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Filosofia

3SC lez. 07-12/10/20

PITAGORA E I PITAGORICI

Intorno alla figura di Pitagora sono fiorite numerose leggende


sin dall’antichità. La sua figura misteriosa e il carattere settario
ed iniziatico della sua scuola ne hanno alimentato il mito di
illuminato depositario di un antica sapienza segreta che, a
seconda delle tradizioni, avrebbe appreso da una sacerdotessa
di apollo o durante uno dei suoi viaggi in Oriente o in Egitto,
dai greci considerata patria della più antica sapienza magico-
sacrale.
Dietro la cortina della leggenda ci restano poche informazioni
attendibili sulla sua figura: nacque a Samo, isola ionica, al
principio del VI secolo a.C. e da Samo riparò in magna Grecia
una volta che nella sua patria Policrate aveva assunto la carica
di tiranno. A Crotone fondò la sua scuola, che era ad un tempo
un’associazione filosofica, mistico-religiosa e anche politica: i
pitagorici infatti saranno molto presenti nelle istituzioni
politiche delle città magnogreche. Non ci sono stati tramandati
testi di Pitagora e molto probabilmente l’unica dottrina che è
possibile attribuirgli con certezza e quella della metempsicosi/
metemsomatosi, ovvero l’idea della trasmigrazione dell’anima
da un corpo all’altro (non necessariamente un corpo della
stessa specie di quello precedente: un anima può essere
“umana” nel corso di un’incarnazione e trasmigrare in un
insetto nell’incarnazione successiva). Tale concezione si
basava su una considerazione negativa del corpo, reputato un
carcere in cui l’anima era costretta a sostare, per espiare una
pena commessa in un tempo remoto (torna l’idea del mondo
dei fenomeni come espressione di ingiustizia e della
trascendenza del mondo dei fenomeni come il compiersi di un
processo di espiazione e di sopravvenuta giustizia). Per
Pitagora la filosofia è la via di conversione e redenzione
dell’anima, grazie alla quale essa può liberarsi dalla cattività
del corpo. Per Pitagora e i pitagorici tuttavia filosofia va intesa
sia come esercizio della ragione contemplativa sia come
insieme di pratiche rituali di purificazione. Per i pitagorici
dunque la filosofia è innanzitutto una soteriologia, ossia una
dottrina e una via di salvezza o di liberazione dalla sofferenza.
Questo carattere religioso era evidente in numerosi aspetti
della vita dei pitagorici, i quali vivevano in comune,
osservavano digiuni e altre pratiche ascetiche nonché la
comunione dei beni. La comunità pitagorica ammetteva tutti,
anche i soggetti socialmente marginali come le donne e gli
schiavi, e istituiva all’interno della scuola gerarchie sociali
eterogenee rispetto a quelle vigenti al suo esterno:
all’opposizione tradizionale tra uomo e donna o libero e
schiavo si sostituiva l’opposizione tra discepolo matematico e
discepolo acusmatico, ossia, rispettivamente, un discepolo che
in virtù delle sue qualificazioni personali e di un lungo
cammino iniziatico aveva raggiunto un elevato grado di
conoscenza e di realizzazione personale e discepoli che erano
ammessi solo all’ascolto di parte delle dottrine.

LA MATEMATICA

Ai pitagorici si deve sostanzialmente lo sviluppo della


matematica come scienza. Se, infatti, altri popoli, sopratutto
orientali, avevano sviluppato notevoli conoscenze aritmo-
geometriche, queste erano subordinate a fini eminentemente
pratici: la matematica e la geometria servivano principalmente
per suddividere i terreni in lotti, per realizzare opere di
ingegneria agricola etc. I pitagorici, per primi, slegano lo
studio della matematica dalle finalità pratiche (come i filosofi
in generale slegano la conoscenza dalle finalità pratiche) e ne
inaugurano in occidente lo studio puro, elaborandone ad
esempio i concetti fondamentali (piano, punto, linea, superficie
etc.) e il metodo dimostrativo, da cui dipenderà lo sviluppo di
qualunque sapere futuro che ambisse a darsi uno status
scientifico. Lo sfondo mistico religioso e lo studio della
matematica pura condussero i pitagorici a ritenere che la
sostanza prima e ultima di tutte le cose - il loro arché
potremmo dire - è il numero.
I pitagorici giungono a questa conclusione a partire
dall’istituzione di una corrispondenza perfetta, di una parentela
ontologica, tra ente numerico ed ente geometrico: l’unità
corrisponde infatti al punto geometrico, questo cosa significa?
Significa che qualunque grandezza numerica o rapporto
numerico corrisponde ad altrettante grandezze geometriche e
spaziali, dunque qualunque entità spaziale e temporale è la
manifestazione di una sostanza numerica. Fare del numero il
proprio arche significa tuttavia per i pitagorici aprire un varco
verso la comprensione razionale del principio segreto di tutte
le cose: se i numeri sono il principio delle cose le cose sono
conoscibili nella loro essenza profonda perché i numeri sono
conoscibili. La concezione aritmo-geometrica della natura è
basata tuttavia su un’idea armonica della stessa matematica. La
musica offre un esempio eloquente di questo rapporto tra
l’essere delle cose e il numero, perché tanto l’armonia che la
melodia sono gradevoli all’orecchio solo se esprimono rapporti
matematici di un certo tipo, altrimenti il suono risulta
sgradevole. Come vi dicevo la scorsa volta l’uomo greco non
fa differenza tra ciò che è, tra ciò che è vero, tra ciò che è
bello, tra ciò che è buono e tra ciò che e giusto, viceversa non
fa distinzione tra ciò che non è, non è vero, e brutto, e
malvagio ed è ingiusto. Una successione di suoni che non
esprime un ordine numerico regolare, cioè una legge di natura,
è brutto all’ascolto e nel contempo inesistente, ha un carattere
solo illusorio. Le cose reali sono belle, buone e giuste.
La musica, come vi accennavo un paio di lezioni fa, esprime
anche la sovrana bellezza del cosmo: i pianeti nelle concezioni
antiche erano considerati divinità, o quantomeno
manifestazioni fisiche della divinità. Nei pitagorici sopravvive
questa considerazione dei corpi celesti e della loro vita come
massima espressione della bellezza cosmica: i movimenti dei
pianeti producono infatti la cosiddetta musica delle sfere, la
più perfetta che mente umana possa immaginare. Dunque i
pitagorici sono stati i primi a ricondurre la natura ad un ordine
oggettivo e misurabile.
I pitagorici furono artefici di una dottrina dei contrari basata
sulle opposizioni numeriche: se le cose sono numeri, le cose
contrarie tra loro saranno numeri fra loro contrari. La prima
opposizione riconoscibile nel numero e la sua natura pari e
dispari, dunque in natura vi sono cose che hanno carattere pari
e cose che hanno carattere dispari. Il dispari ha per i pitagorici
natura limitata e compiuta, il pari ha natura illimitata e
incompiuta. A questo non si può fare a meno di constatare che i
pitagorici, contrariamente ad anassimandro che conferiva al
principio di tutte le cose carattere illimitato, ritengono che sia
ciò che è finito e limitato ad avere carattere perfetto, mentre
l’illimitato e ciò che è informe e incompiuto. Il limite è
l’aspetto attivo che determina il venire all’essere delle cose,
che sono limitate, definite, chiuse, compiute; l’illimite
rappresenta l’aspetto passivo, informe e solo potenziale di
quelle che attraverso il limite verranno all’essere come chiuse,
limitate e definite. L’uno, origine di tutti gli altri numeri e
dunque realtà perfetta sopra tutte le altre, era detto parimpari,
perché accordava in unità i due poli opposti fondamentali.
Da questa concezione della distinzione originaria della realtà
in limitato e illimitato e in pari e dispari i pitagorici stileranno
un decalogo di opposizioni fondamentali, che troverete sul
libro.

LA CRISI DELL’ARITMOGEOMETRIA

Come avevamo già detto l’ultima volta, per i pitagorici esiste


un rapporto immediato di vera è propria identità tra numeri ed
entità geometrico-spaziali. Tuttavia questa concezione della
perfetta corrispondenza tra numeri ed enti geometrici entro’ in
crisi con la scoperta delle grandezze incommensurabili (ad
esempio la diagonale di un quadrato il cui lato ha un valore
numerico definito: a partire da questo valore numerico, non
sarà possibile calcolare il valore della diagonale senza
imbattersi in un numero irrazionale; i numeri irrazionali, non
costituendo grandezze numeriche finite, pongono il problema
dell’infinito matematico e dunque dell’imperfezione come
elemento costitutivo della realtà, dal momento che ne era
affetto il principio, cioè il numero). Si ritiene che la scoperta
avesse frantumato le certezze dei pitagorici e fosse stata tenuta
nascosta finché un certo ippaso di Metaponto non la divulgo al
di fuori della cerchia della scuola. La gravità di questa
violazione secondo la leggenda gli sarebbe valsa la
maledizione dei pitagorici e la collera degli stessi dei che
l’avrebbero fatto morire durante un naufragio.

LA DOTTRINA FISICA

Le concezioni relative all’armonia come legge dell’universo


indussero i pitagorici a ipotizzare la sfericità della terra e dei
corpi celesti: se la sfera è la figura solida più perfetta e
armonica perché tutti i suoi punti sono equidistanti dal centro
allora i pianeti, che come vi ricordavo nella precedente lezione
erano tradizionalmente considerati divinità o manifestazioni di
divinità, dovranno possedere la forma più perfetta, dunque
saranno sferici.
Al pitagorico Filolao si deve inoltre la prima concezione non
geocentrica dell’universo. Non si trattava tuttavia ancora di
una vera e propria dottrina eliocentrica: al centro dell’universo
veniva collocato il cosiddetto fuoco centrale (in greco Hestia,
“focolare”), considerata una sorta di fornace originaria in cui
vengono plasmate le cose particolari e limitate a partire dalla
materia illimitata che la circonda. Intorno al fuoco centrale si
muovono dieci corpi celesti, il cosiddetto cielo delle stelle
fisse, il più lontano dal centro, e poi, in successione, i cinque
pianeti, il nostro sole; che per filolao non sarebbe altro che uno
specchio che riflette sulla terra sotto forma di raggi il calore
emanato dal fuoco centrale; la luna, la terra e l’antiterra, un
pianeta di cui filolao ipotizzo l’esistenza perché la sfera del
cosmo riproducesse la perfezione del numero dieci. Una vera è
propria ipotesi eliocentrica dovrà attendere il III secolo e un
filosofo di scuola aristotelica, Aristarco di Samo, il quale
semplificherà il modello di filolao collocando al centro
dell’universo il sole, anticipando Copernico di quasi duemila
anni.

LE DOTTRINE ANTROPOLOGICHE

Al pitagorismo vanno ricondotte teorie antropologiche talvolta


antitetiche fra loro. Secondo alcune dottrine infatti, l’anima
umana sarebbe stata concepita come armonia in quanto
corrispondente alla composizione armonica degli elementi che
costituiscono il corpo. In questo caso abbiamo una concezione
che istituisce una corrispondenza perfetta tra anima e corpo
analoga a quella sussistente tra numeri ed enti geometrici,
dunque una dottrina monista, che non rileva una frattura tra i
due ordini di realtà immateriale e materiale.

Altre dottrine pitagoriche al contrario sono caratterizzate da un


marcato dualismo, e considerano l’anima come prigioniera del
corpo fintanto che è intrappolata nel ciclo delle reincarnazioni
che solo la conoscenza filosofica può spezzare, liberando
l’anima dalla sua cattività corporale, dalla sua prigionia.
Questa dottrina è debitrice o comunque è connessa con una
corrente religiosa chiamata orfismo, dall’eroe greco Orfeo, i
cui seguaci concepivano la condizione umana nelle stesso
modo e ritenevano che solo una vita dedita alla conoscenza e
alle pratiche di purificazione rituali potesse garantire la finale
liberazione dell’anima.

ERACLITO

Eraclito nacque ad Efeso, sulle coste della ionia, tra VI e V


secolo. Della sua vita si sa pochissimo, se non che
probabilmente apparteneva ad un clan aristocratico, per il resto
è noto che avesse condotto vita ritirata e dedita alla
contemplazione, anche perché la sua città, Efeso, era governata
da democratici, mentre Eraclito era un aristocratico: “uno per
me vale diecimila, se è il migliore”, recita un suo frammento.
Anche Eraclito avrebbe lasciato uno scritto cui la tradizione
attribuisce il titolo convenzionale Sulla Natura, di cui ci
restano tuttavia solo una manciata di frammenti. L’opera
doveva avere comunque carattere di raccolta di brevi ed
enigmatiche sentenze, se già presso i contemporanei Eraclito si
guadagno la fama di pensatore oscuro. I natali aristocratici di
Eraclito si riflettono sulla sua concezione filosofica,
decisamente elitaria, rispetto a quella degli altri esponenti della
scuola ionica come talete e anassimandro.
Infatti il pensiero di Eraclito poggia sulla distinzione tra
uomini comuni avvezzi alla dota, cioè all’opinioni, considerati
dormienti, e filosofi, considerati individui risvegliati, i quali
coltivano al contrario aletheia, la verità. I primi costituiscono
la maggioranza mentre solo i pochi risvegliati sono in grado di
cogliere la natura nascosta delle cose dietro l’illusorietà delle
apparenze.
La conoscenza filosofica, nella visione di Eraclito, percorre
due direzioni che alla fine si congiungono: il filosofo deve
scrutare la propria interiorità e nello stesso tempo interrogare
la natura esterna. Questo duplice movimento del pensiero
produrrà alla fine la constatazione che tanto l’interiorità
dell’uomo quanto il cosmo sono governati dalla stessa legge, e
che esse, solo apparentemente eterogenee - il dentro e il fuori -
sono in realtà la stessa cosa, coincidono.
Ma al di sopra di tutto, Eraclito è il filosofo di una concezione
mobile dell’essere, è il filosofo del divenire. Una concezione
che si contrapporrà radicalmente a quella degli eleati e di
parmenide, che all’essere riconosceranno al contrario carattere
unitario, stabile e immutabile. Per Eraclito invece la realtà ci
mostra nient’altro che mutamenti perpetui, al punto che
potremmo ragionevolmente affermare che l’unica cosa
permanente è proprio l’impermanenza. Ogni cosa che viene
all’essere lo fa a spese di qualche altra cosa: la notte del
giorno, l’autunno dell’estate, il freddo del caldo etc. Dunque
ogni cosa nel suo venire alla luce determina la morte di
un’altra cosa, pertanto il manifestarsi delle cose è una sorta di
lotta (polemos) perpetua tra contrari, eppure questa lotta e
insieme armonia, perché ogni contrario, morendo dà la vita
all’altro, ogni cosa vive della morte dell’altra e viceversa,
pertanto i contrari hanno una radice comune, sono
interdipendenti. Questa visione dialettica, cioè della
dipendenza reciproca di tutte le cose secondo la forma della
tensione è una delle cifre distintive del pensiero di Eraclito.
Dovete immaginare un arco, la cui natura, è espressa dalla
tensione tra due forze opposte: la corda resiste al legno curvato
che cerca di liberarsene per recuperare la sua forma originaria,
ed è proprio dal loro lottare l’uno contro l’altro che tanto la
corda quanto il legno traggono la loro nuova vita, ossia la
natura dell’arco. Così ad esempio uno strumento a corda come
la lira, che riproduce la stessa meccanica dell’arco: dalla
tensione tra gli opposti che la compongono nasce l’armonia
musicale. La tensione generativa dei contrari è per Eraclito la
legge segreta di tutte le cose, la natura infatti, afferma Eraclito,
“Ama nascondersi”. Sono i dormienti che vedono solo il caos e
il conflitto all’opera nell’universo, perché hanno una visione
che non è in grado di abbracciare l’intera realtà (sono idioti nel
senso etimologico del termine: sotto attenti all’idion solo alla
loro realtà particolare), al contrario coloro che sono svegli
posseggono la visione dell’ordine e dell’armonia superiori che
dal caos derivano secondo una ragione occulta, tanto che al
principio del cosmo scosso dal caos Eraclito di logos oltre che
di fuoco, e logos vuol dire ragione ed equilibrio assoluti.
Se si considera più attentamente la questione si sarà costretti
ad ammettere che anche in ciò che sembra apparentemente
stabile e avente una natura singolare non vi è che movimento e
molteplicità: nello stesso fiume non è possibile scendere due
volte sostiene Eraclito, a sottolineare che tanto la realtà
oggettiva (il fiume che non è altro che acque fluenti sempre
diverse nell’esempio) tanto la realtà soggettiva (cioè noi stessi
che non siamo quelli di un istante prima) non sono provvisti di
alcun carattere stabile, e il pensiero dell’essere come alcunché
di statico e immobile non è che una rappresentazione fallace,
un’astrazione illusoria. L’essere ha il carattere del divenire,
un’affermazione che secondo un pensiero che esclude la
contraddizione sarebbe inammissibile.
Alla luce di un pensiero tanto radicale Eraclito reinterpreta la
classica visione monistica dei filosofi ionici e del loro arché.
Per Eraclito il principio di tutte le cose è il fuoco, l’elemento
che fra tutti sembra custodire il segreto della generazione
attraverso la distruzione, della motilità assoluta delle cose,
giacché il fuoco attraverso la distruzione è il motore del
cosmo, il principio dell’eterna giovinezza del mondo: dal
fuoco, per condensazione e rarefazione, come in Anassimene,
avremo gli altri elementi: la condensazione del fuoco produce
l’acqua e poi la terra, Eraclito chiama questo processo la via
all’in giù. La rarefazione, al contrario, rappresenta la
cosiddetta via all’in sù, un cammino a ritroso, la terra per
rarefazione si fa acqua e l’acqua torna fuoco.

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