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I FIGLI DI HÚRIN
(Narn I Chîn Húrin. The Tale Of The Children Of Húrin, 2007)
A Baillie Tolkien
PREFAZIONE
Quando mio padre era un giovanotto, negli anni della Prima Guerra
Mondiale e assai prima che esistesse qualche accenno ai racconti dai quali
più tardi avrebbero preso forma le storie dello Hobbit o del Signore degli
Anelli, egli cominciò a scrivere alcune narrazioni che raccolse con il titolo
Il libro dei racconti perduti. Era il suo primo lavoro nell'ambito della lette-
ratura d'invenzione. Un lavoro di una certa sostanza: è vero che egli lo
lasciò incompiuto, ma nella raccolta ci sono quattordici storie complete. È
nei Racconti perduti che apparvero per la prima volta, in un testo narrati-
vo, gli Dei, o Valar; gli Elfi e gli Uomini come figli di Ilúvatar (il Creato-
re); Melkor-Morgoth il grande Nemico; i Balrog e gli Orchi; e le terre in
cui i Racconti sono ambientati: Valinor, «terra degli Dei», al di là dell'oce-
ano occidentale, e le «Grandi Terre» (poi chiamate «Terra di Mezzo», tra i
mari dell'est e dell'ovest).
Fra i Racconti perduti, ve ne erano tre più lunghi e più completi, e tutti e
tre riguardano tanto gli Uomini quanto gli Elfi. Si tratta del Racconto di
Tinúviel (che appare in forma breve nel Signore degli Anelli come la storia
di Beren e Lúthien che Aragorn racconta agli hobbit sulla Vetta del Tem-
po; e che fu scritta da mio padre nel 1917), di Turambar e il Foalókë (Tú-
rin Turambar e il Drago, certamente esistente già nel 1919, se non prima),
e della Caduta di Gondolin (1916-17). Nel passaggio, spesso citato, di una
lunga lettera in cui descrive il suo lavoro, scritta da mio padre nel 1951, tre
anni prima della pubblicazione della Compagnia dell'Anello, egli racconta
della sua iniziale ambizione: «Una volta (da parecchio tempo ormai ho
abbassato la cresta) avevo in mente di creare un corpus di leggende più o
meno collegate, che spaziasse dalla cosmogonia più ampia fino alla fiaba
romantica, più terrena, e che traesse il suo splendore dallo sfondo più va-
sto... Alcuni dei racconti più vasti li avrei narrati interamente e ne avrei
lasciati altri solo abbozzati e sistemati nello schema d'insieme».
Alla luce di questa reminiscenza, che poi alla lontana era parte dell'idea
di ciò che si sarebbe chiamato Il Silmarillion, alcuni dei racconti avrebbero
dovuto essere narrati in una forma più completa; e, in realtà, in quella lette-
ra del 1951, mio padre fece espresso riferimento alle tre storie che ho men-
zionato sopra come le più lunghe del Libro dei racconti perduti. Qui definì
il racconto di Beren e Lúthien «la principale delle storie del Silmarillion»,
e di quest'ultima egli disse: «La storia è (ritengo che sia bella e potente) un
romanzo eroico-fiabesco, comprensibile di per sé anche se si ha solo una
vaga conoscenza generale dello sfondo. Ma costituisce anche un anello
fondamentale del ciclo, che perderebbe il suo pieno significato se ne venis-
se estrapolata».
«Ci sono altre storie,» continua «raccontate quasi altrettanto diffusamen-
te ed egualmente indipendenti, legate tuttavia alla storia generale» e sono:
I Figli di Húrin e La caduta di Gondolin.
Pertanto sembra indubbio, dalle stesse parole di mio padre, che se avesse
potuto completare la narrazione nel modo desiderato, la sua idea era che i
tre «Grandi Racconti» della Prima Era (Beren e Lúthien, I figli di Húrin e
La caduta di Gondolin) fossero lavori sufficientemente completi in se stes-
si e che non richiedessero la conoscenza del grande corpus di leggende
conosciuto con il titolo del Silmarillion. D'altro canto, come osserva mio
padre nella stessa lettera, il racconto dei figli di Húrin è parte integrante
della storia degli Elfi e degli Uomini della Prima Era, e ci sono necessa-
riamente un gran numero di riferimenti a eventi e circostanze della storia
più ampia.
Sarebbe del tutto contrario alla concezione di questo libro appesantirne
la lettura con una pletora di note contenenti informazioni su persone ed
eventi, che sono, a dire il vero, di rado veramente importanti per il raccon-
to. Ciò non di meno, potrebbe essere di aiuto ottenere qui e là un po' di
assistenza. È per questo che nell'introduzione ho fornito un'esposizione
sintetica del Beleriand e delle sue popolazioni sul finire della Prima Era,
quando nacquero Túrin e Niënor; e, insieme con la mappa del Beleriand e
delle terre del Nord, ho incluso una lista di tutti i nomi che ricorrono nel
testo, corredata da concise indicazioni sulla genealogia semplificata di
ciascuno.
Alla fine del volume c'è un'Appendice in due parti: la prima concerne i
tentativi di mio padre di arrivare a una forma definitiva per i tre racconti;
la seconda dà ragguagli sulla composizione del testo che leggiamo in que-
sto libro, e che differisce per vari aspetti dai Racconti incompiuti.
Sono molto grato a mio figlio Adam Tolkien per il suo indispensabile
aiuto nell'ordinare e presentare il materiale dell'Introduzione e dell'Appen-
dice e per aver facilitato l'immissione del libro nello scoraggiante (per me)
mondo della comunicazione elettronica.
INTRODUZIONE
Ma, così incarnato, Morgoth aveva paura. Mio padre scrisse di lui:
«Mentre cresceva la sua cattiveria e promanava da sé il male che aveva
concepito nella forma di menzogne e di creature perfide, il suo potere pas-
sava a loro e in loro veniva disperso; quindi Morgoth divenne sempre più
legato alla terra, restio a uscir fuori dalla sua oscura roccaforte». Pertanto,
quando Fingolfin, Re Supremo degli Elfi Noldor, cavalcò tutto solo fino ad
Angband per sfidare Morgoth in combattimento, gridò presso i cancelli di
Angband: «Vieni avanti, re codardo. Vieni a combattere con le tue stesse
mani! Tu che dimori in una tana, brandisci incantesimi, menti e trami ag-
guati, nemico degli Dèi e degli Elfi, vieni fuori! Così ch'io possa vedere il
tuo vile volto». Allora, si dice che «Morgoth apparve, giacché non poteva
rifiutare tale sfida dinanzi ai suoi capitani». Combatté con il grande martel-
lo Grond, che a ogni colpo apriva una grande fossa e schiacciò Fingolfin al
suolo; ma questi, prima di morire, puntellò il grande piede di Morgoth a
terra, «e nero sangue ne sgorgò, riempiendo le fosse di Grond. Morgoth fu
fermato per sempre». E così pure quando Beren e Lúthien, sotto forma di
lupo e di pipistrello, si inoltrarono fino alla sala più profonda di Angband,
ove sedeva Morgoth, Lúthien fece su di lui un incantesimo; e, «all'improv-
viso questi cadde, al pari di una collina che scivola via come una valanga,
e come un tuono precipitò dal suo trono bocconi sul pavimento dell'infer-
no. La corona di ferro rotolò dal suo capo rumorosamente».
La maledizione di un simile essere, che può asserire: «L'ombra dei miei
intenti si stende su Arda [la Terra] e tutto ciò che è in essa si piega lenta-
mente ma sicuramente al mio volere», è diversa dalle maledizioni e dalle
imprecazioni di esseri dai poteri assai minori. Morgoth non «invoca» il
male o le calamità su Húrin e sui suoi figli, non si «rivolge» a un potere
superiore per fare da agente, giacché egli, «Signore dei destini di Arda»,
come si descrive a Húrin, intende portare alla rovina il suo nemico con la
forza del proprio gigantesco volere. Quindi «progetta» il futuro di quelli
che odia e arriva a dire a Húrin: «Su tutti coloro che ami il mio pensiero
peserà come una nuvola di Rovina e li trascinerà in basso nell'oscurità e
nella disperazione».
Il tormento che aveva architettato per Húrin era questo: Hurin avrebbe
dovuto «vedere con gli occhi di Morgoth». Mio padre diede una definizio-
ne di quello che ciò significava: se qualcuno fosse costretto a guardare
nell'occhio di Morgoth, «vedrebbe» (o riceverebbe nella sua mente dalla
mente di Morgoth) un'irresistibile visione di eventi, distorta dalla infinita
malizia di Morgoth. E se in realtà chiunque poteva rifiutare il comando di
Morgoth, Húrin non lo fece. Ciò era in parte dovuto, disse mio padre, al
suo amore per i parenti, e la sua angosciosa ansia per loro gli fece deside-
rare di apprendere tutto quanto poteva di loro, a prescindere dalla fonte. In
parte anche per orgoglio, poiché credeva di aver battuto Morgoth nella
discussione e che avrebbe potuto «sfidare» lo sguardo di Morgoth, almeno
riuscendo a mantenere il suo spirito critico e distinguere i fatti dalla mali-
gnità.
Per tutta la vita di Túrin, dal momento della sua partenza dal Dor-lómin,
e durante la vita di sua sorella Niënor che mai vide suo padre, questo fu il
destino di Húrin, immobile sull'alto seggio delle Thangorodrim, mentre in
lui cresceva l'asprezza ispirata dal suo tormentatore.
Nel racconto di Túrin, che chiamò se stesso Turambar «Padrone del De-
stino», la maledizione di Morgoth sembra essere vista come un potere sca-
tenato per produrre il male, alla ricerca delle sue vittime. Così viene detto
che lo stesso Vala caduto temeva che «se la forza di Túrin fosse cresciuta
eccessivamente, la sua maledizione su di lui si sarebbe spezzata e sarebbe
così sfuggito al destino che gli aveva preparato» (p. 149). E più avanti, a
Nargothrond, Túrin nasconde il suo vero nome, cosicché, quando Gwindor
lo rivela, questi s'infuria: «Amico, mi hai fatto del male rivelando il mio
vero nome: così hai attirato su di me la cattiva sorte alla quale cercavo di
sottrarmi». Era stato Gwindor a raccontare a Túrin delle voci che aveva
sentito ad Angband, dove lo stesso Gwindor era stato tenuto prigioniero, e
cioè che Morgoth avesse fatto un incantesimo su Húrin e su tutti i suoi
parenti. Ma adesso risponde all'ira di Túrin: «Il tuo destino è dentro di te e
non nel tuo nome».
È così essenziale, ai fini della narrazione, questo complesso concetto,
che mio padre propose perfino un titolo alternativo: Narn e'Rach Morgoth,
Il Racconto della Maledizione di Morgoth. E la sua idea di essa è riflessa
in queste parole: «Così terminò il racconto di Túrin lo sventurato; la peg-
giore delle opere di Morgoth fra gli Uomini nel mondo antico».
Fëanor fu ucciso in battaglia subito dopo il ritorno dei Noldor nella Ter-
ra di Mezzo, e i suoi sette figli possedevano vasti territori a est del Bele-
riand, tra Dorthonion (Taur-nu-Fuin) e le Montagne Azzurre; ma il loro
potere fu distrutto nella terribile Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, che
è descritta nei Figli di Húrin e, da allora, «i Figli di Fëanor vagarono come
foglie al vento» (p. 60).
Il secondo figlio di Finwë era Fingolfin, il fratellastro di Fëanor, il si-
gnore di tutti i Noldor; e questi, con suo figlio Fingon, governò nello Hi-
thlum, che si stendeva a nord e a est della grande catena degli Ered We-
thrin, le Montagne dell'Ombra. Fingolfin risiedeva a Mithrim, presso il
grande lago dello stesso nome; mentre Fingon governava a Dor-lómin, a
sud dello Hithlum. La loro fortezza principale era Barad Eithel (la Torre
della Sorgente) a Eithel Sirion (Fonte di Sirion), dove il fiume Sirion na-
sceva dal versante orientale delle Montagne dell'Ombra: Sador, lo storpio
domestico di Húrin e Morwen, prestò servizio lì come soldato, come disse
a Túrin (pp. 39-40).
Dopo la morte di Fingolfin in singolar tenzone con Morgoth, Fingon di-
venne il Re Supremo dei Noldor al suo posto. Túrin lo vide una volta,
quando egli e «molti dei suoi signori avevano cavalcato per il Dor-lómin
passando sul ponte di Nen Lalaith, in un luccichio bianco e argento» (p.
38).
Il secondo figlio di Fingolfin era Turgon. All'inizio, dopo il ritorno dei
Noldor, abitò nella casa chiamata Vinyamar, sul mare, nella regione di
Nevrast, a ovest del Dor-lómin; ma, in gran segreto, costruì la città nasco-
sta di Gondolin, situata su una collina in mezzo alla valle chiamata Tumla-
den, completamente chiusa dai Monti Cerchianti, a est del fiume Sirion.
Quando Gondolin fu ultimata, dopo molti anni di duro lavoro, Turgon
cambiò residenza e andò ad abitare con la sua gente, sia con i Noldor che
con i Sindar, a Gondolin; e per secoli questo fortino elfico di grande bel-
lezza fu conservato nella più profonda segretezza, la sua unica entrata ben
celata e sorvegliata, così che nessun straniero potesse mai oltrepassarla; e
Morgoth non riuscì a scoprire dove si trovasse. Almeno fino alla Battaglia
delle Innumerevoli Lacrime, quando Turgon emerse da Gondolin con il
suo grande esercito, dopo più di trecentocinquanta anni.
Il terzo figlio di Finwë, fratello di Fingolfin e fratellastro di Fëanor, era
Finarfin. Questi non fece ritorno alla Terra di Mezzo, ma i suoi figli e sua
figlia vennero con la schiera di Fingolfin e dei suoi figli. Il figlio più gran-
de di Finarfin si chiamava Finrod e, ispirato dalla magnificenza e dalla
bellezza di Menegroth nel Doriath, fondò la città fortezza sotterranea e fu
chiamato Felagund, che significa «Signore delle Caverne» o «Scavatore di
Caverne» nella lingua dei Nani. Le porte di Nargothrond si aprivano sulla
gola dove il fiume Narog, nel Beleriand occidentale, attraversava le alte
colline chiamate Taur-en-Faroth o Alto Faroth; ma il reame di Finrod si
estendeva in lungo e in largo a est del fiume Sirion e a ovest del fiume
Nenning che si univa al mare presso il porto di Eglarest. Ma Finrod fu uc-
ciso nelle prigioni sotterranee di Sauron, il principale servo di Morgoth, e
Orodreth, secondo figlio di Finarfin, prese la corona del Nargothrond: ciò
avvenne nell'anno che seguì la nascita di Túrin a Dor-lómin.
Gli altri figli di Finarfin, Angrod e Aegnor, vassalli del loro fratello Fin-
rod, risiedevano nel Dorthonion che volgeva a nord sul vasto piano di Ard-
galen. Galadriel, sorella di Finrod, risiedette a lungo a Doriath con Melian,
la regina. Melian era una Maia, uno spirito di grande possanza che prese
sembianze umane e abitò nelle foreste del Beleriand con Re Thingol: era la
madre di Lúthien e antenata di Elrond. Non molto tempo prima del ritorno
dei Noldor da Aman, quando i grandi eserciti scesero da Angband a sud ed
entrarono nel Beleriand, Melian (come si dice nel Silmarillion) «fece ri-
corso al proprio potere e cinse il dominio [le foreste di Neldoreth e di Re-
gion] tutto intorno con un invisibile muro d'ombra e smarrimento: la Cin-
tura di Melian che nessuno in seguito poté oltrepassare contro la sua vo-
lontà o quella di Re Thingol, a meno di non essere dotato di un maggior
potere di Melian la Maia». Da quel momento questa terra fu denominata
Doriath, «la Terra della Cintura».
Nel sessantesimo anno dal ritorno dei Noldor, ponendo fine a molti anni
di pace, una grande schiera di Orchi scese da Angband, ma subì una sono-
ra sconfitta e fu distrutta dai Noldor. Fu detta Dagor Aglareb, la Battaglia
Gloriosa; ma i capi degli Elfi capirono l'avvertimento e cinsero d'assedio
Angband per quasi quattrocento anni.
Si diceva che gli Uomini (che gli Elfi chiamarono Atani, «i Secondi», e
Hildor, «i Successivi») si fossero destati nel lontanissimo Oriente della
Terra di Mezzo verso la fine dei Tempi Remoti; ma della loro preistoria gli
Uomini che entrarono nel Beleriand nei giorni della Lunga Pace, quando
Angband era sotto assedio e serrate erano le sue porte, non fecero mai
menzione. Il capo di questi primi Uomini che attraversarono le Montagne
Azzurre si chiamava Bëor il Vecchio; e a Finrod Felagund, re di Nargo-
thrond, che fu il primo a incontrarli, Bëor dichiarò: «Una tenebra si stende
dietro di noi e noi le abbiamo voltato le spalle; non desideriamo tornarvi
neppure con il pensiero. I nostri cuori si sono volti all'Occidente ed è lì che
pensiamo di trovare la Luce». Sador, il vecchio servitore di Húrin, parlò
allo stesso modo a Túrin nella sua fanciullezza (p. 42). Ma più tardi si dirà
che quando Morgoth apprese del destarsi degli Uomini, lasciò Angband
per l'ultima volta e andò a Oriente; e che il primo Uomo a entrare nel Bele-
riand «si era pentito e ribellato contro l'Oscuro Signore e furono crudel-
mente braccati e oppressi da coloro che lo adoravano e dai suoi servitori».
Questi Uomini appartenevano alle tre Casate, conosciute come la Casa
di Bëor, la Casa di Hador e la Casa di Haleth. Il padre di Húrin, Galdor
detto l'Alto, era della Casa di Hador, del quale era figlio. Ma sua madre era
della Casa di Haleth, mentre Morwen, sua moglie, era della Casa di Bëor e
parente di Beren.
La gente delle tre Casate era detta Edam (la forma Sindarin di Atani) ed
erano chiamati Amici degli Elfi. Hador abitava nello Hithlum e gli fu dato
il dominio del Dor-lómin dal Re Fingolfin; la gente di Bëor si stabilì nel
Dorthonion; e quella di Haleth a quel tempo dimorò nella Foresta di Bre-
thil. Al termine dell'Assedio di Angband, Uomini di tanti diversi generi
giunsero dalle montagne; ci si riferiva a loro chiamandoli gli Esterling e
alcuni di essi ebbero una parte importante nella storia di Túrin.
L'Assedio di Angband terminò con una terribile rapidità (sebbene fosse
stato a lungo preparato) in una notte di pieno inverno, 395 anni dopo il suo
inizio. Morgoth sprigionò rivi di fuoco che scendevano giù dalle Thango-
rodrim e la grande pianura erbosa di Ard-galen che si stendeva a nord del-
l'altipiano del Dorthonion fu trasformata in una landa inaridita e desolata,
più tardi conosciuta con il nuovo nome di Anfauglith, cioè Polvere Soffo-
cante.
Questo catastrofico assalto fu detto Dagor Bragollach, la Battaglia della
Fiamma Improvvisa. Glaurung, Padre dei Draghi, emerse da Angband per
la prima volta in piena possanza; vasti eserciti di Orchi si riversarono verso
sud; i signori degli Elfi del Dorthonion furono uccisi, così come gran parte
dei guerrieri della gente di Bëor. Il Re Fingolfin e suo figlio Fingon furono
respinti assieme ai guerrieri dello Hithlum nella fortezza di Eithel Sirion,
sul versante orientale delle Montagne dell'Ombra, e, nel difenderla, Hador
Testadoro fu ucciso. Allora Galdor, padre di Húrin, divenne signore del
Dor-lómin, giacché i torrenti di fuoco vennero fermati dalla barriera delle
Montagne dell'Ombra, e lo Hithlum e il Dor-lómin rimasero inespugnati.
Fu nell'anno successivo alla Bragollach che Fingolfin, nella furia della
disperazione, cavalcò fino ad Angband e sfidò Morgoth. Due anni dopo,
Húrin e Huron andarono a Gondolin. Dopo altri quattro anni, nel corso di
un nuovo attacco allo Hithlum, il padre di Húrin, Galdor, venne ucciso
nella fortezza di Eithel Sirion; Sador si trovava lì, come raccontò a Túrin
(p. 40), e vide Húrin (allora un giovanotto ventunenne) «assumere il go-
verno e il comando».
Tutte queste cose erano fresche nella memoria a Dor-lómin quando nac-
que Túrin, nove anni dopo la Battaglia della Fiamma Improvvisa.
Consonanti
Vocali
5
Quindi, in italiano, "Turin" e non "Tiurin".
6
Cioè in italiano si leggono come si scrivono: "Círdan" e "Gurthang".
I FIGLI DI HÚRIN
CAPITOLO I
L'INFANZIA DI TÚRIN
Hador Testadoro era un signore degli Edain, molto amato dagli Eldar.
Egli rimase, finché ebbe vita, sotto la signoria di Fingolfin che gli assegnò
vaste terre in quella regione dello Hithlum, che era detta Dor-lómin. Sua
figlia Glóredhel sposò Haldir figlio di Halmir, Signore degli Uomini del
Brethil; e durante la stessa cerimonia suo figlio Galdor l'Alto prese in mo-
glie Hareth, la figlia di Halmir.
Galdor e Hareth ebbero due figli, Húrin e Huor. Il primo era di tre anni
maggiore del secondo, ma era di statura più bassa di altri uomini della sua
stirpe; sotto questo profilo aveva preso da sua madre, ma per tutto il resto
era simile a Hador suo nonno, robusto di corporatura e focoso di tempera-
mento. Ma la fiamma in lui ardeva di continuo, e tenacissima era la sua
volontà. Di tutti gli Uomini del Nord, era quello che meglio conosceva i
propositi dei Noldor. Suo fratello Huor era alto, il più alto di tutti gli E-
dain, eccezion fatta per Tuor, suo figlio, e veloce nella corsa; se però il
percorso era lungo e duro, Húrin era il primo a giungere alla meta, perché
correva con altrettanta velocità all'inizio come alla fine della gara. Grande
era l'amore che univa i due fratelli che in gioventù furono raramente divisi.
Húrin sposò Morwen, figlia di Baragund figlio di Bregolas della Casa di
Bëor, che era pertanto parente stretta di Beren il Monco. Morwen era alta,
bruna di capelli, e per la luce dello sguardo e la bellezza del volto era detta
Eledhwen, cioè Splendore degli Elfi; ma era di modi piuttosto rigidi e alte-
ri. Le pene toccate alla Casa di Bëor le rattristarono il cuore, poiché venne
nel Dor-lómin dal Dorthonion da esule, dopo la rovina della Bragollach.
Túrin era il nome del figlio maggiore di Húrin e Morwen, nato l'anno in
cui Beren venne nel Doriath e vi trovò Lúthien Tinúviel, la figlia di Thin-
gol. Morwen partorì a Húrin anche una figlia che fu chiamata Urwen, ma
era detta anche Lalaith, vale a dire Riso, da tutti coloro che la conobbero
durante la sua breve vita.
Huor sposò Rían, cugina di Morwen, figlia di Belegund figlio di Brego-
las. Duro fato aveva voluto che nascesse in giorni simili, perché era mite di
cuore e non amava né caccia né guerra. Il suo amore andava agli alberi e ai
fiori delle selve, ed era cantatrice e artefice di canti. Era sposata da soli due
mesi con Huor, quando questi andò col fratello alla Nirnaeth Arnoediad,
ed essa mai più lo rivide.
Ma ora il racconto ritorna a Húrin e Huor nei giorni della loro gioventù.
Si dice che per un po' di tempo i figli di Galdor abitassero nel Brethil e
fossero allevati come figli dallo zio Haldir, secondo le usanze degli Uomi-
ni del Nord di quei tempi. Spesso si recarono in battaglia insieme con gli
Uomini del Brethil contro gli Orchi che allora vessavano con ripetuti at-
tacchi i confini settentrionali della loro terra. Húrin, sebbene solo diciasset-
tenne, era forte, mentre Huor, più giovane di lui, era già alto quanto gli
uomini più cresciuti di quella gente.
Una volta Húrin e Huor andarono con una compagnia di esploratori, ma
subirono un'imboscata degli Orchi, si dispersero e furono inseguiti fino al
Guado di Brithiac. Sarebbero stati catturati o uccisi se non fosse stato per il
potere di Ulmo che era ancora forte sulle acque del Sirion. Si dice che una
nebbia si levò dal fiume e li nascose allo sguardo dei loro nemici; ed essi
fuggirono di là dal Brithiac e giunsero nel Dimbar. Lì vagarono con grandi
privazioni tra le colline, ai piedi delle nude pareti del Crissaegrim, finché
non si smarrirono negli inganni di quella landa e non seppero più da che
parte proseguire, né come far ritorno. Quivi Thorondor li scorse e inviò
due delle sue Aquile in loro aiuto; e queste li trasportarono in alto, al di là
dei Monti Cerchianti, nella Valle segreta di Tumladen e la città nascosta di
Gondolin, che nessun Uomo aveva ancora mai visto.
Lì, Turgon il Re li ricevette cortesemente non appena seppe delle loro
parentele, dato che Hador era un Amico degli Elfi e Ulmo, inoltre, aveva
consigliato Turgon di trattare gentilmente i figli di quella Casa, dai quali
aiuto gli sarebbe giunto al momento del bisogno. Húrin e Huor abitarono
come ospiti nella casa del Re per ben quasi un anno. Si dice che durante
quel tempo Húrin, la cui mente era veloce e viva, molto apprese della cul-
tura degli Elfi e anche qualcosa delle idee e dei propositi del Re, giacché a
Turgon piacquero assai i figli di Galdor e a lungo con loro egli conversò.
Davvero avrebbe voluto tenerli con sé a Gondolin per semplice affetto e
non solo per la sua legge secondo la quale nessun straniero, Elfo o Uomo
che fosse, il quale trovasse la strada per il regno celato oppure avesse avvi-
stato la città, poteva ripartirne, finché il Re non sospendesse l'isolamento e
il popolo nascosto ne uscisse.
Húrin e Huor, però, desideravano tornare fra i loro e aver parte nelle
guerre e nelle sofferenze con cui adesso quelli erano alle prese. E Húrin
disse a Turgon: «Signore, noi non siamo che Uomini mortali, diversi dagli
Eldar. Questi possono attendere lunghi anni lo scontro con i loro nemici,
anche se l'ora debba suonarne in un tempo remotissimo; per noi, invece, il
tempo è breve, la nostra speranza e la nostra forza ben presto svaniscono.
Inoltre, non siamo stati noi a trovare la via per Gondolin e, puoi credermi,
non sappiamo esattamente dove si trovi questa città: vi siamo stati portati,
impauriti e meravigliati, per le alte vie del cielo, e buona sorte ha voluto
che i nostri occhi fossero velati».
Allora Turgon cedette alla sua preghiera e disse: «Avete licenza di an-
darvene per la stessa via per la quale siete venuti, purché Thorondor lo
voglia. Sono addolorato per la vostra partenza; ma può darsi che ci si in-
contri nuovamente, in un lasso di tempo breve secondo il computo degli
Eldar».
Però Maeglin, figlio della sorella del Re, il quale era potente a Gondolin,
non era affatto dispiaciuto che se ne andassero, non solo perché li invidia-
va per il favore a loro concesso dal Re, ma anche perché non nutriva affet-
to per nessuno della stirpe degli Uomini; e disse a Húrin: «La grazia a te
concessa dal Re è maggiore di quanto tu non creda; e qualcuno potrebbe
domandarsi perché la legge è divenuta meno severa di un tempo per due
bricconi figli di Uomini. Sarebbe più sicuro se non avessero altra scelta
che dimorare qui come nostri servitori fino alla fine dei loro giorni».
Replicò Húrin: «La grazia del Re è grande davvero; ma se la nostra pa-
rola non basta, ebbene, noi presteremo giuramento a te». E i fratelli giura-
rono di non rivelare mai i propositi di Turgon e di tenere segreto tutto ciò
che avevano visto nel suo regno. Presero poi congedo e le Aquile scesero e
li portarono via nottetempo, deponendoli nel Dor-lómin prima dell'alba. I
loro si rallegrarono nel vederli, avendo messaggeri riportato dal Brethil la
notizia che si erano perduti; ma i due non vollero nemmeno dire al loro
padre dov'erano stati, a parte che le Aquile li avevano salvati e riportati a
casa. Tuttavia, Galdor insistette: «Dunque, siete stati per un anno nelle
selve? O le Aquile vi hanno ospitati nei loro nidi? Eppure avete trovato
cibo e begli abiti, tant'è che siete riapparsi in veste di giovani principi, non
certo di derelitti del bosco».
E Húrin rispose: «Sii contento che siamo tornati, giacché ciò ci è stato
concesso solo in cambio del giuramento di non parlare». Allora Galdor più
non li interrogò, anche se sia lui che molti altri intuirono la verità, dato che
sia il giuramento del silenzio che le Aquile facevano pensare a Turgon,
considerarono gli Uomini.
Così trascorsero i giorni e l'ombra della paura di Morgoth si allungò. Ma
nell'anno quattrocentosessantanovesimo dopo il ritorno dei Noldor nella
Terra di Mezzo, fra gli Elfi e gli Uomini la speranza rifiorì, che si era spar-
sa la voce delle imprese di Beren e Lúthien e dell'umiliazione di Morgoth
sul suo stesso trono in Angband, né mancava chi sosteneva che Beren e
Lúthien fossero ancora vivi o ritornati dai Morti. In quello stesso anno, i
grandi disegni di Maedhros giunsero quasi a compimento, e con il rinasce-
re delle forze degli Eldar e degli Edain l'avanzata di Morgoth venne bloc-
cata e gli Orchi furono scacciati dal Beleriand. Allora alcuni presero a par-
lare di future vittorie e di vendicare la battaglia della Bragollach, laddove
Maedhros avrebbe dovuto mettersi alla testa degli eserciti uniti, costringere
Morgoth sotto terra e sigillare le Porte di Angband.
Ma i più prudenti erano ancora incerti, poiché temevano che Maedhros
svelasse troppo presto la sua crescente forza, dando così a Morgoth il tem-
po di elaborare disegni contrari.
«Sempre, ad Angband, verranno architettate nuove perfidie che né Uo-
mini né Elfi potranno indovinare» dicevano costoro. E nell'autunno di
quell'anno, a confermarne le parole, ecco giungere un vento cattivo dal
Nord sotto plumbei cieli. Il Perfido Fiato, così fu chiamato, poiché era pe-
stilenziale; e molti s'ammalarono e morirono alla fine dell'anno nelle con-
trade settentrionali confinanti con l'Anfauglith e per lo più si trattava di
bambini o di giovinetti nelle case degli Uomini.
Quell'anno, Túrin figlio di Húrin ne contava solo cinque, e sua sorella
Urwen ne compì tre all'inizio della primavera. I suoi capelli erano come i
gigli gialli tra l'erba quando correva per i campi, e il suo riso era come
l'acqua dei lieti rivi che venivano cantando dai colli, frusciando accanto
alle mura della casa di suo padre. Nen Lalaith era soprannominata, e così
tutti i familiari chiamavano la bambina Lalaith, e i loro cuori erano gai
quando essa era tra loro.
Túrin però era meno amato di lei. Era bruno di capelli come sua madre,
e prometteva lo stesso suo carattere; non era allegro, era laconico sebbene
avesse appreso a parlare precocemente e sembrasse anzi maggiore dei suoi
anni. Lento era Túrin a dimenticare ingiustizie o beffe; ma in lui era anche
il fuoco di suo padre, ed egli poteva mostrarsi impetuoso e feroce. Ma era
anche pronto alla pietà, e i dolori o la malinconia di creature viventi basta-
vano a muoverlo alle lacrime; e anche per questo era come suo padre, poi-
ché Morwen era severa con gli altri come con se stessa. Túrin amava la
madre che sempre gli rivolgeva parole franche ed esplicite; il padre però lo
vedeva di rado, siccome Húrin era spesso lontano da casa, con l'esercito di
Fingon che custodiva le frontiere orientali dello Hithlum e, quando torna-
va, la sua rapida favella, punteggiata di parole strane, battute e allusioni,
sbalordiva e confondeva Túrin. In quel periodo, il suo cuore era tutto per la
sorella Lalaith, con la quale però di rado giocava, più piacendogli osservar-
la non visto e guardarla procedere sull'erba o tra gli alberi, intenta a intona-
re quei canti che i figli degli Edain composero molto tempo fa, quando la
lingua degli Elfi era ancora fresca sulle loro labbra.
«Bella come una figlia di Elfi è Lalaith» disse Húrin a Morwen; «ma as-
sai meno longeva, ahimè! E per questo forse più bella, magari più cara.» E
Túrin, udendo queste parole, le meditò ma non gli riuscì di capirle, essen-
do che non aveva mai visto figli di Elfi. Nessuno degli Eldar in quel tempo
viveva nelle terre di suo padre e una sola volta li aveva veduti, ed era stato
quando Re Fingon e molti dei suoi signori avevano cavalcato per il Dor-
lómin, passando sul ponte di Nen Lalaith, in un luccichio bianco e argento.
Ma, prima che l'anno terminasse, la verità delle parole di suo padre fu
manifesta, che il Perfido Fiato penetrò nel Dor-lómin, e Túrin s'ammalò, e
a lungo giacque in preda alla febbre e a cupi sogni. E quando ne guarì,
poiché tale era il suo destino e la forza della vita che era in lui, chiese di
Lalaith. Ma la sua nutrice gli rispose: «Non parlare più di Lalaith, figlio di
Húrin; ma di tua sorella Urwen, devi chiedere a tua madre».
E allorché Morwen venne a lui, Túrin le disse: «Non sono più malato, e
voglio vedere Urwen; ma perché non devo più parlare di Lalaith?».
«Perché Urwen è morta e il riso si è spento in questa casa» rispose la
madre. «Tu però vivi, figlio di Morwen; e vive anche l'Avversario che ci
ha fatto questo.»
Non tentò di confortarlo più di quanto facesse con se stessa, poiché il
proprio dolore lo affrontava in silenzio e con fermezza di cuore. Túrin però
pianse apertamente e prese la sua arpa con l'intento di comporre un canto
di cordoglio; ma non gli riuscì e spezzò l'arpa e, uscito di casa, levò la ma-
no verso il Nord gridando: «Guastatore della Terra di Mezzo, possa io ve-
derti faccia a faccia, e marchiarti come ha fatto il mio signore Fingolfin!».
Ma nottetempo, solo, Túrin piangeva amaramente, sebbene in presenza
di Morwen non pronunciasse mai più il nome della sorella. A un unico
amico si rivolgeva in quel periodo, a lui parlando del suo dolore e di quan-
to vuota fosse la casa. Quell'amico si chiamava Sador, ed era un domestico
al servizio di Húrin; era zoppo e tenuto in scarso conto. Era stato boscaiolo
e per malasorte o per errore nel maneggiare la scure si era tagliato il piede
destro, e la gamba mutila gli si era rattrappita; e Túrin lo chiamava Laba-
dal, che vuol dire «saltellante», sebbene il soprannome non dispiacesse a
Sador, essendo dettato da compassione e non da scherno. Sador operava
nelle dipendenze a fabbricare o a riparare cose di poco valore di cui ci fos-
se necessità in casa, avendo egli una certa abilità nel lavorare il legno; e
Túrin gli portava ciò che gli abbisognava perché non gli si stancasse la
gamba, e a volte veniva in segreto da lui con un arnese o un pezzo di legno
che trovava incustodito, se pensava che potesse servire all'amico. Sador
allora sorrideva, ma gli diceva di rimettere il dono al suo posto; «Dai con
generosità, ma dai solo del tuo» diceva. Ricompensava come poteva la
gentilezza del fanciullo, intagliando per lui figure di uomini e animali; ma
Túrin soprattutto si deliziava ai racconti di Sador, che era stato giovane ai
tempi della Bragollach e adesso amava indugiare sui brevi giorni della sua
piena virilità, prima della mutilazione.
«Fu una grande battaglia, così dicono, figlio di Húrin. Nel gran bisogno
di quell'anno, anch'io venni richiamato dalle opere cui ero intento nella
foresta; ma non sono stato alla Bragollach, altrimenti la mia ferita l'avrei
ricevuta con più onore. Siamo infatti giunti troppo tardi, appena in tempo
per riportare il feretro del vecchio signore, Hador, caduto con la guardia di
Re Fingolfin. Sono andato soldato, dopo di allora, e sono stato a Eithel
Sirion, la grande fortezza dei Re elfici, per lunghi anni, o almeno tali mi
sembrano, perché dei successivi e monotoni c'è ben poco da ricordare. Mi
trovavo a Eithel Sirion quando il Re Nero l'assalì, e Galdor padre di tuo
padre ne era il comandante in vece del Re. Fu ucciso durante l'assalto; e ho
visto tuo padre assumerne governo e comando, sebbene fosse appena giun-
to all'età virile. V'era un fuoco in lui che rendeva, così dicono, calda la
spada che impugnava. Sotto la sua guida, abbiamo ricacciato gli Orchi
nelle sabbie; e da quel giorno non hanno più osato farsi vedere. Ma, ahimè,
il mio amore per la battaglia era saziato, poiché avevo visto abbastanza
sangue versato e ferite; e mi feci congedare per tornare ai boschi ai quali
agognavo; e lì mi sono ferito, poiché a un uomo che fugge la propria paura
può capitare di scoprire che ha solo imboccato la scorciatoia per incontrar-
la.»
Così Sador parlava a Túrin mentre questi cresceva, e Túrin prese a porre
tante domande cui Sador aveva difficoltà a rispondere, ritenendo che altri
più vicini al ragazzo avrebbero dovuto fargli scuola. E un giorno Túrin gli
chiese: «Davvero Lalaith era simile a una figlia di Elfi, come ha detto mio
padre? E che cosa intendeva, dicendo che era meno longeva?».
«Molto simile» rispose Sador; «poiché nella prima giovinezza i figli de-
gli Uomini e degli Elfi sembrano parenti stretti. Ma i figli degli Uomini
crescono più rapidamente, e ben presto la loro giovinezza sfiorisce. Tale è
il nostro destino.»
Gli domandò allora Túrin: «Che cos'è il destino?».
«Quanto a quello degli Uomini,» rispose Sador «devi chiederne a coloro
che sono più sapienti di Labadal. Ma sappi che, come tutti possiamo nota-
re, ben presto noi ci stanchiamo e moriamo; e, per sventura, molti trovano
la morte persino prima del tempo. Gli Elfi invece non si stancano e non
muoiono se non per grandi ferite. Da ferite e dolori che distruggerebbero
gli Uomini, essi possono guarire; e v'è chi dice che, anche quando i loro
corpi sono corrotti, essi ritornano. Non così noi.»
«Dunque, Lalaith tornerà?» volle sapere Túrin. «E dov'è andata?»
«Non tornerà» replicò Sador. «Ma dove sia andata, nessuno lo sa. Io, per
lo meno, no.»
«Ed è sempre stato così? Oppure noi siamo vittime di una maledizione
del Re malvagio, qualcosa di simile al Perfido Fiato?»
«Lo ignoro. Alle nostre spalle si estende una tenebra, dalla quale pochi
racconti sono venuti. Può darsi che i padri dei nostri padri avessero qual-
cosa da narrare, ma non l'hanno fatto. Dimenticati sono persino i loro no-
mi. I Monti stanno tra noi e la vita da cui essi sono venuti, fuggendo da che
cosa nessuno lo sa.»
«Avevano dunque paura?» domandò Túrin.
«Può darsi» rispose Sador. «Non è escluso che fuggissero la paura della
Tenebra, solo per ritrovarla qui di fronte a noi, e nessun altro luogo dove
fuggire se non il mare.»
«Noi non abbiamo più paura,» disse Túrin «per lo meno non tutti noi.
Non ha paura mio padre, e io non ne avrò; o almeno, come mia madre, se
avrò paura non lo darò a vedere.»
Parve a Sador che gli occhi di Túrin non fossero quelli di un bambino, e
si disse: «Il dolore è una dote per un animo duro». E ad alta voce: «Figlio
di Húrin e Morwen, quale sarà il tuo cuore, Labadal non può indovinarlo.
Ma di rado e a pochi tu mostrerai ciò che è in esso».
Allora Túrin: «Forse è meglio non dire quel che si desidera se non si può
averlo. Ma, Labadal, mi piacerebbe essere uno degli Eldar. E allora Lalaith
potrebbe tornare, e io sarei ancora qui anche se la sua assenza dovesse du-
rare a lungo. Andrò soldato con un Re degli Elfi appena ne avrò l'età, come
hai fatto tu, Labadal».
«Potrai imparare molto da loro» disse Sador, e sospirò. «Sono bella gen-
te, gente meravigliosa, e hanno potere sul cuore degli Uomini. Pure, a vol-
te penso che sarebbe stato meglio se mai li avessimo incontrati, ma aves-
simo proceduto lungo vie più umili. Che la loro sapienza è già antica, e
sono fieri e tenaci. Alla loro luce, noi ci offuschiamo o bruciamo con trop-
po rapida fiamma, e il gravame della nostra sorte tanto più ci pesa».
«Ma mio padre li ama» ribatté Túrin «e senza di loro non è felice. Dice
che da loro abbiamo imparato quasi tutto ciò che sappiamo, così nobilitan-
doci; e dice anche che gli Uomini giunti di recente da oltre i Monti sono
poco meglio degli Orchi.»
«Ciò è vero» confermò Sador. «Almeno per alcuni di noi. Ma salire è fa-
ticoso, e dalle cime è facile precipitare.»
A quel tempo, Túrin aveva quasi otto anni, ed era il mese di Gwaeron
secondo il computo degli Edain, nell'anno che non può essere dimenticato.
Già correvano voci fra gli anziani di una grande adunanza e raccolta di
armi, di cui Túrin nulla udì, sebbene avesse notato che suo padre spesso lo
fissava intensamente, come un uomo può guardare qualcosa che gli è cara
e dalla quale deve separarsi. E Húrin, conoscendone il coraggio e la di-
screzione, sovente parlava con Morwen dei disegni del Re degli Elfi e di
ciò che poteva accadere se fossero andati a segno o meno. Il suo cuore era
acceso di speranza, e ben poco si preoccupava dell'esito della battaglia,
non sembrandogli che nessuna forza nella Terra di Mezzo bastasse a rove-
sciare la possanza e lo splendore degli Eldar. «Hanno visto la Luce in Oc-
cidente» diceva «e alla fine la Tenebra dovrà sparire dai loro volti.»
Morwen non lo contraddiceva, poiché in compagnia di Húrin ciò che si
sperava sempre appariva come la cosa più probabile. Ma nel suo sangue
era conoscenza di saggezza elfica, e a se stessa diceva: «Pure, non hanno
forse lasciato la Luce e non ne sono ora esclusi? Può darsi che i Signori
dell'Occidente li abbiano allontanati dai loro pensieri; e quindi, come pos-
sono, anche se sono i Primogeniti, vincere uno dei Poteri?».
Neppure l'ombra di simili dubbi sembrava sfiorare Húrin Thalion; e tut-
tavia, un mattino della primavera di quell'anno si svegliò come dopo un
sogno inquieto, e per tutto il giorno una nube ne offuscò la gaiezza; e la
sera d'un tratto disse: «Quando sarò chiamato, Morwen Eledhwen, affiderò
alle tue cure l'erede della Casa di Hador. Le vie degli Uomini sono brevi, e
in esse molti sono gli eventi infausti persino in tempo di pace».
«È sempre stato così» replicò lei. «Ma che cosa nascondono le tue paro-
le?»
«Prudenza, non dubbio» rispose Húrin; ma sembrava turbato. «Tuttavia,
chi guardi in avanti non può rendersi conto che le cose non resteranno qua-
li erano. Sarà un grande scontro, e una parte cadrà più in basso di quanto
non sia ora. Se a cadere saranno i Re degli Elfi, andrà male per gli Edain; e
noi siamo quelli che dimorano più vicini all'Avversario. Ma se le cose do-
vessero andar male, non sarò io a dirti: Non temere! Perché tu temi ciò che
temere si deve, e null'altro; e la paura non ti sgomenta. Invece ti dico: Non
aspettare! Io tornerò da te quando potrò, ma tu non aspettare! Vattene a
sud il più presto possibile; io ti seguirò e ti ritroverò, dovessi cercarti da un
capo all'altro del Beleriand.»
«Il Beleriand è vasto e inospitale per gli esuli» osservò Morwen. «Dove
dovrò fuggire, con molti o con pochi?»
Húrin allora rimase a riflettere per qualche istante in silenzio. «C'è la
stirpe di mia madre nel Brethil» disse poi. «A volo d'aquila, sono una tren-
tina di leghe.»
«Se tempi così tristi dovessero davvero venire, quale soccorso si può
sperare dagli Uomini?» domandò Morwen. «La Casa di Bëor è caduta. Se
cade anche la grande Casa di Hador, in quali buchi dovrà strisciare la pic-
cola gente di Haleth?»
«Sono pochi e ignoranti» replicò Húrin «ma non dubitare del loro valo-
re. C'è forse speranza altrove?»
«Non parli di Gondolin» osservò Morwen.
«No, perché quel nome non è mai uscito dalle mie labbra» ribatté Húrin.
«È vero però quel che hai udito dire: sì, ci sono stato. Ma in verità ti dico
una cosa che non ho detto e non dirò a nessun altro: non so dove si trovi.»
«Però lo indovini, e con una certa precisione, penso» fece Morwen.
«Può darsi» convenne Húrin. «Ma a meno che Turgon in persona non mi
sciolga dal mio giuramento, non posso dire neppure a te quale sia la mia
congettura; sicché, la tua cerca sarebbe vana. Ma, dovessi io parlare, per
mia vergogna, giungeresti al massimo a una porta serrata, che, a meno che
Turgon non scenda in guerra (e di questo non s'è udita parola, né lo si spe-
ra), nessuno vi entrerà.»
«Sicché, se la tua stirpe non ha speranze, e i tuoi amici ti rinnegano» dis-
se Morwen «non mi resta che fare di testa mia; e in questo momento m'è
venuta l'idea del Doriath.»
«Ti sei posta un alto obiettivo» disse Húrin.
«Dici che sia troppo ambizioso?» replicò Morwen. «Ritengo infatti che,
di tutte le difese, l'ultima a cedere sarà la Cintura di Melian; e nel Doriath
la Casa di Bëor non sarà oggetto di disprezzo. Non sono forse parente del
Re? Beren figlio di Barahir era, infatti, nipote di Bregor, come anche mio
padre.»
«Il mio cuore non propende per Thingol» replicò Húrin. «Da lui nessun
aiuto verrà a Re Fingon; e ora so perché un'ombra cala sul mio spirito
quando sento nominare il Doriath.»
«Anche il mio cuore s'abbuia al nome del Brethil» replicò Morwen.
E all'improvviso Húrin scoppiò a ridere e se ne uscì a dire: «Ce ne stia-
mo qui a discutere su cose che ci trascendono e di ombre uscite dal sogno.
Le cose non andranno poi così male; e se anche, dovrai affidarti al tuo co-
raggio e al tuo buon senso. Fa' allora ciò che il tuo cuore ti detta; ma non
agire frettolosamente. E se otterremo il nostro scopo, sappi che i Re degli
Elfi sono decisi a restituire tutti i feudi della Casa di Bëor al loro erede; e
quella sei tu, Morwen figlia di Baragund. Ampi domini dovremo allora
possedere e una ricca eredità toccherà a nostro figlio. Senza far del male,
nel Nord arriverà a possedere grandi ricchezze e sarà re tra gli Uomini».
«Húrin Thalion» disse Morwen «penso che sia più giusto dire che tu
guardi in alto, ma io temo di cadere in basso.»
«Anche se fosse così, non dovresti aver timore» disse Húrin.
Quella notte Túrin si svegliò a mezzo, e gli parve che la madre e il padre
stessero accanto al suo letto, osservandolo alla luce delle candele che reg-
gevano; ma i loro volti non li scorse.
LA BATTAGLIA
DELLE INNUMEREVOLI LACRIME
Molti canti sono intonati e molti racconti narrati dagli Elfi sulla Nirnaeth
Arnoediad, la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, nella quale Fingon
cadde e si spense il fiore degli Eldar. Se tutto si dovesse rinarrare, la vita di
un uomo non basterebbe per udirlo. Perciò qui si narrerà solo degli acca-
dimenti che riguardano il destino della Casa di Hador e dei figli di Húrin il
Costante.
Avendo raccolto alla fine tutta la forza che poteva, Maedhros scelse un
giorno, il mattino di Mezz'estate. Quel giorno le trombe degli Eldar saluta-
rono il Sole nascente e a oriente fu issato lo stendardo dei figli di Fëanor; a
occidente quello di Fingon, Re dei Noldor.
Allora Fingon scrutò l'orizzonte dalle mura di Eithel Sirion e il suo eser-
cito era schierato nelle valli e nei boschi a est dell'Ered Wethrin, ben na-
scosto allo sguardo del Nemico; e constatò che era un assai grande esercito
dato che tutti i Noldor dello Hithlum erano riuniti e con loro molti Elfi
delle Falas di Nargothrond; e grande era pure il numero di Uomini. Sulla
destra v'erano l'esercito di Dor-lómin e tutta la possanza di Húrin e Huor,
suo fratello; a loro si erano uniti Haldir del Brethil, loro parente, con molti
Uomini dei Boschi.
Fingon allora volse lo sguardo verso est e la sua vista elfica scorse in
lontananza una nuvola di polvere e il bagliore dell'acciaio come stelle nella
nebbia, e seppe che Maedhros si era mosso e ne fu felice. Poi guardò verso
Thangorodrim e le vide avvolte da una cupa nuvola e fumo nero se ne le-
vava. Seppe allora che Morgoth era montato in collera e che la loro sfida
era stata raccolta. L'ombra del dubbio calò sul suo cuore. Ma in quel mo-
mento un grido si levò e il vento lo portò da sud di valle in valle ed Elfi e
Uomini vociavano di meraviglia e gioia poiché, inaspettatamente e senza
che lo si fosse spronato a farlo, Turgon aveva aperto le porte di Gondolin
ed era giunto con un forte esercito di diecimila guerrieri rivestiti di lucenti
cotte di maglia, con le loro lunghe spade e lance da sembrare una foresta.
Allora, quando Fingon udì in lontananza la grande tromba di suo fratello
Turgon, l'ombra che era calata su di lui si dissolse, il suo cuore ne fu solle-
vato e gridò forte: «Utulie 'n aurei Aiya Eldalië ar Atanatarni, utulie 'n
aure! Il giorno è venuto! Ecco, popolo degli Eldar e Padri di Uomini, è
giunto il giorno!». E tutti coloro che ne udirono la forte voce echeggiare
tra i colli, risposero gridando: «Auta i lome! La notte sta per finire!».
Di lì a poco la battaglia avrebbe avuto inizio, giacché Morgoth, ampia-
mente informato di ciò che veniva fatto e architettato dai suoi nemici, ave-
va preparato i suoi piani per l'ora dell'attacco. Già una gran schiera da An-
gband si stava portando verso lo Hithlum, mentre un'altra, più imponente,
andava incontro a Maedhros per impedire l'unione degli eserciti dei re. E
coloro che arrivarono contro Fingon erano tutti vestiti di bruno, sì da non
mostrare il nudo acciaio: per questo erano già assai avanti sulle sabbie di
Anfauglith quando la loro presenza fu segnalata.
Allora i cuori dei Noldor s'infuocarono e i loro capitani volevano assali-
re gli avversari sulla piana; ma Fingon si dichiarò contrario.
E disse: «State attenti all'astuzia di Morgoth, signori! La sua forza è
sempre maggiore di quel che sembra e i suoi piani diversi da quello che
appaiono. Non mostrate la vostra forza e lasciate che sia il nemico a sferra-
re il primo attacco sulle colline». Ed era nei piani dei re che Maedhros
marciasse apertamente su Anfauglith con tutte la sua forza di Elfi, Uomini
e Nani; e, come sperava, una volta suscitata la reazione delle schiere prin-
cipali di Morgoth, Fingon sarebbe giunto dall'ovest, così da schiacciare tra
incudine e martello la potenza di Morgoth e ridurla in pezzi. Il segnale
doveva essere l'accensione di un grande faro nel Dorthonion.
Ma il Capitano di Morgoth in occidente aveva ricevuto l'ordine di far u-
scire fuori Fingon dalle sue colline con qualunque mezzo. Ragion per cui
continuò la marcia sinché il fronte delle sue schiere fu attestato sulla riva
del Sirion, dalle mura di Barad Eithel alla Palude di Serech, sì che gli a-
vamposti di Fingon potevano guardare il nemico negli occhi. Tuttavia la
sua sfida rimase senza risposta e gli Orchi, dopo un po', cessarono di lan-
ciare insulti trovandosi di fronte nient'altro che mura silenziose e la minac-
cia nascosta tra le colline.
Allora il Capitano di Morgoth fece partire dei cavalieri con insegne di
parlamento e questi giunsero agli avamposti di Barad Eithel. Con loro tra-
scinavano Gelmir, figlio di Guilin, un signore del Nargothrond che aveva-
no catturato nella Bragollach e che avevano accecato. I loro araldi lo esibi-
vano gridando: «Ne abbiamo molti altri come lui da noi, ma dovete fare in
fretta se volete ritrovarli, perché ci occuperemo di loro quando tornere-
mo». Poi tagliarono braccia e gambe a Gelmir e lì lo lasciarono.
Sfortuna volle che in quel punto degli avamposti stesse Gwindor, figlio
di Guilin, con molti altri del Nargothrond e, in verità, aveva marciato alla
guerra con tutta la foga che aveva in corpo proprio per il dolore per la cat-
tura di suo fratello. La sua ira lo infiammò, balzò in sella al suo cavallo e
molti altri con lui; inseguirono gli araldi di Angband e li uccisero; tutta la
gente del Nargothrond li seguì e penetrarono a fondo nello schieramento di
Angband. A quella vista, l'esercito dei Noldor non seppe più trattenersi e
Fingon si pose in capo l'elmo bianco, fece dar fiato alle trombe e tutte le
armate s'avventarono da dietro le colline in un'improvvisa carica.
Il barbaglio delle spade sguainate dei Noldor era simile a fuoco in una
distesa di canne; così feroce e rapida fu la loro azione, che per poco i dise-
gni di Morgoth non andarono in fumo. Prima che l'esercito, che egli aveva
inviato a ovest per attirarli nella trappola, potesse ricevere rinforzi fu spaz-
zato via e distrutto e gli stendardi di Fingon volarono sull'Anfauglith e
furono piantati davanti alle mura di Angband.
Sempre in prima linea nella battaglia era Gwindor e con lui gli Elfi del
Nargothrond, e neppure ora si poté trattenerli: irruppero attraverso i can-
celli esterni e uccisero i guardiani nei cortili stessi di Angband. Morgoth
tremò sul suo trono nelle profondità, udendoli battere alle sue porte. Ma
Gwindor rimase lì intrappolato e catturato vivo, mentre i suoi furono ster-
minati: Fingon non poté accorrere in loro aiuto. Inoltre, da molte porte
segrete delle Thangorodrim, Morgoth aveva, infatti, fatto uscire gran parte
delle sue forze che aveva tenuto di riserva e Fingon fu ricacciato dalle mu-
ra con gravi perdite.
Allora, nella piana di Anfauglith ebbe inizio il quarto giorno di guerra,
cominciò lì la Nirnaeth Arnoediad, e nessun racconto può contenerne tutto
il dolore. Di tutto ciò che accadde nella battaglia a oriente - la disfatta di
Glaurung il drago da parte dei Nani di Belegost, il tradimento degli Ester-
ling e la distruzione dell'esercito di Maedhros e la fuga dei figli di Fëanor -
qui più non si dice. A occidente, le schiere di Fingon ripiegarono sulle
sabbie e lì caddero Haldir, figlio di Halmir, e gran parte degli Uomini del
Brethil. Il quinto giorno, però, quando calò la notte ed erano ancora lungi
dall'Ered Wethrin, ecco che gli eserciti di Angband circondarono quello di
Fingon e combatterono finché non si fece giorno, incalzati sempre più da
presso. La speranza rinacque al mattino, allorché si udirono i corni di Tur-
gon che accorreva con il grosso delle forze di Gondolin; infatti questi era-
no rimasti di stanza a sud per guarnire i Passi del Sirion, e Turgon era riu-
scito a trattenere gran parte dei suoi da una carica avventata. Ora accorreva
in aiuto di suo fratello e i Noldor di Gondolin erano forti, le loro file lucci-
canti come un fiume di acciaio al sole, che spada e bardatura dell'ultimo
dei guerrieri di Turgon valeva ben più del riscatto di qualunque re tra gli
Uomini.
Ed ecco che la falange della guardia del Re irruppe tra i ranghi degli Or-
chi e Turgon si aprì un varco fino a raggiungere suo fratello. Si narra che,
sebbene nel mezzo della battaglia, fu lieto l'incontro di Turgon con Húrin
che stava al fianco di Fingon. Per un po', allora, le schiere di Angband fu-
rono respinte e Fingon iniziò di nuovo la ritirata. Ma, avendo disfatto Ma-
edhros a oriente, Morgoth aveva forze da vendere e, prima ancora che Fin-
gon e Turgon riuscissero a trovare rifugio dietro le colline, furono assaliti
da una marea di nemici, di tre volte superiori per numero di tutte le forze
che rimanevano loro. Gothmog, supremo comandante di Angband, era lì
giunto e piantò un negro cuneo tra gli eserciti degli Elfi, accerchiando Re
Fingon e respingendo Turgon e Húrin verso la Palude di Serech. Poi si
volse contro Fingon e fu uno scontro terribile. Alla fine Fingon si trovò
solo, con le sue guardie del corpo morte attorno a lui; e combatté con Go-
thmog, finché un altro Balrog lo prese alle spalle, imprigionandolo con un
laccio d'acciaio. Allora Gothmog lo abbatté con la sua ascia nera e una
fiamma bianca sprizzò dall'elmo di Fingon quando venne spaccato. Così
cadde il Re dei Noldor e i nemici lo sfracellarono al suolo nella polvere
con le loro mazze e il suo stendardo azzurro e argento gettarono e calpesta-
rono nella pozza del suo sangue.
Perduta era la battaglia; ma Húrin e Huor, e quel che rimaneva della Ca-
sa di Hador, resistevano ancora a piè fermo con Turgon di Gondolin; e le
schiere di Morgoth non riuscivano a impadronirsi dei Passi del Sirion. Al-
lora Húrin parlò a Turgon e disse: «Vattene, signore, finché sei in tempo!
Tu sei l'ultimo della Casa di Fingolfin e in te è riposta l'ultima speranza
degli Eldar. Finché Gondolin resiste, il cuore di Morgoth conoscerà la pau-
ra».
Rispose Turgon: «Ormai Gondolin non può più rimanere celata a lungo
e, una volta scoperta, non potrà che cadere».
Parlò dunque Huor e disse: «Eppure, se resiste ancora un po', ecco che
dalla tua Casata verrà la speranza degli Elfi e degli Uomini. Questo è quel
che ti dico, o signore, ora che sono al cospetto della morte: sebbene qui ci
si debba separare per sempre e mai più rivedrò le tue bianche mura, da te e
da me sorgerà una nuova stella. Addio!».
Maeglin, figlio della sorella di Turgon, che era presente, udì quelle paro-
le e non le dimenticò.
Allora Turgon fece suo il consiglio di Húrin e Huor e diede ordine che i
suoi eserciti ripiegassero verso i Passi del Sirion; e i suoi capitani, Ecthe-
lion e Glorfindel, ne difendevano i fianchi a destra e a sinistra così che
nessuno dei nemici potesse aggirarli, giacché l'unica strada in quella regio-
ne era angusta e passava lungo la riva occidentale del crescente rivo del
Sirion. Ma gli Uomini del Dor-lómin fecero da retroguardia, come voleva-
no Húrin e Huor: essi, infatti, non desideravano in cuor loro abbandonare
le Terre Settentrionali e, se non potevano recuperare le proprie dimore,
avrebbero resistito sino alla fine. Così avvenne che Turgon si aprì la strada
verso sud finché, sempre protetto dalle forze di Húrin e Huor, si mise in
salvo scendendo lungo il Sirion; scomparve tra i monti e si celò agli occhi
di Morgoth. I fratelli, però, raccolsero attorno a loro quanti restavano degli
Uomini della Casa di Hador e, arretrando passo dopo passo, giunsero al di
là della Palude di Serech, avendo davanti a loro il rivo di Rivil. Quivi si
fermarono senza più cedere.
Fu allora che tutti gli eserciti di Angband mossero a schiere contro di lo-
ro e con i loro morti formarono un ponte e accerchiarono i superstiti dello
Hithlum come una marea che cresce attorno a uno scoglio. Lì, mentre il
sole calava a ovest e le ombre degli Ered Wethrin si facevano più scure,
Huor cadde trafitto da una freccia avvelenata che lo raggiunse a un occhio,
e tutti i prodi di Hador furono uccisi intorno a lui formando pile di corpi
senza vita. Gli Orchi tagliarono loro le teste e le ammucchiarono come un
tumulo d'oro nel tramonto.
Ultimo superstite rimase Húrin, il quale gettò lo scudo e afferrò un'ascia
di un capitano degli Orchi e la brandì con entrambe le mani. Si cantava che
l'arma fumasse del sangue nero delle guardie troll di Gothmog finché que-
sta tutta si dissolse e, ogniqualvolta Húrin menava un colpo, gridava: «Au-
re entuluva! Il giorno risorgerà!». Settanta volte lanciò quel grido; ma lo
presero vivo per ordine di Morgoth che pensava di fargli così più male che
se lo avesse fatto uccidere. Allora gli Orchi afferrarono Húrin con le mani
benché egli ne falciasse le braccia; ma di continuo altri ne sopraggiunge-
vano, finché Húrin non cadde sepolto da tutti loro. Allora Gothmog lo legò
e, schernendolo, lo trascinò ad Angband.
Così terminò la Nirnaeth Arnoediad, mentre il sole tramontava di là dal
mare. La notte calò nello Hithlum e dall'Occidente irruppe un vento di
tempesta.
Grande fu il trionfo di Morgoth, sebbene non tutti i suoi malefici propo-
siti fossero stati ancora attuati. Un pensiero lo ossessionava profondamente
e gli rovinava la vittoria: Turgon era sfuggito alla sua rete e di tutti i suoi
nemici era quello che più desiderava catturare e distruggere in quanto Tur-
gon, della potente Casa di Fingolfin, era adesso, a pieno diritto, Re di tutti i
Noldor; e Morgoth temeva e odiava la Casa di Fingolfin perché lo avevano
disprezzato a Valinor e godevano dell'amicizia di Ulmo, suo nemico; e a
causa delle ferite che Fingolfin gli aveva inferto in battaglia. Ma più di
tutti temeva Turgon perché in tempi antichi a Valinor l'occhio di questi
l'aveva investito della sua luce e, ogniqualvolta gli si accostava, un'ombra
nera gli scendeva nell'animo, preannuncio che, in un tempo ancora nasco-
sto nel destino, da Turgon sarebbe venuta la sua rovina.
CAPITOLO III
Ora, per ordine di Morgoth, gli Orchi, con grande fatica, raccolsero tutti
i corpi senza vita dei loro nemici e, accumulandone equipaggiamenti e
armi, eressero nel cuore della piana dell'Anfauglith un enorme tumulo che
era come una collina visibile di lontano. Haudh-en-Ndengin, così la chia-
marono gli Elfi. Ma l'erba vi crebbe alta e verde, ricoprendo di erba la col-
lina, unica in tutto quel deserto; e nessuno dei servi di Morgoth calpestò in
seguito la terra sotto la quale le spade degli Eldar e degli Edain si sgretola-
vano per la ruggine. Il reame di Fingon non c'era più e i Figli di Fëanor
vagavano come foglie al vento. Nessuno degli Uomini della Casa di Hador
aveva fatto ritorno nello Hithlum, né giunsero notizie della battaglia e del
destino dei signori. Ma Morgoth inviò colà gli Uomini che erano sotto il
suo dominio, gli scuri Esterling; li recluse in quella landa e proibì loro di
uscirne. Questo è tutto quanto Morgoth diede loro delle ricche ricompense
che aveva promesso per il tradimento di Maedhros: depredare e tormentare
vecchi, donne e bambini della gente di Hador. Quelli che degli Eldar rima-
sero nello Hithlum, tutti coloro che non fuggirono nei boschi e sulle mon-
tagne, furono portati nelle miniere di Angband e divennero suoi schiavi.
Ma gli Orchi andarono liberamente attraverso tutto il nord e premevano
sempre a sud nel Beleriand. Là restavano ancora il Doriath e Nargothrond;
ma Morgoth non dava a questi molta importanza, forse perché ben poco ne
sapeva o perché il loro momento non era ancora giunto nei suoi piani mal-
vagi. Ma il suo pensiero tornava sempre a Turgon.
Quindi Húrin fu portato al cospetto di Morgoth, perché questi sapeva,
grazie alle proprie arti e spie, che Húrin godeva dell'amicizia del Re; e
tentò d'intimidirlo con lo sguardo. Ma Húrin, pur sempre indomabile, sfidò
Morgoth, il quale pertanto lo fece incatenare e sottoporre a lente torture;
dopo un po' andò da lui e gli offrì di scegliere di andarsene libero dove
volesse, oppure di avere i poteri e il grado del massimo tra i suoi coman-
danti, a patto che rivelasse dove Turgon aveva la propria fortezza e quan-
t'altro sapeva delle intenzioni del Re. Ma Húrin il Costante se ne fece beffe
dicendo: «Cieco sei, Morgoth Bauglir, e cieco sarai sempre, poiché vedi
solo il buio. Ignori ciò che governa il cuore degli Uomini, e se lo sapessi
non potresti dirlo. Ma stolto è colui che accetta quel che Morgoth offre.
Perché ti prenderesti il premio per poi ritirare la promessa; e io avrei solo
morte se ti dicessi quel che mi chiedi».
Rise allora Morgoth e disse: «Ti capiterà di desiderare la morte da me
quale una grazia». Così portò Húrin allo Haudh-en-Nirnaeth, che era stato
appena eretto e vi stagnava sentore di morte; Morgoth mise Húrin in cima
al tumulo e gli ordinò di volgere lo sguardo a ovest, verso lo Hithlum, e di
pensare a sua moglie, a suo figlio e agli altri del suo sangue. «Perché ora
essi sono nel mio regno» disse Morgoth «e alla mia mercé».
«... Che a te manca» replicò Húrin. «Ma non arriverai da Turgon tramite
loro. Essi infatti ne ignorano i segreti.»
Allora Morgoth montò in collera e disse: «Ma posso mettere le mani su
di te e la tua maledetta casa; e sarai spezzato per mio volere, fossi tu anche
di acciaio».
E prese una lunga spada che lì stava, e la spezzò sotto gli occhi di Húrin,
che fu ferito al volto da una scheggia. Ma Húrin non batté ciglio. Allora
Morgoth, puntando il lungo braccio in direzione del Dor-lómin, maledisse
Húrin, Morwen e la loro discendenza, dicendo: «Ecco! L'ombra del mio
pensiero sarà su di loro ovunque vadano, e il mio odio li perseguiterà sino
ai limiti del mondo.»
Ma Húrin ribatté: «Parli invano, perché non puoi vederli né dominarli da
lontano: non finché conserverai quest'aspetto, e desidererai ancora di esse-
re un Re visibile sulla terra».
Al che Morgoth, volgendosi a Húrin, gli disse: «Stolto, piccolo tra gli
Uomini, i quali sono gli ultimi ad avere la parola! Hai mai visto i Valar o
misurato il potere di Manwë e Varda? Conosci la portata del loro pensiero?
O credi forse che il loro pensiero sia su di te e che da lungi possano pro-
teggerti?».
«Non lo so» rispose Húrin. «Ma potrebbe essere, se lo volessero, giac-
ché il Re Antico non sarà detronizzato finché durerà Arda».
«Sei tu che lo dici» disse Morgoth. «Sono io il Re Antico: Melkor, pri-
mo e più possente di tutti i Valar, che era prima del mondo e che l'ha crea-
to. L'ombra del mio disegno si stende su Arda, e tutto quanto è in essa len-
tamente e sicuramente si piega alla mia volontà. Ma su tutti coloro che tu
ami il mio pensiero graverà come una nube del Destino e li getterà nella
tenebra e nella disperazione. Ovunque andranno, sarà male. Ogniqualvolta
parleranno, le loro parole saranno foriere di cattivo consiglio. Qualsiasi
cosa facciano, si rivolterà contro di loro. Moriranno in disperazione, male-
dicendo sia la vita che la morte.»
Húrin però rispose: «Dimentichi forse a chi parli? Cose simili tu le hai
dette molto tempo fa ai nostri padri; ma siamo sfuggiti alla tua ombra. E
ora abbiamo contezza di te, perché abbiamo guardato i volti che hanno
visto la Luce e udito le voci di coloro che hanno parlato con Manwë. Pri-
ma di Arda tu eri, ma anche altri; e non sei stato tu a crearla. Né sei il più
possente, perché la tua forza l'hai sprecata su te stesso, e l'hai vanificata nel
tuo proprio vuoto. E ora non sei altro che uno schiavo fuggiasco dei Valar,
e la loro catena ancora t'attende».
«Hai imparato a memoria la lezione dei tuoi padroni» fece Morgoth.
«Ma è un infantile sapere che non ti sarà d'aiuto, ora che sono tutti fuggi-
ti.»
«Un'ultima cosa ti voglio dire, schiavo Morgoth,» disse Húrin «e non
viene dalla sapienza degli Eldar, ma in questo momento stesso mi è stata
posta nel cuore. Tu non sei il Signore degli Uomini, e non lo sarai anche se
tutta Arda e Menel cadranno in tua balìa. Non potrai perseguitare coloro
che ti rifiutano oltre i Cerchi del Mondo.»
«Oltre i Cerchi del Mondo non li perseguiterò» convenne Morgoth.
«Perché oltre i Cerchi del Mondo è il Nulla. Ma all'interno di essi non mi
sfuggiranno finché non entreranno nel Nulla.»
«Menti» ribatté Húrin.
«Vedrai, e dovrai ammettere che non mento» disse Morgoth. E, riportato
Húrin in Angband, lo mise su un seggio di pietra in un luogo elevato delle
Thangorodrim, dal quale poteva scorgere lontana la terra dello Hithlum
all'ovest e le contrade del Beleriand al sud. Lì fu avvinto dal potere di
Morgoth, e Morgoth standogli accanto ancora lo maledì e lo coprì del pro-
prio potere, sì che non potesse né allontanarsi da quel luogo né morire fin-
ché Morgoth non lo avesse liberato.
«Stattene qui seduto» gli disse «e guarda le contrade dove male e dispe-
razione piomberanno su coloro che tu hai consegnato nelle mie mani. Che
hai osato farti beffe di me, e hai messo in dubbio il potere di Melkor, Pa-
drone dei destini di Arda. Pertanto, con i miei occhi vedrai, e con le mie
orecchie udrai, e nulla ti sarà celato.»
CAPITOLO IV
LA PARTENZA DI TÚRIN
Tre uomini soltanto alla fine giunsero nel Brethil passando per Taur-nu-
Fuin, una mala strada; e quando Glóredhel, figlia di Hador, seppe che Hal-
dir era caduto, ne morì di dolore.
Nel Dor-lómin non giunse nessuna notizia. Rían, moglie di Huor, fuggì,
la mente sconvolta, nelle selve; fu però aiutata dagli Elfi Grigi del Mi-
thrim, e quando suo figlio, Tuor, venne al mondo, essi se ne presero cura.
Ma Rían andò allo Haudh-en-Nirnaeth, e vi giacque e vi morì.
Morwen Eledhwen rimase nello Hithlum in silenzioso dolore. Suo figlio
Túrin era appena nel nono anno di età, ed essa era nuovamente incinta.
Infelici erano i suoi giorni. Gli Esterling giunsero nella contrada in gran
numero, e trattavano crudelmente quelli di Hador, derubandoli di tutto ciò
che possedevano e riducendoli in schiavitù. Portarono via quanti nelle pa-
trie terre di Húrin erano in grado di lavorare o di servire a uno scopo, per-
sino fanciulle e fanciulli, e i vecchi li uccisero oppure li indussero a morire
di inedia. Ma non osarono mettere le mani sulla Signora del Dor-lómin né
cacciarla di casa sua, che tra loro correva voce che era pericolosa, una
strega che aveva commerci con i dèmoni bianchi. Così infatti chiamavano
gli Elfi, che odiavano ma tanto più temevano. Per tale motivo anche pa-
ventavano ed evitavano i monti, tra i quali molti degli Eldar si erano rifu-
giati, soprattutto nel sud del paese; e dopo aver saccheggiato e devastato,
gli Esterling si ritirarono verso nord. La casa di Húrin si trovava nella parte
sud-orientale del Dor-lómin, e le montagne erano vicine; anzi, il Nen La-
laith sgorgava da una sorgente all'ombra dell'Amon Darthir, sul cui crinale
era un erto passo per il quale l'audace poteva superare gli Ered Wethrin e
calare alle fonti del Glithui nel Beleriand. Ma non ne avevano contezza gli
Esterling, né ancora Morgoth, giacché tutta quella contrada, finché la casa
di Fingolfin resse, era al sicuro da lui e nessuno dei suoi servi ancora vi si
era spinto. Morgoth confidava che gli Ered Wethrin fossero una muraglia
insuperabile, sia per chi fuggisse dal nord che per chi volesse assalire dal
sud, e in effetti non vi erano altre vie, per chi fosse privo di ali, tra la Se-
rech e il remoto Occidente dove il Dor-lómin confinava col Nevrast.
Accadde così che, dopo le prime incursioni, Morwen venisse lasciata in
pace, sebbene uomini fossero in agguato nei boschi circostanti: era perico-
loso spingersi lontano. Sotto il tetto di Morwen erano tuttora Sador il le-
gnaiolo e qualche vecchio e vecchia, nonché Túrin, che Morwen si teneva
sempre vicino, entro la cinta. Ma ben presto la dimora di Húrin decadde e,
per quanto Morwen faticasse, era povera e si sarebbe ridotta alla fame, non
fosse stato per l'aiuto che le veniva segretamente inviato da Aerin, una
parente di Húrin, che un certo Brodda, uno degli Esterling, aveva costretto
con la forza a diventare sua moglie: amara era l'elemosina per Morwen,
che però accettava l'aiuto per amore di Túrin e del nascituro, e poiché, co-
me diceva, era del suo che le tornava. Infatti quel Brodda si era impadroni-
to della gente, dei beni e del bestiame delle terre di Húrin, portandoli nelle
proprie dimore. Era un uomo coraggioso ma tenuto in poco conto dai suoi
prima che venissero nello Hithlum; ragion per cui, bramoso di ricchezza,
era pronto a mettere le mani su terre che altri del suo stampo sdegnavano.
Morwen l'aveva vista una volta, quand'era giunto a cavallo dalle sue parti
durante una scorreria. Ma poi era stato colto da grande paura: aveva avuto
l'impressione di scorgere gli occhi implacabili di un demone bianco, ed era
caduto in preda di mortale terrore all'idea che gliene venisse qualche male;
né aveva messo a sacco la casa di Morwen e neppure scoperto Túrin, al-
trimenti la vita dell'erede del vero signore sarebbe stata di breve durata.
Brodda ridusse in schiavitù le Teste di Paglia, come chiamava la gente
di Hador, e li mise a costruire un'aula di legno nella contrada a nord della
casa di Húrin; e i suoi schiavi erano ammassati come bestie in un recinto,
ma mal custoditi. Tra loro, ancora si trovava qualcuno non sottomesso e
pronto ad aiutare la Signora del Dor-lómin, sia pure a proprio rischio; e da
costoro in segreto giungevano a Morwen notizie del paese, sebbene foriere
di scarse speranze. Brodda però si prese Aerin come moglie, non già come
schiava, essendo poche le donne tra il suo seguito, e nessuna paragonabile
alle figlie degli Edain; ed egli sperava di crearsi una signoria in quella con-
trada, e di avere un erede che la reggesse dopo di lui.
Di ciò che era accaduto e di ciò che poteva accadere nei giorni a venire,
ben poco Morwen diceva a Túrin, il quale non osava turbarne il silenzio
con domande. Allorché i primi Esterling erano penetrati nel Dor-lómin,
aveva chiesto alla madre: «Quando tornerà mio padre per scacciare questi
brutti ladroni? Perché non viene?».
E Morwen: «Non lo so. Può darsi che sia stato ucciso oppure che sia
prigioniero, o magari che sia stato costretto a fuggire lontano, e ancora non
possa tornare passando tra i nemici che ci circondano».
«In tal caso, penso che sia morto» disse Túrin, e in presenza della madre
trattenne le lacrime. «Nessuno infatti potrebbe impedirgli di tornare ad
aiutarci, se fosse vivo.»
«Credo che nessuna delle cose che hai detto risponda al vero, figlio mi-
o» replicò Morwen.
Col passare del tempo, il cuore di Morwen si riempì di paura per il figlio
Túrin, erede del Dor-lómin e del Ladros, poiché non vedeva per lui altra
speranza che di diventare schiavo degli Esterling nel giro di pochi anni. Si
ricordò allora di quel che lei e Húrin si erano detti, e ripensò al Doriath; e
decise alla fine di mandar via Túrin in segreto, se avesse potuto, e di pre-
gare Re Thingol di dargli rifugio. E mentre meditava su come fare, udì con
chiarezza nella propria mente la voce di Húrin che le diceva: «Vattene in
frettai Non aspettarmi!». Ma la nascita del figlio che aveva in seno era
prossima, e la strada sarebbe stata difficile e perigliosa, e più questa anda-
va minore la speranza di sopravvivere. E ancora una volta il suo cuore la
ingannò con speranze immotivate; l'intimo suo pensiero le diceva che Hú-
rin non era morto, e Morwen tendeva l'orecchio per coglierne il rumore dei
passi nelle insonni veglie notturne, oppure si risvegliava persuasa di aver
udito, in cortile, il nitrito di Arroch, il suo cavallo. Inoltre, sebbene deside-
rasse che suo figlio crescesse nelle aule di altri, come era uso a quel tempo,
non era ancora disposta a umiliare il proprio orgoglio tanto da essere ospi-
tata per elemosina, sia pure da un re. Ragion per cui la voce di Húrin, o
meglio il ricordo della sua voce venne soffocato, e svolto il primo filo del
destino di Túrin.
Cominciò così il soggiorno di Túrin nel Doriath. Con lui per qualche
tempo restarono Gethron e Grithnir, i suoi accompagnatori, sebbene bra-
massero di ritornare dalla loro Signora nel Dor-lómin. Poi, età e malattia
gravarono Grithnir, che rimase al fianco di Túrin fino alla morte; Gethron
invece se ne andò, e Thingol inviò con lui una scorta che lo guidasse e
proteggesse e che recasse notizie di Thingol a Morwen. Giunsero final-
mente alla casa di Húrin, e quando Morwen seppe che Túrin era stato ono-
revolmente accolto nelle aule di Thingol, il suo dolore fu alleviato. E gli
Elfi portarono anche ricchi doni da parte di Melian e l'invito a partire per il
Doriath con gli inviati di Thingol. Melian infatti era saggia e previdente, e
in tal modo sperava di allontanare il male che andava preparandosi nel
pensiero di Morgoth. Morwen però non volle lasciare la sua casa, essendo
ancora immutato il suo cuore e forte il suo orgoglio. Inoltre, Niënor era
ancora un'infante: ragion per cui rinviò gli Elfi del Doriath con i propri
ringraziamenti, dando loro in dono le ultime piccole cose d'oro che le re-
stavano, nascondendo la propria povertà; e li pregò di riportare a Thingol
l'Elmo di Hador.
Túrin era in continua attesa del ritorno dei messaggeri di Thingol; e
quando tornarono soli, fuggì nei boschi e pianse, perché sapeva dell'invito
di Melian e aveva sperato che Morwen lo accettasse. Fu questo il secondo
dolore di Túrin.
Quando i messaggeri riportarono la risposta di Morwen, Melian fu mos-
sa a pietà, poiché le lesse nella mente; e si rese conto che il destino da lei
previsto non poteva essere facilmente scongiurato.
L'Elmo di Hador fu rimesso nelle mani di Thingol. Era fatto di grigio
acciaio con ornamenti aurei, e v'erano incise rune di vittoria: un potere era
in esso, che proteggeva chiunque lo portasse da ferita o morte, poiché la
spada che lo colpisse sarebbe andata in pezzi e il dardo ne sarebbe stato
respinto. A forgiarlo era stato Telchar, il fabbro di Nogrod, le cui opere
erano rinomate. L'elmo era munito di una visiera, a guisa di quelle che i
Nani costruivano nelle loro fucine per proteggersi gli occhi, e chi lo indos-
sava metteva paura nel cuore di chi lo vedeva, ed era invulnerabile da frec-
ce e fuoco. Sul cimiero era collocata, a sfida, un'immagine dorata della
testa di Glaurung il Drago, essendo stato l'elmo fabbricato subito dopo che
il Grande Verme era uscito dalle Porte di Morgoth. Più volte Hador, e do-
po di lui Galdor, se n'era munito in guerra; e i cuori dell'esercito dello Hi-
thlum esultavano quando lo vedevano torreggiare alto nel mezzo della bat-
taglia, e i guerrieri gridavano: «Più vale il Drago del Dor-lómin che il
Verme d'oro di Angband!».
Húrin però non portava senza sforzo l'Elmo-di-Drago, e comunque non
voleva servirsene, poiché diceva: «Preferisco mostrare ai nemici il mio
vero volto». Ciononostante, annoverava l'elmo tra i massimi retaggi della
sua Casa.
Ora, Thingol aveva, in Menegroth, profonde armerie colme di gran do-
vizia d'armi: metalli forgiati a guisa di pelli di pesce e baluginanti come
acqua alla luna; spade e asce, scudi ed elmi fabbricati da Telchar stesso o
dal suo maestro Gamil Zirak il vecchio, o da artigiani elfici ancora più
abili. Certi oggetti, infatti, li aveva ricevuti in dono, erano giunti da Vali-
nor e a fabbricarli era stato Fëanor con la sua maestria, maggiore del quale
in tutti i giorni del mondo non vi fu artigiano. Pure, Thingol accolse l'Elmo
di Hador quasi che scarso fosse il suo tesoro, e disse, cortesemente grato:
«Fiero sarebbe il capo che portasse quest'elmo, che è stato indossato dagli
antenati di Húrin».
Poi gli venne un'idea, a chiamò Túrin, e gli disse che Morwen aveva
mandato al figlio una gran cosa, il retaggio dei suoi padri. «Ecco, prendi
l'Elmo-di-Drago del Nord» gli disse «e quando suonerà l'ora portalo de-
gnamente.» Ma Túrin era ancora troppo giovane per sollevare l'elmo, né vi
fece troppo caso per via del dolore che gli attanagliava il cuore.
CAPITOLO V
Negli anni della sua infanzia nel regno di Doriath, Túrin fu sotto la tutela
di Melian, nonostante ella di rado lo vedesse. C'era però una fanciulla a
nome Nellas che viveva nei boschi; e, per ordine di Melian, essa seguiva
Túrin quando s'aggirava per la foresta, e spesso lo incontrava come per
caso. Poi giocavano insieme, o camminavano mano nella mano, giacché
egli crebbe velocemente, mentre lei non era altro che una ragazza della sua
età e lo fu nel cuore per tutti i suoi anni elfici. Da Nellas, Túrin molto ap-
prese circa le costumanze e le creature selvatiche del Doriath, ed essa gli
insegnò a parlare il Sindarin al modo dell'Antico Regno, che era più vetu-
sto e più cortese e più ricco di belle parole. Così, per un po' il suo animo fu
sollevato, finché non ripiombò sotto il peso dell'ombra, e quell'amicizia
trascorse come un mattino di primavera. Nellas infatti non andava a Mene-
groth e non amava neppure stare sotto i tetti di pietra; ragion per cui, pas-
sata che fu la fanciullezza di Túrin, e questi volse i pensieri alle imprese
degli uomini, sempre meno frequentemente la vide, e alla fine più non la
cercò. Lei tuttavia continuò a sorvegliarlo, ora però tenendosi nascosta.
Per nove anni Túrin dimorò nelle aule di Menegroth, cuore e mente
sempre protesi ai suoi, e a volte, per suo conforto, gliene giungevano noti-
zie. Thingol infatti mandava messaggeri a Morwen ogniqualvolta poteva, e
Morwen ne inviava a sua volta al figlio; così Túrin seppe che la situazione
di Morwen era migliorata e che sua sorella Niënor cresceva in bellezza, un
fiore nel grigio Nord. E Túrin crebbe in statura fino a essere alto tra gli
Uomini, e superava quella degli Elfi del Doriath, e la sua forza e il suo
ardire erano celebri nel Regno di Thingol. In quegli anni molto apprese in
fatto di antica sapienza, avidamente ascoltando le storie di giorni passati; e
si fece pensoso e parco di parole. Sovente Beleg Arcoforte veniva a Mene-
groth a cercarlo e condurlo lontano con lui, insegnandogli a conoscere i
boschi e l'arte del tiro con l'arco e, ciò che soprattutto amava, il maneggio
della spada; ma meno abile era nelle attività manuali, perché fu lento a
rendersi conto della propria forza e spesso gli capitava di guastare, con
gesto eccessivo, ciò che aveva fatto. Anche per altri versi sembrava che la
fortuna non gli fosse stata amica, sì che sovente ciò che progettava andava
di traverso e ciò che desiderava non l'otteneva; e neppure l'amicizia se la
guadagnava facilmente, poiché non era allegro e di rado rideva, e un'ombra
oscurava la sua giovinezza. Ciò non toglie che fosse amato e stimato da
coloro che lo conoscevano bene, ed era onorato quale figlio adottivo del
Re.
C'era però uno nel Doriath che per questo provava nei suoi confronti un
astio che andò aumentando con l'avvicinarsi di Túrin all'età virile: Saeros
era il suo nome. Ed era orgoglioso, e trattava con alterigia coloro che rite-
neva di condizione più bassa e meno degni di lui. Strinse amicizia con Da-
eron il menestrello, essendo anch'egli esperto nel canto; e non nutriva amo-
re per gli Uomini, e tanto meno per qualsiasi parente di Beren il Monco.
«Non è strano» diceva «che questa terra debba accogliere un altro ancora
di quella trista razza? Forse che gli altri non hanno fatto danno abbastanza
nel Doriath?» Ragion per cui guardava di traverso Túrin e ogni atto di que-
sti, dicendone tutto il male possibile; ma astute erano le sue parole, e la sua
malizia velata. Se s'imbatteva in Túrin da solo, gli parlava con alterigia
dandogli a vedere il suo disprezzo; e Túrin finì per averne abbastanza di
lui, sebbene a lungo replicasse alle male parole col silenzio, essendo Sae-
ros grande tra quelli del Doriath e un consigliere del Re. Ma il silenzio di
Túrin spiaceva a Saeros non meno delle sue parole.
Trascorsero così tre anni, durante i quali Túrin di rado venne alle aule di
Thingol: né più si curava del proprio aspetto o abbigliamento, ma scarmi-
gliati erano i suoi capelli, e la sua cotta coperta da un grigio mantello in-
sozzato dalle intemperie. Accadde però, durante la terza estate, Túrin es-
sendo in età di vent'anni, che egli, desideroso di riposo e bisognoso di la-
voro di fabbri per riparare le proprie armi, giungesse non visto una sera a
Menegroth nell'aula. Thingol non era presente: stava nel bosco verde con
Melian, cosa di cui a volte si deliziava nel pieno dell'estate. E Túrin di-
strattamente andò a un seggio, poiché era stanco e gravato di pensieri: e
per sua mala sorte si sedette a un tavolo degli anziani del regno, e proprio
al posto che di solito era di Saeros. Questi, entrato poco dopo, se ne risentì,
persuaso che Túrin l'avesse fatto per alterigia e con l'intento di sfidarlo; né
placata fu la sua ira dalla constatazione che Túrin non veniva rimproverato
da quanti vi sedevano, ma anzi era il benvenuto tra loro.
Per un po' dunque Saeros si finse dello stesso umore, e si sedette di fron-
te a Túrin, dall'altra parte del tavolo.
«Di rado accade che il custode delle marche ci degni della sua compa-
gnia» disse «e io sono ben lieto di cedergli il mio solito posto per la gioia
di conversare con lui.»
Ma Túrin, che stava conversando con Mablung il Cacciatore, replicò so-
lamente con un secco: «Grazie».
Saeros allora lo incalzò con le domande, chiedendogli notizie riguardo
agli avvenimenti alle frontiere e alle sue imprese nelle selve; ma, sebbene
belle fossero le parole, impossibile non accorgersi del suo tono di scherno.
E Túrin ne fu infastidito, e si guardò attorno e conobbe l'amarezza dell'esi-
lio; e, pur tra le luci e le risa delle aule elfiche, il suo pensiero corse a Be-
leg e alla vita che conducevano nei boschi, e ben più in là ancora, a Mor-
wen nel Dor-lómin e alla casa di suo padre; ed egli si accigliò, poiché bui
erano i suoi pensieri, e non diede risposta a Saeros. Al che, persuaso che a
lui fosse diretto quell'aggrottar di ciglia, Saeros più non trattenne la propria
collera ma tirò fuori un pettine d'oro e, gettandolo sul tavolo davanti a Tú-
rin, gli disse: «Indubbiamente, Uomo dello Hithlum, sei venuto di fretta a
questo tavolo, e ti si può scusare per il tuo mantello sdrucito: ma non è
necessario che il capo tu lo tenga incolto come un cespuglio di rovi. E for-
se, se le tue orecchie non fossero coperte, udresti meglio ciò che ti si dice».
Nulla disse Túrin, limitandosi a fissare Saeros, ma nelle scure pupille vi
fu un guizzo. Saeros però non diede peso all'avvertimento, e restituì lo
sguardo con disprezzo dicendo, sì che tutti lo udissero: «Se gli Uomini
dello Hithlum sono così selvatici e villosi, come saranno le donne di quel
paese? Se ne vanno forse come cerve, vestite solo del loro pelo?».
Túrin allora afferrò una coppa e la scagliò in faccia a Saeros che cadde
all'indietro malamente ferito; e Túrin sguainò la spada, e gli sarebbe piom-
bato sopra se non l'avesse trattenuto Mablung. Poi Saeros levandosi e spu-
tando sangue sul tavolo farfugliò con il labbro spaccato: «Fino a quando
terremo tra noi questo selvaggio dei boschi? Chi è che ha qui governo? La
legge del Re è spietata con coloro che attentano ai suoi fidi nell'aula; e per
coloro che sguainano spade, la messa al bando è la minore delle punizioni.
Fuori dell'aula, se vuoi, ti posso rispondere, selvaggio!».
Ma quando Túrin vide il sangue sul tavolo, la sua collera svanì; e, libera-
tosi dalla stretta di Mablung, senza una parola lasciò l'aula.
Disse allora Mablung a Saeros: «Che cos'è che ti turba questa sera? Di
quel che è accaduto, la colpa è tua, e può darsi che la legge del Re ritenga
che un labbro spaccato sia una giusta replica alla tua provocazione».
«Se quel cucciolo ha lagnanze, le sottoponga al giudizio del Re» replicò
Saeros. «Ma sguainare la spada qui dentro non è giustificato da niente di
simile. Fuori dell'aula, se il selvaggio tornasse a sguainarla, lo ammazze-
rò.»
«Questo mi sembra meno certo,» osservò Mablung «ma chiunque resti
ucciso sarà una mala azione, adeguata più ad Angband che al Doriath, e
sarebbe fonte di altro male ancora. Invero ritengo che un'ombra del Nord
sia giunta a sfiorarci questa sera. Sta' attento, Saeros, di non fare, nel tuo
orgoglio, la volontà di Morgoth, e ricordati che appartieni agli Eldar.»
«Non lo dimentico,» disse Saeros; ma non represse la sua ira e, nel corso
della notte, crebbe il suo rancore a lenire la ferita.
Il mattino, allorché Túrin lasciò Menegroth per far ritorno alle marche
settentrionali, Saeros gli tese un'imboscata, piombandogli addosso dal na-
scondiglio con la spada sguainata e lo scudo imbracciato. Túrin però, av-
vezzo a star sul chi vive nelle selve, lo scorse con la coda dell'occhio e,
balzato di fianco, sguainò velocemente la spada e affrontò l'avversario.
«Morwen!» gridò «ecco, adesso il tuo schernitore pagherà per la sua bef-
fa!» E infranse lo scudo di Saeros, e poi duellarono con lesti colpi di lama.
Túrin però era cresciuto a lungo a dura scuola, ed era divenuto agile come
qualsiasi Elfo, ma più forte. Ben presto ebbe la meglio e, ferito Saeros al
braccio che reggeva la spada, lo ebbe alla propria mercé. Piantò allora il
piede sull'arma che Saeros aveva lasciato cadere. «Saeros,» gli disse «c'è
una lunga corsa che ti aspetta, e le vesti ti sarebbero d'impiccio; il pelo ti
basterà.» E gettatolo immediatamente a terra, lo denudò, e Saeros avvertì
la grande forza di Túrin e ne fu spaventato. Túrin però lo fece rialzare e
quindi: «Corri, corri, schernitore di donne!» gridò. «Corri! E, a meno che
tu non vada veloce come un cervo, ti pungolerò da dietro.»
E allora infilò la punta della spada nella natica di Saeros; e questi corse
nella selva, invocando pazzamente aiuto; ma Túrin lo inseguiva come un
cane, e ovunque corresse o scartasse, sempre la sua spada gli stava alle reni
a spronarlo.
Le grida di Saeros attrassero molti altri, e costoro si misero all'insegui-
mento, ma solo i più veloci potevano tenere il passo con i corridori. In te-
sta a tutti era Mablung, ed era turbato poiché, se la provocazione gli era
sembrata brutta cosa, «la perfidia che si sveglia al mattino farà la gioia di
Morgoth questa sera»; ed era inoltre ritenuto offensivo mettere alla berlina
uno del popolo degli Elfi, di propria iniziativa, senza che la questione fosse
stata portata in giudizio. Nessuno in quel momento sapeva che Túrin era
stato aggredito da Saeros con l'intento di ucciderlo.
«Ferma, ferma, Túrin!» gridava Mablung. «È da Orchi dei boschi, quel
che fai!»
Ma Túrin replicò: «Sì, un'azione da Orchi nei boschi che risponde a pa-
role da Orchi nell'aula!». E tornò a balzare all'inseguimento di Saeros, il
quale, disperando in un qualsiasi aiuto e vedendosi la morte alle calcagna,
continuò a correre ciecamente, finché giunse d'un tratto a uno strapiombo
là dove un affluente dell'Esgalduin scorreva in un profondo crepaccio tra
alte rocce, ed era troppo ampio persino per un cervo. Pure Saeros, in preda
al terrore, rischiò il balzo; ma il piede gli mancò sulla riva opposta, e cadde
all'indietro con un grido e si sfracellò su un grande masso nell'acqua. Così
terminò la sua vita nel Doriath; e a lungo Mandos l'avrebbe trattenuto.
Túrin stette a guardare il corpo che giaceva nell'acqua, e si disse: «Pove-
ro stolto! Da qui l'avrei lasciato tornare a Menegroth. Ecco che adesso mi
ha caricato di una colpa immeritata». E si volse e fissò cupo Mablung e i
suoi compagni, che l'avevano raggiunto e gli stavano accanto sull'orlo. E
dopo un silenzio Mablung disse: «Ahimè! Ora però torna con noi, Túrin,
poiché spetta al Re giudicare questi fatti».
Túrin però: «Se il Re fosse giusto,» disse «mi giudicherebbe innocente.
Ma non era costui uno dei suoi consiglieri? E perché un re giusto dovrebbe
scegliersi come amico un cuore perfido? Abiuro la sua terra e il suo giudi-
zio».
«Parole sconsiderate, le tue» ribatté Mablung, sebbene in cuor suo pro-
vasse pietà per Túrin. «Non devi diventare un rinnegato. Ti invito a tornare
con me come amico. E qui ci sono altri testimoni. Quando il Re saprà la
verità, potrai sperare nel suo perdono.»
Túrin però era stanco delle aule degli Elfi e temeva di essere incarcerato;
e disse a Mablung: «Respingo il tuo invito. Per nessuna ragione implorerò
il perdono di Re Thingol; e me ne andrò dove la sua condanna non possa
raggiungermi. Hai due sole scelte: lasciarmi andare libero o uccidermi, se
questo è conforme alla vostra legge. Perché siete troppo pochi per pren-
dermi vivo».
Quelli gli lessero negli occhi che diceva il vero e lo lasciarono andare,
anche perché Mablung disse: «Una morte è abbastanza».
«Non l'ho voluta io, ma non me ne dolgo» replicò Túrin. «Che Mandos
lo giudichi equamente; e se mai ritorni alle terre dov'è vissuto, che si di-
mostri più saggio. Addio!»
«Vattene libero,» disse Mablung «dato che questo è il tuo desiderio. Ma
dire bene sarebbe vano se te ne andassi così. Un'ombra è sopra di te. E se
dovessimo incontrarci di nuovo, mi auguro che non sia più scura di oggi».
Túrin non rispose, ma li lasciò e se ne andò di fretta, nessuno sapeva do-
ve.
Si dice che, non avendo Túrin fatto ritorno alle marche settentrionali del
Doriath, e poiché non se ne avevano notizie, Beleg Arcoforte si recò di
persona a Menegroth per cercarlo; e con cuore pesante accolse la nuova
delle gesta e della fuga di Túrin. Poco dopo, Thingol e Melian rientrarono
nelle loro aule, dato che l'estate era sul morire; e quando al Re fu riportato
l'accaduto, disse:
«Questo è un affare serio e voglio sentirne l'intero resoconto. Sebbene
Saeros, mio consigliere, sia stato ucciso, e Túrin, il mio figlioccio, sia fug-
gito, domani mi siederò sul seggio del giudizio, e ascolterò tutti di nuovo
nel giusto ordine, prima di pronunciarmi.»
Il giorno seguente il Re si sedette in trono nella sua corte e intorno a lui
erano tutti i signori e consiglieri del Doriath.
Allora molti testimoni furono ascoltati e tra questi Mablung parlò più
chiaro di tutti e, non appena ebbe riferito della disputa al tavolo, sembrò al
Re che il cuore di Mablung pendesse per Túrin.
«Parli da amico di Túrin figlio di Húrin?» disse Thingol.
«Lo ero, ma ho amato la verità di più e più a lungo» rispose Mablung.
«Ascoltami sino in fondo, signore!»
Ogni cosa fu allora riferita e soppesata, comprese le parole di addio di
Túrin; e alla fine Thingol fece udire un sospiro e guardò coloro che sede-
vano davanti a lui; poi disse:
«Ahimè, vedo un'ombra sui vostri volti. Come mai si è intrufolata nel
mio regno? La cattiveria è all'opera qui. Ritenevo Saeros fedele e saggio;
ma se fosse in vita, assaggerebbe la mia collera, perché mala cosa era la
sua provocazione, e lo ritengo responsabile di tutto quanto è accaduto nel-
l'aula. Per questo, Túrin ha il mio perdono. Ma l'aver coperto Saeros di
vergogna e averlo aizzato a morte sono stati torti maggiori dell'offesa, e su
questi fatti non posso transigere. Essi rivelano un cuore duro e altero». Poi
Thingol restò a lungo silenzioso, e finalmente riprese a parlare con tono
triste: «Costui è un ingrato figlio adottivo e un Uomo troppo superbo per la
sua condizione. Come potrei io dare asilo a chi spregia me e la mia legge,
o perdonare chi non vuole pentirsi? Ragion per cui bandirò Túrin figlio di
Húrin dal regno del Doriath. Se cercasse di entrarvi, sia tradotto in giudizio
al mio cospetto; e, finché non si prostri ai miei piedi chiedendo la grazia,
non sarà più mio figlio. Se qualcuno ritiene che questi racconti non siano
veritieri, che parli ora!».
Si fece silenzio nella sala, e Thingol levò la mano a pronunciare la sen-
tenza, ma proprio in quella entrò correndo Beleg e gridò: «Signore, posso
ancora parlare?».
«Giungi in ritardo» rispose Thingol. «Non sei stato forse convocato in-
sieme a tutti gli altri?»
«Vero, signore,» replicò Beleg «ma ho perso tempo a cercare qualcuno
che conosco, e adesso posso addurre un testimone che andrebbe ascoltato
prima che tu pronunci la sentenza.»
«Sono stati convocati tutti coloro che avevano qualcosa da dire» ribatté
il Re. «Che cosa ha da dire, costui, che pesi più delle parole di quanti ho
già udito?»
«Lo giudicherai quando l'avrai sentito» insistette Beleg. «Concedimi
questo, se mai ho meritato la tua grazia.»
«Te lo concedo» accondiscese Thingol.
E Beleg uscì, e rientrò traendo per mano la fanciulla Nellas, colei che a-
bitava nei boschi e mai veniva a Menegroth; e Nellas era intimorita sia
dalla grande sala con le colonne e il soffitto di pietra, sia dai molti occhi
che la scrutavano. E avendola Thingol invitata a parlare, così disse: «Si-
gnore, ero appollaiata su un albero»; ma, a questo punto, per soggezione
del Re la parola venne meno e tacque.
Sorrise allora il Re e disse: «Anche altri hanno fatto lo stesso, ma non
hanno sentito il bisogno di venirmelo a dire».
«Anche altri, certo» convenne la fanciulla, incoraggiata dal suo sorriso.
«Anche Lúthien! E a lei pensavo stamani e a Beren l'Uomo.»
A questo Thingol non replicò né più sorrise, ma attese che Nellas ri-
prendesse il suo dire.
«Perché Túrin mi ha ricordato Beren» riprese finalmente lei. «Sono pa-
renti, a quanto mi dicono, ed è una parentela che può constatare chiunque
li osservi da vicino.»
A questo punto Thingol si spazientì. «Può essere» sbottò. «Ma Túrin fi-
glio di Húrin se n'è andato a mio scorno, e tu più non lo vedrai per legger-
gli in faccia la parentela. Perché adesso pronuncerò la mia sentenza.»
«Re signore!» gridò allora Nellas «sopportami e lasciami prima parlare.
Stavo sull'albero, e seguivo con lo sguardo Túrin che se ne andava; e ho
visto Saeros sbucare dalla selva con spada e scudo e gettarsi su Túrin alla
sprovvista.»
Vi fu un mormorio nella sala, e il Re levò la mano e disse: «Mi porti no-
tizie più gravi di quanto mi aspettassi. Bada bene a quel che dici, essendo
questa una corte di giustizia».
«È quel che m'ha detto Beleg» replicò Nellas «ed è appunto per questo
che ho osato venir qui: per evitare che Túrin sia ingiustamente punito. Egli
è coraggioso ma è misericordioso. Hanno duellato, signore, quei due, fin-
ché Túrin non ha privato Saeros dello scudo e della spada; ma non l'ha
ucciso. Sicché, non credo che a conti fatti ne volesse la morte. E se Saeros
è stato messo alla berlina, era perché la vergogna se la meritava.»
«Il giudizio spetta a me» le ricordò Thingol. «Ma ciò che hai detto avrà
il suo peso.» Interrogò poi minuziosamente la fanciulla; e alla fine, rivolto
a Mablung, disse: «Mi sembra strano che Túrin non t'abbia detto nulla di
tutto questo».
«Pure non l'ha fatto» rispose Mablung. «E se ne avesse parlato, diverse
sarebbero state le parole che gli ho rivolto al momento del congedo.»
«E diversa ora sarebbe la mia sentenza» disse Thingol. «Uditemi! La
colpa che si possa attribuire a Túrin io la perdono, poiché ritengo che gli
sia stato fatto torto provocandolo. E siccome, come egli stesso ha detto, ad
abusare di lui è stato uno del mio consiglio, non dovrà implorare perdono,
ma manderò a cercarlo ovunque lo si possa trovare; e lo riaccoglierò ono-
revolmente nelle mie aule.»
Ma, pronunciata che fu la sentenza, ecco Nellas scoppiare in lacrime. «E
dove lo si potrà trovare?» diceva. «Ha abbandonato la nostra terra, e il
mondo è vasto.»
«Lo si cercherà» assicurò Thingol.
Poi si levò, e Beleg condusse Nellas via da Menegroth, e le disse: «Non
piangere, che se Túrin è vivo o vaga lontano, io lo ritroverò, anche se tutti
gli altri dovessero fallire».
Il giorno successivo Beleg venne al cospetto di Thingol e Melian, e il Re
gli disse: «Consigliami, Beleg, poiché sono afflitto. Ho preso il figlio di
Húrin per mio figlio, e tale egli resterà, a meno che Húrin stesso non ritor-
ni dalle ombre per reclamare il suo. Non vorrei che si dica che Túrin è sta-
to cacciato ingiustamente nelle selve, e ben volentieri lo rivedrei, perché
molto lo amo».
«Lasciami andare signore» disse Beleg «e per tuo conto, se potrò, ripare-
rò a questo male. Un uomo di tal valore non dovrebbe correre via verso il
nulla. Il Doriath ha bisogno di lui e ce ne sarà ancor più bisogno in futuro.
Inoltre, io gli voglio molto bene.»
Allora Thingol disse a Beleg: «Ora spero davvero che tu lo ritrovi! Vai
con la mia benedizione e, se lo trovi, proteggilo e guidalo come puoi. Be-
leg Cúthalion, per lungo tempo sei stato in prima linea a difesa del Doriath
e per le molte gesta di valore e saggezza ti sei guadagnato la mia ricono-
scenza. Tra tutte le tue azioni la più grande sarà quella di ritrovare Túrin. E
al momento della tua partenza chiedimi pure qualunque cosa in cambio e
non te la negherò».
Rispose Beleg: «Ti chiedo allora una spada di valore, giacché gli Orchi
sono troppi e troppo vicini ora per il solo arco, e la lama che posseggo non
può nulla contro la loro armatura».
«Scegli fra tutto quello che ho» disse Thingol «ad eccezione della mia
Aranrúth.»
Allora Beleg scelse Anglachel; era una spada di grande fama e si chia-
mava così perché era fatta di ferro caduto dal cielo come una stella fulgen-
te; poteva fendere tutto il ferro cavato dalla terra. Solamente un'altra spada
nella Terra di Mezzo le era pari ma non entrerà in questo racconto sebbene
provenisse dalla stessa roccia e fosse fatta dallo stesso fabbro: questi era
Eöl, l'Elfo Scuro, che prese in moglie Aredhel la sorella di Turgon.
Questi diede a Thingol la Anglachel come compenso, ma lo fece contro-
voglia, perché lo lasciasse abitare a Nan Elmoth; ma l'altra spada, Angui-
rel, sua pari, la tenne per sé finché non gli fu rubata da Maeglin, suo figlio.
Quando Thingol volse l'elsa di Anglachel verso Beleg, Melian guardò la
lama e disse:
«C'è malizia in questa spada. Il cuore del fabbro che la forgiò ancora vi
abita e quel cuore era scuro. Non amerà la mano di colui che servirà, né
rimarrà con te a lungo.»
«Finché potrò, comunque, la userò» disse Beleg; e, ringraziando il Re,
prese la spada e partì. E in lungo e in largo per il Beleriand invano cercò
notizie di Túrin, affrontando molti pericoli; e trascorse quell'inverno e la
primavera successiva.
CAPITOLO VI
Non molto dopo, come Beleg aveva temuto, gli Orchi varcarono il Bri-
thiach e, avendo urtato contro la resistenza di tutte le forze che poterono
essere radunate da Handir del Brethil, deviarono a sud oltre i Guadi del
Teiglin, in cerca di bottino. Molti degli Uomini dei Boschi avevano accet-
tato il consiglio di Beleg, mandando donne e figli a chiedere asilo nel Bre-
thil; e le une e gli altri con la scorta la scamparono, superando i Guadi in
tempo: ma gli armati che si mossero più tardi furono affrontati dagli Orchi,
ed ebbero la peggio. Pochi s'aprirono un varco e pervennero nel Brethil,
molti invece furono uccisi o catturati; e gli Orchi proseguirono verso le
loro fattorie, che saccheggiarono e diedero alle fiamme. Poi d'un subito
volsero a occidente, cercando la strada, poiché ormai desideravano tornare
al più presto a nord con il bottino e i prigionieri.
Ma gli esploratori dei fuorilegge ben presto ne ebbero contezza; e, seb-
bene poco si curassero dei prigionieri, il sacco subito dagli Uomini dei
Boschi fece crescere la loro bramosia. A Túrin sembrò pericoloso rivelarsi
agli Orchi prima che se ne conoscesse il numero; ma i fuorilegge non vol-
lero dargli retta, che molte erano le cose di cui avevano penuria nelle selve,
e già alcuni di essi si rammaricavano di averlo per capo. Ragion per cui,
elettosi a solo compagno un certo Orleg, Túrin uscì a spiare gli Orchi; e,
affidato il comando della banda ad Andróg, lo incaricò di stare rintanato e
nascosto mentre loro due erano assenti.
Ora, la schiera degli Orchi era ben maggiore del gruppo dei fuorilegge,
ma i primi si trovavano in contrade nelle quali di rado osavano metter pie-
de, e sapevano anche che oltre la strada si stendeva Talath Dirnen, la Piana
Sorvegliata, su cui vigilavano esploratori e spie di Nargothrond; e, timoro-
si del pericolo, andavano cauti, e i loro esploratori strisciavano tra gli albe-
ri d'ambo i lati della direttrice di marcia. Fu così che Túrin e Orleg vennero
scoperti, tre esploratori essendo incappati in loro che stavano celati; e,
sebbene due ne spacciassero, il terzo se la svignò e correndo gridava Go-
lug! Golug! Era questo un nome con cui quelli designavano i Noldor; e
d'un subito la foresta si riempì di Orchi che, in silenzio e in caccia, la bat-
tevano in lungo e in largo. Túrin allora, avvedutosi che c'erano ben poche
speranze di scamparla, pensò per lo meno d'ingannarli e di allontanarli dal
nascondiglio dei suoi uomini; e, resosi conto, dal grido di Golug! che quel-
li temevano le spie di Nargothrond, con Orleg fuggì verso ovest. Subito
iniziò l'inseguimento finché, per quanto giri e deviazioni tentassero, furono
sospinti fuori dalla foresta; e qui furono avvistati e, mentre tentavano di
attraversare la strada, Orleg fu abbattuto da molte frecce. Túrin invece fu
salvato dalla sua elfica cotta, e solo fuggì nelle selve al di là; e grazie alla
sua velocità e abilità, seminò gli avversari, penetrando a lungo in contrade
che gli erano ignote. Gli Orchi allora, temendo che gli Elfi del Nargo-
thrond intervenissero, sgozzarono i loro prigionieri e in fretta ripiegarono
verso nord.
Ora, passati che furono tre giorni, e ancora Túrin e Orleg non erano
riapparsi, alcuni dei fuorilegge espressero il desiderio di dipartirsi dalla
grotta in cui stavano nascosti. Ma Andróg fu di parere contrario. E nel pie-
no della discussione, ecco d'un tratto una figura grigia piantarsi loro dinan-
zi. Beleg li aveva finalmente trovati. Avanzò disarmato, esibendo i palmi
delle mani; i fuorilegge però balzarono in piedi impauriti, e Andróg, scivo-
latogli alle spalle, gli lanciò un cappio e lo strinse, sì da imprigionarne le
braccia.
«Se non desiderate ospiti, dovreste vigilare meglio» disse Beleg. «Per-
ché mi accogliete a questo modo? Vengo da amico e cerco soltanto un a-
mico. Neithan, così ho udito che lo chiamate.»
«Non è qui» rispose Ulrad. «Ma, a meno che tu non ci abbia spiato a
lungo, come fai a sapere quel nome?»
«A lungo ci ha spiati» intervenne Andróg. «È lui l'ombra che ci tallona-
va. Ma forse riusciremo a conoscerne i propositi veri.»
Sul che ordinò agli uomini di legare Beleg a un albero accanto alla grot-
ta; e quando fu ben bene avvinto mani e piedi, lo interrogarono, ma a tutte
le loro domande una sola era la risposta data da Beleg: «Sono stato amico
di quel Neithan dacché l'ho incontrato per la prima volta nei boschi, ed era
allora solo un ragazzo. A indurmi a cercarlo è null'altro che affetto, e gli
porto buone notizie».
«Uccidiamolo, così ci sbarazzeremo dello spione» propose Andróg in-
collerito. E sogguardò il grande arco di Beleg e lo bramò, essendo lui un
arciere. Ma altri di più buon cuore respinsero la proposta e Algund gli dis-
se: «Può darsi che il capo ritorni, e allora ti pentiresti se venisse a sapere
che l'hai derubato insieme di un amico e di buone notizie».
«Io non credo al racconto di quest'Elfo» insistette Andróg. «Questi è una
spia del Re del Doriath. Ma, se invero è latore di notizie, ebbene, le dica a
noi: e noi giudicheremo se sono sufficienti per lasciarlo in vita.»
«Aspetterò il vostro capo» disse Beleg.
«Te ne starai lì finché ti deciderai a parlare» ribatté Andróg.
E così, su istigazione di Andróg, lasciarono Beleg legato all'albero senza
cibo né acqua, mentre loro lì accanto mangiavano e bevevano; ma Beleg
non disse loro null'altro. Passati così due giorni e due notti, i fuorilegge
s'innervosirono e impaurirono, e non vedevano l'ora di andarsene; e la
maggior parte di essi era adesso pronta a uccidere l'Elfo. Al calar della
notte, eccoli tutti raccolti intorno a lui, e Ulrad venne con un tizzone acce-
so all'imboccatura della grotta. Ma proprio in quella Túrin ritornò. Giun-
gendo silenzioso com'era sua abitudine, stette nell'ombra dietro la cerchia
degli uomini e, alla luce del tizzone, scorse il volto emaciato di Beleg.
Allora fu colpito come da una freccia, e come per un improvviso disgelo
lacrime a lungo trattenute gli riempirono gli occhi. Balzò fuori e corse al-
l'albero.
«Beleg! Beleg!» gridava. «Come sei giunto fin qui? E perché te ne stai
legato?» E subito tagliò i lacci che imprigionavano l'amico, e Beleg gli
cadde tra le braccia.
Quando Túrin udì ciò che gli uomini avevano da dire, ne fu indignato e
addolorato; dapprima però prestò attenzione solo a Beleg. E, mentre lo
accudiva con tutta l'arte in suo possesso, ripensava alla sua vita nelle selve,
e la sua collera si rivolse contro se stesso. Infatti, sovente stranieri erano
stati uccisi se sorpresi accanto alle tane dei fuorilegge o da questi attesi al
varco, né lui l'aveva impedito; e sovente egli stesso aveva parlato male di
Re Thingol e degli Elfi Grigi, sicché anche sua era la colpa se venivano
trattati come nemici. E quindi fu con amarezza che disse agli altri: «Siete
stati crudeli, e crudeli senza necessità. Mai finora abbiamo tormentato un
prigioniero; ma a indurci a una simile opera da Orchi è stata la vita che
conduciamo. Senza legge e infruttuose sono state le nostre gesta, poiché
abbiamo servito solo noi stessi, fomentando l'odio nei nostri cuori».
Ribatté tuttavia Andróg: «E chi dovremmo servire se non noi stessi? Chi
dovremmo amare, visto che tutti ci odiano?».
«Almeno le mie mani non saranno più levate contro Elfi o Uomini» dis-
se Túrin. «Angband ha sufficienti servi. E, se altri non vogliono pronuncia-
re il mio stesso voto, me ne andrò da solo.»
Allora Beleg riaprì gli occhi e sollevò il capo. «Non da solo!» disse. «O-
ra finalmente ti posso riferire le notizie di cui sono latore. Non sei un fuo-
rilegge, e Neithan non è nome che ti si addica. Sei stato assolto dalle impu-
tazioni che ti erano state mosse. Un anno intero ti abbiamo cercato, per
riportarti all'onore e al servizio del Re. Per troppo tempo l'Elmo-di-Drago
è stato assente.»
Túrin però non mostrò gioia alla notizia, e stette a lungo in silenzio, che
alle parole di Beleg un'ombra gli era calata addosso. «Lasciamo passare
questa notte» disse alla fine. «Poi deciderò. Ma comunque vada, domani
dovremo abbandonare questa tana, perché non tutti quelli che ci cercano ci
vogliono bene.»
«Anzi, nessuno» borbottò Andróg, guardando di sbieco Beleg.
DI MÎM IL NANO
Trascorsero la notte nella sala, poco dormendo per via dei gemiti di Mîm
e di Ibun, l'altro suo figlio. Quando i pianti cessarono, non poterono dirlo;
ma, nell'ora in cui finalmente si destarono, i Nani erano partiti e la camera
chiusa con una pietra. Il tempo s'era rimesso al bello, e al sole del mattino i
fuorilegge si lavarono alla pozza e prepararono il poco cibo che avevano
con loro; e mentre mangiavano riapparve Mîm.
Questi s'inchinò a Túrin e disse: «Se n'è andato, e tutto è compiuto. Ora
giace con i suoi padri. Dedichiamoci alla vita che ci resta, per quanto brevi
possano essere i giorni che abbiamo davanti. Ti piace la casa di Mîm? Il
riscatto è stato pagato e accettato?»
«Sì» confermò Túrin.
«Allora è tutto tuo, puoi disporre la tua dimora qui come vuoi, con que-
sta sola limitazione: che la camera che è chiusa nessuno la riapra salvo
me».
«Ti abbiamo sentito» rispose Túrin. «Quanto alla nostra vita qui, siamo
al sicuro, o almeno così sembra. Ma ci occorrono cibo e altre cose ancora.
Come faremo a uscire e, più ancora, come faremo a rientrare?»
Inquieti, udirono Mîm ridacchiare chioccio. «Temete forse di aver segui-
to un ragno nel centro della sua tela?» domandò il Nano. «Mîm non man-
gia uomini! E un ragno ben difficilmente potrebbe vedersela con trenta
vespe alla volta. Guardate, voi siete armati, e io sono qui a mani nude. No,
dobbiamo dividere, voi e io: casa, cibo e fuoco, e magari altri vantaggi
ancora. La casa penso che la custodirete e ne terrete il segreto per il vostro
stesso bene, anche sapendo come fare a entrarvi e uscirne. Col tempo lo
imparerete, ma intanto dovrà guidarvi Mîm o Ibun suo figlio.»
Ne convenne Túrin e ringraziò Mîm, e gli uomini si mostrarono per lo
più soddisfatti perché, al sole del mattino, mentre ancora durava l'estate,
quello sembrava un luogo ideale. Il solo Andróg era scontento. «Più presto
impareremo a entrare e uscire, e meglio sarà» disse. «Mai prima abbiamo
avuto un prigioniero che potesse condizionare le nostre mosse.»
Quel giorno si riposarono, pulendo le armi e rammendando i panni; ave-
vano infatti cibo ancora per un giorno o due, e Mîm ne aggiunse dell'altro.
Prestò loro tre grandi paioli e di che accendere; e se ne uscì con un sacco.
«Roba da poco» disse. «Non vale la pena rubarla. Null'altro che radici sel-
vatiche.»
Ma, cotte, queste si rivelarono buone da mangiare, di sapore simile al
pane; e i fuorilegge ne furono lieti, perché da un pezzo non assaporavano il
pane, salvo quello che riuscivano a rubare. «Gli Elfi selvaggi non le cono-
scono; gli Elfi Grigi non sanno trovarle; gli orgogliosi d'oltremare sono
troppo orgogliosi per scavare» spiegò Mîm.
«Come si chiamano?» domandò Túrin.
Mîm gli scoccò un'occhiata di traverso. «Non hanno nome, salvo che in
lingua nanica, che noi non insegniamo» rispose. «E non riveliamo agli
Uomini come si fa a trovarle, perché gli Uomini sono bramosi e spreconi,
e non cesserebbero di raccoglierle se non dopo aver dato fondo a tutte le
piante, mentre ora passano loro accanto mentre s'aggirano per le selve.
Altro da me non saprai; ma del mio bottino puoi approfittare finché parli
onestamente e né spii né rubi.» E di nuovo fece udire la sua risatina chioc-
cia. «Queste radici sono preziosissime» riprese. «Più dell'oro durante l'in-
verno di carestia, perché possono essere immagazzinate come le noci di
uno scoiattolo, e già stiamo costituendo la nostra scorta, cogliendo le pri-
me mature. Ma voi siete sciocchi, se credete che non fossi disposto a sepa-
rarmi da un piccolo carico neppure per salvarmi la vita.»
«Ho capito» disse Ulrad, che al momento della cattura di Mîm aveva
guardato nel sacco. «Eppure non volevi separartene, e le tue parole non
fanno che meravigliarmi ulteriormente.»
Mîm si volse a guardarlo rabbuiato. «Tu sei uno di quegli sciocchi che la
primavera non rimpiangerebbe se perisse d'inverno» ribatté. «Avevo dato
la mia parola, e dovevo tornare, volente o nolente, con o senza sacco, e che
un uomo senza legge e infedele la pensi come vuole! Ma a me non va di
essere separato dal mio con la forza dal malvagio, si tratti anche solo di un
laccio di scarpa. Ricordo bene che le tue mani erano quelle che mi hanno
legato, e m'hanno trattenuto sì che non potessi ancora parlare con mio fi-
glio. Sempre, quando distribuirò il pane della terra traendolo dal mio ma-
gazzino, tu ne sarai escluso, e se ne mangi, mangerai di quello dei tuoi
compagni, non perché io te l'abbia dato.»
Allora Mîm se ne andò, ma Ulrad, che aveva perso il coraggio di fronte
alla collera di questi, parlò dietro le sue spalle dicendo: «Belle parole! Ciò
non toglie che il vecchio mascalzone avesse anche altro nel sacco, di forma
simile, ma più duro e pesante. Può darsi che ci siano altre cose, nelle selve,
oltre al pane della terra, cose che gli Elfi non hanno trovato e di cui gli
Uomini non debbono sapere».
«Può essere» convenne Túrin. «E tuttavia, il Nano ha detto la verità su
un punto almeno, quando ti ha dato dello sciocco. Perché devi dire aperta-
mente ciò che pensi? Il silenzio, se le parole gentili ti restano in gola, ser-
virà meglio ai nostri scopi.»
Il giorno trascorse tranquillo, senza che nessuno dei fuorilegge mostras-
se desiderio di allontanarsi. Túrin passeggiò a lungo sul verde prato sopra
la sporgenza rocciosa, da un margine all'altro; e spinse lo sguardo a est, a
ovest e a nord, chiedendosi fin dove potesse spaziare la vista nell'aria lim-
pida. Guardò verso nord, e scorse la Foresta di Brethil che saliva verde
attorno all'Amon Obel, e a quella volta il suo sguardo era di continuo ri-
chiamato, non sapeva perché: il suo cuore infatti era attratto piuttosto dal
nord-ovest dove, una lega dopo l'altra, ai margini del cielo, gli pareva d'in-
travedere le Montagne dell'Ombra e i confini della sua patria. La sera, pe-
rò, Túrin volse lo sguardo all'occaso dove il sole scendeva rosso tra le fo-
schie delle coste lontane, e la Valle del Narog giaceva immersa nelle om-
bre intermedie.
Così cominciò la dimora di Túrin figlio di Húrin nelle aule di Mîm nella
Bar-en-Danwedh, la Casa del Riscatto.
Nei giorni che seguirono, Beleg molto si prodigò per il bene della com-
pagnia. Coloro che erano feriti o malati furono da lui curati e prontamente
guarirono, giacché a quei tempi gli Elfi Grigi erano ancora gente superiore,
possedevano un grande potere sulle vie della vita e su tutte le cose viventi;
e, sebbene fossero meno abili e sapienti degli Esiliati da Valinor, possede-
vano molte arti che non erano alla portata degli Uomini. Inoltre, Beleg
l'Arciere era tenuto in grande considerazione dalla gente del Doriath: era
forte e resistente, lungimirante e previdente e, al bisogno, valoroso in bat-
taglia, potendo contare non solo sulla sua veloce freccia, ma anche sulla
sua grande spada Anglachel. Ma l'odio crebbe sempre più nel cuore di
Mîm, che odiava tutti gli Elfi, e, come si racconta, era geloso dell'affetto
che Túrin nutriva per Beleg.
Passato l'inverno, con la primavera i fuorilegge ebbero ben presto lavoro
ben più duro da fare. La potenza di Morgoth fu mobilitata. Ma chi poteva
misurare l'ampiezza dei suoi disegni, di colui che era stato Melkor, possen-
te tra gli Ainur del Grande Canto, e adesso se ne stava, tenebroso signore,
sullo scuro trono al Nord, valutando, nella sua perfidia, tutte le notizie che
gli giungevano da spie o traditori, vedendo con gli occhi della sua mente e
compenetrando molto di più nelle azioni e nelle intenzioni dei suoi nemici,
anche più di quanto non paventasse il più prudente tra loro, a eccezione di
Melian la Regina? A lei sovente si spingeva il suo pensiero, ma ne era fru-
strato.
In quell'anno, allora, volse la sua malvagità alle terre a ovest del Sirion,
dove ancora un potere gli si opponeva. Gondolin era ancora in piedi, ma
era nascosta. Nel Doriath, lo sapeva, non poteva ancora entrare. Più in là si
trovava il Nargothrond per il quale nessuno dei suoi servi aveva ancora
scoperto la strada, persino il nome faceva loro paura. Lì la gente di Finrod
viveva in celata forza. E ben lontano dal Sud, di là dai bianchi boschi di
betulle del Nimbrethil, dalle coste di Arvernien e dalle Bocche del Sirion,
giunsero voci circa i Porti delle Navi. Lì non poteva arrivare prima di far
cadere tutto il resto.
Così ora gli Orchi scesero dal Nord in grandissimo numero. Giunsero at-
traverso l'Anach e il Dimbar fu conquistato e tutte le marche settentrionali
del Doriath ne furono infestate. Lungo l'antica strada, che passava attraver-
so la lunga gola del Sirion, superata l'isola dove un tempo si levava la Mi-
nas Tirith di Finrod, e più avanti attraverso la contrada tra il Malduin e il
Sirion e lungo i margini del Brethil giunsero fino ai Guadi del Teiglin. Di
lì la via proseguiva verso la Piana Sorvegliata; e poi ai piedi degli altipiani
controllati dall'Amon Rûdh, e giù giù dentro la valle del Narog arrivava
infine al Nargothrond. Ma gli Orchi non la percorsero per lungo tratto,
almeno per il momento, perché nelle selve dimorava adesso un terrore che
vi si celava e, sulla collina rossa, erano occhi vigilanti di cui non erano
stati avvertiti.
Quella primavera, Túrin si era rimesso in capo l'Elmo di Hador e Beleg
ne era felice. Al principio la loro compagnia contava meno di cinquanta
uomini, ma il saper vivere e cacciare nei boschi di Beleg e il valore di Tú-
rin li facevano sembrare un esercito agli occhi dei loro nemici. Gli esplora-
tori degli Orchi erano stati messi in fuga, i loro accampamenti spiati e se si
radunavano per marciare in forza in qualche luogo stretto, da dietro le roc-
ce o dall'ombra degli alberi sbucavano l'Elmo-di-Drago e i suoi uomini,
alti e fieri. Ben presto, al solo suono del corno sulle colline, i loro capitani
perdevano coraggio e gli Orchi se ne scappavano prima che una freccia
venisse scagliata o una spada fosse sguainata.
LA MORTE DI BELEG
Beleg cercò Túrin fra i morti onde dargli sepoltura; ma non riuscì a tro-
vare il suo corpo. Allora si rese conto che il figlio di Húrin era ancora vivo
ed era stato tratto ad Angband; ma rimase di necessità a Bar-en-Danwedh
finché le sue ferite non furono guarite. Con scarse speranze si dipartì cer-
cando di trovare tracce degli Orchi e le rinvenne presso i Guadi del Tei-
glin. Lì si erano divisi, alcuni passando lungo i bordi della Foresta di Bre-
thil verso il Guado di Brithiach, altri andandosene a occidente. E sembrò
ovvio a Beleg che avrebbe dovuto seguire quelli che erano andati a gran
velocità ad Angband, attraverso il Passo di Anach. Perciò marciò senza
sosta attraverso Dimbar e su per il Passo di Anach nell'Ered Gorgoroth, le
Montagne del Terrore, e così fino agli altipiani di Taur-nu-Fuin, la Foresta
sotto la Notte, una regione di terrore e oscuro incanto, del vagare e della
disperazione.
Sorpreso dal calar della notte in quella malefica terra, successe che Be-
leg scorse una piccola luce tra gli alberi e, andando verso questa, trovò un
Elfo che giaceva addormentato sotto un grande albero morto: accanto alla
testa c'era una lampada dalla quale era scivolata via la copertura. Allora
Beleg svegliò il dormiente e gli diede del lembas; poi gli chiese quale sorte
lo avesse condotto in quel terribile luogo. E questi si disse Gwindor, figlio
di Guilin.
Addolorato Beleg lo guardò, giacché Gwindor non era che l'ombra, cur-
va e impaurita, del sembiante e degli atti di un tempo quando, alla Batta-
glia delle Innumerevoli Lacrime, quel signore di Nargothrond s'era spinto
fino alle porte stesse di Angband e lì era stato catturato. Ma dei Noldor che
Morgoth catturava, pochi venivano messi a morte, a ragione della loro abi-
lità nel forgiare e ricercare metalli e gemme; e Gwindor non fu ucciso, ma
messo a lavorare nelle miniere del Nord. Questi Noldor possedevano molte
delle lampade fëanoriane, che erano dei cristalli sospesi in una reticella,
sempre risplendenti di una luce interna azzurra, meravigliosi per trovare la
strada nel buio della notte o nelle gallerie; di queste lampade essi stessi
non conoscevano il segreto. Molti degli Elfi riuscirono a trovare così la
strada per scappare dalle oscure miniere. Ma Gwindor ricevette una spada
da uno che lavorava nelle fucine e si rivoltò all'improvviso contro una del-
le guardie. Scappò, ma ci rimise una mano; e ora giaceva esausto sotto i
grandi pini della Taur-nu-Fuin.
Da Gwindor, Beleg apprese che la piccola compagnia di Orchi avanti a
loro e dalla quale si era nascosto, non aveva prigionieri e andava di gran
volata: si trattava forse di un'avanguardia che recava notizie ad Angband.
A queste nuove Beleg si disperò, giacché aveva pensato che le tracce che
aveva visto svoltare a occidente dopo i Passi del Teiglin fossero quelle di
una schiera più grande che, alla maniera degli Orchi, era andata razziando
il territorio, saccheggiando e cercando cibo e che questa potesse ora far
ritorno a Angband attraverso la «Terra Stretta», la lunga gola del Siríon,
molto più a ovest. Se fosse stato così, la sua unica speranza sarebbe stata
quella di tornare al Guado di Brithiac per poi proseguire a nord verso il Tol
Sirion. Si era ben poco soffermato su questo, quando sentirono il rumore di
una grande guarnigione che attraversava la foresta da sud. Nascosti tra i
rami di un albero, osservarono i servi di Morgoth passare: si muovevano
lentamente, carichi di bottino e prigionieri, ed erano circondati da lupi. E
videro Túrin con le mani in catene che veniva spinto avanti a frustate.
Allora Beleg gli raccontò dello scopo del suo viaggio nella Taur-nu-Fuin
e Gwindor cercò di dissuaderlo, dicendo che non avrebbe potuto far altro
che raggiungere Túrin per poi subire con lui le afflizioni che lo attendeva-
no. Ma Beleg non aveva intenzione di abbandonare Túrin e, pur disperan-
dosi, fece rinascere la speranza nel cuore di Gwindor; e insieme prosegui-
rono seguendo gli Orchi finché non giunsero fuori dalla foresta, sulle alte
pendici che scendono verso le nude dune di Anfauglith. Lì, in vista delle
cime delle Thangorodrim, gli Orchi piantarono il loro accampamento in
una piccola valle spoglia e posero tutt'attorno lupi a far da sentinella. Fece-
ro baldoria e gozzovigliarono con il loro bottino e, dopo aver tormentato i
loro prigionieri, molti di loro caddero, ubriachi, addormentati. A quel pun-
to la luce del giorno andava affievolendosi finché non fu buio pesto. Una
gran tempesta avanzava dall'occidente e un tuono rombò in lontananza,
mentre Beleg e Gwindor avanzavano strisciando verso la valletta.
Quando all'accampamento tutti furono addormentati, Beleg prese il suo
arco e, nell'oscurità, fulminò quattro dei lupi di guardia sul lato meridiona-
le, uno a uno e in silenzio. Quindi, con grandissimo rischio, penetrarono
nel campo e trovarono Túrin incatenato mani e piedi a un albero secco. I
coltelli che gli erano stati lanciati contro dai suoi tormentatori erano infitti
tutt'attorno a lui nel tronco, ma egli era incolume; e sembrava tramortito da
un innaturale stordimento o sprofondato in un sonno d'infinita stanchezza.
Allora Beleg e Gwindor tagliarono i lacci che lo tenevano legato all'albero
e trasportarono Túrin fuori dal campo. Ma era eccessivamente pesante per
trascinarlo troppo lontano e non riuscirono a portarlo più in là di un bo-
schetto di rovi, in alto sulle pendici sopra l'accampamento. Quivi lo depo-
sero al suolo; ed ecco ormai la tempesta farsi più vicina e i fulmini lam-
peggiavano sulle Thangorodrim. Beleg trasse la sua spada Anglachel e con
essa tagliò i lacci che impedivano Túrin; ma il fato era più forte quel gior-
no e volle che la lama di Eöl l'Elfo Scuro gli scivolasse mentre la maneg-
giava, ferendo Túrin al piede.
Ridestandosi in preda a un eccesso di rabbia e paura, e scorgendo uno
chino su di lui con una lama snudata in pugno, Túrin balzò in piedi con un
forte grido, credendo che gli Orchi fossero tornati a tormentarlo e, lottando
con quegli nel buio, s'impadronì di Anglachel e trafisse Beleg Cúthalion,
credendolo un avversario. Ma, quando si tirò su, scoprendosi libero e pron-
to a vender cara la pelle ai suoi immaginari nemici, ecco che su di loro si
accese accecante la luce di una saetta e, a quel chiarore, riconobbe il volto
di Beleg. Túrin restò impietrito e silenzioso al cospetto di quella morte
atroce, consapevole di ciò che aveva fatto; e così terribile era il suo volto
rischiarato dai lampi che a sprazzi illuminavano il cielo intorno a loro, che
Gwindor s'appiattì al suolo senza più osare levare lo sguardo.
Ecco però che nell'accampamento sottostante gli Orchi si svegliarono,
sia per il temporale che per il grido lanciato da Túrin, e scoprirono che
questi era fuggito; ma non si misero in cerca di lui giacché erano in preda
al terrore per il tuono che proveniva dall'occidente e credevano che fosse
stato inviato contro di loro dai Grandi Nemici di là dal Mare. Poi si levò il
vento e una furiosa pioggia cadde e torrenti si rovesciarono giù dalle alture
di Taur-nu-Fuin. Sebbene Gwindor gridasse a Túrin avvertendolo dell'e-
norme pericolo, quegli non gli rispose e rimase seduto, immobile e incapa-
ce persino di piangere accanto al corpo di Beleg Cúthalion che giaceva
nella buia foresta ucciso per sua mano, sebbene avesse questi tagliato a lui
i lacci di servaggio che lo immobilizzavano.
Quando venne il mattino, la tempesta era passata proseguendo verso o-
riente sul Lothlann e il sole autunnale s'alzava rosso e splendente; ma gli
Orchi lo odiavano quasi quanto i tuoni e, credendo che Túrin fosse fuggito
assai lontano da quel luogo e che ogni traccia ne fosse stata dilavata, se ne
andarono in fretta, ansiosi di far ritorno ad Angband. Gwindor li scorse
marciare verso nord sulle sabbie fumiganti dell'Anfauglith. Così accadde
che fecero ritorno da Morgoth a mani vuote, lasciandosi dietro il figlio di
Húrin, che sedeva, impazzito, privo di senno, sulle pendici della Taur-nu-
Fuin, gravato da una pena più pesante delle loro catene.
Poi Gwindor riuscì a scuotere Túrin perché lo aiutasse a seppellire Beleg
e Túrin si levò come un sonnambulo; insieme deposero Beleg in una fossa
poco profonda e misero accanto a lui Belthronding, il suo grande arco fatto
di nero legno di tasso. Ma la terribile spada Anglachel, quella Gwindor la
prese, dicendo esser meglio che servisse a trar vendetta dei servi di Mor-
goth anziché giacere inutilizzata sottoterra; e prese anche il lembas di Me-
lian per trarne energia nelle selve.
Così finì Beleg Arcoforte, il più fedele degli amici, il massimo in de-
strezza di tutti coloro che trovavano ricetto nei boschi del Beleriand nei
Tempi Remoti, e per mano di colui che più aveva amato; e quel dolore era
inciso sul volto di Túrin e mai più si cancellò.
Dapprima il suo popolo stesso non riconobbe Gwindor, che se n'era an-
dato giovane e forte e adesso tornava con l'aspetto di uno invecchiato tra
Uomini mortali, e ciò a causa dei tormenti e delle fatiche cui era stato sot-
toposto; ed era anche stato mutilato. Ma Finduilas figlia di Orodreth, il Re,
lo riconobbe e gli diede il benvenuto, poiché lo aveva amato, anzi erano
addirittura sposi promessi prima della Nirnaeth; e Gwindor amava di lei la
bellezza a tal punto da chiamarla Faelivrin, cioè il barbagliare del sole su-
gli Stagni d'Ivrin.
Così Gwindor giunse a casa e, grazie a lui, Túrin fu accolto perché
Gwindor disse trattarsi di un uomo valoroso, caro amico di Beleg Cútha-
lion del Doriath. Ma quando Gwindor stava per svelarne il nome, Túrin lo
trattenne dicendo: «Io sono Agarwaen, figlio di Umarth (che significa
Macchiato di Sangue, figlio di Malasorte), e sono un cacciatore dei bo-
schi». Sebbene gli Elfi avessero capito che aveva preso questi nomi a cau-
sa dell'uccisione del suo amico (non conoscendo altre motivazioni), non gli
posero altre domande.
La spada Anglachel venne riforgiata per lui da abili fabbri del Nargo-
thrond e, sebbene i margini fossero rimasti anneriti, balenavano pure di
pallido fuoco. E Túrin stesso divenne noto nel Nargothrond con il nome di
Mormegil, vale a dire Spada Nera, per i racconti delle sue gesta con
quell'arma. Ma Túrin chiamò la spada Gurthang, Ferro di Morte.
Per la sua prodezza e destrezza nelle guerre contro gli Orchi, Túrin gua-
dagnò i favori di Orodreth e fu ammesso nel suo consiglio. Ora, però, a
Túrin non andava il modo di condurre la guerra da parte degli Elfi del
Nargothrond, tutta imboscate, azioni furtive, frecce scoccate di nascosto, e
premette affinché lo abbandonassero a favore dell'uso della loro forza per
attaccare i servi del Nemico in campo aperto e poi inseguirli. Ma, in seno
al consiglio del Re, Gwindor espresse opinioni contrarie a quelle di Túrin
sulla questione, argomentando che, essendo stato ad Angband e avendo
visto il potere di Morgoth, si era fatto un'idea dei suoi piani. «Piccole vitto-
rie a lungo andare si mostreranno vane» disse. «Infatti, così Morgoth verrà
a sapere dove trovare i più audaci dei suoi nemici e raccoglierà forze suffi-
cienti a sterminarli. Tutta la potenza degli Elfi e degli Edain uniti è bastata
appena a trattenerlo e a garantire la pausa di un assedio; lunga, invero, ma
lunga soltanto finché Morgoth non ha colto l'occasione per rompere il cer-
chio; e mai più un'alleanza del genere potrà realizzarsi. Ormai, solo nel
segreto risiede la speranza: finché non giungano i Valar.»
«I Valar!» esclamò Túrin. «Vi hanno abbandonato e disprezzano gli
Uomini. A che serve guardare a occidente, al di là del mare sconfinato?
Uno solo è il Vala con cui abbiamo a che fare ed è Morgoth; e se alla fine
non riusciremo a vincerlo, per lo meno potremo fargli del male e ostacolar-
lo. Una vittoria è una vittoria, per piccola che sia, né vale solo per ciò che
consegue. Essa, infatti, reca anche vantaggi giacché, se nulla si fa per fer-
mare Morgoth, tutto il Beleriand cadrà sotto la sua ombra prima di quanto
crediate, e allora a uno a uno Morgoth vi spingerà come fumo fuori dai
vostri focolari. E allora? Allora, uno sparuto residuo fuggirà a sud e a o-
vest, per acquattarsi sulle rive del mare, preso tra Morgoth e Osse. Meglio,
allora, assicurarsi un periodo di gloria, per quanto breve sia, perché non
per questo la fine sarà peggiore. Tu parli di segretezza e dici che in essa
risiede l'unica speranza. Ma anche se si potessero tendere imboscate e sor-
prendere ogni esploratore e spia di Morgoth, non uno escluso, in modo che
nessuno porti notizie ad Angband, questo gli basterebbe per sapere che sei
vivo e per intuire dove sei. E un'altra cosa io dico: sebbene gli uomini go-
dano di breve vita rispetto a quella concessa agli Elfi, meglio per loro get-
tarla in battaglia che fuggire o sottomettersi. La sfida di Húrin Thalion è
una grande impresa; e, anche se Morgoth ne uccide l'autore, non può im-
pedire che il fatto sia avvenuto. Perfino i Signori dell'Occidente lo faranno
oggetto di onore; e forse che questo non è scritto nella storia di Arda, che
né Morgoth né Manwë possono cancellare?»
«Parli di cose elevate» replicò Gwindor «ed è evidente che hai vissuto
tra gli Eldar. Ma sei ottenebrato se metti sullo stesso piano Morgoth e
Manwë; o parli dei Valar come dei nemici degli Elfi e degli Uomini; i Va-
lar, invece, nulla e nessuno tengono in spregio, tanto meno i figli di Ilúva-
tar. Né conosci tutte le speranze degli Eldar. Tra noi ha corso una profezia
secondo la quale un giorno un messaggero della Terra di Mezzo giungerà,
di là dalle ombre, a Valinor, e Manwë gli presterà ascolto e Mandos si ad-
dolcirà. In vista di quel momento, non dobbiamo forse cercare di conserva-
re il seme dei Noldor, nonché quello degli Edain? E adesso Círdan dimora
nel Sud e vi costruisce navi. Ma che ne sai tu di navi, che ne sai tu del ma-
re? Tu pensi a te stesso e alla tua gloria e ci esorti tutti a fare lo stesso. Ma
noi dobbiamo pensare ad altri e non solo a noi stessi, dato che non tutti
possono combattere e cadere e costoro dobbiamo preservarli dalla guerra e
dalla rovina finché possiamo.»
«E allora, mandateli alle vostre navi, finché siete in tempo» disse Túrin.
«Non vogliono separarsi da noi» ribatté Gwindor «anche ammettendo
che Círdan riesca a sostentarli. Dobbiamo restare uniti finché possiamo, e
non corteggiare la morte.»
«A tutto ciò ho già dato risposta» replicò Túrin. «Valida difesa dei con-
fini e duri colpi prima che il nemico si raduni: in questo risiede per voi la
migliore speranza di restare uniti. E coloro di cui tu parli amano forse i
codardi che se ne stanno nei boschi, sempre in caccia come lupi, o preferi-
scono che uno si metta l'elmo e imbracci lo scudo istoriato e ricacci i ne-
mici, anche se questi sono più numerosi del suo esercito? Per lo meno,
questo non è il caso delle donne degli Edain, le quali non hanno certo trat-
tenuto gli uomini dalla Nirnaeth Arnoediad.»
«Ma le loro sofferenze sono state maggiori di quanto non sarebbe acca-
duto se quella battaglia non avesse avuto luogo.»
LA CADUTA DI NARGOTHROND
Trascorsi cinque anni da quando Túrin era giunto nel Nargothrond, nella
primavera di quell'anno, giunsero due Elfi, che si chiamavano Gelmir e
Arminas ed erano della gente di Finarfin; questi si dissero latori di un'am-
basciata per il Signore del Nargothrond. Túrin a quel tempo comandava
tutte le forze del Nargothrond e si occupava di tutte le questioni di guerra.
Era davvero divenuto duro e fiero e ordinava ogni cosa a suo piacimento o
come riteneva giusto. I due Elfi furono portati al suo cospetto, ma Gelmir
disse: «Noi vorremmo parlare con Orodreth, figlio di Finarfin».
Giunto che fu Orodreth, Gelmir gli disse: «Signore noi eravamo della
schiera di Angrod e abbiamo a lungo vagato dopo la Nirnaeth; di recente,
però, siamo stati tra i seguaci di Círdan alle Bocche del Sirion. E un giorno
Círdan ci ha convocati e ci ha ingiunto di venire da te perché Ulmo in per-
sona, Signore delle Acque, gli era apparso per ammonirlo del grande peri-
colo che minaccia il Nargothrond».
Orodreth era, però, diffidente e domandò: «E allora, come mai provenite
dal Nord? O avevate per caso altri incarichi?».
Rispose allora Arminas: «Sì, signore. Fin dalla Nirnaeth ho cercato il
Regno Nascosto di Turgon, senza però trovarlo; e in questa ricerca, temo,
ho perduto molto tempo e ho trascurato la commissione che avevo da farti.
Círdan, infatti, ci ha mandati lungo la costa per nave, per ragioni di sicu-
rezza e perché facessimo in fretta; così abbiamo preso terra a Drengist. Ma
tra i marinai ve n'erano che in anni passati son giunti a sud quali messagge-
ri di Turgon e mi è parso di capire, dai loro cauti accenni, che forse Turgon
risiede ancora nel Nord invece che nel Sud, come molti sostengono. Noi
però non abbiamo trovato alcun segno né conferma di ciò che cercavamo».
«Perché cercate Turgon?» disse Orodreth.
«Perché si dice che il suo regno resisterà più a lungo di ogni altro a
Morgoth» rispose Arminas. E tali parole sembrarono a Orodreth di cattivo
presagio e ne restò turbato.
«Quand'è così, non indugiate nel Nargothrond» disse «perché qui notizie
di Turgon non ne avrete. E non ho bisogno di nessuno che mi dica che il
Nargothrond è in pericolo.»
«Non adirarti, signore,» disse Gelmir «se alle tue domande rispondiamo
con sincerità. Aggiungo che la nostra deviazione nel venire da te non è
stata infruttuosa perché ci siamo spinti più in là di quanto non facciano i
tuoi esploratori più avanzati: abbiamo attraversato il Dor-lómin e tutte le
contrade ai piedi degli Ered Wethrin; siamo poi andati a esplorare il Passo
del Sirion, spiando le vie del Nemico. In quelle regioni è in corso un gran-
de raduno di Orchi e perfide creature, e un esercito si sta raccogliendo at-
torno all'isola di Sauron.»
«Lo so» intervenne Túrin. «Le vostre notizie sono superate. Se il mes-
saggio di Círdan doveva servire a qualcosa, prima doveva giungere.»
«Per lo meno lo udrai adesso, signore» gli disse Gelmir. «Ascolta allora
le parole del Signore delle Acque il quale ha così parlato a Círdan il Car-
pentiere: 'Il male del Nord ha contaminato le sorgenti del Sirion e il mio
potere si ritira dalle dita delle acque scorrenti. Ma cosa ben peggiore sta
per accadere: dì, pertanto, al signore del Nargothrond: serra le porte della
fortezza e non uscirne. Getta le pietre del tuo orgoglio nel fiume fragoroso,
sì che nessuna strisciante sciagura riesca a scovare l'uscio'.»
Queste parole sembrarono oscure a Orodreth, il quale, come sempre, si
rivolse per consiglio a Túrin che però, non fidandosi dei messaggeri, disse
con tono sprezzante: «E che ne sa Círdan delle nostre guerre, lui che vive
vicino al Nemico? Che il marinaio si occupi delle sue navi! Invero, però,
se il Signore delle Acque volesse mandarci consiglio, che parli più chiaro.
Altrimenti a qualcuno addestrato alla guerra sembrerebbe nel nostro caso
più opportuno raccogliere le proprie forze e andare coraggiosamente in-
contro ai nemici, prima che si avvicinino troppo».
Allora Gelmir s'inchinò a Orodreth e disse: «Ho parlato come mi era sta-
to ordinato, signore» e si allontanò. Arminas, però, chiese a Túrin: «Sei
davvero della Casa di Hador, come ho udito dire?».
«Qui sono chiamato Agarwaen, la Spada Nera del Nargothrond» rispose
Túrin. «Ti occupi assai, mi sembra, di segreti, amico Arminas. Ed è un
bene che il segreto di Turgon ti sia celato, altrimenti ben presto si verrebbe
a sapere ad Angband. Il nome di un uomo è di sua proprietà e se il figlio di
Húrin venisse a sapere che l'hai tradito mentre voleva restare nascosto,
allora possa Morgoth prenderti e bruciarti la lingua!»
E Arminas restò sgomento per la nera collera di Túrin. Ma Gelmir disse:
«Non sarà tradito da noi, Agarwaen. Non siamo noi forse a consiglio a
porte chiuse per cui si può parlare più liberamente? E se Arminas ti ha
rivolto quella domanda, penso sia perché a tutti coloro che dimorano sulle
rive del Mare è noto che Ulmo nutre grande affetto per la Casa di Hador e
v'è chi dice che Húrin e suo fratello Huor un tempo siano andati nel Reame
Nascosto».
«Se così fosse, Húrin non ne avrebbe parlato con nessuno, grande o pic-
colo che fosse, e, men che meno, a suo figlio bambino» ribatté Túrin. «Ra-
gion per cui Arminas me l'ha chiesto nella speranza di sapere qualcosa di
Turgon. Io diffido dei messaggeri ingannevoli.»
«Risparmiati la diffidenza!» insorse Arminas. «Gelmir mi ha frainteso.
T'ho fatto quella domanda perché dubitavo di ciò che qui sembra sia opi-
nione diffusa. Ben poco infatti tu somigli a quelli del sangue di Hador,
quale che sia il tuo nome.»
«E tu che ne sai di loro?» domandò Túrin.
«Húrin io l'ho visto,» rispose Arminas «e i suoi padri prima di lui. E nei
deserti del Dor-lómin ho incontrato Tuor, figlio di Huor, fratello di Húrin;
ed egli somiglia ai suoi padri, mentre tu no.»
«Può darsi,» replicò Túrin «sebbene di Tuor non abbia mai sentito finora
parlare. Ma che la mia testa sia bruna o dorata, non me ne vergogno di
certo. Non sono certo io il primo figlio che riprende dalla madre. E discen-
do da Morwen Eledhwen della Casa di Bëor e sono consanguineo di Beren
Camlost.»
«Non intendevo riferirmi alla differenza tra il nero e l'oro» riprese Ar-
minas. «Ma al fatto che altri della Casa di Hador si comportano diversa-
mente, e Tuor fra loro. Infatti, essi si mostrano cortesi e prestano orecchio
ai buoni consigli, nutrono rispetto per i Signori dell'Occidente. Tu invece,
per ciò che vedo, ti affidi solo a quello che ti detta la tua saggezza o, maga-
ri, solo la tua spada. E parli con tono arrogante. E io ti dico, Agarwaen
Mormegil, che, se fai così, ben diversa sarà la tua sorte da quella cui uno
delle Case di Hador e di Bëor potrebbe aspirare.»
«E diversa è sempre stata» ribatté Túrin. «E se, come sembra, devo esse-
re oggetto dell'odio di Morgoth a causa del valore di mio padre, devo dun-
que sopportare anche gli insulti e i cattivi presagi di un fuggiasco, per
quanto si proclami di stirpe regale? Ascolta il mio consiglio: tornatene alle
sicure coste sul mare.»
Gelmir e Arminas allora se ne andarono, tornando al Sud; ma, nonostan-
te le ingiurie di Túrin, ben volentieri avrebbero partecipato alla battaglia
accanto a quelli della loro stirpe, e se se ne andarono fu solo perché Círdan
aveva ingiunto loro, su comando di Ulmo, di riportargli notizie di Nargo-
thrond e della loro missione presso Orodreth. E quest'ultimo restò assai
turbato dalle parole dei messaggeri, ma ancor più indignato dal contegno
di Túrin, e per nessuna ragione volle ascoltare i loro consigli, tanto menò
accettare che il grande ponte fosse abbattuto. Così, almeno in questo le
parole di Ulmo furono correttamente interpretate.
Poco tempo dopo la partenza dei messaggeri, Handir, signore del Bre-
thil, venne ucciso allorché gli Orchi ne invasero la contrada, cercando di
assicurarsi i Guadi del Teiglin in vista di un ulteriore avanzamento. Handir
li affrontò in battaglia, ma gli Uomini del Brethil ebbero la peggio e furono
ricacciati nei loro boschi. Gli Orchi non li inseguirono perché, per il mo-
mento, il loro scopo era stato raggiunto. E continuarono a radunare le loro
forze al Passo del Sirion.
Nell'autunno di quell'anno, scelto il momento opportuno, Morgoth lan-
ciò contro la gente del Narog il grande esercito che a lungo aveva prepara-
to; e Glaurung, il Padre dei Draghi, venne per Anfauglith e di lì penetrò nel
bacino settentrionale del Sirion, facendo molti danni. All'ombra degli Ered
Wethrin, alla testa di un grande esercito di Orchi, contaminò la Eithel Ivrin
e poi entrò nel regno del Nargothrond e arse la Talath Dirmen, la Piana
Sorvegliata, tra il Narog e il Teiglin.
Allora i guerrieri del Nargothrond gli uscirono incontro e, quel giorno,
alto e terribile sembrò Túrin; e il morale di tutto l'esercito fu sollevato alla
vista di Túrin che cavalcava alla destra di Orodreth. Ma l'esercito di Mor-
goth era ben maggiore di quanto gli esploratori avessero riferito e nessuno,
salvo Túrin, protetto dalla sua maschera da Nano, poté reggere il confronto
con Glaurung. Gli Elfi furono respinti e sconfitti sul campo di Tumhalad; e
lì tutto l'orgoglio dell'esercito di Nargothrond svanì. Orodreth, il Re, cadde
nelle prime file e Gwindor, figlio di Guilin, fu ferito a morte. Ma Túrin
volò in suo soccorso e tutti fuggirono davanti a lui; ed egli trasse Gwindor
fuori dalla mischia e, rifugiatosi in un bosco, lo depose sull'erba.
Allora Gwindor disse a Túrin: «Ora siamo pari! Ma l'aiuto che un tempo
ti diedi è stato sfortunato e vano è il tuo; il mio corpo è, infatti, deturpato
in modo inguaribile e io devo lasciare la Terra di Mezzo. E, sebbene io ti
voglia molto bene, figlio di Húrin, pure mi rammarico di averti un giorno
sottratto agli Orchi. Non fosse infatti per la tua prodezza e il tuo orgoglio,
ancora godrei di amore e di vita e il Nargothrond ancora resisterebbe. Ora,
se mi vuoi bene, lasciami! Affrettati a far ritorno a Nargothrond e salva
Finduilas. E questo ancora voglio dirti: lei sola s'interpone fra te e la tua
sorte. Se tu venissi meno a Finduilas, la sorte non mancherà di piombarti
addosso. Addio!».
Allora Túrin si precipitò a Nargothrond, raccogliendo tutti gli sbandati
che trovava strada facendo; e, mentre marciavano, le foglie cadevano dagli
alberi strappate da un vento impetuoso, poiché l'autunno già lasciava il
posto a un terribile inverno. Ma Glaurung e il suo esercito di Orchi erano
di fronte a lui a causa del soccorso prestato a Gwindor e sopraggiunsero
all'improvviso, prima che quelli che erano di guardia sulla sinistra si ren-
dessero conto di quanto era successo sul campo di Tumhalad. Quel giorno
il ponte che Túrin aveva fatto in modo che venisse costruito si rivelò una
disgrazia; poiché era grande e ben costruito non si poteva facilmente ab-
battere. Sicché il nemico superò senza difficoltà il profondo fiume e Glau-
rung, con tutte le sue spire di fuoco, si avventò contro le porte di Felagund,
abbattendole ed entrò.
E quando Túrin sopravvenne, lo spaventoso saccheggio di Nargothrond
era praticamente compiuto. Gli Orchi avevano ucciso o portato via tutti
quanti si opponevano loro in armi e ormai stavano depredando le grandi
aule e camere, rubando e distruggendo; ma le fanciulle e le donne che non
erano bruciate né morte, le avevano radunate sui terrapieni davanti alle
porte con l'intento di ridurle in schiavitù, al servizio di Morgoth. Nel bel
mezzo di cotanta rovina e desolazione, sopraggiunse Túrin e nessuno poté
né volle resistergli perché abbatté chiunque gli si parasse davanti, e superò
il ponte e si aprì un varco verso le prigioniere.
E adesso era lì da solo, poiché i pochi che l'avevano seguito gli avevano
girato le spalle. E proprio in quel momento Glaurung uscì dalle porte sven-
trate di Felagund e si piantò alle spalle, fra Túrin e il ponte. E all'improvvi-
so parlò grazie allo spirito malefico ch'era in lui e disse: «Salve, figlio di
Húrin. Che bell'incontro!».
Allora Túrin gli balzò davanti mulinando la spada e la lama di Gurthang
splendeva come fosse in fiamme. Ma Glaurung trattenne il suo sbuffo in-
fuocato e spalancò i suoi occhi da serpente, piantandoli su Túrin. Senza
alcun timore, Túrin gli guardò dritto dentro e levò la sua spada. Ma, im-
mediatamente, cadde sotto il terribile incantesimo del drago e rimase im-
mobile come un sasso. Restarono così immobili a lungo, in silenzio davan-
ti alle porte di Felagund. Poi Glaurung tornò a parlare, beffandosi di Túrin,
e disse: «Perverse sono state tutte le tue azioni, figlio di Húrin; ingrato
figlio adottivo, bandito, assassino del tuo amico, ladro d'amore, usurpatore
di Nargothrond, comandante sconsiderato, traditore del tuo stesso sangue.
Come schiave tua madre e tua sorella vivono nel Dor-lómin, in miseria e
indigenza. Tu sei vestito come un principe, ma loro son coperte di stracci.
Per te si struggono, ma tu non te ne curi. Ben lieto può essere tuo padre di
avere un figlio simile: e lo saprà!». E Túrin, sotto l'incantesimo di Glau-
rung, rimase ad ascoltare queste parole e si vide, come in uno specchio,
deformato da maligne arti, e detestò ciò che vide. Mentre era ancora tratte-
nuto dagli occhi di Glaurung, in preda a tormentosi pensieri e incapace di
muoversi, a un segnale del Drago, gli Orchi portarono via le prigioniere
radunate e, passando accanto a Túrin, superarono il ponte. Tra loro v'era
Finduilas, che protese le braccia verso Túrin e lo chiamò per nome. Ma
finché le grida di questa e i gemiti delle prigioniere non si furono spenti
lungo la strada che portava a nord, Glaurung non liberò Túrin dall'incante-
simo e questi, per quanto cercasse di tapparsi le orecchie, continuò sempre
a udire quella voce che lo ossessionava.
Ed ecco che all'improvviso Glaurung distolse lo sguardo e attese; e Tú-
rin ricominciò lentamente a muoversi, come qualcuno che si risvegli da un
orribile sogno. Tornato in sé, con un forte grido balzò sul drago. Ma Glau-
rung, ridendo, disse: «Se proprio vuoi che ti uccida, lo farò ben volentieri.
Ma di scarso aiuto sarà la tua morte per Morwen e Niënor. Non hai fatto
caso alle grida della donna degli Elfi. Allora vuoi anche rinnegare i tuoi
legami di sangue?».
Ma Túrin, brandita la spada, mirò agli occhi del drago. E Glaurung, ri-
traendosi rapidamente, torreggiò sopra di lui e disse: «No, non si può dire
che tu non sia valoroso più di chiunque altro io abbia mai incontrato. E chi
dice che noi non onoriamo il valore dei nemici, mente. Ecco! Ti offro la
libertà. Va' dai tuoi se ci riesci. E se Elfo o Uomo resterà per narrare di
queste giornate, di certo parleranno di te con disprezzo, se disdegni il dono
che ti faccio».
Allora Túrin, ancora sbigottito dallo sguardo del drago, quasi stesse trat-
tando con un avversario capace di muoversi a pietà, credette alle parole di
Glaurung e, voltandogli le spalle, imboccò di corsa il ponte. Ma, mentre
andava, Glaurung gli disse con una voce terribile: «Affrettati, figlio di Hú-
rin, corri nel Dor-lómin! Altrimenti gli Orchi anche questa volta potrebbe-
ro arrivare prima di te. E, se indugi per cercare Finduilas, mai rivedrai
Morwen e mai, proprio mai, Niënor tua sorella; ed esse ti malediranno».
Ma Túrin imboccò la strada del nord e Glaurung rise di nuovo, poiché
ancora una volta aveva portato a termine l'incarico che gli aveva dato il
suo Padrone. Poi si dedicò ai suoi piaceri e con il suo fiato di fiamme bru-
ciò ogni cosa attorno a lui. Così facendo, disperse e mise in fuga tutti gli
Orchi intenti al saccheggio e impedì loro d'impadronirsi persino delle cose
più insignificanti. Il ponte poi ruppe e ne gettò le macerie tra la schiuma
del Narog. Essendo, così, al sicuro, raccolse tutti i tesori e le ricchezze di
Felagund e, fattone un gran mucchio nella stanza più interna, vi si distese
sopra per riposare un po'.
Intanto Túrin correva lungo le vie che portavano a Nord, per contrade
ormai desolate tra il Narog e il Teiglin, e il Funesto Inverno gli andò in-
contro, giacché quell'anno la neve scese prima che l'autunno fosse termina-
to e la primavera giunse tardi e fredda. Mentre andava, gli pareva sempre
di udire le grida di Finduilas che ne invocava il nome, per boschi e colline,
e grande era la sua angoscia. Ma il suo cuore ribolliva per le menzogne di
Glaurung e, avendo sempre davanti agli occhi l'immagine degli Orchi in-
tenti a bruciare la casa di Húrin e a tormentare Morwen e Niënor, proseguì
per la sua strada, senza mai deviare.
CAPITOLO XII
Alla fine, esausto per la lunga strada percorsa tanto in fretta (che aveva
coperto senza riposarsi quaranta leghe e più), Túrin giunse con il primo
ghiaccio dell'inverno agli Stagni di Ivrin, dove in precedenza aveva bevuto
l'acqua guaritrice. Ora però non erano che un pantano gelato, e non poté
più dissetarvisi.
Da lì giunse ai passi del Dor-lómin; e la neve scendeva inesorabile dal
Nord, e le strade erano perigliose e fredde. Sebbene ventitré anni fossero
trascorsi da quando aveva calcato quel sentiero, esso gli stava impresso nel
cuore, tale era la pena che aveva provata a ogni passo dipartendosi da Mor-
wen. Così alla fine ritornò alla terra della sua infanzia. Era nuda e tetra; e
la gente era poca e rozza, e parlavano l'aspra lingua degli Esterling, e l'an-
tica favella era divenuta quella dei servi o dei nemici. Ragion per cui Túrin
procedeva cauto, incappucciato e silenzioso, e giunse alla fine alla casa che
cercava. Era vuota e buia, nessuno vi abitava, poiché Morwen se n'era an-
data e Brodda l'Intruso (colui che aveva preso in moglie con la forza Aerin,
parente di Húrin) l'aveva saccheggiata, impadronendosi di tutto quanto le
era rimasto in fatto di beni e di servi. La casa di Brodda era vicinissima a
quella di Húrin, e lì si diresse Túrin, sfinito dall'errare e dal dolore, implo-
rando ricovero; e gli fu concesso, perché in parte le antiche, più gentili
maniere di un tempo, vi erano mantenute da Aerin. Gli fu dato uno sgabel-
lo accanto al fuoco tra i servi e qualche vagabondo quasi altrettanto tetro e
sfinito dal cammino; ed egli chiese notizie della contrada.
Al che sulla compagnia calò il silenzio, e alcuni se ne andarono in fretta
guardando storto lo straniero. Ma un vecchio vagabondo con la stampella
disse: «Se proprio devi parlare l'antica lingua, messere, fallo a voce bassa e
non chiedere notizie. Vuoi forse essere battuto come un furfante o impic-
cato come spia? Perché puoi essere l'uno e l'altro, stando al tuo aspetto.
Ciò vuol semplicemente dire» soggiunse, avvicinandosi e parlando all'o-
recchio di Túrin «una delle gentili persone di un tempo giunte con Hador
nei giorni d'oro, prima che sulle teste crescessero peli di lupo. Alcuni qui
sono di quel genere, benché adesso ridotti mendicanti e schiavi, e non fos-
se per dama Aerin non avrebbero né questo fuoco né questa brodaglia. Di
dove sei, e che notizie vorresti?».
«C'era una dama di nome Morwen» rispose Túrin «e molto tempo fa so-
no vissuto nella sua casa. Qui sono giunto dopo lungo peregrinare, speran-
do di ricevere il benvenuto, ma non ci sono né fuoco né abitanti ora.»
«E non ci sono stati per tutto questo lungo anno e prima ancora» replicò
il vecchio. «Ma scarsi erano sia il fuoco che gli abitanti, in quella casa,
dopo la guerra mortale; perché Morwen apparteneva all'antica gente e,
come indubbiamente tu sai, era la vedova del nostro signore, Húrin figlio
di Galdor. Non hanno tuttavia osato metterle le mani addosso perché ne
avevano paura, ed era fiera e bella come una regina prima che il dolore la
consumasse. Strega, la chiamavano, e le stavano alla larga. Strega: cioè,
nella nuova lingua, semplicemente 'amica degli Elfi'. Derubata, però,
l'hanno. E sovente lei e sua figlia sarebbero state ridotte alla fame, non
fosse stato per dama Aerin che le aiutava in segreto, così si dice, e spesso
per questo fu battuta da quello zotico di Brodda, suo marito per forza.»
«Ed è trascorso più di questo lungo anno?» domandò Túrin. «Sono mor-
te o ridotte in schiavitù? Oppure gli Orchi hanno assalito Morwen?»
«Non lo si sa per certo» rispose il vecchio. «Ma Morwen se n'è andata
con sua figlia, e quel Brodda l'ha depredata e spogliata di quanto le resta-
va. Non un cane è rimasto, e i suoi pochi domestici sono stati fatti schiavi,
salvo alcuni che si sono dati alla mendicità, come ho fatto io. L'ho servita
per molti anni, come prima ho servito il grande Padrone, io Sador Piede-
monco: una maledetta ascia nei boschi, tanto tempo fa, altrimenti giacerei
sul Grande Tumulo. Ben ricordo il giorno in cui il figlio di Húrin se n'è
andato, e come poi piangeva; e lei pure quando lui fu lontano. Dicono che
il ragazzo se ne sia andato nel Regno Nascosto.»
Quindi il vecchio frenò la lingua, e guardò Túrin dubbioso. «Sono vec-
chio e straparlo, maestro» soggiunse. «Non farci caso! Ma, per piacevole
che sia parlare la vecchia lingua con uno che la conosce bene, come ai
giorni che furono, i tempi sono grami, e bisogna essere prudenti. Non tutti
coloro che parlano la bella lingua hanno il cuore limpido.»
«Vero» convenne Túrin. «Il mio cuore è triste. Ma se temi che io sia una
spia del Nord o dell'Est, vuol dire che hai poco più sale in zucca di quanto
ne avevi tanto tempo fa, Sador Labadal.»
Il vecchio lo guardò sbalordito; e fu tremando che parlò, dicendo: «U-
sciamo di qui, fuori fa più freddo ma si è più al sicuro. Tu parli troppo for-
te, e io troppo, per una sala di Esterling».
Come furono in cortile, il vecchio afferrò Túrin per il mantello. «Molto
tempo fa hai abitato in quella casa, affermi. Túrin, mio signore, perché sei
tornato? Finalmente gli occhi mi si sono aperti, e le orecchie anche: hai la
voce di tuo padre. E il solo Túrin da ragazzo mi chiamava con quel nome,
Labadal. E non lo faceva per malignità: in quei giorni eravamo grandi ami-
ci. Che cosa cerchi qui, adesso? Pochi siamo rimasti; vecchi e senza armi.
Più felici quelli del Grande Tumulo.»
«Non sono venuto col proposito di dar battaglia,» rispose Túrin «sebbe-
ne le tue parole abbiano ridestato in me quel desiderio, Labadal. Ma esso
deve attendere. Sono venuto a cercare dama Morwen e Niënor. Che cosa
sai dirmene, in breve?»
«Ben poco, mio signore» rispose Sador. «Se ne sono andate in segreto.
Si sussurrava tra noi che fossero state chiamate dal Sire Túrin, perché noi
non dubitavamo che nel corso degli anni fosse divenuto grande, un re o un
signore in qualche contrada del Sud. Ma sembra che così non sia.»
«Non è così» confermò Túrin. «Un signore, ero, ed ero in una contrada
del Sud, sebbene oggi sia un vagabondo. Ma io non le ho chiamate.»
«Quand'è così, non so che dirti» riprese Sador. «Ma sono certo che dama
Aerin lo saprà, lei che conosceva tutti i propositi di tua madre.»
«E come posso giungere da lei?»
«Questo non lo so. Può costarle molto caro essere sorpresa a sussurrare a
un uscio con un miserabile vagabondo del popolo calpestato, posto che un
messaggio le possa arrivare. E un mendicante del tuo stampo non può cer-
to attraversare la sala diretto alla tavola dei signori, senza che gli Esterling
lo prendano e lo percuotano o peggio ancora.»
Incollerito, Túrin gridò: «Non posso percorrere la sala di Brodda, e quel-
li mi percuoteranno? Sta' un po' a vedere!».
Allora entrò nella sala, gettò indietro il cappuccio e, scostando tutti colo-
ro che gli si paravano dinanzi, si avviò alla tavola alla quale sedevano il
padrone di casa, sua moglie e altri nobili Esterling. Qualcuno corse a met-
tergli le mani addosso, ma egli lo gettò a terra gridando: «Nessuno governa
questa casa, o è un covo di Orchi? Dov'è il padrone?».
Si levò allora Brodda infuriato. «Governo io questa casa» disse.
Ma senza dargli il tempo di soggiungere altro, Túrin gridò: «Quand'è co-
sì, non hai imparato la cortesia che regnava in questo paese prima di te. È
adesso costumanza degli uomini lasciare che i tirapiedi maltrattino i paren-
ti delle proprie mogli? Tale io sono, e ho una commissione per dama Ae-
rin. Posso venire liberamente, o devo farlo a modo mio?».
«Vieni!» fece Brodda, accigliandosi; e Aerin impallidì.
Allora Túrin s'accostò alla tavola padronale, si piantò lì davanti e s'in-
chinò. «Ti chiedo scusa, dama Aerin,» disse «per il disturbo che ti reco;
ma la mia commissione non può attendere e mi ha condotto da lungi. Cer-
co Morwen, Signora del Dor-lómin e Niënor sua figlia. Ma la sua casa è
vuota e saccheggiata. Che puoi dirmene?»
«Nulla» disse Aerin fortemente intimorita, perché Brodda la scrutava at-
tentamente.
«Questo non lo credo» ribatté Túrin.
Balzò allora in piedi Brodda, rosso di ebbra collera. «Adesso basta!» ur-
lò. «Dovrò tollerare che mia moglie sia contraddetta al mio cospetto da un
mendicante che parla la lingua dei servi? Non c'è nessuna Signora del Dor-
lómin. E per quanto riguarda Morwen, era della razza degli schiavi, ed è
fuggita come fanno gli schiavi. Tu fa' lo stesso, e in fretta, o ti faccio ap-
pendere a un albero!»
Allora Túrin gli balzò addosso, e trasse la sua nera spada e afferrò Brod-
da per i capelli, tirandogli indietro la testa. «Che nessuno si muova» disse
«o la sua testa lascerà le spalle! Dama Aerin, ti chiedo scusa un'altra volta,
se ho pensato che questo zotico t'abbia mai fatto altro che del male. Ma
adesso parla, e non deludermi! Non sono io forse Túrin, Signore del Dor-
lómin? Devo ordinartelo?»
«Ordinamelo» rispose lei.
«Chi ha saccheggiato la casa di Morwen?»
«Brodda» rispose la donna.
«Quando è fuggita Morwen, e per dove?»
«Un anno e tre mesi fa» rispose Aerin. «Mastro Brodda e altri Intrusi
dell'Est l'hanno brutalmente maltrattata. Molto tempo fa era stata chiamata
nel Regno Nascosto, e finalmente è partita. Infatti, le contrade intermedie
per un certo tempo sono state libere dal male grazie alla prodezza della
Spada Nera del paese meridionale, così dicono almeno; ma anche questo è
finito. Sperava di trovare suo figlio ad attenderla. Ma se tu sei qua, temo
che tutto sia andato storto.»
E Túrin rise amaramente. «Storto? Storto?» gridò. «Sì, sempre storto:
storto come Morgoth!» E all'improvviso una nera collera lo scosse, perché
gli occhi gli si erano aperti e l'incantesimo di Glaurung allentò l'ultima
presa, e Túrin si rese conto delle menzogne con le quali era stato inganna-
to. «Dunque mi hanno gabbato, inducendomi a venir qui per morire diso-
norato, io che avrei per lo meno potuto perire valorosamente davanti alle
porte di Nargothrond?» E dalla notte fuori dell'aula gli parve che gli giun-
gessero le grida di Finduilas.
«Ma non sarò il primo a morire qui dentro!» urlò. E afferrato Brodda,
con la forza datagli dalla grande angoscia e ira, lo levò alto e lo scosse
come se fosse un cane. «Morwen appartiene alla razza degli schiavi, hai
detto? Tu, rampollo di vermi, ladro, schiavo di schiavi!» E così dicendo
scagliò Brodda oltre il tavolo, addosso a un Esterling levatosi per assalire
Túrin.
Nella caduta, Brodda si spezzò il collo; e Túrin gli balzò dietro, e uccise
tre altri che cercavano di scansarsi perché in quel momento senz'armi.
Gran tumulto si alzò nella sala. Gli Esterling che vi stavano avrebbero vo-
luto dare addosso a Túrin, ma molti altri vi erano radunati dell'antico popo-
lo del Dor-lómin; a lungo erano stati servi sottomessi, ma eccoli ora levarsi
con grida ribelli. E ben presto fu grande battaglia nella sala, e sebbene gli
schiavi avessero soltanto coltelli da scalco e poco altro con cui difendersi
da daghe e spade, molti furono ben presto uccisi d'ambo i lati, prima che
Túrin, balzato nella mischia, spacciasse l'ultimo degli Esterling superstite.
Quindi si fermò, appoggiato a una colonna, e il fuoco della sua ira era
ormai cenere. Ma il vecchio Sador andò da lui e gli abbracciò le ginocchia,
poiché era ferito a morte. «Tre volte sette anni e più, è stato lungo attende-
re questa ora» disse. «Ma adesso va', va', signore, e non tornare se non con
maggiori forze. Leveranno il paese contro di te. Molti può darsi siano fug-
giti dalla sala. Va', o morirai qui. Addio!» E scivolò a terra e morì.
«Ha detto la verità dei morenti» intervenne Aerin. «Quel che volevi,
l'hai saputo. E adesso vattene in fretta! Ma per prima cosa va' da Morwen e
confortala, altrimenti mi sarà difficile perdonare il disastro che hai provo-
cato qua dentro. Perché, per mala che fosse la mia vita, con la tua violenza
m'hai arrecato morte. Gli Intrusi questa notte si vendicheranno di quanto è
accaduto. Impulsivi sono i tuoi atti, figlio di Húrin, quasi tu fossi ancora il
bambino che conoscevo.»
«E fiacco è il tuo cuore, Aerin figlia di Indor, come quando io ti chiama-
vo zia, e bastava un cane feroce a spaventarti» ribatté Túrin. «Eri fatta per
un mondo più gentile. Ma adesso vieni via. Ti porterò da Morwen.»
«La neve copre fitta la terra, ma più fitta ancora è sul mio capo» rispose
lei. «Con te nelle selve morirei non meno rapidamente che per mano dei
crudeli Esterling. Non puoi riparare al danno che hai fatto. Vattene! Re-
stando, non faresti che peggiorare le cose e derubare inutilmente Morwen.
Va', t'imploro.»
Túrin allora le rivolse un profondo inchino e lasciò la sala di Brodda; ma
tutti i ribelli che ne avevano la forza lo seguirono. Fuggirono verso i mon-
ti, perché alcuni di loro conoscevano bene i sentieri delle solitudini e be-
nedicevano la neve che, cadendo dietro di loro, ne cancellava le tracce.
Così, sebbene subito la caccia avesse preso il via, con molti uomini e cani
e fra nitriti di cavalli, riuscirono a sottrarsene tra le alture meridionali.
Quivi, guardandosi indietro videro, remota nella piana che avevano lascia-
ta, una luce rossa.
«Quelli hanno dato fuoco alla sala» constatò Túrin. «A che scopo, poi?»
«Quelli? Nossignore: lei, secondo me» disse uno che aveva nome A-
sgon. «Accade spesso che uomini d'arme equivochino sulla pazienza e la
dolcezza. Dama Aerin ha fatto molto bene a noialtri con suo grave perico-
lo. Il suo cuore era forte, ma la pazienza a lungo andare finisce.»
Orbene, alcuni dei più robusti, capaci di sopportare l'inverno, rimasero
con Túrin e, per sentieri insoliti, lo condussero a un rifugio montano, una
grotta nota a banditi e fuggiaschi, dove era un deposito di cibo. Lì attesero
che la nevicata cessasse, quindi, rifocillatolo, lo condussero a un passo
scarsamente usato da cui si accedeva a sud, alla Valle del Sirion, dove la
neve non era caduta. Arrivati dall'altra parte, si congedarono.
«Addio, Signore del Dor-lómin» disse Asgon. «Ma non dimenticarti di
noi. Ormai saremo uomini braccati; e la Stirpe del Lupo si mostrerà ancora
più crudele dopo che tu sei comparso. Vattene dunque, e non tornare, se
non con forze sufficienti per liberarci. Addio!»
CAPITOLO XIII
E Túrin calò verso il Sirion, e il suo animo era lacerato, poiché gli sem-
brava che, se prima aveva due amare scelte, adesso erano tre, e il suo po-
polo oppresso faceva appello a lui, ed egli non aveva arrecato altro che
maggiori sofferenze. Un unico conforto aveva, e cioè che senza dubbio
Morwen e Niënor da un pezzo erano giunte nel Doriath, e che solo grazie
alla prodezza della Spada Nera del Nargothrond avevano trovato la strada
sgombra. E tra sé disse: «In quale miglior luogo avrei potuto condurle, se
fossi giunto prima? Se la Cintura di Melian è infranta, allora tutto è finito.
No, meglio che le cose stiano così; perché, con la mia collera e la mia im-
pulsività, ovunque io vada porto disgrazia. Che Melian le ospiti! E per un
po' le lascerò in pace senza che la mia ombra gravi loro addosso».
Ma a questo punto troppo tardi Túrin si mise alla ricerca di Finduilas,
battendo in lungo e in largo i boschi sotto le pendici degli Ered Wethrin,
selvatico e cauto come una bestia, mettendosi all'agguato lungo tutte le
strade che andavano a nord verso il Passo del Sirion. Troppo tardi, giacché
tutte le tracce erano state cancellate dalle piogge e dalle nevi. Accadde
però così che Túrin, calando verso il Teiglin, s'imbattesse in alcuni del
popolo di Haleth venuti dalla Foresta di Brethil. Costoro erano ridotti a
ben pochi a causa della guerra che conducevano contro il Piccolo Popolo, e
per lo più dimoravano in segreto entro un recinto sull'Amon Obel, nel cuo-
re della foresta. Ephel Brandir, così era detto il luogo, essendo che Brandir
figlio di Handir era adesso il loro signore da quando suo padre era stato
ucciso. E Brandir non era uomo di guerra, zoppo com'era per avere avuta
una gamba spezzata per un incidente in giovane età, e inoltre di modi gen-
tili, amante più del legno che del metallo e della conoscenza delle cose che
crescono in terra più di ogni altro sapere.
Ma alcuni degli abitanti dei boschi ancora davano la caccia agli Orchi ai
loro confini. E fu così che Túrin, giungendo sul posto, udì il frastuono di
una mischia. Corse a quella volta e, sbirciando cauto tra gli alberi, scorse
un pugno di uomini che, accerchiati da Orchi, si difendevano alla dispera-
ta, le schiene a un gruppo d'alberi che sorgeva al margine di una radura; gli
Orchi però erano in gran numero e gli assaliti avevano poca speranza di
scampo, a meno di ricevere aiuto. Sicché, nascosto nel sottobosco, Túrin
levò un gran rumore di passi e rami rotti, e gridò a gran voce, come se fos-
se alla testa di molti: «Avanti, eccoli qui! Seguitemi! Fuori, e ammazzia-
moli!».
Al che molti degli Orchi si volsero sgomenti, ed ecco balzar fuori Túrin,
facendo cenno come a uomini che lo seguissero, e in pugno aveva Gur-
thang, il cui taglio baluginava come fiamma. Troppo ben nota era quella
lama agli Orchi, e prima ancora che fosse loro addosso molti si dispersero
e fuggirono. Allora gli abitanti dei boschi si unirono a Túrin, e insieme
respinsero i nemici al fiume: pochi riuscirono a superarlo.
Alla fine, si fermarono sulla riva, e Dorlas, il capo degli abitanti dei bo-
schi, disse: «Sei veloce nella caccia, signore; ma i tuoi uomini sono lenti a
seguirti».
«Ah,» replicò Túrin «noialtri corriamo tutti assieme come un unico uo-
mo e non ci separiamo mai.»
Risero allora gli uomini del Brethil, e dissero: «Be', uno così ne vale
molti. E ti siamo assai grati. Ma tu chi sei, e che cerchi da queste parti?».
«Non faccio che occuparmi dei fatti miei, che consistono nell'ammazza-
re Orchi» spiegò Túrin. «E dimoro dove ho da fare. Io sono il Selvaggio
dei Boschi.»
«Vieni allora a stare con noi» proposero quelli. «Noi infatti dimoriamo
nei boschi e abbiamo bisogno di gente del tuo stampo. Sarai il benvenuto!»
Allora Túrin lanciò loro una strana occhiata e chiese: «C'è dunque anco-
ra qualcuno disposto a sopportare che io ne oscuri la soglia? Amici, io però
ho ancora una dolorosa missione da compiere: trovare Finduilas, figlia di
Orodreth di Nargothrond, o per lo meno averne notizie. Ahimè, molte set-
timane sono passate da quando è stata catturata nel Nargothrond, ma io
devo continuare a cercarla».
Quelli allora lo guardarono con compassione, e Dorlas disse: «Non cer-
carla più. Devi sapere infatti che una schiera di Orchi è venuta dal Nargo-
thrond ai Guadi del Teiglin, e a lungo li abbiamo tenuti d'occhio: procede-
vano molto lentamente a causa del gran numero di prigionieri che condu-
cevano con sé. Abbiamo allora pensato di dare il nostro piccolo contributo
alla guerra, e abbiamo teso un'imboscata agli Orchi con tutti gli arcieri che
siamo riusciti a radunare, nella speranza di salvare qualche prigioniero.
Ma, ahimè!, non appena si son visti assalire, gli abominevoli Orchi hanno
sgozzato prima le donne tra i loro prigionieri, e la figlia di Orodreth l'han-
no inchiodata a un albero con una lancia».
Pareva che Túrin avesse ricevuto un colpo mortale.
«Come lo sapete?» domandò.
«Perché lei mi ha parlato prima di morire» rispose Dorlas. «Ci guardava
come se cercasse qualcuno che aspettava, e ha detto: 'Mormegil. Dite al
Mormegil che Finduilas è qui'. E altro non ha detto. Ma, a causa delle sue
ultime parole, l'abbiamo seppellita dov'è morta. Giace in un tumulo sulla
riva del Teiglin. Quest'è accaduto un mese fa.»
«Conducetemi là» chiese Túrin, ed essi lo portarono a un poggio non
lungi dai Guadi del Teiglin. Quivi egli si lasciò cadere, e una tenebra gli
piombò addosso, sì che quelli pensarono che fosse morto. E Dorlas l'osser-
vò mentre era al suolo, e quindi, rivolto ai suoi, disse: «Troppo tardi! Tri-
ste caso! Vedete, qui giace il Mormegil in persona, il grande capitano di
Nargothrond. Avremmo dovuto riconoscerlo dalla spada, come hanno fatto
gli Orchi». Infatti la fama della Spada Nera del Sud si era ampiamente
diffusa, giungendo sin nelle profondità della foresta.
Lo sollevarono dunque reverenti e lo portarono nell'Ephel Brandir; e
Brandir, uscito loro incontro, si meravigliò vedendoli venire con un cata-
letto. Scostò la coperta, e scorse il volto di Túrin figlio di Húrin; e una buia
ombra gli scese sul cuore.
«O crudele gente di Haleth» gridò. «Perché avete respinto la morte di
costui? A gran fatica avete portato qui l'estremo flagello del nostro popo-
lo.»
Ma gli Uomini dei Boschi replicarono: «No, questi è il Mormegil del
Nargothrond, un possente uccisore di Orchi, che ci sarà di grande aiuto se
sopravvive. E anche se così non fosse, dovremmo noi lasciare un uomo
abbattuto dal dolore abbandonato come una carogna sulla via?».
«Non potevate certo farlo» convenne Brandir. «Sorte non ha voluto che
così fosse.» E portò Túrin in casa sua e lo curò con solerzia.
Ma quando finalmente Túrin si liberò della sua cupezza, la primavera
stava tornando; e, riaprendo gli occhi, scorse le verdi gemme illuminate
dal sole. E allora in lui si risvegliò il coraggio della Casa di Hador, e si
levò e disse in cuor suo: «Tutti i miei giorni passati sono stati scuri e pieni
di malvagità. Ma un nuovo giorno è venuto. Qui starò in pace, rinunciando
al nome e alla stirpe, e così facendo mi lascerò alle spalle la mia ombra, o
per lo meno non la proietterò su coloro che amo».
Assunse pertanto un nuovo nome, chiamandosi Turambar, che in Alto
Elfico significa Padrone del Destino; e dimorò tra gli abitanti dei boschi, e
da essi era amato, e li pregò di dimenticare il suo vecchio nome e di anno-
verarlo tra i nativi del Brethil. Pure, cambiando nome non per questo pote-
va mutare completamente il proprio carattere né dimenticare del tutto i
vecchi rancori nei confronti dei servi di Morgoth; e usciva a caccia di Or-
chi con pochi che la pensavano come lui, sebbene la cosa dispiacesse a
Brandir. Questi infatti avrebbe preferito preservare il proprio popolo grazie
al silenzio e alla segretezza.
«Il Mormegil non è più,» diceva Brandir «ma badate che il valore di Tu-
rambar non attiri sul Brethil una nuova vendetta!»
Ragion per cui Turambar depose la nera spada, non portandola più con
sé in battaglia, e usando piuttosto arco e lancia. Ma non permetteva agli
Orchi di servirsi dei Guadi del Teiglin né di avvicinarsi al tumulo dov'era
sepolta Finduilas. Haudh-en-Elleth, così era chiamato, cioè Tumulo della
Fanciulla Elfica, e ben presto gli Orchi impararono a temere quel luogo, e
ne stavano alla larga. E Dorlas disse a Turambar: «Hai rinunciato al nome,
ma continui a essere la Spada Nera; e non risponde forse al vero la voce
che lo diceva figlio di Húrin del Dor-lómin, Signore della Casa di Ha-
dor?».
Rispose Turambar: «Così ho udito dire. Ma non spargere la voce, ti pre-
go, se mi sei amico».
CAPITOLO XIV
L'ARRIVO DI GLAURUNG
Ora, ecco come si presentava il corso del Teiglin. Al pari del Narog, ve-
loce scendeva dagli Ered Wethrin, dapprima però tra vaste rive, finché,
oltre i Guadi, ingrossato da altri rivi, si scavava il letto ai piedi dell'altipia-
no coperto dalla Foresta di Brethil, e poi correva in profonde gole, le cui
ripide pareti erano simili a mura di roccia, e imprigionate al fondo le acque
fluivano con grande violenza e frastuono. E proprio sulla strada di Glau-
rung si apriva una di queste gole, nient'affatto la più profonda, sì però la
più angusta, esattamente a nord della confluenza del Celebros. Turambar
pertanto mandò tre uomini arditi a vigilare dall'orlo del burrone i movi-
menti del Drago; quanto a lui, intendeva spingersi sino all'alta cascata di
Nen Girith, dove rapide gli sarebbero giunte le notizie e donde egli stesso
avrebbe potuto spaziare con lo sguardo sulle contrade.
Prima, però, radunò gli abitanti dei boschi dell'Ephel Brandir, e così par-
lò loro: «Uomini del Brethil, un pericolo mortale ci minaccia, e solo un
grande ardire varrà a stornarlo. Ma, in questa necessità, un gran numero
sarebbe di scarso profitto. Dobbiamo usare l'astuzia e sperare nella buona
sorte. Se salissimo contro il Drago con tutte le nostre forze, come contro
un esercito di Orchi, non faremmo che esporci tutti alla morte, lasciando
così senza difesa le nostre spose e i nostri cari. Io dico pertanto che voi
dovrete rimanere qui, preparando la fuga, poiché, se Glaurung arriva, vi
converrà abbandonare questo luogo e disperdervi più che potete; e così
facendo, alcuni la scamperanno e sopravviveranno. È certo infatti che, po-
tendolo, egli distruggerà questo luogo e quant'altro gli capiti sott'occhio.
Poi, però, qui non sosterà. Tutti i suoi tesori si trovano a Nargothrond, do-
ve sono le profonde aule nelle quali può vivere al sicuro, e crescere».
Ne furono sgomenti gli uomini, ed erano del tutto scoraggiati, poiché
confidavano in Turambar e s'erano aspettati parole più ottimistiche. Egli
però soggiunse: «No, questa è l'eventualità peggiore, ed essa non si verifi-
cherà se il mio progetto e il mio destino sono buoni. Io non credo infatti
che codesto Drago sia invincibile, sebbene anno per anno cresca in forza e
in perfidia. Di lui so qualcosa. Il suo potere risiede più nel malo spirito che
lo abita che non nella forza del suo corpo, per grande che esso sia. Udite
infatti quanto mi è stato raccontato da uno che ha combattuto l'anno della
Nirnaeth, quando io e gran parte di coloro che mi stanno ad ascoltare era-
vamo ancora bambini. Su quel campo i Nani gli tennero testa, e Azaghâl di
Belegost gli inferse una ferita così profonda, che il Verme fuggì ad An-
gband. Ma ecco qui una spina più tagliente e lunga del coltello di Aza-
ghâl». E Turambar sguainò Gurthang e se la fece roteare sopra il capo, e
agli astanti parve che una fiamma dalla mano di Turambar balzasse in aria
per molti piedi. E allora levarono un gran grido: «La Spina Nera del Bre-
thil!».
«La Spina Nera del Brethil» confermò Turambar. «E ben dovrebbe te-
merla. Sappiate infatti che la sorte di codesto Drago (e, dicono, di tutta la
sua stirpe) vuole che, per grande che sia la sua corazza di corno, dura più
del ferro, sotto deve accontentarsi di un ventre di serpe. E pertanto, uomini
del Brethil, io ora intendo cercare il ventre di Glaurung, e con ogni mezzo
possibile. Chi vuol venire con me? Ho bisogno solo di poche braccia forti
e cuori ancora più forti.»
Allora si fece avanti Dorlas e disse: «Verrò con te, signore, poiché ho
sempre preferito andare incontro al nemico che attenderlo».
Ma nessun altro rispose all'appello, poiché gravava su di loro la paura di
Glaurung, e il racconto degli esploratori che l'avevano visto, essendo corso
di bocca in bocca, via via cresceva. Gridò allora Dorlas: «Ascoltatemi,
uomini del Brethil! Ormai è manifesto che, per i mali dei tempi nostri, vani
erano i consigli di Brandir. Non c'è scampo nel tenersi nascosti. Nessuno
di voi vuol prendere il posto del figlio di Handir, sì che la Casa di Haleth
non sia coperta di vergogna?». Così Brandir, che sedeva sull'alto seggio
del signore dell'assemblea, ma nessuno gli badava, fu umiliato, e il cuore
gli si riempì di amarezza perché Turambar non rimproverò Dorlas. Ecco
però levarsi un certo Hunthor, parente di Brandir, il quale disse: «Male fai,
Dorlas, a parlare così a vergogna del tuo signore, le cui membra per mala
sorte non possono fare ciò che il suo cuore vorrebbe. Bada, a te può acca-
dere il contrario! E come si può affermare che i suoi consigli fossero vani,
se mai sono stati ascoltati? Tu, suo vassallo, non li hai mai tenuti in conto.
E io ti dico che Glaurung adesso ci viene addosso, come prima ha fatto con
Nargothrond, perché i nostri atti ci hanno tradito, proprio come Brandir
temeva. Ma poiché questa disgrazia è ormai realtà, col tuo permesso, figlio
di Handir, io andrò a dar man forte alla Casa di Haleth».
Disse allora Turambar: «Tre sono sufficienti. Porterò voi due con me.
Ma, signore, io non ti disprezzo. Come vedi, dobbiamo fare in fretta, e il
compito che ci attende richiede salde membra. Penso che il tuo posto sia
con il tuo popolo, poiché sei saggio e sei un taumaturgo. E può darsi che
tra poco qui ci sia bisogno di saggezza e di arte medica». Ma quelle parole,
per quanto dette con buone intenzioni, non fecero che amareggiare vieppiù
Brandir, il quale disse a Hunthor. «Va' dunque, ma non con il mio consen-
so. Perché un'ombra grava su quest'uomo, ed egli ti condurrà a perdizio-
ne».
Ora Turambar non vedeva l'ora di partire: ma quando andò da Níniel per
prenderne congedo, lei gli si aggrappò piangendo a calde lacrime. «Non
partire Turambar, t'imploro» diceva. «Non sfidare l'Ombra da cui sei fug-
gito. No, no, continua a fuggire e portami con te, lontano da qui!»
«Níniel carissima,» replicò Turambar «non possiamo fuggire ancora, tu
e io. Siamo inchiodati a questa terra. E anche se me ne andassi, abbando-
nando il popolo che ci è stato amico, non potrei certo portarti nelle selve
inabitate, a morte tua e di nostro figlio. Un centinaio di leghe ci separano
dalla prima terra che sia fuori dalla portata dell'Ombra. Ma fatti animo,
Níniel. Questo infatti ti dico: né tu né io saremo uccisi da codesto Drago, e
neppure da qualsiasi nemico del Nord.» Níniel allora cessò di piangere e
rimase in silenzio, ma freddo fu il suo bacio di congedo.
Poi Turambar, accompagnato da Dorlas e da Hunthor, mosse in gran
fretta verso Nen Girith, e vi giunsero che il sole stava tramontando e le
ombre allungandosi; mentre i due ultimi esploratori erano lì ad attenderli.
«Non arrivi certo troppo presto, signore» dissero costoro. «Il Drago in-
fatti ha continuato la sua avanzata, e già quando noi siamo partiti aveva
raggiunto il margine del Teiglin, e fiammeggiava di là dall'acqua. Si muo-
ve sempre di notte, e dunque c'è da attendere il suo assalto prima dell'alba
di domani.»
Turambar volse lo sguardo alle cascate del Celebros, e vide il sole calare
e nere spire di fumo levarsi dalle rive del fiume. «Non c'è tempo da perde-
re» disse. «Ma queste sono buone notizie. Temevo infatti che deviasse; e
se si fosse spostato più a nord, muovendo verso i Guadi e quindi verso la
vecchia strada nella piana, la speranza sarebbe stata vana. Ma ecco invece
che l'orgoglio e la malizia che lo animano lo spingono a precipitarsi in
avanti.» Pure, già mentre parlava, tra sé rifletteva e si diceva: «Ma può
davvero essere che uno così malvagio e feroce eviti i Guadi, proprio come
gli Orchi? Haudh-en-Elleth! Che Finduilas continui a interporsi tra me e il
mio destino?».
Poi, rivolto ai compagni: «Questo è dunque il compito al quale dobbia-
mo assolvere. Ci conviene però aspettare ancora un po', perché il troppo
presto in questo caso sarebbe sbagliato come il troppo tardi. Quando si farà
buio, ci caleremo, in gran segreto, al Teiglin. Attenti, però. Le orecchie di
Glaurung sono sensibili quanto i suoi occhi, i quali sono mortiferi. Se sen-
za farci notare raggiungeremo il fiume, dovremo proseguire in fondo alla
gola, guadare la corrente e così giungere sulla direttrice che il Drago segui-
rà muovendosi».
«Ma come potrà superare la gola?» chiese Dorlas. «Per agile che sia, è
pur sempre un gran Drago, e come farà a calare lungo una parete e a risali-
re l'altra, quando una parte di lui si troverà ad ascendere prima che l'altra
sia discesa del tutto? E se di tanto è capace, a che ci varrà trovarci nella
vorticosa acqua al di sotto?»
«Forse è in grado di farlo,» rispose Turambar «e in tal caso ci andrà ma-
le. Ma io spero, da ciò che di lui sappiamo, e stando al luogo in cui ora si
trova, che il suo proposito sia un altro. È giunto al margine della Cabed-
en-Aras che, come tu stesso riferisci, una volta un cervo superò d'un balzo
fuggendo ai cacciatori di Haleth. E Glaurung è ormai tanto grande che, a
mio parere, tenterà di scagliare se stesso al di là. È tutta qui la nostra spe-
ranza, e in essa dobbiamo confidare.»
A queste parole Dorlas si sentì mancare il cuore, lui che meglio di ogni
altro conosceva la terra del Brethil tutta quanta, e la Cabed-en-Aras era
davvero un luogo triste. Il suo fianco orientale era una liscia parete di una
quarantina di piedi, nuda ma coronata in cima di alberi, e sul lato opposto
la riva era un po' meno scoscesa e alta, rivestita di alberi e cespugli rica-
denti, e tra l'una e l'altra l'acqua scorreva impetuosa tra rocce; e, se è vero
che un uomo coraggioso e dal piede saldo avrebbe potuto guadarlo di gior-
no, era pericoloso farlo di notte. Ma quello era il parere di Turambar, ed
era inutile contraddirlo.
Si misero quindi in marcia all'imbrunire, ma non subito alla volta del
Drago, bensì prendendo dapprima il sentiero per i Guadi e, a poca distanza
da questi, volgendo a sud per un sentiero più stretto e addentrandosi, nella
luce incerta, nei boschi sopra il Teiglin. A mano a mano che s'avvicinava-
no alla Cabed-en-Aras, procedendo passo passo, sovente fermandosi per
tendere l'orecchio, più forte si facevano il puzzo di bruciato e un fetore che
dava loro la nausea. Tutto però era immerso in un mortale silenzio, senza
un alito di vento. Davanti a loro, a oriente, tremolavano le prime stelle, e
contro l'ultima luce in occidente si levavano, diritte e non oscillanti, deboli
spire di fumo.
LA MORTE DI GLAURUNG
Alla fine, mentre la notte gravava fitta sulla terra, Turambar e i suoi
compagni giunsero alla Cabed-en-Aras, e furono lieti del gran rumore pro-
dotto dalle acque, poiché esso, se minacciava pericolo in basso, copriva
però ogni altro suono. Dorlas li condusse un po' lontano dal sentiero, verso
sud, dove per un crepaccio si calarono alla base dello strapiombo; lì però il
cuore gli venne meno, il fiume essendo irto di rocce e grandi massi, tra i
quali l'acqua correva furiosa, e sembrava che arrotasse i denti. «È la via
sicura per la morte» disse Dorlas.
«È l'unica via per la morte o la vita,» ribatté Turambar «e l'indugio non
varrà a renderla meno pericolosa. E quindi, seguitemi!» E prese ad avanza-
re per primo e, fosse abilità, ardimento o sorte benigna, giunse sull'altra
riva, e nella tenebra fitta si volse per vedere chi gli veniva dietro. Accanto
a lui, una forma scura. «Dorlas?» chiese.
«No, sono io, Hunthor» rispose questi. «Dorlas non ce l'ha fatta. Un uo-
mo infatti può amare la guerra e tuttavia temere molte cose. Penso che sia
rimasto a tremare sulla riva; e che possa vergognarsi per le parole che ha
rivolto al mio parente.»
Allora Turambar e Hunthor si riposarono qualche istante, ma ben presto
il freddo della notte li fece rabbrividire, essendo che entrambi erano bagna-
ti da capo a piedi, e cominciarono a cercare un sentiero lungo la corrente in
direzione nord, verso il punto dov'era Glaurung. La gola si faceva sempre
più buia e più stretta, e procedendo a tentoni scorsero un balenio sopra di
loro, come di fuoco che covasse, e udirono il russare del Grande Verme
immerso in vigile sonno. S'ingegnarono allora di salire la scarpata per
giungere proprio sotto il bordo, su ciò basando tutta la loro speranza di
colpire il nemico dov'era indifeso. Ma talmente immondo era adesso il
fetore, che ne erano storditi, e salivano scivolando, aggrappandosi agli
alberi, e vomitando, nella loro miseria dimentichi di ogni paura salvo quel-
la di precipitare nelle fauci del Teiglin.
Disse allora Turambar a Hunthor: «Invano sprechiamo le nostre ormai
deboli forze. Perché, accertatici del punto in cui il Drago passerà, sarà inu-
tile arrampicarsi».
«Ma quando lo sapremo» osservò Hunthor «ci mancherà il tempo di cer-
care il modo di risalire dall'abisso.»
«Vero» ammise Turambar. «Ma dove tutto è affidato al caso, nel caso
conviene fidare.» Si fermarono quindi e attesero, e dal buio della gola vi-
dero salire una bianca stella lungo la sottile striscia di cielo; e poi lenta-
mente Turambar sprofondò in un sogno, nel quale tutta la sua volontà era
tesa a restare avvinghiato, sebbene una nera marea ne succhiasse e stra-
ziasse le membra.
All'improvviso fu un gran rumore, e le pareti dell'abisso tremarono ed
echeggiarono. Turambar sobbalzò e disse a Hunthor: «Si muove. È giunta
l'ora. E colpisci a fondo, perché adesso due devono colpire per tre».
E Glaurung iniziò così il proprio assalto contro il Brethil. Tutto andò se-
condo le speranze di Turambar. Il Drago infatti scivolò, lento e greve, fino
all'orlo del burrone, senza deviare, accingendosi a scattare di là dall'abisso
con le grandi zampe anteriori, per poi trascinarsi dietro il resto del corpo. E
il terrore giunse con lui; perché il Drago non iniziò l'attraversamento esat-
tamente al di sopra dei due acquattati, ma un po' più a nord, e Turambar e
Hunthor ne scorsero la sagoma del capo contro le stelle; e le fauci del Dra-
go si spalancarono, ed egli aveva sette lingue di fuoco. Poi emise una vam-
pata, sicché il burrone si riempì di rossa luce e di nere ombre fuggenti tra
le rocce; e davanti a lui gli alberi si seccarono ed esalarono in fumo, e
massi piombarono nel fiume. Allora il Drago si scagliò in avanti e s'ag-
grappò al dirupo opposto con i possenti artigli, cominciando a tirarsi dal-
l'altra parte.
Ora sì che occorreva essere audaci e veloci, perché, sebbene Turambar e
Hunthor fossero sfuggiti alla vampa, non essendosi trovati sulla direttrice
di Glaurung, pure dovevano ancora farglisi sotto prima che passasse al di
là, pena altrimenti il fallimento di tutte le loro speranze. Incurante del peri-
colo, Turambar s'inerpicò lungo il dirupo per giungere sotto di lui; ma lì,
così mortiferi erano il calore e il puzzo, che barcollò e sarebbe caduto se
Hunthor, il quale bravamente lo seguiva, non l'avesse afferrato per un
braccio e sorretto.
«Saldo è il tuo cuore!» disse Turambar. «Felice è stata la scelta di te co-
me compagno.» Ma, mentre così parlava, un gran masso precipitò dall'alto
e colpì Hunthor al capo, scagliandolo nelle acque, e così finì uno che certo
non contava tra i meno valorosi della Casa di Haleth. Esclamò allora Tu-
rambar: «Ahimè, porta male procedere nella mia ombra! Perché ho cercato
aiuto? Adesso sei solo, Padrone del Destino, come avresti dovuto sapere
che non poteva non essere. E da solo ora vinci!».
Raccolse quindi le proprie energie, facendo appello a tutto il suo odio
per il Drago e il suo Padrone, e gli parve d'un tratto di trovare nel cuore e
nel corpo una forza che mai aveva avuto prima; e ascese il dirupo, pietra
dopo pietra, radice dopo radice, fino ad afferrarsi a un alberello che spun-
tava poco sotto il bordo dell'abisso, e le cui radici erano ancora salde, ben-
ché la cima ne fosse arsa. E mentre si appollaiava all'incrocio di due rami,
l'addome del Drago fu esattamente sopra di lui, per il peso calando fin qua-
si sul suo capo, prima che il mostro potesse risollevarlo. Pallido e grinzoso
era il ventre, e fradicio di un umore grigio al quale aderiva ogni sorta di
sudiciume; e ne emanava tanfo di morte. Trasse allora Turambar la Spada
Nera di Beleg e l'avventò all'insù con tutta la forza del suo braccio e del
suo odio, e la lama mortale, lunga e bramosa, penetrò nel ventre sino all'el-
sa.
Allora Glaurung, avvertendo le fitte della morte, lanciò un urlo tale che
tutti i boschi ne furono scossi e le sentinelle alla Nen Girith ne rimasero
sgomente. Turambar vacillò come sotto un colpo, e scivolò in basso, e la
spada gli fu strappata di mano e restò infitta nel ventre del Drago giacché
Glaurung, in un immane spasmo, inarcò tutta la sua massa tremante e la
scagliò oltre il burrone, e lì, sull'altra sponda, si contorse urlando, agitando
la coda e dibattendosi nell'agonia, devastando tutt'attorno a sé per ampio
tratto, e lì infine rimase, tra fumo e rovina, immobile.
Turambar stava aggrappato alle radici dell'albero, intontito e quasi so-
praffatto. Ma lottando con se stesso si riprese e un po' scivolando e un po'
arrampicandosi, calò al fiume, e ancora osò la perigliosa traversata, e stri-
sciando adesso su mani e piedi, aggrappandosi, accecato dagli spruzzi,
risalì stancamente la ripa per il crepaccio lungo il quale erano discesi.
Giunse così finalmente al Drago morente, e guardò il nemico abbattuto
senza pietà, e ne gioì.
Lì giaceva adesso Glaurung, le fauci spalancate, ma spenti erano tutti i
suoi fuochi, chiusi i suoi occhi perfidi. Se ne stava abbandonato quant'era
lungo, rotolato sul fianco, l'impugnatura di Gurthang sporgendogli dal ven-
tre. Allora il cuore si gonfiò in petto a Turambar e, sebbene il Drago anco-
ra respirasse, egli volle recuperare la spada che, se prima gli era cara, ades-
so valeva per lui tutti i tesori di Nargothrond. Veritiere si erano dimostrate
le parole pronunciate mentre veniva forgiata, che nulla e nessuno, grande o
piccolo, sarebbe sopravvissuto una volta trafittone.
Sul ventre del suo nemico posò dunque il piede e, afferrata l'impugnatu-
ra di Gurthang, esercitò tutta la propria forza per estrarla. E gridò, facendo-
si beffe delle parole pronunciate da Glaurung a Nargothrond: «Salve, Ver-
me di Morgoth! Ben ritrovato! Crepa, adesso, e che ti abbia la tenebra.
Così Túrin figlio di Húrin si è vendicato».
Strappò a forza poi la spada, e come lo fece ecco che un fiotto di sangue
nero sgorgò dalla ferita, schizzandogli sulla mano, e la carne ne fu bruciata
dal veleno, sì che Turambar gridò forte per il dolore. Al che Glaurung si
mosse e riaprì gli occhi malevoli, e guardò il suo uccisore con tanta perfi-
dia che a Turambar parve di essere stato colpito da una freccia; e per que-
sto e per il dolore alla mano cadde svenuto, e giacque come morto accanto
al Drago, al suo fianco la spada.
Ora, le urla di Glaurung giunsero alle orecchie di quanti erano alla Nen
Girith, riempiendoli di terrore; e quando le sentinelle scorsero da lontano
la devastazione e l'incendio provocati dal Drago negli spasmi dell'agonia,
credettero che stesse calpestando e sterminando coloro che l'avevano assa-
lito. E allora s'augurarono che le miglia che li separavano fossero più lun-
ghe; pure non osarono abbandonare l'altura su cui si erano radunati, memo-
ri delle parole di Turambar, secondo cui, se a spuntarla fosse stato Glau-
rung, si sarebbe precipitato per prima cosa sull'Ephel Brandir. Attesero
dunque, intimoriti, di scorgere segni dei suoi movimenti, ma nessuno fu
così ardito da andare a cercare notizie sul luogo dello scontro. E Níniel
sedeva affatto immobile, salvo per il tremito che la scuoteva senza che
potesse controllarlo; perché, all'udire la voce di Glaurung, il cuore le si era
serrato e aveva sentito la tenebra ripiombarle addosso.
Così la trovò Brandir, giunto per ultimo, lentamente e a fatica, al ponte
sopra il Celebros: tutta la lunga strada l'aveva percorsa da solo, zoppican-
do, appoggiandosi alla gruccia, e da casa sua erano almeno cinque leghe. A
spronarlo era stato il timore per Níniel, ma le notizie che gli furono date
non erano peggiori di quanto avesse temuto. «Il Drago ha passato il fiume»
gli dissero gli uomini «e la Spada Nera è certamente morta, e così quelli
che l'hanno seguita.»
Brandir si accostò allora a Níniel e ne indovinò l'angoscia, e molto se ne
angustiò; ma non poté impedirsi di pensare: «La Spada Nera è morta, e
Níniel viva». E rabbrividì, poiché d'un tratto gli parve che facesse freddo,
lì, accanto alle acque della Nen Girith; e gettò il suo mantello sulle spalle
di Níniel, senza però trovare nulla da dire; né lei aprì bocca.
Il tempo passava, e Brandir continuava a starle accanto in silenzio, af-
fondando lo sguardo nella notte e tendendo l'orecchio. Ma nulla riusciva a
vedere e non gli giungeva suono che non fosse quello delle acque che pre-
cipitavano dalla cascata del Nen Girith. E si disse: «Di sicuro Glaurung se
n'è andato e si è addentrato nel Brethil». Ma più non provava pietà per la
sua gente, quegli stolti che s'erano fatti beffe dei suoi consigli e che l'ave-
vano spregiato. «Che il Drago vada all'Amon Obel, e ci sarà così il tempo
di fuggire, di condurre in salvo Níniel.» Dove, non lo sapeva, lui che mai
era uscito dal Brethil.
Alla fine si chinò a toccare il braccio di Níniel, e le disse: «Il tempo pas-
sa, Níniel. Vieni! È ora di andare. Se me lo concedi, ti porto via con me».
Lei allora si alzò in silenzio, lo prese per mano e, varcato il ponte, si av-
viarono per il sentiero che conduceva ai Guadi del Teiglin. E quanti li vi-
dero andare come ombre nel buio, non li riconobbero né se ne curarono.
Avevano percorso un tratto di strada fra gli alberi silenti, allorché la luna
sorse dietro l'Amon Obel, e le radure della foresta si colmarono di grigia
luce. Si fermò allora Níniel e chiese a Brandir: «È questa la strada?».
E lui: «Ma quale strada? Tutte le nostre speranze nel Brethil sono morte,
e non abbiamo strada che non sia fuggire il Drago e andarcene lontano da
lui finché siamo ancora in tempo».
Níniel lo guardò meravigliata e insistette: «Ma non ti sei offerto di por-
tarmi da lui? Volevi forse ingannarmi? La Spada Nera è il mio amato e
mio marito, e solo per trovarlo ti ho seguito. Che ti credevi? Ora fa' come
vuoi, ma io devo affrettarmi».
E anche se Brandir rimase per un istante sbalordito, già lei s'allontanava;
ed egli le gridò dietro: «Aspetta, Níniel! Non andare da sola! Non sai che
cosa ti potrebbe capitare! Vengo con te!». Ma lei non gli fece caso, e an-
dava come se dentro le bruciasse il sangue che prima era stato freddo; e,
per quanto Brandir si sforzasse di tenerle dietro, ben presto Níniel scom-
parve alla vista. Allora Brandir maledisse il proprio destino e la propria
debolezza, ma non per questo tornò sui suoi passi.
Ormai la luna saliva in cielo ed era quasi piena, e quando Níniel dall'al-
tura giunse in riva al fiume, le parve di rammentarsi quella contrada, e ne
ebbe paura. Era infatti giunta ai Guadi del Teiglin, e dinanzi a lei, pallida
al chiaro di luna, si levava l'Haudh-en-Elleth, con un'ombra nera che la
traversava; e da quel poggio spirava un gran terrore.
Níniel allora si volse con un grido e fuggì a sud lungo il fiume, e corren-
do gettò il mantello, quasi a sbarazzarsi dell'oscurità che l'avvinghiava; e
siccome sotto era vestita tutta di bianco, passando tra gli alberi splendeva
alla luce della luna. E così Brandir, ancora sul pendio, la scorse e s'avviò
per tagliarle il passo, sempreché lo potesse; e, per caso imboccato lo stretto
sentiero seguito da Turambar, quello che, lasciata la strada più battuta,
calava rapido verso sud e il fiume, rieccolo finalmente vicinissimo a lei.
Ma, per quanto si sgolasse, Níniel non gli diede retta oppure non lo udì, e
ancora una volta scomparve; e in tal modo ambedue andarono avvicinan-
dosi ai boschi tra la Cabed-en-Aras e il luogo in cui agonizzava Glaurung.
La luna veleggiava nel cielo meridionale sgombro di nuvole, e spandeva
una luce fredda e chiara. Giunta al margine della rovina provocata da
Glaurung, Níniel ne scorse il corpo disteso, il ventre grigio nel chiarore; e
accanto a lui, un uomo. Dimentica allora di ogni timore, corse per la fu-
mante devastazione e giunse da Turambar, il quale era caduto sul fianco, la
spada sotto di lui, il volto pallido come un cadavere nella luce lunare. Al-
lora gli si gettò sopra piangendo e baciandolo; le parve che respirasse de-
bolmente, ma la credette l'illusione di una falsa speranza, poiché Turambar
era freddo, non si muoveva, non le dava risposta. E carezzandolo, Níniel
s'avvide che aveva la mano annerita come se fosse stata bruciata, e la lavò
con le lacrime e, strappandosi un lembo dell'abito, gliela fasciò. Ma Tu-
rambar continuò a restare immobile, e Níniel ancora lo baciò, gridando:
«Turambar, Turambar, ritorna! Ascoltami! Svegliati! Sono Níniel. Il Dra-
go è morto, è morto, e accanto a te ci sono io sola». Ma, da Turambar, nes-
suna risposta.
La udì gridare Brandir, giunto intanto al margine della rovina; e fece per
avviarsi alla sua volta, ma si fermò e ristette immobile. Perché, alle grida
di Níniel, Glaurung ebbe un ultimo sussulto, il suo corpo fu percorso da un
fremito; e il Drago socchiuse gli occhi malvagi, che balenarono alla luna, e
ansimando parlò e disse:
«Salve, Niënor figlia di Húrin. Ci rivediamo, finalmente. Mi congratulo
con te che hai trovato tuo fratello. E ora sappi chi è: uno che colpisce nel-
l'ombra, sleale con i nemici, infido con gli amici, e una maledizione per
tutti i suoi, questi è Túrin figlio di Húrin! Ma la peggiore delle sue azioni,
la sentirai in te stessa.»
E Niënor restò seduta, stordita, ma Glaurung morì. E come spirò, il velo
della sua perfidia cadde da lei, e tutti i ricordi le tornarono nitidi, giorno
dopo giorno, senza che mancasse nulla di tutto ciò che le era accaduto da
quando era crollata sull'Haudh-en-Eileth. E tremò in tutto il corpo di orrore
e angoscia. Brandir però, che aveva udito le parole del Drago, ne era rima-
sto annientato, e si appoggiò contro il tronco di un albero.
Ed ecco all'improvviso Niënor balzare in piedi e stare, pallida come un
fantasma, nella luce della luna, e guardando Túrin gridava: «Addio, due
volte amato! A Túrin Turambar turún' ambartanen: Padrone del Destino e
dal Destino dominato. Ah, felice tu che sei morto!». Quindi, fuori di sé dal
dolore e dall'orrore, corse pazzamente via da quel luogo e Brandir dietro,
zoppicando e gridando: «Aspetta, aspetta, Níniel!».
Un istante lei si fermò, volgendosi a guardare con occhi sbarrati. «A-
spettare?» urlò. «Aspettare? Sempre questo, il tuo consiglio? Ah, t'avessi
dato retta! Ma ormai è troppo tardi. E ormai più non voglio aspettare nella
Terra di Mezzo.» E corse via veloce davanti a lui.
Giunse all'orlo della Cabed-en-Aras, e quivi si fermò fissando l'acqua
fragorosa e urlando: «Acqua, acqua! Prendi adesso Níniel Niënor, figlia di
Húrin, Cordoglio, Cordoglio figlia di Morwen! Prendimi e portami al ma-
re!».
E così dicendo si gettò giù: un lampo bianco inghiottito dal nero abisso,
un grido perduto nel fragore del fiume.
LA MORTE DI TÚRIN
Ora, mentre Níniel fuggiva, Túrin si destò, e gli parve che, dalla profon-
da oscurità in cui era immerso, gliene giungesse, remoto, il richiamo; ma
morto Glaurung, il nero mancamento lo lasciò, ed egli tornò a respirare a
fondo, e sospirò, e sprofondò in un sonno di enorme stanchezza. Ma prima
dell'alba scese un freddo tagliente, ed egli si agitò nel sonno, l'elsa di Gur-
thang gli premette contro il fianco, e d'un tratto Túrin riaprì gli occhi. La
notte se ne andava, nell'aria era il respiro del mattino; ed egli balzò in pie-
di, memore della sua vittoria e del bruciore del veleno sulla sua mano. Se
la portò agli occhi, la guardò, se ne stupì: era fasciata con un lembo di
bianca tela ancora umido, né più gli doleva; e Túrin si chiese: «Perché
qualcuno ha sentito il bisogno di medicarmi a questo modo, per poi abban-
donarmi qui, al freddo, tra devastazione e il fetore di Drago? Che strane
cose sono accadute?».
Chiamò allora forte, ma non venne risposta. Attorno a lui tutto nero e te-
tro, e c'era sentore di morte. Si levò a raccogliere la spada, ed era intatta,
nient'affatto offuscato il bagliore del taglio. «Immondo era il veleno di
Glaurung,» disse «ma tu, Gurthang, sei più forte di me! Non c'è sangue che
tu non beva. Tua è la vittoria. Ma adesso vieni! Devo cercare aiuto. Spos-
sato è il mio corpo, e nelle ossa un fremito di gelo.»
Volse le spalle a Glaurung e lo lasciò lì a imputridire; ma, mentre s'al-
lontanava, ogni passo gli riusciva più pesante, e Túrin pensò: «Forse alla
Nen Girith troverò uno degli esploratori che mi aspetta. Ah, fossi io subito
a casa mia, a sentire la carezza gentile delle mani di Níniel, ben curato da
Brandir!». E così alla fine, procedendo stancamente, appoggiandosi a Gur-
thang, giunse alla Nen Girith nella grigia luce del giorno nascente, e com-
parve davanti al popolo proprio mentre uomini s'accingevano ad andare a
cercare il corpo.
Quelli allora arretrarono terrorizzati, credendolo uno spettro senza re-
quie, e le donne gemettero e si coprirono gli occhi. Ma Túrin disse: «No,
non piangete, ma rallegratevi! Guardate, non sono forse io vivo? E non ho
forse ucciso il Drago che tanto temevate?».
Ed ecco che quelli, voltisi a Brandir, gridarono:
«Stolto! False erano le tue notizie, secondo le quali Turambar era morto.
Non s'era già detto che sei pazzo?»
Brandir però era sgomento, e fissava Túrin, gli occhi sgranati per la pau-
ra, senza riuscire a proferir parola.
Gli disse Túrin: «Dunque, sei stato tu che sei venuto laggiù e mi hai me-
dicato la mano? Certo, però, che ben poco vale la tua arte, se non sai di-
stinguere deliquio da morte». Quindi, rivolto al popolo: «Non parlate così
di lui, stolti voi tutti. Chi di voi avrebbe saputo far di meglio? Per lo meno,
Brandir ha avuto il coraggio di venire al luogo della battaglia, mentre voi
ve ne state qua a piagnucolare! E ora su, figlio di Handir! C'è ancora altro
che voglio sapere. Perché sei qui, e con te tutta questa gente che ho lascia-
to nell'Ephel? Possibile, visto che affronto il pericolo per amor vostro, che
non mi si presti ascolto appena ho voltato le spalle? E dov'è Níniel? Posso
almeno sperare che non l'abbiate portata qui con voi, ma lasciata dove vo-
levo che restasse, in casa mia, con uomini degni di tal nome a custodirla?».
E, come nessuno gli dava risposta: «Orsù, ditemi dov'è Níniel?» gridò.
«Lei è la prima che voglio vedere e la prima cui voglio raccontare delle
mie gesta nella notte».
Ma quelli volsero la faccia altrove, e Brandir si decise finalmente a dire:
«Níniel non è qui».
«Bene, allora» disse Túrin. «Vuol dire che andrò a casa. Non c'è un ca-
vallo che mi ci porti? Meglio ancora sarebbe un cataletto. Mi sento venir
meno dalla stanchezza.»
«No, no» disse Brandir in preda all'angoscia. «La tua casa è vuota. Ní-
niel non è là. È morta.»
Ma una delle donne, la moglie di Dorlas, che poco amava Brandir, levò
una voce stridula a dire: «Non prestargli attenzione, signore! Gli ha dato di
volta il cervello. È arrivato dicendo che tu eri morto e sostenendo che era
una buona notizia. Tu invece sei vivo. E allora, perché dovrebbe essere
vera questa faccenda di Níniel, che sarebbe morta, e che altro ancora?».
Túrin allora si fece addosso a Brandir. «Dunque,» gridò «la mia morte
era una buona notizia? Sì, sempre mi hai invidiato Níniel, questo lo sape-
vo. Adesso è morta, tu dici. E che altro? Che menzogne hai macchinato
nella tua malizia, Piedezoppo? Vorresti forse ucciderci con sporche parole,
poiché altre armi non sai maneggiare?»
Allora la collera scacciò la pietà dal cuore di Brandir, il quale gridò:
«Pazzo, io? No, pazzo sei tu, Spada Nera della nera sorte! E con te anche
questo stupido popolo. Io non mento! Níniel è morta, morta, morta! Cerca-
la nel Teiglin!».
E Túrin ristette, silenzioso e freddo. «Come fai a saperlo?» disse debol-
mente. «Come l'hai potuto inventare?»
«Lo so perché l'ho vista saltare giù» rispose Brandir. «Ma a causarlo sei
stato tu. Da te è fuggita, Túrin figlio di Húrin, e si è gettata nella Cabed-
en-Aras, per non doverti più rivedere. Níniel, Níniel? Macché: Niënor fi-
glia di Húrin!»
Allora Túrin lo afferrò e lo scosse, perché in quelle parole aveva udito il
passo del suo destino che lo aveva raggiunto ma, in preda a furia e orrore,
il suo cuore riluttava come una bestia che, ferita a morte, prima di morire
voglia ferire a sua volta chiunque le sia vicino.
«Sì, sono Túrin figlio di Húrin» gridò. «Devi averlo capito già molto
tempo fa. Ma nulla sai di Niënor mia sorella. Nulla! Essa dimora nel Re-
gno Nascosto ed è al sicuro. È una menzogna escogitata dalla tua mente
abbietta, allo scopo di far perdere il senno a mia moglie e adesso a me.
Diavolo di uno zoppo: vuoi dunque spingerci entrambi alla morte?»
Ma Brandir se ne liberò con uno strattone. «Giù le mani!» gli disse.
«Smettila di vaneggiare. Colei che tu chiami tua moglie è venuta da te e ti
ha curato, e tu non hai risposto al suo richiamo. Uno però l'ha fatto: Glau-
rung il Drago, che ritengo vi abbia stregati entrambi per vostra disgrazia. E
così ha detto prima di crepare: 'Niënor figlia di Húrin, ecco qui tuo fratello:
sleale con i nemici, infido con gli amici, e una maledizione per tutti i suoi,
Túrin figlio di Húrin'.» E d'un tratto Brandir fu scosso da una folle risata.
«Sul letto di morte, corre voce che gli uomini dicano il vero» blaterò. «E
persino un Drago lo fa, a quanto pare! Túrin figlio di Húrin, una maledi-
zione per tutti quelli del tuo sangue e per chiunque ti dia ricovero!»
Allora Túrin diede mano a Gurthang, e una luce feroce era nei suoi oc-
chi. «E che dire allora di te, Piedezoppo?» domandò, parlando lentamente.
«Chi le ha detto in segreto, alle mie spalle, il mio vero nome? Chi l'ha e-
sposta alla perfidia del Drago? Chi le era vicino e l'ha lasciata morire? E
chi è venuto qui per svelare in gran fretta quest'orrore? Chi adesso se la
gode della mia disgrazia? Gli uomini dicono la verità prima della morte? E
allora, affrettati a dirla adesso.»
Allora Brandir, letta in volto a Túrin la propria sentenza di morte, restò
immobile senza sgomentarsi, sebbene non avesse altra arma che la gruccia,
e disse: «Tutto quanto è accaduto sarebbe un lungo racconto, e io sono
stanco di te. Ma tu mi calunni, figlio di Húrin. Forse che Glaurung ti ha
calunniato? Se mi uccidi, tutti si renderanno conto che non l'ha fatto. Ma
non ho paura di morire, perché così potrò andare a cercare Níniel che ama-
vo, e chissà che non la ritrovi oltre il mare».
«Cercare Níniel!» urlò Túrin. «No, Glaurung troverai, e insieme mac-
chinerete menzogne. Dormirai con il Verme, il compagno dell'anima tua, e
nella stessa tenebra marcirai!» Poi levò Gurthang e la calò su Brandir, uc-
cidendolo. Ma il popolo distolse lo sguardo da quell'atto, e quando Túrin
se ne andò dalla Nen Girith, fuggirono da lui terrorizzati.
E Túrin s'aggirò per le selve come chi è fuor di senno, ora maledicendo
la Terra di Mezzo e la vita tutta degli Uomini, ora chiamando Níniel. Ma
quando finalmente la follia e il dolore lo abbandonarono, a lungo stette
seduto, a meditare sulle sue azioni, e udì se stesso gridare: «Ella dimora
nel Regno Nascosto, ed è al sicuro!». E pensò che ora, sebbene la sua esi-
stenza fosse tutta una rovina, lì doveva andare, essendo che le menzogne di
Glaurung lo avevano sempre fuorviato. Si alzò dunque e si recò ai Guadi
del Teiglin, e passando presso lo Haudh-en-Elleth gridò: «Caro ho pagato,
Finduilas, il fatto di aver dato retta al Drago. Inviami tu un consiglio».
Ma mentre così gridava vide dodici cacciatori bene armati che superava-
no i Guadi, ed erano Elfi; e come gli furono più vicini, ne riconobbe uno,
ed era Mablung, capocaccia di Thingol. E Mablung lo salutò dicendogli:
«Túrin! Finalmente ci incontriamo. Ti cercavo e sono lieto di rivederti
vivo, per quanto gli anni ti siano stati pesanti».
«Pesanti!» replicò Túrin. «Sì, come i piedi di Morgoth. Ma se sei lieto di
rivedermi vivo, sei l'unico ormai nella Terra di Mezzo. E dunque, perché?»
«Perché eri tenuto in grande onore tra di noi;» rispose Mablung «e seb-
bene tu sia sfuggito a molti pericoli, fino all'ultimo ho temuto per te. Ho
assistito all'uscita di Glaurung, e pensavo che avesse assolto al suo malo
compitò e stesse tornando dal suo Padrone. Invece, si è diretto verso il
Brethil, e in pari tempo ho appreso, da viandanti, che la Spada Nera del
Nargothrond era riapparsa da quelle parti, e che gli Orchi evitavano i con-
fini come la morte. Allora mi sono sentito prendere da paura e ho detto:
'Ahimè, ecco che Glaurung va dove i suoi Orchi non osano, a cercare Tú-
rin'. Per questo sono giunto qui al più presto possibile per avvertirti e aiu-
tarti.»
«Presto, ma non presto abbastanza» disse Túrin. «Glaurung è morto.»
Allora gli Elfi lo guardarono meravigliati, ed esclamarono: «Tu hai ucci-
so il Grande Verme! Per sempre lodato sarà il tuo nome tra Elfi e Uomi-
ni!».
«Non me ne curo» ribatté Túrin. «Perché anche il mio cuore è ucciso.
Ma, visto che venite dal Doriath, datemi notizie dei miei. Nel Dor-lómin
ho saputo che mia madre e mia sorella erano fuggite nel Regno Nascosto.»
Muti stettero gli Elfi, ma alla fine Mablung parlò e disse: «Così hanno
fatto invero, l'anno prima della venuta del Drago. E, ahimè, adesso non
sono più là!». Allora il cuore di Túrin sobbalzò, poiché aveva uditi i passi
della sorte che l'avrebbe perseguitato sino alla fine.
«Continua!» gridò. «E in fretta!»
«Si sono addentrate nelle selve per cercarti» riprese Mablung. «Era con-
trario a ogni buon senso, ma hanno voluto partire per Nargothrond quando
si è risaputo che la Spada Nera eri tu; e Glaurung era uscito dalla tana, e
tutti gli uomini della loro scorta si sono dispersi. Da quel giorno, più nes-
suno ha visto Morwen; quanto a Niënor, ottenebrata da un incantesimo, è
fuggita a nord, nei boschi, come una cerva selvaggia, e si è perduta.»
Allora, con stupore degli Elfi, Túrin diede in una risata fragorosa e stri-
dula. «Non è forse, un bello scherzo?» gridò. «Oh, la bella Niënor! Sicché,
dal Doriath è corsa verso il Drago, e dal Drago sarebbe venuta a me. Trop-
pa grazia! Bruna come una bacca, era, e scuri i suoi capelli; piccola ed
esile come un bambino elfo, impossibile sbagliarsi.»
Ne restò sbalordito Mablung, che rispose: «No, ti sbagli. Non era così,
tua sorella. Era alta, gli occhi azzurri, i capelli d'oro fino, la versione fem-
minile di Húrin suo padre. Non puoi averla vista!».
«Come, Mablung, non potevo?» gridò Túrin. «E perché no? Ah, già, io
sono cieco. Non lo sapevi? Cieco, cieco, e fin dall'infanzia brancolo nella
nebbia scura di Morgoth! E quindi lasciami! Vattene, vattene, torna nel
Doriath, e che l'inverno lo inaridisca. Maledizione a Menegroth! E male-
detta la tua cerca! Non mi mancava che questo! E ora scende la notte!»
E fuggì da loro veloce come il vento, lasciandoli pieni di stupore e pau-
ra. Disse Mablung: «Dev'essere successo qualcosa di strano e spaventoso
che noi ignoriamo. Seguiamolo e aiutiamolo, se possiamo: perché ora è
pazzo e insensato».
Ma Túrin ben presto li distanziò, e giunse alla Cabed-en-Aras, e lì s'arre-
stò; udì il fragore dell'acqua e constatò che tutti gli alberi, vicini e lontani,
erano rinsecchiti, e che le foglie ne cadevano tristemente, come se l'inver-
no fosse sopraggiunto nei primi giorni d'estate.
«Cabed-en-Aras, Cabed Naeramarth!» gridò. «Non voglio insozzare le
tue acque che hanno lavato Níniel. Perché male sono state tutte le mie a-
zioni, e l'ultima è la peggiore.»
Poi sguainata la spada disse: «Salve, Gurthang, Ferro di Morte, tu sola
mi rimani! Ma quale signore leale conosci tu, salvo la mano che t'impu-
gna? Nessun sangue ti ripugna! Vuoi bere anche quello di Túrin Turam-
bar? Vuoi uccidermi in fretta?».
E dalla lama uscì in risposta una fredda voce: «Sì, voglio bere il tuo san-
gue, per modo che possa dimenticare il sangue di Beleg mio padrone, e il
sangue di Brandir, ucciso ingiustamente. Ti ammazzerò in fretta».
Allora Túrin piantò l'impugnatura in terra e si gettò sulla punta di Gur-
thang, e la nera lama si prese la sua vita.
Giunse Mablung, guardò l'orrenda massa di Glaurung che giaceva mor-
to, guardò Túrin e ne fu addolorato, pensando a Húrin quale lo aveva visto
alla Nirnaeth Arnoediad e all'atroce sorte di quelli del suo sangue. E, men-
tre gli Elfi così stavano, uomini scesero dalla Nen Girith per andare a
guardare il Drago, e quando s'avvidero della fine toccata all'esistenza di
Túrin, piansero e gli Elfi appresero infine la ragione delle parole di Túrin e
ne furono sgomenti. Allora Mablung commentò amaramente: «Anch'io son
stato coinvolto nella sorte dei figli di Húrin, ed è così accaduto che con le
parole uccidessi uno che amavo».
Sollevarono poi il corpo di Túrin, e s'avvidero che la sua spada si era
spezzata. E così finì tutto ciò che possedeva.
Col lavoro di molte mani raccolsero legname ed eressero un'alta pira e
fecero un gran fuoco, distruggendo il corpo del Drago, finché non ne rima-
se che nera cenere, e le ossa le polverizzarono, e il sito del rogo da allora
rimase nudo e sterile. Túrin, invece, lo inumarono in un alto tumulo là do-
ve era caduto, e accanto gli misero le schegge di Gurthang. E quando tutto
fu compiuto, e i menestrelli di Elfi e Uomini ebbero intonato un lamento,
raccontando il valore di Turambar e la bellezza di Níniel, un gran masso
grigio venne posto sul tumulo, e su di esso gli Elfi incisero con le rune del
Doriath:
e sotto scrissero:
NIËNOR NÍNIEL
Ma lei lì non era, né mai si seppe dove le fredde acque del Teiglin l'a-
vessero portata.
Ma Húrin non guardò la pietra poiché sapeva che cosa c'era scritto, e i
suoi occhi avevano notato che non era solo. Seduta all'ombra del masso vi
era una figura umana piegata sulle ginocchia. Sembrava che si trattasse di
qualche vagabondo senza tetto, fiaccato dall'età, troppo logorato per pre-
stare attenzione al suo arrivo; ma i suoi stracci erano quel che rimaneva di
un abito di donna. Húrin rimase lì in silenzio mentre lei tirò indietro il suo
cappuccio sbrindellato e lentamente sollevò il volto, sconvolto e affamato
come un lupo a lungo cacciato. Aveva i capelli grigi, un naso appuntito e
denti rotti e con la mano ossuta afferrò il mantello sul suo petto. Ma al-
l'improvviso i suoi occhi incontrarono quelli di Húrin e questi la riconob-
be. Sebbene essi fossero ora inselvatichiti e pieni di paura, una luce ancora
emanava da loro, dura a morire: la luce elfica che molto tempo prima le
aveva guadagnato il suo nome, Eledhwen, la più orgogliosa delle donne
mortali nei tempi remoti.
E Húrin gridò: «Eledhwen! Eledhwen!», e colei che aveva chiamato si
alzò e avanzò incespicando. Húrin la prese tra le sue braccia.
Ella disse: «Sei arrivato finalmente. A lungo ti ho atteso».
Egli replicò: «La strada era scura e io sono arrivato come ho potuto».
Ed ella: «Ma è tardi, troppo tardi. Sono perduti».
Ed egli disse: «Lo so, ma tu non sei persa».
«Quasi» rispose lei. «Sono completamente sfinita. Me ne andrò con il
sole. Loro sono perduti.» E si aggrappò al mantello di lui «C'è rimasto
poco tempo» continuò «se sai qualcosa, dimmelo! Come ella l'ha trovato?»
Ma Húrin non rispose e sedette accanto alla pietra con Morwen nelle sue
braccia; più non proferirono parola. Il sole tramontò e Morwen sospirando
strinse la mano di lui e rimase immobile. Allora Húrin seppe che era mor-
ta.
GENEALOGIE
Bregor
Barahir Bregolas
Elwing Eärendil
Elrond
Di Gran Burrone La Casa di Bëor
Finwë'
Eärendil
Elrond
di Gran Burrone I principi del Noldor
APPENDICE
(1)
Così i due viandanti giunsero alle porte di Nargothrond, nella gola del
Narog:
Ma nel testo dei Figli di Húrin non ci viene detto più di così (p. 160):
Questo è il precedente del passaggio che si trova in questo libro alla pa-
gina 98 all'inizio di «Túrin fra i fuorilegge».
Mio padre era arrivato fino a queste parole quando il Quenta Silmaril-
lion e gli altri manoscritti gli furono restituiti; e tre giorni dopo, il 19 di-
cembre 1937, egli scrisse ad Alien e Unwin: «Ho completato il primo capi-
tolo di una nuova storia sugli Hobbit: 'Una festa a lungo attesa'». È stato a
questo punto che la tradizione ininterrotta e in itinere del Silmarillion nella
sintesi stile Quenta giunse al termine, arrestato nel bel mezzo della parten-
za di Túrin dal Doriath.
La successiva storia da quel punto in poi rimase, negli anni a seguire,
nella forma semplice, compressa e ancora da sviluppare del Quenta del
1930, congelato così com'era, mentre le grandi strutture della Seconda e
Terza Era emersero con la scrittura del Signore degli Anelli. Ma quella
ulteriore storia era di fondamentale importanza nelle antiche leggende,
poiché i racconti conclusivi (derivanti dall'originale Libro dei racconti
perduti) narravano della disastrosa storia di Húrin, padre di Túrin, dopo
che Morgoth lo aveva liberato, e della rovina dei regni elfici del Nargo-
thrond, Doriath e Gondolin, dei quali Gimli cantò nelle miniere di Moria
molte migliaia di anni dopo.
Quando, molti anni più tardi, nei primi anni Cinquanta, Il Signore degli
Anelli fu terminato, mio padre si dedicò con energia e fiducia alla «Materia
dei Tempi Remoti», adesso divenuta la «Prima Era», e negli anni imme-
diatamente successivi rispolverò molti vecchi manoscritti che da tempo
giacevano da parte. Occupandosi del Silmarillion, mio padre riprese il bel
manoscritto del Quenta Silmarillion con correzioni e aggiunte; ma quella
revisione cessò nel 1951, prima che arrivasse al punto della storia di Túrin
dove il Quenta Silmarillion fu abbandonato nel 1937 con l'avvento della
«nuova storia degli Hobbit».
Iniziò una revisione del Lai di Leithian (il poema in rima che racconta la
storia di Beren e interrotto nel 1931) che presto divenne quasi un nuovo
poema, di ben più grande perfezione; ma ciò andò scemando e venne infi-
ne abbandonato. S'imbarcò in quello che sarebbe diventato una lunga saga
di Beren e Lúthien in prosa, basata soprattutto sulla forma riscritta del Lai;
ma anche questa fu abbandonata. Dunque il suo desiderio, che realizzò in
successivi tentativi, di dare al primo dei «grandi racconti» un rilievo mag-
giore non riuscì mai a concretizzarlo.
E da allora riprese anche il «grande racconto» della caduta di Gondolin,
ancora esistente soltanto nel Racconto perduto di trentacinque anni prima e
nelle poche pagine a esso dedicate nel Quenta Noldorinwa del 1930. Que-
sta sarebbe stata la presentazione, quando era al massimo della sua potenza
creativa, sotto il profilo narrativo e nei relativi aspetti, dello straordinario
racconto che aveva letto alla Essay Society del suo college di Oxford nel
1920, e che rimase, nel corso di tutta la vita, un elemento vitale nella sua
immaginazione dei Tempi Remoti. Lo speciale collegamento con il rac-
conto di Túrin sta nei fratelli Húrin, padre di Túrin, e Huor, padre di Tuor.
Húrin e Huor in giovinezza erano entrati nella città elfica di Gondolin,
nascosta all'interno di una cerchia di alte montagne, come si dice nei Figli
di Húrin (p. 33); e più avanti, nella Battaglia delle Innumerevoli Lacrime,
si incontrarono di nuovo con Turgon, Re di Gondolin, che disse loro (p.
51): «Ormai Gondolin non può più rimanere celata a lungo e, una volta
scoperta, non potrà che cadere». E Huor replicò:
«Eppure, se resiste ancora un po', ecco che dalla tua Casata verrà la
speranza degli Elfi e degli Uomini. Questo è quel che ti dico, o signo-
re, ora che sono al cospetto della morte: sebbene qui ci si debba sepa-
rare per sempre e mai più rivedrò le tue bianche mura, da te e da me
sorgerà una nuova stella».
(2)
Per quanto riguarda il resto della storia, dal ritorno di Túrin nel Dor-
lómin, di cui esiste la stesura definitiva di mio padre, ci sono, naturalmen-
te, ben poche differenze rispetto al testo dei Racconti incompiuti. Ma in
due dettagli nel racconto dell'attacco contro Glaurung a Cabed-en-Aras ho
cambiato le parole originali e devo spiegarne il perché.
Il primo cambiamento riguarda la geografia. Vi si dice (p. 234) che Tú-
rin e i suoi compagni, quando in quella serata fatidica si misero in viaggio
dalla Nen Girith, non andarono dritti incontro al Drago, che giaceva sul
lato più lontano della forra, ma imboccarono dapprima il sentiero che por-
tava ai Guadi del Teiglin e «poi, prima di arrivare troppo in là, girarono
verso sud prendendo un sentiero stretto» e attraversarono il bosco sopra il
fiume, verso Cabed-en-Aras. Mentre si avvicinavano, nel testo originale di
questo passaggio si legge: «le prime stelle brillavano a est, dietro di loro».
Quando preparai il testo per i Racconti incompiuti, non mi resi conto che
non poteva essere così, dato che non si stavano certo muovendo in direzio-
ne ovest, bensì est, o sud-est, lontano dai Guadi, e le prime stelle a est do-
vevano trovarsi davanti a loro e non dietro di loro. Nell'analizzare questo
in The War of the Jewels 9 , mi feci convincere dall'idea che il «sentiero
stretto» diretto a sud in realtà poi voltasse a occidente per raggiungere il
Teiglin. Ma ora ciò mi sembra improbabile, perché non avrebbe motivo
nella narrazione, e che la soluzione più semplice sia quella di correggere
«dietro di loro» con «davanti a loro», come ho fatto nel nuovo testo.
Lo schizzo di mappa che ho disegnato nei Racconti incompiuti (p. 209)
per illustrare il territorio non è, infatti, ben orientato. E, come si vede dalla
mappa del Beleriand di mio padre, e come riprodotto nella mia mappa per
9
* J.R.R. Tolkien, The History of Middle-earth (11). The War of the
Jewels, a cura di Christopher Tolkien, HarperCollins, Londra, 1994, p.
157. (NdR)
Il Silmarillion, l'Amon Obel era quasi a est dei Guadi del Teiglin («la luna
sorse dietro l'Amon Obel», in questo testo a p. 245), e il Teiglin scorreva a
sud-est o a sud-sud est nelle gole.
Adesso ho ridisegnato la mappa e ho anche inserito il luogo approssima-
tivo dove doveva trovarsi il Cabed-en-Aras (si dice, in questo testo a p.
228, che «proprio sulla strada di Glaurung si apriva una di queste gole,
nient'affatto la più profonda, sì però la più angusta, esattamente a nord
della confluenza del Celebros»).
Il secondo cambiamento riguarda l'episodio dell'uccisione di Glaurung.
Di questo ne esistono un abbozzo e una stesura finale. Nell'abbozzo, Túrin
e i suoi compagni si arrampicarono su per il lato più lontano del precipizio
finché giunsero sotto il ciglio; rimasero lì mentre trascorreva la notte e
Túrin «lottò con i sogni neri di terrore in cui tutta la sua volontà serviva
per tenersi aggrappato e resistere».
I nomi che appaiono nella mappa del Beleriand sono seguiti dall'asteri-
sco *.
Barad Eithel «Torre del Pozzo», fortezza dei Noldor sull'Eithel Sirion.
Baragund Padre di Morwen; cugino di Beren.
Barahir Padre di Beren; fratello di Bregolas.
Bar-en-Danwedh «Casa del Riscatto», nome dato da Mîm alla sua casa.
Bar-en-Nibin-noeg «Casa dei Nanerottoli» sull'Amon Rûdh.
Bar Erib Una roccaforte del Dor-Cúarthol a sud dell'Amon Rûdh.
Battaglia delle Innumerevoli Lacrime Vedi Nirnaeth Arnoediad.
Bauglir «Il Costrittore», nome dato a Morgoth.
Beleg Elfo del Doriath, un grande arciere; amico e compagno di Túrin.
Detto Cúthalion «Arcoforte».
Belegost «Granrocca», una delle due città dei Nani nelle Montagne Az-
zurre.
Belegund Padre di Rían; fratello di Baragund.
Beleriand Terre a ovest delle Montagne Azzurre nei Tempi Remoti.
Belthronding Arco di Beleg.
Bëor Capo dei primi Uomini che entrarono nel Beleriand; capostipite
della Casa di Bëor, una delle tre Casate degli Edain.
Beren Uomo della Casa di Bëor, amante di Lúthien, che staccò un Sil-
maril dalla corona di Morgoth; chiamato «Monco» e Camlost «Manovuo-
ta».
Bragollach Vedi Dagor Bragollach.
Brandir Signore del Popolo di Haleth nel Brethil all'epoca dell'arrivo di
Túrin; figlio di Handir.
Bregolas Padre di Baragund; nonno di Morwen.
Bregor Padre di Barahir e Bregolas.
Brethil* Foresta tra i fiumi Teiglin e Sirion; Uomini del Brethil, il popo-
lo di Haleth.
Brithiach* Guado del Sirion a nord della Foresta di Brethil.
Brodda Un Esterling nello Hithlum dopo la Nirnaeth Arnoediad.
Cabed-en-Aras «Il Salto del Cervo», profonda gola del fiume Teiglin
dove Túrin uccise Glaurung.
Cabed Naeramarth «Il Salto dell'Atroce Destino», nome dato alla Ca-
bed-en-Aras dopo che Niënor si precipitò dai suoi dirupi.
Casa di Hador Una delle Casate degli Edain.
Celebros Corso d'acqua del Brethil che precipita nel Teiglin presso i
Guadi.
Cintura di Melian Vedi Melian.
Círdan Chiamato «Il Carpentiere»; signore delle Falas; quando i Porti
furono distrutti, dopo la Nirnaeth Arnoediad, fuggì a sud nell'Isola di
Baiar.
Collina delle Spie Vedi Anton Ethir.
Crissaegrim* I picchi montani a sud di Gondolin, dove erano i nidi di
Thorondor.
Cúthalion «Arcoforte», nome di Beleg.
Khîm Uno dei figli di Mîm il Nanerottolo, ucciso da una freccia di An-
dróg.
Valar «Le Potenze», i grandi spiriti che entrarono nel Mondo all'inizio
del tempo.
Valinor La terra dei Valar nell'Occidente, oltre il Grande Mare.
Varda La più grande delle regine dei Valar, consorte di Manwë.
Christopher Tolkien
POSTFAZIONE
ALL'EDIZIONE ITALIANA
di Gianfranco de Turris
UNA NOTA
di Quirino Principe
FINE