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Émile Durkheim è stato nel 1887 il primo titolare di una cattedra di Sociologia, anno in cui le
tecnologie delle comunicazioni erano ancora agli albori (telegrafo usato da 50 anni, telefono
brevettato 11 anni prima, cinema, radio e televisioni ancora assenti).
Allora, perché parlare di lui? Perché nella sua descrizione della società moderna - che ritroviamo
nella sua prima grande opera, “La divisione del lavoro sociale” (1893) - è possibile rinvenire i
presupposti e le condizioni della successiva società dell’immagine e della cultura visuale (i tempi
di sviluppo e affermazione dei media).
Il bovarismo della modernità
Facendo un passo indietro: Durkheim è annoverato tra i padri fondatori della sociologia e, l’idea
secondo cui un fatto sociale debba avere una spiegazione sociale è l’assunto considerato più
significativo e caratterizzante della sua riflessione.
Aspetto minormente osservato è proprio il fatto che egli potrebbe essere annoverato fra i progenitori
degli studiosi di scienze della comunicazione, in particolare dei teorici della società dell’immagine.
Perché? Innanzitutto è grazie a lui che comincia a prendere forma l’idea secondo cui la
comunicazione sia sociogenetica, cioè il fattore che tiene insieme e fa evolvere la struttura della
società (che, ricordiamo, secondo lui non nasce dagli individui ma viceversa). Parlando proprio di
società, è bene ricordare che Durkheim ha tematizzato una distinzione fra due tipi di sistemi
sociali, a seconda che siano caratterizzati dalla solidarietà meccanica o organica: la prima
relazione corrisponde a uno stadio primitivo della società e si instaura tra gruppi simili, la seconda,
invece, si manifesta in sistemi sociali più evoluti tra segmenti (di popolazione) che cominciano a
differenziarsi, assumendo una propria funzione specifica (differenziazione funzionale) ma
coordinata con quelle altrui → da ciò dipende la divisione del lavoro sociale → i segmenti sociali
perdono parte della loro individualità (differenziazione identitaria: si diventa ciò che si fa).
Il passaggio da un sistema sociale all’altro è, secondo lo studioso, riconducibile a 3 fattori
determinanti:
1) Volume della popolazione;
2) Densità materiale (maggiore concentrazione della popolazione su un territorio);
3) Densità morale: definita da Durkheim intensificazione degli scambi, di traffici, dei
commerci, delle comunicazioni,
Dunque, quanto più una popolazione si estende e si concentra nello spazio, tanto maggiori sono la
varietà e l’intensità delle relazioni comunicative che si formano al suo interno.
Durkheim sembra per certi versi anticipare la definizione dei mezzi di comunicazione di Daniel
Lerner che li considerava come potenti fattori di modernizzazione in quanto “moltiplicatori di
mobilità” psichica, tali cioè da sottrarre gli individui al mondo chiuso delle proprie comunità di
appartenenza e aprirli a un più vasto repertorio di esperienze, di immagini e informazioni
provenienti da contesti remoti.
Ed è proprio sotto questo aspetto che Durkheim risulta “visionario”: l’aumento della densità morale
nei gruppi umani determina una mediatizzazione dell’esperienza, cioè la possibilità di accesso a
fonti e risorse di conoscenza non locale.
Ed è proprio questo che ci è permesso oggi da Internet, dai new media, non più attraverso
un'esperienza vivida e concreta, bensì sempre più sotto forma di immagine.
Ancor prima di Durkheim è stato Flaubert, con il suo personaggio Emma Bovary a mettere in
evidenzia tutte le ansie di una società a forte “densità morale”.
Emma, infatti, vive le inquietudini tipiche di una vita esposta agli echi e alle immagini provenienti
da mondi diversi e lontani dal proprio (nel suo caso fruendo opere letterarie) e può essere
paragonata al telespettatore contemporaneo che si sente prossimo a mondi e persone lontane dalla
propria realtà da cui si lascia assorbire.
Tale contatto con il “diverso”, però, non è necessariamente positivo in quanto l’esistenza di Emma
oscilla tra un qui e un altrove immaginario, tra un essere dove non vuole e un voler essere dove non
è. Questa condizione comporta il rischio di devianza, poiché vulnerabile alle seduzioni di ciò che è
“diverso da sé”.
Pertanto per bovarismo si intende proprio questo, cioè il desiderio di essere ciò che non si è o anche
la frattura tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Esso è strettamente connesso alla società
dell’immagine ed è la sindrome tipica di una struttura sociale fortemente differenziata (quella
moderna appunto di cui D. parla) dove ciascuno ha modo di credersi diverso da ciò che è, proprio
perché dispone di modelli alternativi verso cui orientare le proprie scelte di vita e declinare la
propria identità.
RIASSUMENDO: Durkheim nella sua descrizione della società moderna (descrizione dei fattori
che ne hanno determinato il passaggio) ha teorizzato la mediatizzazione dell’esperienza (possibilità
di entrare in contatto con un “diverso da sé”), prima vivida e concreta (scambi, commercio), oggi
sempre più sotto forma di immagine → società dell’immagine, caratterizzata dal desiderio degli
individui di immaginarsi diversi da quel che sono (bovarismo).
Max Weber è stato il teorico della società moderna come luogo della razionalità strumentale e del
disincantamento del mondo, ma è anche un attento osservatore delle dinamiche del “charisma” e
del “reincanto”.
Proprio per questo motivo i suoi studi possono essere letti per comprendere il successo, in seguito
maturato, delle più grandi istituzioni del reincantamento contemporaneo, come l’industria
cinematografica di Hollywood, la pubblicità, la televisione ecc.
La modernizzazione intesa come “gabbia d’acciaio” della ragione strumentale corrisponde a una
razionalità in senso ristretto; in un’economia allargata della razionalità, i fenomeni di estetizzazione
della vita sociale (i media) rappresentano una compensazione di quella parte di modernità che si
sottrae al controllo della razionalità strumentale. Il reincanto, dunque, non produce una perdita di
controllo della realtà, ma costituisce un dispositivo che può essere usato per orientarsi in essa.
Per giungere a questa conclusione richiameremo il tragitto intellettuale attraverso cui Weber
ricostruisce il percorso occidentale del disincanto e della razionalizzazione del mondo, facendo
emergere dalla sua teoria alcuni elementi utili per lo studio dei media e della comunicazione.
Il carattere tipografico della modernità
Il disincanto teorizzato da Weber si può descrivere come l’effetto del processo di
modernizzazione della vita e di perfezionamento delle tecniche di controllo che l’uomo esercita
sulle proprie attività.
In tal senso l’ascesi intramondana, che secondo Weber sarebbe il portato più decisivo dell’etica
calvinista, ha incentivato la formazione dello spirito del capitalismo e quindi del disincanto.
Ascesi intramondana l’uomo è strumento di Dio nel mondo: chi lavora con dedizione per tutta la propria vita e
riscuote grande successo può ritenersi salvo. Da ciò nasce secondo Weber il capitalismo moderno, non già da particolari
condizioni materiali, storiche ed economiche, come sosteneva Marx.
Nella ricostruzione che egli fa degli impulsi psicologici di natura religiosa che hanno reso possibile
lo sviluppo di tale spirito, un ruolo decisivo viene giocato dalla ricerca affannosa e inquieta
dell’uomo della salvezza ultraterrena. Quest’ultima, data la predestinazione, non si può acquisire
mediante le azioni degli uomini, tuttavia il loro impegno nel mondo agisce quale conferma della
propria elezione divina. Ed è sulla base di tale principio etico che il borghese capitalista si trova a
condurre un’esistenza razionale NEL mondo eppure NON di questo mondo o PER questo mondo
(perché mira a quello divino).
Per effetto della razionalizzazione (allontanamento dal misticismo), quindi, l'uomo riesce ad
assumere sotto la propria responsabilità il controllo del proprio ambiente. La religione (in
particolare quelle che Weber definisce “di redenzione”, cioè che prospettavano ai loro seguaci la
liberazione dalla sofferenza) si è configurata come la prima e rudimentale forma di
razionalizzazione del mondo: essa ha operato come fattore di sistematizzazione razionale della
condotta di vita: L’uomo ora non deve più ricorrere a sortilegi magici, ma impegnarsi con le proprie
azioni personali se vuole ottenere i risultati che si prefigge nel mondo.
Questo dispositivo di “appropriazione del mondo”, generato dalle religioni di redenzione, si
consolida in virtù delle grandi trasformazioni che hanno interessato l'ambiente culturale e cognitivo
europeo a partire dalla rivoluzione della stampa a caratteri mobili, avvenuta nel XV secolo. La
gabbia tipografica è immagine della gabbia di acciaio che avvolge il mondo.
L'invenzione di Gutenberg ha perfezionato il progetto avviato dalle religioni di redenzione per
restituire al soggetto occidentale il pieno e incondizionato controllo del senso delle proprie attività
mondane.
Successivamente, in condizioni di cambiamenti sociali (come quelli che si sono verificati con
l’esplosione dei traffici e dell’economia mercantile del XIX secolo), anche dispositivi di
razionalizzazione quali la religione e la stampa si sono rivelati insufficienti a governare la
complessità del mondo.
Bisogna ricordare, infatti, che la razionalità ha confini mobili, ha carattere performativo più che
sostanziale e in questo senso non è altro che “la qualità adattiva, che può avere qualsiasi azione, di
garantire all'attore sociale il controllo del mondo in determinate circostanze”. È evidente allora che
se quest’ultime mutano, possono mutare di conseguenza anche le forme di razionalità, in quanto ciò
che si è rilevato funzionale al controllo del mondo in un certo contesto può risultare vano o
addirittura dannoso al mutare dello scenario nel quale si agisce. Ecco perché, ad esempio, la stessa
religione all’alba della modernità esaurisce quella funzione propulsiva che ne aveva fatto un agente
di razionalizzazione rispetto alle forze magiche tradizionali e viene progressivamente spinta
dall’ambito razionale a quello irrazionale.
Dalla protesta al controllo
Il concetto di "controllo del mondo" è centrale nella riflessione di Weber ed è da intendersi come
quel tipo di azione razionale che per raggiungere un determinato scopo si serve dei mezzi adeguati
alle condizioni date. Un controllo che non va inteso nell’accezione di dominio, ma in quella di
“monitoraggio costante di una realtà depurata da forze misteriose e magiche”.
L'ascesi intramondana è, allora, una tecnologia culturale del controllo attraverso cui l'uomo si
mette in condizione di padroneggiare il senso e il fine complessivi del proprio agire.
Nel momento in cui gli affari del capitalista weberiano si espandono al di là della sua diretta sfera di
influenza, l’azione razionale con cui finora si era assicurato il controllo non è più adeguata ai suoi
scopi, di conseguenza egli è obbligato a escogitare nuovi mezzi, nessuno escluso, purché adeguati a
mantenersi in una situazione di controllo efficace sulla realtà.
Tutto ciò comincia ad esempio nel XIX secolo nel momento in cui, ristrutturato il sistema dei
trasporti, le imprese produttive e commerciali dilatano il proprio raggio d’azione operando in misura
crescente.
Quando i mercati si sviluppano oltre certe dimensioni, però, neanche le tradizionali procedure
burocratiche (bolle, assicurazioni) bastano più per il monitoraggio e la gestione efficace delle
attività imprenditoriali, così la burocrazia stessa finisce per diventare un ostacolo per gli affari.
Così, si ripropone la questione di reperire sistemi informativi alternativi che ripristino la condizione
di controllo ristabilendo una relazione diretta fra corpi sociali che hanno perso contatto.
Questa “rivoluzione del controllo” esprime esattamente il senso della società dell’informazione che
si è sviluppata a partire dal XIX secolo come risposta alla crisi di controllo prodotta dalla
rivoluzione industriale.
Il senso dell'analisi di questo concetto di controllo del mondo è utile anche per capire il successo
della pubblicità. La dilatazione dei mercati ha privato i produttori di un contatto diretto con i
consumatori, provocando, di conseguenza, una crisi di controllo tra produttori e consumatori. Con il
lancio delle campagne integrate di pubblicità, l’azienda produttrice cominciò a recuperare il contatto
diretto con i propri consumatori scavalcando la mediazione dei distributori.
Per poter essere accattivante, inoltre, la pubblicità cominciò ad avvalersi di un linguaggio estetico,
emotivo e immaginario (il contrario, cioè, di una forma comunicativa informativa e razionale.) Si
tratta, allora, di una forma di controllo razionale realizzata attraverso il reincanto della società
dell’immagine. In questo modo, il reincanto viene reso produttivo e si fa esso stesso strumento di
razionalizzazione del controllo.
La razionalità del reincanto
Tuttavia uno dei presupposti della sociologia di Weber consiste nel principio per cui una forma di
vita razionale quale quella capitalistica necessita di una scienza anch'essa razionale che possa
analizzarla. Di fatti egli rappresenta il maggiore interprete del metodo razionale come strumento di
lettura della realtà sociale. Per questo motivo, per Weber gli spettacoli di fantasia, fossero essi
cinematografici o letterari (in generale qualsiasi cosa che non fosse razionale), non erano adatti a
descrivere scientificamente la società. Eppure oggi le sostanze immaginarie e razionali della vita (i
media) sono diventate elemento strutturale della stessa realtà sociale.
La conoscenza scientifica, dunque, è razionale nella misura in cui dimostra di essere in grado di
cogliere la logica dell'oggetto verso cui si applica: nel momento in cui l'oggetto, nel nostro caso il
sistema sociale, si determina e prende forma in virtù di logiche dell'illogico, si può ritenere che la
sua conoscenza, proprio per mantenersi razionale, debba incorporare elementi non razionali.
Se il disincantamento è stato la cifra simbolica della modernità classica, il reincantamento sembra
la categoria più adatta a descrivere la modernità nella sua fase attuale.
Il reincanto su cui fanno leva le industrie mediali, dunque, non è un'involuzione rispetto ai processi
di razionalizzazione descritti da Weber, non si tratta di una fuga dalla realtà, bensì di una sofisticata
strategia per non perdere il contatto con essa, una componente specifica della modernità che i
soggetti attivano riflessivamente.
Se per razionalizzazione intendiamo con Weber la fuoriuscita dall'orbita di forze irrazionali e
l'assunzione del controllo della realtà, la fascinazione esercitata dai media esprime esattamente una
forma di razionalità allargata in quanto capace di garantire il controllo di una realtà più complessa
della precedente. Il reincanto, in definitiva, non è altro che una tecnica di controllo alla pari della
razionalizzazione tesa ad assicurare agli uomini, ora come allora, l’appropriazione e il controllo
dell’ambiente in cui vivono.
Capitolo 4: George Hermber Mead, ovvero come la comunicazione costruisce il mondo
George Herbert Mead è stato ritenuto tra i principali fondatori della psicologia sociale. La sua
opera più conosciuta, che divenne punto di partenza per lo sviluppo delle teorie sull’interazionismo
simbolico, è “Mente, Sé e società” nella quale l’autore ha cercato di spiegare come la
socializzazione porti a far emergere il Sé umano nel processo sociale. La condizione tramite cui
questo processo può compiersi è, secondo Mead, il pensiero simbolico, ovvero il linguaggio.
Quest’ultimo, diviene significativo solo se le persone sono in grado di acquisire il ruolo dell’altro e
riescono ad adottare verso sé stessi l’atteggiamento assunto dal proprio interlocutore. Nel corso di
questa interazione, le persone costruiscono un’identità, assumono dei ruoli e negoziano significati.
Lo sviluppo della coscienza e del Sé individuale avviene in modo graduale, a partire dall’infanzia.
Secondo Mead lo stadio finale di questo sviluppo si matura quando l’individuo assume il ruolo
dell’Altro generalizzato, cioè l’atteggiamento dell’intera comunità sociale. All’interno del Sé poi
l’autore distingue tra “Io”(1) e “Me”(2):
1. Per “Io” si definisce la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri.
2. Il “Me” è l’insieme organizzato degli atteggiamenti degli altri che un individuo assume
(ovvero riflette le leggi, i costumi, i codici organizzati e le aspettative della società).
Introduzione
Mead è stato forse il sociologo classico che più esplicitamente ha teorizzato il valore fondante della
comunicazione nei processi di formazione della società e dell'identità soggettiva.
Egli ritiene che la comunicazione svolga un ruolo primario nel processo dell’antropopoiesi, ovvero
nel divenire uomo dell’uomo (nella crescita). Essa è qualcosa che dà forma alla soggettività umana e
che comincia fin nella sua vita interiore sotto forma di autointerazione.
Herbert Blumer coniò l’espressione “interazionismo simbolico” per definire l’approccio teorico
di Mead: “il processo di autointerazione pone l’individuo di fronte al mondo invece che solo al suo
interno, gli chiede di incontrarlo e gestirlo e lo costringe a costruire la propria azione invece di
lasciarla solo scaturire”.
Comunicazione e antropopoiesi
Riconoscendo alla comunicazione un ruolo privilegiato nella strutturazione dei processi psichici,
Mead pone le premesse per scardinare il principio dell’autosufficienza dell’Io e affermare la
costituzione eterogenea soggettività.
Innanzitutto, per comprendere la natura della comunicazione secondo Mead bisogna operare una
distinzione tra gesti e simboli significativi.
Per spiegare la comunicazione fatta di gesti (non simbolica), Mead utilizza un famoso esempio,
quello della lotta tra cani, dove il comportamento dell’uno fa stimolo all’altro a reagire. A questo
livello non avviene la comunicazione (semplicemente un gesto partito da individuo x invoca un
movimento preparatorio in individuo y e così via).
Nessuno degli organismi si rende conto del possibile effetto dei propri gesti sull’altro; i gesti sono
insignificanti. Perché la comunicazione abbia luogo, ogni organismo deve avere conoscenza di
come l’altra persona risponderà al suo agire in corso.
I gesti diventano simboli significativi, infatti, quando suscitano negli individui che li propongono lo
stesso tipo di risposta che essi suppongono di ottenere da coloro ai quali i gesti sono rivolti. Solo
quando abbiamo simboli significativi possiamo avere secondo Mead la comunicazione.
Osservando le reazioni degli altri ai propri simboli significativi i soggetti comprendono e imparano
a negoziare artificialmente il significato degli atti che compiono: l’individuo può anticipare le
risposte degli altri e può perciò consciamente e intenzionalmente fare dei gesti che faranno uscir
fuori le risposte appropriate, quelle che si desiderano negli altri.
Dalla tendenza dell’individuo a interiorizzare gli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti e ad
agire secondo le loro aspettative sorge l’AltroGeneralizzato (attraverso la comprensione dell'Altro
Generalizzato, l'individuo capisce che tipo di comportamento è previsto, appropriato e così via, in
differenti contesti sociali. L’Altro Generalizzato è il maggiore strumento di controllo sociale, è il
meccanismo attraverso il quale la comunità ottiene il controllo sulla condotta dei membri
individuali).
Il significato del gesto dell’individuo diviene chiaro, dunque, solo nella reazione che provoca
nell’altro, cioè noi assumiamo i significati dei nostri gesti riflettendoli negli altri, nell’atteggiamento
con cui gli individui vi rispondono.
L’”altro”, quindi, non è un interlocutore esterno del Sé, ma una sua parte integrante e costitutiva. In
questa prospettiva va ripensata la nozione di “identità”: più che di identità personale intesa come
realtà psichica autonoma, si dovrebbe parlare di un’identità diffusa e aperta, capace di ospitare
l’alterità e di esserne ospitata.
Tale riflessione operata da Mead può oggi fare i conti (e in tal senso risulta estremamente attuale)
con la crisi del paradigma individuale dell’identità e l’emergere di nuove forme di soggettività
definite come multividuali.
Il concetto di individuo presuppone un nucleo identitario unitario e indivisibile che alimenta una
soggettività rigorosamente separata dall’esterno. Il tal senso il rapporto con l'altro si
caratterizzerebbe per il Sé come atto di presa di distanza e conquista di autonomia. Per esistere in
quanto individuo il Sé ha bisogno di epurarsi da tutto ciò che non è Sé. La concezione multividuale,
invece, si basa sul riconoscimento di una struttura eterogenea, plurale e fluida dell'identità; che è poi
la condizione psicologica che le attuali tecnologie della comunicazione rendono sempre più
evidente.
A differenza del soggetto individuale che ha bisogno di chiudersi nei confronti della diversità
(alterità) per costruire la propria esistenza in autonomia, il soggetto multividuale è una realtà
aperta che vive integrandosi con la diversità e acquisendone di volta in volta i tratti. “Dobbiamo
essere gli altri se vogliamo essere noi stessi” enuncia Mead, secondo cui, infatti, maggiore è la
capacità dei soggetti di immedesimarsi negli altri e assumerne ruoli e atteggiamenti, tanto più
l’autocoscienza, che essi acquisiscono per loro tramite, sarà sviluppata. L’importanza che Mead
riconosce alla comunicazione è preparatoria per questa prospettiva postumanistica.
L’Altro nel Sé
Abbiamo detto che nella prospettiva dell'interazionismo simbolico l'identità non ha nulla a che fare
con una struttura interiore esistente a prescindere, bensì si sviluppa con l’interiorizzazione dei
processi sociali basati sul vicendevole risultato delle sensazioni scaturenti dalle azioni degli altri su
di noi e dalle nostre azioni su quelle degli altri. Non c'è un Io che fa esperienza del mondo, l'Io è
l'esperienza che fa nel mondo.
Secondo questa concezione la coscienza è l’effetto delle mosse comunicative che le immagini dei
comportamenti degli altri riversano all’interno di essa. La coscienza, quindi, non è altro che un
insieme di significati intesi come un insieme di sensazioni (da un lato quelle generate dagli altri su
di me, dall’altro quelle che genero io sugli altri) che non può esistere senza l’interazione sociale.
Allora perché, nonostante questo, più ci si evolve e più emerge la sensazione di essere un Sé
distaccato dall’altro, nel senso di un Sé che esiste anche al di là dell’interazione?
Perché questo (essere un Sé) sia possibile è necessario che i soggetti interiorizzino modelli di
comportamento e schemi di azione desunti dagli altri = affinché esista ego è necessario che ci sia
alter: solo interagendo con l’altro e “lasciandogli una parte di noi” possiamo riconoscere un Sé da
essi distaccato (cioè proprio quello che gli lasciamo).
Questo concetto viene spiegato con la metafora dello “strano anello” di Douglas Hofstadter:
affinché il soggetto percepisca un Sé distaccato dagli altri è necessario che quest’ultimo abbia, oltre
la proprietà di anello a feedback (inteso come costruzione rapida di simboli), la capacità di
interiorizzare nella propria coscienza anche i significati che gli provengono dagli altri anelli che
fanno parte delle coscienze altrui.
In questo modo si fa un salto da una dimensione inferiore a una superiore (strano anello = la
comunicazione diventa più profonda, non si percepisce solo il feedback immediato bensì anche la
coscienza dell’altro, l’insieme di tutti i suoi simboli, le sue volontà, i suoi desideri): il soggetto
percependo nella propria coscienza quella degli altri può ora arricchirsi e vedere l’impronta che ha
lasciato in loro e percepire, di conseguenza, il suo Sé.
A un certo punto della storia, però, le neuroscienze hanno fatto delle scoperte che hanno messo in
discussione questo filone di pensiero. Benjamin Libet è un neuroscienziato che studia la mente
umana per dare una spiegazione neurale ai concetti di coscienza soggettiva, intenzionalità, libero
arbitrio. Le sue ricerche hanno fatto luce su che cosa succede effettivamente nel nostro cervello
quando compiamo un'azione. I suoi esperimenti dimostrano che nel processo che conduce un
soggetto ad agire si registra uno scarto temporale minimo tra la decisione di agire e l'azione stessa;
la cosa più sorprendente, però, è che l'area cerebrale coinvolta nel controllo di un'azione si attiva
millisecondi prima che si manifesti l'intenzione soggettiva dell'agire. In poche parole: sembra che
non sia l'intenzione soggettiva a muovere le azioni ma i processi neuronali, quindi sostanzialmente
sembra che il libero arbitrio non sia il primo motore dell'azione.
Nell'affrontare una questione così contemporanea il pensiero di Mead torna attuale. Per Mead
l'individuo si forma in prima istanza assumendo l'immagine che gli altri gli rimandano di se stesso,
ovvero il "Me". In questa fase Io e Me coincidono, cioè la coscienza coincide con l'immagine del
Sé codificata socialmente. Solo quando riesce a smarcarsi dal "Me", l'Io si costituisce come
singolarità dotata di autonomia.
Quindi è vero che il Me precede l'Io, ma l'Io ha il potere di smarcarsi e interrompere il corso di
azione iniziato. Alle stesse conclusioni, sul piano delle neuroscienze successivo, arriva poi Libet,
capendo che anche se il processo neuronale precede effettivamente l'intenzione cosciente di agire, in
quel brevissimo tempo l'Io ha il potere di interrompere il corso d'azione avviato. È esattamente in
quei millisecondi che si apre lo spazio per la formazione e l'esercizio della volontà soggettiva
(libero arbitrio). Nello strano anello il libero arbitrio rappresenta il salto di dimensione verso il
basso, cioè il ritorno al Sé non condizionato dall’alterità.
[neologismo che deriva dal termine “georeferenziazione” con cui si indicano tecnologie come il
GPS, in grado di riconoscere la posizione di chi le usa e fornirgli contenuti adeguati in relazione al
luogo in cui si trova. Di conseguenza con piattaforme egoreferenziate intendiamo quelle che
diventano sensibili non ai luoghi in cui si spostano i soggetti che le utilizzano, bensì alle loro
esperienze e identità personali.]
Videofonia, Wiki Search, Wikipedia, Itsme, sono tutte piattaforme comunicative in cui gli utenti
non sono solo spettatori di un fatto, lo producono.
Chi trasmette con un videofonino immagini relative a oggetti o eventi di cui è testimone oculare non
si limita a documentare una realtà oggettiva, in un certo senso sta imprimendo il proprio vissuto
soggettivo; il destinatario riceve oltre alle immagini anche le esperienze dell'altro, ne indossa la
sensibilità e l'emozione.
Anche nel caso degli stessi motori di ricerca offerti dalla rete si stanno applicando soluzioni
egoreferenziate e basate sulla partecipazione. Nascono motori di ricerca come Search Wiki, che
fornisce solo contenuti la cui accuratezza sia stata accreditata dalla comunità dei ricercatori; Delver,
che cerca informazioni solo tra quelle mediate dai tuoi contatti; Wikipedia, che è un'enciclopedia
online scritta da redattori volontari.
Attraverso quello che definiamo un sistema informativo egoreferenziato si producono due effetti
di senso:
- le informazioni si radicano all'interno dell'esperienza dei soggetti;
- le informazioni si presentano ai soggetti che le utilizzano arricchite delle esperienze che i
precedenti utenti di volta in volta vi hanno depositato.
Nel mondo digitale non c'è più un oggetto da conoscere da una parte e il soggetto che vuole
conoscerlo dall'altra, c'è un’unica materia dinamica perché nella egoreferenzialità il sapere cammina
sul binario delle passioni soggettive che invece di essere considerate come parziali e limiti al sapere
diventano, invece, delle “bussole” per navigare attraverso la conoscenza.
Capitolo 5 – Walter Benjamin: la cultura di massa come fonte di verità filosofica
Walter Benjamin affronta temi quali la moda, la pubblicità, i consumi, l’industria culturale e la
funzione dell’arte nel sistema della tecnologia della riproducibilità.
Le sue considerazioni sul sistema della riproducibilità tecnica rappresentano una fonte di
orientamento teorico per gli studi e le analisi sulla comunicazione mediata. Il suo concetto di
“riproducibilità tecnica” è analizzato in correlazione a quello di “remixabilità digitale” di
Lawrence Lessig (2008), per descrivere le trasformazioni del mondo attuale.
La riflessione di Benjamin, pur antecedente ai media, esplica una loro legge che spiega le
conseguenze delle innovazioni tecnologie nel campo della comunicazione: "Superata una certa
soglia di sviluppo dei consumi culturali e comunicativi, la quantità si ribalta in qualità" → con
l’aumento del numero di coloro che hanno accesso alla cultura cambia anche il tipo di rapporto e
l’atteggiamento che essi manifestano nei suoi confronti.”.
Per Benjamin la fotografia (ma potremmo dire ogni innovazione tecnologica e comunicativa) dà
l’impressione di generare contenuti qualitativamente peggiori, se valutati in corrispondenza dei
valori espressivi e delle pratiche comunicative già in uso.
È vero anche oggi, es: citizen journalism contrapposto ai giornalisti professionisti. In generale,
usando la legge di Benjamin, non ci si deve interrogare se i contenuti siano effettivamente
peggiorati, bensì se la quantità si è trasformata in qualità e se cioè la diffusione dell’innovazione
non abbia ribaltato i criteri che regolano la produzione e l’accreditamento (delle informazioni).
Oggi, con la digitalizzazione, non si fa più riferimento alla riproducibilità ma alla remixabilità,
ovvero del riuso creativo, personalizzato (Lessig). Se la riproducibilità decretava la fine dell’unicità
del prodotto, la remixabilità segna la fine dell’intangibilità dell’opera: l’opera si può trasformare e
riscrivere e, a ogni remix, assume un tasso di unicità creativa. Inoltre la riproducibilità consentiva la
nascita di una “cultura comune”, il remix di una cultura comune diversa perché i prodotti non sono
rivolti al pubblico ma prodotti da esso (UGC). Il mutamento significativo della pratica del remix è
quello dell’esperienza e della qualità del consumo: un consumatore che si cimenta nella produzione,
saprà sicuramente approcciarsi con maggiore consapevolezza ai prodotti culturali di cui fruisce. Il
consumatore capisce le logiche della produzione e ciò costituisce i presupposti di una cultura
democratica, partecipativa e condivisa.
L’abbattimento dei costi di transizione per organizzare attività e per diffondere contenuti simbolici
per Clay Shirky costituisce il punto trainante della rivoluzione nel mondo della comunicazione. Le
barriere che limitavano l’azione di gruppo scompaiono e la cultura si democratizza.
Alfred Schutz è utilizzato nel libro per spiegare il fenomeno della vita online in rapporto con le
“realtà multiple” del vivere quotidiano. Oggi non si può parlare più di realtà virtuale, in cui le
incursioni con gli ambienti online venivano visti come una discontinuità e come evasione, ma si
parla di virtualità reale, nella quale Internet si presenta come estensione della vita così com’è.
L’offline e l’online non sono più due dinamiche opposte bensì si integrano tra di loro. In questa
condizione globale di iperconnettività cambia anche il ruolo e la funzione sociale
dell’immaginazione, ovvero da luogo altro della realtà.
Riflettere sulla vita online significa capire il modo in cui si dà voce e visibilità alle differenze e alla
gestione del confine tra il sé e l’altro. Si tratta di allestire una Mediapolis, uno spazio civico globale
in cui l’alterità sia accolta.
Secondo l’autore è la mano che differenzia gli uomini dagli animali, che differenzia quindi l’agire
libero e riflessivo dal semplice comportamento inconsapevole. L’affermazione della vita online ci
pone di fronte a una decadenza della “mano” [In seguito a un mutamento climatico, gli ultimi
australopitechi si sono spostati nella savana che non ha una trama fitta di alberi e la deambulazione funziona
anche da bipede. Da questo momento comincia la fase della stazione eretta. Gli uomini possono usare le
mani per manipolare il mondo e la bocca, liberata da compiti di prensione (non deve afferrare più niente),
può far specializzare la bocca come organo di fonazione. Poiché non ha più funzioni di afferramento e
trasporto di oggetti anche l’equilibrio all’interno della testa si modifica e si crea lo spazio per lo sviluppo del
cervello: si arriva al modo di comunicazione dell’oralità]. Infatti, Shultz è uno dei sociologi che
tematizza la centralità della mano come dispositivo cardine per la strutturazione dell’esperienza e
della conoscenza umana nell’ambito della vita quotidiana.
Nel suo saggio Simbolo, Realtà e Società, Schutz chiarisce che il posto che un soggetto occupa nel
mondo è il centro intorno a cui organizza la propria esperienza dello spazio, ovvero Qui, dov’è
situato il soggetto tutto ciò che è in esso si trova, tutti gli oggetti che sono a portata di mano,
cioè che possono essere uditi, visti e manipolati (soprattutto, poiché ciò che è manipolabile
comprende quella parte del mondo in cui l’uomo può realmente agire).
Schutz si rende conto che nel XX questo postulato non vale più poiché, grazie alle nuove tecnologie
belliche e telematiche (es: missili a lungo gittata), si amplia la sfera manipolatoria, che non
comprende solo ciò che è a portata di mano. Tuttavia, però, egli riconosce la problematicità del
concetto di “a portata di mano” in questi cambiamenti sociali, ma non rinuncia all’idea che sia la
manipolazione a definire la provincia di significato della vita quotidiana; quindi cerca di estendere,
nel suo ragionamento, la “portata” al di là dei contesti di presenza, quindi al di là del QUI del
soggetto.
L’ampliarsi della sfera manipolatoria a distanza in virtù delle nuove tecnologie telematiche significa
per Schutz trasposizione della mano in contesti tradizionalmente ad essa inaccessibili. In questo
processo che egli individua al cuore del nostro sistema sociale, la mano resta la stessa e così anche
il nostro modo di comunicare e conoscere, di cui la mano è, secondo Schutz, medium privilegiato
nel mondo della vita quotidiana alla nostra portata.
Resta quindi da capire come sia possibile la comunicazione tra soggetti che si trovano in diverse
province di significato (comunicazione per simboli). Per farlo, spieghiamo i concetti di segno e
simbolo:
segno = dispositivo comunicativo tra soggetti che condividono la vita quotidiana (mano).
simbolo = dispositivo comunicativo tra soggetti che si trovano in diverse province di
significato.
Secondo Schutz: un soggetto situato nella sfera di manipolazione del proprio qui può comunicare
con un altro, a condizione di trasferirsi nel suo qui e di assumerne quindi la prospettiva di
manipolazione.
In altri termini: ciò che non è a portata del soggetto può diventarlo (e quindi essere comunicato) a
patto che il soggetto abbandoni il suo attuale qui e si sposti in quello spazio. È una condizione
questa di “idealizzazione dell’interscambiabilità dei punti di vista”.
Per cui, per Schutz, controllare una realtà continua ad essere prerogativa delle mani. Ci sono però
delle realtà che trascendono il mondo della vita quotidiana, come quelle dell’esperienza del sogno o
l’esperienza religiosa, e in quei casi non è sufficiente scambiarsi dei segni, non è sufficiente la
mano, bisogna far ricorso a dei simboli. I simboli comunque funzionano un po’ come i segni, nel
senso che anche loro sono originati dall’essere qui di un soggetto. I simboli, per così dire, portano
lontano le mani a differenza del segno, che associa una coppia di fenomeni contenuti entrambi
nella realtà della vita quotidiana, il simbolo associa un fenomeno della vita quotidiana ad un’idea
che trascende la nostra esperienza.
Schutz anticipa gli effetti che le trasformazioni tecnologiche hanno sull’agire umano, un processo di
im-manitas, in cui l’azione umana si estende oltre i contesti di presenza. Schutz riconosce che il
mondo a portata di soggetto non si riduce a ciò che è in grado di toccare o manipolare materialmente
ma si estende oltre, anche all’intero mondo sociale che è raggiungibile in quanto oggetto di
manipolazione altrui. Per questo la mano è un fattore trascendentale dell’esperienza umana.
Il diabolico digitale (dicotomia mano/media)
La vita globale e quella online ci sollecitano a confrontarci con un processo di im-manitas, cioè un
addensarsi di eventi, flussi culturali e forme di vita mediate talmente vasto da sfuggirci di mano.
Siamo difronte ad un nuovo adattamento della specie e ad un nuovo mutamento culturale.
La mano non è propriamente l’organo fisico; intendiamo, in senso figurato, quel fattore di
Utilizzando una tesi di Maffesoli, l’autore afferma che la parte diabolica va riconosciuta nella
pluralità della vita e che la mano non deve essere l’unico fattore determinante dell’umano. Se non si
elabora un pensiero che distacca i media dalla mano, la comunicazione resta incompleta. Per questo
il mondo globalizzato e digitalizzato produce l’effetto di una sorta di sindrome del mondo che ci
sfugge di mano. La mano diventa un organo obsoleto di comprensione e di legiferazione simbolica
del mondo: non ha più senso considerare la mano un’unità di misura trascendentale del mondo, non
è più in grado di produrre una mediazione simbolica in un mondo che effettivamente di frammenta
in mondi di senso eterogenei. Serve uno scatto nell’immaginazione: il mondo globalizzato,
metaforicamente opera del diavolo (principio del disordine), non deve essere demonizzato ma
bisogna indulgervi, per transitare oltre l’umano. La vita online non deve essere concepita come un
rischio da scongiurare ma come un’opportunità che si espande nella vita offline. Soprattutto bisogna
considerare le due vite come due modalità di un’unica realtà. La crisi della mano è evidente anche
nel processo di costruzione dell’identità che non è più unica ma è dislocata, attraverso le protesi
elettroniche, in più luoghi. Il mondo attuale ci permette di superare ciò che è a portata di mano e di
andare oltre la soglia dell’umano e del corporeo. La mano non è più uno strumento per controllare il
mondo, per conoscerlo e per comunicarlo: il destino dell’umanità non è più nelle nostre mani.
Con la nozione di “biopolitica” Foucault ha descritto la svolta epocale che a partire dal XVIII
secolo ha investito i regimi politici occidentali e che è coincisa con un fenomeno di progressiva
assunzione della vita da parte del potere (il potere che controlla la vita). L’archetipo della razionalità
biopolitica risale secondo Foucault al potere pastorale cristiano, in cui il pastore controlla il gregge
nel suo complesso ma anche la vita di ogni singola pecora. È un modello di potere legato all’idea di
governo, in cui il potere si applica direttamente alle persone. Un potere che ha il compito di “far
vivere” le persone, nel senso di amministrarne la vita sociale fin nei suoi aspetti più privati e
personali. La governamentalità per Foucault è quindi un potere che si applica su tutti e su ciascuno e
che prende le sorti di ciascuno. Una forma di biopotere che opera sia sui corpi singoli (attraverso un
meccanismo disciplinare), sia sulla popolazione (attraverso un meccanismo regolatorio). Ciò che
cambia è solo l’oggetto a cui è riferito il potere ma non il potere stesso che si rivolge e si applica al
potenziamento della vita in tutte le sue manifestazioni.
Il modello biopolitico di governamentalità si è riproposto nel concetto di “Ragion di Stato” che si
avvaleva della “polizia”, ovvero un’istituzione che serviva a regolare la vita della popolazione per
assicurare lo splendore dello Stato (“insieme degli interventi che assicurano il coesistere, il
comunicare che saranno utili a incrementare la forza dello Stato”). Questo modello ha dato vita a un
nuovo sistema economico non più limitato a garantire la sopravvivenza degli uomini, bensì a
intensificarne la vita: è la felicità degli individui che determina la forza e lo splendore dello Stato.
Questo forma di razionalità politica ha rotto il confine che separava ambito pubblico e privato:
l’insieme delle questioni legate alla vita, un tempo private, diventano priorità pubbliche, dando vita
a concetti come quello dell’economia politica (si uniscono due termini che si riferiscono in realtà a
due sfere contrapposte, la privata e la pubblica).
Il liberalismo del XVIII secolo si propone come argine alla Ragion di Stato ma in realtà nel
governo liberale la libertà non è un dato costituito ma qualcosa che si fabbrica in ogni istante. È qui
che nasce la sfera della società, intesa come quello spazio che si prende carico pubblicamente della
vita, che si occupa della vita in quanto tale. L’emergere della vita come posta in gioco della politica
ha fatto sì che nel corso del tempo sempre più soggetti si affacciassero alla sfera pubblica
rivendicando il proprio riconoscimento sociale su base del proprio capitale biologico (proletariato,
donne, omosessuali).
Nel mondo moderno nasce in contrasto alla sfera della società una della privacy e dell’intimità
individuale, in cui trovano espressione le emozioni, i gusti, le credenze ecc. Ma anche questi
elementi con i media diventano di demanio pubblico. La TV è un esempio lampante. Non a caso è il
reality il genere più di successo che promuove processi di privatizzazione della sfera pubblica e di
pubblicazione di quella privata. John Thompson fornisce alla TV la funzione di “dissequestro
dell’esperienza”, dove l’esperienza resa accessibile in TV è la vita quotidiana. Oggi la TV
garantisce una diffusa e capillare presa della vita: non più la preoccupazione della morte ma la
centralità della vita, un po’ come nella modernità quando l’asse della ragione politica si è spostata
dal potere sovrano di “far morire” a quello governativo di “far vivere”.
In questo capitolo i media di massa vengono considerati come la “tecnologia politica degli
individui” nel XX secolo, retaggio di tutto quello citato ↑. Il termine “governo” nell’analisi
foucaultiana assume diversi significati tra cui quello di “parlare con qualcuno, intrattenerlo” nel
senso di “intrattenere una conversazione con lui”. In quest’ultima accezione il termine governo si
avvicina a quello di intrattenimento, che è la mission del comunicare radiotelevisivo. Da qui si può
adottare il criterio di lettura biopolitica per i media. Quando si comunica la vita, non si ha tanto
l’occultamento della sfera pubblica attraverso la copertura di eventi privati ma si ha un effetto di
legittimazione pubblica di questi eventi e di soggettività, che vengono riscattati dalla loro
condizione di marginalità: i media non esibiscono la vita privata nella sfera pubblica se non per
ridefinire ciò che è da considerarsi pubblico.
Il regime di governamentalità assicurato dalla televisione è comprensibile se si considera il periodo
storico in cui essa è nata e poi affermata: il XX secolo (due guerre mondiali, I con mobilitazione di
massa, II con annientamento di massa, a cui si aggiunge nel mezzo la crisi economica che ha
cambiato la strategia da production oriented a consumer oriented). In entrambe le emergenze
catastrofiche un ruolo importante nella loro risoluzione è stato giocato dalle pratiche della
comunicazione, specialmente dal loro punto di vista terapeutico, ovvero di unione tra la dimensione
pubblica e privata. John Durham Peters ha osservato che alla comunicazione veniva fatto carico di
riuscire a far convivere interessi, ragioni e mondi vitali differenti eliminando ogni distanza tra le
alterità, piuttosto che lasciando a ognuna lo spazio per esprimersi. In altre parole se la
comunicazione ha come obiettivo quello di attuare una fusione con l’altro si dà luogo a forme di
politica sulla vita che riduce la gamma delle sue possibilità. Se la comunicazione invece significa
riconoscere l’alterità allora la posta in gioco diventa la possibilità di esprimere forme di politiche
della vita.
La TV è stata l’espressione della società di massa, rivolta come il pastorato, a tutti e a ciascuno
(omnes et singulatim – individualizzazione e totalizzazione). Come la “polizia” di un tempo, i media
broadcast (radio e tv) si sono specializzati nella funzione biopolitica: la televisione si preoccupa
degli individui soltanto nella misura in cui essi in qualche misura “accrescono la forza dello Stato”.
La TV offre un “sovrappiù di vita” per garantire un “sovrappiù di forza”: il contenuto dei
programmi televisivi, nella maggior parte dei casi, non è lo spettacolo ma è la vita, per fare in modo
che si alimenti l’organizzazione riflessiva del sé; il vero prodotto non sono i programmi trasmessi
ma le quote di pubblico che si vendono agli inserzionisti pubblicitari la pubblicità
radiotelevisiva come motore pulsante del sistema economico.
Il ricorso al pensiero di Foucault sulla biopolitica ci permette di tematizzare un nesso tra l’antico
modello del potere pastorale e la forma comunicativa televisiva: entrambi costituiscono dispositivi
di governo (nei vai sensi, da dirigere a intrattenere) che producono soggettivazioni nella forma
dell’individualizzazione, ma in entrambi casi si può evidenziare come ad un certo punto si siano
innescate delle controcondotte che hanno generato crisi di governamentalità e forme di
soggettivazione antagonistiche.
8.1 Introduzione
La notorietà di Michel de Certeau nel campo dei media studies è legata soprattutto ad una sua
ricerca chiamata “L’invenzione del quotidiano”. Secondo lo studioso, il quotidiano è tutt’altro
che routine e riproduzione della vita materiale, ma piuttosto il luogo in cui si generano i
significati e le forme simboliche.
A partire da questo momento gli studiosi dei media hanno cominciato ad allargare la loro
prospettiva interpretativa spostando l’analisi dai testi mediali utilizzati dai telespettatori ai modi
in cui essi li utilizzano e al senso che gli danno. Il presupposto di base è la convinzione che i
processi di decodifica attivati dai fruitori giochino un ruolo attivo nella costruzione dei significati
dei contenuti mediali: il consumo dei media non è mai un’azione passiva e irriflessa, è un’attività
interpretativa.
Capitolo 9 – Jürgen Habermas e il destino del comune nella società della rete
Nel 1962 Habermas (1929) pubblica lStoria e critica dell’opinione pubblica, un classico della
teoria nel campo degli studi sulla comunicazione sociale. In quest’opera Habermas spiega la
trasformazione del concetto di “sfera pubblica” (da “pubblico dibattito dei privati in quanto
pubblico” a “pubblica presentazione di interessi privati, individuali o collettivi” e quindi pubblicità).
Un ruolo di primo piano nella determinazione della funzione e della forma della sfera pubblica
viene riconosciuto ai mezzi di comunicazione: dalle gazzette, alla radio e alla televisione.
Le teorie di Habermas consentono di ragionare sul destino della sfera pubblica e dello spazio
comune in sistemi sociali differenziati e complessi come quelli contemporanei. Comune ha un
duplice significato: “banale” e “condiviso”; tuttavia oggi questi due termini sono disconnessi tra di
loro: l’area di ciò che è condiviso interessa gruppi sempre più circoscritti, mentre tutto ciò che è
al di fuori viene “abbandonato”, “messo al bando” [vedere Benjamin].
Le pratiche di “autocomunicazione di massa” messe in atto attraverso le piattaforme digitali
possono rafforzare il “potere comunicativo” dei cittadini?
Habermas ricostruisce la sfera pubblica attraverso il rapporto fra comunicazione e potere. Le prime
pubblicazioni periodiche risalgono al XVII secolo, come bollettini commerciali e con funzione
privata. Solo nel corso del XVIII secolo, grazie all’ascesa della borghesia come contropotere della
monarchia assoluta, si hanno i primi periodici che si confrontavano su temi non più privati ma di
carattere prima culturale e artistico e poi politico. Il borghese vedeva rispecchiati i suoi gusti e i suoi
interessi, aprendosi una strada all’emancipazione come soggetto abilitato alla discussione di temi di
rilevanza pubblica. Nel Settecento nasce così la sfera pubblica borghese, intesa come campo di
dibattito dove cittadini privati, riuniti in quanto pubblico, esprimevano la propria opinione (public
opinion), al fine di concorrere alle decisioni politiche. La sfera pubblica borghese si è costituita
come istanza di controllo per la monarchia assoluta del re, rivendicando il diritto del pubblico di
discutere di ogni atto politico: lo Stato di diritto borghese si autorappresentava, in nome della
veritas, la ragione.
Tuttavia lo Stato di diritto borghese, come sottolinea Habermas, aveva una contraddizione di fondo:
dominava su altre classi e di conseguenza la sfera pubblica borghese non esprimeva la ragione
universale dell’uomo ma solo del maschio, bianco, proprietario borghese.
La sfera pubblica ideale presuppone una scissione della soggettività borghese tra il proprietario che
fa i propri interessi e il cittadino che è chiamato a partecipare alla discussione pubblica e questo
equilibrio si mantiene fino a quando le leggi del mercato, che dominavano la sfera privata, non si
inseriscono nella sfera pubblica; da questo momento in poi il dibattito si trasforma in consumo e la
sfera pubblica si rifeudalizza, nel senso che diventa la corte. Uno snodo questo che si fa risalire alla
penny press del XIX secolo, che aveva l’interesse nell’ampliare il proprio pubblico (era una vera e
propria impresa operante in una dimensione di mercato), anche negli strati meno colti. La ricerca
del profitto spiega lo slittamento dalla centralità della politica alla centralità della cronaca e
alla sua spettacolarizzazione. La stampa passa da un organo di critica a veicolo di consumo di massa
e la sfera pubblica viene contaminata dagli interessi privati ed economici (economia viene da oikos,
“casa”, quindi qualcosa di privato).
Mutamenti che furono accelerati dalla grande crisi economica degli ultimi anni del XIX secolo, che
portarono al declino del modello liberale classico fondato sulla separazione di Stato e società, di
pubblico e privato. I soggetti economici privati capiscono che bisogna abbandonare il meccanismo
di concorrenza perfetta per sviluppare nuove strategie di integrazione produttiva. Nel frattempo, i
partiti che rappresentavano gli interessi dei ceti salariati rivendicano i propri diritti. In altre parole, si
esprimeva l’esigenza di un intervento pubblico a tutela degli interessi privati, che determinò
un’ulteriore rifeudalizzazione della società: le imprese assumono su di loro funzioni che spettano
allo Stato, e si incaricano di organizzare la vita degli individui intorno ai loro ritmi. Sfera pubblica e
sfera privata sono sempre più confuse: la sfera privata si svuota poiché non comprende più l’agire
economico, ma solo la sfera familiare intima. Ma la famiglia, non più soggetto produttore di beni e
risorse poiché finanziata dallo Stato con salari e pensioni, diventa oggetto di consumo. Con il
mutamento del concetto di sfera privata, gli individui non furono più in grado di partecipare alla vita
pubblica, per la loro autonomia come esseri privati economici indipendenti: il “pubblico
culturalmente critico” diventa il “pubblico consumatore di cultura” per questo cinema, radio e
televisione ebbero molto successo (strumenti di appropriazione privata senza discussione pubblica)
La sfera pubblica diventa pubblicità.