Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
eLab-PRO è un ambiente online che rende immediatamente disponibili materiali utili per la
tua professione (test, griglie di valutazione, attività, esercizi) scaricabili gratuitamente. Tutte
le proposte sono state selezionate dalla Ricerca&Sviluppo Erickson e sono basate su evidenze
scientifiche.
QUI SOTTO PUOI TROVARE ALCUNI DEI TITOLI DA CUI SONO STATI TRATTI I MATERIALI.
SCOPRI DI PIU
www.erickson.it
Argomenti trattati
• Abilità di counseling e colloquio di aiuto
• I colloqui
• Il dialogo
ASSISTENTE
oggetto delle due prove scritte e della prova orale.
È organizzato in una serie di argomenti chiave, per • Il lavoro sul caso
PREPARAZIONE ALL’ESAME
LETTURE SCELTE PER LA
ciascuno dei quali vengono proposti: • Il colloquio di aiuto e la visita
SOCIALE
− un quadro introduttivo, che ordina e sintetizza domiciliare
i concetti fondamentali legati al tema del capi- • Il lavoro con i gruppi e la comunità
DI STATO – SEZ. B
tolo;
• Le reti, il lavoro di rete e il lavoro
− una selezione antologica di testi di approfon-
interprofessionale
dimento, scritti da importanti studiosi italiani e
internazionali; • Le politiche di welfare
DOMANI
− un percorso di sintesi sotto forma di mappe • Approfondimenti su alcune
concettuali; specifiche aree di disagio
− una serie di domande per lo studio e il ripasso,
• Principali norme di legge
M.L. Raineri
ASSISTENTE SOCIALE DOMANI
VOL. 2 – PROVE SVOLTE
VOL. 1
€ 24,00
218 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1
Atteggiamento di valutazione
Consiste nel fare riferimento a norme o a valori, indicando ciò che è bene o male. Chi as-
sume un atteggiamento di valutazione «offre» un consiglio morale (o moralistico): mette in
guardia, approva, disapprova, invita a pensare in una certa maniera, allude ai criteri che si
devono ritenere validi, secondo lui.
Atteggiamento di interpretazione
Si manifesta in vari modi. A volte il counselor pone l’accento su uno tra gli elementi espressi
dall’interlocutore che lui giudica essenziale e quindi fa un riassunto parziale e orientato. Altre
volte il counselor deforma il significato di quello che è stato detto partendo da sue categorie
di interpretazione. Altre volte ancora il counselor dà una spiegazione della situazione che
la persona gli riporta, con un tono didascalico: è come se, ponendosi implicitamente in
* Tratto da Folgheraiter F., Pasini A. e Raineri M.L. (a cura di) (2006), Apprendere il counseling nel metodo
di Mucchielli, CD-ROM, Trento, Erickson.
IL COLLOQUIO DI AIUTO E LA VISITA DOMICILIARE 219
una posizione di superiorità, volesse spiegare alla persona che cosa le sta accadendo.
Possiamo anche trovare una varia mescolanza di questi modi di porsi.
Atteggiamento di sostegno
La risposta di sostegno è finalizzata a dare supporto, incoraggiamento, consolazione. A
volte fa riferimento a una comunanza di esperienze tra interlocutore e counselor («È capitato
anche a me…»).
Il pensiero e le emozioni della persona vengono considerate «naturali». Si cerca di rassicu-
rare la persona sdrammatizzando e minimizzando il problema. L’essenza della risposta di
sostegno è un atteggiamento paternalistico.
Atteggiamento di soluzione
Il counselor propone all’interlocutore una soluzione per uscire dalla situazione. Può con-
sigliare a chi altri rivolgersi, può suggerire quale è, secondo lui, l’obiettivo da perseguire e
come fare a realizzarlo, può fare una proposta pratica.
L’atteggiamento di comprensione
L’atteggiamento di comprensione si differenzia da tutti gli altri perché non è centrato sul
counselor, ma nasce dal tentativo di entrare nel problema così come è vissuto dalla persona.
Le risposte di comprensione possono essere di diverso tipo, ma mirano tutte a «ritornare»
alla persona che parla, in sintesi e con altre parole, l’essenza o parte di ciò che ha detto
esplicitamente o implicitamente, focalizzando i fatti o le emozioni o i vissuti personali. L’effetto
della risposta di comprensione è di accrescere la fiducia e la motivazione dell’interlocutore
a proseguire e approfondire la sua narrazione.
L’atteggiamento di comprensione può esprimersi a due livelli:
Comprensione 1: atteggiamento di ascolto comprensivo che cerca di riportare il più fedel-
mente possibile ciò che l’interlocutore ha detto esplicitamente.
Comprensione 2: atteggiamento di ascolto comprensivo che cerca di chiarire, senza defor-
mare, l’essenza di ciò che l’interlocutore vuole esprimere esplicitamente o implicitamente.
LAVORARE
collaboratori o di lavorare in team, tutto dipende dalla propria abilità maggiori ostacoli allo sviluppo della creatività
lente indipendente, vanta una
di rapportarsi efficacemente con gli altri. Occorre quindi sviluppare vi è l’atteggiamento di chi dice: “Non ci riesco.
pluridecennale esperienza di
una più matura consapevolezza delle dinamiche che intervengono Non sono assolutamente una persona creativa!”.
lavoro nell’ambito dei servizi
È questo un tipico atteggiamento disfattista,
CON LE PERSONE
alla persona. Nella sua carrie- quando si lavora con le persone e arricchire il proprio bagaglio di
ra è stato docente in quattro competenze nelle relazioni interpersonali. proprio di chi confonde abilità che si possono
università inglesi e ha pubbli- Nel volume viene spiegato come potenziare la propria efficacia imparare e qualità personali intrinseche. Il
cato oltre 200 lavori, tra cui alcuni manuali di grande personale, gestendo al meglio il tempo lavorativo, valorizzando tema della creatività è uno di quelli su cui c’è
successo. Tra la sua produzione si contano anche doti personali e creatività e contrastando lo stress. Vengono poi maggiore confusione: c’è chi la vede come una
numerose risorse per la formazione: e-book, DVD, presentate le varie modalità di interazione con gli altri, che devono
Far emergere il meglio dalle relazioni sorta di qualità magica, quasi si trattasse di un
manuali, corsi online. Ha ideato e condotto l’Avenue essere conosciute e potenziate per generare rapporti di lavoro effi- dono di natura. La creatività invece può essere
Collana
CAPIRE CON IL CUORE
I Psicologia I Educazione I Disabilità I Culture I Narrativa
Collana
CAPIRE CON IL CUORE
I Psicologia € 19,00
Educazione
Disabilità
Culture
Narrativa
Capitolo secondo
Gestire bene il tempo
Introduzione
39
la risorsa più preziosa di cui disponiamo. Molte volte, anzi, il
tempo è la cosa più importante che possiamo offrire agli altri; un
motivo in più per non sprecarlo, o per non impiegarlo malamente.
Il time management, però, non ha a che vedere soltanto
con l’organizzazione del nostro tempo e con il tentativo di non
sprecarlo. Uno dei suoi aspetti principali — anzi, essenziali —
sta infatti nella capacità di calibrare l’energia e di mantenere
su livelli ottimali la motivazione e l’impegno personale. In altri
termini, è qualche cosa che riguarda non solo la quantità di
tempo, ma anche la sua qualità.
La questione dell’energia, della motivazione e dell’impegno
assume particolare importanza per chi lavora a stretto contat-
to con le persone. I problemi e le esperienze di vita in cui ci
imbattiamo, in questo campo, possono farci sentire esauriti,
demoralizzati, talvolta addolorati o carichi di rabbia. Altre volte,
il lavoro con le persone può risultare noioso, poco stimolan-
te, ripetitivo: può comportare, ad esempio, tutta una serie di
adempimenti burocratici da sbrigare in ufficio. Nell’uno come
nell’altro caso, è evidente che la motivazione è un elemento di
grande rilevanza. Di qui una domanda di importanza vitale: in
che modo è possibile mantenere l’impegno e la motivazione,
nei momenti più difficili del lavoro?
Per rispondere a questa domanda, nelle pagine seguenti ci
occuperemo principalmente di due aspetti: come organizzare
il proprio tempo in modo ottimale e come mantenere alte le
proprie energie. Come prima cosa, però, dobbiamo spendere
qualche riflessione sul funzionamento dei processi di time
management, e sugli effetti che ne derivano.
40
in dettaglio il modo in cui si trascorre abitualmente il proprio
tempo sul luogo di lavoro. È possibile utilizzare, a questo scopo,
strumenti ormai ben noti, come registri o «diari del tempo».
Questo approccio al time management ha i suoi lati positivi,
come quello di mettere a fuoco un’immagine esauriente del
modo in cui si impiega il proprio tempo; accanto a questo, però,
c’è anche l’altro lato della medaglia. Il problema più evidente è
che un’attenzione eccessiva alle «modalità d’uso» del tempo si
rivela assai dispendiosa e quindi risulta controproducente. Se
guardiamo troppo ai dettagli, inoltre, rischiamo di perdere di
vista le nostre energie e motivazioni.
L’approccio che presentiamo in queste pagine è sensibil-
mente diverso. Il suo obiettivo di fondo è aiutarvi a capire (e in-
coraggiarvi ad applicare) i principi di base del time management,
sul piano dell’organizzazione del tempo e del mantenimento
di adeguati livelli di energia. In questa prospettiva, il time ma-
nagement richiede la sensibilità di saper cogliere l’importanza
del tempo e dell’energia di cui si dispone, per svolgere bene un
determinato lavoro. Conoscere i principi che stanno alla base
del time management serve proprio a sviluppare questo tipo
di sensibilità.
Può essere utile, per comprendere il funzionamento del
time management, cogliere alcuni dati di fondo:
–– Non esistono risposte giuste, valide per tutti. Ciò che va bene per
voi potrebbe risultare inadatto per qualcun altro, e viceversa.
È importante, nell’imparare il time management, tenere
conto della personalità, delle esigenze, della situazione in cui
si trova ciascuno di noi.
–– In un giorno ci sono solamente ventiquattro ore. Per quanto
possiate diventare bravi a gestire il tempo, ci sono dei limiti
oltre i quali non si può andare. Una buona gestione del tempo
vi può aiutare a non sovraccaricarvi, ma non è sufficiente a
«proteggervi» dagli eccessi di lavoro.
41
–– Il time management è qualche cosa che si può imparare. Come
abbiamo detto all’inizio di questo libro, ci sono delle abilità
che si tende spesso a scambiare per «qualità». Si tende a credere
che vi siano persone che, a differenza delle altre, sarebbero
«tagliate» per organizzare bene il proprio tempo. L’esperienza
ci insegna che non è il caso di essere così fatalisti: ciascuno
di noi ha in sé le potenzialità per rafforzare le proprie abilità
di time management.
42
sata ha ormai perso il controllo del proprio tempo e faticherà
non poco per recuperarlo. Un buon time management richie-
de di saper mettere da parte una certa quantità di tempo, per
programmare le modalità di impiego del tempo restante, fissare
delle priorità, prevedere i problemi che potrebbero emergere,
riconoscere le potenziali opportunità, e così via. Occorre, in
altri termini, investire del tempo in attività di programmazione
e di organizzazione, che serviranno poi a risparmiare del tempo.
Chi non riesce a fare questo «investimento» potrebbe anche
risparmiare un po’ di tempo nell’immediato, ma sul lungo
periodo rischierà di perderne assai di più.
Detto questo, va anche riconosciuto il rischio opposto:
quello di investire troppo tempo nella programmazione. C’è chi
dedica tanto di quel tempo a programmare il lavoro da non avere
più tempo per farlo. C’è chi continua a compilare liste infinite di
compiti da fare, senza poi trovare il tempo per svolgerne alcuno.
È fondamentale, quindi, saper trovare un giusto equilibrio tra
un investimento scarso e uno eccessivo. La programmazione
è uno strumento in vista di uno scopo e non uno scopo in sé.
43
Fissare delle priorità
Quando ci troviamo davanti un lungo elenco di cose da
fare, può essere utile stabilire quali siano le più importanti e quali
vadano fatte per prime. Si tratta, in altri termini, di fissare delle
priorità. Il che può risultare difficile, per tre ordini di ragioni:
–– Non ci sono molti criteri che ci permettano di stabilire un
ordine di importanza nelle cose.
–– Le cose importanti sulla lista potrebbero essere così nume-
rose che risulterebbe impossibile, in ogni caso, farle tutte. È
necessario prendere qualche decisione drastica, per togliere
dall’elenco i compiti di troppo.
–– Ci può anche essere un conflitto di interessi. Ci possono essere
delle voci sulla lista, ad esempio, che ai vostri occhi hanno
un’estrema importanza, ma dal punto di vista di altre persone
influenti — ad esempio il vostro capo — sono decisamente
meno importanti.
Non è detto, quindi, che fissare delle priorità sia una cosa
semplice. Con un po’ di esperienza, comunque, scoprirete voi
stessi che i benefici che ne derivano sono ben superiori ai risvolti
negativi. Il punto, semmai, è guardarsi dal rischio di fissare le pri-
orità in modo eccessivamente rigido. Se non si mantiene una certa
flessibilità, le priorità possono rivelarsi più d’ostacolo che d’aiuto.
Ad esempio, un tattica utile potrebbe essere quella di pen-
sare alle conseguenze a cui si va incontro se non si completa un
particolare lavoro. Se non portassimo a termine un incarico,
quanto sarebbe grave? Naturalmente, questa non è una regola
ferrea: ma può essere utile per aiutarci a valutare l’importanza
relativa da attribuire a priorità in conflitto tra loro.
44
lo scopo delle sue azioni diventa incerto e confuso. Non è raro,
in effetti, scivolare in una sorta di circolo vizioso. Un carico
di impegni eccessivo può farci perdere di vista completamente
gli obiettivi, rendendoci ancora più tesi per «il tempo che non
c’è»; cosa che ci rende ancora più confusi rispetto agli obiettivi,
e il circolo continua.
Quindi, la capacità di mantenere ben chiari gli obiettivi
anche quando siamo sotto pressione è un aspetto basilare per
un time management efficace. Il principio del «non perdere di
vista l’obiettivo» è strettamente legato alla capacità di lavorare
in modo metodico e ordinato, come vedremo più a fondo nel
capitolo ventiduesimo.
45
perdita di tempo. È necessaria, semmai, la capacità di identi-
ficare le circostanze in cui si rischia di perdere del tempo, per
poi utilizzare quel tempo in modo più costruttivo. Si tratta di
sviluppare un buon livello di sensibilità e di autoconsapevolez-
za, come abbiamo visto nel corso del capitolo precedente. La
capacità di cogliere le situazioni in cui si potrebbe risparmiare
del tempo è qualche cosa che si può sviluppare con la pratica e
con l’esperienza; qualche cosa, comunque, che non mancherà
di ripagare dell’investimento fatto.
Usare un’agenda
L’agenda è uno degli strumenti principali del time mana-
gement. La si può utilizzare nell’ambito della programmazione,
del monitoraggio, del coordinamento delle proprie attività.
Non si tratta solo di un posto dove annotare appuntamenti con
altre persone. Ad esempio, se dobbiamo scrivere una relazione,
potremo fare uso dell’agenda per organizzare il tempo dedicato
a questa attività. In questo modo, l’agenda diviene un tassello
importante di ogni strategia di gestione del tempo. Anche
rispetto all’utilizzo dell’agenda è possibile sviluppare meglio
alcune tecniche e abilità ad hoc.
L’agenda vi aiuta a controllare meglio il vostro tempo e
vi mette al riparo da situazioni imbarazzanti come quella di
dimenticarsi un appuntamento o di fissarne due alla stessa ora.
Una buona tecnica per usare l’agenda, pur nella sua semplicità,
è la seguente: si traccia una linea verticale nel mezzo di ogni
pagina, si annotano sulla parte sinistra gli impegni o gli appun-
tamenti, e sulla parte destra le cose ancora da fare. All’inizio
di ogni giorno potrete dare un’occhiata alla lista della pagina
precedente, depennando le cose che sono state fatte, o che non
c’è più bisogno di fare. Rimarranno soltanto le cose ancora da
fare, che potrete riportare nella parte destra della pagina di oggi.
46
La regola dei tre minuti
È facile che, nel corso della settimana, si accumulino tante
piccole cose da fare. Ciascuna, presa di per sé, non richiede
grandi sforzi; quando cominciano ad accumularsi, però, l’im-
pegno si fa decisamente maggiore. E visto che districarsi tra
tante «cosette» da fare può risultare sgradevole, non sorprende
la tendenza a procrastinare. Una volta che si comincia a rinviare,
però, il «mucchio» delle cose in arretrato è destinato a crescere;
il che, a sua volta, aumenta l’indisponibilità a farsene carico.
Ed ecco che si è innescato un circolo vizioso.
Una buona soluzione, accessibile a tutti, è la «regola dei tre
minuti». Se la cosa che dovete fare richiede meno di tre minuti
— compilare un modulo, dare una breve risposta via e-mail,
e così via — allora occupatevene subito. Oltre a prevenire gli
arretrati di lavoro, eviterete anche, più avanti, ritardi dovuti
all’adempimento di queste cose di poco conto.
Lavorare insieme
Lavorare in modo collaborativo, anche nella forma di un
vero e proprio lavoro in équipe, permette di valorizzare i punti
di forza di ciascuno, riducendo gli effetti dei rispettivi punti di
debolezza. Una strategia di tipo cooperativo, di conseguenza,
può senz’altro contribuire a una buona gestione dei tempi di
lavoro. Si tratta, comunque, soltanto di una possibilità: non sta
scritto da nessuna parte che la cooperazione, di per sé, garanti-
sca necessariamente un migliore utilizzo del tempo. I tentativi
di collaborare possono anche dare luogo a sovrapposizioni (o
a compiti che rimangono scoperti), incongruenze, dibattiti
vuoti e interminabili, incapacità di decidere; in definitiva, a un
cattivo utilizzo delle risorse disponibili (tempo compreso). «Il
lavorare insieme», pertanto, non si può ridurre a uno slogan:
richiede un adeguato investimento di tempi e di energie. Per
47
riuscire a collaborare bene dobbiamo saper fissare dei «paletti»
e chiarire le aspettative reciproche, onde evitare confusione e
l’insorgere di conflitti.
48
La persona giusta nel posto giusto
Si tende spesso, nel lavoro di gruppo o di équipe, a dividere
il lavoro senza considerare più di tanto quali siano, per ciascuna
delle mansioni previste, le persone più idonee. Ciò, in termini
di time management, è controproducente, giacché si traduce
in un impiego non ottimale delle risorse disponibili. Ciascuno
di noi ha i suoi punti di forza e di debolezza; aspetti del lavoro
che gradisce e aspetti che non gli sono congeniali. Valorizzan-
do le cose che sappiamo fare meglio e che ci piacciono di più
si manterranno livelli di motivazione più elevati e, a parità di
tempo disponibile, si otterranno risultati migliori. Vale quindi
la pena, in un contesto di lavoro di gruppo o di staff, mettere
a fuoco le preferenze individuali di ogni lavoratore, in modo
che ciascuno — per quanto possibile — abbia l’opportunità
di dare il meglio di sé.
49
Se sappiamo — ad esempio — che domani dovremo fare una
telefonata sgradevole, è meglio che ci impegniamo a farla non
appena arrivati in ufficio.
Se non prendiamo di petto queste mansioni sgradevoli e
continuiamo a procrastinarle, possono tormentarci, demotivarci
e condizionare negativamente il nostro rendimento sul lavoro. È
importante, quindi, seguire la semplice regola del «via il dente,
via il dolore»: si tratta di identificare le cose verso cui siamo più
riluttanti, per poi metterci a farle prima di tutte le altre.
50
un tempo ben superiore a quello che esse richiederebbero. Que-
sto, sul versante delle motivazioni, è un aspetto importante: se
siamo poco motivati finiremo per allungare inutilmente i tempi
di lavoro, cosa che, a sua volta, avrà ripercussioni negative sulle
nostre motivazioni.
Se invece ci sforziamo di completare in tempi ragionevoli
le mansioni che ci vengono assegnate, ne usciremo rafforzati
nel nostro senso di fiducia, di padronanza, di autorealizzazione.
L’impegno a evitare ogni allungamento superfluo dei tempi di
lavoro sarà ampiamente ripagato, sul piano delle nostre moti-
vazioni al lavoro.
Essere ottimisti
Per mantenere, se non rafforzare, i livelli di energia e di
motivazione, è fondamentale l’ottimismo. Un atteggiamento
pessimista, infatti, contribuisce di per sé ad abbassare il morale
e la soddisfazione sul lavoro. Ne può derivare un circolo vizioso,
in cui pessimismo e morale sotto i tacchi si rinforzano — e
quindi si peggiorano — a vicenda.
Essere ottimisti può generare un circolo virtuoso che dà
luogo a un miglioramento della soddisfazione e del morale sul
lavoro, il che contribuirà a un atteggiamento più improntato
all’ottimismo. Vedremo più in dettaglio nel capitolo decimo
quanto sia importante non perdere mai di vista gli aspetti positivi.
Lavorare insieme
Oltre che a una migliore organizzazione dei tempi di lavo-
ro, lavorare insieme può giovare alle energie e alle motivazioni
lavorative. Il lavoro in équipe, la collaborazione e il sostegno
reciproco possono rivelarsi strategie vincenti, nella misura in
cui generano un senso positivo:
51
–– di sicurezza e di fiducia («l’unione fa la forza»);
–– di impegno a favore degli altri;
–– di cameratismo, di identità di gruppo, di senso d’apparte-
nenza;
–– di orgoglio e di soddisfazione per i risultati positivi ottenuti
insieme.
Conclusione
ESERCIZIO 2
Riuscire a organizzarsi
In questo capitolo abbiamo fornito molti suggerimenti per gestire
meglio il tuo tempo. Ora, per aiutarti a metterli in pratica, abbiamo
pensato a questo esercizio.
Innanzitutto, prendi un foglio di carta, di formato A4, e tienilo vicino
a te, scorrendo velocemente l’intero capitolo. Segna sul foglio tutte le
52
indicazioni concrete che secondo te potresti mettere a buon frutto nel
tuo lavoro (ad esempio, la regola «via il dente, via il dolore»). Quando
avrai finito, avrai una lista di azioni e potrai quindi pianificare un per-
corso per mettere in atto la tua nuova strategia di gestione del tempo.
53
Capitolo terzo
Gestire lo stress
Introduzione
Stress e tensione
55
stress come «risposta a livelli inappropriati di tensione». Sono
due gli elementi più significativi di questa definizione:
1. Il termine «risposta» indica che lo stress scaturisce dal modo in
cui reagiamo alla tensione; dunque «gestire lo stress» vuol dire
anche saper controllare le nostre reazioni, oltre che la tensione
che le provoca. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.
2. L’aggettivo «inappropriato» suggerisce che lo stress può deri-
vare non solo da un livello eccessivo di tensione, ma anche da
un livello insufficiente, come quando ci annoiamo, o siamo
privi di stimoli.
Possiamo quindi distinguere, come proponiamo nella
figura 3.1, fra la tensione — che può essere, a seconda delle
circostanze, positiva (una fonte di stimoli e di motivazione) o
negativa (una fonte di preoccupazioni e di conflitto) — e lo
stress, che è sempre qualche cosa di negativo e dannoso.
Livello di tensione
Stress
eccessivo
Livello di tensione
Assenza di stress
appropriato
Livello di tensione
Stress
insufficiente
Ricapitolando:
–– lo stress non equivale alla tensione: quest’ultima è un fatto
inevitabile, mentre lo stress può anche essere evitato;
56
–– lo stress si verifica più facilmente laddove la tensione è ec-
cessiva, o insufficiente;
–– lo stress dipende non solo dal livello di tensione che avver-
tiamo, ma anche dal modo in cui reagiamo.
È importante che la distinzione tra questi due concetti
chiave sia ben chiara. Se non siete sicuri di averla compresa
bene, vi suggeriamo una rilettura di questo paragrafo, prima
di procedere oltre.
57
Uno sguardo alla pratica 3.1
Un’équipe di cinque persone riusciva a gestire abbastanza bene, senza
particolari difficoltà, il carico di lavoro che le era stato assegnato. Un gior-
no, però, Pietro — uno di loro — si sentì intimare, con tono estremamente
aggressivo, di «mettersi a fare la sua parte». Il dirigente seppe dell’incidente,
ma non lo prese sul serio; si limitò a definirlo «una storia come tante». Da
parte sua, Pietro si sentiva male, poco aiutato e ancor meno considerato.
Pochi giorni più tardi, un certificato medico comunicava che Pietro doveva
prendersi due settimane di assenza per malattia, a causa di un «esaurimento
nervoso». Nelle due settimane successive, gli altri componenti dell’équipe si
trovarono con un carico di lavoro aggiuntivo del 25%, che riuscirono — sia
pure con difficoltà — a smaltire. Terminato quel periodo, però, arrivò un
nuovo certificato: l’assenza di Pietro si sarebbe prolungata per altre quattro
settimane. I suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi e a domandarsi se
Pietro sarebbe mai ritornato. Per Patrizia, che stava attraversando un pe-
riodo difficile con il marito, questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Lo stress, per lei, era troppo. Si prese a sua volta un permesso per malattia,
cosa che costrinse i suoi colleghi a farsi carico, da soli, di un lavoro che era
aumentato addirittura del 40%. Per i tre operatori rimasti, la tensione si era
fatta fortissima. Erano giunti a domandarsi se avrebbero mai visto la luce,
alla fine di quel tunnel. La situazione era veramente snervante. Sarebbe
bastato un piccolo imprevisto a far saltare tutto per aria.
58
cui si dispone, è importante per gestire lo stress. Senza questo
quadro, si lavora alla cieca. Per quanto importante, però, questa
consapevolezza non è sufficiente: comprendere lo stress è sol-
tanto il primo passo dello stress management. Occorre anche
potenziare le proprie abilità e strategie di gestione dello stress,
come vedremo nel corso delle prossime pagine.
59
re per realizzarli ci aiuta a identificare la strada che stiamo
percorrendo. Ci aiuta a tenere lontano quel senso di disorien-
tamento che si accompagna, il più delle volte, all’esperienza
dello stress. Si tratta di una questione di grande importanza,
su cui ritorneremo nei capitoli ventunesimo e ventiduesimo.
3. Cambiare atteggiamenti. Cambiare il proprio atteggiamento
nei confronti di qualche cosa può cambiare il modo in cui
quel «qualche cosa» ci condiziona. Se l’obiettivo che ci sia-
mo dati è diventare i più grandi lavoratori del mondo, ad
esempio, ben presto ci troveremo sopraffatti dalla tensione!
Per metterci al riparo da uno stress inutile, in casi come que-
sto, occorre cambiare il nostro atteggiamento. Una buona
soluzione può essere accontentarsi, almeno all’inizio, di un
obiettivo più modesto. Puntare all’eccellenza può rivelarsi
una fonte di stimoli e di motivazione (e quindi di tensione
positiva); ma puntare a essere i migliori può far sì che la ten-
sione sconfini nello stress. Se è vero che lo stress è la reazione
a un livello di tensione inappropriato, cambiare il proprio
modo di reagire alle circostanze esterne può costruire una
soluzione efficace per gestire meglio la tensione. Per dirla
con il linguaggio degli specialisti, si tratta di mettere in atto
una «ristrutturazione cognitiva».
4. Essere assertivi. La questione dell’assertività sarà oggetto del
capitolo quinto, sicché non ci dilungheremo, in questa sede,
sull’argomento. Va comunque ricordato che l’essere assertivi
— trovare, cioè, un ragionevole punto di equilibrio tra gli
estremi della sottomissione e dell’aggressività — è un aspetto
importante dello stress management. L’assertività ci aiuta a
impedire agli altri di disporre di noi a loro piacimento, ma
serve anche a prevenire i conflitti; o, quantomeno, a ridurne gli
effetti negativi, come vedremo nel corso del capitolo quinto.
5. Mantenere il controllo. Questo principio non si riduce al
classico messaggio del «non farsi prendere dal panico», che
60
pure è importante. La verità è che, quando siamo sottoposti
a una forte tensione, è facile che perdiamo la padronanza
di noi stessi e delle cose che facciamo. Da una ricerca di
qualche anno fa sui casi di abuso minorile (DoH, 1991),
ad esempio, emergeva che gli assistenti sociali dei servizi di
tutela minorile tendevano a fare molti errori a causa della
tensione a cui erano sottoposti. Era come se le loro capacità
di giudizio si offuscassero, con tutte le conseguenze negative
che ne derivavano. Un buon consiglio, in casi come questi, è
quello di stare calmi e di tenere in mano la situazione. Questo
non vuol dire, peraltro, assumere atteggiamenti autoritari o
impositivi; si tratta soltanto di non lasciarsi sfuggire quello
che sta succedendo attorno a noi, non permettere a noi
stessi di diventare degli osservatori impotenti, vittime delle
circostanze. Molte cose, comunque, vanno ben al di là delle
nostre capacità di controllo; non possiamo che prenderne
serenamente atto (Thompson, 2012a). D’altra parte, occorre
guardarsi dal rischio del disfattismo, tipico di chi sottovaluta
la propria capacità di controllare il corso degli eventi (come
nell’esempio sul time management, presentato nel capitolo
secondo).
6. Tracciare dei confini. Gli equivoci e le ambiguità ci accom-
pagnano nella vita di tutti i giorni, ma quando siamo sotto
pressione possono assumere dimensioni incontrollabili. È
per questo che è importante acquisire una buona capacità
di «tracciare confini». Sono confini che hanno a che vede-
re, prima di tutto, con le responsabilità: occorre avere ben
chiaro ciò di cui siamo e ciò di cui non siamo responsabili.
Ci sono due ottime ragioni per farlo: primo, se abbiamo la
responsabilità di qualche cosa e non ne siamo ben consape-
voli, rischiamo di trovarci seriamente in difficoltà, qualora
le cose si mettano male; secondo, se ci assumiamo l’onere
di impegni che esulano dalle nostre responsabilità (perché
61
di competenza di altri), ci ritroveremo con un «carico» del
tutto gratuito ed evitabile; o, per dirla diversamente, con
un ulteriore fattore di stress. È importante, quindi, saper
riconoscere i confini delle responsabilità nostre e altrui
(Thompson, 2015a).
7. Gestire bene il tempo. Ritorniamo su questo aspetto, trattato
nel capitolo precedente, perché il time management è un
tassello importante per qualsiasi professionista che lavora
con le persone. Come si è visto, occorre gestire non solo il
tempo, ma anche le energie di cui disponiamo; mantenere
livelli di motivazione e di impegno adeguati è essenziale per
affrontare attivamente la tensione, anziché farsene travol-
gere. Gestire bene il tempo di cui si dispone serve anche a
mantenere un buon controllo su di sé e sulla situazione (si
veda il punto 5) e quindi di tenere a bada lo stress. Se invece
perdiamo tempo e non manteniamo un livello di impegno
costante, difficilmente riusciremo ad affrontare le difficoltà
tipiche del lavoro con le persone.
8. Farsi aiutare dagli altri. C’è chi, stoicamente, vorrebbe
sempre affrontare da solo qualsiasi situazione difficile,
senza farsi aiutare da nessuno. È come se chiedere aiuto
fosse un segno di debolezza, qualche cosa da evitare a tutti
i costi. Una strategia di questo tipo è carica di insidie,
perché ci colloca ai margini di quella rete di sostegno e di
aiuto reciproco che, in certi casi, può fare la differenza.
Per evitare questo rischio, l’atteggiamento di chi si crede
«duro e puro», autonomo dagli altri in tutto e per tutto,
andrà senz’altro respinto (Cranwell-Ward e Abbey, 2005).
Un passo importante che va fatto, in questa direzione, è
riconoscere che chiedere aiuto è un segnale di forza, non
di debolezza; un segnale della nostra capacità di gestire lo
stress in modo realistico, nella consapevolezza dei nostri
limiti.
62
Uno sguardo alla pratica 3.2
Sandra sapeva che il suo nuovo impiego sarebbe stato impegnativo, ma
non pensava così tanto. Si sentiva sommersa dal lavoro, senza nessuno
che le desse una mano. All’inizio, decise che in fondo andava bene così:
se la sarebbe cavata da sola, impegnandosi più che poteva. Bastava che
lasciasse da parte i suoi problemi personali, per concentrarsi il più possibile,
anima e corpo, sul lavoro. Un giorno, però, commise un errore che avrebbe
potuto avere conseguenze gravi. Cominciò a rendersi conto che non serviva
a nulla fare finta che i problemi non ci fossero. Decise di parlare con i colle-
ghi di tutte queste sue difficoltà. Di fronte alle risposte che ricevette, cariche
di comprensione nei suoi confronti, rimase veramente stupita. I colleghi si
dissero senz’altro disponibili a venirle incontro e a darle una mano. Uno
di loro, in particolare, fece un’osservazione che aiutò Sandra a capire che
aveva sbagliato a non chiedere aiuto sin dall’inizio: «Avevamo l’impressione
che tu fossi una di quelle persone che vogliono fare sempre tutto da sole, e
detestano il lavoro di équipe».
63
obiettivi irrealistici (vedi al punto 3), svalutiamo quel che
sappiamo fare, ci rendiamo la vita — in un modo o nell’al-
tro — ben più difficile del necessario. E quanto più stress
incontriamo, tanto più tendiamo ad assumere un atteggia-
mento di questo tipo. Di conseguenza, una buona gestione
dello stress ci richiede anche di prenderci cura di noi stessi; di
non trascurare le nostre capacità, come pure i nostri limiti; di
non pretendere troppo da noi stessi, e di non giudicarci con
severità eccessiva. È importante essere consapevoli di questo
rischio, in modo da cogliere i momenti in cui si verifica; po-
tremo così rivolgerci a una persona di cui abbiamo fiducia,
che ci aiuterà a guardare le cose nella giusta prospettiva.
Conclusione
64
Ma conviene ricordare anche che molte delle altre capacità
di cui parliamo in questo libro hanno a che vedere con una
buona gestione dello stress. Lo stress management, in altri
termini, dipende dal potenziamento di abilità correlate come
time management, assertività, efficacia comunicativa, capacità
di essere sistematici e di concludere. Si tratta, in definitiva,
di saper combinare gli «ingredienti» di abilità diverse, che si
intrecciano e si sostengono a vicenda.
ESERCIZIO 3
Stress, fronteggiamento e sostegno
Per questo esercizio, prendi un foglio di carta e dividilo in tre colonne.
In cima a ogni colonna scrivi: «Fattori di stress»; «Metodi di coping»;
«Fonti di aiuto». Sotto ogni etichetta elenca tutti gli esempi che ti
vengono in mente. Cioè, sotto «Fattori di stress» scrivi tutte le possibili
fonti di stress; sotto «Metodi di coping» elenca i diversi modi con cui
puoi fronteggiare lo stress; sotto «Fonti di aiuto» scrivi le fonti di aiuto
su cui puoi fare leva.
Un esercizio di questo tipo può aiutarti a definire una panoramica dei
problemi legati allo stress che ti trovi a dover affrontare, e può perciò
aiutarti a elaborare un piano per affrontarli. Ad esempio, può aiutarti a
capire che devi rafforzare la tua rete di aiuti; oppure, se ti rendi conto
di avere già un buon sostegno, può aiutarti ad acquisire fiducia. Non
è un esame: se hai finito le idee, sentiti libero di chiedere un parere a
colleghi e ad amici.
65
Capitolo quindicesimo
I colloqui
Introduzione
227
Prima del colloquio
Il tempo e il luogo
La scelta del momento giusto per fare un colloquio può
rivelarsi fondamentale. In molti casi, per la verità, la tempistica
di un colloquio non è poi così importante. In altri casi, però,
la programmazione dei tempi può essere davvero cruciale. Nel
caso di un colloquio con un minore, ad esempio, è meglio non
fissare l’appuntamento all’ora del suo ritorno a casa, da scuola.
Può darsi che il ragazzo abbia bisogno di riposare un po’ o non
abbia ancora avuto il tempo di risistemarsi.
Il fattore tempo può essere importante anche rispetto alla
durata del colloquio. Sia i colloqui brevi e affrettati, sia quelli
eccessivamente lunghi possono rivelarsi inefficaci o addirittura
controproducenti.
Anche l’ambiente, come abbiamo già visto, rappresenta
un aspetto importante per qualsiasi forma di comunicazione.
Il luogo in cui si svolge il colloquio, pertanto, può essere un
elemento determinante. Quale sia il posto migliore, peraltro,
dipende molto da un caso all’altro; l’importante è verificare
sempre, di volta in volta, che l’ambiente in cui ci si trova sia
realmente appropriato, specie nel caso di colloqui su argomenti
delicati, o potenzialmente problematici.
Lo scopo
Un colloquio è, per definizione, una discussione con uno
scopo preciso. È utile tenere sempre ben presente questo aspetto,
228
in fase di preparazione. La chiarezza rispetto agli scopi aiuta a
evitare divagazioni inutili e facilita i progressi nella direzione
dei risultati auspicati.
Esplicitare gli obiettivi aiuta anche i nostri interlocutori
a sentirsi maggiormente a proprio agio rispetto a quanto sta
avvenendo e meno sospettosi o diffidenti nei confronti dell’o-
peratore e delle sue motivazioni.
La sensibilità linguistica
In certi casi, inoltre, può essere necessario fare ricorso a
interpreti. Laddove emerga un’esigenza di questo tipo, occorre
considerare la situazione con attenzione. È meglio non ricorrere
a un familiare, ad esempio, in un caso caratterizzato da tensioni
all’interno del nucleo familiare; il rischio, in caso contrario, è di
ottenere una rappresentazione deformata (in modo volontario
o involontario) di quanto viene detto. Non è nemmeno il caso
di ricorrere a minori, se non si vuole correre il rischio di esporli
a informazioni inappropriate per loro.
229
desimo tempo. In questi casi, è importante stabilire chi debba
essere coinvolto e chi no. Ancora una volta, non esiste nessuna
regola «pronta per l’uso», che valga sempre. Se non si affronta
la questione, d’altra parte, il rischio è che il colloquio si riveli
inefficace, o che non faccia altro che peggiorare le cose. Può
essere utile fare riferimento alle finalità del colloquio, per de-
cidere, di volta in volta, chi sia opportuno partecipi.
I piani di emergenza
Sarebbe irrealistico predisporre un «piano d’emergenza»
per ogni singolo colloquio, ma è buona norma farlo almeno in
alcune situazioni. Per i colloqui più importanti, ad esempio,
sarebbe un peccato non disporre di una strategia alternativa, nel
caso risulti inefficace l’approccio che si aveva in mente. È quello
che avviene, ad esempio, quando si presentano dei problemi
imprevisti, o delle situazioni di potenziale emergenza.
Le abilità essenziali
L’ascolto
Sull’importanza dell’ascolto attivo ci siamo già soffermati
nel capitolo dodicesimo. Il contesto del colloquio è senz’altro
uno di quelli in cui questa abilità si fa apprezzare di più. È im-
probabile, infatti, che un colloquio risulti efficace se non si è in
grado di ascoltare attentamente le persone che si hanno di fronte.
«Saper ascoltare» significa anche saper riconoscere i vissuti
emotivi in gioco. Se una persona prova una rabbia intensa, ad
230
esempio, è improbabile che riesca a fare grandi progressi, sino
a che non avrà riconosciuto, o comunque affrontato, la propria
emozione negativa. Altrettanto importante, per un buon anda-
mento del colloquio, è la capacità di decifrare la comunicazione
non verbale, ossia di saper interpretare quello che ci dice l’altra
persona con il linguaggio corporeo.
L’assertività
Se vogliamo che il colloquio sia orientato a un obiettivo
preciso, e che non lo perda di vista, non possiamo fare a meno
di essere, in una certa misura, «direttivi». Questo non significa
che dobbiamo impartire degli ordini ai nostri interlocutori. Vuol
dire però che dobbiamo sempre mantenere un certo margine
di controllo rispetto all’andamento del colloquio.
Dobbiamo essere, in altre parole, assertivi, per usare un’e-
spressione ampiamente trattata nel capitolo quinto. Dobbiamo
riuscire a realizzare una situazione in cui non c’è nessuno che
perde, perché tutti hanno qualcosa da guadagnare. Si tratta di as-
sumere un atteggiamento che non sia né arrogante nei confronti
degli utenti, né remissivo, al punto da perdere di vista i motivi
del colloquio, o gli obiettivi che perseguiamo per suo tramite.
Saper «condurre», pertanto, è un’abilità sottile. Occorre
tenere sempre le redini del colloquio, senza risultare intrusivi, né
prepotenti. Dobbiamo saper rispondere ai desideri, alle esigenze
e ai sentimenti delle persone; senza dimenticare, però, che quel
colloquio si inserisce in genere in un processo più ampio, di
cui deve rispettare le finalità.
La partnership
Per riuscire a lavorare efficacemente con le persone, dob-
biamo costruire un rapporto di partnership con loro. Un cam-
231
biamento imposto in modo unilaterale, infatti, ha ben poche
probabilità di durare a lungo, rispetto a un cambiamento con-
diviso, e anzi «fatto proprio», dai diretti interessati. L’approccio
cooperativo, in altre parole, è il più efficace, anche se dipende
dalla nostra capacità di conquistarci la fiducia della gente e di
continuare a meritarcela.
Lavorare in questo modo richiede delle abilità che non
vanno sottovalutate. Benché si tratti di abilità che si svilup-
pano più che altro con l’esperienza, si possono fornire alcune
indicazioni di tipo operativo:
–– Non bisogna mai «monopolizzare» la conversazione, che
dovrebbe essere sempre un processo bilaterale.
–– Occorre evitare di far dire agli altri delle cose che non han-
no detto. Nel dubbio, è meglio fare loro una domanda, per
sincerarsi di aver capito bene.
–– Bisogna aiutare le persone a sentirsi sempre a proprio agio, in
modo che siano nelle condizioni di parlare liberamente di sé.
–– Dovremmo chiarire fin dall’inizio che ci teniamo molto a
cooperare con la persona che abbiamo davanti e che il collo-
quio non sarà mai «a senso unico».
Quello di partnership è un concetto molto importante, e
sarà al centro di alcune osservazioni che svolgeremo nella terza
parte del libro.
L’empowerment
C’è anche un altro concetto — già toccato nei capitoli
precedenti — di cui chi è impegnato a tu per tu in un collo-
quio con un’altra persona dovrebbe sempre tenere conto. È il
concetto di empowerment, ovvero quella serie di modalità che
mettono le persone nelle condizioni di recuperare un certo
controllo della propria vita. Attraverso l’empowerment pos-
232
siamo diventare meglio «equipaggiati» per affrontare i nostri
problemi e realizzare gli obiettivi che ci stanno a cuore. Anche
i colloqui, se ben condotti, possono contribuire a questo pro-
cesso, rispetto al quale peraltro un colloquio mal gestito può
provocare danni considerevoli. Nel bene e nel male, la capacità
di conduzione del colloquio da parte nostra può influire non
poco sull’empowerment di chi ci sta di fronte.
Al fine di promuovere l’empowerment, è importante
cercare sempre di:
–– non pregiudicare, e anzi — laddove possibile — rafforzare
l’autostima degli utenti;
–– individuare i fattori che ne ostacolano i progressi, e intra-
prendere azioni dirette a superarli;
–– riconoscere l’esistenza di forme di discriminazione e di
oppressione, che rientrano nell’esperienza di vita di tutti
noi, specie nel campo delle dinamiche interpersonali (vedi i
capitoli undicesimo e ventunesimo).
I colloqui orientati all’empowerment, dunque, sono quelli
che contribuiscono a valorizzare le risorse degli utenti e a su-
perarne le debolezze; o, meglio ancora, a trasformare queste
ultime in nuove risorse.
233
L’uso della propria soggettività
I colloqui non si riducono mai al semplice esercizio di una
tecnica. Al contrario, sono sensibilmente condizionati dalla
personalità, dall’esperienza, dalle competenze di chi li conduce.
Dipendono molto, cioè, da quanto — e da come — l’operatore
investe della propria dimensione soggettiva. Potremmo scegliere,
tra le altre cose, di fare degli esempi che nascono dalla nostra
esperienza personale, per aiutare gli altri a comprendere una
particolare situazione, o per indicare loro degli scenari alter-
nativi. Questa operazione, però, presta sempre il fianco a due
rischi che andrebbero assolutamente evitati:
1. Il tentativo di imporre le proprie idee, o i propri valori, alla
situazione vissuta dall’altra persona, senza tenere conto delle
differenze tra le rispettive esperienze di vita;
2. Il tentativo di ridimensionare i problemi degli altri, una volta
messi a confronto con i nostri. Così facendo, rischiamo di
trasmettere il messaggio che non prendiamo quella situazione
sul serio, o che la banalizziamo.
Ciascuno di noi ha degli aspetti della propria personalità, o
della propria esperienza di vita, che possono tornare utili agli altri.
Riconoscere questo dato di fatto può servire a darci la fiducia in
noi stessi che è indispensabile per fare buon uso di questi aspetti.
234
improvviso; che è compito nostro dire qualcosa — al limite
qualsiasi cosa — per interrompere quel fastidioso silenzio.
Nonostante la tensione che proviamo, però, è fondamentale
che sappiamo resistere alla tentazione di «riempire il silenzio».
Dovremmo imparare a sopportare anche i momenti di silenzio,
per più di una buona ragione:
–– come segno di rispetto per la persona, e di sensibilità nei
confronti dei suoi vissuti emotivi;
–– perché, in caso contrario, rischiamo di compromettere la
relazione di fiducia con il nostro interlocutore, che tenderà
ad allontanarsi da noi;
–– perché, infine, la capacità di sopportare i momenti di silenzio
è percepita dalla persona come un segnale di sostegno nei
suoi confronti.
Per quanto sia difficile da tradurre in realtà, la capacità di
reggere i momenti di silenzio e di usarli a beneficio di chi ab-
biamo di fronte è una competenza preziosa, che vale senz’altro
la pena sviluppare.
Mantenere i confini
Le interazioni interpersonali possono avvenire su vari
livelli e in «sfere di vita» diverse. Ci sono sempre, a seconda
delle circostanze, delle regole sociali che definiscono i compor-
tamenti più appropriati a ogni situazione. Esiste però il rischio
che il colloquio, se non viene condotto con attenzione, possa
trasgredire queste regole. È una «trasgressione» che può assumere
tante forme diverse, tra le quali:
–– La violazione della riservatezza, che rappresenta — come si
è visto nel capitolo precedente — una questione di grande
importanza. È necessario riconoscere, però, i «confini» entro
i quali essa può essere effettivamente rispettata.
235
–– Un aspetto importante del lavoro con le persone è dato dalla
qualità dei rapporti con i nostri interlocutori. Un «buon rap-
porto», però, è cosa diversa dall’amicizia, la quale può anche
pregiudicare, a volte, il buon esito di un intervento professio-
nale. È importante, quindi, non perdere di vista la distinzione
tra semplici rapporti interpersonali e rapporti professionali.
–– Gli operatori si inscrivono, generalmente, in una rete più
ampia, che comprende altre figure professionali e/o volontari.
C’è sempre il rischio latente che, nell’ansia di renderci utili a
tutti i costi, ci facciamo carico di mansioni che spetterebbero
ad altri. Il che può avere effetti negativi, sotto quattro punti
di vista:
1. È probabile che l’operatore a cui «togliamo il lavoro» sia
più esperto di noi nello specifico compito di cui si occupa.
2. Queste «invasioni di campo» possono generare risentimenti
e ostacolare lo sviluppo delle partnership.
3. Dedicare del tempo al lavoro altrui sottrae del tempo, ine-
vitabilmente, alle attività di nostra specifica competenza.
4. Se svolgiamo mansioni che non siamo ufficialmente tenuti
a svolgere, non è detto che il nostro datore di lavoro o
la nostra assicurazione ci possano coprire nel caso in cui
qualcosa andasse storto.
236
proprio ruolo. È anche importante, in questa fase, esplicitare
le finalità e l’oggetto specifico del colloquio. Se questi aspetti
non vengono chiariti fin dall’inizio, si rischia che l’intero
svolgimento del colloquio ne risulti condizionato e che si
crei un clima di diffidenza tra le parti coinvolte.
2. La parte centrale. La fase intermedia è quella in cui si deve
svolgere gran parte del colloquio. Nel corso di questa fase
si scambiano le informazioni rilevanti e si sviluppa l’attività
di problem solving. È questo lo snodo in cui si assumono
decisioni, si prendono accordi, si affrontano i conflitti e si
realizzano — o si interrompono — eventuali progressi.
3. La conclusione. Trarre le fila di un colloquio, quando ormai
ci si avvicina alla conclusione, è un compito che richiede
competenze elevate: si tratta di fare sintesi dei contenuti
trattati, di stabilire che cosa potrebbe accadere nel futuro
immediato (ad esempio la data e l’orario di un nuovo collo-
quio), di verificare che la persona abbia compreso bene gli
accordi presi, e via discorrendo. In questa fase può anche
essere utile qualche frase con tono informale, da chiacchie-
rata, per chiudere l’interazione.
Organizzare i colloqui in questo modo ci aiuta a non
perdere di vista gli obiettivi perseguiti e contribuisce a dare
professionalità al nostro operato. È importante, però, non
confondere l’idea di «struttura» con quella di «rigidità». I due
concetti, infatti, non coincidono. Occorre sempre un certo
grado di flessibilità. Su come costruire un buon equilibrio, via
via, tra struttura e flessibilità, si ritornerà nel corso del capitolo
ventiduesimo.
Riassunti e feedback
Come ho già ricordato, saper fare un buon riassunto è un
aspetto importante nella conclusione di un colloquio. Questa
237
stessa capacità, però, può rivelarsi utile anche nelle fasi prece-
denti. Saper riassumere alla persona con cui si parla gli aspetti
essenziali di quello che si è detto può risultare utile per molti
motivi:
–– per confermare all’altra persona che la stiamo ascoltando;
–– per far emergere le eventuali incomprensioni, o i frainten-
dimenti che potrebbero essersi realizzati precedentemente;
–– per chiarire meglio i punti d’accordo e di disaccordo;
–– per riepilogare l’andamento del colloquio nel suo insieme,
evidenziando i vari fili tematici che si sono intrecciati in esso;
–– per lasciare all’altra persona un po’ di tempo e di spazio per
riflettere, o per rielaborare quanto le è stato detto;
–– per incoraggiare la collaborazione, esplicitando un punto di
vista condiviso dall’altra persona;
–– per contribuire a fare sì che il colloquio non «esca dal semi-
nato», sino ad andare completamente fuori tema.
Le dinamiche collusive
Berne (1968) ha descritto tutta una serie di «giochi» che
si possono innescare nelle relazioni interpersonali. Tali dina-
238
miche possono impedire uno svolgimento sereno e costruttivo
del colloquio. In altri termini, possono ostacolare il normale
svolgimento dei processi di comunicazione.
Non di rado, queste dinamiche fanno leva su un elemento
«collusivo». È quello che avviene, ad esempio, quando si crea
un tacito accordo tra le parti, del tipo: «Io non ho intenzione di
provocarti, se tu non mi provochi». Accordi di questo genere,
quasi mai esplicitati ma per nulla infrequenti, si traducono
in una complessa «ragnatela» di sottili accorgimenti, basati
sulla complicità di entrambi gli interlocutori. Quando questo
avviene, le possibilità di realizzare un buon colloquio — in
termini di collaborazione e di empowerment — si riducono
notevolmente.
Dinamiche
collusive
Incapacità
di cogliere le
Chiacchiere
implicazioni della
a vuoto
struttura
sociale
ERRORI
DA EVITARE
False Gergo
rassicurazioni specialistico
Promesse
239
L’incapacità di cogliere i risvolti della struttura sociale
Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza a non
notare, o a evitare deliberatamente, tutte le questioni legate
allo «status quo» della struttura sociale. Si parla ad esempio,
nel mondo anglosassone, di colour blindness — cioè di «cecità
al colore» (della pelle) — per indicare l’incapacità di tenere
conto delle differenze culturali e degli effetti del razzismo. Si
parla altresì di gender blindness, o di «cecità di genere», quando
si vuole alludere a una visione del mondo unilaterale, che pone
gli uomini e il genere maschile come «unità di riferimento» della
normalità, senza rivolgere attenzione ai problemi, o ai punti di
vista, delle donne.
Quanti lavorano con le persone dovrebbero sempre fare
attenzione a tutti i fattori strutturali che possono alimentare
processi di discriminazione e di oppressione: appartenenza
etnica, genere, età, disabilità, e così via. Anche in sede di collo-
quio, se non si tiene adeguatamente conto di questo, si rischia
di perpetuare le forme di disuguaglianza preesistenti.
Il gergo specialistico
Si è già detto più volte dell’esigenza di esprimersi sempre in
modo chiaro. Un aspetto che va ancora messo in risalto, però, è
rappresentato dai problemi che possono derivare dall’impiego
di espressioni gergali nel corso di un colloquio. Le espressioni
gergali possono senz’altro essere utili per indicare distinzioni e
sfumature di tipo tecnico, che sarebbero difficili da formulare
con il linguaggio colloquiale. Usate in modo inappropriato,
però, tali espressioni possono ostacolare non poco la comuni-
cazione tra le parti.
Occorre inoltre riconoscere che non sempre, quando fac-
ciamo uso di espressioni gergali, ce ne rendiamo conto. Bastano
una parola che a noi sembra semplice, o una sigla non spiegata,
240
per generare confusione e diffidenza nei nostri interlocutori,
se non facciamo attenzione alla differenza tra il linguaggio
specialistico e quello della vita di tutti i giorni.
Le promesse
È facile cadere nella tentazione di fare delle promesse, nel
corso di un colloquio. È una tentazione, però, a cui occorre
assolutamente resistere. Raramente, infatti, si può avere la cer-
tezza di mantenerle; d’altro canto, una promessa insoddisfatta
può mettere gravemente a rischio la fiducia nei confronti di
chi l’aveva fatta.
Anche le promesse più semplici non sempre possono
essere mantenute, sia pure per i motivi più banali, come, ad
esempio, una malattia o cause di forza maggiore. Oltretutto,
molti si trovano a lavorare in un contesto di aspettative sempre
più elevate e difficili da soddisfare; è senz’altro possibile che
certe promesse, per quanto formulate in buona fede, debba-
no poi cedere il passo a priorità di altra natura. La massima
«non fare delle promesse che non potrai mantenere» è sempre
d’attualità; e nel campo dell’insegnamento, del lavoro sociale,
dell’assistenza sanitaria, le promesse che possiamo avere la cer-
tezza di mantenere sono davvero assai poche. Di qui l’esigenza
di usare grande cautela.
Le false rassicurazioni
Questo aspetto è una diretta conseguenza di quello che
abbiamo appena trattato. È pericoloso dare alle persone del-
le false rassicurazioni, se non vogliamo correre il rischio di
comprometterne la fiducia e il rispetto nei nostri confronti.
Di fronte a una persona in difficoltà, è facile cadere nella
tentazione di uscirsene con una frase del tipo: «Vedrai, tutto
andrà bene». Occorre che riflettiamo, però, su quello che po-
241
trebbe accadere qualora le cose non andassero tanto «bene».
In un momento di crisi, è comprensibile che una persona
faccia profondo affidamento sulle cose che le diciamo. È
importante, quindi, evitare di darle rassicurazioni infondate.
Si tratta, semmai, di rassicurarla entro i limiti di ciò che è
realistico (cosa che è perfettamente possibile), evitando di
raccontarle falsità.
Le chiacchiere a vuoto
Del fatto che occorre essere chiari e precisi nel definire
lo scopo del colloquio abbiamo già detto più volte in queste
pagine. Non andrebbe mai sottovalutato, pertanto, il rischio di
scivolare da un colloquio a un insieme di chiacchiere senza capo
né coda. Questo non significa che non ci sia alcuno spazio, in un
buon colloquio, per convenevoli o per chiacchierate informali.
Significa piuttosto che questi elementi dovrebbero rimanere
marginali, rispetto ai contenuti che andranno affrontati nel
corso del colloquio.
242
Conclusione
ESERCIZIO 15
Pianificare un colloquio
Quello che ti chiedo è di preparare il piano dettagliato di un colloquio,
reale (che intendi effettivamente condurre) o immaginario (che serve
soltanto per fare esercizio). Puoi fare riferimento al paragrafo Prima
del colloquio di questo capitolo. Usa lo spazio sottostante per prendere
appunti.
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
243
Mucchielli
La relazione di aiuto, in particolare quando assume la forma più
strutturata del colloquio faccia a faccia, costituisce un essenziale
strumento di lavoro (l’unico a volte) per molte professioni. Quali
competenze e abilità deve esercitare un operatore per ricreare,
nella situazione di colloquio, dinamiche psicologiche favorevoli Roger Mucchielli
all’apertura emozionale, alla fiducia, alla chiarificazione? Come
Apprendere
può evitare di introdurre distorsioni, blocchi o regressioni? Il
presente volume, testo di riferimento a livello internazionale sul
counseling, illustra e presenta in dettaglio queste abilità e con-
il counseling
sente di esercitarle in modo diretto, tramite una serie di esercizi
APPRENDERE IL COUNSELING
appositamente predisposti. Unanimemente considerato il manuale
pratico più completo e approfondito per la formazione al colloquio
di aiuto, offre un testo ricco di esempi di colloquio aggiornati e
sempre attuali e di schede operative per esercizi individuali e di
gruppo.
Apprendere il counseling è un’opera destinata in modo particolare
agli operatori delle professioni di aiuto (psicologi, psicoterapeuti,
assistenti sociali, educatori, counselor) e agli studenti in formazio- Manuale di autoformazione
ne in questi specifici campi disciplinari, ma per la sua chiarezza
nell’esposizione e il suo taglio operativo può costituire un valido al colloquio di aiuto
supporto anche per molti altri professionisti (medici, insegnanti,
magistrati, avvocati, sacerdoti, amministratori, operatori assisten-
ziali, ecc.): una migliore abilità di comprensione e di relazione
interpersonale può rappresentare un essenziale arricchimento del
loro modo di essere e di operare.
€ 21,00
Primo esercizio
A. Rievoca qui sotto le circostanze nelle quali tu, personalmente, hai chiesto un
colloquio a qualcuno per poterti spiegare a proposito di qualcosa (un fatto personale
o professionale, i risultati scolastici di un figlio, una richiesta di consulenza d’orienta-
mento, una consulenza giuridica, un colloquio preliminare per concludere un accordo,
ecc.) e in cui, avendo ottenuto il colloquio, te ne sei ripartito con la sensazione di non
essere riuscito a farti comprendere, a farti «intendere». Annota tutti i casi di questo
tipo di cui ti ricordi e descrivi in poche parole come è avvenuto.
B. Riprendendo adesso questi casi uno alla volta, cerca i motivi del fallimento
del colloquio.
Dapprima leggi tutta la lista, poi utilizza, per rispondere, la tabella delle pagine
seguenti.
1. Antipatia (sia immediata, sia provata successivamente nel corso del colloquio)
nei confronti di colui o di colei che ti riceve.
2. A priori, preconcetti o pregiudizi, da parte tua, nei confronti dell’altro e «delle
persone di quel tipo».
3. Arredamento generale e mobilio insolito, scomodo, che non favorisce il rilassa-
mento.
4. Aspetto fisico scioccante, che impressiona negativamente.
5. Differenza d’età imbarazzante (in qualsiasi senso).
6. Difficoltà da parte dell’intervistato a «situare» esattamente il ruolo, le responsabilità
o il potere di colui che lo riceve.
7. Diversità di sesso imbarazzante.
8. Idee preconcette (derivate anche da esperienze precedenti) sul colloquio come
«avrebbe dovuto» svolgersi e sconcerto davanti alla realtà.
9. Impressione sgradevole di un preconcetto o di un pregiudizio dell’interlocutore
verso di te e «le persone come te».
10. Interruzione e disturbo provenienti dall’esterno.
11. L’interlocutore è distratto, non ascolta.
12. L’interlocutore sostiene di non essere competente, ti indirizza a un altro oppure
resta nel vago, rimanda a più tardi, desiste pur mostrandosi cortese.
13. L’interlocutore ti fa dire ciò che non hai detto e questo si ripete nel corso del
colloquio.
14. L’interlocutore ti interrompe, non ti lascia spiegare completamente il tuo punto di
vista o si mette a parlare d’altro, racconta cose personali o fa delle digressioni.
15. L’interlocutore ti muove dei rimproveri, ti biasima, ti giudica, contesta ciò che hai
appena incominciato a dire.
16. Locale rumoroso, angusto, o al contrario molto grande, che mette a disagio per
la sua disposizione e l’impressione che dà.
17. Mancanza di tempo. L’interlocutore ha fretta; lo dice o ce ne si accorge.
18. Momento mal scelto, sia per te che per l’interlocutore.
19. Posizione spaziale rispettiva molto fastidiosa (scrivania che separa, poltrone
morbide in cui ti senti come sprofondato, interlocutore poco visibile, ecc.).
20. Status sociale elevato dell’interlocutore (o grande differenza di status sociale tra
i due partner, a vantaggio di colui che ti riceve), il che non ti mette a tuo agio o
disturba l’esposizione del tuo punto di vista personale.
Frammenti di colloquio
Volevo un appuntamento con Laura, le ho girato attorno per delle settimane prima di
avere abbastanza coraggio da chiederle un appuntamento… e lei ha detto di sì. Non
potevo crederci. Non riuscivo talmente a crederci che non sono nemmeno andato
all’appuntamento.
Sono deciso a fare qualcosa; non ho paura di lavorare sodo, non ho paura di
ricevere dei colpi pesanti a patto di avere ben chiaro in che direzione sto andando!
Non ho per niente paura di passare sopra agli altri se li trovo sul mio cammino poiché
voglio tutto per me! Non posso accontentarmi di un lavoro mediocre! Voglio diventare
qualcuno!
Sono dieci anni che abito in questa città e sette anni che vivo nello stesso ap-
partamento, ma non conosco nessuno. In ufficio mi sembra di non potermi fare degli
amici, è come se fossi paralizzata. Mi sforzo di essere gentile con gli altri colleghi ma
mi sento come contratta e a disagio; allora mi dico che non me ne importa niente.
Non si può fare affidamento sulle persone. Ognuno pensa per sé. Non voglio amici e
qualche volta finisco per esserne veramente convinta.
A che serve! Nessuno è corretto con me. Quelli che sono rimasti a casa hanno
avuto le cose migliori, hanno approfittato di noi mentre eravamo in missione a rischiare
la pelle. Vadano al diavolo tutti quanti! Fanno il doppio gioco. Quanto a mia moglie…
[silenzio] ah sì!…
Io so che potrei farcela in questa faccenda; tutto ciò che occorre è una visione
complessiva del problema, un po’ di buon senso e il coraggio di tentare. Io queste
cose ce le ho tutte. Se riuscissi anche ad avere un aiuto per il denaro non esiterei un
attimo a lanciarmi.
Quando la guardo! … Non è carina quanto me, è anche meno intelligente, non
ha stile e io mi chiedo come farà a incantare così tante persone. Come fanno a non
accorgersene con tutte quelle smancerie? Riesce sempre a fare qualunque cosa e
tutti rimangono ammirati per come c’è riuscita. Non la posso soffrire! Mi fa impazzire!
Riesce ad avere tutto ciò che vuole! Ha avuto il mio posto, ha avuto Stefano, me l’ha
letteralmente rubato e poi ha osato negare! Quando l’ho messa davanti all’evidenza,
quando le ho detto ciò che pensavo ha risposto: «Mi dispiace!». Ma… Bene! Gliela
farò vedere io!
CASO 10. Frammento di dialogo tra uno studente e il responsabile del suo piano
di studio
Risposte
Caso 1 Scelta
Caso 2 Scelta
Caso 2 Scelta
Caso 3 Scelta
Caso 4 Scelta
1. Sei troppo pessimista. Non può mica andare sempre così. Vedrai
che per forza di cose prima o poi qualcuno si avvicinerà a te.
2. Conosco altre persone nella tua situazione. Però loro sono riu-
scite a costruirsi delle relazioni piacevoli frequentando qualche
associazione. L’importante è non convincersi che si deve restare
soli per forza.
Caso 4 Scelta
Caso 5 Scelta
Caso 6 Scelta
Caso 6 Scelta
Caso 7 Scelta
Caso 8 Scelta
1. Questa tipa assomiglia a qualche altra ragazza con cui hai avuto
a che fare?
2. Pensi che lei riesca ad avere ciò che, in realtà, dovrebbe spettare
a te.
3. Si direbbe che tu abbia assunto un atteggiamento un po’ violento
nei suoi confronti. Tutti abbiamo dei pregiudizi nei confronti di
qualcuno, tuttavia è molto raro che ne ricaviamo qualcosa di
positivo.
Caso 8 Scelta
Caso 9 Scelta
Caso 10 Scelta
Caso 10 Scelta
Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
A 2 1 5 6 6 2 5 3 4 3
B 4 2 1 5 2 6 1 4 2 2
C 6 5 6 1 5 4 3 6 1 5
D 1 4 3 3 1 5 6 1 5 6
E 3 6 4 2 4 1 2 5 6 4
F 5 3 2 4 3 3 4 2 3 1
Comincia con il riportare il numero della risposta scelta per ogni frammento nella
tabella della pagina precedente, ad esempio colorando in rosso (o tratteggiando) la
casella che, per ognuno dei dieci casi, contiene il numero della tua risposta spontanea,
senza preoccuparti delle lettere che si trovano nella prima colonna a sinistra.
Dovresti poter evidenziare alcune cose:
– innanzitutto una certa riga dominante, quella che, in orizzontale, contiene il maggior
numero di caselle colorate o tratteggiate (5 o più);
– in seguito, una sottodominante, vale a dire la riga che, dopo la dominante, contiene
il maggior numero di caselle colorate o tratteggiate (3 o 4) (si può avere più di una
sottodominante);
– infine, delle caselle isolate, vale a dire soltanto una o due risposte per riga.
Puoi valutare autonomamente l’importanza della tua tendenza dominante e
sottodominante osservando il numero di caselle colorate o tratteggiate sulle dieci di-
sponibili, dato che ti è stato richiesto di rispondere a dieci frammenti. Una dominante
di nove caselle su dieci, ad esempio, denota un atteggiamento rigido e sistematico,
mentre un massimo di quattro caselle per riga indica solamente una tendenza. Può
succedere che non vengano individuate né dominanti né sottodominanti (ossia nessuna
riga contiene più di due caselle colorate o tratteggiate). Il senso di questo fenomeno
viene descritto in seguito.
La lettera che, nella tabella, nella prima colonna a sinistra, corrisponde alla tua
riga dominante, indica la tendenza abituale o cronica della tua personalità nei rapporti
con gli altri in situazione di colloquio o quando si raccolgono delle confidenze. In altre
parole, I’esercizio denota (o ti permette di rilevare) il tuo atteggiamento cronico così
come emerge dalle tue risposte spontanee. Questo atteggiamento è uno dei sei
descritti nella tabella seguente.
Ti invitiamo a riflettere sul tuo atteggiamento cronico e a ricercare in buona fede tutti
i modi in cui ti esprimi con i tuoi vicini, con le tue amiche e amici, con i tuoi collaboratori.
Annota i tipi di reazione che hai frequentemente fatto scattare senza saperlo e
che ora puoi far risalire al tuo atteggiamento come induttore di queste reazioni.
Geldard e Geldard
Kathryn e David Geldard ldard
Immaginate che qualcuno si rivolga a voi, per
La maggior parte di noi si trova, prima o poi, davanti ai problemi
th ry n Gelda rd e David Ge via di un problema che continua a preoccuparlo.
Ka
PARLAMI,
Lavorano insieme come counselor liberi professio- degli altri: persone che ci sono vicine nella vita privata, come amici Come pensate che potreste fare, per aiutarlo a
nisti e gestiscono training avanzati di counseling o parenti, o persone con cui abbiamo a che fare per lavoro, come sentirsi meglio? Potreste forse ripensare a un
per professionisti. Kathryn Geldard è una psicologa pazienti, alunni o colleghi. In una situazione di questo tipo, può momento in cui avete avuto un problema voi,
specializzata dell’età infantile e della famiglia e una e qualcun altro vi ha aiutato a superarlo. Vi
TI ASCOLTO
succedere di sentirsi a disagio oppure inutili, perché mancano gli
terapista occupazionale. ricordate che cosa avesse fatto quella persona?
strumenti per affrontarla al meglio.
Hanno pubblicato numerosi libri sul counseling, Perché una persona a disagio cominci a sentirsi
Questo libro, scritto in modo semplice ed efficace, accompagna il
concentrandosi soprattutto sulle problematiche dei
lettore a conoscere le principali abilità necessarie per saper ascol- un po’ meglio occorre, in generale, che si svolga
bambini e degli adolescenti.
tare gli altri e aiutarli nella vita di tutti i giorni. Il volume spiega
nseling nella vita quotidiana un determinato processo. Il passaggio chiave
le varie fasi del colloquio di aiuto (counseling), dal momento in Le abilità di cou è che la persona interessata avverta, da parte
cui si invita l’altra persona a parlare con noi fino al momento in vostra, un atteggiamento empatico, rispettoso e
cui si tenta di individuare una soluzione al problema. Attraverso disinteressato. Tra voi e il vostro interlocutore si
numerosi esempi concreti, esercitazioni e conversazioni-campione, dovrebbe creare una relazione che rappresenta,
vengono analizzate le diverse fasi dell’incontro e gli atteggiamenti a nostro giudizio, il vero elemento distintivo
PARLAMI, TI ASCOLTO
da assumere per ottenere i migliori risultati. del processo d’aiuto. È dalla qualità di questa
Per la sua chiarezza e il taglio pratico, questo libro risulta prezioso relazione, infatti, che dipende la reazione di
sia per chi desidera essere di sostegno a familiari e amici, sia per gli quella persona nei vostri confronti: se si sentirà
«addetti ai lavori», come operatori sociosanitari, educatori, assistenti effettivamente valorizzata, invece che giudicata.
sociali, insegnanti, medici e infermieri. A partire da qui, si potrà quindi sviluppare un
clima positivo, fatto di reciproca accettazione.
Aiutare qualcuno a stare meglio con se stesso,
comunque, è un’azione processuale: non si potrà
mai esaurire in un unico evento. È un processo che
inizia nel momento in cui qualcuno si rende conto
che ci sono altre persone (come noi) disponibili
ad ascoltare i suoi problemi, o a condividere i
suoi vissuti emotivi. Quel «qualcuno» avrà così
un’opportunità per riconoscere, rivivere, espri-
Collana mere e sfogare le sue emozioni. Così facendo,
CAPIRE CON IL CUORE potrà anche comprendere meglio i suoi motivi di
Esempio 2
«Mia figlia è davvero disobbediente, continua a comportarsi
in malo modo. È una continua fonte di tensioni, perché si mette
sempre a litigare con suo fratello e con il padre».
Esempio 3
«Questo contratto, per me, è fondamentale. È veramente
strano: ho mandato un fax all’azienda la settimana scorsa,
94
e non mi è arrivata nessuna risposta. E sì che, fino adesso,
sembrava che ci tenessero molto anche loro a mettersi d’ac-
cordo con me, sui contenuti del contratto».
Esempio 4
«Mio figlio si sposerà a Birmingham. La sua futura mo-
glie è proprio una bella persona, non vedo l’ora di andare al
matrimonio».
Esempio 5
«Il mio capo ha veramente delle grandi idee. Un progetto come
questo andrà bene di sicuro. Dovrebbe andare bene anche per
me, visto che mi ha affidato l’incarico di coordinare il lavoro».
Esempio 6
«Il mio professore mi ha dato questa tesina da fare. È tutto
il giorno che cerco materiali e informazioni, per avere qualche
idea, ma non ho trovato proprio niente».
In conclusione
95
Di fronte agli esempi pratici: le nostre risposte
Esempio 2
«Sembri arrabbiata» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Sei arrabbiata» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Tua figlia ti fa parecchio preoccupare» [Riformulazione
del contenuto]
«Sei arrabbiata, perché tua figlia ti fa preoccupare» [Rifor-
mulazione del vissuto emotivo e del contenuto]
Esempio 3
«Sei perplesso» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Sei preoccupato» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Sembri perplesso e preoccupato» [Riformulazione del
vissuto emotivo; facendo riferimento, in questo caso, a due
sensazioni distinte]
«Questa azienda ti aveva dato l’impressione di essere
interessata a trattare con te, ma poi non si sono più fatti vivi»
[Riformulazione del contenuto]
«Sei perplesso, e anche preoccupato, perché non hai più
ricevuto nessuna risposta dall’azienda» [Riformulazione del
vissuto emotivo e del contenuto]
Esempio 4
«Sembri felice» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Ho l’impressione che tu sia proprio felice» [Riformulazione
del vissuto emotivo]
96
«Chissà come sarai contenta» [Riformulazione del vissuto
emotivo]
«Andrai presto al matrimonio di tuo figlio, a Birmingham»
[Riformulazione del contenuto]
«Sembri proprio felice, all’idea di andare al matrimonio di tuo
figlio» [Riformulazione del contenuto e del vissuto emotivo]
Esempio 5
«Sembri contento» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Insomma, sei proprio contento» [Riformulazione del
vissuto emotivo]
«Il tuo capo ti ha assegnato un ruolo di responsabilità per
un progetto importante» [Riformulazione del contenuto]
«Sembri davvero contento, da quando ti hanno assegnato il
coordinamento di quel progetto» [Riformulazione del contenuto
e del vissuto emotivo]
Esempio 6
«Sembri proprio insoddisfatta» [Riformulazione del vissuto
emotivo]
«Sembra che tu sia insoddisfatta» [Riformulazione del
vissuto emotivo]
«Insomma, sei insoddisfatta» [Riformulazione del vissuto
emotivo]
«Anche se hai cercato, non riesci a trovare quello che ti
servirebbe» [Riformulazione del contenuto]
«Sei insoddisfatta, perché non riesci a trovare le informa-
zioni che ti servirebbero» [Riformulazione del contenuto e del
vissuto emotivo]
97
RIASSUNTO DEL CAPITOLO
98
Dare un invito
iniziale a par-
lare
Reagire in modo
Dare un ulte-
adeguato al declino
riore invito
dell’invito
Aiutare la perso-
Ascoltare at- na a riconoscere
tivamente la i vissuti emotivi,
Dare conferma
persona, e la a riappropriarsene,
sua storia a esprimerli verso
l’esterno
Aiutare la persona a
trovare delle soluzioni
Fig. 5.1 Il processo che si crea nell’utilizzo delle abilità elementari di counseling,
in una conversazione.
101
La conferma
Dare la conferma è un po’ come dire: vedo anch’io quello che vedi tu
102
le proprie preoccupazioni, e formulare un primo «invito a parlare»,
secondo il modello che abbiamo descritto nel capitolo terzo. Se Katia
avesse dato una risposta positiva, la conversazione poteva senz’altro
proseguire. Maddalena avrebbe potuto utilizzare le abilità descritte
nel capitolo quarto, per dare al collega l’opportunità di parlarle un
po’ dei suoi problemi. Più precisamente, Maddalena avrebbe potuto
fare una riformulazione dei suoi vissuti emotivi, con qualche frase
come quelle che seguono:
Sembri proprio triste, quando parli di tua moglie che sta
perdendo la vista.
Ti senti davvero sconvolto, per via di questa situazione.
Sei preoccupato per tua moglie.
Sei infuriato perché pensi che i dottori non siano stati
capaci di aiutarla.
106
calma, lasciando che si sfoghi, senza interruzioni; oppure se non sia
meglio interrompere la vostra conversazione. La domanda che dovreste
farvi è pressappoco la seguente: «Se continua a piangere, sarò in grado
di gestire la situazione?». Se la vostra risposta è affermativa, potrete
senz’altro lasciare che quella persona pianga, sfoghi tutta la sua tristezza,
e poi — magari — si senta un po’ meglio di prima. In alternativa, si
tratterà di riconoscere che, date le circostanze, potrete aiutarla soltanto
fino a un certo punto; oltre quel punto, dovrete pensare a voi stessi.
Nella prima ipotesi, oltre a lasciare che l’altra persona si sfoghi con
le lacrime, potreste persino incoraggiarla, con qualche frase del tipo: «Non
mi dà nessun fastidio se piangi»; «Non c’è nessun problema, per me:
piangi pure tranquillamente» (ammesso che la cosa sia vera). Dovrete
trasmettere a quella persona, cioè, un esplicito messaggio: non deve aver
paura o vergognarsi di piangere, quando si trova lì insieme con voi.
Rimanere al vostro posto senza dire nulla, mentre l’altra persona
scoppia in lacrime, può effettivamente contribuire a migliorare il suo
stato d’animo. L’importante è che non perdiate la calma, in modo che
l’altra persona percepisca in voi una presenza empatica, collaborativa,
ma non intrusiva. Qualche volta, peraltro, può essere utile assumere un
ruolo un po’ più incisivo, ad esempio chiedendole di descrivere con le
sue parole i motivi per cui piange. Molte volte, chi comincia a piangere
non riuscirà a dirvi assolutamente nulla. Dopo un po’, comunque, è
possibile che si creino le condizioni per riprendere la conversazione. A
quel punto, potreste fare una o più domande di questo tipo:
Mi puoi dire con che cosa hanno a che fare le tue lacrime?
Mi puoi dire che messaggio trasmettono le tue lacrime?
Se le tue lacrime potessero parlare, che cosa direbbero?
109
spalla, e magari rassicurarlo: «Vedrai che andrà tutto bene». Che cosa
ne pensate voi?
Non tutti sono d’accordo, in effetti, sul fatto che «la soluzione»,
di fronte a una persona provata dalla sofferenza, stia nel contatto
fisico, o magari nel passarle un fazzoletto, mentre piange.
È una questione che va affrontata nel rispetto dei «paletti»
interpersonali, professionali e morali. Le persone in stato di disagio
emotivo sono molto vulnerabili, e possono scoprirsi — per via della
situazione che vivono — addirittura bisognose. Sarebbe profonda-
mente immorale approfittare della loro condizione di debolezza, con il
pretesto di «consolarle». La relazione andrà sempre mantenuta all’in-
terno dei confini appropriati. Oltrepassarli, per qualunque ragione,
non aiuterebbe la persona che abbiamo davanti; semmai, la farebbe
sentire ancora più impotente e manipolata. Il rischio, anzi, è che si
verifichino situazioni di abuso, con il risultato che quella persona,
in futuro, sarà portata a non accettare più aiuto da nessuno (e tanto
meno a chiederlo), anche quando ne avrà bisogno.
In generale, siamo convinti che non sia utile sforzarsi di consolare
l’altra persona, ma piuttosto rimanere in silenzio, attenti e rispettosi,
accanto a lei. Cercare di consolarla — poniamo — con qualche tipo
di contatto fisico rischierebbe di ostacolarla nello sforzo di raccontare
il suo problema, e quindi di sfogarsi un po’. Correremmo il rischio,
oltretutto, di oltrepassare i confini della «sfera personale» di quella
persona. Una regola di questo tipo, naturalmente, conosce tantissime
eccezioni: pensiamo ad esempio alle relazioni di intimità, come quelle
di coppia, o tra genitori e figli.
110
nei momenti di sfiducia, se si lascia che pianga e non la si interrompe,
è probabile che poco alla volta smetta da sola, e si renda conto di avere
recuperato il proprio autocontrollo. Quando questo non avviene, sarà
il caso di suggerirle di contattare un counselor professionista.
111
Come pensate che vi potreste sentire, in questi casi? Come reagireste,
ad esempio, se un vostro amico (o collega) scoppiasse in lacrime, men-
tre vi racconta qualche cosa di triste? Sarete forse tentati di aiutarlo
a smettere di piangere; magari vi sforzerete di distrarlo, cambiando
l’argomento della conversazione. Una reazione di questo tipo, benin-
teso, sarebbe perfettamente naturale. È proprio quello che ci hanno
sempre insegnato a fare, sin da bambini: quando c’è qualcuno che
piange, bisogna consolarlo! Ditegli che non pianga più, e tutto andrà
bene. Purtroppo, una soluzione di questo tipo aiuterà forse voi, ma
non — con ogni probabilità — il diretto interessato.
Quando diciamo a qualcuno: «Non piangere», gli offriamo un
po’ di consolazione nell’immediato, ma non lo aiutiamo certo ad
affrontare i problemi da cui dipendono le sue emozioni negative. Di
fatto, lo incoraggiamo a mettere i problemi da parte, almeno sino
alla prossima volta che torneranno a galla. È evidente che questa
non è una soluzione appropriata, per una relazione d’aiuto efficace.
Dovremmo piuttosto aiutare quella persona a sfogare liberamente
certi suoi vissuti emotivi, in modo da lasciarli alle proprie spalle, e
andare oltre. Dobbiamo essere pronti, quindi, a fronteggiare — e non
ad aggirare — tutte le situazioni in cui chi ci sta davanti si mette a
piangere, o si mostra disperato, disilluso, infuriato, e via discorrendo.
È innegabile che in certi casi, di fronte a emozioni «forti» di questo
tipo, diventa difficile gestire anche le nostre reazioni emotive.
Quando invitiamo una persona a esprimere liberamente i suoi
vissuti emotivi, è probabile che questa riesca ad acquisire maggiore
consapevolezza della propria sfera emotiva. Quando questo avviene,
le sue emozioni si possono fare più intense, e risulta più facile anche
esprimerle in forma esplicita. Se notassimo che qualcuno, come nel-
l’esempio di Katia, ha un’aria molto triste, e rispecchiassimo la sua
tristezza dicendo: «Sembri triste», quella persona potrebbe mettersi a
piangere. Se invece dicessimo a qualcuno: «Sembri arrabbiato», questi
potrebbe senz’altro risponderci con un tono incollerito. Potrebbe
addirittura ribattere, con lo stesso tono di voce: «Non sono affatto
arrabbiato!». Eppure, una risposta adirata come questa potrebbe già
bastargli per sfogare, almeno in parte, la sua rabbia.
Come ormai sappiamo, se vogliamo aiutare qualcuno a sen-
tirsi meglio dovremo dargli l’opportunità — attraverso un esplicito
112
invito — di esprimere liberamente i suoi vissuti emotivi, compresi
quelli negativi, nella misura in cui se la sente. Il problema, però, è
che rischieremo anche noi di «esporci» a emozioni forti, talvolta
dolorose. Può essere questo, infatti, l’effetto dello «scaricamento
emotivo» dell’altra persona. La nostra presenza dovrebbe aiutarla
proprio ad alleggerirsi, o a «scaricarsi le spalle», di determinati suoi
vissuti emotivi. Alcuni di questi, cadendo dalle sue spalle, scivoleranno
per terra; altri, inevitabilmente, potranno cadere anche sulle nostre
spalle, innescando ulteriori reazioni emotive da parte nostra. Per la
persona che aiutiamo, si tratterà di un processo catartico, o addirittura
terapeutico; quanto a noi, per quanto esperti o ben attrezzati, dovre-
mo essere pronti — almeno in taluni casi — al possibile «impatto
emotivo» di quel che l’altra persona ci va raccontando. Sotto questo
profilo, vale senz’altro la pena che leggiate il capitolo decimo, che
vi aiuterà a prendervi meglio cura delle vostre esigenze (oltre che di
quelle dell’altra persona).
113
«peso emotivo» di quel che vi viene detto. Se non riuscite a farlo, il
vostro interlocutore potrebbe anche pensare, tra sé e sé: «Accidenti,
è veramente sconvolto da quello che gli sto dicendo. Forse è meglio
che mi fermi qui, per non far stare male anche lui». Invece di riuscire
a concentrarsi sui suoi problemi, quella persona potrebbe addirittura
sentirsi in colpa nei vostri confronti!
Non dobbiamo perdere di vista, in ogni caso, la nostra au-
tenticità. Più che cercare di reprimere tout court le nostre reazioni
emotive, quindi, potremmo cercare di esprimerle nel modo più
empatico possibile:
Mi sento triste anch’io, per le cose che mi hai appena
raccontato.
O magari:
Sono colpito anch’io dalle cose che mi dici.
114
RIASSUNTO DEL CAPITOLO
115
CAPITOLO 6
Puntare al «nocciolo» del problema
Giunti a questo punto, possiamo anche fare una breve pausa per
riepilogare ciò di cui abbiamo discusso sino a ora. Come prima cosa,
abbiamo presentato i modi in cui è possibile «mettersi nei panni»
di qualcun altro, ascoltando con attenzione quel che ci racconta.
Abbiamo parlato dei modi in cui possiamo utilizzare certe brevi in-
teriezioni — «Uhm», «Ah ah», «Sì», e così via — per fare percepire
all’altra persona il nostro ascolto attivo nei suoi confronti. Abbiamo
quindi visto come sia possibile, attraverso la riformulazione, far
sapere a quella persona che la ascoltiamo e la comprendiamo. Come
ricorderete, si tratta di riuscire a identificare i suoi vissuti emotivi, per
poi rispecchiarli nel modo più accurato possibile, aiutandola a rico-
noscere meglio le proprie emozioni, e ad affrontarle come tali. Tutte
le abilità che abbiamo descritto servono a dare vita a una relazione
empatica, al cui interno incoraggiare l’altra persona a continuare a
parlarci dei suoi problemi.
Se vi trovate ad aiutare qualcuno, facendo uso di queste abilità
pratiche, provate per un attimo a immaginare che quel «qualcuno»
siate voi: con gli stessi problemi, nella stessa situazione, dal medesi-
mo punto di vista. Se ci riuscite, potrete capire, almeno in una certa
misura, come realmente si senta il vostro interlocutore.
Mano a mano che ascoltate la sua storia, potreste avvertire la
sua fatica a descrivere il problema nei giusti termini, magari perché
è confusa da tutte le idee e le sensazioni diverse che le ronzano in
testa. Il più delle volte, le cose vanno proprio così. In questi casi,
ascoltare la persona con attenzione è un passaggio importante, ma
non risolutivo: per esserle davvero d’aiuto, dovrete incoraggiarla,
117
Thompson
Neil Thompson Nuova
Neil Thompson Edizion
«Essere “creativi” significa uscire dai binari dei
LAVORARE
collaboratori o di lavorare in team, tutto dipende dalla propria abilità maggiori ostacoli allo sviluppo della creatività
lente indipendente, vanta una
di rapportarsi efficacemente con gli altri. Occorre quindi sviluppare vi è l’atteggiamento di chi dice: “Non ci riesco.
pluridecennale esperienza di
una più matura consapevolezza delle dinamiche che intervengono Non sono assolutamente una persona creativa!”.
lavoro nell’ambito dei servizi
È questo un tipico atteggiamento disfattista,
CON LE PERSONE
alla persona. Nella sua carrie- quando si lavora con le persone e arricchire il proprio bagaglio di
ra è stato docente in quattro competenze nelle relazioni interpersonali. proprio di chi confonde abilità che si possono
università inglesi e ha pubbli- Nel volume viene spiegato come potenziare la propria efficacia imparare e qualità personali intrinseche. Il
cato oltre 200 lavori, tra cui alcuni manuali di grande personale, gestendo al meglio il tempo lavorativo, valorizzando tema della creatività è uno di quelli su cui c’è
successo. Tra la sua produzione si contano anche doti personali e creatività e contrastando lo stress. Vengono poi maggiore confusione: c’è chi la vede come una
numerose risorse per la formazione: e-book, DVD, presentate le varie modalità di interazione con gli altri, che devono
Far emergere il meglio dalle relazioni sorta di qualità magica, quasi si trattasse di un
manuali, corsi online. Ha ideato e condotto l’Avenue essere conosciute e potenziate per generare rapporti di lavoro effi- dono di natura. La creatività invece può essere
Collana
CAPIRE CON IL CUORE
I Psicologia I Educazione I Disabilità I Culture I Narrativa
Collana
CAPIRE CON IL CUORE
I Psicologia € 19,00
Educazione
Disabilità
Culture
Narrativa
Capitolo secondo
Gestire bene il tempo
Introduzione
39
la risorsa più preziosa di cui disponiamo. Molte volte, anzi, il
tempo è la cosa più importante che possiamo offrire agli altri; un
motivo in più per non sprecarlo, o per non impiegarlo malamente.
Il time management, però, non ha a che vedere soltanto
con l’organizzazione del nostro tempo e con il tentativo di non
sprecarlo. Uno dei suoi aspetti principali — anzi, essenziali —
sta infatti nella capacità di calibrare l’energia e di mantenere
su livelli ottimali la motivazione e l’impegno personale. In altri
termini, è qualche cosa che riguarda non solo la quantità di
tempo, ma anche la sua qualità.
La questione dell’energia, della motivazione e dell’impegno
assume particolare importanza per chi lavora a stretto contat-
to con le persone. I problemi e le esperienze di vita in cui ci
imbattiamo, in questo campo, possono farci sentire esauriti,
demoralizzati, talvolta addolorati o carichi di rabbia. Altre volte,
il lavoro con le persone può risultare noioso, poco stimolan-
te, ripetitivo: può comportare, ad esempio, tutta una serie di
adempimenti burocratici da sbrigare in ufficio. Nell’uno come
nell’altro caso, è evidente che la motivazione è un elemento di
grande rilevanza. Di qui una domanda di importanza vitale: in
che modo è possibile mantenere l’impegno e la motivazione,
nei momenti più difficili del lavoro?
Per rispondere a questa domanda, nelle pagine seguenti ci
occuperemo principalmente di due aspetti: come organizzare
il proprio tempo in modo ottimale e come mantenere alte le
proprie energie. Come prima cosa, però, dobbiamo spendere
qualche riflessione sul funzionamento dei processi di time
management, e sugli effetti che ne derivano.
40
in dettaglio il modo in cui si trascorre abitualmente il proprio
tempo sul luogo di lavoro. È possibile utilizzare, a questo scopo,
strumenti ormai ben noti, come registri o «diari del tempo».
Questo approccio al time management ha i suoi lati positivi,
come quello di mettere a fuoco un’immagine esauriente del
modo in cui si impiega il proprio tempo; accanto a questo, però,
c’è anche l’altro lato della medaglia. Il problema più evidente è
che un’attenzione eccessiva alle «modalità d’uso» del tempo si
rivela assai dispendiosa e quindi risulta controproducente. Se
guardiamo troppo ai dettagli, inoltre, rischiamo di perdere di
vista le nostre energie e motivazioni.
L’approccio che presentiamo in queste pagine è sensibil-
mente diverso. Il suo obiettivo di fondo è aiutarvi a capire (e in-
coraggiarvi ad applicare) i principi di base del time management,
sul piano dell’organizzazione del tempo e del mantenimento
di adeguati livelli di energia. In questa prospettiva, il time ma-
nagement richiede la sensibilità di saper cogliere l’importanza
del tempo e dell’energia di cui si dispone, per svolgere bene un
determinato lavoro. Conoscere i principi che stanno alla base
del time management serve proprio a sviluppare questo tipo
di sensibilità.
Può essere utile, per comprendere il funzionamento del
time management, cogliere alcuni dati di fondo:
–– Non esistono risposte giuste, valide per tutti. Ciò che va bene per
voi potrebbe risultare inadatto per qualcun altro, e viceversa.
È importante, nell’imparare il time management, tenere
conto della personalità, delle esigenze, della situazione in cui
si trova ciascuno di noi.
–– In un giorno ci sono solamente ventiquattro ore. Per quanto
possiate diventare bravi a gestire il tempo, ci sono dei limiti
oltre i quali non si può andare. Una buona gestione del tempo
vi può aiutare a non sovraccaricarvi, ma non è sufficiente a
«proteggervi» dagli eccessi di lavoro.
41
–– Il time management è qualche cosa che si può imparare. Come
abbiamo detto all’inizio di questo libro, ci sono delle abilità
che si tende spesso a scambiare per «qualità». Si tende a credere
che vi siano persone che, a differenza delle altre, sarebbero
«tagliate» per organizzare bene il proprio tempo. L’esperienza
ci insegna che non è il caso di essere così fatalisti: ciascuno
di noi ha in sé le potenzialità per rafforzare le proprie abilità
di time management.
42
sata ha ormai perso il controllo del proprio tempo e faticherà
non poco per recuperarlo. Un buon time management richie-
de di saper mettere da parte una certa quantità di tempo, per
programmare le modalità di impiego del tempo restante, fissare
delle priorità, prevedere i problemi che potrebbero emergere,
riconoscere le potenziali opportunità, e così via. Occorre, in
altri termini, investire del tempo in attività di programmazione
e di organizzazione, che serviranno poi a risparmiare del tempo.
Chi non riesce a fare questo «investimento» potrebbe anche
risparmiare un po’ di tempo nell’immediato, ma sul lungo
periodo rischierà di perderne assai di più.
Detto questo, va anche riconosciuto il rischio opposto:
quello di investire troppo tempo nella programmazione. C’è chi
dedica tanto di quel tempo a programmare il lavoro da non avere
più tempo per farlo. C’è chi continua a compilare liste infinite di
compiti da fare, senza poi trovare il tempo per svolgerne alcuno.
È fondamentale, quindi, saper trovare un giusto equilibrio tra
un investimento scarso e uno eccessivo. La programmazione
è uno strumento in vista di uno scopo e non uno scopo in sé.
43
Fissare delle priorità
Quando ci troviamo davanti un lungo elenco di cose da
fare, può essere utile stabilire quali siano le più importanti e quali
vadano fatte per prime. Si tratta, in altri termini, di fissare delle
priorità. Il che può risultare difficile, per tre ordini di ragioni:
–– Non ci sono molti criteri che ci permettano di stabilire un
ordine di importanza nelle cose.
–– Le cose importanti sulla lista potrebbero essere così nume-
rose che risulterebbe impossibile, in ogni caso, farle tutte. È
necessario prendere qualche decisione drastica, per togliere
dall’elenco i compiti di troppo.
–– Ci può anche essere un conflitto di interessi. Ci possono essere
delle voci sulla lista, ad esempio, che ai vostri occhi hanno
un’estrema importanza, ma dal punto di vista di altre persone
influenti — ad esempio il vostro capo — sono decisamente
meno importanti.
Non è detto, quindi, che fissare delle priorità sia una cosa
semplice. Con un po’ di esperienza, comunque, scoprirete voi
stessi che i benefici che ne derivano sono ben superiori ai risvolti
negativi. Il punto, semmai, è guardarsi dal rischio di fissare le pri-
orità in modo eccessivamente rigido. Se non si mantiene una certa
flessibilità, le priorità possono rivelarsi più d’ostacolo che d’aiuto.
Ad esempio, un tattica utile potrebbe essere quella di pen-
sare alle conseguenze a cui si va incontro se non si completa un
particolare lavoro. Se non portassimo a termine un incarico,
quanto sarebbe grave? Naturalmente, questa non è una regola
ferrea: ma può essere utile per aiutarci a valutare l’importanza
relativa da attribuire a priorità in conflitto tra loro.
44
lo scopo delle sue azioni diventa incerto e confuso. Non è raro,
in effetti, scivolare in una sorta di circolo vizioso. Un carico
di impegni eccessivo può farci perdere di vista completamente
gli obiettivi, rendendoci ancora più tesi per «il tempo che non
c’è»; cosa che ci rende ancora più confusi rispetto agli obiettivi,
e il circolo continua.
Quindi, la capacità di mantenere ben chiari gli obiettivi
anche quando siamo sotto pressione è un aspetto basilare per
un time management efficace. Il principio del «non perdere di
vista l’obiettivo» è strettamente legato alla capacità di lavorare
in modo metodico e ordinato, come vedremo più a fondo nel
capitolo ventiduesimo.
45
perdita di tempo. È necessaria, semmai, la capacità di identi-
ficare le circostanze in cui si rischia di perdere del tempo, per
poi utilizzare quel tempo in modo più costruttivo. Si tratta di
sviluppare un buon livello di sensibilità e di autoconsapevolez-
za, come abbiamo visto nel corso del capitolo precedente. La
capacità di cogliere le situazioni in cui si potrebbe risparmiare
del tempo è qualche cosa che si può sviluppare con la pratica e
con l’esperienza; qualche cosa, comunque, che non mancherà
di ripagare dell’investimento fatto.
Usare un’agenda
L’agenda è uno degli strumenti principali del time mana-
gement. La si può utilizzare nell’ambito della programmazione,
del monitoraggio, del coordinamento delle proprie attività.
Non si tratta solo di un posto dove annotare appuntamenti con
altre persone. Ad esempio, se dobbiamo scrivere una relazione,
potremo fare uso dell’agenda per organizzare il tempo dedicato
a questa attività. In questo modo, l’agenda diviene un tassello
importante di ogni strategia di gestione del tempo. Anche
rispetto all’utilizzo dell’agenda è possibile sviluppare meglio
alcune tecniche e abilità ad hoc.
L’agenda vi aiuta a controllare meglio il vostro tempo e
vi mette al riparo da situazioni imbarazzanti come quella di
dimenticarsi un appuntamento o di fissarne due alla stessa ora.
Una buona tecnica per usare l’agenda, pur nella sua semplicità,
è la seguente: si traccia una linea verticale nel mezzo di ogni
pagina, si annotano sulla parte sinistra gli impegni o gli appun-
tamenti, e sulla parte destra le cose ancora da fare. All’inizio
di ogni giorno potrete dare un’occhiata alla lista della pagina
precedente, depennando le cose che sono state fatte, o che non
c’è più bisogno di fare. Rimarranno soltanto le cose ancora da
fare, che potrete riportare nella parte destra della pagina di oggi.
46
La regola dei tre minuti
È facile che, nel corso della settimana, si accumulino tante
piccole cose da fare. Ciascuna, presa di per sé, non richiede
grandi sforzi; quando cominciano ad accumularsi, però, l’im-
pegno si fa decisamente maggiore. E visto che districarsi tra
tante «cosette» da fare può risultare sgradevole, non sorprende
la tendenza a procrastinare. Una volta che si comincia a rinviare,
però, il «mucchio» delle cose in arretrato è destinato a crescere;
il che, a sua volta, aumenta l’indisponibilità a farsene carico.
Ed ecco che si è innescato un circolo vizioso.
Una buona soluzione, accessibile a tutti, è la «regola dei tre
minuti». Se la cosa che dovete fare richiede meno di tre minuti
— compilare un modulo, dare una breve risposta via e-mail,
e così via — allora occupatevene subito. Oltre a prevenire gli
arretrati di lavoro, eviterete anche, più avanti, ritardi dovuti
all’adempimento di queste cose di poco conto.
Lavorare insieme
Lavorare in modo collaborativo, anche nella forma di un
vero e proprio lavoro in équipe, permette di valorizzare i punti
di forza di ciascuno, riducendo gli effetti dei rispettivi punti di
debolezza. Una strategia di tipo cooperativo, di conseguenza,
può senz’altro contribuire a una buona gestione dei tempi di
lavoro. Si tratta, comunque, soltanto di una possibilità: non sta
scritto da nessuna parte che la cooperazione, di per sé, garanti-
sca necessariamente un migliore utilizzo del tempo. I tentativi
di collaborare possono anche dare luogo a sovrapposizioni (o
a compiti che rimangono scoperti), incongruenze, dibattiti
vuoti e interminabili, incapacità di decidere; in definitiva, a un
cattivo utilizzo delle risorse disponibili (tempo compreso). «Il
lavorare insieme», pertanto, non si può ridurre a uno slogan:
richiede un adeguato investimento di tempi e di energie. Per
47
riuscire a collaborare bene dobbiamo saper fissare dei «paletti»
e chiarire le aspettative reciproche, onde evitare confusione e
l’insorgere di conflitti.
48
La persona giusta nel posto giusto
Si tende spesso, nel lavoro di gruppo o di équipe, a dividere
il lavoro senza considerare più di tanto quali siano, per ciascuna
delle mansioni previste, le persone più idonee. Ciò, in termini
di time management, è controproducente, giacché si traduce
in un impiego non ottimale delle risorse disponibili. Ciascuno
di noi ha i suoi punti di forza e di debolezza; aspetti del lavoro
che gradisce e aspetti che non gli sono congeniali. Valorizzan-
do le cose che sappiamo fare meglio e che ci piacciono di più
si manterranno livelli di motivazione più elevati e, a parità di
tempo disponibile, si otterranno risultati migliori. Vale quindi
la pena, in un contesto di lavoro di gruppo o di staff, mettere
a fuoco le preferenze individuali di ogni lavoratore, in modo
che ciascuno — per quanto possibile — abbia l’opportunità
di dare il meglio di sé.
49
Se sappiamo — ad esempio — che domani dovremo fare una
telefonata sgradevole, è meglio che ci impegniamo a farla non
appena arrivati in ufficio.
Se non prendiamo di petto queste mansioni sgradevoli e
continuiamo a procrastinarle, possono tormentarci, demotivarci
e condizionare negativamente il nostro rendimento sul lavoro. È
importante, quindi, seguire la semplice regola del «via il dente,
via il dolore»: si tratta di identificare le cose verso cui siamo più
riluttanti, per poi metterci a farle prima di tutte le altre.
50
un tempo ben superiore a quello che esse richiederebbero. Que-
sto, sul versante delle motivazioni, è un aspetto importante: se
siamo poco motivati finiremo per allungare inutilmente i tempi
di lavoro, cosa che, a sua volta, avrà ripercussioni negative sulle
nostre motivazioni.
Se invece ci sforziamo di completare in tempi ragionevoli
le mansioni che ci vengono assegnate, ne usciremo rafforzati
nel nostro senso di fiducia, di padronanza, di autorealizzazione.
L’impegno a evitare ogni allungamento superfluo dei tempi di
lavoro sarà ampiamente ripagato, sul piano delle nostre moti-
vazioni al lavoro.
Essere ottimisti
Per mantenere, se non rafforzare, i livelli di energia e di
motivazione, è fondamentale l’ottimismo. Un atteggiamento
pessimista, infatti, contribuisce di per sé ad abbassare il morale
e la soddisfazione sul lavoro. Ne può derivare un circolo vizioso,
in cui pessimismo e morale sotto i tacchi si rinforzano — e
quindi si peggiorano — a vicenda.
Essere ottimisti può generare un circolo virtuoso che dà
luogo a un miglioramento della soddisfazione e del morale sul
lavoro, il che contribuirà a un atteggiamento più improntato
all’ottimismo. Vedremo più in dettaglio nel capitolo decimo
quanto sia importante non perdere mai di vista gli aspetti positivi.
Lavorare insieme
Oltre che a una migliore organizzazione dei tempi di lavo-
ro, lavorare insieme può giovare alle energie e alle motivazioni
lavorative. Il lavoro in équipe, la collaborazione e il sostegno
reciproco possono rivelarsi strategie vincenti, nella misura in
cui generano un senso positivo:
51
–– di sicurezza e di fiducia («l’unione fa la forza»);
–– di impegno a favore degli altri;
–– di cameratismo, di identità di gruppo, di senso d’apparte-
nenza;
–– di orgoglio e di soddisfazione per i risultati positivi ottenuti
insieme.
Conclusione
ESERCIZIO 2
Riuscire a organizzarsi
In questo capitolo abbiamo fornito molti suggerimenti per gestire
meglio il tuo tempo. Ora, per aiutarti a metterli in pratica, abbiamo
pensato a questo esercizio.
Innanzitutto, prendi un foglio di carta, di formato A4, e tienilo vicino
a te, scorrendo velocemente l’intero capitolo. Segna sul foglio tutte le
52
indicazioni concrete che secondo te potresti mettere a buon frutto nel
tuo lavoro (ad esempio, la regola «via il dente, via il dolore»). Quando
avrai finito, avrai una lista di azioni e potrai quindi pianificare un per-
corso per mettere in atto la tua nuova strategia di gestione del tempo.
53
Capitolo terzo
Gestire lo stress
Introduzione
Stress e tensione
55
stress come «risposta a livelli inappropriati di tensione». Sono
due gli elementi più significativi di questa definizione:
1. Il termine «risposta» indica che lo stress scaturisce dal modo in
cui reagiamo alla tensione; dunque «gestire lo stress» vuol dire
anche saper controllare le nostre reazioni, oltre che la tensione
che le provoca. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.
2. L’aggettivo «inappropriato» suggerisce che lo stress può deri-
vare non solo da un livello eccessivo di tensione, ma anche da
un livello insufficiente, come quando ci annoiamo, o siamo
privi di stimoli.
Possiamo quindi distinguere, come proponiamo nella
figura 3.1, fra la tensione — che può essere, a seconda delle
circostanze, positiva (una fonte di stimoli e di motivazione) o
negativa (una fonte di preoccupazioni e di conflitto) — e lo
stress, che è sempre qualche cosa di negativo e dannoso.
Livello di tensione
Stress
eccessivo
Livello di tensione
Assenza di stress
appropriato
Livello di tensione
Stress
insufficiente
Ricapitolando:
–– lo stress non equivale alla tensione: quest’ultima è un fatto
inevitabile, mentre lo stress può anche essere evitato;
56
–– lo stress si verifica più facilmente laddove la tensione è ec-
cessiva, o insufficiente;
–– lo stress dipende non solo dal livello di tensione che avver-
tiamo, ma anche dal modo in cui reagiamo.
È importante che la distinzione tra questi due concetti
chiave sia ben chiara. Se non siete sicuri di averla compresa
bene, vi suggeriamo una rilettura di questo paragrafo, prima
di procedere oltre.
57
Uno sguardo alla pratica 3.1
Un’équipe di cinque persone riusciva a gestire abbastanza bene, senza
particolari difficoltà, il carico di lavoro che le era stato assegnato. Un gior-
no, però, Pietro — uno di loro — si sentì intimare, con tono estremamente
aggressivo, di «mettersi a fare la sua parte». Il dirigente seppe dell’incidente,
ma non lo prese sul serio; si limitò a definirlo «una storia come tante». Da
parte sua, Pietro si sentiva male, poco aiutato e ancor meno considerato.
Pochi giorni più tardi, un certificato medico comunicava che Pietro doveva
prendersi due settimane di assenza per malattia, a causa di un «esaurimento
nervoso». Nelle due settimane successive, gli altri componenti dell’équipe si
trovarono con un carico di lavoro aggiuntivo del 25%, che riuscirono — sia
pure con difficoltà — a smaltire. Terminato quel periodo, però, arrivò un
nuovo certificato: l’assenza di Pietro si sarebbe prolungata per altre quattro
settimane. I suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi e a domandarsi se
Pietro sarebbe mai ritornato. Per Patrizia, che stava attraversando un pe-
riodo difficile con il marito, questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Lo stress, per lei, era troppo. Si prese a sua volta un permesso per malattia,
cosa che costrinse i suoi colleghi a farsi carico, da soli, di un lavoro che era
aumentato addirittura del 40%. Per i tre operatori rimasti, la tensione si era
fatta fortissima. Erano giunti a domandarsi se avrebbero mai visto la luce,
alla fine di quel tunnel. La situazione era veramente snervante. Sarebbe
bastato un piccolo imprevisto a far saltare tutto per aria.
58
cui si dispone, è importante per gestire lo stress. Senza questo
quadro, si lavora alla cieca. Per quanto importante, però, questa
consapevolezza non è sufficiente: comprendere lo stress è sol-
tanto il primo passo dello stress management. Occorre anche
potenziare le proprie abilità e strategie di gestione dello stress,
come vedremo nel corso delle prossime pagine.
59
re per realizzarli ci aiuta a identificare la strada che stiamo
percorrendo. Ci aiuta a tenere lontano quel senso di disorien-
tamento che si accompagna, il più delle volte, all’esperienza
dello stress. Si tratta di una questione di grande importanza,
su cui ritorneremo nei capitoli ventunesimo e ventiduesimo.
3. Cambiare atteggiamenti. Cambiare il proprio atteggiamento
nei confronti di qualche cosa può cambiare il modo in cui
quel «qualche cosa» ci condiziona. Se l’obiettivo che ci sia-
mo dati è diventare i più grandi lavoratori del mondo, ad
esempio, ben presto ci troveremo sopraffatti dalla tensione!
Per metterci al riparo da uno stress inutile, in casi come que-
sto, occorre cambiare il nostro atteggiamento. Una buona
soluzione può essere accontentarsi, almeno all’inizio, di un
obiettivo più modesto. Puntare all’eccellenza può rivelarsi
una fonte di stimoli e di motivazione (e quindi di tensione
positiva); ma puntare a essere i migliori può far sì che la ten-
sione sconfini nello stress. Se è vero che lo stress è la reazione
a un livello di tensione inappropriato, cambiare il proprio
modo di reagire alle circostanze esterne può costruire una
soluzione efficace per gestire meglio la tensione. Per dirla
con il linguaggio degli specialisti, si tratta di mettere in atto
una «ristrutturazione cognitiva».
4. Essere assertivi. La questione dell’assertività sarà oggetto del
capitolo quinto, sicché non ci dilungheremo, in questa sede,
sull’argomento. Va comunque ricordato che l’essere assertivi
— trovare, cioè, un ragionevole punto di equilibrio tra gli
estremi della sottomissione e dell’aggressività — è un aspetto
importante dello stress management. L’assertività ci aiuta a
impedire agli altri di disporre di noi a loro piacimento, ma
serve anche a prevenire i conflitti; o, quantomeno, a ridurne gli
effetti negativi, come vedremo nel corso del capitolo quinto.
5. Mantenere il controllo. Questo principio non si riduce al
classico messaggio del «non farsi prendere dal panico», che
60
pure è importante. La verità è che, quando siamo sottoposti
a una forte tensione, è facile che perdiamo la padronanza
di noi stessi e delle cose che facciamo. Da una ricerca di
qualche anno fa sui casi di abuso minorile (DoH, 1991),
ad esempio, emergeva che gli assistenti sociali dei servizi di
tutela minorile tendevano a fare molti errori a causa della
tensione a cui erano sottoposti. Era come se le loro capacità
di giudizio si offuscassero, con tutte le conseguenze negative
che ne derivavano. Un buon consiglio, in casi come questi, è
quello di stare calmi e di tenere in mano la situazione. Questo
non vuol dire, peraltro, assumere atteggiamenti autoritari o
impositivi; si tratta soltanto di non lasciarsi sfuggire quello
che sta succedendo attorno a noi, non permettere a noi
stessi di diventare degli osservatori impotenti, vittime delle
circostanze. Molte cose, comunque, vanno ben al di là delle
nostre capacità di controllo; non possiamo che prenderne
serenamente atto (Thompson, 2012a). D’altra parte, occorre
guardarsi dal rischio del disfattismo, tipico di chi sottovaluta
la propria capacità di controllare il corso degli eventi (come
nell’esempio sul time management, presentato nel capitolo
secondo).
6. Tracciare dei confini. Gli equivoci e le ambiguità ci accom-
pagnano nella vita di tutti i giorni, ma quando siamo sotto
pressione possono assumere dimensioni incontrollabili. È
per questo che è importante acquisire una buona capacità
di «tracciare confini». Sono confini che hanno a che vede-
re, prima di tutto, con le responsabilità: occorre avere ben
chiaro ciò di cui siamo e ciò di cui non siamo responsabili.
Ci sono due ottime ragioni per farlo: primo, se abbiamo la
responsabilità di qualche cosa e non ne siamo ben consape-
voli, rischiamo di trovarci seriamente in difficoltà, qualora
le cose si mettano male; secondo, se ci assumiamo l’onere
di impegni che esulano dalle nostre responsabilità (perché
61
di competenza di altri), ci ritroveremo con un «carico» del
tutto gratuito ed evitabile; o, per dirla diversamente, con
un ulteriore fattore di stress. È importante, quindi, saper
riconoscere i confini delle responsabilità nostre e altrui
(Thompson, 2015a).
7. Gestire bene il tempo. Ritorniamo su questo aspetto, trattato
nel capitolo precedente, perché il time management è un
tassello importante per qualsiasi professionista che lavora
con le persone. Come si è visto, occorre gestire non solo il
tempo, ma anche le energie di cui disponiamo; mantenere
livelli di motivazione e di impegno adeguati è essenziale per
affrontare attivamente la tensione, anziché farsene travol-
gere. Gestire bene il tempo di cui si dispone serve anche a
mantenere un buon controllo su di sé e sulla situazione (si
veda il punto 5) e quindi di tenere a bada lo stress. Se invece
perdiamo tempo e non manteniamo un livello di impegno
costante, difficilmente riusciremo ad affrontare le difficoltà
tipiche del lavoro con le persone.
8. Farsi aiutare dagli altri. C’è chi, stoicamente, vorrebbe
sempre affrontare da solo qualsiasi situazione difficile,
senza farsi aiutare da nessuno. È come se chiedere aiuto
fosse un segno di debolezza, qualche cosa da evitare a tutti
i costi. Una strategia di questo tipo è carica di insidie,
perché ci colloca ai margini di quella rete di sostegno e di
aiuto reciproco che, in certi casi, può fare la differenza.
Per evitare questo rischio, l’atteggiamento di chi si crede
«duro e puro», autonomo dagli altri in tutto e per tutto,
andrà senz’altro respinto (Cranwell-Ward e Abbey, 2005).
Un passo importante che va fatto, in questa direzione, è
riconoscere che chiedere aiuto è un segnale di forza, non
di debolezza; un segnale della nostra capacità di gestire lo
stress in modo realistico, nella consapevolezza dei nostri
limiti.
62
Uno sguardo alla pratica 3.2
Sandra sapeva che il suo nuovo impiego sarebbe stato impegnativo, ma
non pensava così tanto. Si sentiva sommersa dal lavoro, senza nessuno
che le desse una mano. All’inizio, decise che in fondo andava bene così:
se la sarebbe cavata da sola, impegnandosi più che poteva. Bastava che
lasciasse da parte i suoi problemi personali, per concentrarsi il più possibile,
anima e corpo, sul lavoro. Un giorno, però, commise un errore che avrebbe
potuto avere conseguenze gravi. Cominciò a rendersi conto che non serviva
a nulla fare finta che i problemi non ci fossero. Decise di parlare con i colle-
ghi di tutte queste sue difficoltà. Di fronte alle risposte che ricevette, cariche
di comprensione nei suoi confronti, rimase veramente stupita. I colleghi si
dissero senz’altro disponibili a venirle incontro e a darle una mano. Uno
di loro, in particolare, fece un’osservazione che aiutò Sandra a capire che
aveva sbagliato a non chiedere aiuto sin dall’inizio: «Avevamo l’impressione
che tu fossi una di quelle persone che vogliono fare sempre tutto da sole, e
detestano il lavoro di équipe».
63
obiettivi irrealistici (vedi al punto 3), svalutiamo quel che
sappiamo fare, ci rendiamo la vita — in un modo o nell’al-
tro — ben più difficile del necessario. E quanto più stress
incontriamo, tanto più tendiamo ad assumere un atteggia-
mento di questo tipo. Di conseguenza, una buona gestione
dello stress ci richiede anche di prenderci cura di noi stessi; di
non trascurare le nostre capacità, come pure i nostri limiti; di
non pretendere troppo da noi stessi, e di non giudicarci con
severità eccessiva. È importante essere consapevoli di questo
rischio, in modo da cogliere i momenti in cui si verifica; po-
tremo così rivolgerci a una persona di cui abbiamo fiducia,
che ci aiuterà a guardare le cose nella giusta prospettiva.
Conclusione
64
Ma conviene ricordare anche che molte delle altre capacità
di cui parliamo in questo libro hanno a che vedere con una
buona gestione dello stress. Lo stress management, in altri
termini, dipende dal potenziamento di abilità correlate come
time management, assertività, efficacia comunicativa, capacità
di essere sistematici e di concludere. Si tratta, in definitiva,
di saper combinare gli «ingredienti» di abilità diverse, che si
intrecciano e si sostengono a vicenda.
ESERCIZIO 3
Stress, fronteggiamento e sostegno
Per questo esercizio, prendi un foglio di carta e dividilo in tre colonne.
In cima a ogni colonna scrivi: «Fattori di stress»; «Metodi di coping»;
«Fonti di aiuto». Sotto ogni etichetta elenca tutti gli esempi che ti
vengono in mente. Cioè, sotto «Fattori di stress» scrivi tutte le possibili
fonti di stress; sotto «Metodi di coping» elenca i diversi modi con cui
puoi fronteggiare lo stress; sotto «Fonti di aiuto» scrivi le fonti di aiuto
su cui puoi fare leva.
Un esercizio di questo tipo può aiutarti a definire una panoramica dei
problemi legati allo stress che ti trovi a dover affrontare, e può perciò
aiutarti a elaborare un piano per affrontarli. Ad esempio, può aiutarti a
capire che devi rafforzare la tua rete di aiuti; oppure, se ti rendi conto
di avere già un buon sostegno, può aiutarti ad acquisire fiducia. Non
è un esame: se hai finito le idee, sentiti libero di chiedere un parere a
colleghi e ad amici.
65
Capitolo quindicesimo
I colloqui
Introduzione
227
Prima del colloquio
Il tempo e il luogo
La scelta del momento giusto per fare un colloquio può
rivelarsi fondamentale. In molti casi, per la verità, la tempistica
di un colloquio non è poi così importante. In altri casi, però,
la programmazione dei tempi può essere davvero cruciale. Nel
caso di un colloquio con un minore, ad esempio, è meglio non
fissare l’appuntamento all’ora del suo ritorno a casa, da scuola.
Può darsi che il ragazzo abbia bisogno di riposare un po’ o non
abbia ancora avuto il tempo di risistemarsi.
Il fattore tempo può essere importante anche rispetto alla
durata del colloquio. Sia i colloqui brevi e affrettati, sia quelli
eccessivamente lunghi possono rivelarsi inefficaci o addirittura
controproducenti.
Anche l’ambiente, come abbiamo già visto, rappresenta
un aspetto importante per qualsiasi forma di comunicazione.
Il luogo in cui si svolge il colloquio, pertanto, può essere un
elemento determinante. Quale sia il posto migliore, peraltro,
dipende molto da un caso all’altro; l’importante è verificare
sempre, di volta in volta, che l’ambiente in cui ci si trova sia
realmente appropriato, specie nel caso di colloqui su argomenti
delicati, o potenzialmente problematici.
Lo scopo
Un colloquio è, per definizione, una discussione con uno
scopo preciso. È utile tenere sempre ben presente questo aspetto,
228
in fase di preparazione. La chiarezza rispetto agli scopi aiuta a
evitare divagazioni inutili e facilita i progressi nella direzione
dei risultati auspicati.
Esplicitare gli obiettivi aiuta anche i nostri interlocutori
a sentirsi maggiormente a proprio agio rispetto a quanto sta
avvenendo e meno sospettosi o diffidenti nei confronti dell’o-
peratore e delle sue motivazioni.
La sensibilità linguistica
In certi casi, inoltre, può essere necessario fare ricorso a
interpreti. Laddove emerga un’esigenza di questo tipo, occorre
considerare la situazione con attenzione. È meglio non ricorrere
a un familiare, ad esempio, in un caso caratterizzato da tensioni
all’interno del nucleo familiare; il rischio, in caso contrario, è di
ottenere una rappresentazione deformata (in modo volontario
o involontario) di quanto viene detto. Non è nemmeno il caso
di ricorrere a minori, se non si vuole correre il rischio di esporli
a informazioni inappropriate per loro.
229
desimo tempo. In questi casi, è importante stabilire chi debba
essere coinvolto e chi no. Ancora una volta, non esiste nessuna
regola «pronta per l’uso», che valga sempre. Se non si affronta
la questione, d’altra parte, il rischio è che il colloquio si riveli
inefficace, o che non faccia altro che peggiorare le cose. Può
essere utile fare riferimento alle finalità del colloquio, per de-
cidere, di volta in volta, chi sia opportuno partecipi.
I piani di emergenza
Sarebbe irrealistico predisporre un «piano d’emergenza»
per ogni singolo colloquio, ma è buona norma farlo almeno in
alcune situazioni. Per i colloqui più importanti, ad esempio,
sarebbe un peccato non disporre di una strategia alternativa, nel
caso risulti inefficace l’approccio che si aveva in mente. È quello
che avviene, ad esempio, quando si presentano dei problemi
imprevisti, o delle situazioni di potenziale emergenza.
Le abilità essenziali
L’ascolto
Sull’importanza dell’ascolto attivo ci siamo già soffermati
nel capitolo dodicesimo. Il contesto del colloquio è senz’altro
uno di quelli in cui questa abilità si fa apprezzare di più. È im-
probabile, infatti, che un colloquio risulti efficace se non si è in
grado di ascoltare attentamente le persone che si hanno di fronte.
«Saper ascoltare» significa anche saper riconoscere i vissuti
emotivi in gioco. Se una persona prova una rabbia intensa, ad
230
esempio, è improbabile che riesca a fare grandi progressi, sino
a che non avrà riconosciuto, o comunque affrontato, la propria
emozione negativa. Altrettanto importante, per un buon anda-
mento del colloquio, è la capacità di decifrare la comunicazione
non verbale, ossia di saper interpretare quello che ci dice l’altra
persona con il linguaggio corporeo.
L’assertività
Se vogliamo che il colloquio sia orientato a un obiettivo
preciso, e che non lo perda di vista, non possiamo fare a meno
di essere, in una certa misura, «direttivi». Questo non significa
che dobbiamo impartire degli ordini ai nostri interlocutori. Vuol
dire però che dobbiamo sempre mantenere un certo margine
di controllo rispetto all’andamento del colloquio.
Dobbiamo essere, in altre parole, assertivi, per usare un’e-
spressione ampiamente trattata nel capitolo quinto. Dobbiamo
riuscire a realizzare una situazione in cui non c’è nessuno che
perde, perché tutti hanno qualcosa da guadagnare. Si tratta di as-
sumere un atteggiamento che non sia né arrogante nei confronti
degli utenti, né remissivo, al punto da perdere di vista i motivi
del colloquio, o gli obiettivi che perseguiamo per suo tramite.
Saper «condurre», pertanto, è un’abilità sottile. Occorre
tenere sempre le redini del colloquio, senza risultare intrusivi, né
prepotenti. Dobbiamo saper rispondere ai desideri, alle esigenze
e ai sentimenti delle persone; senza dimenticare, però, che quel
colloquio si inserisce in genere in un processo più ampio, di
cui deve rispettare le finalità.
La partnership
Per riuscire a lavorare efficacemente con le persone, dob-
biamo costruire un rapporto di partnership con loro. Un cam-
231
biamento imposto in modo unilaterale, infatti, ha ben poche
probabilità di durare a lungo, rispetto a un cambiamento con-
diviso, e anzi «fatto proprio», dai diretti interessati. L’approccio
cooperativo, in altre parole, è il più efficace, anche se dipende
dalla nostra capacità di conquistarci la fiducia della gente e di
continuare a meritarcela.
Lavorare in questo modo richiede delle abilità che non
vanno sottovalutate. Benché si tratti di abilità che si svilup-
pano più che altro con l’esperienza, si possono fornire alcune
indicazioni di tipo operativo:
–– Non bisogna mai «monopolizzare» la conversazione, che
dovrebbe essere sempre un processo bilaterale.
–– Occorre evitare di far dire agli altri delle cose che non han-
no detto. Nel dubbio, è meglio fare loro una domanda, per
sincerarsi di aver capito bene.
–– Bisogna aiutare le persone a sentirsi sempre a proprio agio, in
modo che siano nelle condizioni di parlare liberamente di sé.
–– Dovremmo chiarire fin dall’inizio che ci teniamo molto a
cooperare con la persona che abbiamo davanti e che il collo-
quio non sarà mai «a senso unico».
Quello di partnership è un concetto molto importante, e
sarà al centro di alcune osservazioni che svolgeremo nella terza
parte del libro.
L’empowerment
C’è anche un altro concetto — già toccato nei capitoli
precedenti — di cui chi è impegnato a tu per tu in un collo-
quio con un’altra persona dovrebbe sempre tenere conto. È il
concetto di empowerment, ovvero quella serie di modalità che
mettono le persone nelle condizioni di recuperare un certo
controllo della propria vita. Attraverso l’empowerment pos-
232
siamo diventare meglio «equipaggiati» per affrontare i nostri
problemi e realizzare gli obiettivi che ci stanno a cuore. Anche
i colloqui, se ben condotti, possono contribuire a questo pro-
cesso, rispetto al quale peraltro un colloquio mal gestito può
provocare danni considerevoli. Nel bene e nel male, la capacità
di conduzione del colloquio da parte nostra può influire non
poco sull’empowerment di chi ci sta di fronte.
Al fine di promuovere l’empowerment, è importante
cercare sempre di:
–– non pregiudicare, e anzi — laddove possibile — rafforzare
l’autostima degli utenti;
–– individuare i fattori che ne ostacolano i progressi, e intra-
prendere azioni dirette a superarli;
–– riconoscere l’esistenza di forme di discriminazione e di
oppressione, che rientrano nell’esperienza di vita di tutti
noi, specie nel campo delle dinamiche interpersonali (vedi i
capitoli undicesimo e ventunesimo).
I colloqui orientati all’empowerment, dunque, sono quelli
che contribuiscono a valorizzare le risorse degli utenti e a su-
perarne le debolezze; o, meglio ancora, a trasformare queste
ultime in nuove risorse.
233
L’uso della propria soggettività
I colloqui non si riducono mai al semplice esercizio di una
tecnica. Al contrario, sono sensibilmente condizionati dalla
personalità, dall’esperienza, dalle competenze di chi li conduce.
Dipendono molto, cioè, da quanto — e da come — l’operatore
investe della propria dimensione soggettiva. Potremmo scegliere,
tra le altre cose, di fare degli esempi che nascono dalla nostra
esperienza personale, per aiutare gli altri a comprendere una
particolare situazione, o per indicare loro degli scenari alter-
nativi. Questa operazione, però, presta sempre il fianco a due
rischi che andrebbero assolutamente evitati:
1. Il tentativo di imporre le proprie idee, o i propri valori, alla
situazione vissuta dall’altra persona, senza tenere conto delle
differenze tra le rispettive esperienze di vita;
2. Il tentativo di ridimensionare i problemi degli altri, una volta
messi a confronto con i nostri. Così facendo, rischiamo di
trasmettere il messaggio che non prendiamo quella situazione
sul serio, o che la banalizziamo.
Ciascuno di noi ha degli aspetti della propria personalità, o
della propria esperienza di vita, che possono tornare utili agli altri.
Riconoscere questo dato di fatto può servire a darci la fiducia in
noi stessi che è indispensabile per fare buon uso di questi aspetti.
234
improvviso; che è compito nostro dire qualcosa — al limite
qualsiasi cosa — per interrompere quel fastidioso silenzio.
Nonostante la tensione che proviamo, però, è fondamentale
che sappiamo resistere alla tentazione di «riempire il silenzio».
Dovremmo imparare a sopportare anche i momenti di silenzio,
per più di una buona ragione:
–– come segno di rispetto per la persona, e di sensibilità nei
confronti dei suoi vissuti emotivi;
–– perché, in caso contrario, rischiamo di compromettere la
relazione di fiducia con il nostro interlocutore, che tenderà
ad allontanarsi da noi;
–– perché, infine, la capacità di sopportare i momenti di silenzio
è percepita dalla persona come un segnale di sostegno nei
suoi confronti.
Per quanto sia difficile da tradurre in realtà, la capacità di
reggere i momenti di silenzio e di usarli a beneficio di chi ab-
biamo di fronte è una competenza preziosa, che vale senz’altro
la pena sviluppare.
Mantenere i confini
Le interazioni interpersonali possono avvenire su vari
livelli e in «sfere di vita» diverse. Ci sono sempre, a seconda
delle circostanze, delle regole sociali che definiscono i compor-
tamenti più appropriati a ogni situazione. Esiste però il rischio
che il colloquio, se non viene condotto con attenzione, possa
trasgredire queste regole. È una «trasgressione» che può assumere
tante forme diverse, tra le quali:
–– La violazione della riservatezza, che rappresenta — come si
è visto nel capitolo precedente — una questione di grande
importanza. È necessario riconoscere, però, i «confini» entro
i quali essa può essere effettivamente rispettata.
235
–– Un aspetto importante del lavoro con le persone è dato dalla
qualità dei rapporti con i nostri interlocutori. Un «buon rap-
porto», però, è cosa diversa dall’amicizia, la quale può anche
pregiudicare, a volte, il buon esito di un intervento professio-
nale. È importante, quindi, non perdere di vista la distinzione
tra semplici rapporti interpersonali e rapporti professionali.
–– Gli operatori si inscrivono, generalmente, in una rete più
ampia, che comprende altre figure professionali e/o volontari.
C’è sempre il rischio latente che, nell’ansia di renderci utili a
tutti i costi, ci facciamo carico di mansioni che spetterebbero
ad altri. Il che può avere effetti negativi, sotto quattro punti
di vista:
1. È probabile che l’operatore a cui «togliamo il lavoro» sia
più esperto di noi nello specifico compito di cui si occupa.
2. Queste «invasioni di campo» possono generare risentimenti
e ostacolare lo sviluppo delle partnership.
3. Dedicare del tempo al lavoro altrui sottrae del tempo, ine-
vitabilmente, alle attività di nostra specifica competenza.
4. Se svolgiamo mansioni che non siamo ufficialmente tenuti
a svolgere, non è detto che il nostro datore di lavoro o
la nostra assicurazione ci possano coprire nel caso in cui
qualcosa andasse storto.
236
proprio ruolo. È anche importante, in questa fase, esplicitare
le finalità e l’oggetto specifico del colloquio. Se questi aspetti
non vengono chiariti fin dall’inizio, si rischia che l’intero
svolgimento del colloquio ne risulti condizionato e che si
crei un clima di diffidenza tra le parti coinvolte.
2. La parte centrale. La fase intermedia è quella in cui si deve
svolgere gran parte del colloquio. Nel corso di questa fase
si scambiano le informazioni rilevanti e si sviluppa l’attività
di problem solving. È questo lo snodo in cui si assumono
decisioni, si prendono accordi, si affrontano i conflitti e si
realizzano — o si interrompono — eventuali progressi.
3. La conclusione. Trarre le fila di un colloquio, quando ormai
ci si avvicina alla conclusione, è un compito che richiede
competenze elevate: si tratta di fare sintesi dei contenuti
trattati, di stabilire che cosa potrebbe accadere nel futuro
immediato (ad esempio la data e l’orario di un nuovo collo-
quio), di verificare che la persona abbia compreso bene gli
accordi presi, e via discorrendo. In questa fase può anche
essere utile qualche frase con tono informale, da chiacchie-
rata, per chiudere l’interazione.
Organizzare i colloqui in questo modo ci aiuta a non
perdere di vista gli obiettivi perseguiti e contribuisce a dare
professionalità al nostro operato. È importante, però, non
confondere l’idea di «struttura» con quella di «rigidità». I due
concetti, infatti, non coincidono. Occorre sempre un certo
grado di flessibilità. Su come costruire un buon equilibrio, via
via, tra struttura e flessibilità, si ritornerà nel corso del capitolo
ventiduesimo.
Riassunti e feedback
Come ho già ricordato, saper fare un buon riassunto è un
aspetto importante nella conclusione di un colloquio. Questa
237
stessa capacità, però, può rivelarsi utile anche nelle fasi prece-
denti. Saper riassumere alla persona con cui si parla gli aspetti
essenziali di quello che si è detto può risultare utile per molti
motivi:
–– per confermare all’altra persona che la stiamo ascoltando;
–– per far emergere le eventuali incomprensioni, o i frainten-
dimenti che potrebbero essersi realizzati precedentemente;
–– per chiarire meglio i punti d’accordo e di disaccordo;
–– per riepilogare l’andamento del colloquio nel suo insieme,
evidenziando i vari fili tematici che si sono intrecciati in esso;
–– per lasciare all’altra persona un po’ di tempo e di spazio per
riflettere, o per rielaborare quanto le è stato detto;
–– per incoraggiare la collaborazione, esplicitando un punto di
vista condiviso dall’altra persona;
–– per contribuire a fare sì che il colloquio non «esca dal semi-
nato», sino ad andare completamente fuori tema.
Le dinamiche collusive
Berne (1968) ha descritto tutta una serie di «giochi» che
si possono innescare nelle relazioni interpersonali. Tali dina-
238
miche possono impedire uno svolgimento sereno e costruttivo
del colloquio. In altri termini, possono ostacolare il normale
svolgimento dei processi di comunicazione.
Non di rado, queste dinamiche fanno leva su un elemento
«collusivo». È quello che avviene, ad esempio, quando si crea
un tacito accordo tra le parti, del tipo: «Io non ho intenzione di
provocarti, se tu non mi provochi». Accordi di questo genere,
quasi mai esplicitati ma per nulla infrequenti, si traducono
in una complessa «ragnatela» di sottili accorgimenti, basati
sulla complicità di entrambi gli interlocutori. Quando questo
avviene, le possibilità di realizzare un buon colloquio — in
termini di collaborazione e di empowerment — si riducono
notevolmente.
Dinamiche
collusive
Incapacità
di cogliere le
Chiacchiere
implicazioni della
a vuoto
struttura
sociale
ERRORI
DA EVITARE
False Gergo
rassicurazioni specialistico
Promesse
239
L’incapacità di cogliere i risvolti della struttura sociale
Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza a non
notare, o a evitare deliberatamente, tutte le questioni legate
allo «status quo» della struttura sociale. Si parla ad esempio,
nel mondo anglosassone, di colour blindness — cioè di «cecità
al colore» (della pelle) — per indicare l’incapacità di tenere
conto delle differenze culturali e degli effetti del razzismo. Si
parla altresì di gender blindness, o di «cecità di genere», quando
si vuole alludere a una visione del mondo unilaterale, che pone
gli uomini e il genere maschile come «unità di riferimento» della
normalità, senza rivolgere attenzione ai problemi, o ai punti di
vista, delle donne.
Quanti lavorano con le persone dovrebbero sempre fare
attenzione a tutti i fattori strutturali che possono alimentare
processi di discriminazione e di oppressione: appartenenza
etnica, genere, età, disabilità, e così via. Anche in sede di collo-
quio, se non si tiene adeguatamente conto di questo, si rischia
di perpetuare le forme di disuguaglianza preesistenti.
Il gergo specialistico
Si è già detto più volte dell’esigenza di esprimersi sempre in
modo chiaro. Un aspetto che va ancora messo in risalto, però, è
rappresentato dai problemi che possono derivare dall’impiego
di espressioni gergali nel corso di un colloquio. Le espressioni
gergali possono senz’altro essere utili per indicare distinzioni e
sfumature di tipo tecnico, che sarebbero difficili da formulare
con il linguaggio colloquiale. Usate in modo inappropriato,
però, tali espressioni possono ostacolare non poco la comuni-
cazione tra le parti.
Occorre inoltre riconoscere che non sempre, quando fac-
ciamo uso di espressioni gergali, ce ne rendiamo conto. Bastano
una parola che a noi sembra semplice, o una sigla non spiegata,
240
per generare confusione e diffidenza nei nostri interlocutori,
se non facciamo attenzione alla differenza tra il linguaggio
specialistico e quello della vita di tutti i giorni.
Le promesse
È facile cadere nella tentazione di fare delle promesse, nel
corso di un colloquio. È una tentazione, però, a cui occorre
assolutamente resistere. Raramente, infatti, si può avere la cer-
tezza di mantenerle; d’altro canto, una promessa insoddisfatta
può mettere gravemente a rischio la fiducia nei confronti di
chi l’aveva fatta.
Anche le promesse più semplici non sempre possono
essere mantenute, sia pure per i motivi più banali, come, ad
esempio, una malattia o cause di forza maggiore. Oltretutto,
molti si trovano a lavorare in un contesto di aspettative sempre
più elevate e difficili da soddisfare; è senz’altro possibile che
certe promesse, per quanto formulate in buona fede, debba-
no poi cedere il passo a priorità di altra natura. La massima
«non fare delle promesse che non potrai mantenere» è sempre
d’attualità; e nel campo dell’insegnamento, del lavoro sociale,
dell’assistenza sanitaria, le promesse che possiamo avere la cer-
tezza di mantenere sono davvero assai poche. Di qui l’esigenza
di usare grande cautela.
Le false rassicurazioni
Questo aspetto è una diretta conseguenza di quello che
abbiamo appena trattato. È pericoloso dare alle persone del-
le false rassicurazioni, se non vogliamo correre il rischio di
comprometterne la fiducia e il rispetto nei nostri confronti.
Di fronte a una persona in difficoltà, è facile cadere nella
tentazione di uscirsene con una frase del tipo: «Vedrai, tutto
andrà bene». Occorre che riflettiamo, però, su quello che po-
241
trebbe accadere qualora le cose non andassero tanto «bene».
In un momento di crisi, è comprensibile che una persona
faccia profondo affidamento sulle cose che le diciamo. È
importante, quindi, evitare di darle rassicurazioni infondate.
Si tratta, semmai, di rassicurarla entro i limiti di ciò che è
realistico (cosa che è perfettamente possibile), evitando di
raccontarle falsità.
Le chiacchiere a vuoto
Del fatto che occorre essere chiari e precisi nel definire
lo scopo del colloquio abbiamo già detto più volte in queste
pagine. Non andrebbe mai sottovalutato, pertanto, il rischio di
scivolare da un colloquio a un insieme di chiacchiere senza capo
né coda. Questo non significa che non ci sia alcuno spazio, in un
buon colloquio, per convenevoli o per chiacchierate informali.
Significa piuttosto che questi elementi dovrebbero rimanere
marginali, rispetto ai contenuti che andranno affrontati nel
corso del colloquio.
242
Conclusione
ESERCIZIO 15
Pianificare un colloquio
Quello che ti chiedo è di preparare il piano dettagliato di un colloquio,
reale (che intendi effettivamente condurre) o immaginario (che serve
soltanto per fare esercizio). Puoi fare riferimento al paragrafo Prima
del colloquio di questo capitolo. Usa lo spazio sottostante per prendere
appunti.
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
243