutti uguali; differiscono per la sintomatologia e prognosi.
Esistono due tipi di classificazione degli aneurismi dell’aorta: la classificazione di De Bakey e la Stanford
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Tipo I: aneurisma che inizia nell’aorta toracica ascendente e continua nell’aorta toracica discendente.
Tipo II: aneurisma dissecante che interessa solamente l’aorta toracica ascendente
Tipo III: interessa solamente l’aorta toracica discendente
Questa classificazione, dal punto di vista clinico, viene considerata meno; viene considerata di più infatti la
classificazione Stanford, che è più importante in quanto ci permette di decidere cosa fare di questo paziente.
Perché questo sistema è più importante? Perché questi due tipi di aneurismi hanno una prognosi
completamente diversa: il tipo A fa morire rapidamente il paziente, tra le due forme è quindi quella più
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aggressiva, quella che più difficilmente cronicizza (ha una mortalità del 50%); se si slamina l’aorta toracica
ascendente bisogna fare qualcosa in emergenza, perché l’aneurisma dell’aorta si può rompere da un
momento all’altro. Si interviene quindi chirurgicamente ma anche in questo caso la mortalità per questo tipo
di intervento è del 50-60%. Il tipo B tende invece a cronicizzare: se il paziente viene lasciato stare, nella
maggior parte dei casi il sangue all’interno del falso lume tende a coagulare e tende a formare una struttura
fibrosa stabile. In questi casi possiamo quindi o operare il paziente – con un rischio operatorio che
comunque non è basso – oppure possiamo favorire la cronicizzazione, e attualmente in genere viene scelto
questo approccio.
Sulla slaminatura e sul fatto che si è accumulato sangue all’interno del lume falso possiamo fare ben poco, se
non chirurgicamente. Farmacologicamente possiamo però tenere sotto controllo il fattore precipitante,
quindi la pressione arteriosa. La cosa che posso fare per favorire la cronicizzazione è somministrare una
terapia ipotensivante controllata, misurazione costante della pressione arteriosa (e varie altre misure di
sicurezza) e nella stragrande maggioranza dei casi i pazienti così trattati tendono a cronicizzare, per cui il
falso lume si detende e il sangue rallenta e coagula, altrimenti bisogna intervenire.
Il paziente di tipo B viene trattato con procedure endovascolari solo in presenza di complicanze d’organo e
segni e sintomi da ipoperfusione: se questi segni non ci sono il paziente viene trattato con terapia medica.
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Chirurgicamente si interviene
come si interverrebbe per un
aneurisma dissecante dell’aorta
ascendente. Si toglie quindi la
parte danneggiata, in cui c’è
passaggio di sangue dal lume
vero al lume falso, e la si
sostituisce con un tubo
protesico. Non è importante
sostituire tutta la parte dell’aorta
slaminata, basta sostituire la parte dell’aorta in cui è presenta la lacerazione, la breccia intimale che
permette il passaggio di sangue, poiché facendo così si risolve la dissezione e la parte con il falso lume
tenderà a cronicizzare. Questo è quindi un esempio di intervento “salvavita”.
Il problema che possiamo avere è che non ci sia una sola breccia intimale ma più d’una, per cui in questi casi
potrebbe essere necessario sostituire l’aorta ascendente o in alcuni casi addirittura l’arco aortico.
Anche nei pazienti di tipo B, se ad un certo punto si lacera l’aorta, l’intervento da fare è ha comunque
l’obiettivo di rimuovere la zona “rotta”: si possono quindi inserire delle endoprotesi nell’aorta toracica
discendente a livello della zona lesionata in modo da riparare la lacerazione dall’interno invece che
dall’esterno, con un rischio più basso.
Anche nell’aorta addominale si potrebbe formare un aneurisma, e anche qui abbiamo una serie di fattori di
rischio, che sono gli stessi che si hanno nella dissezione dell’aorta, per cui si potrebbe andare in contro a
complicazioni. Quando è che si opera un aneurisma dell’aorta toracica ascendente? In generale si opera un
aneurisma quando il vaso raggiunge delle dimensioni per cui il rischio di rottura diventa imminente. In
genere l’aorta toracica ascendente si opera quindi quando raggiunge i 55 mm: sopra i 55 mm bisogna
operare. Se ci sono delle condizioni particolari – per esempio se il paziente va incontro a insufficienza, cosa
molto probabile – le sostituzioni dell’aorta toracica devono essere fatte quando questa supera i 50 mm,
mentre per i pazienti affetti da Sindrome di Marfan o in altre condizioni particolari, in genere si opera
quando l’aorta raggiunge i 45 mm. In linea di massima quindi si opera un aneurisma dell’aorta toracica
ascendente quando questa supera i 55 mm, gli altri invece sono casi particolari.
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Se ad un esame diagnostico si individua uno slargamento del mediastino si deve sospettare un trauma su un
grosso vaso (immagine sopra).
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18 | 12 | 2017 Cardiochirurgia
Prof. Bonacchi
Il trauma chiuso del cuore può portare ad una condizione fisiopatologica particolare che è quella della
CONTUSIONE MIOCARDICA. La contusione miocardica si ha senza discontinuità della parete toracica o
cardiaca, ma è dovuta solamente all’impatto cinetico (spesso dello sterno sulla parete del cuore) e alla
trasmissione i questa energia. Questo comporta compressione e danneggiamento dei miociti che possono in
alcuni casi andare in contro a necrosi. I sintomi sono simili a quelli di un episodio ischemico, e quindi una
lesione infartuale, visibile anche a livello elettrocardiografico.
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Contusione miocardica
• Clinica
• Dolore toracico da contusione muscolare/fratture costali associate.
• Dolore di tipo “pericardico”.
• Dolore precordiale non modificato dai movimenti respiratori.
• Dolore simil-anginoso non responsivo ai nitrati.
• Cardiopalmo (disturbi del ritmo).
• Tachicardia persistente.
• BESV-Flutter/fibrillazione atriale.
• Tachicardia Ventricolare.
• Alterazioni del segmento ST-T (ST sopralivellatoàdanno
transmurale).
I M A Post-Traumatico
Cattedra di Cardiochirurgia
UNI VERSI TA’ DEGLI STUDI DI FI RENZE
La compressione delle camere cardiache, ma anche la compressione da trauma chiuso, può determinare una
lesione delle strutture valvolari. Questo si verifica quando l’impatto avviene durante la diastole, quindi nel
momento di massimo riempimento delle camere ventricolari. Le valvole possono essere poi lesionate da un
aumento della pressione nelle camere ventricolari, e in particolare le valvole che vengono più
frequentemente danneggiate sono le valvole atrioventricolari: se i ventricoli vengono compressi si ha un
aumento di pressione. Questo non avrà un gran significato per le valvole arteriose, perché tanto sono
aperte; le valvole atrioventricolari, invece, sono chiuse in questo momento, per cui l’aumento di pressione
può lacerare le valvole e strappare i muscoli, portando così ad un’insufficienza valvolare acuta.
Tra le due valvole atrioventricolari quella che più spesso va in contro a lesione è la tricuspide perché è molto
più delicata, considerato che lavora in un ambiente in cui le pressioni sono molto più basse.
Anche l’aorta chiaramente può subire danni a causa dei traumi, e la sede in cui più frequentemente si ha
rottura dell’aorta è l’istmo, cioè la porzione di passaggio tra l’arco aortico e l’aorta toracica discendente, il
punto in cui si trova il dotto di Botallo, che nella vita fetale e nelle prime ore dopo la nascita collega l’arco
aortico all’arteria polmonare. L’istmo mette in comunicazione una porzione dell’aorta abbastanza fissa
(discendente) con una porzione più libera (l’arco aortico): quest’ultimo si può quindi inginocchiare
determinando lacerazione.
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14 | 12 | 2017 Cardiochirurgia
Prof. Bonacchi
Trapianto di cuore
L’insufficienza cardiaca, come dice il nome della patologia, è fondamentalmente l’incapacità dell’organo di
svolgere le sue normali funzioni, quindi nel caso del cuore si tratta del problema di perfondere i tessuti, gli
organi, e noi abbiamo insufficienza cardiaca quando questi tessuti e organi non sono adeguatamente perfusi
pur avendo delle pressioni di riempimento adeguate, normali, non alte né basse. Infatti, se alte, vuol dire che
per la legge di Starling è necessario, per una gittata cardiaca normale, sfruttare un meccanismo di compenso,
quindi vuol dire che il cuore non sta benissimo, non è capacissimo di svolgere la sua funzione e ha bisogno di
utilizzare risorse aggiuntive, meccanismi di compenso. Se le pressioni di riempimento invece sono basse, non
è detto che ci si trovi difronte a una insufficienza cardiaca, ma a una insufficienza da ipovolemia: se al cuore
non arriva sufficiente sangue vuol dire che il paziente è fortemente disidratato perché è vasodilatato, perché
ha perso sangue da una ferita, ha perso liquidi per una gastroenterite, ecc., abbiamo una riduzione della gittata
cardiaca non perché la pompa cardiaca non sia in grado di svolgere la sua funzione ma perché non ha
sufficiente sangue per riempirsi in modo adeguato.
Nell’insufficienza cardiaca ci sono vari stadi, il primo è lo stadio iniziale, in cui il paziente è asintomatico, però
se lo andiamo a studiare attentamente troviamo i meccanismi di compenso attivati e ciò vuol dire che il sistema
permette di compensare in modo completo il deficit funzionale del cuore e il paziente, soprattutto in
condizioni di normale attività, non si rende conto che c’è qualcosa che non va - magari se ne accorge soltanto
se fa sforzi molto intensi, però una persona sedentaria non si rende conto. Se invece l’insufficienza cardiaca
progredisce, piano piano questi disturbi si presentano per attività meno intense, fino a essere presenti anche
a riposo, cioè anche in condizioni di metabolismo “basale” il cuore non riesce a svolgere la sua funzione di
perfondere in modo adeguato i tessuti, e quindi il paziente ha i sintomi a riposo.
Che sintomi ha un paziente scompensato?
• dispnea: l’abbiamo detto l’altra volta che ci siamo visti: il sintomo cardine dell’insufficienza cardiaca è la
dispnea, tant’è vero che esiste una descrizione di cui vi ha parlato il professor Rostagno, che si chiama
classificazione NYHA, che si basa proprio sul sintomo dispnea, a seconda che compaia a riposo o con gli sforzi
da moderati a intensi.
Poi? Qual è l’altro sintomo dell’insufficienza cardiaca, tipico, caratteristico, che se non lo sapete vi bocciamo
agli esami?
• edemi declivi: questo più che un sintomo è un segno, però va detto, è accettabile;
• oliguria: anche questo non è un sintomo, ma un segno;
• astenia: molto importante!
Poi altri segni un po’ più difficili da interpretare?
• turgore delle giugulari.
Mi piacerebbe che parlaste di sintomi.
• sincope: è possibile che ci sia.
Avete mai sentito parlare di dispnea parossistica notturna? E avete mai sentito parlare di un altro sintomo con
cui spesso fate confusione, che è l’ortopnea? C’è qualcuno che sa spiegare alla popolazione generale che
differenza c’è tra dispnea parossistica notturna e ortopnea? C’è qualcuno che pensa di averlo capito molto
bene? Questa è un’altra domanda che manda in crisi all’esame. Che differenza c’è?
Studente: L’ortopnea è la forma più grave di dispnea parossistica notturna, cioè l’aggravamento.
Siete d’accordo con quello che ha detto il vostro coraggiosissimo collega? È vero o no? Me lo vuole spiegare
lei?
Studente: Teoricamente la dispnea parossistica notturna è quando il paziente, mentre dorme di notte, sente la
necessità di alzarsi per prendere aria, dovuto al fatto che, per il riassorbimento degli edemi durante la notte,
tutto il polmone si congestiona a causa della posizione distesa e diminuisce il suo rapporto di ventilazione-
perfusione. Da qui deriva la necessità di alzarsi per respirare meglio. L’ortopnea, teoricamente, è da seduto, nel
senso che appena si distende risolve già.
Quindi si tratta sempre di una difficoltà di respirare che viene quando il paziente passa dalla posizione
ortostatica a quella clinostatica, che avviene verso le due, tre di notte nel caso della dispnea parossistica
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notturna, mentre l’ortopnea si ha quando il paziente si deve rialzare subito, non perché è a letto, per la dispnea
importante. Io non ho capito bene se lei hai capito il meccanismo fisiopatologico, può provare a rispiegarlo?
Studente: Più che altro, quando un paziente si distende, per prima cosa c’è il riassorbimento di edemi e quindi
aumenta il ritorno volemico che va al cuore, come seconda cosa, normalmente, nella posizione eretta, se c’è
un edema polmonare l’edema è soprattutto presente nell’apice e quindi gli apici sono iperventilati, quindi il
rapporto ventilazione perfusione è alterato…
Qui va nel dettaglio. Quindi lei dice che quando il paziente si distende e passano delle ore si determina il
riassorbimento dei liquidi dagli edemi declivi, dall’interstizio, ed è un processo abbastanza lento, e che
comunque porta un sovraccarico del circolo: la volemia, molto importante, è determinata dal re-uptake dei
liquidi da questo spazio al circolo vascolare. Questo processo richiede delle ore, il cuore piano piano, siccome
è insufficiente, non risponde bene a questo aumento del precarico e si scompensa, nel senso che il polmone
inizia a congestionarsi e questo dà un senso di difficoltà respiratoria. Nell’ortopnea, invece, chi è che aumenta
il ritorno venoso e quindi l’aumento del precarico? Non reimmettiamo i liquidi da questo spazio ma, passando
nella posizione distesa - e quindi l’edema al posto di essere prevalentemente collocato alle basi si trova in tutto
il polmone - sono i liquidi contenuti nelle vene dilatate del paziente con insufficienza cardiaca, le vene del
circolo della metà inferiore del corpo che, con l’assunzione della posizione orizzontale, subito vengono
riportati al cuore e quindi abbiamo una distensione della camere cardiache e una stasi di sangue a livello al
polmone. E quindi l’effetto è quasi immediato, mentre nel primo caso si tratta di un re-uptake più lento, perché
non abbiamo la dilatazione delle vene e il grande accumulo di liquido in tutto il circolo venoso, per cui questo
è un evento più tardivo.
E poi che succede al paziente che ha dispnea parossistica notturna? Ha dispnea, si mette in piedi e poi, di
solito, va a fare la pipì, si rimette a letto e dorme fino alla mattina senza più problemi. Questo perché è
diminuita la volemia, cioè la quantità di volemia in eccesso data dall’accumulo di liquidi in questo spazio viene
eliminata dai meccanismi renali e quindi si risolve il problema, poi, dopo tre giorni che passano in cui questi
liquidi si accumulano a livello degli arti inferiori, nel terzo spazio - anche se questi edemi, gli edemi declivi, non
si vedono, magari avete un idea di turgore a livello del malleolo, non di più - e poi si ripresenta la dispnea
parossistica notturna, che è un evento diverso, più significativo e il paziente lo descrive bene, però se voi non
sapete nemmeno che cos’è, non farete mai diagnosi.
Studente: Potrebbe ripetere i vari passaggi dell’ortopnea?
Allora, l’ortopnea è semplicissima: uno ha le vene degli arti inferiori dilatate, perché è la sede di maggiore
ristagno del sangue nell’insufficienza cardiaca, e nel momento in cui si mette disteso, il sangue torna al cuore,
che non riesce a compensare questo aumento della volemia e da qui la difficoltà respiratoria che costringe a
mettersi sollevati, in modo da determinare la distribuzione del sangue.
La dispnea parossistica notturna si verifica sempre durante la posizione clinostatica del paziente, però non si
verifica immediatamente quando il paziente si mette disteso, si verifica dopo ore che è disteso, quindi lui va a
letto alle 11 e alle 2, 3 di notte si sveglia e sente difficoltà respiratorie. Si alza, dopo un po’ sente lo stimolo di
andare in bagno a fare pipì, fa la pipì, si mette a letto e tutto bene. Cosa è successo? E’ successo in quelle due,
tre, quattro ore - dipende dall’entità degli edemi, dall’imbibizione del terzo spazio - quei liquidi che si erano
accumulati perché si ha l’insufficienza cardiaca a livello degli arti inferiori, vengono riassorbiti piano piano e
molto più lentamente inizia la dilatazione delle camere cardiache, il ristagno di sangue nel polmone, e quindi
la progressione verso la dispnea, che è graduale, perché non è un arrivo improvviso di sangue dal circolo
venoso ma è un arrivo più lento di liquido in eccesso per riassorbimento dell’interstizio che si era
congestionato per l’insufficienza cardiaca. Sono stato chiaro? Quindi c’è il problema respiratorio.
A noi chirurghi non interessa l’insufficienza cardiaca iniziale, a noi interessa l’insufficienza cardiaca cosiddetta
“end-stage”, l’insufficienza cardiaca terminale, quella in cui non si può più far nulla con i farmaci, non si può più
far nulla con la terapia, non si può far niente con tutte le cose che hanno a disposizione i cardiologi e che non
sono chirurgia. L’end stage è lo stadio D nella classificazione dell’American Heart Association - e questa
classificazione secondo me qualcuno ve la deve aver detta, ma vi invito intensamente a cercarla e a studiare -
, l’End Stage of Heart Failure, in cui il paziente è praticamente in una condizione clinica estremamente grave:
è sintomatico a riposo, quindi è dispnoico senza fare niente, ha un decubito semi-ortopnoico, cioè non può
mettersi disteso nel letto perché muore affogato. Ha necessità di una politerapia estremamente complessa,
estremamente anche difficile da gestire con dosaggi di diuretici elevatissimi per cercare di mantenere una
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volemia adeguata a non farlo morire di edema polmonare, e nonostante questo spesso viene portato in
ospedale per fare terapia ancora più incisive endovenose, che sono sempre terapie fatte con diuretici ed
eventualmente con farmaci inotropi positivi, come ad esempio la dobutamina, proprio tipico, di cui a volte
vengono fatte delle infusioni anche continue e quindi è una condizione estremamente grave con una qualità
di vita pessima - il paziente vive fra letto e poltrona, con difficoltà respiratorie e con una aspettativa di vita
all’incirca di un anno.
Cosa possiamo fare per questi pazienti? Lasciarli al loro destino oppure fare qualcosa?
Possiamo fare una terapia, che è il trapianto cardiaco, cioè una sostituzione dell’organo oramai a fine vita - end
stage - completamente scompensato, con un organo prelevato dal donatore.
Sapete quali sono le cause principali che portano a insufficienza cardiaca? Tutte le malattie di cui abbiamo
parlato in questo periodo possono portare, con il passare del tempo, all’insufficienza cardiaca, perché se una
valvola cardiaca è malata, non funziona bene, ci sono i meccanismi di compenso, se però non viene trattata -
sostituita, riparata, ecc. - questi meccanismi di compenso comunque falliscono e inizia a comparire la
sintomatologia dell’insufficienza cardiaca che evolve fino agli stadi terminali. Però nella nostra popolazione,
parlando degli stati più avanzati, le principali cause di insufficienza cardiaca terminale sono due:
• malattia ischemica;
• cardiomiopatia dilatativa, che è una cardiomiopatia primitiva, geneticamente determinata, familiare.
Queste sono le due principali cause, poi ci sono le valvulopatie, ci sono le malformazioni, le endocarditi, però
principalmente sono queste due.
Quando è stato fatto il primo trapianto nella storia dell’uomo di cuore? Nel 1967, da Barnard, in Sud Africa. In
Italia è stato fatto il primo trapianto dopo circa venti anni e dopo il primo trapianto questa procedura prese
rapidamente piede in tutto il mondo. Questo è sintomo di una procedura efficace, perché se voi ideate una
procedura anche molto bella teoricamente, che però non è efficace, vedrete che non verrà mai attuato in
modo così rapido e diffuso come invece succede nel caso del trapianto cardiaco.
Sono due gli attori del trapianto cardiaco, di questa terapia: non c’è solamente la persona malata ma c’è anche
un altro soggetto, sfortunato, che dona il suo cuore.
Chi è il candidato al trapianto cardiaco? Il ricevente. È un paziente che, con una condizione sine qua non, ha
una insufficienza cardiaca terminale, perché non credo che qualcuno di voi si vorrebbe far fare un trapianto.
Quindi è chiaro che devo avere insufficienza cardiaca terminale. Però questo non basta: non basta perché c’è
un problema veramente difficile da risolvere, che è quello della carenza di organi quindi, se in teoria e
tecnicamente noi riusciremmo a fare trapianti cardiaci a tutte le persone con insufficienza cardiaca terminale,
nella pratica questo non avviene e solo una piccola parte di pazienti con insufficienza cardiaca terminale può
arrivare al trapianto. Bisogna cioè fare una selezione, in modo da dare i pochi organi che abbiamo a
disposizione per essere trapiantati alle persone in cui è più adatto fare il trapianto. Quali sono queste persone?
Perché alcuni sono più meritevoli di trapianti e altri no? Il problema è quello di cercare di sfruttare il più
possibile l’organo a disposizione, l’organo donato; è inutile che io metta un organo donato - di cui ne ho
pochissimi - a un paziente di novant’anni che ha un’aspettativa di vita X, naturalmente pochi anni visto l’età
media della popolazione, e negarlo a un paziente di trent’anni, che ha invece una aspettativa di vita un po’ più
alta. Ora, siccome un organo trapiantato dura in media 10-15 anni, come valore biologico, è più giusto metterlo
a chi può sfruttarlo in tutta la sua interezza, infatti un discorso è essere con insufficienza cardiaca terminale e
un altro è quello di essere inserito nella lista d’attesa del trapianto. Quindi l’insufficienza cardiaca terminale sì,
però essere anche relativamente giovani - quindi 55, 60, alcuni centri 65 anni, questo dipende chiaramente
dall’età biologica del soggetto, che non sempre corrisponde con l’età anagrafica, per esempio una persona di
65 anni con una integrità fisica di un 50enne e un 50enne con una carenza fisica di un 65enne. E questa è una
valutazione che lascia dei margini di valutazione dell’età non proprio strettamente anagrafica. Inoltre, il
ricevente è una persona che ha un cuore estremamente malato, da buttare via, però il resto è a posto, nel
senso che ha integrità di tutti gli altri organi e apparati, quindi non deve essere una persona che rischia di
morire da lì a poco perché ha una neoplasia o perché ha un’insufficienza renale grave o un diabete
incontrollato. Quindi il ricevente è una persona con insufficienza cardiaca terminale, relativamente giovane, e
a parte il cuore integro, sano.
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E il donatore chi è? Il donatore è l’opposto: è una persona che può avere anche tutti gli altri organi e apparati
distrutti, però il cuore deve essere integro, perché a me interessa quell’organo là, poi il paziente è destinato a
morire.
Qui sorge un altro problema: io non posso prelevare un cuore da un cadavere, in senso stretto, perché se io
aspetto che il paziente esali l’ultimo respiro, a quel punto lì è un grosso problema perché sapete bene che la
resistenza all’ischemia dei cardiomiociti è estremamente limitata - la prima volta che ci siamo visti abbiamo
detto 30 minuti, 40 minuti. Allora io in 30 minuti dovrei portarlo in sala operatoria, aprire il torace, prelevare
l’organo e questo non è possibile. Quindi hanno capito che non era questa la modalità operativa che poteva
permettere i vari trapianti, cioè di prelevare degli organi vivi e vitali. Quindi è stato definita un tipo di morte
particolare, che è la cosiddetta morte cerebrale, che non è quella morte come classicamente pensiamo in cui
il cuore smette di battere, si ha freddezza, pallore ecc., ma è la morte del sistema nervoso centrale. E come si
fa a capire quando il sistema nervoso centrale è morto al punto tale da non avere più possibilità di recuperare
la propria funzione? Non è mica facile, perché ora voi siete giovani, non aveva fatto ancora neurologia, però
ci sono vari stadi di coma e se vedete un morto cerebrale e uno che è in coma avanzato potenzialmente
reversibile non è che ci sia grossa differenza, quindi bisogna stabilirlo con certezza. Ora, al di là di tutte le
problematiche di tipo medico che ci sono chiaramente dietro, dal punto di vista medico-legale l’accertamento
di morte cerebrale viene fatto dalla emissione del certificato di morte cerebrale, la cosiddetta CAM, che è
costituita da tre individui, tre soggetti:
1. neurofisiologo, che ha un ruolo importante in questa valutazione perché fondamentalmente il
punto nodale è dimostrare la morte del SNC - e quindi è una figura fondamentale;
2. rianimatore;
3. medico legale, perché poi è una valutazione che ha dei risvolti legali molto importanti.
Il paziente a cui si sospetta la morte cerebrale viene osservato - se è un adulto 6 ore, se è un bambino 12 ore,
se ha meno di un anno 24 ore - e durante questo periodo di osservazione vengono fatte delle valutazioni
cliniche e mentali, che vanno da dei riflessi, come il corneale, ecc., fino alla registrazione
dell’elettroencefalogramma per tutto il tempo di osservazione. In questo modo si riesce a identificare con
correttezza se quel paziente è in morte cerebrale, cioè è in un coma tale dal quale non potrà mai ritornare
fuori.
Un’altra condizione particolare è quella dello stato vegetativo, che non è quella della morte cerebrale. Un
paziente in morte cerebrale, se staccato dalle macchine che lo aiutano a respirare, e quindi a sopravvivere, e
privato dei farmaci, muore; il paziente in stato vegetativo può sopravvivere in questa condizione, cioè staccato
dalle macchine, per anni; riesce ad avere una autonomia di quelli che sono i centri del respiro, della pressione,
ecc., per anni. Sono due cose diverse. In alcuni casi si è visto che i pazienti in stato vegetativo riescono, con il
passare degli anni, a riacquisire un certo grado di coscienza, e su questo, ragazzi, c’è molto da discutere. Il
paziente in morte cerebrale no.
Una volta che la commissione della morte cerebrale stabilisce che quel paziente è in morte cerebrale, allora è
possibile espiantare il cuore se il paziente non ha negato l’autorizzazione a espiantare il cuore. E se il paziente
invece ha negato l’autorizzazione a espiantare il cuore cosa gli succede? Abbiamo detto che non tutti sono
idonei a donare, considerato che devono essere integri da un punto di vista cardiaco e possono avere anche
tutto il resto dell’organismo sfracellato ma il cuore deve essere idoneo. Mettiamo che questo non sia
nemmeno in discussione per la donazione, è una persona per cui è stabilita la morte cerebrale: cosa succede
dopo? Non donerà perché non ha le caratteristiche, avviene il decesso, cioè il paziente viene svezzato, staccato
dalle macchine che lo aiutano, perché tutto quello che si fa dopo la dichiarazione di morte cerebrale è
accanimento terapeutico, poiché noi non possiamo avere nessuna terapia, ad oggi dimostrata, capace di
modificare la condizione del paziente. Nel caso in cui sia un potenziale donatore, invece, viene valutato per
idoneità del cuore e sapete che si valuta? Vediamo se il paziente è giovane, perché a noi servono cuori giovani,
non già malati, cuori sani: fino a pochi anni fa un paziente sopra i 35 anni non veniva neanche preso in
considerazione, oggi, per cercare in qualche modo di superare questa carenza di organi si arriva addirittura a
prelevare degli organi a 55 anni, e voi sapete che l’incidenza dell’aterosclerosi, ecc., a quell’età è praticamente
presente in tutti, quindi dobbiamo essere certi che il paziente non abbia una malattia coronarica importante
e quindi in generale sopra i 45 anni o se il paziente ha dei fattori di rischio importanti - fumatore,
ipercolesterolemico, ecc. - viene fatta addirittura una coronarografia per togliersi tutti i dubbi. Se invece sono
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più giovani o non hanno fattori di rischio, viene fatta solamente un’ecocardiografia per valutare che le camere
cardiache siano integre e, ovviamente, un’elettrocardiogramma che non si nega mai a nessuno. Oltre a
studiare bene l’anamnesi nel paziente, se ha avuto arresti cardiaci, se ha avuto una disfunzione enzimatica o
comunque se il suo cuore può essere compromesso. Poi, chiaramente, deve essere un malato che non ha
malattie trasmissibili con il cuore, quindi che non sia portatore di forme di AIDS oppure che abbia un tumore
in fase avanzata metastatico, perché potrebbero esserci delle cellule del tumore che poi vengono a essere
trasferite e quindi a dare dei problemi al ricevente.
A questo punto il paziente in morte cerebrale ha un cuore idoneo per essere donato, quindi viene portato in
sala operatoria per l’espianto e a chi si dà questo cuore? Noi abbiamo una lista di pazienti con insufficienza
cardiaca, chi scegliamo? Quello che c’è da più tempo? Però voi mettereste un cuore così, di chiunque a
chiunque? C’è un problema di immunità perché sapete che non è che uno può prendere un pezzo di una
persona e attaccarlo a un altra senza che quell’organismo reagisca in qualche modo, dato che c’è un sistema
immunitario. Pensate solo alle trasfusioni di sangue, si rischia di morire se trasferiamo sangue non compatibile
da una persona all’altra. Quindi dovremmo andare a vedere la compatibilità antigenica, cioè andare a studiare
il sistema maggiore di istocompatibilità. Come vi hanno insegnato i patologi generali, ad esempio nel caso del
trapianto di midollo osseo, viene studiato l’HLA del ricevente e viene cercato nel database dei potenziali
donatori quello più compatibile. Ecco, nel cuore questo non si fa: il cuore, in realtà, viene dato senza che sia
compatibile per il sistema dell’HLA, perché il problema è che se noi volessimo andare a cercare tra i riceventi
quelli con il sistema HLA compatibile con quello sporadico donatore che compare improvvisamente in un
momento del giorno o della notte, non faremo mai interventi, perché noi abbiamo, per esempio in quello che
è il sistema toscano, 15-20 pazienti in lista d’attesa, e per questi capita un donatore e pensate davvero che ci
sia una compatibilità? Sarebbe un colpo di scena, un colpo di fortuna assoluto, se quel donatore avesse un
sistema HLA compatibile con uno dei riceventi, quindi non si va nemmeno a studiare e quindi tutti i trapianti
di cuore sono tra persone istologicamente incompatibili se si va a vedere l’HLA. Da questo deriva il fatto che
questi pazienti trapiantati avranno bisogno di una terapia antirigetto per tenere sotto controllo il sistema
immunitario che si ribella a questa cosa che gli abbiamo fatto.
Quali sono i livelli di compatibilità?
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Sono molto più grossolani:
• le dimensioni: la massima differenza di dimensioni corporee tra donatore e ricevente deve essere al
massimo del 30% e non è pochissimo ma non è nemmeno tanto, soprattutto se andiamo in ambito
pediatrico dove bastano pochi mesi, più o meno, di età, per avere una differenza di peso corporeo
molto diversa e quindi rendere impossibile il trapianto perché un cuore molto piccolo non riuscirebbe
a gestire una circolazione troppo ampia per le sue dimensioni, oppure un cuore troppo grande si
troverebbe racchiuso in una gabbia toracica troppo stretta che costituirebbe una costrizione e quindi
in tutti i casi si avrebbe un’alterazione della funzione del cuore che non reggerebbe per molto.
• la compatibilità di gruppo sanguigno tra donatore e ricevente: come quando si fa le trasfusioni.
Perché, effettivamente, se si fanno dei trapianti tra persone che hanno una incompatibilità a livello
del gruppo sanguigno, il sistema immunitario risponde in modo molto molto violento e quindi anche
se trattati con i farmaci che abbiamo oggi a disposizione si ha comunque un danno dell’organo
importante che quindi reggerebbe molto poco.
Quindi, fondamentalmente, le dimensioni corporee e la compatibilità sanguigna.
Perciò qua a Careggi abbiamo il nostro donatore, il ricevente è a Siena, dato che il centro trapianti toscano è
a Siena. Viene individuato nella lista quello compatibile per il gruppo sanguigno e per le dimensioni corporee
e il paziente viene convocato in ospedale, ovviamente a fare il trapianto. Mentre il paziente va all’ospedale di
Siena, una equipe dall’ospedale di Siena viene qui a Careggi a prelevare l’organo dal donatore: si riverifica che
tutto sia a posto, nel senso che l’organo sia integro, che non ci siano rischi di prelevare un organo già malato,
che il paziente non abbia neoplasie, che non sia un paziente con malattie trasmissibili, e quindi viene
espiantato l’organo. Se noi espiantassimo l’organo così, senza fare nient’alto, il tempo a disposizione per
prelevarlo, metterlo in macchina, portarlo a Siena, impiantarlo al paziente ricevente e riperfonderlo sarebbe
di circa i soliti 20-30-40 minuti e questo è impossibile. Quindi che cosa faremo prima di togliere il cuore? Cosa
si deve fare per conservare questo organo? La soluzione cardioplegica: allora si somministra, prima
dell’espianto, la soluzione cardioplegica, che prolunga di ben 12 volte questa tempistica, e quindi noi abbiamo
6 ore di tempo per trasferire quest’organo e riperfonderlo da Firenze a Siena. E si vede che, effettivamente,
se io rimango entro questa tempistica, il cuore, una volta riperfuso nel nuovo organo, riinizia a battere e
ripristina la sua normale attività emodinamica. Certo, non è una condizione che alle 6 ore tutto finisce e prima
no, è una condizione per cui, progressivamente al passare del tempo, avremo un danno sempre maggiore alle
cellule miocardiche, quindi sarà bene ridurre al massimo il tempo cosiddetto di ischemia del cuore, e i risultati
ottimali si ottengono se questo tempo di ischemia è inferiore alle 3 ore. Tant’è vero, oggi, siccome c’è questa
carenza di organi e a volte vengono presi da molto distante, che esistono dei sistemi di perfusione di organo
isolato, cioè questo cuore prelevato, invece di cardioplegizzarlo lo colleghiamo a una specie di macchina in
miniatura cuore-polmone che permette di perfondere quest’organo e quindi di avere tempi di espianto più
lunghi rispetto alle classiche 3-6 ore, se la situazione è effettuata solamente con la soluzione cardioplegica.
Quando il cuore espiantato arriva in sede a Siena, quindi deve essere fisicamente presente in ospedale il
paziente ricevente, deve esserci la circolazione extracorporea e viene tolto il cuore vecchio. A questo punto
viene impiantato il cuore, collegando i grossi vasi del ricevente al cuore del donatore. Ora qui ci sono diverse
tecniche di impianto, ma di queste non abbiamo nemmeno tempo di parlare.
Quello di cui abbiamo parlato ora è il cosiddetto trapianto ortotopico, cioè viene prelevato l’organo e messo
nella sede da cui è stato tolto il vecchio organo.
Esiste però un altro tipo di trapianto, che è il trapianto eterotopico, che è quello che vedete in queste immagini.
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Quando facciamo il trapianto eterotopico in realtà il cuore malato non viene espiantato ma il nuovo viene
messo a lavorare in parallelo a quello vecchio, quindi più che una sostituzione completa dell’organo abbiamo
un doppio organo, in parallelo, con tutti e due gli organi, quello malandato, vecchio, quello nuovo, sano, a
sostenere la stessa circolazione. Questi sono interventi che vengono fatti pochissimo in tutto il mondo, però
hanno una loro logica. Perché alcune volte faccio un trapianto eterotopico e non ortotopico? Una condizione
molto frequente nei pazienti con insufficienza cardiaca terminale è l’aumento delle resistenze polmonari,
perché questa stasi a livello del circolo polmonare del sangue, determinata da una funzione ventricolare
sinistra alterata, comporta una reazione vascolare di cui abbiamo già parlato la prima volta, cioè all’inizio si ha
vasocostrizione del tutto reversibile, che però con il passare del tempo, siccome la storia del paziente che va
al trapianto di solito è una storia abbastanza lunga, si fissa, ovvero le resistenze diventano fisse e anche con i
vasodilatatori non riesco più a dilatarle e quindi si crea un grosso ostacolo all’afflusso di sangue nel polmone
e quindi il ventricolo destro deve durare molto più fatica rispetto al normale nel far circolare il sangue nel
circolo polmonare. Ora, per il fatto che questo processo è un processo cronico, il ventricolo destro mette in
atto i suoi meccanismi di compenso, e quindi riesce in qualche modo a mantenere un flusso a livello del circolo
polmonare adeguato. Quando questo avviene in modo acuto, il ventricolo destro si scompensa. Quindi se il
paziente ricevente ha un’ipertensione polmonare in parte irreversibile, cioè legata non solo allo spasmo
arteriolare ma anche a un’alterazione delle resistenze a livello delle arteriole polmonari, se io faccio un
trapianto ortotopico di questo cuore prelevato da un paziente normale, quindi con ventricolo destro normale,
questo organo trapiantato non sopporterebbe questa resistenza polmonare che si trova a dover, in qualche
modo, superare e si sfiancherebbe entro breve, perciò il trapianto sarebbe destinato a fallire. Quindi, invece
di fare il trapianto ortotopico faccio quello eterotopico, in modo che il ventricolo destro, in parallelo, riesca a
determinare una perfusione del polmone adeguata e abbia anche il tempo di ipertrofizzarsi e di determinare
quindi una circolazione quando, via via, il cuore vecchio tenderà a perdere anche le residue funzioni.
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La terapia più efficace per trattare un’insufficienza cardiaca terminale è il trapianto di cuore. Non esiste
nessun altro tipo di terapia in grado di incidere in maniera così importante sull’aspettativa di vita – e sulla
qualità di vita – del paziente: il trapianto di cuore riesce a modificare drasticamente l’aspettativa di vita del
paziente con insufficienza cardiaca terminale, in maniera molto più incisiva rispetto a qualunque altro tipo di
terapia. L’aspettativa di vita infatti può aumentare da 1-2 anni fino a raggiungere 10-15, a volte anche 20
anni, con un netto miglioramento anche nello stile di vita: avevamo visto la volta scorsa che questi spesso
sono pazienti limitati tra letto e poltrona, dopo il trapianto invece possono svolgere qualsiasi attività fisica,
avremo completo recupero della funzionalità del sistema cardiaco.
Il trapianto si può fare però soltanto tra persone istocompatibili: la possibilità di selezionare i donatori in
base all’istocompatibilità presuppone che ci sia un’incompatibilità di base, ed è proprio questa
incompatibilità di base che viene vista dal paziente e che innesca il rigetto. Esistono due tipi fondamentali di
rigetto quando facciamo un trapianto tra un uomo e un altro: il rigetto acuto e il rigetto cronico, che
presentano una fisiopatologia completamente diversa, ma hanno anche conseguenze estremamente
diverse.
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Se non facessimo nient’altro tutti i pazienti trapiantati morirebbero di rigetto acuto. Bisogna quindi
controllare il rigetto, cioè quel meccanismo che porta all’attivazione di queste cellule istolesive nei confronti
del tessuto trapiantato. Il rigetto viene controllato fondamentalmente tramite i farmaci.
Tra i farmaci più utilizzati per il controllo del rigetto c’è sicuramente la ciclosporina, ma verso la fine degli
anni ’60 – inizio anni ’70 la ciclosporina non c’era, l’uso clinico di questo farmaco è infatti iniziato negli anni
’80. Tra i primi farmaci ad essere stati utilizzati ci sono quindi i cortisonici, estremamente efficaci nella
modulazione del sistema immunitario. Alti dosaggi di cortisone riuscivano infatti ad inibire completamente il
sistema immunitario e ad evitare il rigetto. Un’inibizione così aselettiva del sistema immunitario però portava
con sé una serie di effetti collaterali:
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In questo grafico si vede che l’aspettativa di vita dei soggetti non trapiantati negli anni ‘70 con insufficienza
cardiaca era di circa un anno (triangolo nero), la curva infatti arriva a 0 nel giro di un anno. Una volta
trapiantati la curva si trasformava (cerchio nero): la situazione migliorava quindi, ma non di tantissimo,
l’aspettativa di vita aumentava fino a 2-5 anni, e questo proprio per gli effetti lesivi della terapia
immunosoppressiva. Infatti, alla fine degli anni ’70, ci fu una grossa discussione, in cui ci si chiedeva se fosse
utile o meno continuare con la pratica dei trapianti; a fronte dei grossi impegni, anche economici,
l’aspettativa di vita non cambiava così tanto, non si aveva un aumento dell’aspettativa di vita di 10-15 anni
come si era detto all’inizio. La discussione venne troncata sul nascere grazie alla scoperta della ciclosporina.
Questo è un farmaco che modificato radicalmente la sopravvivenza di pazienti sottoposti al trapianto: ha
infatti un’attività immunomodulatrice, ma non porta ad una disattivazione completa e aspecifica del sistema
immunitario, agisce esclusivamente sulla componente cellulare. L’uso di questo farmaco ha permesso di
aumentare notevolmente l’aspettativa di vita.
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Viene quindi somministrato un cocktail di farmaci, solitamente si inizia la terapia con i farmaci qui indicati;
l’obiettivo è di somministrare il minor numero di farmaci per poter ottenere una situazione di minor rischio.
Si prosegue un po’ come si proseguirebbe nella somministrazione del coumadin per modulare la terapia, con
la differenza che in questo caso non esiste parametro umorale da monitorare, ma esiste la biopsia del
miocardio. Quindi, questi pazienti sono sottoposti a periodiche biopsie del miocardio, soprattutto nel primo
anno, a scadenze predeterminate, e, in base ai risultati della biopsia del miocardio, quindi in base al grado di
rigetto, viene modulata la terapia. Una volta raggiunto il livello ottimale, in cui i farmaci continuano a tenere
le risposte immunitarie molto basse (questo corrisponde al livello 1A), il paziente inizia il suo periodo diciamo
“più cronico”, in cui la biopsia del miocardio non viene rifatta se non in caso di sospetto rigetto acuto.
Perché un paziente può fare un episodio di rigetto acuto dopo un mese o sei mesi? Alla base del rigetto
acuto c’è un meccanismo fisiopatologico di riconoscimento di un complesso maggiore di istocompatibilità
diverso dal nostro, e questo si può verificare sempre nel soggetto trapiantato. Se non si verifica è perché
stiamo tenendo sotto controllo il sistema immunitario grazie ai farmaci.
Un paziente per esempio può decidere di interrompere la terapia, e questo comporterà dopo poco la
comparsa dei sintomi del rigetto acuto. L’interruzione della terapia però non è l’unica causa, ci può anche
essere un difetto dell’assorbimento dei farmaci a causa di un disturbo gastrointestinale o un’infezione virale
concomitante, tanti fattori che possono sbilanciare il sistema immunitario verso una maggiore reazione
all’antigene di istocompatibilità.
Febbre (37,5-38), un’alterazione del sistema immunitario tipica delle malattie croniche, quindi
flogosi
Astenia, dovuta proprio al cuore: la parete ventricolare viene infatti aggredita dalle cellule, ci
ritroveremo quindi davanti ad una parete edematosa, piena di liquido e con un infiltrato cellulare;
presenterà quindi delle difficoltà funzionali.
Aritmia, può essere anche una tachicardia compensatoria ad una ridotta frazione di eiezione, quindi
ad una ridotta capacità contrattile del miocardio che è in sofferenza.
Sincope, che può essere sempre correlata alle aritmie.
Dispnea, in particolare il paziente può riferire una maggiore difficoltà nel compiere azioni che prima
eseguiva quotidianamente (salire le scale di casa, correre).
Edema degli arti inferiori (il paziente potrà riferire di sentire le caviglie gonfie e di vedere magari il
segno del calzino che invece prima non rimaneva).
Di fronte a questi sintomi, per capire se effettivamente il paziente sta facendo un rigetto acuto, intanto si
chiede se è stato trapiantato. Poi si possono fare degli esami ematochimici: dagli esami del sangue ci
aspetteremo di trovare le tipiche alterazioni della flogosi, ma anche livelli bassi di troponina(cardiaca), un
segno specifico dato da lisi dei miociti.
L’esame fondamentale da fare comunque è l’ecocardiogramma: questo è un esame diagnostico, perché ci
permette di vedere la parete del ventricolo che è ispessita rispetto al normale e che ha un’ecorifrangenza
diversa dal normale, sia a causa dell’infiltrato cellulare che dell’edema. L’ecocardiogramma non ci permette
di fare una diagnosi con certezza, ma comunque ci si avvicina. Dopo l’ecocardiogramma, per avere la
conferma, si fa una biopsia endomiocardica: si prelevano dei frammenti dal ventricolo destro e si valuta il
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grado di rigetto. Su quella biopsia viene quindi modificata la terapia, in modo da portare il grado di rigetto
fino a livelli accettabili, e il paziente rientra nel ciclo delle biopsie ripetute, fino a quando non si dimostra la
stabilizzazione del quadro della risposta immunitaria.
Rigetto cronico: è un rigetto che ha un’eziologia cronica, che inizia al momento del trapianto e termina con le
sue manifestazioni maggiori. È un processo lento, e dal punto di vista fisiopatologico è un processo molto
complesso, perché non è dato da un semplice meccanismo immunitario meccanico, ma è dato da un insieme
di fattori che determinano alla fine il rigetto. Viene anche definito come “la malattia coronarica del cuore
trapiantato”, cioè il cuore trapiantato nel corso degli anni presenta delle alterazioni progressive a livello del
circolo coronarico che determinano l’occlusione. È dovuto quindi a una proliferazione miointimale stimolata
da vari fattori con conseguente occlusione progressiva del lume della coronaria, ma non in modo localizzato
come nell’aterosclerosi, ma si tratta di una coronaria che prolifera continuamente e va a terminare “a coda
di topo”. Questo processo fisiopatologico è abbastanza costante ed è una risposta vascolare ad insulti di
vario tipo – lo stesso processo colpisce le arteriole del polmone quando sono sottoposte ad uno stress
meccanico, come
un iperafflusso o
un’ipertensione. La
proliferazione
miointimale
coincide quindi con
il passaggio da
resistenze
reversibili a
resistenze
irreversibili, e lo
stesso processo si può ritrovare anche nella parete venosa utilizzata per fare i bypass, che sottoposto a
insulti meccanici induce la proliferazione miointimale, determinando l’obliterazione del bypass venoso che
abbiamo effettuato.
Si può quindi vedere la coronaria che si occlude progressivamente fino a scomparire completamente con
tutte le sue diramazioni. In questi casi di proliferazione miointimale non si può fare un intervento di
angioplastica o di bypass, perché la stenosi non è una stenosi settoriale o localizzata che può essere in
qualche modo bypassata o riaperta, ma è tutta la coronaria che si restringe; per cui, l’unica possibilità
terapeutica che abbiamo, è di ritrapianto del soggetto, non è possibile fare altri interventi di
rivascolarizzazione in generale del miocardio.
Cos’è che scatena questa proliferazione? Il meccanismo fisiopatologico che ne è alla base è il danno cellulare
della parete vascolare, un danno endoteliale. Da che cosa sono danneggiate queste cellule? Da vari fattori,
alcuni immunologici altri non immunologici.
Tra i fattori immunologici c’è l’incompatibilità dell’HLA, valido non soltanto per i cardiomiociti, ma
anche per le cellule endoteliali, che sono quindi sottoposte a questo insulto immunitario; tanto
maggiore è la discrepanza delle HLA tra ricevente e donatore, tanto maggiori di grado saranno gli
eventi di rigetto acuto ma anche più rapido e progressivo sarà il rigetto cronico.
Un altro fattore importante è il tempo di ischemia, cioè il tempo in cui il cuore donato è rimasto
ischemico.
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Anche il numero di episodi acuti è importante dal momento che ogni episodio acuto si accompagna
a danno dei cardiomiociti ma anche della parete endoteliale.
L’età del donatore, poiché tanto maggiore è l’età del donatore tanto più precoce e rapido è il rigetto
cronico: ricevere un cuore da un 30enne non è la stessa cosa che ricevere un cuore da un 50enne
perché si tratta di una struttura coronarica diversa – anche se non sta solo qui la differenza, lo stesso
miocardio ha una performance diversa; nelle coronarie di un 50enne saranno già attivi infatti i
processi di aterosclerosi, per cui il rigetto si verifica prima e più rapidamente.
Un altro fattore importante è il numero di infezioni virali che il paziente ha subito. È stato citato il
citomegalovirus poiché è stato notato che il rigetto cronico è tanto più precoce e rapido tanto è
maggiore il numero di infezioni da CMV che il paziente ha avuto nel periodo precedente.
Come si fa a formulare una diagnosi di rigetto cronico? Il primo sintomo a cui potremmo pensare è l’angina.
In realtà però, soltanto il 25% dei pazienti con rigetto cronico in corso lamentano un dolore tipicamente
anginoso, e questo perché un cuore trapiantato è un cuore denervato, non esiste più un plesso cardiaco, e
quindi anche la trasmissione degli impulsi endogeni è alterata. In alcuni casi si ha una ricostruzione
dell’innervazione parziale, in altri casi no, per cui soltanto il 25% dei pazienti con rigetto cronico hanno
angina.
Il paziente con rigetto cronico non è pero un paziente asintomatico: ad un certo punto, a forza di avere
episodi ischemici, danno cellulare, infarti, il paziente arriva ad una disfunzione ventricolare, spesso
ventricolare sinistra, che porta allo scompenso cardiaco.
Di cosa muoiono quindi i soggetti trapiantati? I pazienti che muoiono precocemente, solitamente entro un
anno dall’intervento chirurgico, muoiono per conseguenze dell’intervento, quindi emorragie, infezioni, ecc.
(le infezioni sono particolarmente gravose e pericolose in questi pazienti perché sono immunodepressi, in
cui un’infezione spesso può condurre alla morte).
Le morti precoci possono essere anche legate anche a rigetto acuto; si può considerare ad esempio un
paziente che è stato particolarmente sfortunato e ha ricevuto un cuore molto diverso dal suo: in questo caso
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c’è il rischio che anche le terapie, per quanto efficaci, non siano in grado di mantenere un grado di rigetto
basso.
Via via che ci si sposta in avanti con gli anni il rigetto acuto tende a ridurre la sua importanza nel determinare
la morte del paziente, mentre prende piede il rigetto cronico – il paziente può morire di insufficienza
cardiaca secondaria al rigetto cronico –, e poi crescono di importanza le complicanze legate alla terapia
immunomodulatrice, quindi infezioni difficilmente controllabili e neoplasie, in particolare i linfomi. Queste
non sono conseguenze dirette del trapianto, ma conseguenze della terapia necessaria affinché un trapianto
possa sopravvivere.
La carenza di organi è purtroppo il motivo principale per cui non tutti i pazienti con insufficienza cardiaca
terminale possono giovare di questo tipo di trattamento. La carenza di organi è un problema grave,
nonostante la legge sia stata modificata per garantire la donazione di cuori provenienti da soggetti “anziani”
(50-55 anni) e la legge del silenzio assenso. Con l’introduzione dei sistemi di protezione per gli autoveicoli, il
casco, ecc., si è molto ridotto un gruppo di donatori che è stato molto importante negli anni ’80, cioè le
morti cerebrali di soggetti giovani. L’aumento dell’età di donazione ha quindi potuto sopperire a questa
carenza. Il 50% dei pazienti in attesa muore comunque prima che arrivi l’organo – non si intende il 50% dei
pazienti con insufficienza cardiaca terminale, ma solo il 50% di quelli in lista d’attesa, che noi sappiamo
essere solo una piccola parte dei pazienti con insufficienza cardiaca terminale: per entrare in lista d’attesa
infatti il paziente non deve avere solo l’insufficienza cardiaca terminale, ma deve rispondere anche ad altri
requisiti.
Esistono comunque delle ALTERNATIVE AL TRAPIANTO. Tra le varie alternative tra cui possiamo scegliere c’è
per esempio il CUORE ARTIFICIALE, un dispositivo meccanico che dovrebbe sostituire completamente il
cuore. In realtà gli studi ad oggi non hanno ancora inventato un dispositivo sufficientemente affidabile per
sostenere la circolazione e le capacità totali di una persona nel lungo termine. I dispositivi attualmente a
disposizione sono dispositivi che possono essere utilizzati NON come alternativa al trapianto, ma come un
bridge al trapianto. Questo trattamento si rivolge quindi a quei pazienti che sono in lista d’attesa per il
trapianto e che possono ricevere il trapianto, non è una terapia che si rivolge alla massa di pazienti con
insufficienza cardiaca, ma si rivolge esclusivamente alle persone in attesa del trapianto, come “ponte” al
trapianto.
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come delle turbine che danno un flusso continuo. Il paziente in cui è stato impiantato il VAD di ultima
generazione (VAD con flusso pulsatile non vengono più impiantati) avrà quindi un flusso di sangue continuo e
non pulsatile, e, se andate a misurare la pressione sanguigna di queste persone, non troverete una pressione
sisto-diastolica ma solamente una pressione continua media. Questi dispositivi permettono di scaricare il
ventricolo, aiutandolo quindi nello svolgere la sua funzione: “succhiano” il sangue dalla camera ventricolare
all’interno della quale sono immessi e lo reimmette a pressione in aorta toracica discendente, agendo così
come un supporto alla perfusione dell’organismo. Può essere utilizzato per sostenere la camera ventricolare
destra, la camera ventricolare sinistra ma anche per sostenere entrambe le camere. Può essere sfruttato
anche questo come un bridge al trapianto ma può essere l’utilizzo di questo dispositivo come terapia
definitiva. Una macchina di questo tipo costa 80-90.000 euro, una spesa importante per il sistema sanitario
nazionale; in caso venisse scelto di utilizzare questo dispositivo come terapia bridge al trapianto, in caso si
presentasse un donatore compatibile il macchinario dovrà essere ovviamente espiantato.
Questo dispositivo si può anche utilizzare in pazienti in cui la disfunzione ventricolare non è una disfunzione
irreversibile ma reversibile, come succede per esempio nei pazienti affetti da miocardite, una malattia acuta
che raggiunge il suo apice e poi si risolve o con la morte del paziente o con esiti fibrotici più o meno ampi. In
questo caso può essere utile impiantare questo dispositivo per sostenere la circolazione durante la fase
acuta della malattia, per poi espiantarlo nel momento in cui il cuore riesce a mantenere un’emodinamica
autonoma.
Un’applicazione sperimentale di questo strumento consiste nell’impianto in pazienti in attesa che facciano
effetto altre terapie di vario genere, come le terapie farmacologiche, che permettono un recupero di una
funzione contrattile sufficiente. Se avessi questo quid che permette al ventricolo di recuperare la funzione, io
potrei contemporaneamente sostenere la circolazione con questo dispositivo e somministrare questo quid –
staminali, terapia genetica, farmaci, ecc. – che permette, dopo un certo periodo di tempo, di recuperare la
funzione ventricolare e di staccare il ventricolo da questo sistema di assistenza ventricolare.
Questo è quello che succederà in futuro quando il concetto di trapianto verrà superato.
DOMANDA DALL’AULA: Esiste una terapia per la prevenzione del rigetto cronico?
RISPOSTA: L’eziopatogenesi del rigetto cronico è molto complicata e in parte ancora ignota, per cui non esiste
una terapia come quella per il rigetto acuto; si somministrano quindi gli immunomodulatori e si agisce sui
fattori di rischio, in particolare su quelli modificabili (tra quelli non modificabili per esempio c’è l’età). Si può
quindi agire andando ad organizzare al meglio il trapianto, limitando ad esempio il tempo di ischemia; si può
agire sui fattori di rischio della patologia aterosclerotica, quindi per esempio sulla dieta; si può agire
riducendo al minimo il rischio di infezioni in questo paziente, consigliando di evitare posti troppo affollati o
adottando altri accorgimenti di questo genere.
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