Intorno alla figura di Pitagora sono fiorite numerose leggende
sin dall’antichità. La sua figura misteriosa e il carattere settario ed iniziatico della sua scuola ne hanno alimentato il mito di illuminato depositario di un antica sapienza segreta che, a seconda delle tradizioni, avrebbe appreso da una sacerdotessa di apollo o durante uno dei suoi viaggi in Oriente o in Egitto, dai greci considerata patria della più antica sapienza magico- sacrale. Dietro la cortina della leggenda ci restano poche informazioni attendibili sulla sua figura: nacque a Samo, isola ionica, al principio del VI secolo a.C. e da Samo riparò in magna Grecia una volta che nella sua patria Policrate aveva assunto la carica di tiranno. A Crotone fondò la sua scuola, che era ad un tempo un’associazione filosofica, mistico-religiosa e anche politica: i pitagorici infatti saranno molto presenti nelle istituzioni politiche delle città magnogreche. Non ci sono stati tramandati testi di Pitagora e molto probabilmente l’unica dottrina che è possibile attribuirgli con certezza e quella della metempsicosi/ metemsomatosi, ovvero l’idea della trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro (non necessariamente un corpo della stessa specie di quello precedente: un anima può essere “umana” nel corso di un’incarnazione e trasmigrare in un insetto nell’incarnazione successiva). Tale concezione si basava su una considerazione negativa del corpo, reputato un carcere in cui l’anima era costretta a sostare, per espiare una pena commessa in un tempo remoto (torna l’idea del mondo dei fenomeni come espressione di ingiustizia e della trascendenza del mondo dei fenomeni come il compiersi di un processo di espiazione e di sopravvenuta giustizia). Per Pitagora la filosofia è la via di conversione e redenzione dell’anima, grazie alla quale essa può liberarsi dalla cattività del corpo. Per Pitagora e i pitagorici tuttavia filosofia va intesa sia come esercizio della ragione contemplativa sia come insieme di pratiche rituali di purificazione. Per i pitagorici dunque la filosofia è innanzitutto una soteriologia, ossia una dottrina e una via di salvezza o di liberazione dalla sofferenza. Questo carattere religioso era evidente in numerosi aspetti della vita dei pitagorici, i quali vivevano in comune, osservavano digiuni e altre pratiche ascetiche nonché la comunione dei beni. La comunità pitagorica ammetteva tutti, anche i soggetti socialmente marginali come le donne e gli schiavi, e istituiva all’interno della scuola gerarchie sociali eterogenee rispetto a quelle vigenti al suo esterno: all’opposizione tradizionale tra uomo e donna o libero e schiavo si sostituiva l’opposizione tra discepolo matematico e discepolo acusmatico, ossia, rispettivamente, un discepolo che in virtù delle sue qualificazioni personali e di un lungo cammino iniziatico aveva raggiunto un elevato grado di conoscenza e di realizzazione personale e discepoli che erano ammessi solo all’ascolto di parte delle dottrine.
LA MATEMATICA
Ai pitagorici si deve sostanzialmente lo sviluppo della
matematica come scienza. Se, infatti, altri popoli, sopratutto orientali, avevano sviluppato notevoli conoscenze aritmo- geometriche, queste erano subordinate a fini eminentemente pratici: la matematica e la geometria servivano principalmente per suddividere i terreni in lotti, per realizzare opere di ingegneria agricola etc. I pitagorici, per primi, slegano lo studio della matematica dalle finalità pratiche (come i filosofi in generale slegano la conoscenza dalle finalità pratiche) e ne inaugurano in occidente lo studio puro, elaborandone ad esempio i concetti fondamentali (piano, punto, linea, superficie etc.) e il metodo dimostrativo, da cui dipenderà lo sviluppo di qualunque sapere futuro che ambisse a darsi uno status scientifico. Lo sfondo mistico religioso e lo studio della matematica pura condussero i pitagorici a ritenere che la sostanza prima e ultima di tutte le cose - il loro arché potremmo dire - è il numero. I pitagorici giungono a questa conclusione a partire dall’istituzione di una corrispondenza perfetta, di una parentela ontologica, tra ente numerico ed ente geometrico: l’unità corrisponde infatti al punto geometrico, questo cosa significa? Significa che qualunque grandezza numerica o rapporto numerico corrisponde ad altrettante grandezze geometriche e spaziali, dunque qualunque entità spaziale e temporale è la manifestazione di una sostanza numerica. Fare del numero il proprio arche significa tuttavia per i pitagorici aprire un varco verso la comprensione razionale del principio segreto di tutte le cose: se i numeri sono il principio delle cose le cose sono conoscibili nella loro essenza profonda perché i numeri sono conoscibili. La concezione aritmo-geometrica della natura è basata tuttavia su un’idea armonica della stessa matematica. La musica offre un esempio eloquente di questo rapporto tra l’essere delle cose e il numero, perché tanto l’armonia che la melodia sono gradevoli all’orecchio solo se esprimono rapporti matematici di un certo tipo, altrimenti il suono risulta sgradevole. Come vi dicevo la scorsa volta l’uomo greco non fa differenza tra ciò che è, tra ciò che è vero, tra ciò che è bello, tra ciò che è buono e tra ciò che e giusto, viceversa non fa distinzione tra ciò che non è, non è vero, e brutto, e malvagio ed è ingiusto. Una successione di suoni che non esprime un ordine numerico regolare, cioè una legge di natura, è brutto all’ascolto e nel contempo inesistente, ha un carattere solo illusorio. Le cose reali sono belle, buone e giuste. La musica, come vi accennavo un paio di lezioni fa, esprime anche la sovrana bellezza del cosmo: i pianeti nelle concezioni antiche erano considerati divinità, o quantomeno manifestazioni fisiche della divinità. Nei pitagorici sopravvive questa considerazione dei corpi celesti e della loro vita come massima espressione della bellezza cosmica: i movimenti dei pianeti producono infatti la cosiddetta musica delle sfere, la più perfetta che mente umana possa immaginare. Dunque i pitagorici sono stati i primi a ricondurre la natura ad un ordine oggettivo e misurabile. I pitagorici furono artefici di una dottrina dei contrari basata sulle opposizioni numeriche: se le cose sono numeri, le cose contrarie tra loro saranno numeri fra loro contrari. La prima opposizione riconoscibile nel numero e la sua natura pari e dispari, dunque in natura vi sono cose che hanno carattere pari e cose che hanno carattere dispari. Il dispari ha per i pitagorici natura limitata e compiuta, il pari ha natura illimitata e incompiuta. A questo non si può fare a meno di constatare che i pitagorici, contrariamente ad anassimandro che conferiva al principio di tutte le cose carattere illimitato, ritengono che sia ciò che è finito e limitato ad avere carattere perfetto, mentre l’illimitato e ciò che è informe e incompiuto. Il limite è l’aspetto attivo che determina il venire all’essere delle cose, che sono limitate, definite, chiuse, compiute; l’illimite rappresenta l’aspetto passivo, informe e solo potenziale di quelle che attraverso il limite verranno all’essere come chiuse, limitate e definite. L’uno, origine di tutti gli altri numeri e dunque realtà perfetta sopra tutte le altre, era detto parimpari, perché accordava in unità i due poli opposti fondamentali. Da questa concezione della distinzione originaria della realtà in limitato e illimitato e in pari e dispari i pitagorici stileranno un decalogo di opposizioni fondamentali, che troverete sul libro.
LA CRISI DELL’ARITMOGEOMETRIA
Come avevamo già detto l’ultima volta, per i pitagorici esiste
un rapporto immediato di vera è propria identità tra numeri ed entità geometrico-spaziali. Tuttavia questa concezione della perfetta corrispondenza tra numeri ed enti geometrici entro’ in crisi con la scoperta delle grandezze incommensurabili (ad esempio la diagonale di un quadrato il cui lato ha un valore numerico definito: a partire da questo valore numerico, non sarà possibile calcolare il valore della diagonale senza imbattersi in un numero irrazionale; i numeri irrazionali, non costituendo grandezze numeriche finite, pongono il problema dell’infinito matematico e dunque dell’imperfezione come elemento costitutivo della realtà, dal momento che ne era affetto il principio, cioè il numero). Si ritiene che la scoperta avesse frantumato le certezze dei pitagorici e fosse stata tenuta nascosta finché un certo ippaso di Metaponto non la divulgo al di fuori della cerchia della scuola. La gravità di questa violazione secondo la leggenda gli sarebbe valsa la maledizione dei pitagorici e la collera degli stessi dei che l’avrebbero fatto morire durante un naufragio.
LA DOTTRINA FISICA
Le concezioni relative all’armonia come legge dell’universo
indussero i pitagorici a ipotizzare la sfericità della terra e dei corpi celesti: se la sfera è la figura solida più perfetta e armonica perché tutti i suoi punti sono equidistanti dal centro allora i pianeti, che come vi ricordavo nella precedente lezione erano tradizionalmente considerati divinità o manifestazioni di divinità, dovranno possedere la forma più perfetta, dunque saranno sferici. Al pitagorico Filolao si deve inoltre la prima concezione non geocentrica dell’universo. Non si trattava tuttavia ancora di una vera e propria dottrina eliocentrica: al centro dell’universo veniva collocato il cosiddetto fuoco centrale (in greco Hestia, “focolare”), considerata una sorta di fornace originaria in cui vengono plasmate le cose particolari e limitate a partire dalla materia illimitata che la circonda. Intorno al fuoco centrale si muovono dieci corpi celesti, il cosiddetto cielo delle stelle fisse, il più lontano dal centro, e poi, in successione, i cinque pianeti, il nostro sole; che per filolao non sarebbe altro che uno specchio che riflette sulla terra sotto forma di raggi il calore emanato dal fuoco centrale; la luna, la terra e l’antiterra, un pianeta di cui filolao ipotizzo l’esistenza perché la sfera del cosmo riproducesse la perfezione del numero dieci. Una vera è propria ipotesi eliocentrica dovrà attendere il III secolo e un filosofo di scuola aristotelica, Aristarco di Samo, il quale semplificherà il modello di filolao collocando al centro dell’universo il sole, anticipando Copernico di quasi duemila anni.
LE DOTTRINE ANTROPOLOGICHE
Al pitagorismo vanno ricondotte teorie antropologiche talvolta
antitetiche fra loro. Secondo alcune dottrine infatti, l’anima umana sarebbe stata concepita come armonia in quanto corrispondente alla composizione armonica degli elementi che costituiscono il corpo. In questo caso abbiamo una concezione che istituisce una corrispondenza perfetta tra anima e corpo analoga a quella sussistente tra numeri ed enti geometrici, dunque una dottrina monista, che non rileva una frattura tra i due ordini di realtà immateriale e materiale.
Altre dottrine pitagoriche al contrario sono caratterizzate da un
marcato dualismo, e considerano l’anima come prigioniera del corpo fintanto che è intrappolata nel ciclo delle reincarnazioni che solo la conoscenza filosofica può spezzare, liberando l’anima dalla sua cattività corporale, dalla sua prigionia. Questa dottrina è debitrice o comunque è connessa con una corrente religiosa chiamata orfismo, dall’eroe greco Orfeo, i cui seguaci concepivano la condizione umana nelle stesso modo e ritenevano che solo una vita dedita alla conoscenza e alle pratiche di purificazione rituali potesse garantire la finale liberazione dell’anima.
ERACLITO
Eraclito nacque ad Efeso, sulle coste della ionia, tra VI e V
secolo. Della sua vita si sa pochissimo, se non che probabilmente apparteneva ad un clan aristocratico, per il resto è noto che avesse condotto vita ritirata e dedita alla contemplazione, anche perché la sua città, Efeso, era governata da democratici, mentre Eraclito era un aristocratico: “uno per me vale diecimila, se è il migliore”, recita un suo frammento. Anche Eraclito avrebbe lasciato uno scritto cui la tradizione attribuisce il titolo convenzionale Sulla Natura, di cui ci restano tuttavia solo una manciata di frammenti. L’opera doveva avere comunque carattere di raccolta di brevi ed enigmatiche sentenze, se già presso i contemporanei Eraclito si guadagno la fama di pensatore oscuro. I natali aristocratici di Eraclito si riflettono sulla sua concezione filosofica, decisamente elitaria, rispetto a quella degli altri esponenti della scuola ionica come talete e anassimandro. Infatti il pensiero di Eraclito poggia sulla distinzione tra uomini comuni avvezzi alla dota, cioè all’opinioni, considerati dormienti, e filosofi, considerati individui risvegliati, i quali coltivano al contrario aletheia, la verità. I primi costituiscono la maggioranza mentre solo i pochi risvegliati sono in grado di cogliere la natura nascosta delle cose dietro l’illusorietà delle apparenze. La conoscenza filosofica, nella visione di Eraclito, percorre due direzioni che alla fine si congiungono: il filosofo deve scrutare la propria interiorità e nello stesso tempo interrogare la natura esterna. Questo duplice movimento del pensiero produrrà alla fine la constatazione che tanto l’interiorità dell’uomo quanto il cosmo sono governati dalla stessa legge, e che esse, solo apparentemente eterogenee - il dentro e il fuori - sono in realtà la stessa cosa, coincidono. Ma al di sopra di tutto, Eraclito è il filosofo di una concezione mobile dell’essere, è il filosofo del divenire. Una concezione che si contrapporrà radicalmente a quella degli eleati e di parmenide, che all’essere riconosceranno al contrario carattere unitario, stabile e immutabile. Per Eraclito invece la realtà ci mostra nient’altro che mutamenti perpetui, al punto che potremmo ragionevolmente affermare che l’unica cosa permanente è proprio l’impermanenza. Ogni cosa che viene all’essere lo fa a spese di qualche altra cosa: la notte del giorno, l’autunno dell’estate, il freddo del caldo etc. Dunque ogni cosa nel suo venire alla luce determina la morte di un’altra cosa, pertanto il manifestarsi delle cose è una sorta di lotta (polemos) perpetua tra contrari, eppure questa lotta e insieme armonia, perché ogni contrario, morendo dà la vita all’altro, ogni cosa vive della morte dell’altra e viceversa, pertanto i contrari hanno una radice comune, sono interdipendenti. Questa visione dialettica, cioè della dipendenza reciproca di tutte le cose secondo la forma della tensione è una delle cifre distintive del pensiero di Eraclito. Dovete immaginare un arco, la cui natura, è espressa dalla tensione tra due forze opposte: la corda resiste al legno curvato che cerca di liberarsene per recuperare la sua forma originaria, ed è proprio dal loro lottare l’uno contro l’altro che tanto la corda quanto il legno traggono la loro nuova vita, ossia la natura dell’arco. Così ad esempio uno strumento a corda come la lira, che riproduce la stessa meccanica dell’arco: dalla tensione tra gli opposti che la compongono nasce l’armonia musicale. La tensione generativa dei contrari è per Eraclito la legge segreta di tutte le cose, la natura infatti, afferma Eraclito, “Ama nascondersi”. Sono i dormienti che vedono solo il caos e il conflitto all’opera nell’universo, perché hanno una visione che non è in grado di abbracciare l’intera realtà (sono idioti nel senso etimologico del termine: sotto attenti all’idion solo alla loro realtà particolare), al contrario coloro che sono svegli posseggono la visione dell’ordine e dell’armonia superiori che dal caos derivano secondo una ragione occulta, tanto che al principio del cosmo scosso dal caos Eraclito di logos oltre che di fuoco, e logos vuol dire ragione ed equilibrio assoluti. Se si considera più attentamente la questione si sarà costretti ad ammettere che anche in ciò che sembra apparentemente stabile e avente una natura singolare non vi è che movimento e molteplicità: nello stesso fiume non è possibile scendere due volte sostiene Eraclito, a sottolineare che tanto la realtà oggettiva (il fiume che non è altro che acque fluenti sempre diverse nell’esempio) tanto la realtà soggettiva (cioè noi stessi che non siamo quelli di un istante prima) non sono provvisti di alcun carattere stabile, e il pensiero dell’essere come alcunché di statico e immobile non è che una rappresentazione fallace, un’astrazione illusoria. L’essere ha il carattere del divenire, un’affermazione che secondo un pensiero che esclude la contraddizione sarebbe inammissibile. Alla luce di un pensiero tanto radicale Eraclito reinterpreta la classica visione monistica dei filosofi ionici e del loro arché. Per Eraclito il principio di tutte le cose è il fuoco, l’elemento che fra tutti sembra custodire il segreto della generazione attraverso la distruzione, della motilità assoluta delle cose, giacché il fuoco attraverso la distruzione è il motore del cosmo, il principio dell’eterna giovinezza del mondo: dal fuoco, per condensazione e rarefazione, come in Anassimene, avremo gli altri elementi: la condensazione del fuoco produce l’acqua e poi la terra, Eraclito chiama questo processo la via all’in giù. La rarefazione, al contrario, rappresenta la cosiddetta via all’in sù, un cammino a ritroso, la terra per rarefazione si fa acqua e l’acqua torna fuoco.
La Seconda Navigazione é Una Metafora Desunta Dal Linguaggio Marinaresco e Indica Quella Navigazione Che Si Intraprende Quando Cadono i Venti e La Nave Rimane Ferma