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Riassunto di

Pensare i media. I classici delle scienze sociali e la comunicazione – Davide Borrelli


Introduzione
“Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” (Calvino).
Ed è per questo che “Pensare i media” riprende i classici della sociologia come Durkheim, Simmel o
Weber in quanto “ancora produttivi”, capaci di dirci delle cose in tempi diversi.
Il libro vuole utilizzare autori della sociologia classica per cercare di mettere in parallelo le loro
teorie con le trasformazioni indotte dai media. Loro non sono nati nel periodo dei media classici e
quindi non potevano occuparsi di questa materia. L’uso di questi autori è indiretto e gli si fa dire
delle cose messe in relazione ai cambiamenti operati dai media.
La sociologia è nata per descrivere la modernità. Oggi noi sappiamo che la comunicazione mediata
è parte di questo straordinario percorso che ha trasformato il mondo, dal telegrafo a Internet. Per
ovvie ragioni cronologiche, i sociologi classici non hanno avuto la possibilità di confrontarsi con
questo fattore critico di comprensione della contemporaneità, ovvero la mediatizzazione del senso
e della vita stessa, però è comunque possibile interpretare le variabili da loro prese in considerazione
precedentemente alla luce delle trasformazioni dell’ambiente comunicativo che si sono verificate
nella modernità.
Molti mirano a una teoria che sappia descrivere la nuova epoca che ha preso il posto della modernità
(post-modernità o anche tarda modernità); Borelli, invece, propone una nuova teoria della
modernità, analizzando il ruolo che in essa hanno giocato le trasformazioni dei modi di produzione,
diffusione e consumo delle forme simboliche e comunicative. Questa prospettiva, che si richiama
all’approccio dell’autore John Thompson, incoraggia a rileggere i classici della sociologia
enfatizzando quegli snodi di pensiero che si prestano a illustrare efficacemente gli aspetti
significativi della società della comunicazione.
Capitolo 1: Émile Durkheim e la società dell’immagine

 Anni di Durkheim: 1858 –1917.


 Media che nei suoi anni hanno condizionato la società: stampa, telegrafo, telefono.
[Cinema e radio esistevano già ma non erano ancora abbastanza utilizzati da poter influire in
termini di variabile di studio della società di massa; la televisione nasce dopo la sua morte.]

Émile Durkheim è stato nel 1887 il primo titolare di una cattedra di Sociologia, anno in cui le
tecnologie delle comunicazioni erano ancora agli albori (telegrafo usato da 50 anni, telefono
brevettato 11 anni prima, cinema, radio e televisioni ancora assenti).
Allora, perché parlare di lui? Perché nella sua descrizione della società moderna - che ritroviamo
nella sua prima grande opera, “La divisione del lavoro sociale” (1893) - è possibile rinvenire i
presupposti e le condizioni della successiva società dell’immagine e della cultura visuale (i tempi
di sviluppo e affermazione dei media).
Il bovarismo della modernità
Facendo un passo indietro: Durkheim è annoverato tra i padri fondatori della sociologia e, l’idea
secondo cui un fatto sociale debba avere una spiegazione sociale è l’assunto considerato più
significativo e caratterizzante della sua riflessione.
Aspetto minormente osservato è proprio il fatto che egli potrebbe essere annoverato fra i progenitori
degli studiosi di scienze della comunicazione, in particolare dei teorici della società dell’immagine.
Perché? Innanzitutto è grazie a lui che comincia a prendere forma l’idea secondo cui la
comunicazione sia sociogenetica, cioè il fattore che tiene insieme e fa evolvere la struttura della
società (che, ricordiamo, secondo lui non nasce dagli individui ma viceversa). Parlando proprio di
società, è bene ricordare che Durkheim ha tematizzato una distinzione fra due tipi di sistemi
sociali, a seconda che siano caratterizzati dalla solidarietà meccanica o organica: la prima
relazione corrisponde a uno stadio primitivo della società e si instaura tra gruppi simili, la seconda,
invece, si manifesta in sistemi sociali più evoluti tra segmenti (di popolazione) che cominciano a
differenziarsi, assumendo una propria funzione specifica (differenziazione funzionale) ma
coordinata con quelle altrui → da ciò dipende la divisione del lavoro sociale → i segmenti sociali
perdono parte della loro individualità (differenziazione identitaria: si diventa ciò che si fa).
Il passaggio da un sistema sociale all’altro è, secondo lo studioso, riconducibile a 3 fattori
determinanti:
1) Volume della popolazione;
2) Densità materiale (maggiore concentrazione della popolazione su un territorio);
3) Densità morale: definita da Durkheim intensificazione degli scambi, di traffici, dei
commerci, delle comunicazioni,
Dunque, quanto più una popolazione si estende e si concentra nello spazio, tanto maggiori sono la
varietà e l’intensità delle relazioni comunicative che si formano al suo interno.
Durkheim sembra per certi versi anticipare la definizione dei mezzi di comunicazione di Daniel
Lerner che li considerava come potenti fattori di modernizzazione in quanto “moltiplicatori di
mobilità” psichica, tali cioè da sottrarre gli individui al mondo chiuso delle proprie comunità di
appartenenza e aprirli a un più vasto repertorio di esperienze, di immagini e informazioni
provenienti da contesti remoti.
Ed è proprio sotto questo aspetto che Durkheim risulta “visionario”: l’aumento della densità morale
nei gruppi umani determina una mediatizzazione dell’esperienza, cioè la possibilità di accesso a
fonti e risorse di conoscenza non locale.
Ed è proprio questo che ci è permesso oggi da Internet, dai new media, non più attraverso
un'esperienza vivida e concreta, bensì sempre più sotto forma di immagine.
Ancor prima di Durkheim è stato Flaubert, con il suo personaggio Emma Bovary a mettere in
evidenzia tutte le ansie di una società a forte “densità morale”.
Emma, infatti, vive le inquietudini tipiche di una vita esposta agli echi e alle immagini provenienti
da mondi diversi e lontani dal proprio (nel suo caso fruendo opere letterarie) e può essere
paragonata al telespettatore contemporaneo che si sente prossimo a mondi e persone lontane dalla
propria realtà da cui si lascia assorbire.
Tale contatto con il “diverso”, però, non è necessariamente positivo in quanto l’esistenza di Emma
oscilla tra un qui e un altrove immaginario, tra un essere dove non vuole e un voler essere dove non
è. Questa condizione comporta il rischio di devianza, poiché vulnerabile alle seduzioni di ciò che è
“diverso da sé”.
Pertanto per bovarismo si intende proprio questo, cioè il desiderio di essere ciò che non si è o anche
la frattura tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Esso è strettamente connesso alla società
dell’immagine ed è la sindrome tipica di una struttura sociale fortemente differenziata (quella
moderna appunto di cui D. parla) dove ciascuno ha modo di credersi diverso da ciò che è, proprio
perché dispone di modelli alternativi verso cui orientare le proprie scelte di vita e declinare la
propria identità.
RIASSUMENDO: Durkheim nella sua descrizione della società moderna (descrizione dei fattori
che ne hanno determinato il passaggio) ha teorizzato la mediatizzazione dell’esperienza (possibilità
di entrare in contatto con un “diverso da sé”), prima vivida e concreta (scambi, commercio), oggi
sempre più sotto forma di immagine → società dell’immagine, caratterizzata dal desiderio degli
individui di immaginarsi diversi da quel che sono (bovarismo).

Dalla vetrina alla coda lunga


Dispositivo di comunicazione emblematico di tale società è la vetrina che a partire dal XIX secolo
comincia ad essere allestita per attirare lo sguardo dei passanti (azione di marketing mirata ad
impressionare quest’ultimi affinché si rechino nel negozio non solo quando ne hanno bisogno). La
vetrinizzazione del sociale coincide con un fenomeno di allontanamento dalla concretezza
dell’esperienza (la vetrina che illumina e mostra la merce è anche la barriera che ci impedisce di
toccarla).
Oggi ci troviamo in un processo di vetrinizzazione sociale: si osserva come tutte le istituzioni
sociali, dalla politica fino addirittura alla religione, siano investite da un processo di
spettacolarizzazione e di riduzione all’immagine superficiale. La vetrina, originariamente strumento
del commercio, ha oggi invaso e colonizzato tutti i settori della cultura piegandoli alla propria
logica.
Accanto a essa, responsabile della riduzione e semplificazione del mondo (ridotta larghezza di
banda), si stanno ormai sempre più affermando mezzi di comunicazione dalla “coda lunga”
(Anderson), tali cioè da rendere (differentemente dalla vetrina) potenzialmente visibili e gestibili
tutti i prodotti e le forme di vita del mondo, anche quelli minoritari e più refrattari alla logica
dell’hit e della spettacolarizzazione vetrinistica.
Per effetto di questo fenomeno è come se il mondo stesso, attraverso Internet, si dilatasse e
distillasse su una coda lunga di scelte anziché concentrarsi solo nelle sue espressioni di punta e di
maggiore visibilità.
Tre secondo Anderson sono le forze che hanno permesso ciò (e quindi il passaggio da un mercato
di massa a una massa di mercati):
1) Democratizzazione degli strumenti produttivi come conseguenza della diminuzione di
barriere economiche in ingresso (prima si necessitava di un certo capitale per poter
produrre contenuti informativi, oggi chiunque può produrre musica/scrivere un libro
poiché dispone degli strumenti - es. PC - che un tempo erano appannaggio di una casa
editrice/discografica).
2) Democratizzazione della distribuzione: internet offre la possibilità di raggiungere
mercati di nicchia ovunque essi siano discostati eliminando gli ostacoli delle barriere
geografiche.
3) Collegamento tra offerta e domanda attraverso il passaparola (web 2.0) che gli
internauti generano in rete, mettendo a disposizione degli altri le esperienze che maturano
personalmente circa i beni di consumo che hanno provato e valutato.
Capitolo 2: George Simmel, ovvero le seduzioni del broadcasting

 Anni di Simmel: nasce nel 1858 – muore nel 1918


 Media che nei suoi anni hanno condizionato la società: stampa, telegrafo, telefono.
[Cinema e radio esistevano già ma non erano ancora abbastanza utilizzati da poter influire in termini
di variabile di studio della società di massa; la televisione nasce dopo la sua morte.]
Per ovvie ragioni cronologiche Simmel (1858-1918) non si è occupato di comunicazione mediata in
quanto tale ma alcuni degli snodi più significativi del suo percorso teorico (denaro, vita
metropolitana e fenomenologia dell’amore), ci permettono di chiarire le logiche sottese ai
processi mediali.
Il denaro come medium disseminativo
Nella modernità la parte più consistente delle azioni e delle relazioni sociali tende a prodursi al di
fuori dei contesti in presenza, in condizioni di “disembedding” spazio- temporale (il prodursi, nelle
nostre società, di relazioni sociali sempre più slegate dai contesti prossimi e azioni sempre più
condizionate da fattori incontrollabili e sconosciuti – Giddens e Baumann).
Ciò significa che nella vita degli individui, accanto alle tradizionali interazioni incentrate sul
dialogo, assumono crescente rilevanza delle forme indirette di disseminazione comunicativa
che prima erano prerogativa solo della scrittura. La disseminazione delle relazioni e delle
comunicazioni è una delle principali conseguenze della crisi delle forme dialogiche nella modernità.
Per quanto riguarda il denaro, esso è uno dei primi e più sofisticati mezzi di comunicazione di cui
l’umanità sia dotata. Si tratta di un oggetto sui generis, la cui natura è di non avere nessuna natura se
non quella mediale, attribuitagli tanto da Simmel quanto da Marx.
Quest’ultimi concordano nel definirlo come un dispositivo di disseminazione del valore e del senso,
che oggi definiremmo “broadcasting”: esso, infatti, è un equivalente universale, consente di
acquistare qualunque merce perché non è legato a nessun oggetto in particolare.
La differenza di pensiero tra i due studiosi sta nel diverso quadro di valutazione che forniscono delle
implicazioni economiche, etiche e culturali dell’economia monetaria.
Per Marx, infatti, il denaro è fattore di alienazione, sia perché fa smarrire il senso autentico del
valore d’uso degli oggetti sovrapponendovi un valore di scambio artificialmente determinato, sia
perché strumento di cui i capitalisti si servono per sottrarre la forza-lavoro al controllo diretto dei
lavoratori. Marx, inoltre, definiva il denaro come una “meretrice universale, la mezzana degli
uomini e dei popoli” e anche Simmel si rivede in tale analogia - tra il denaro e la prostituzione -
accomunati entrambi dall’essere refrattari a ogni forma di impegno e di coinvolgimento personale.
[Tornando più indietro nel tempo, vale la pena osservare come la prerogativa della “costante disponibilità”
tanto del denaro quanto di una prostituta (Simmel) sia anche uno dei principali motivi per cui Socrate,
nell’antichità, disprezzava la scrittura, ovvero la forma più antica di disseminazione comunicativa.
D’altronde in greco antico il termine prostituta era indicato dalla parola “é koiné” che significa “la donna di
tutti”, e il termine comunicazione veniva tradotto con “koinòo” (accostamento tra i concetti di comunicare e
profanare).]
Esattamente come il denaro nella visione di Marx, anche la comunicazione, nella misura in cui
trascenda la dimensione del dialogo personale e produca forme di disseminazione a beneficio di un
pubblico di destinatari indefinito e astratto (broadcasting), tende a essere assimilata a un’attività di
prostituzione e contaminazione.
Concentrandoci sul pensiero di Simmel, anche lui, come Marx, prendeva atto del carattere
impersonale del denaro, che diventa, però, nella sua riflessione una metafora del moderno. Esso,
infatti, non viene presentato con i tratti di un agente di corruzione e di contaminazione universale
ma come un espediente grazie al quale tutte le cose possono essere tradotte in un medium di
comunicazione universalmente accessibile e in grado di trascendere le peculiarità specifiche delle
cose e delle persone coinvolte nelle transizioni finanziarie.
Ciò che per Marx è un disvalore, un innaturale rovesciamento delle qualità umane, assume per
Simmel un carattere sì problematico, ma non necessariamente negativo.
L’oggettivazione di cui parla Simmel, infatti, non è la stessa cosa dell’alienazione teorizzata da
Marx; cioè non viene vista da Simmel come una forza di spersonalizzazione della vita, ma come una
condizione che paradossalmente può diventare necessaria per realizzare l’ individualità. Il denaro,
determinando un distacco da forme di coinvolgimento troppo dirette nelle cose e delle persone, si
rivela un vero e proprio “vivaio dell’individualismo”, lasciando cioè ad ogni individuo lo spazio e
la facoltà di dare a se stesso una fisionomia autonoma della propria soggettività.
Simmel, dunque, al contrario di Marx, apprezza il denaro per il fatto di essere caratterizzato da una
disseminazione indifferenziata (indifferenza nei confronti delle particolarità individuali).
Il denaro è, inoltre, contemporaneamente medium di trasmissione e medium di registrazione: di
trasmissione perché si avvantaggia della condizione di non esclusività dei rapporti che per suo
tramite si rendono possibili, la sua capacità di broadcasting, ossia di circolazione indiscriminata,
garantisce la sua efficienza e la sua accessibilità; di registrazione per la sua capacità di “fissare”
qualcosa che altrimenti sarebbe effimero e aleatorio (così come il cinema e la fotografia)
La comunicazione in forma di disseminazione (i media oggi, il denaro e la scrittura prima), in
definitiva, appare dunque a Simmel come una condizione di democratizzazione e di pubblicità del
senso da far valere contro il privilegio esclusivo, una garanzia di “par condicio” universale.
Dalla metropoli allo schermo
L’affinità tra condizione moderna ed esperienza della disseminazione e della comunicazione di tipo
broadcasting si coglie ancora di più nell’analisi che Simmel ha fatto delle condizioni psicologiche
della vita nelle grandi metropoli del suo tempo. “La metropoli e la vita dello spirito”, infatti, è la
seconda opera importante di Simmel.
Egli mostra come l’uomo venga investito nella metropoli moderna da una molteplicità di esperienze
percettive e come, paradossalmente, proprio l’eccesso di stimolo sensoriale dia al soggetto la
possibilità di ritagliarsi un margine di autonomia per coltivare il proprio essere interiore.
La tesi è la seguente: tanto più estesa è la quantità di esperienze che si offrono in forma oggettiva
all’uomo della metropoli, tanto meno intensa diventa la natura del suo coinvolgimento soggettivo in
esse. L’individuo assume così il tipico atteggiamento freddo e distaccato del blasé (a causa di una
sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città, l’individuo ostenta uno scetticismo sottoposto a
continui stimoli, si abitua, diventa meno recettivo. La conseguenza è quella della perdita
dell’essenza e del significato delle cose). A partire da questo momento è come se il mondo si desse
al soggetto che lo abita nella forma di uno “spettacolo” trasmesso nella modalità disseminativa
del broadcasting, piuttosto che in un rapporto di presa diretta. Simmel, però, esattamente con gli
stessi presupposti di ragionamento fatti prima con il tema del denaro, non vede necessariamente del
negativo in tutto questo, anzi: secondo lui è proprio nel momento in cui il soggetto si distanzia dal
mondo che si mette nella condizione più idonea a conferire individualità alla propria esperienza
esistenziale.
Il parallelismo che a noi serve con il mondo dei media è questo: se la metropoli dispiega una forma
di vita in cui gli individui sono continuamente sollecitati ad adottare uno schermo percettivo per
affinare la propria interiorità senza rinunciare ad abitare una “piattaforma collettiva”; possiamo
identificare in questa fenomenologia le premesse del bisogno del media della televisione, cioè la
necessità di interporre fra sé e l’esperienza diretta delle cose uno schermo che permetta di filtrare le
intense sollecitazioni del mondo esterno per renderle soggettivamente e riflessivamente fruibili.
In questa situazione di frattura tra il sé e il mondo, comincia a venire avvertito il bisogno di un
fattore di mediazione dell’esperienza, ossia di un dispositivo che consenta al soggetto di
rapportarsi con il mondo esterno senza essere sommerso dai suoi flussi sensoriali (bisogno che
potremmo trasporre a quello della televisione).
Simmel osserva, inoltre, che in passato ciò che noi sapevamo dagli altri lo conoscevamo
essenzialmente attraverso il canale uditivo, ascoltando ciò che essi dicevano; nelle condizioni di
vita moderna si verifica una ristrutturazione dei sistemi di interazione personale, che sempre più
si trovano a essere mediati prevalentemente dal canale visivo, come nel caso dei contatti con
estranei che si verificano nei mezzi di trasporto pubblici.
Amore e comunicazione
Perfino nella trattazione della fenomenologia della vita amorosa l’interesse di Simmel sembra
focalizzarsi sulle forme di erotismo disseminativo tipiche della vita moderna.
Il terreno sul quale tale natura disseminante si rende particolarmente evidente è l’atteggiamento
della flirtation, con la “simultaneità dell’attrarre e del respingere” che esso comporta (i
protagonisti si mantengono costantemente sospesi tra il darsi e il non darsi, tra l’abbandonarsi alla
passione e il ritegno del pudore e delle convenzioni civili).
La filtration può essere vista come metafora della televisione; forma e linguaggio stessi della tv
non si limitano a filtrare la realtà esterna, ma invitano chi se ne avvale a flirtare con essa. Se ci
pensiamo l’analogia è quasi evidente: il flirt è un gioco di avvicinamento allontanante e
allontanamento avvicinante. Sembra uno scioglilingua ma in realtà rappresenta l’essenza del
corteggiamento, di quel darsi-non-darsi tipico di questa forma d’amore che è caratterizzante la
fenomenologia della vita metropolitana. Gli uomini e le donne della metropoli si trovano ad avere
molti più contatti e quindi ad essere soggetti a molte più “eccitazioni” di sensi, dal momento che
allargano enormemente la loro cerchia di relazioni sociali. Il flirt “educa” le persone a gestire
l’eccesso di stimoli seduttivi dai quali sono investiti. Allo stesso modo la televisione ti fa gettare
uno sguardo sul mondo avvicinandoti un’esperienza intima che ti è lontana, gioca con lo spettatore
avvicinandolo ma allo stesso tempo allontanandolo, proprio come il flirt amoroso.
Capitolo 3: Max Weber e il reincantamento dei media

 Anni di Weber: nasce nel 1864 – muore nel 1920


 Media che nei suoi anni hanno condizionato la società: stampa, telegrafo, telefono.
[Cinema e radio esistevano già ma non erano ancora abbastanza utilizzati da poter influire in termini di
variabile di studio della società di massa; la televisione nasce dopo la sua morte.]

Max Weber è stato il teorico della società moderna come luogo della razionalità strumentale e del
disincantamento del mondo, ma è anche un attento osservatore delle dinamiche del “charisma” e
del “reincanto”.
Proprio per questo motivo i suoi studi possono essere letti per comprendere il successo, in seguito
maturato, delle più grandi istituzioni del reincantamento contemporaneo, come l’industria
cinematografica di Hollywood, la pubblicità, la televisione ecc.
La modernizzazione intesa come “gabbia d’acciaio” della ragione strumentale corrisponde a una
razionalità in senso ristretto; in un’economia allargata della razionalità, i fenomeni di estetizzazione
della vita sociale (i media) rappresentano una compensazione di quella parte di modernità che si
sottrae al controllo della razionalità strumentale. Il reincanto, dunque, non produce una perdita di
controllo della realtà, ma costituisce un dispositivo che può essere usato per orientarsi in essa.
Per giungere a questa conclusione richiameremo il tragitto intellettuale attraverso cui Weber
ricostruisce il percorso occidentale del disincanto e della razionalizzazione del mondo, facendo
emergere dalla sua teoria alcuni elementi utili per lo studio dei media e della comunicazione.
Il carattere tipografico della modernità
Il disincanto teorizzato da Weber si può descrivere come l’effetto del processo di
modernizzazione della vita e di perfezionamento delle tecniche di controllo che l’uomo esercita
sulle proprie attività.
In tal senso l’ascesi intramondana, che secondo Weber sarebbe il portato più decisivo dell’etica
calvinista, ha incentivato la formazione dello spirito del capitalismo e quindi del disincanto.
Ascesi intramondana l’uomo è strumento di Dio nel mondo: chi lavora con dedizione per tutta la propria vita e
riscuote grande successo può ritenersi salvo. Da ciò nasce secondo Weber il capitalismo moderno, non già da particolari
condizioni materiali, storiche ed economiche, come sosteneva Marx.

Nella ricostruzione che egli fa degli impulsi psicologici di natura religiosa che hanno reso possibile
lo sviluppo di tale spirito, un ruolo decisivo viene giocato dalla ricerca affannosa e inquieta
dell’uomo della salvezza ultraterrena. Quest’ultima, data la predestinazione, non si può acquisire
mediante le azioni degli uomini, tuttavia il loro impegno nel mondo agisce quale conferma della
propria elezione divina. Ed è sulla base di tale principio etico che il borghese capitalista si trova a
condurre un’esistenza razionale NEL mondo eppure NON di questo mondo o PER questo mondo
(perché mira a quello divino).
Per effetto della razionalizzazione (allontanamento dal misticismo), quindi, l'uomo riesce ad
assumere sotto la propria responsabilità il controllo del proprio ambiente. La religione (in
particolare quelle che Weber definisce “di redenzione”, cioè che prospettavano ai loro seguaci la
liberazione dalla sofferenza) si è configurata come la prima e rudimentale forma di
razionalizzazione del mondo: essa ha operato come fattore di sistematizzazione razionale della
condotta di vita: L’uomo ora non deve più ricorrere a sortilegi magici, ma impegnarsi con le proprie
azioni personali se vuole ottenere i risultati che si prefigge nel mondo.
Questo dispositivo di “appropriazione del mondo”, generato dalle religioni di redenzione, si
consolida in virtù delle grandi trasformazioni che hanno interessato l'ambiente culturale e cognitivo
europeo a partire dalla rivoluzione della stampa a caratteri mobili, avvenuta nel XV secolo. La
gabbia tipografica è immagine della gabbia di acciaio che avvolge il mondo.
L'invenzione di Gutenberg ha perfezionato il progetto avviato dalle religioni di redenzione per
restituire al soggetto occidentale il pieno e incondizionato controllo del senso delle proprie attività
mondane.
Successivamente, in condizioni di cambiamenti sociali (come quelli che si sono verificati con
l’esplosione dei traffici e dell’economia mercantile del XIX secolo), anche dispositivi di
razionalizzazione quali la religione e la stampa si sono rivelati insufficienti a governare la
complessità del mondo.
Bisogna ricordare, infatti, che la razionalità ha confini mobili, ha carattere performativo più che
sostanziale e in questo senso non è altro che “la qualità adattiva, che può avere qualsiasi azione, di
garantire all'attore sociale il controllo del mondo in determinate circostanze”. È evidente allora che
se quest’ultime mutano, possono mutare di conseguenza anche le forme di razionalità, in quanto ciò
che si è rilevato funzionale al controllo del mondo in un certo contesto può risultare vano o
addirittura dannoso al mutare dello scenario nel quale si agisce. Ecco perché, ad esempio, la stessa
religione all’alba della modernità esaurisce quella funzione propulsiva che ne aveva fatto un agente
di razionalizzazione rispetto alle forze magiche tradizionali e viene progressivamente spinta
dall’ambito razionale a quello irrazionale.
Dalla protesta al controllo
Il concetto di "controllo del mondo" è centrale nella riflessione di Weber ed è da intendersi come
quel tipo di azione razionale che per raggiungere un determinato scopo si serve dei mezzi adeguati
alle condizioni date. Un controllo che non va inteso nell’accezione di dominio, ma in quella di
“monitoraggio costante di una realtà depurata da forze misteriose e magiche”.
L'ascesi intramondana è, allora, una tecnologia culturale del controllo attraverso cui l'uomo si
mette in condizione di padroneggiare il senso e il fine complessivi del proprio agire.
Nel momento in cui gli affari del capitalista weberiano si espandono al di là della sua diretta sfera di
influenza, l’azione razionale con cui finora si era assicurato il controllo non è più adeguata ai suoi
scopi, di conseguenza egli è obbligato a escogitare nuovi mezzi, nessuno escluso, purché adeguati a
mantenersi in una situazione di controllo efficace sulla realtà.
Tutto ciò comincia ad esempio nel XIX secolo nel momento in cui, ristrutturato il sistema dei
trasporti, le imprese produttive e commerciali dilatano il proprio raggio d’azione operando in misura
crescente.
Quando i mercati si sviluppano oltre certe dimensioni, però, neanche le tradizionali procedure
burocratiche (bolle, assicurazioni) bastano più per il monitoraggio e la gestione efficace delle
attività imprenditoriali, così la burocrazia stessa finisce per diventare un ostacolo per gli affari.
Così, si ripropone la questione di reperire sistemi informativi alternativi che ripristino la condizione
di controllo ristabilendo una relazione diretta fra corpi sociali che hanno perso contatto.
Questa “rivoluzione del controllo” esprime esattamente il senso della società dell’informazione che
si è sviluppata a partire dal XIX secolo come risposta alla crisi di controllo prodotta dalla
rivoluzione industriale.
Il senso dell'analisi di questo concetto di controllo del mondo è utile anche per capire il successo
della pubblicità. La dilatazione dei mercati ha privato i produttori di un contatto diretto con i
consumatori, provocando, di conseguenza, una crisi di controllo tra produttori e consumatori. Con il
lancio delle campagne integrate di pubblicità, l’azienda produttrice cominciò a recuperare il contatto
diretto con i propri consumatori scavalcando la mediazione dei distributori.
Per poter essere accattivante, inoltre, la pubblicità cominciò ad avvalersi di un linguaggio estetico,
emotivo e immaginario (il contrario, cioè, di una forma comunicativa informativa e razionale.) Si
tratta, allora, di una forma di controllo razionale realizzata attraverso il reincanto della società
dell’immagine. In questo modo, il reincanto viene reso produttivo e si fa esso stesso strumento di
razionalizzazione del controllo.
La razionalità del reincanto
Tuttavia uno dei presupposti della sociologia di Weber consiste nel principio per cui una forma di
vita razionale quale quella capitalistica necessita di una scienza anch'essa razionale che possa
analizzarla. Di fatti egli rappresenta il maggiore interprete del metodo razionale come strumento di
lettura della realtà sociale. Per questo motivo, per Weber gli spettacoli di fantasia, fossero essi
cinematografici o letterari (in generale qualsiasi cosa che non fosse razionale), non erano adatti a
descrivere scientificamente la società. Eppure oggi le sostanze immaginarie e razionali della vita (i
media) sono diventate elemento strutturale della stessa realtà sociale.
La conoscenza scientifica, dunque, è razionale nella misura in cui dimostra di essere in grado di
cogliere la logica dell'oggetto verso cui si applica: nel momento in cui l'oggetto, nel nostro caso il
sistema sociale, si determina e prende forma in virtù di logiche dell'illogico, si può ritenere che la
sua conoscenza, proprio per mantenersi razionale, debba incorporare elementi non razionali.
Se il disincantamento è stato la cifra simbolica della modernità classica, il reincantamento sembra
la categoria più adatta a descrivere la modernità nella sua fase attuale.
Il reincanto su cui fanno leva le industrie mediali, dunque, non è un'involuzione rispetto ai processi
di razionalizzazione descritti da Weber, non si tratta di una fuga dalla realtà, bensì di una sofisticata
strategia per non perdere il contatto con essa, una componente specifica della modernità che i
soggetti attivano riflessivamente.
Se per razionalizzazione intendiamo con Weber la fuoriuscita dall'orbita di forze irrazionali e
l'assunzione del controllo della realtà, la fascinazione esercitata dai media esprime esattamente una
forma di razionalità allargata in quanto capace di garantire il controllo di una realtà più complessa
della precedente. Il reincanto, in definitiva, non è altro che una tecnica di controllo alla pari della
razionalizzazione tesa ad assicurare agli uomini, ora come allora, l’appropriazione e il controllo
dell’ambiente in cui vivono.
Capitolo 4: George Hermber Mead, ovvero come la comunicazione costruisce il mondo

 Anni di Mead: 1863 - 1931


 Media che nei suoi anni hanno condizionato la società: telefono, cinema, radio, televisione.

George Herbert Mead è stato ritenuto tra i principali fondatori della psicologia sociale. La sua
opera più conosciuta, che divenne punto di partenza per lo sviluppo delle teorie sull’interazionismo
simbolico, è “Mente, Sé e società” nella quale l’autore ha cercato di spiegare come la
socializzazione porti a far emergere il Sé umano nel processo sociale. La condizione tramite cui
questo processo può compiersi è, secondo Mead, il pensiero simbolico, ovvero il linguaggio.
Quest’ultimo, diviene significativo solo se le persone sono in grado di acquisire il ruolo dell’altro e
riescono ad adottare verso sé stessi l’atteggiamento assunto dal proprio interlocutore. Nel corso di
questa interazione, le persone costruiscono un’identità, assumono dei ruoli e negoziano significati.
Lo sviluppo della coscienza e del Sé individuale avviene in modo graduale, a partire dall’infanzia.
Secondo Mead lo stadio finale di questo sviluppo si matura quando l’individuo assume il ruolo
dell’Altro generalizzato, cioè l’atteggiamento dell’intera comunità sociale. All’interno del Sé poi
l’autore distingue tra “Io”(1) e “Me”(2):
1. Per “Io” si definisce la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri.
2. Il “Me” è l’insieme organizzato degli atteggiamenti degli altri che un individuo assume
(ovvero riflette le leggi, i costumi, i codici organizzati e le aspettative della società).
Introduzione
Mead è stato forse il sociologo classico che più esplicitamente ha teorizzato il valore fondante della
comunicazione nei processi di formazione della società e dell'identità soggettiva.
Egli ritiene che la comunicazione svolga un ruolo primario nel processo dell’antropopoiesi, ovvero
nel divenire uomo dell’uomo (nella crescita). Essa è qualcosa che dà forma alla soggettività umana e
che comincia fin nella sua vita interiore sotto forma di autointerazione.
Herbert Blumer coniò l’espressione “interazionismo simbolico” per definire l’approccio teorico
di Mead: “il processo di autointerazione pone l’individuo di fronte al mondo invece che solo al suo
interno, gli chiede di incontrarlo e gestirlo e lo costringe a costruire la propria azione invece di
lasciarla solo scaturire”.
Comunicazione e antropopoiesi
Riconoscendo alla comunicazione un ruolo privilegiato nella strutturazione dei processi psichici,
Mead pone le premesse per scardinare il principio dell’autosufficienza dell’Io e affermare la
costituzione eterogenea soggettività.
Innanzitutto, per comprendere la natura della comunicazione secondo Mead bisogna operare una
distinzione tra gesti e simboli significativi.
Per spiegare la comunicazione fatta di gesti (non simbolica), Mead utilizza un famoso esempio,
quello della lotta tra cani, dove il comportamento dell’uno fa stimolo all’altro a reagire. A questo
livello non avviene la comunicazione (semplicemente un gesto partito da individuo x invoca un
movimento preparatorio in individuo y e così via).
Nessuno degli organismi si rende conto del possibile effetto dei propri gesti sull’altro; i gesti sono
insignificanti. Perché la comunicazione abbia luogo, ogni organismo deve avere conoscenza di
come l’altra persona risponderà al suo agire in corso.
I gesti diventano simboli significativi, infatti, quando suscitano negli individui che li propongono lo
stesso tipo di risposta che essi suppongono di ottenere da coloro ai quali i gesti sono rivolti. Solo
quando abbiamo simboli significativi possiamo avere secondo Mead la comunicazione.
Osservando le reazioni degli altri ai propri simboli significativi i soggetti comprendono e imparano
a negoziare artificialmente il significato degli atti che compiono: l’individuo può anticipare le
risposte degli altri e può perciò consciamente e intenzionalmente fare dei gesti che faranno uscir
fuori le risposte appropriate, quelle che si desiderano negli altri.
Dalla tendenza dell’individuo a interiorizzare gli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti e ad
agire secondo le loro aspettative sorge l’AltroGeneralizzato (attraverso la comprensione dell'Altro
Generalizzato, l'individuo capisce che tipo di comportamento è previsto, appropriato e così via, in
differenti contesti sociali. L’Altro Generalizzato è il maggiore strumento di controllo sociale, è il
meccanismo attraverso il quale la comunità ottiene il controllo sulla condotta dei membri
individuali).
Il significato del gesto dell’individuo diviene chiaro, dunque, solo nella reazione che provoca
nell’altro, cioè noi assumiamo i significati dei nostri gesti riflettendoli negli altri, nell’atteggiamento
con cui gli individui vi rispondono.
L’”altro”, quindi, non è un interlocutore esterno del Sé, ma una sua parte integrante e costitutiva. In
questa prospettiva va ripensata la nozione di “identità”: più che di identità personale intesa come
realtà psichica autonoma, si dovrebbe parlare di un’identità diffusa e aperta, capace di ospitare
l’alterità e di esserne ospitata.
Tale riflessione operata da Mead può oggi fare i conti (e in tal senso risulta estremamente attuale)
con la crisi del paradigma individuale dell’identità e l’emergere di nuove forme di soggettività
definite come multividuali.
Il concetto di individuo presuppone un nucleo identitario unitario e indivisibile che alimenta una
soggettività rigorosamente separata dall’esterno. Il tal senso il rapporto con l'altro si
caratterizzerebbe per il Sé come atto di presa di distanza e conquista di autonomia. Per esistere in
quanto individuo il Sé ha bisogno di epurarsi da tutto ciò che non è Sé. La concezione multividuale,
invece, si basa sul riconoscimento di una struttura eterogenea, plurale e fluida dell'identità; che è poi
la condizione psicologica che le attuali tecnologie della comunicazione rendono sempre più
evidente.
A differenza del soggetto individuale che ha bisogno di chiudersi nei confronti della diversità
(alterità) per costruire la propria esistenza in autonomia, il soggetto multividuale è una realtà
aperta che vive integrandosi con la diversità e acquisendone di volta in volta i tratti. “Dobbiamo
essere gli altri se vogliamo essere noi stessi” enuncia Mead, secondo cui, infatti, maggiore è la
capacità dei soggetti di immedesimarsi negli altri e assumerne ruoli e atteggiamenti, tanto più
l’autocoscienza, che essi acquisiscono per loro tramite, sarà sviluppata. L’importanza che Mead
riconosce alla comunicazione è preparatoria per questa prospettiva postumanistica.
L’Altro nel Sé
Abbiamo detto che nella prospettiva dell'interazionismo simbolico l'identità non ha nulla a che fare
con una struttura interiore esistente a prescindere, bensì si sviluppa con l’interiorizzazione dei
processi sociali basati sul vicendevole risultato delle sensazioni scaturenti dalle azioni degli altri su
di noi e dalle nostre azioni su quelle degli altri. Non c'è un Io che fa esperienza del mondo, l'Io è
l'esperienza che fa nel mondo.
Secondo questa concezione la coscienza è l’effetto delle mosse comunicative che le immagini dei
comportamenti degli altri riversano all’interno di essa. La coscienza, quindi, non è altro che un
insieme di significati intesi come un insieme di sensazioni (da un lato quelle generate dagli altri su
di me, dall’altro quelle che genero io sugli altri) che non può esistere senza l’interazione sociale.
Allora perché, nonostante questo, più ci si evolve e più emerge la sensazione di essere un Sé
distaccato dall’altro, nel senso di un Sé che esiste anche al di là dell’interazione?
Perché questo (essere un Sé) sia possibile è necessario che i soggetti interiorizzino modelli di
comportamento e schemi di azione desunti dagli altri = affinché esista ego è necessario che ci sia
alter: solo interagendo con l’altro e “lasciandogli una parte di noi” possiamo riconoscere un Sé da
essi distaccato (cioè proprio quello che gli lasciamo).
Questo concetto viene spiegato con la metafora dello “strano anello” di Douglas Hofstadter:
affinché il soggetto percepisca un Sé distaccato dagli altri è necessario che quest’ultimo abbia, oltre
la proprietà di anello a feedback (inteso come costruzione rapida di simboli), la capacità di
interiorizzare nella propria coscienza anche i significati che gli provengono dagli altri anelli che
fanno parte delle coscienze altrui.
In questo modo si fa un salto da una dimensione inferiore a una superiore (strano anello = la
comunicazione diventa più profonda, non si percepisce solo il feedback immediato bensì anche la
coscienza dell’altro, l’insieme di tutti i suoi simboli, le sue volontà, i suoi desideri): il soggetto
percependo nella propria coscienza quella degli altri può ora arricchirsi e vedere l’impronta che ha
lasciato in loro e percepire, di conseguenza, il suo Sé.
A un certo punto della storia, però, le neuroscienze hanno fatto delle scoperte che hanno messo in
discussione questo filone di pensiero. Benjamin Libet è un neuroscienziato che studia la mente
umana per dare una spiegazione neurale ai concetti di coscienza soggettiva, intenzionalità, libero
arbitrio. Le sue ricerche hanno fatto luce su che cosa succede effettivamente nel nostro cervello
quando compiamo un'azione. I suoi esperimenti dimostrano che nel processo che conduce un
soggetto ad agire si registra uno scarto temporale minimo tra la decisione di agire e l'azione stessa;
la cosa più sorprendente, però, è che l'area cerebrale coinvolta nel controllo di un'azione si attiva
millisecondi prima che si manifesti l'intenzione soggettiva dell'agire. In poche parole: sembra che
non sia l'intenzione soggettiva a muovere le azioni ma i processi neuronali, quindi sostanzialmente
sembra che il libero arbitrio non sia il primo motore dell'azione.
Nell'affrontare una questione così contemporanea il pensiero di Mead torna attuale. Per Mead
l'individuo si forma in prima istanza assumendo l'immagine che gli altri gli rimandano di se stesso,
ovvero il "Me". In questa fase Io e Me coincidono, cioè la coscienza coincide con l'immagine del
Sé codificata socialmente. Solo quando riesce a smarcarsi dal "Me", l'Io si costituisce come
singolarità dotata di autonomia.
Quindi è vero che il Me precede l'Io, ma l'Io ha il potere di smarcarsi e interrompere il corso di
azione iniziato. Alle stesse conclusioni, sul piano delle neuroscienze successivo, arriva poi Libet,
capendo che anche se il processo neuronale precede effettivamente l'intenzione cosciente di agire, in
quel brevissimo tempo l'Io ha il potere di interrompere il corso d'azione avviato. È esattamente in
quei millisecondi che si apre lo spazio per la formazione e l'esercizio della volontà soggettiva
(libero arbitrio). Nello strano anello il libero arbitrio rappresenta il salto di dimensione verso il
basso, cioè il ritorno al Sé non condizionato dall’alterità.

Prove di comunicazione incarnata


I più recenti sviluppi delle neuroscienze hanno riportato alla luce- grazie alle scoperte odierne - le
intuizioni di Mead circa il ruolo dell'altro nella costruzione della soggettività.
In particolare a farlo è stata la scoperta di una classe di neuroni denominati "specchio" che
presiedono alle attività della cognizione e dell'interazione sociale attraverso un meccanismo
innato di rispecchiamento motorio dell'altro; li potremmo considerare come il vero e proprio
"muscolo" del linguaggio e della comunicazione. Per effetto dei neuroni specchio sappiamo quello
che fanno gli altri innanzitutto perché lo riproduciamo in noi.
In pratica, quando interpretiamo i comportamenti degli altri ci predisponiamo a rivivere
interiormente i gesti che essi producono, ovvero mobilitiamo gli stessi circuiti cerebrali che
utilizzeremmo se dovessimo essere noi a fare quel gesto.
Quando comprendiamo le azioni degli altri, quindi, lo facciamo preparandoci a livello neurale a
compierle noi stessi. L'attivazione di questi neuroni specchio corrisponde ad una specie di procedura
che serve ad “installare” l'altro nel Sé (Mead).
Bisogna capire bene, però, come la tesi neurologica e quella di Mead portino ad analoghe
conclusioni, perchè in realtà sotto certi punti di vista sembra che non lo siano.
Mead rifiuta l'idea che ci possa essere un Sé antecedente all'interazione sociale. La tesi
neurologica sembra parlare quasi di imitazione, nel senso che i neuroni si predispongono per imitare
l'azione di un altro; il presupposto dell'imitazione implicherebbe che un soggetto, quando imita
qualcuno, esegue un atto selezionandolo all'interno di un repertorio comportale che, non si sa come,
è lo stesso dell'individuo che sta imitando; questo per Mead non è possibile perchè egli rifiuta l'idea
che ci possa essere un Sé antecedente all'interazione sociale.
Si è avanzata, però, l'ipotesi che i neuroni specchio siano precursori dei sistemi neurali
preposti al linguaggio perchè il loro "codificare" sia l'azione che l'osservazione pare creare
una sorta di codice comune, una parità tra soggetto e altri individui.
Se questa ipotesi fosse confermata, la visione delle funzioni cognitive superiori andrebbe rivisitata
(Sé antecedente). Non si tratterebbe, cioè, di un'attività che si esprime nella manipolazione di
simboli astratti a prescindere dalle attività del corpo. Al contrario, cognizione e linguaggio
sarebbero da considerare come attività incorporate in virtù della mediazione dei neuroni
specchio: ciò significa che i processi mentali sono modellati dal corpo e dal tipo di esperienze
percettive e motorie che sono il prodotto dei suoi movimenti nel mondo e nelle sue interazioni
con esso (torniamo in accordo con la tesi di Mead).
La teoria sui neuroni specchio, tra l'altro, sembra aprire nuove prospettive sulla questione del
consumo produttivo dei media, più precisamente sulla natura del coinvolgimento dello spettatore
rispetto ai contenuti mediali di cui fruisce.
L'ipotesi è che, in quanto fruitori dei media, siamo tanto più capaci di identificarci nei contenuti
rappresentati quanto più chiaramente riusciamo a percepire l'intenzionalità soggettiva in essi
incorporata.
Probabilmente il successo di Youtube o dei social network in generale è generato dal fatto che,
attraverso ad esempio i commenti e i tags, ci vengono forniti elementi di ancoraggio personale che
sollecitano i nostri neuroni specchio e la nostra capacità di partecipare ai contenuti.
Il mondo dei social network di oggi, il mondo del web 2.0, sembra rimettere in moto il vissuto
corporeo degli individui e stimolare l'attivazione dei neuroni specchio e della cognizione
incarnata di cui essi sono veicolo.
Il termine “egoreferenziato” è una caratteristica di molte piattaforme che ad oggi utilizziamo, e
significa “tale da esibire le tracce del soggetto che comunica all'interno del contenuto che viene
comunicato”.

[neologismo che deriva dal termine “georeferenziazione” con cui si indicano tecnologie come il
GPS, in grado di riconoscere la posizione di chi le usa e fornirgli contenuti adeguati in relazione al
luogo in cui si trova. Di conseguenza con piattaforme egoreferenziate intendiamo quelle che
diventano sensibili non ai luoghi in cui si spostano i soggetti che le utilizzano, bensì alle loro
esperienze e identità personali.]

Videofonia, Wiki Search, Wikipedia, Itsme, sono tutte piattaforme comunicative in cui gli utenti
non sono solo spettatori di un fatto, lo producono.
Chi trasmette con un videofonino immagini relative a oggetti o eventi di cui è testimone oculare non
si limita a documentare una realtà oggettiva, in un certo senso sta imprimendo il proprio vissuto
soggettivo; il destinatario riceve oltre alle immagini anche le esperienze dell'altro, ne indossa la
sensibilità e l'emozione.
Anche nel caso degli stessi motori di ricerca offerti dalla rete si stanno applicando soluzioni
egoreferenziate e basate sulla partecipazione. Nascono motori di ricerca come Search Wiki, che
fornisce solo contenuti la cui accuratezza sia stata accreditata dalla comunità dei ricercatori; Delver,
che cerca informazioni solo tra quelle mediate dai tuoi contatti; Wikipedia, che è un'enciclopedia
online scritta da redattori volontari.
Attraverso quello che definiamo un sistema informativo egoreferenziato si producono due effetti
di senso:
- le informazioni si radicano all'interno dell'esperienza dei soggetti;
- le informazioni si presentano ai soggetti che le utilizzano arricchite delle esperienze che i
precedenti utenti di volta in volta vi hanno depositato.
Nel mondo digitale non c'è più un oggetto da conoscere da una parte e il soggetto che vuole
conoscerlo dall'altra, c'è un’unica materia dinamica perché nella egoreferenzialità il sapere cammina
sul binario delle passioni soggettive che invece di essere considerate come parziali e limiti al sapere
diventano, invece, delle “bussole” per navigare attraverso la conoscenza.
Capitolo 5 – Walter Benjamin: la cultura di massa come fonte di verità filosofica

 Anni di Benjamin: 1892 - 1940


 Media che nei suoi anni hanno condizionato la società: telefono, cinema, radio,
televisione.

Walter Benjamin affronta temi quali la moda, la pubblicità, i consumi, l’industria culturale e la
funzione dell’arte nel sistema della tecnologia della riproducibilità.
Le sue considerazioni sul sistema della riproducibilità tecnica rappresentano una fonte di
orientamento teorico per gli studi e le analisi sulla comunicazione mediata. Il suo concetto di
“riproducibilità tecnica” è analizzato in correlazione a quello di “remixabilità digitale” di
Lawrence Lessig (2008), per descrivere le trasformazioni del mondo attuale.

I media della riproducibilità


Il contributo di Benjamin allo studio dei fenomeni comunicativi è il saggio L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) in cui afferma che quando cambiano i mezzi
della fruizione di opere d’arte, allora si ridefinisce lo statuto complessivo dell’arte stessa. Benjamin
aveva quasi compreso che “il medium è il messaggio” (MML) nel senso che il canale con cui si
comunica qualcosa influisce nel senso. Per Benjamin in particolare fotografia e cinema, che
consentono una riproduzione infinita, modificano il senso dell’arte, prima avvolto da “un’aura”
sacra. Un’aura che era dovuta alla poca accessibilità delle opere d’arte, ma che, con le tecniche di
riproducibilità perdono i confini spazio-temporali e quindi anche il concetto aristocratico-
umanistico. L’arte non è più inattingibile perché ha la possibilità di essere riprodotta in copie
illimitate: l’arte perde unicità e lontananza e così anche l’aura sacra. I contenuti artistici e culturali
per Benjamin hanno un valore strettamente connesso alla possibilità di accesso a essi: se le opere
non sono più “esclusive” (se si abbattono i costi di transizione) perdono di valore. [Es: l’aggettivo
volgare si usa per fare riferimento a cose di bassa qualità ma in realtà corrisponde a una strategia
discorsiva che associa le cose accessibili al popolo (appunto, vulgus – valore denotativo) e riferibili
a esso con la bassa qualità estetica (valore connotativo)]
Nell’esaminare il destino dell’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica, Benjamin ha un intento
politico: “la politicizzazione dell’arte”. Con questa espressione intende affermare che l’esperienza
della fruizione estetica è un fattore di autocoscienza emancipazione.

La riflessione di Benjamin, pur antecedente ai media, esplica una loro legge che spiega le
conseguenze delle innovazioni tecnologie nel campo della comunicazione: "Superata una certa
soglia di sviluppo dei consumi culturali e comunicativi, la quantità si ribalta in qualità" → con
l’aumento del numero di coloro che hanno accesso alla cultura cambia anche il tipo di rapporto e
l’atteggiamento che essi manifestano nei suoi confronti.”.

Questa legge ha un duplice ambito di applicazione:


 Fruizione estetica di ogni contenuto simbolico: la tecnologia della riproducibilità
(fotografia e cinema) diminuisce la distanza tra produttore e consumatore; non è più il
fruitore a muoversi con referenza verso l’opera ma viceversa  emancipazione sociale. Il
prodotto è attualizzato in un contesto di vita preciso, è di consumo e di intrattenimento, non
di muta contemplazione.
 Significato dell’oggetto artistico e culturale: la quantità si ribalta in qualità; si passa dal
“valore culturale” a quello “espositivo” ma anche politico e comunicativo. Quando un’opera
di ingegno viene resa accessibile alle masse, cambia la natura qualitativa dell’esperienza
stessa.

Per Benjamin la fotografia (ma potremmo dire ogni innovazione tecnologica e comunicativa) dà
l’impressione di generare contenuti qualitativamente peggiori, se valutati in corrispondenza dei
valori espressivi e delle pratiche comunicative già in uso.
È vero anche oggi, es: citizen journalism contrapposto ai giornalisti professionisti. In generale,
usando la legge di Benjamin, non ci si deve interrogare se i contenuti siano effettivamente
peggiorati, bensì se la quantità si è trasformata in qualità e se cioè la diffusione dell’innovazione
non abbia ribaltato i criteri che regolano la produzione e l’accreditamento (delle informazioni).

Oggi, con la digitalizzazione, non si fa più riferimento alla riproducibilità ma alla remixabilità,
ovvero del riuso creativo, personalizzato (Lessig). Se la riproducibilità decretava la fine dell’unicità
del prodotto, la remixabilità segna la fine dell’intangibilità dell’opera: l’opera si può trasformare e
riscrivere e, a ogni remix, assume un tasso di unicità creativa. Inoltre la riproducibilità consentiva la
nascita di una “cultura comune”, il remix di una cultura comune diversa perché i prodotti non sono
rivolti al pubblico ma prodotti da esso (UGC). Il mutamento significativo della pratica del remix è
quello dell’esperienza e della qualità del consumo: un consumatore che si cimenta nella produzione,
saprà sicuramente approcciarsi con maggiore consapevolezza ai prodotti culturali di cui fruisce. Il
consumatore capisce le logiche della produzione e ciò costituisce i presupposti di una cultura
democratica, partecipativa e condivisa.

I media della digitalizzazione

L’abbattimento dei costi di transizione per organizzare attività e per diffondere contenuti simbolici
per Clay Shirky costituisce il punto trainante della rivoluzione nel mondo della comunicazione. Le
barriere che limitavano l’azione di gruppo scompaiono e la cultura si democratizza.

Molte sono le critiche mosse a questa “rivoluzione”.


Andrew Keen, un imprenditore e autore inglese-americano, disse addirittura “la rivoluzione del
web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia”.
Anche sul tema delle relazioni le autorità morali lanciano sentenze negative, dicendo che è in
pericolo l’intero ordine umano: ai loro occhi la facilità con cui nei social network si possono
contrarre nuove relazioni mette a repentaglio la saldezza e l’affidabilità dei legami sociali.
Inoltre, Alberoni pronunciò queste parole: “Va ricostruito il sistema educativo a partire
dall’infanzia alla scuola che deve riacquistare prestigio e autorità”.
Ebbene, verbi come “ricostruire” o “riacquistare” inducono a pensare che la soluzione ai problemi
di oggi si possa trovare solo ri-tornando indietro.
Eppure, è proprio questo genere di mentalità che produce il male di cui vorrebbe essere la soluzione.
Saperi e istituzioni tradizionali non sono più adatti a governare il nostro tempo. Tornare indietro
servirebbe solo a coprire la povertà degli schemi interpretativi del passato che non riescono a stare
al passo con la complessità del presente.
Che si parli di cultura, di amicizia o di formazione, il rischio che viene denunciato è quello della
banalizzazione (banale, ciò che è stato messo al bando, abbandonato in balia di tutti).
 Banalizzazione della cultura → perché viene meno ogni distinzione di ruolo tra esperti e
“profani”.
 Banalizzazione dell’amicizia → perché è troppo facile fare nuove conoscenze sui social
network.
 Banalizzazione della formazione → perché vanno sempre più in difetto l’autorevolezza, il
rigore e la disciplina.
Garrett Hardin parlava di tragedia dei commons: i beni lasciati a disposizione di tutti vengono
sfruttati e per questo afferma che i beni pubblici si debbano privatizzare. Tuttavia, la conoscenza è
una risorsa tale per cui se qualcuno la possiede non per questo la deteriora o toglie la possibilità ad
altri di beneficiarne: è un bene non rivale. Se la conoscenza viene incorporata in supporti materiali
(libri, dischi ecc.) allora diventa un bene rivale, poiché risponde a logiche di proprietà privata e di
mercato. La digitalizzazione ha reso la conoscenza un bene non rivale e non esclusivo e non dà
luogo a una tragedia dei commons bensì a una commedia dei commons, perché acquista maggiore
valore quanti più individui ne usufruiscono: restringere la produzione di informazione tramite
irrigidimento del copyright, abbassa il consumo dell’informazione di oggi e di domani per prezzi
troppo alti.
Inoltre, secondo James Boyle, se ci sono abbastanza cervelli, ogni contenuto può essere migliorato
perché si capiscono gli errori. In questo caso viene applicata la legge di Benjamin: la quantità
diventa qualità.
La banalizzazione non è dovuta alla caduta dei confini tra colti e incolti, bensì dal fatto che la
comunità si priva delle risorse informazionali di cui potrebbe godere collettivamente a favore di
industrie culturali: i beni si abbandonano nelle mani di portatori di interessi e smette di essere
comune, condiviso. Tuttavia si ha a che fare con un pubblico nel senso di comune, condiviso e
partecipato che, grazie all’open source, diventa dilettante: colui che prende diletto e piacere
dall’attività a cui si dedica. Il dilettantismo online favorisce la riappropriazione degli individui nella
sfera di azione e conoscenza comune.

Capitolo 6 – Alfred Schutz, ovvero le mani su Internet

 Anni di Schutz: 1899 – 1959


 Media che nei suoi anni hanno cambiato la società: telefono, cinema, radio, televisione

Alfred Schutz è utilizzato nel libro per spiegare il fenomeno della vita online in rapporto con le
“realtà multiple” del vivere quotidiano. Oggi non si può parlare più di realtà virtuale, in cui le
incursioni con gli ambienti online venivano visti come una discontinuità e come evasione, ma si
parla di virtualità reale, nella quale Internet si presenta come estensione della vita così com’è.
L’offline e l’online non sono più due dinamiche opposte bensì si integrano tra di loro. In questa
condizione globale di iperconnettività cambia anche il ruolo e la funzione sociale
dell’immaginazione, ovvero da luogo altro della realtà.

La mano come forma dell’umano

Riflettere sulla vita online significa capire il modo in cui si dà voce e visibilità alle differenze e alla
gestione del confine tra il sé e l’altro. Si tratta di allestire una Mediapolis, uno spazio civico globale
in cui l’alterità sia accolta.
Secondo l’autore è la mano che differenzia gli uomini dagli animali, che differenzia quindi l’agire
libero e riflessivo dal semplice comportamento inconsapevole. L’affermazione della vita online ci
pone di fronte a una decadenza della “mano” [In seguito a un mutamento climatico, gli ultimi
australopitechi si sono spostati nella savana che non ha una trama fitta di alberi e la deambulazione funziona
anche da bipede. Da questo momento comincia la fase della stazione eretta. Gli uomini possono usare le
mani per manipolare il mondo e la bocca, liberata da compiti di prensione (non deve afferrare più niente),
può far specializzare la bocca come organo di fonazione. Poiché non ha più funzioni di afferramento e
trasporto di oggetti anche l’equilibrio all’interno della testa si modifica e si crea lo spazio per lo sviluppo del
cervello: si arriva al modo di comunicazione dell’oralità]. Infatti, Shultz è uno dei sociologi che
tematizza la centralità della mano come dispositivo cardine per la strutturazione dell’esperienza e
della conoscenza umana nell’ambito della vita quotidiana.

Nel suo saggio Simbolo, Realtà e Società, Schutz chiarisce che il posto che un soggetto occupa nel
mondo è il centro intorno a cui organizza la propria esperienza dello spazio, ovvero Qui, dov’è
situato il soggetto tutto ciò che è in esso si trova, tutti gli oggetti che sono a portata di mano,
cioè che possono essere uditi, visti e manipolati (soprattutto, poiché ciò che è manipolabile
comprende quella parte del mondo in cui l’uomo può realmente agire).

Schutz si rende conto che nel XX questo postulato non vale più poiché, grazie alle nuove tecnologie
belliche e telematiche (es: missili a lungo gittata), si amplia la sfera manipolatoria, che non
comprende solo ciò che è a portata di mano. Tuttavia, però, egli riconosce la problematicità del
concetto di “a portata di mano” in questi cambiamenti sociali, ma non rinuncia all’idea che sia la
manipolazione a definire la provincia di significato della vita quotidiana; quindi cerca di estendere,
nel suo ragionamento, la “portata” al di là dei contesti di presenza, quindi al di là del QUI del
soggetto.
L’ampliarsi della sfera manipolatoria a distanza in virtù delle nuove tecnologie telematiche significa
per Schutz trasposizione della mano in contesti tradizionalmente ad essa inaccessibili. In questo
processo che egli individua al cuore del nostro sistema sociale, la mano resta la stessa e così anche
il nostro modo di comunicare e conoscere, di cui la mano è, secondo Schutz, medium privilegiato
nel mondo della vita quotidiana alla nostra portata.

Resta quindi da capire come sia possibile la comunicazione tra soggetti che si trovano in diverse
province di significato (comunicazione per simboli). Per farlo, spieghiamo i concetti di segno e
simbolo:
 segno = dispositivo comunicativo tra soggetti che condividono la vita quotidiana (mano).
 simbolo = dispositivo comunicativo tra soggetti che si trovano in diverse province di
significato.
Secondo Schutz: un soggetto situato nella sfera di manipolazione del proprio qui può comunicare
con un altro, a condizione di trasferirsi nel suo qui e di assumerne quindi la prospettiva di
manipolazione.
In altri termini: ciò che non è a portata del soggetto può diventarlo (e quindi essere comunicato) a
patto che il soggetto abbandoni il suo attuale qui e si sposti in quello spazio. È una condizione
questa di “idealizzazione dell’interscambiabilità dei punti di vista”.
Per cui, per Schutz, controllare una realtà continua ad essere prerogativa delle mani. Ci sono però
delle realtà che trascendono il mondo della vita quotidiana, come quelle dell’esperienza del sogno o
l’esperienza religiosa, e in quei casi non è sufficiente scambiarsi dei segni, non è sufficiente la
mano, bisogna far ricorso a dei simboli. I simboli comunque funzionano un po’ come i segni, nel
senso che anche loro sono originati dall’essere qui di un soggetto. I simboli, per così dire, portano
lontano le mani a differenza del segno, che associa una coppia di fenomeni contenuti entrambi
nella realtà della vita quotidiana, il simbolo associa un fenomeno della vita quotidiana ad un’idea
che trascende la nostra esperienza.

Schutz anticipa gli effetti che le trasformazioni tecnologiche hanno sull’agire umano, un processo di
im-manitas, in cui l’azione umana si estende oltre i contesti di presenza. Schutz riconosce che il
mondo a portata di soggetto non si riduce a ciò che è in grado di toccare o manipolare materialmente
ma si estende oltre, anche all’intero mondo sociale che è raggiungibile in quanto oggetto di
manipolazione altrui. Per questo la mano è un fattore trascendentale dell’esperienza umana.
Il diabolico digitale (dicotomia mano/media)

La vita globale e quella online ci sollecitano a confrontarci con un processo di im-manitas, cioè un
addensarsi di eventi, flussi culturali e forme di vita mediate talmente vasto da sfuggirci di mano.
Siamo difronte ad un nuovo adattamento della specie e ad un nuovo mutamento culturale.
La mano non è propriamente l’organo fisico; intendiamo, in senso figurato, quel fattore di

certificazione dell’esperienza e di validazione del senso.


Ci sono esempi che permettono di capire cosa sta succedendo in questa epoca digitale:
Il disagio
C’è che sperimentiamo
una ragazza che viene trovatadifronte alla nel
morta globalizzazione e alla Era
suo appartamento. digitalizzazione
una ragazzache ci stanno
di buona
investendofidanzata
famiglia, deriva proprio
in casa,dalcon
sentire che il mondo
un’ottima ci stia sfuggendo
reputazione. Viene fuoridi chemano,la che non possiamo
ragazza navigava più
controllare ogni
abitualmente cosa ed averne
in Internet esperienza
e frequentava diretta
delle chatattraverso
per cuoril’essere
solitari QUI.
(tipico caso di bovarismo:
credersi diversi da ciò che si è). Immediatamente si è dato per certo che l’assassino provenisse da
Le mani
una sonochat
di queste state
e innella storiadal
generale i primi
mondooperatori
“oscuro”simbolici,
di Internet.hanno
Contro inaugurato l’orizzonte
ogni aspettativa però del
simbolico, cioè
l’assassino di tutto
confessa: eraciò che è suscettibile
il fidanzato di essere
della ragazza; tenuto
quello insieme,
stesso ragazzonellache
duplice
i suoiaccezione
genitori di
avevano accolto in casa come uno di famiglia; quello stesso ragazzo che era alla loro portata dinon
essere compreso e condiviso. Tuttavia il sistema simbolico produce degli scarti, residui
comprensibili
mano. e non
Non è stata comunicabili
dunque che rappresentano
questa “seconda una lacerazione
vita bovaristica” ma anche
ad ucciderla; il maleunanonseduzione
veniva da(se-
duzione però, secondo il pregiudizio che da sempre incombe sulle nuove tecnologie, era stato
lontano
= allontanare).
dato per scontatoÈ che
qui fosse
che subentra
così, cheilvenisse
diabolico: l’irruzione di ciò artificiale
dall’extraterritorialità che sfuggedialla presa delle nostre
Internet.
mani.
Questa vicenda mostra quanto venisse considerato illecito e pericoloso intrattenere delle
McLuhan
relazioni disseconcepite
sociali che i mediaal di sono concepibile
là di quelle come
a portata metafora delle mani, capaci di estendere e
di mano.
trasferire la portata dell’uomo oltre la loro presa. Esattamente come le mani, anche i media afferrano
e lasciano la realtà, e facendolo hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove.
La concezione che abbiamo dei media come traduttori di universi simbolici mostra però dei limiti,
così come l’idea tradizionale che abbiamo dei media come estensioni delle mani.
Si può tradurre solo ciò che appartiene ad un universo comune di riferimento; ma così facendo ci
precludiamo di cogliere ed esprimere dimensioni che sembrano eccedere l’ordine simbolico, ci
precludiamo l’esperienza del diabolico.
Se non elaboriamo un pensiero dei media sottratto a questo legame con le mani, rimanendo in tema
ci condanniamo ad una “comunicazione monca”.

Utilizzando una tesi di Maffesoli, l’autore afferma che la parte diabolica va riconosciuta nella
pluralità della vita e che la mano non deve essere l’unico fattore determinante dell’umano. Se non si
elabora un pensiero che distacca i media dalla mano, la comunicazione resta incompleta. Per questo
il mondo globalizzato e digitalizzato produce l’effetto di una sorta di sindrome del mondo che ci
sfugge di mano. La mano diventa un organo obsoleto di comprensione e di legiferazione simbolica
del mondo: non ha più senso considerare la mano un’unità di misura trascendentale del mondo, non
è più in grado di produrre una mediazione simbolica in un mondo che effettivamente di frammenta
in mondi di senso eterogenei. Serve uno scatto nell’immaginazione: il mondo globalizzato,
metaforicamente opera del diavolo (principio del disordine), non deve essere demonizzato ma
bisogna indulgervi, per transitare oltre l’umano. La vita online non deve essere concepita come un
rischio da scongiurare ma come un’opportunità che si espande nella vita offline. Soprattutto bisogna
considerare le due vite come due modalità di un’unica realtà. La crisi della mano è evidente anche
nel processo di costruzione dell’identità che non è più unica ma è dislocata, attraverso le protesi
elettroniche, in più luoghi. Il mondo attuale ci permette di superare ciò che è a portata di mano e di
andare oltre la soglia dell’umano e del corporeo. La mano non è più uno strumento per controllare il
mondo, per conoscerlo e per comunicarlo: il destino dell’umanità non è più nelle nostre mani.

Capitolo 7 – Michel Foucault e i media della vita

 Anni di Foucault: 1926 – 1984


 Media che nei suoi anni hanno cambiato la società: telefono, cinema, radio,
televisione.

Michel Foucault non ha affrontato direttamente questioni relative ai mezzi di comunicazione.


Tuttavia l’ultimo Foucault riflette sul tema della governamentalità biopolitica che può essere visto
in chiave mediologica: la comunicazione mediata (specialmente quella di massa) ha rappresentato la
continuazione della biopolitica con altri media.

La politica della vita

Con la nozione di “biopolitica” Foucault ha descritto la svolta epocale che a partire dal XVIII
secolo ha investito i regimi politici occidentali e che è coincisa con un fenomeno di progressiva
assunzione della vita da parte del potere (il potere che controlla la vita). L’archetipo della razionalità
biopolitica risale secondo Foucault al potere pastorale cristiano, in cui il pastore controlla il gregge
nel suo complesso ma anche la vita di ogni singola pecora. È un modello di potere legato all’idea di
governo, in cui il potere si applica direttamente alle persone. Un potere che ha il compito di “far
vivere” le persone, nel senso di amministrarne la vita sociale fin nei suoi aspetti più privati e
personali. La governamentalità per Foucault è quindi un potere che si applica su tutti e su ciascuno e
che prende le sorti di ciascuno. Una forma di biopotere che opera sia sui corpi singoli (attraverso un
meccanismo disciplinare), sia sulla popolazione (attraverso un meccanismo regolatorio). Ciò che
cambia è solo l’oggetto a cui è riferito il potere ma non il potere stesso che si rivolge e si applica al
potenziamento della vita in tutte le sue manifestazioni.
Il modello biopolitico di governamentalità si è riproposto nel concetto di “Ragion di Stato” che si
avvaleva della “polizia”, ovvero un’istituzione che serviva a regolare la vita della popolazione per
assicurare lo splendore dello Stato (“insieme degli interventi che assicurano il coesistere, il
comunicare che saranno utili a incrementare la forza dello Stato”). Questo modello ha dato vita a un
nuovo sistema economico non più limitato a garantire la sopravvivenza degli uomini, bensì a
intensificarne la vita: è la felicità degli individui che determina la forza e lo splendore dello Stato.
Questo forma di razionalità politica ha rotto il confine che separava ambito pubblico e privato:
l’insieme delle questioni legate alla vita, un tempo private, diventano priorità pubbliche, dando vita
a concetti come quello dell’economia politica (si uniscono due termini che si riferiscono in realtà a
due sfere contrapposte, la privata e la pubblica).
Il liberalismo del XVIII secolo si propone come argine alla Ragion di Stato ma in realtà nel
governo liberale la libertà non è un dato costituito ma qualcosa che si fabbrica in ogni istante. È qui
che nasce la sfera della società, intesa come quello spazio che si prende carico pubblicamente della
vita, che si occupa della vita in quanto tale. L’emergere della vita come posta in gioco della politica
ha fatto sì che nel corso del tempo sempre più soggetti si affacciassero alla sfera pubblica
rivendicando il proprio riconoscimento sociale su base del proprio capitale biologico (proletariato,
donne, omosessuali).
Nel mondo moderno nasce in contrasto alla sfera della società una della privacy e dell’intimità
individuale, in cui trovano espressione le emozioni, i gusti, le credenze ecc. Ma anche questi
elementi con i media diventano di demanio pubblico. La TV è un esempio lampante. Non a caso è il
reality il genere più di successo che promuove processi di privatizzazione della sfera pubblica e di
pubblicazione di quella privata. John Thompson fornisce alla TV la funzione di “dissequestro
dell’esperienza”, dove l’esperienza resa accessibile in TV è la vita quotidiana. Oggi la TV
garantisce una diffusa e capillare presa della vita: non più la preoccupazione della morte ma la
centralità della vita, un po’ come nella modernità quando l’asse della ragione politica si è spostata
dal potere sovrano di “far morire” a quello governativo di “far vivere”.

Il “governo” della TV: l’intrattenimento omnes et singulatim

In questo capitolo i media di massa vengono considerati come la “tecnologia politica degli
individui” nel XX secolo, retaggio di tutto quello citato ↑. Il termine “governo” nell’analisi
foucaultiana assume diversi significati tra cui quello di “parlare con qualcuno, intrattenerlo” nel
senso di “intrattenere una conversazione con lui”. In quest’ultima accezione il termine governo si
avvicina a quello di intrattenimento, che è la mission del comunicare radiotelevisivo. Da qui si può
adottare il criterio di lettura biopolitica per i media. Quando si comunica la vita, non si ha tanto
l’occultamento della sfera pubblica attraverso la copertura di eventi privati ma si ha un effetto di
legittimazione pubblica di questi eventi e di soggettività, che vengono riscattati dalla loro
condizione di marginalità: i media non esibiscono la vita privata nella sfera pubblica se non per
ridefinire ciò che è da considerarsi pubblico.
Il regime di governamentalità assicurato dalla televisione è comprensibile se si considera il periodo
storico in cui essa è nata e poi affermata: il XX secolo (due guerre mondiali, I con mobilitazione di
massa, II con annientamento di massa, a cui si aggiunge nel mezzo la crisi economica che ha
cambiato la strategia da production oriented a consumer oriented). In entrambe le emergenze
catastrofiche un ruolo importante nella loro risoluzione è stato giocato dalle pratiche della
comunicazione, specialmente dal loro punto di vista terapeutico, ovvero di unione tra la dimensione
pubblica e privata. John Durham Peters ha osservato che alla comunicazione veniva fatto carico di
riuscire a far convivere interessi, ragioni e mondi vitali differenti eliminando ogni distanza tra le
alterità, piuttosto che lasciando a ognuna lo spazio per esprimersi. In altre parole se la
comunicazione ha come obiettivo quello di attuare una fusione con l’altro si dà luogo a forme di
politica sulla vita che riduce la gamma delle sue possibilità. Se la comunicazione invece significa
riconoscere l’alterità allora la posta in gioco diventa la possibilità di esprimere forme di politiche
della vita.
La TV è stata l’espressione della società di massa, rivolta come il pastorato, a tutti e a ciascuno
(omnes et singulatim – individualizzazione e totalizzazione). Come la “polizia” di un tempo, i media
broadcast (radio e tv) si sono specializzati nella funzione biopolitica: la televisione si preoccupa
degli individui soltanto nella misura in cui essi in qualche misura “accrescono la forza dello Stato”.
La TV offre un “sovrappiù di vita” per garantire un “sovrappiù di forza”: il contenuto dei
programmi televisivi, nella maggior parte dei casi, non è lo spettacolo ma è la vita, per fare in modo
che si alimenti l’organizzazione riflessiva del sé; il vero prodotto non sono i programmi trasmessi
ma le quote di pubblico che si vendono agli inserzionisti pubblicitari  la pubblicità
radiotelevisiva come motore pulsante del sistema economico.

Resistenze e controcondotte mediali


L’attenzione pubblica e la politica oggi si formano sul terreno della vita e i media ne costituiscono
la piattaforma. Secondo Foucault il potere governamentale si dispiega fino a quando non nascono
controcondotte capaci di generare dinamiche di resistenza e modelli di pensiero antagonisti e
autonomi [Es: la “creazione” nel XIX secolo del tempo libero, dispositivo biopolitico nato per
rigenerare la forza lavoro diventato in tempo che gli individui rivendicano per sé].
Anche gli stessi media broadcast hanno dato luogo nel tempo a forme di controcondotta e di
resistenza rispetto alle logiche di governo biopolitico che li informavano, spingendo processi di
riappropriazione soggettiva dei saperi che riguardavano le persone in quanto oggetti/soggetti della
governamentalizzazione mediale della vita. Facendo ciò, hanno finito per alterare l’equilibrio tra
politica e vita privata facendo sì che emergesse una diversa concezione della biopolitica. Una
concezione per la quale, citando il filosofo Roberto Esposito, “pensare la politica nella forma stessa
della vita” diventa prioritario rispetto al “pensare la vita in funzione della politica”.
Agli albori della modernità le tecniche disciplinari classiche si limitavano ad organizzare le
prestazioni dei corpi a fini socialmente produttivi all’interno di istituzioni come prigioni, ospedali,
scuole, fabbriche. I linguaggi biopolitici della TV si sono spinti ben oltre poiché entrano
direttamente nella sfera più intima degli individui.
Così, mentre i dispositivi disciplinari regolavano il comportamento in pubblico dei cittadini e dei
lavoratori, quelli biopolitici investono il foro interiore della persona. La tv è un dispositivo
biopolitico con cui il potere governamentale riesce ad assumere una presa diretta sulla vita ma allo
stesso tempo uno dei primi strumenti attraverso cui la vita ha cominciato a reclamare i suoi diritti.
Va riconosciuto alla televisione il merito di aver dato luogo ad una democratizzazione dell’agire
comunicativo, se non altro perché si è avvicinata al linguaggio delle persone, seguendone e
anticipandone i bisogni e abitando il loro vissuto quotidiano.
A differenza dei linguaggi socialmente accreditati della politica, dell’educazione e della cultura, i
linguaggi dei media riescono ad aprirsi con grande naturalezza al mondo della vita. Sostenere che la
vita è stata distrutta dalla TV, come è stato fatto nella stagione delle riflessioni apocalittiche sui
media, è sicuramente più comodo rispetto al gravoso impegno del comprendere quanto davvero essa
abbia saputo toccare gli apici, i vertici e le profondità della vita.
Come direbbe Foucault parlando dell’arte di governo liberale, si può dire che la TV introduca un
sovrappiù di libertà individuale mediante un sovrappiù di controllo e di intervento.
Il dispositivo fondamentale su cui fa leva l’arte televisiva di governo per attivare una forma di
comunicazione omnis et singulatim è la programmazione per target.
Le strategie di targetizzazione del pubblico manifestano risvolti biopolitici nella misura in cui si
prestano, prima ancora che a offrire agli individui ciò che si presume essi desiderino, a prefigurare
ciò che essi sono.
Non si può, pertanto, ritenere che la televisione sia una forma di potere governamentale soltanto
perché mette la vita al centro dell’arena pubblica Essa diventa un dispositivo di controllo nella
misura in cui riesce a condizionare la forma soggettiva attraverso cui la vita stessa viene
rappresentata e regolata. Attraverso la logica televisiva della targetizzazione si è delineata
l’individualizzazione della soggettività. In altri termini, la comunicazione televisiva tratta il proprio
pubblico come un insieme di individui in sé compiuti e risolti.

Le cose cambiano però con l’avvento della società della rete.


Nelle piattaforme digitali che abilitano alla produzione di contenuti user generated e in cui le figure
di autore e lettore sono interscambiabili, “la categoria di consumatore rappresenta un
comportamento temporaneo più che un’identità fissa” (Shirky, 2008). Ciò che sembra in gioco nel
mondo della rete di oggi è una forma di autogoverno e di autocostruzione dell’identità che Foucault
avrebbe definito “estetica del sè”.

Deleuze e Simondon potrebbero esserci utili a capire questo concetto:


 Deleuze → comprendere la soggettività non è questione di capire “che cosa si è”, piuttosto
“che cosa si possa”. Ciò che diviene rilevante è la possibilità che viene riconosciuta al
soggetto di diventare altro e molteplice prima ancora di risolversi in un’identità definita e
affermarsi in quanto sé stesso.

 Simondon → ciò che definisce i soggetti in quanto tali è l’individuazione, non


l’individualizzazione. (individuazione = è un processo che porta ad un prodotto
momentaneo e parziale di un’ontogenesi continua. individualizzazione = è un processo che
per svilupparsi deve avere per base un essere vivente già individuato.)
L’obiettivo di Simondon è conoscere l’individuo attraverso l’individuazione e non viceversa.
Queste due diverse forme di soggettività, l’individuo dato (ciò che è) e l’individuazione in corso
(ciò che può essere), producono due diverse configurazioni collettive, la massa e la moltitudine,
nonché due diversi modi di rappresentare e costruire il mondo, rispettivamente i media tradizione e i
media “grassroots” (produzione di contenuti dal basso).

Il ricorso al pensiero di Foucault sulla biopolitica ci permette di tematizzare un nesso tra l’antico
modello del potere pastorale e la forma comunicativa televisiva: entrambi costituiscono dispositivi
di governo (nei vai sensi, da dirigere a intrattenere) che producono soggettivazioni nella forma
dell’individualizzazione, ma in entrambi casi si può evidenziare come ad un certo punto si siano
innescate delle controcondotte che hanno generato crisi di governamentalità e forme di
soggettivazione antagonistiche.

Capitolo 8 – Michel de Certeau e la comunicazione del quotidiano

 Anni di de Certeau: nasce nel 1925 – muore nel 1986


 Media che nei suoi anni hanno cambiato la società: telefono, cinema, radio,
televisione.
[Internet era ancora Arpanet ed era utilizzato soltanto da militari e pochi altri]

8.1 Introduzione
La notorietà di Michel de Certeau nel campo dei media studies è legata soprattutto ad una sua
ricerca chiamata “L’invenzione del quotidiano”. Secondo lo studioso, il quotidiano è tutt’altro
che routine e riproduzione della vita materiale, ma piuttosto il luogo in cui si generano i
significati e le forme simboliche.
A partire da questo momento gli studiosi dei media hanno cominciato ad allargare la loro
prospettiva interpretativa spostando l’analisi dai testi mediali utilizzati dai telespettatori ai modi
in cui essi li utilizzano e al senso che gli danno. Il presupposto di base è la convinzione che i
processi di decodifica attivati dai fruitori giochino un ruolo attivo nella costruzione dei significati
dei contenuti mediali: il consumo dei media non è mai un’azione passiva e irriflessa, è un’attività
interpretativa.

8.2 Ri-flettere/ri-flettersi nel quotidiano


De Certeau muove una critica contro le categorie concettuali e le stesse funzioni delle istituzioni
che si sentono legittimate a dire la loro sulla società: secondo il sociologo, il sapere scientifico
tende da sempre ad organizzare la leggibilità del mondo in modo funzionale al potere politico, ma
è stato lo scienziato sociale ad avere, nel tempo, soffocato la parola sociale sovrapponendovi un
linguaggio artificiale di cui usufruisce. Linguaggi che sono in grado di registrare i contenuti dei
consumi culturali e comunicativi ma che non sono adatti a dare conto degli usi che gli individui ne
fanno..
Per de Certeau, invece, “il consumatore non dovrebbe essere identificato in base ai prodotti,
giornalistici o commerciali, che assimila: fra il primo (consumatore) e i secondi (prodotti) vi è lo
scarto più o meno grande dell’uso che egli ne fa. Bisogna quindi analizzare l’uso che si fa di
questi prodotti. Per questo il metodo con cui de Certeau riflette il quotidiano è quello di flettersi,
piegarsi e “sporcarsi le mani” in esso. Questo studioso ha sempre portato avanti polemiche e
teorie controtendenza contro gli intellettuali del suo tempo, portando avanti il suo progetto in
modo originale ed anticonformista. Ha ricevuto sicuramente riconoscimenti e un grande successo,
ma anche numerose critiche.
8.3 Per una comunicazione ventriloqua
De Certau ci ha regalato una bellissima immagine del consumatore, descritto come “un
viaggiatore nomade che percorre creativamente i territori altrui senza mai esserne però il
proprietario”. Cioè il consumatore viene considerato allo stesso modo di un affittuario che
prende temporaneamente in prestito un bene e vi imprime la propria soggettività.
Secondo Jeremy Rifkin (1945), uno dei più noti studiosi della networked economy, la rete
telematica sta promuovendo una rivoluzione nei comportamenti di consumo, sancendo il
passaggio dal primato della proprietà all’era dell’accesso, ovvero a forme di consumo di servizi
immateriali che esistono soltanto nel tempo cui vengono erogati e fruiti.
Sicuramente lo scenario è completamente diverso rispetto a quello studiato da de Certeau. I suoi
anni erano caratterizzati da forme di socializzazione e comunicazione di massa, mentre oggi
l’esplosione di internet asseconda il diffuso bisogno di disintermediazione e personalizzazione
comunicativa.
Possiamo però valutare la portata anticipatrice della sua riflessione. Secondo de Certeau gli
individui si adattano creativamente, attraverso delle tattiche, alle strategie del potere sociale.
 La strategia fonda il suo potere sulla capacità di circoscrivere uno spazio proprio al
fine di controllare e rendere leggibile l’universo dell’altro.
 la tattica è “l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio”, ovvero
una forma di agire che “ha come luogo solo quello dell’altro”.
Le tattiche (oggetto dell’interesse di de Certeau) sono, dunque, procedure che valgono grazie alla
pertinenza che conferiscono al tempo, alle circostanze che l’istante preciso di un intervento
trasforma in situazione favorevolesono modi di fare capaci di generare effetti incisivi e
tutt’altro che trascurabili.
Possiamo notare un’analogia tra la forma che sta assumendo il sistema sociale ed economico
nell’epoca della networked economy e la logica che ispira le tattiche della vita quotidiana
studiate da de Certeau.
Di fatto, le pratiche di consumo in regime di “era dell’accesso” si potrebbero descrivere molto
similmente a come de Certeau descrisse le tattiche quotidiane degli individui: entrambe
sembrano caratterizzate da un’abile utilizzazione del tempo, ovvero dell’uso personale e
discrezionale delle occasioni che esso presenta. L’analogia poi diventa ancora più evidente se si
considera il capitalista della new economy e si nota il suo interesse nel costruire relazioni con i
clienti per poter assecondare i modi, sempre mutevoli, creativi e tattici di usare le sue merci.
Affinché questo sia possibile i prodotti devono perdere il loro “spazio proprio”, ovvero la
qualità di oggetti dalla forma fissa e dalle funzioni determinate, per diventare piattaforme altre,
suscettibili di aggiornamenti e caratterizzate dal valore aggiunto che i modi d’uso degli
utilizzatori gli danno.
Così il prodotto tende a smaterializzarsi come oggetto per poi rimaterializzarsi di volta in volta
con gli usi che se ne fanno e con le esperienze vissute che vi si accumulano e incorporano, fino al
punto in cui nel consumo ciò che conta non è più cosa viene utilizzato ma come viene
utilizzato non conta più il risultato ma il processo.
Come dimostra un’analisi successiva di Serge Proulx, però, attraverso la networked economy, la
strategia del potere si è affinata e consolidata imparando a perpetuarsi anche nelle pratiche più
minute, soggettive e imprevedibili della vita quotidiana. Egli analizza ad esempio le abitudini di
zapping dei telespettatori, da qui è possibile desumere che il potere di resistenza delle pratiche di
consumo mediale è limitato perché esse si effettuano comunque nel contesto di uno spazio
comunicativo imposto dai responsabili dell’offerta di programmazione. Quindi, nonostante si
riconosca a de Certeau l’intuizione di una possibile resistenza del consumatore alle logiche
preimpostate del sistema sociale, si ritiene comunque che forse essa sia troppo enfatizzata.
Stando a queste considerazioni, sembra che le nuove tecnologie della comunicazione, in
ragione della loro flessibilità e pervasività, siano destinate a determinare di fatto una
situazione di dominio socioculturale sulla vita degli individui ancora più salda e sofisticata
rispetto ai media tradizionali.
Le strategie del potere sociale ed economico avrebbero appreso ad adoperare, per così dire, la
tattica delle tattiche quotidiane dei consumatori, per poterli assoggettare ancora di più alle loro
logiche e ai propri interessi. Tuttavia, questi processi di contaminazione tra tattiche quotidiane e
strategie del potere sta facendo sì che comunque la vita quotidiana tenda ad insediarsi nel cuore
stesso dell’agire strumentale finendo per condizionarne gli obiettivi, i processi e le prerogative.
Nella società dei servizi telematici le tattiche del quotidiano non sono più un qualcosa di
privato ma cominciano ad abitare con pieno diritto di azione e discorso la scena pubblica,
tradizionalmente organizzata nella forma lineare e asettica della leggibilità. In certo senso è come
se nell’era dell’accesso i corpi, che da tempo erano colonizzati dai segni, abbiano a loro volta
cominciato a colonizzare il sistema dei segni, li hanno espropriati senza appropriarsene. In questa
operazione sembra sia entrata in gioco una comunicazione che si potrebbe definire
ventriloqua perché attinge la sua materia espressiva direttamente dalle sostanze più profonde del
corpo.
Attraverso la comunicazione ventriloqua i linguaggi parlati nei new media tendono a
produrre una situazione ibrida in cui non solo il potere non dispone più di un proprio
spazio protetto, ma le tattiche quotidiane hanno imparato a deprivatizzarsi ed esibirsi alla
luce del sole.
Socializzazione del potere da un lato ed empowerment della società dall’altro; queste sono le
poste in gioco dell’attuale “emergenza comunicativa”.
Quindi abbiamo capito che non vanno sottovalutate né la consistenza tattica delle strategie
di potere né la qualità strategica delle tattiche della vita quotidiana.
Roger Silverstone (uno dei pionieri dello studio dei media nel panorama inglese e mondiale) trattò
di questo argomento muovendo una riflessione critica all’approccio eccessivamente dicotomico
che de Certeau usò nello studio del rapporto tra potere e resistenza culturale. Egli propone
una forma di pensiero più processuale che consideri le pratiche della vita quotidiana insieme
come strutturate e strutturanti. Contrariamente a certe analisi che considerano i contenuti della
televisione, ad esempio, come l’espressione manipolatoria dell’ideologia dominante, ma anche
con un certo spostamento dall’eccessiva dicotomia di de Certeau tra strategie e tattiche,
Silverstone sostiene che televisione e vita quotidiana costituiscano un unico ambiente
composito attraversato sia da strategie egemoniche sia da tattiche di resistenza culturale, è il
risultato quindi di un movimento dialettico tra ideologia e utopia.
Quando de Certeau si sofferma a considerare la lettura dei testi televisivi, contesta l’idea della
passività della fruizione ma non mette minimamente in discussione la “divisione del lavoro” tra
produttori e consumatori di TV. Il consumatore di televisione esplicita la sua attività
autonoma pur sempre all’interno di un sistema imposto, non sostituisce l’autore ma cerca di
inventare attraverso i testi cose diverse dalla loro intenzione iniziale. Rimane ancora evidente,
dunque, che l’esperienza del lettore, per quanto attiva possa essere (come diceva de Certeau), si
mantiene in corsa parallelamente alle istituzioni del potere sociale e comunicativo senza mai però
sfiorarle davvero. Ogni attività di consumo resta sostanzialmente invisibile in quanto non
opera “attraverso creazioni proprie, bensì mediante un’arte di utilizzare ciò che le viene
imposto”.
L’era dell’accesso telematico, però, sembra finalmente segnare un’inversione di rotta da quella
divisione del lavoro promossa dal sistema televisivo. In questo nuovo contesto la creatività del
lettore non si limita alla mediazione tra testo e contesto di vita quotidiana ma si esplicita
nell’opportunità di invertire la direzione dei flussi comunicativi. A differenza della TV la
comunicazione sul web non è un sistema lineare a senso unico; le caratteristiche di Internet
consentono l’apertura della comunicazione verso altre modalità e direzioni, dal soggetto al
sistema e dalle tattiche alle strategie.
Le identità che si alimentano dei linguaggi digitali non si annidano più in spazi di libertà
ristretti; le nuove soggettività che si esprimono con gli strumenti della comunicazione
telematica hanno la possibilità di vivere e prendere la parola.

Capitolo 9 – Jürgen Habermas e il destino del comune nella società della rete

Nel 1962 Habermas (1929) pubblica lStoria e critica dell’opinione pubblica, un classico della
teoria nel campo degli studi sulla comunicazione sociale. In quest’opera Habermas spiega la
trasformazione del concetto di “sfera pubblica” (da “pubblico dibattito dei privati in quanto
pubblico” a “pubblica presentazione di interessi privati, individuali o collettivi” e quindi pubblicità).
Un ruolo di primo piano nella determinazione della funzione e della forma della sfera pubblica
viene riconosciuto ai mezzi di comunicazione: dalle gazzette, alla radio e alla televisione.
Le teorie di Habermas consentono di ragionare sul destino della sfera pubblica e dello spazio
comune in sistemi sociali differenziati e complessi come quelli contemporanei. Comune ha un
duplice significato: “banale” e “condiviso”; tuttavia oggi questi due termini sono disconnessi tra di
loro: l’area di ciò che è condiviso interessa gruppi sempre più circoscritti, mentre tutto ciò che è
al di fuori viene “abbandonato”, “messo al bando” [vedere Benjamin].
Le pratiche di “autocomunicazione di massa” messe in atto attraverso le piattaforme digitali
possono rafforzare il “potere comunicativo” dei cittadini?

Dalla sfera pubblica alla pubblicità

Habermas ricostruisce la sfera pubblica attraverso il rapporto fra comunicazione e potere. Le prime
pubblicazioni periodiche risalgono al XVII secolo, come bollettini commerciali e con funzione
privata. Solo nel corso del XVIII secolo, grazie all’ascesa della borghesia come contropotere della
monarchia assoluta, si hanno i primi periodici che si confrontavano su temi non più privati ma di
carattere prima culturale e artistico e poi politico. Il borghese vedeva rispecchiati i suoi gusti e i suoi
interessi, aprendosi una strada all’emancipazione come soggetto abilitato alla discussione di temi di
rilevanza pubblica. Nel Settecento nasce così la sfera pubblica borghese, intesa come campo di
dibattito dove cittadini privati, riuniti in quanto pubblico, esprimevano la propria opinione (public
opinion), al fine di concorrere alle decisioni politiche. La sfera pubblica borghese si è costituita
come istanza di controllo per la monarchia assoluta del re, rivendicando il diritto del pubblico di
discutere di ogni atto politico: lo Stato di diritto borghese si autorappresentava, in nome della
veritas, la ragione.
Tuttavia lo Stato di diritto borghese, come sottolinea Habermas, aveva una contraddizione di fondo:
dominava su altre classi e di conseguenza la sfera pubblica borghese non esprimeva la ragione
universale dell’uomo ma solo del maschio, bianco, proprietario borghese.
La sfera pubblica ideale presuppone una scissione della soggettività borghese tra il proprietario che
fa i propri interessi e il cittadino che è chiamato a partecipare alla discussione pubblica e questo
equilibrio si mantiene fino a quando le leggi del mercato, che dominavano la sfera privata, non si
inseriscono nella sfera pubblica; da questo momento in poi il dibattito si trasforma in consumo e la
sfera pubblica si rifeudalizza, nel senso che diventa la corte. Uno snodo questo che si fa risalire alla
penny press del XIX secolo, che aveva l’interesse nell’ampliare il proprio pubblico (era una vera e
propria impresa operante in una dimensione di mercato), anche negli strati meno colti. La ricerca
del profitto spiega lo slittamento dalla centralità della politica alla centralità della cronaca e
alla sua spettacolarizzazione. La stampa passa da un organo di critica a veicolo di consumo di massa
e la sfera pubblica viene contaminata dagli interessi privati ed economici (economia viene da oikos,
“casa”, quindi qualcosa di privato).
Mutamenti che furono accelerati dalla grande crisi economica degli ultimi anni del XIX secolo, che
portarono al declino del modello liberale classico fondato sulla separazione di Stato e società, di
pubblico e privato. I soggetti economici privati capiscono che bisogna abbandonare il meccanismo
di concorrenza perfetta per sviluppare nuove strategie di integrazione produttiva. Nel frattempo, i
partiti che rappresentavano gli interessi dei ceti salariati rivendicano i propri diritti. In altre parole, si
esprimeva l’esigenza di un intervento pubblico a tutela degli interessi privati, che determinò
un’ulteriore rifeudalizzazione della società: le imprese assumono su di loro funzioni che spettano
allo Stato, e si incaricano di organizzare la vita degli individui intorno ai loro ritmi. Sfera pubblica e
sfera privata sono sempre più confuse: la sfera privata si svuota poiché non comprende più l’agire
economico, ma solo la sfera familiare intima. Ma la famiglia, non più soggetto produttore di beni e
risorse poiché finanziata dallo Stato con salari e pensioni, diventa oggetto di consumo. Con il
mutamento del concetto di sfera privata, gli individui non furono più in grado di partecipare alla vita
pubblica, per la loro autonomia come esseri privati economici indipendenti: il “pubblico
culturalmente critico” diventa il “pubblico consumatore di cultura” per questo cinema, radio e
televisione ebbero molto successo (strumenti di appropriazione privata senza discussione pubblica)
 La sfera pubblica diventa pubblicità.

Un comune fatto di noi

La comunicazione mediale ha oggi il compito di promuovere l’accesso e la partecipazione dei


cittadini a uno spazio comune. Questo processo viene chiamato di nation-building a tradizione
mediale ed è stato molto evidente in Italia. Con l’avvento della seconda modernità sta cambiando il
significato che riveste l’appartenere a una collettività. Il bene comune non è più l’interesse generale
della società, sempre meno identificabile, bensì ogni soggetto è artefice della propria libertà e
creatività, scardinata dalle affiliazioni della propria posizione sociale.
In una società globalizzata il comune tende a disgregarsi a favore dell’individualismo. Tuttavia, di
contro si tende a mitizzare l’identità collettiva, a motivo di respingimento di ogni alterità (es: la
Padania).
Rousseau parlava di “volontà generale”, il comune che trascende la soggettività; un comune che
diventerebbe res nullius, uno spazio di nessuno, troppo astratto e indecifrabile per i soggetti che
invece dovrebbero riconoscervisi. Se il comune diventa “volontà di tutti”, allora la democrazia
diventa rissosa e populista e l’identità collettiva diventa un’aggregazione di istanze particolari
(soggettive) che non riesce ad arrivare a un orizzonte comune nelle scelte politiche, ad esempio.
Attualmente l’idea di comune oscilla proprio tra un universalismo astratto e una somma di
privatezze: lo spazio del comune è visto come qualcosa di estraneo. Questa concezione di spazio
comune porta allo smantellamento dello Stato sociale in uno “Stato dell’incolumità personale” in
cui il problema della collettività non è la ripartizione di risorse scarse bensì quello della
condivisione del rischio crescente: dal tema dell’eguaglianza a quello della sicurezza. L’enfasi sulla
sicurezza ha desertificato il mondo comune a favore dell’im-mondo, zone in cui non riusciamo a
sentire persone o cose come parte di un universo condiviso e di assorbire nel nostro spazio di vita.
Se società significa produzione di inclusione attraverso il riconoscimento dell’altro, allora oggi quei
meccanismi di formazione dei legami sociali si sono bloccati (es: caso degli immigrati e della
spazzatura, trattati come “rifiuti” e non da risorse da capitalizzare e “riciclare”, nel senso di
immetterli nel nostro sistema di vita). Ciò è lo specchio di una crisi culturale e sociale e anche del
sistema di comunic-azione, ovvero di produzione di comune.
Una via d’uscita è rappresentata dai nuovi regimi di comunicazione, ovvero dai nuovi modi di
produrre vita associata: con Internet il mondo comune viene prodotto da noi. La sfera pubblica
creata dai media mainstream è un mondo fatto per noi (1), la sfera pubblica dei media grassroost
crea un mondo fatto da noi (2). Nel primo caso il pubblico è una formazione discorsiva prodotta
dalle industrie mediali, come se fosse un simulacro [immagine di sintesi]. Nel secondo caso il
pubblico è un’impronta, nel senso che è l’individuo stesso che usa e produce i contenuti che lascia
il proprio segno (es: attraverso i tag). Anche i media tradizionali in un certo senso, stanno adottando
le strategie dei nuovi media per un mondo fatto da noi: Jenkins parla di fanships. Le pratiche
partecipative creano le condizioni per formare un nuovo senso del comune, in cui le soggettività si
proiettano nei dispositivi di deliberazione collettiva.
La deriva che queste forme di presa di parola possono prendere è il populismo ma per ovviare a ciò
sono necessarie le istituzioni della democrazia rappresentativa che possono fare da filtro e
possono offrire soluzioni di continuità. Il problema del contemporaneo però è dato
dall’immediatezza con cui la vita entra nella sfera pubblica, siccome gli interessi immediati hanno il
carattere di essere saltuari, e quindi non partecipano attivamente alla formazione del comune e della
discussione pubblica.
Se prima la scelta era tra democrazia diretta e rappresentativa, oggi si la scelta è tra democrazia
intermittente e “continua”, ossia tra forme di consultazione periodica dell’elettorato e procedure di
mobilitazione permanente dell’opinione dei cittadini. Con la rete si stanno determinando i
presupposti per l’affermazione di una società deliberativa in cui la sfera pubblica non diventa solo
un luogo dove si acclamano le idee di un leader politico ma dove si concorra attivamente alla
formazione di opinioni. Nella democrazia continua gli interessi, le preferenze e i profili identitari dei
soggetti interessati alle decisioni politiche si formano nel discorso pubblico (processo di
comunicazione deliberativa). La sfera pubblica con la rete perde sia le caratteristiche
dell’universalismo astratto sia della somma di privatezze per diventare un universalismo concreto,
in cui il comune “con-cresce” (si dà e si sviluppa insieme), con delle soggettività che lo
compongono.

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