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Tutela dei minori


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VOL 1 Far emergere il meglio dalle relazioni
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Manuale di autoformazione al colloquio Le abilità di counseling nella vita
di aiuto quotidiana

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Argomenti trattati
• Abilità di counseling e colloquio di aiuto

• I colloqui

• Esercizi sul colloquio

• Il dialogo

• Gestire bene il tempo e lo stress sul lavoro


“Riflessioni per gli educatori"
Il libro, primo di due volumi, è uno strumento agile,

Raineri (a cura di)


ma insieme rigoroso e approfondito, finalizzato alla
preparazione degli esami di Stato per l’iscrizione
I temi affrontati:
UO VA E a cura di
alla sezione B dell’Ordine professionale degli • Il ruolo professionale dell’assistente N ION
Z
EDI
assistenti sociali. sociale
In particolare, questo volume riguarda le tematiche • L’etica professionale: valori e MARIA LUISA RAINERI
di metodologia professionale e di politica sociale principi dell’assistente sociale

ASSISTENTE
oggetto delle due prove scritte e della prova orale.
È organizzato in una serie di argomenti chiave, per • Il lavoro sul caso

PREPARAZIONE ALL’ESAME
LETTURE SCELTE PER LA
ciascuno dei quali vengono proposti: • Il colloquio di aiuto e la visita

SOCIALE
− un quadro introduttivo, che ordina e sintetizza domiciliare
i concetti fondamentali legati al tema del capi- • Il lavoro con i gruppi e la comunità

DI STATO – SEZ. B
tolo;
• Le reti, il lavoro di rete e il lavoro
− una selezione antologica di testi di approfon-
interprofessionale
dimento, scritti da importanti studiosi italiani e
internazionali; • Le politiche di welfare

DOMANI
− un percorso di sintesi sotto forma di mappe • Approfondimenti su alcune
concettuali; specifiche aree di disagio
− una serie di domande per lo studio e il ripasso,
• Principali norme di legge

ASSISTENTE SOCIALE DOMANI


con le relative risposte.
Completa il volume un elenco aggiornato delle
principali norme di legge suddivise per argomento.
L’opera è specificamente destinata a laureati in
servizio sociale che si preparano a sostenere
l’esame di Stato, ma risulta senz’altro utile anche VOLUME 1
agli studenti, sia per l’approfondimento teorico,
sia come fonte di indicazioni operative spendibili
nel tirocinio professionale.
La curatrice LETTURE SCELTE
Maria Luisa Raineri
PER LA PREPARAZIONE ALL’ESAME DI STATO – SEZ. B
Assistente sociale, è ricercatrice e docente
di Metodologia del servizio sociale presso
il corso di laurea in «Scienze del servizio
sociale» e il corso di laurea magistrale in
«Politiche sociali e servizi per i minori, le famiglie e le
comunità» dell’Università Cattolica di Milano e di Brescia.
Coordinatrice scientifica della rivista «Lavoro Sociale»,
le sue principali pubblicazioni sono Il metodo di rete in
pratica: Studi di caso nel servizio sociale (Erickson, 2004),
Linee guida e procedure di servizio sociale (Erickson,
2014), Tirocini e stage di servizio sociale (Erickson, 2015).

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218 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

SCHEDA 4.1 – Gli atteggiamenti nel colloquio di aiuto*

Mucchielli ha identificato sei atteggiamenti spontanei che si possono assumere quando si


vuole aiutare una persona e ha analizzato i loro effetti sul colloquio.
Cinque di questi atteggiamenti rischiano di ostacolare il colloquio, perché possono bloc-
care la persona nell’esprimere ciò che pensa e come si sente. Il sesto, l’atteggiamento di
comprensione, è quello che meglio comunica il desiderio di capire davvero la persona e di
accompagnarla a esplorare la sua situazione.
Gli atteggiamenti si esprimono attraverso le parole, ma in un colloquio sono molto impor-
tanti anche l’ambiente in cui ci si trova e i messaggi non verbali: sono tutti elementi che
contribuiscono a facilitare oppure ostacolare il tuo interlocutore.

Gli atteggiamenti ostacolanti


Gli atteggiamenti ostacolanti, che non facilitano il colloquio, sono: valutazione, interpreta-
zione, sostegno, indagine, soluzione.
Questi cinque atteggiamenti nascondono tutti due difetti principali:
– possono limitare o mettere in difficoltà la persona nell’esplorare la sua situazione o il suo
problema;
– sono centrati sul counselor: l’attenzione è rivolta a ciò che pensa il counselor; ciò che dice
il counselor viene messo in primo piano e ciò che la persona sta esprimendo passa in
secondo piano. Così, diventa difficile comprendere a fondo quello che la persona esprime.

Atteggiamento di valutazione
Consiste nel fare riferimento a norme o a valori, indicando ciò che è bene o male. Chi as-
sume un atteggiamento di valutazione «offre» un consiglio morale (o moralistico): mette in
guardia, approva, disapprova, invita a pensare in una certa maniera, allude ai criteri che si
devono ritenere validi, secondo lui.

Potenziali effetti dannosi


L’interlocutore può sentirsi in una posizione di ineguaglianza morale e quindi in uno stato
di inferiorità. Non si sente considerato abbastanza «morale» o razionale, o al contrario si
sente dire «bravo», ma in ogni caso si sente giudicato.
Tra le possibili reazioni innescate dall’atteggiamento valutativo troviamo, a seconda della
personalità dell’interlocutore: inibizione (freno, reticenza, blocco); colpa (sensazione di
essere in errore o colpevole); ribellione; dissimulazione; ansia.

Atteggiamento di interpretazione
Si manifesta in vari modi. A volte il counselor pone l’accento su uno tra gli elementi espressi
dall’interlocutore che lui giudica essenziale e quindi fa un riassunto parziale e orientato. Altre
volte il counselor deforma il significato di quello che è stato detto partendo da sue categorie
di interpretazione. Altre volte ancora il counselor dà una spiegazione della situazione che
la persona gli riporta, con un tono didascalico: è come se, ponendosi implicitamente in

* Tratto da Folgheraiter F., Pasini A. e Raineri M.L. (a cura di) (2006), Apprendere il counseling nel metodo
di Mucchielli, CD-ROM, Trento, Erickson.
IL COLLOQUIO DI AIUTO E LA VISITA DOMICILIARE 219

una posizione di superiorità, volesse spiegare alla persona che cosa le sta accadendo.
Possiamo anche trovare una varia mescolanza di questi modi di porsi.

Potenziali effetti dannosi


L’interlocutore può sentirsi frainteso e quindi costretto a rettificare. Se però l’atteggiamento
si ripete più volte, esso produce:
– il disinteresse dell’interlocutore nel proseguire l’esplorazione della sua situazione: cambierà
argomento o mostrerà un accordo solo di cortesia;
– una crescente irritazione;
– un blocco difensivo (resistenza).

Atteggiamento di sostegno
La risposta di sostegno è finalizzata a dare supporto, incoraggiamento, consolazione. A
volte fa riferimento a una comunanza di esperienze tra interlocutore e counselor («È capitato
anche a me…»).
Il pensiero e le emozioni della persona vengono considerate «naturali». Si cerca di rassicu-
rare la persona sdrammatizzando e minimizzando il problema. L’essenza della risposta di
sostegno è un atteggiamento paternalistico.

Potenziali effetti dannosi


L’interlocutore potrebbe, a lungo andare:
– sentirsi portato a mantenere una certa dipendenza dal counselor per non perdere la sua
vicinanza emotiva, accettando di essere guidato, di rimanere in attesa delle sue proposte
e dei suoi suggerimenti;
– restare passivo, per la sensazione di aver «sbagliato» a preoccuparsi della questione
(ansia, vergogna per effetto della minimizzazione);
– rifiutarsi di essere trattato con pietà paternalistica o arrabbiarsi perché questioni che per
lui sono importanti vengono considerate di poco conto.

Atteggiamento di indagine (o investigazione)


Consiste nel porre domande per ottenere dall’interlocutore indicazioni aggiuntive su aspetti
che il counselor ritiene importanti per comprendere la situazione. Il counselor non lascia
che sia la persona a esplorare la sua situazione e i suoi sentimenti, ma guida il colloquio in
una precisa direzione, scelta da lui.

Potenziali effetti dannosi


L’atteggiamento di indagine può provocare, a seconda della personalità dell’interlocutore:
– l’orientamento del colloquio nella direzione indicata dal counselor. La persona assumerà
l’atteggiamento di chi risponde a un interrogatorio e interromperà (o non svilupperà) la
sua riflessione interiore;
– una reazione ostile. La persona può percepire il counselor come qualcuno che vuole
metterla alle strette o può avere l’impressione che il counselor la giudichi negativamente
perché tiene nascosti certi dettagli;
– messa in allarme delle «difese sociali». La persona reagisce cercando di dare di sé la
migliore immagine possibile.
220 ASSISTENTE SOCIALE DOMANI – Volume 1

Atteggiamento di soluzione
Il counselor propone all’interlocutore una soluzione per uscire dalla situazione. Può con-
sigliare a chi altri rivolgersi, può suggerire quale è, secondo lui, l’obiettivo da perseguire e
come fare a realizzarlo, può fare una proposta pratica.

Potenziali effetti dannosi


Le possibili conseguenze di questo atteggiamento possono essere:
– l’interlocutore si sente sminuito per non aver pensato da sé alla soluzione e quindi è
portato ad accettarla, anche se non ne è convinto. È facile che questo lo porti a mettersi
in un atteggiamento passivo e a delegare completamente al counselor la responsabilità
di risolvere il problema;
– la persona non accetta la soluzione e quindi interrompe il contatto o con palese insod-
disfazione, o mostrando un accordo di cortesia in merito al consiglio ricevuto, che poi
però non terrà davvero in considerazione.

L’atteggiamento di comprensione
L’atteggiamento di comprensione si differenzia da tutti gli altri perché non è centrato sul
counselor, ma nasce dal tentativo di entrare nel problema così come è vissuto dalla persona.
Le risposte di comprensione possono essere di diverso tipo, ma mirano tutte a «ritornare»
alla persona che parla, in sintesi e con altre parole, l’essenza o parte di ciò che ha detto
esplicitamente o implicitamente, focalizzando i fatti o le emozioni o i vissuti personali. L’effetto
della risposta di comprensione è di accrescere la fiducia e la motivazione dell’interlocutore
a proseguire e approfondire la sua narrazione.
L’atteggiamento di comprensione può esprimersi a due livelli:
Comprensione 1: atteggiamento di ascolto comprensivo che cerca di riportare il più fedel-
mente possibile ciò che l’interlocutore ha detto esplicitamente.
Comprensione 2: atteggiamento di ascolto comprensivo che cerca di chiarire, senza defor-
mare, l’essenza di ciò che l’interlocutore vuole esprimere esplicitamente o implicitamente.

La tecnica della riformulazione


La tecnica principale per trasmettere l’atteggiamento di comprensione è la riformulazione,
che consiste nel «ritornare», in sintesi e con altre parole, alla persona che parla, l’essenza
o parte di ciò che ha espresso esplicitamente o implicitamente, focalizzando i fatti, le
emozioni, i vissuti personali.
In questo modo il counselor non introduce nulla di estraneo rispetto a quanto espresso
più o meno direttamente dall’interlocutore e quindi rimane centrato sull’altro, non su se
stesso; l’interlocutore sente di essere ascoltato e compreso ed è stimolato a esprimersi
ulteriormente; il counselor ha conferma se ha davvero compreso ciò che gli è stato espresso.
La riformulazione di solito è un’affermazione — non una domanda, tranne nel caso in cui
sia necessaria la conferma a una deduzione — introdotta da espressioni quali: «Lei mi sta
dicendo che…», «In altre parole…», «Quindi…».
La riformulazione può avere diversi «gradi»:
La riformulazione a specchio è un rimando puntuale di ciò che la persona ha effettivamente
comunicato, sia verbalmente sia attraverso il suo atteggiamento non verbale (ad esempio
Thompson
Neil Thompson Nuova
Neil Thompson Edizion
«Essere “creativi” significa uscire dai binari dei

Scrittore, educatore e consu-


Che si tratti di prendersi cura degli altri e dei loro problemi, di gestire e modi di lavorare abituali e convenzionali. Tra i

LAVORARE
collaboratori o di lavorare in team, tutto dipende dalla propria abilità maggiori ostacoli allo sviluppo della creatività
lente indipendente, vanta una
di rapportarsi efficacemente con gli altri. Occorre quindi sviluppare vi è l’atteggiamento di chi dice: “Non ci riesco.
pluridecennale esperienza di
una più matura consapevolezza delle dinamiche che intervengono Non sono assolutamente una persona creativa!”.
lavoro nell’ambito dei servizi
È questo un tipico atteggiamento disfattista,

CON LE PERSONE
alla persona. Nella sua carrie- quando si lavora con le persone e arricchire il proprio bagaglio di
ra è stato docente in quattro competenze nelle relazioni interpersonali. proprio di chi confonde abilità che si possono
università inglesi e ha pubbli- Nel volume viene spiegato come potenziare la propria efficacia imparare e qualità personali intrinseche. Il
cato oltre 200 lavori, tra cui alcuni manuali di grande personale, gestendo al meglio il tempo lavorativo, valorizzando tema della creatività è uno di quelli su cui c’è
successo. Tra la sua produzione si contano anche doti personali e creatività e contrastando lo stress. Vengono poi maggiore confusione: c’è chi la vede come una
numerose risorse per la formazione: e-book, DVD, presentate le varie modalità di interazione con gli altri, che devono
Far emergere il meglio dalle relazioni sorta di qualità magica, quasi si trattasse di un
manuali, corsi online. Ha ideato e condotto l’Avenue essere conosciute e potenziate per generare rapporti di lavoro effi- dono di natura. La creatività invece può essere

LAVORARE CON LE PERSONE


Professional Development Programme, una comunità caci. Infine ci si occupa dei processi di lavoro e, quindi, delle abilità appresa: può essere affinata, come qualità, con
di formazione online innovativa, basata sui principi del- l’impegno e con l’esperienza. La creatività è un
e dei metodi necessari — soprattutto agli operatori sociali — per
la pratica riflessiva e dell’apprendimento autodiretto. insieme di abilità.»
affrontare i problemi individuati.
In questa nuova edizione, l’autore propone dunque una guida am-
pliata e aggiornata sulle conoscenze e le competenze essenziali per
lavorare con successo con e per gli altri. Scritto in maniera accessibile
e ricco di esempi, consigli ed esercizi pratici, il libro è una risorsa
indispensabile per operatori sociali e sanitari, studenti, coordinatori,
manager e in generale per chiunque lavori con le persone.

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I Psicologia I Educazione I Disabilità I Culture I Narrativa
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Educazione
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Capitolo secondo
Gestire bene il tempo

Introduzione

La capacità di gestire bene il tempo, o time management,


è qualche cosa che si tende ad associare ai professionisti, ai
manager o ai dirigenti delle grandi imprese, più che ai lavora-
tori «normali». Circolano molti pregiudizi e fraintendimenti,
in effetti, a proposito del time management: su ciò che è, su
come funziona, sul perché sia così importante e via discorren-
do. In questo capitolo ci proponiamo di sgombrare il campo
dai dubbi più frequenti, presentando un’introduzione chiara e
comprensibile al time management.

Che cos’è il time management?

Si tende spesso a distinguere, nel linguaggio comune, tra


efficacia (fare le cose giuste) ed efficienza (fare le cose bene).
Benché l’efficacia sia un aspetto di indubbia importanza, ri-
spetto al time management ci interessa soprattutto l’aspetto
dell’efficienza. Il tempo è una risorsa scarsa, che richiede di
essere utilizzata nel modo migliore possibile, e non va certo
sprecata, né impiegata male.
Si usa dire spesso, nel mondo del lavoro, che «il tempo è
denaro». Se lavoriamo con le persone, il tempo può essere davvero

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la risorsa più preziosa di cui disponiamo. Molte volte, anzi, il
tempo è la cosa più importante che possiamo offrire agli altri; un
motivo in più per non sprecarlo, o per non impiegarlo malamente.
Il time management, però, non ha a che vedere soltanto
con l’organizzazione del nostro tempo e con il tentativo di non
sprecarlo. Uno dei suoi aspetti principali — anzi, essenziali —
sta infatti nella capacità di calibrare l’energia e di mantenere
su livelli ottimali la motivazione e l’impegno personale. In altri
termini, è qualche cosa che riguarda non solo la quantità di
tempo, ma anche la sua qualità.
La questione dell’energia, della motivazione e dell’impegno
assume particolare importanza per chi lavora a stretto contat-
to con le persone. I problemi e le esperienze di vita in cui ci
imbattiamo, in questo campo, possono farci sentire esauriti,
demoralizzati, talvolta addolorati o carichi di rabbia. Altre volte,
il lavoro con le persone può risultare noioso, poco stimolan-
te, ripetitivo: può comportare, ad esempio, tutta una serie di
adempimenti burocratici da sbrigare in ufficio. Nell’uno come
nell’altro caso, è evidente che la motivazione è un elemento di
grande rilevanza. Di qui una domanda di importanza vitale: in
che modo è possibile mantenere l’impegno e la motivazione,
nei momenti più difficili del lavoro?
Per rispondere a questa domanda, nelle pagine seguenti ci
occuperemo principalmente di due aspetti: come organizzare
il proprio tempo in modo ottimale e come mantenere alte le
proprie energie. Come prima cosa, però, dobbiamo spendere
qualche riflessione sul funzionamento dei processi di time
management, e sugli effetti che ne derivano.

Come funziona il time management

Il modo più comune di guardare al time management è


quello della cosiddetta «cronotecnica»: si tratta di analizzare

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in dettaglio il modo in cui si trascorre abitualmente il proprio
tempo sul luogo di lavoro. È possibile utilizzare, a questo scopo,
strumenti ormai ben noti, come registri o «diari del tempo».
Questo approccio al time management ha i suoi lati positivi,
come quello di mettere a fuoco un’immagine esauriente del
modo in cui si impiega il proprio tempo; accanto a questo, però,
c’è anche l’altro lato della medaglia. Il problema più evidente è
che un’attenzione eccessiva alle «modalità d’uso» del tempo si
rivela assai dispendiosa e quindi risulta controproducente. Se
guardiamo troppo ai dettagli, inoltre, rischiamo di perdere di
vista le nostre energie e motivazioni.
L’approccio che presentiamo in queste pagine è sensibil-
mente diverso. Il suo obiettivo di fondo è aiutarvi a capire (e in-
coraggiarvi ad applicare) i principi di base del time management,
sul piano dell’organizzazione del tempo e del mantenimento
di adeguati livelli di energia. In questa prospettiva, il time ma-
nagement richiede la sensibilità di saper cogliere l’importanza
del tempo e dell’energia di cui si dispone, per svolgere bene un
determinato lavoro. Conoscere i principi che stanno alla base
del time management serve proprio a sviluppare questo tipo
di sensibilità.
Può essere utile, per comprendere il funzionamento del
time management, cogliere alcuni dati di fondo:
–– Non esistono risposte giuste, valide per tutti. Ciò che va bene per
voi potrebbe risultare inadatto per qualcun altro, e viceversa.
È importante, nell’imparare il time management, tenere
conto della personalità, delle esigenze, della situazione in cui
si trova ciascuno di noi.
–– In un giorno ci sono solamente ventiquattro ore. Per quanto
possiate diventare bravi a gestire il tempo, ci sono dei limiti
oltre i quali non si può andare. Una buona gestione del tempo
vi può aiutare a non sovraccaricarvi, ma non è sufficiente a
«proteggervi» dagli eccessi di lavoro.

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–– Il time management è qualche cosa che si può imparare. Come
abbiamo detto all’inizio di questo libro, ci sono delle abilità
che si tende spesso a scambiare per «qualità». Si tende a credere
che vi siano persone che, a differenza delle altre, sarebbero
«tagliate» per organizzare bene il proprio tempo. L’esperienza
ci insegna che non è il caso di essere così fatalisti: ciascuno
di noi ha in sé le potenzialità per rafforzare le proprie abilità
di time management.

Organizzare il proprio tempo

La capacità di organizzare il proprio tempo nel modo mi-


gliore è un aspetto importante per chi lavora con le persone. Il
lavoro con le persone, infatti, è ben poco compatibile con una
scansione rigida e inflessibile dei tempi di lavoro. Di solito, i
singoli lavoratori hanno dalla loro un certo margine di mano-
vra, per decidere come impiegare il tempo di cui dispongono.
Spesso, però, si stenta a comprendere l’importanza di una
buona gestione del tempo e non le si riconosce l’attenzione
che meriterebbe. Non è raro, quindi, imbattersi in operatori di
grande esperienza e competenza che pure hanno serie difficoltà
a gestire bene il tempo di lavoro. Ciò ha ripercussioni negative
sull’efficacia delle loro iniziative a favore degli altri. È per questo
che è senz’altro utile dedicare un po’ di tempo a comprendere i
fondamenti del time management. L’idea di un buon «investi-
mento del tempo», del resto, sta alla base del primo principio
di time management che ci accingiamo a trattare.

Investire tempo per risparmiare tempo


C’è chi commette l’errore di diventare «troppo impegnato»
per potersi permettere di organizzare o di pianificare il proprio
tempo. Quando ciò si verifica, la persona direttamente interes-

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sata ha ormai perso il controllo del proprio tempo e faticherà
non poco per recuperarlo. Un buon time management richie-
de di saper mettere da parte una certa quantità di tempo, per
programmare le modalità di impiego del tempo restante, fissare
delle priorità, prevedere i problemi che potrebbero emergere,
riconoscere le potenziali opportunità, e così via. Occorre, in
altri termini, investire del tempo in attività di programmazione
e di organizzazione, che serviranno poi a risparmiare del tempo.
Chi non riesce a fare questo «investimento» potrebbe anche
risparmiare un po’ di tempo nell’immediato, ma sul lungo
periodo rischierà di perderne assai di più.
Detto questo, va anche riconosciuto il rischio opposto:
quello di investire troppo tempo nella programmazione. C’è chi
dedica tanto di quel tempo a programmare il lavoro da non avere
più tempo per farlo. C’è chi continua a compilare liste infinite di
compiti da fare, senza poi trovare il tempo per svolgerne alcuno.
È fondamentale, quindi, saper trovare un giusto equilibrio tra
un investimento scarso e uno eccessivo. La programmazione
è uno strumento in vista di uno scopo e non uno scopo in sé.

Uno sguardo alla pratica 2.1


Tommaso era orgoglioso di tutto il lavoro che era capace di fare. Si sentiva
veramente soddisfatto quando considerava quanti impegni aveva. Gli
piaceva essere visto dagli altri come una persona «impegnata»: si sentiva
importante. Quello che non gli riusciva, però, era ritagliarsi un po’ di tempo per
programmare meglio il lavoro, per darsi delle priorità, per farsi una «visione
globale» delle cose che faceva. Benché fosse costantemente impegnato,
non si poteva dire che impiegasse il tempo in modo ottimale; molta della
sua energia, anzi, andava sprecata. Questo divenne evidente quando se ne
andò il suo vecchio capoufficio e fu sostituito da una persona che cominciò
a preoccuparsi seriamente per il suo modo di lavorare. Tommaso si sentì
profondamente a disagio nel sentirsi dire, da un giorno all’altro, che doveva
imparare a gestire meglio il tempo e gli ci volle un bel po’ per cogliere a fondo
l’importanza di un time management accurato ed efficace.

43
Fissare delle priorità
Quando ci troviamo davanti un lungo elenco di cose da
fare, può essere utile stabilire quali siano le più importanti e quali
vadano fatte per prime. Si tratta, in altri termini, di fissare delle
priorità. Il che può risultare difficile, per tre ordini di ragioni:
–– Non ci sono molti criteri che ci permettano di stabilire un
ordine di importanza nelle cose.
–– Le cose importanti sulla lista potrebbero essere così nume-
rose che risulterebbe impossibile, in ogni caso, farle tutte. È
necessario prendere qualche decisione drastica, per togliere
dall’elenco i compiti di troppo.
–– Ci può anche essere un conflitto di interessi. Ci possono essere
delle voci sulla lista, ad esempio, che ai vostri occhi hanno
un’estrema importanza, ma dal punto di vista di altre persone
influenti — ad esempio il vostro capo — sono decisamente
meno importanti.
Non è detto, quindi, che fissare delle priorità sia una cosa
semplice. Con un po’ di esperienza, comunque, scoprirete voi
stessi che i benefici che ne derivano sono ben superiori ai risvolti
negativi. Il punto, semmai, è guardarsi dal rischio di fissare le pri-
orità in modo eccessivamente rigido. Se non si mantiene una certa
flessibilità, le priorità possono rivelarsi più d’ostacolo che d’aiuto.
Ad esempio, un tattica utile potrebbe essere quella di pen-
sare alle conseguenze a cui si va incontro se non si completa un
particolare lavoro. Se non portassimo a termine un incarico,
quanto sarebbe grave? Naturalmente, questa non è una regola
ferrea: ma può essere utile per aiutarci a valutare l’importanza
relativa da attribuire a priorità in conflitto tra loro.

Non perdere di vista l’obiettivo


Ciascuno di noi rischia di sprecare molto tempo, ogni
volta che perde di vista l’obiettivo che si era prefissato, o che

44
lo scopo delle sue azioni diventa incerto e confuso. Non è raro,
in effetti, scivolare in una sorta di circolo vizioso. Un carico
di impegni eccessivo può farci perdere di vista completamente
gli obiettivi, rendendoci ancora più tesi per «il tempo che non
c’è»; cosa che ci rende ancora più confusi rispetto agli obiettivi,
e il circolo continua.
Quindi, la capacità di mantenere ben chiari gli obiettivi
anche quando siamo sotto pressione è un aspetto basilare per
un time management efficace. Il principio del «non perdere di
vista l’obiettivo» è strettamente legato alla capacità di lavorare
in modo metodico e ordinato, come vedremo più a fondo nel
capitolo ventiduesimo.

Evitare di perdere tempo


Che sia importante evitare di perdere tempo, in sé, è
un’affermazione abbastanza ovvia. Nonostante questa ovvietà,
è facile constatare che molte volte non si prende alcuna inizia-
tiva, nemmeno delle più semplici ed elementari, per evitare gli
sprechi di tempo. Pensiamo, ad esempio, a tutte le volte che ci
rivolgiamo di persona a qualcuno per avere informazioni che
si potevano ottenere per telefono; o alle situazioni in cui due
membri della stessa équipe partecipano a una riunione in cui
era sufficiente la presenza di uno solo di loro; o ai resoconti
eccessivamente lunghi e dettagliati, laddove bastava una breve
ricostruzione dei punti essenziali; o al fatto di sbrigare man-
sioni che avrebbero potuto benissimo essere affidate ad altri; o
ai continui tentativi a vuoto di telefonare a qualcuno, quando
una breve lettera sarebbe più che sufficiente.
Questo non vuol dire, beninteso, che tutti gli incontri
vadano rimpiazzati da comunicazioni telefoniche. Questo,
evidentemente, sarebbe assurdo. Certe volte, nondimeno, le
visite «in carne e ossa» non sono necessarie e rappresentano una

45
perdita di tempo. È necessaria, semmai, la capacità di identi-
ficare le circostanze in cui si rischia di perdere del tempo, per
poi utilizzare quel tempo in modo più costruttivo. Si tratta di
sviluppare un buon livello di sensibilità e di autoconsapevolez-
za, come abbiamo visto nel corso del capitolo precedente. La
capacità di cogliere le situazioni in cui si potrebbe risparmiare
del tempo è qualche cosa che si può sviluppare con la pratica e
con l’esperienza; qualche cosa, comunque, che non mancherà
di ripagare dell’investimento fatto.

Usare un’agenda
L’agenda è uno degli strumenti principali del time mana-
gement. La si può utilizzare nell’ambito della programmazione,
del monitoraggio, del coordinamento delle proprie attività.
Non si tratta solo di un posto dove annotare appuntamenti con
altre persone. Ad esempio, se dobbiamo scrivere una relazione,
potremo fare uso dell’agenda per organizzare il tempo dedicato
a questa attività. In questo modo, l’agenda diviene un tassello
importante di ogni strategia di gestione del tempo. Anche
rispetto all’utilizzo dell’agenda è possibile sviluppare meglio
alcune tecniche e abilità ad hoc.
L’agenda vi aiuta a controllare meglio il vostro tempo e
vi mette al riparo da situazioni imbarazzanti come quella di
dimenticarsi un appuntamento o di fissarne due alla stessa ora.
Una buona tecnica per usare l’agenda, pur nella sua semplicità,
è la seguente: si traccia una linea verticale nel mezzo di ogni
pagina, si annotano sulla parte sinistra gli impegni o gli appun-
tamenti, e sulla parte destra le cose ancora da fare. All’inizio
di ogni giorno potrete dare un’occhiata alla lista della pagina
precedente, depennando le cose che sono state fatte, o che non
c’è più bisogno di fare. Rimarranno soltanto le cose ancora da
fare, che potrete riportare nella parte destra della pagina di oggi.

46
La regola dei tre minuti
È facile che, nel corso della settimana, si accumulino tante
piccole cose da fare. Ciascuna, presa di per sé, non richiede
grandi sforzi; quando cominciano ad accumularsi, però, l’im-
pegno si fa decisamente maggiore. E visto che districarsi tra
tante «cosette» da fare può risultare sgradevole, non sorprende
la tendenza a procrastinare. Una volta che si comincia a rinviare,
però, il «mucchio» delle cose in arretrato è destinato a crescere;
il che, a sua volta, aumenta l’indisponibilità a farsene carico.
Ed ecco che si è innescato un circolo vizioso.
Una buona soluzione, accessibile a tutti, è la «regola dei tre
minuti». Se la cosa che dovete fare richiede meno di tre minuti
— compilare un modulo, dare una breve risposta via e-mail,
e così via — allora occupatevene subito. Oltre a prevenire gli
arretrati di lavoro, eviterete anche, più avanti, ritardi dovuti
all’adempimento di queste cose di poco conto.

Lavorare insieme
Lavorare in modo collaborativo, anche nella forma di un
vero e proprio lavoro in équipe, permette di valorizzare i punti
di forza di ciascuno, riducendo gli effetti dei rispettivi punti di
debolezza. Una strategia di tipo cooperativo, di conseguenza,
può senz’altro contribuire a una buona gestione dei tempi di
lavoro. Si tratta, comunque, soltanto di una possibilità: non sta
scritto da nessuna parte che la cooperazione, di per sé, garanti-
sca necessariamente un migliore utilizzo del tempo. I tentativi
di collaborare possono anche dare luogo a sovrapposizioni (o
a compiti che rimangono scoperti), incongruenze, dibattiti
vuoti e interminabili, incapacità di decidere; in definitiva, a un
cattivo utilizzo delle risorse disponibili (tempo compreso). «Il
lavorare insieme», pertanto, non si può ridurre a uno slogan:
richiede un adeguato investimento di tempi e di energie. Per

47
riuscire a collaborare bene dobbiamo saper fissare dei «paletti»
e chiarire le aspettative reciproche, onde evitare confusione e
l’insorgere di conflitti.

Gestire i livelli di energia

La capacità di organizzare e coordinare i propri impegni


in funzione del tempo disponibile ha una parte importante per
un buon utilizzo di una risorsa scarsa, quale è il tempo. Occorre
anche approfondire, però, il modo migliore per gestire i livelli
di energia e per mantenere le motivazioni sul lavoro.

La programmazione dei tempi di lavoro (timing)


Alcuni di noi si possono definire persone «mattinie-
re», mentre altri non lo sono affatto. Certe persone, in altri
termini, sono particolarmente lucide nelle prime ore del
mattino, mentre altre si «risvegliano» in momenti successivi
della giornata, o magari verso sera. È importante capire quali
siano, per ciascuno di noi, gli «orari ottimali»: sarà possibi-
le, in tal modo, programmare meglio le cose che abbiamo
da fare. Potrebbe non essere una buona idea, ad esempio,
fissare un impegno oneroso e difficile in una fascia oraria in
cui, abitualmente, non diamo il meglio di noi stessi. Anche
questo aspetto del time management rimanda direttamente
al tema dell’autoconsapevolezza, trattato nel capitolo primo.
È importante, infatti, riconoscere non soltanto i nostri punti
di forza e di debolezza, ma anche — per così dire — i nostri
momenti di forza e di debolezza. Una buona programmazione
dei tempi ci potrà aiutare ad «abbinare» l’andamento delle
nostre energie con i vari compiti che dobbiamo affrontare, in
modo da riservare i compiti più impegnativi per i momenti
di maggiore lucidità.

48
La persona giusta nel posto giusto
Si tende spesso, nel lavoro di gruppo o di équipe, a dividere
il lavoro senza considerare più di tanto quali siano, per ciascuna
delle mansioni previste, le persone più idonee. Ciò, in termini
di time management, è controproducente, giacché si traduce
in un impiego non ottimale delle risorse disponibili. Ciascuno
di noi ha i suoi punti di forza e di debolezza; aspetti del lavoro
che gradisce e aspetti che non gli sono congeniali. Valorizzan-
do le cose che sappiamo fare meglio e che ci piacciono di più
si manterranno livelli di motivazione più elevati e, a parità di
tempo disponibile, si otterranno risultati migliori. Vale quindi
la pena, in un contesto di lavoro di gruppo o di staff, mettere
a fuoco le preferenze individuali di ogni lavoratore, in modo
che ciascuno — per quanto possibile — abbia l’opportunità
di dare il meglio di sé.

Uno sguardo alla pratica 2.2


Patrizia era abbastanza soddisfatta, nell’insieme, del proprio lavoro. Alcuni
aspetti, però, non le piacevano affatto e non di rado la rendevano spossata
e demotivata. Un giorno, tuttavia, scoprì che una delle mansioni che le pia-
cevano meno — seguire la formazione dei nuovi membri dello staff — era
estremamente gradita alla sua collega Gianna. Dopo aver discusso insieme
delle rispettive mansioni, Patrizia e Gianna provarono a «scambiarsi» una
parte del lavoro. La cosa ebbe grande successo. Grazie alla collaborazione,
entrambe avevano potuto migliorare la qualità del proprio lavoro.

La regola «via il dente, via il dolore»


Quando dobbiamo svolgere delle mansioni che non ci
fanno «impazzire» di gioia, o che non sopportiamo proprio, è
meglio affrontarle il prima possibile. Se riusciamo a «levarcele
di torno», avremo di che essere soddisfatti e sollevati. Gli effetti
saranno positivi sia per il morale, sia per le energie lavorative.

49
Se sappiamo — ad esempio — che domani dovremo fare una
telefonata sgradevole, è meglio che ci impegniamo a farla non
appena arrivati in ufficio.
Se non prendiamo di petto queste mansioni sgradevoli e
continuiamo a procrastinarle, possono tormentarci, demotivarci
e condizionare negativamente il nostro rendimento sul lavoro. È
importante, quindi, seguire la semplice regola del «via il dente,
via il dolore»: si tratta di identificare le cose verso cui siamo più
riluttanti, per poi metterci a farle prima di tutte le altre.

Fare una pausa


Chi dice sempre di essere «troppo impegnato per fare una
pausa» si espone a una situazione pericolosa. Non si rende contro,
oltretutto, di un dato elementare: a parità di mansione da svolgere,
un lavoratore riposato è più produttivo di uno spossato dalla fatica.
Quando il tempo è tiranno, e il lavoro da fare è tanto,
è facile scivolare nella trappola del «proseguire a oltran-
za», senza un attimo di pausa. Il risparmio di tempo, così
facendo, è soltanto apparente. Tanto per dire, è probabile
che una persona che lavora un’ora e mezza, fa una pausa di
un quarto d’ora e poi continua a lavorare per un’altra ora
e un quarto, produca di più — in termini sia quantitativi,
sia qualitativi — di una che lavora ininterrottamente per
tre ore, senza fare il minimo «stacco». Lavorare a oltranza,
senza pause, può avere effetti logoranti, aumenta le pro-
babilità di commettere errori, o comunque di «produrre»
assai meno del solito. (Thompson, 1993, pp. 131-132)

L’aumento del carico di lavoro


Un lavoro fatto male, o senza la necessaria attenzione, porta
via molto più tempo del necessario. Se non calibriamo bene i
tempi di lavoro, rischieremo di dedicare alle singole mansioni

50
un tempo ben superiore a quello che esse richiederebbero. Que-
sto, sul versante delle motivazioni, è un aspetto importante: se
siamo poco motivati finiremo per allungare inutilmente i tempi
di lavoro, cosa che, a sua volta, avrà ripercussioni negative sulle
nostre motivazioni.
Se invece ci sforziamo di completare in tempi ragionevoli
le mansioni che ci vengono assegnate, ne usciremo rafforzati
nel nostro senso di fiducia, di padronanza, di autorealizzazione.
L’impegno a evitare ogni allungamento superfluo dei tempi di
lavoro sarà ampiamente ripagato, sul piano delle nostre moti-
vazioni al lavoro.

Essere ottimisti
Per mantenere, se non rafforzare, i livelli di energia e di
motivazione, è fondamentale l’ottimismo. Un atteggiamento
pessimista, infatti, contribuisce di per sé ad abbassare il morale
e la soddisfazione sul lavoro. Ne può derivare un circolo vizioso,
in cui pessimismo e morale sotto i tacchi si rinforzano — e
quindi si peggiorano — a vicenda.
Essere ottimisti può generare un circolo virtuoso che dà
luogo a un miglioramento della soddisfazione e del morale sul
lavoro, il che contribuirà a un atteggiamento più improntato
all’ottimismo. Vedremo più in dettaglio nel capitolo decimo
quanto sia importante non perdere mai di vista gli aspetti positivi.

Lavorare insieme
Oltre che a una migliore organizzazione dei tempi di lavo-
ro, lavorare insieme può giovare alle energie e alle motivazioni
lavorative. Il lavoro in équipe, la collaborazione e il sostegno
reciproco possono rivelarsi strategie vincenti, nella misura in
cui generano un senso positivo:

51
–– di sicurezza e di fiducia («l’unione fa la forza»);
–– di impegno a favore degli altri;
–– di cameratismo, di identità di gruppo, di senso d’apparte-
nenza;
–– di orgoglio e di soddisfazione per i risultati positivi ottenuti
insieme.

Conclusione

Essere ben organizzati, nell’impiego dei tempi di lavoro,


non è una qualità «naturale». È, piuttosto, il prodotto di un
insieme di abilità che possono essere apprese e potenziate, grazie
alla pratica e all’esperienza. I suggerimenti di questo capitolo
possono aiutarvi a migliorare nella capacità di gestire i tempi,
purché vi impegniate effettivamente ad applicarle. Se non ne
siete convinti più di tanto, o le praticate così, «tanto per fare»,
non vi gioveranno granché.
L’ingrediente essenziale è quindi la fiducia, in una duplice
accezione. Tanto per cominciare, dobbiamo confidare nella
nostra capacità di apprendere cose nuove, di acquisire delle
nuove abilità. In secondo luogo, dobbiamo avere fiducia nelle
tecniche di cui facciamo uso. Se si riesce ad attivare questa
fiducia, l’autoefficacia di ciascuno di noi ha davanti a sé degli
enormi margini di miglioramento.

ESERCIZIO 2
Riuscire a organizzarsi
In questo capitolo abbiamo fornito molti suggerimenti per gestire
meglio il tuo tempo. Ora, per aiutarti a metterli in pratica, abbiamo
pensato a questo esercizio.
Innanzitutto, prendi un foglio di carta, di formato A4, e tienilo vicino
a te, scorrendo velocemente l’intero capitolo. Segna sul foglio tutte le

52
indicazioni concrete che secondo te potresti mettere a buon frutto nel
tuo lavoro (ad esempio, la regola «via il dente, via il dolore»). Quando
avrai finito, avrai una lista di azioni e potrai quindi pianificare un per-
corso per mettere in atto la tua nuova strategia di gestione del tempo.

53
Capitolo terzo
Gestire lo stress

Introduzione

Ogni attività lavorativa comporta un certo livello di


tensione e ci espone a una buona misura di stress, tanto più
in un campo come quello dei servizi alla persona. In questo
capitolo ci occuperemo delle tre componenti essenziali dello
stress management:
–– i fattori di stress (stressors), ossia le cause di stress più comuni
e diffuse;
–– i metodi di coping, cioè i modi in cui possiamo cercare di
affrontare la pressione dello stress;
–– le modalità di aiuto, e quindi i modi in cui è possibile facilitare
i processi di coping.
Una volta esaminati questi tre aspetti, guarderemo alle
abilità e alle strategie necessarie per mantenere la tensione sotto
controllo, evitando di essere danneggiati dallo stress.

Stress e tensione

Anzitutto è importante definire con precisione quello che


intendiamo per «stress». Arroba e James (1992) definiscono lo

55
stress come «risposta a livelli inappropriati di tensione». Sono
due gli elementi più significativi di questa definizione:
1. Il termine «risposta» indica che lo stress scaturisce dal modo in
cui reagiamo alla tensione; dunque «gestire lo stress» vuol dire
anche saper controllare le nostre reazioni, oltre che la tensione
che le provoca. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.
2. L’aggettivo «inappropriato» suggerisce che lo stress può deri-
vare non solo da un livello eccessivo di tensione, ma anche da
un livello insufficiente, come quando ci annoiamo, o siamo
privi di stimoli.
Possiamo quindi distinguere, come proponiamo nella
figura 3.1, fra la tensione — che può essere, a seconda delle
circostanze, positiva (una fonte di stimoli e di motivazione) o
negativa (una fonte di preoccupazioni e di conflitto) — e lo
stress, che è sempre qualche cosa di negativo e dannoso.

Livello di tensione
Stress
eccessivo

Livello di tensione
Assenza di stress
appropriato

Livello di tensione
Stress
insufficiente

Fig. 3.1 I diversi livelli di tensione.

Ricapitolando:
–– lo stress non equivale alla tensione: quest’ultima è un fatto
inevitabile, mentre lo stress può anche essere evitato;

56
–– lo stress si verifica più facilmente laddove la tensione è ec-
cessiva, o insufficiente;
–– lo stress dipende non solo dal livello di tensione che avver-
tiamo, ma anche dal modo in cui reagiamo.
È importante che la distinzione tra questi due concetti
chiave sia ben chiara. Se non siete sicuri di averla compresa
bene, vi suggeriamo una rilettura di questo paragrafo, prima
di procedere oltre.

Gli effetti dello stress

Lo stress può essere all’origine di molteplici eventi negativi.


Basti soltanto pensare ad alcuni dei più frequenti, esposti qui
di seguito.
–– Patologie correlate allo stress. È risaputo che lo stress contri-
buisce in modo determinante a malattie cardiache, coliti,
ulcere, e così via.
–– Vulnerabilità alle malattie. Lo stress indebolisce i nostri livelli
di resistenza alle malattie in generale.
–– Cali motivazionali. Lo stress ci fa perdere entusiasmo fino a
farci sentire, come si suol dire, «con il morale sotto i tacchi».
–– Insoddisfazione sul lavoro. Nel nostro ambiente di lavoro,
quando siamo sotto stress, tendiamo a considerare solo gli
aspetti negativi, perdendo di vista quelli positivi.
–– Tensione e irritabilità. Lo stress può anche essere motivo di
disaccordi o di conflitti.
–– Tendenza a commettere errori. Lo stress ci espone al rischio di
commettere molti più errori del solito, cosa che — nel lavoro
con le persone — può avere conseguenze pesanti.
Non si tratta certo di un elenco esaustivo, ma ci pare suffi-
ciente a mostrare che il tempo e gli sforzi dedicati a prevenire lo
stress, o a contrastarlo, rappresentano un ottimo investimento.

57
Uno sguardo alla pratica 3.1
Un’équipe di cinque persone riusciva a gestire abbastanza bene, senza
particolari difficoltà, il carico di lavoro che le era stato assegnato. Un gior-
no, però, Pietro — uno di loro — si sentì intimare, con tono estremamente
aggressivo, di «mettersi a fare la sua parte». Il dirigente seppe dell’incidente,
ma non lo prese sul serio; si limitò a definirlo «una storia come tante». Da
parte sua, Pietro si sentiva male, poco aiutato e ancor meno considerato.
Pochi giorni più tardi, un certificato medico comunicava che Pietro doveva
prendersi due settimane di assenza per malattia, a causa di un «esaurimento
nervoso». Nelle due settimane successive, gli altri componenti dell’équipe si
trovarono con un carico di lavoro aggiuntivo del 25%, che riuscirono — sia
pure con difficoltà — a smaltire. Terminato quel periodo, però, arrivò un
nuovo certificato: l’assenza di Pietro si sarebbe prolungata per altre quattro
settimane. I suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi e a domandarsi se
Pietro sarebbe mai ritornato. Per Patrizia, che stava attraversando un pe-
riodo difficile con il marito, questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Lo stress, per lei, era troppo. Si prese a sua volta un permesso per malattia,
cosa che costrinse i suoi colleghi a farsi carico, da soli, di un lavoro che era
aumentato addirittura del 40%. Per i tre operatori rimasti, la tensione si era
fatta fortissima. Erano giunti a domandarsi se avrebbero mai visto la luce,
alla fine di quel tunnel. La situazione era veramente snervante. Sarebbe
bastato un piccolo imprevisto a far saltare tutto per aria.

Comprendere il proprio stress

Giacché lo stress è legato al modo in cui ciascuno reagisce


alle tensioni che avverte, si tratta di un problema che ha molti
risvolti sul piano personale e varia considerevolmente da indi-
viduo a individuo. È importante, quindi, che ciascuno sia in
grado di comprendere l’impatto dello stress e della tensione sulla
propria esperienza di vita. L’esercizio 3, alla fine di questo capito-
lo, è pensato proprio per aiutarti a disegnare il quadro della tua
situazione, con un occhio di riguardo alla gestione dello stress.
Avere un quadro chiaro delle pressioni a cui si è sottopo-
sti, ma anche delle risorse di fronteggiamento e di sostegno di

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cui si dispone, è importante per gestire lo stress. Senza questo
quadro, si lavora alla cieca. Per quanto importante, però, questa
consapevolezza non è sufficiente: comprendere lo stress è sol-
tanto il primo passo dello stress management. Occorre anche
potenziare le proprie abilità e strategie di gestione dello stress,
come vedremo nel corso delle prossime pagine.

Abilità e strategie di stress management

L’esperienza dello stress, come abbiamo visto, è estrema-


mente variabile, e dipende non poco dalla situazione personale
di ciascuno di noi. Ciò detto, è comunque possibile individuare
alcuni principi e linee guida, di carattere generale.
1. Conoscere se stessi. Sembrerà un luogo comune, ma avere un
buon livello di consapevolezza di sé è fondamentale, giacché
aiuta a riconoscere i propri punti di forza e di debolezza: le
risorse personali da cui possiamo attingere nei momenti di
bisogno, ma anche gli aspetti che ci rendono più vulnerabili.
Come abbiamo osservato nel capitolo primo, l’autoconsa-
pevolezza è un requisito essenziale per lavorare bene con le
persone. Tale requisito è altrettanto importante per quanto
riguarda la gestione dello stress. Laddove manca una suffi-
ciente consapevolezza di sé, infatti, gestire lo stress si può
rivelare assai più impegnativo del necessario.
2. Fissare degli obiettivi. È utile darsi degli obiettivi precisi, per
avere un traguardo ben definito a cui puntare, in modo da
non sentirsi «alla deriva» o privi di uno scopo. Definire degli
obiettivi può servire anche a rafforzare le nostre motivazioni
e a ottenere — una volta che gli obiettivi siano stati raggiunti
— una legittima soddisfazione dal lavoro che facciamo. Come
si suol dire, infatti, «se non sappiamo dove vogliamo andare,
nessuna strada potrà condurci a destinazione». Individuare
degli obiettivi e avere le idee ben chiare su quel che ci occor-

59
re per realizzarli ci aiuta a identificare la strada che stiamo
percorrendo. Ci aiuta a tenere lontano quel senso di disorien-
tamento che si accompagna, il più delle volte, all’esperienza
dello stress. Si tratta di una questione di grande importanza,
su cui ritorneremo nei capitoli ventunesimo e ventiduesimo.
3. Cambiare atteggiamenti. Cambiare il proprio atteggiamento
nei confronti di qualche cosa può cambiare il modo in cui
quel «qualche cosa» ci condiziona. Se l’obiettivo che ci sia-
mo dati è diventare i più grandi lavoratori del mondo, ad
esempio, ben presto ci troveremo sopraffatti dalla tensione!
Per metterci al riparo da uno stress inutile, in casi come que-
sto, occorre cambiare il nostro atteggiamento. Una buona
soluzione può essere accontentarsi, almeno all’inizio, di un
obiettivo più modesto. Puntare all’eccellenza può rivelarsi
una fonte di stimoli e di motivazione (e quindi di tensione
positiva); ma puntare a essere i migliori può far sì che la ten-
sione sconfini nello stress. Se è vero che lo stress è la reazione
a un livello di tensione inappropriato, cambiare il proprio
modo di reagire alle circostanze esterne può costruire una
soluzione efficace per gestire meglio la tensione. Per dirla
con il linguaggio degli specialisti, si tratta di mettere in atto
una «ristrutturazione cognitiva».
4. Essere assertivi. La questione dell’assertività sarà oggetto del
capitolo quinto, sicché non ci dilungheremo, in questa sede,
sull’argomento. Va comunque ricordato che l’essere assertivi
— trovare, cioè, un ragionevole punto di equilibrio tra gli
estremi della sottomissione e dell’aggressività — è un aspetto
importante dello stress management. L’assertività ci aiuta a
impedire agli altri di disporre di noi a loro piacimento, ma
serve anche a prevenire i conflitti; o, quantomeno, a ridurne gli
effetti negativi, come vedremo nel corso del capitolo quinto.
5. Mantenere il controllo. Questo principio non si riduce al
classico messaggio del «non farsi prendere dal panico», che

60
pure è importante. La verità è che, quando siamo sottoposti
a una forte tensione, è facile che perdiamo la padronanza
di noi stessi e delle cose che facciamo. Da una ricerca di
qualche anno fa sui casi di abuso minorile (DoH, 1991),
ad esempio, emergeva che gli assistenti sociali dei servizi di
tutela minorile tendevano a fare molti errori a causa della
tensione a cui erano sottoposti. Era come se le loro capacità
di giudizio si offuscassero, con tutte le conseguenze negative
che ne derivavano. Un buon consiglio, in casi come questi, è
quello di stare calmi e di tenere in mano la situazione. Questo
non vuol dire, peraltro, assumere atteggiamenti autoritari o
impositivi; si tratta soltanto di non lasciarsi sfuggire quello
che sta succedendo attorno a noi, non permettere a noi
stessi di diventare degli osservatori impotenti, vittime delle
circostanze. Molte cose, comunque, vanno ben al di là delle
nostre capacità di controllo; non possiamo che prenderne
serenamente atto (Thompson, 2012a). D’altra parte, occorre
guardarsi dal rischio del disfattismo, tipico di chi sottovaluta
la propria capacità di controllare il corso degli eventi (come
nell’esempio sul time management, presentato nel capitolo
secondo).
6. Tracciare dei confini. Gli equivoci e le ambiguità ci accom-
pagnano nella vita di tutti i giorni, ma quando siamo sotto
pressione possono assumere dimensioni incontrollabili. È
per questo che è importante acquisire una buona capacità
di «tracciare confini». Sono confini che hanno a che vede-
re, prima di tutto, con le responsabilità: occorre avere ben
chiaro ciò di cui siamo e ciò di cui non siamo responsabili.
Ci sono due ottime ragioni per farlo: primo, se abbiamo la
responsabilità di qualche cosa e non ne siamo ben consape-
voli, rischiamo di trovarci seriamente in difficoltà, qualora
le cose si mettano male; secondo, se ci assumiamo l’onere
di impegni che esulano dalle nostre responsabilità (perché

61
di competenza di altri), ci ritroveremo con un «carico» del
tutto gratuito ed evitabile; o, per dirla diversamente, con
un ulteriore fattore di stress. È importante, quindi, saper
riconoscere i confini delle responsabilità nostre e altrui
(Thompson, 2015a).
7. Gestire bene il tempo. Ritorniamo su questo aspetto, trattato
nel capitolo precedente, perché il time management è un
tassello importante per qualsiasi professionista che lavora
con le persone. Come si è visto, occorre gestire non solo il
tempo, ma anche le energie di cui disponiamo; mantenere
livelli di motivazione e di impegno adeguati è essenziale per
affrontare attivamente la tensione, anziché farsene travol-
gere. Gestire bene il tempo di cui si dispone serve anche a
mantenere un buon controllo su di sé e sulla situazione (si
veda il punto 5) e quindi di tenere a bada lo stress. Se invece
perdiamo tempo e non manteniamo un livello di impegno
costante, difficilmente riusciremo ad affrontare le difficoltà
tipiche del lavoro con le persone.
8. Farsi aiutare dagli altri. C’è chi, stoicamente, vorrebbe
sempre affrontare da solo qualsiasi situazione difficile,
senza farsi aiutare da nessuno. È come se chiedere aiuto
fosse un segno di debolezza, qualche cosa da evitare a tutti
i costi. Una strategia di questo tipo è carica di insidie,
perché ci colloca ai margini di quella rete di sostegno e di
aiuto reciproco che, in certi casi, può fare la differenza.
Per evitare questo rischio, l’atteggiamento di chi si crede
«duro e puro», autonomo dagli altri in tutto e per tutto,
andrà senz’altro respinto (Cranwell-Ward e Abbey, 2005).
Un passo importante che va fatto, in questa direzione, è
riconoscere che chiedere aiuto è un segnale di forza, non
di debolezza; un segnale della nostra capacità di gestire lo
stress in modo realistico, nella consapevolezza dei nostri
limiti.

62
Uno sguardo alla pratica 3.2
Sandra sapeva che il suo nuovo impiego sarebbe stato impegnativo, ma
non pensava così tanto. Si sentiva sommersa dal lavoro, senza nessuno
che le desse una mano. All’inizio, decise che in fondo andava bene così:
se la sarebbe cavata da sola, impegnandosi più che poteva. Bastava che
lasciasse da parte i suoi problemi personali, per concentrarsi il più possibile,
anima e corpo, sul lavoro. Un giorno, però, commise un errore che avrebbe
potuto avere conseguenze gravi. Cominciò a rendersi conto che non serviva
a nulla fare finta che i problemi non ci fossero. Decise di parlare con i colle-
ghi di tutte queste sue difficoltà. Di fronte alle risposte che ricevette, cariche
di comprensione nei suoi confronti, rimase veramente stupita. I colleghi si
dissero senz’altro disponibili a venirle incontro e a darle una mano. Uno
di loro, in particolare, fece un’osservazione che aiutò Sandra a capire che
aveva sbagliato a non chiedere aiuto sin dall’inizio: «Avevamo l’impressione
che tu fossi una di quelle persone che vogliono fare sempre tutto da sole, e
detestano il lavoro di équipe».

9. Evitare modi inadeguati di affrontare lo stress. Ci sono dei modi


di affrontare lo stress che sono utili, efficaci e costruttivi. Ce ne
sono altri, però, che si possono rivelare dannosi e distruttivi;
in casi di questo tipo, «il gioco non vale la candela». Se ad
esempio tentiamo di affrontare una difficoltà mettendoci a
bere, reagendo in modo violento, o negando completamente
l’esistenza del problema, rischieremo soltanto di aumentare
la tensione, o addirittura di aggravare la situazione; la «me-
dicina», in altri termini, risulterà peggiore della malattia. C’è
molto da guadagnare a evitare reazioni di questo tipo, sforzan-
dosi di sostituirle con atteggiamenti più propositivi. La cosa
migliore, in linea di principio, è puntare sul fronteggiamento
attivo, prendendo di petto il problema che abbiamo davanti,
senza nutrire eccessiva fiducia nel fronteggiamento passivo
(cioè nel tentativo di fuggire dalla pressione o dal problema).
10. Avere cura di sé. Lo stress tende spesso a renderci sin troppo
duri ed esigenti nei confronti di noi stessi. Ci poniamo degli

63
obiettivi irrealistici (vedi al punto 3), svalutiamo quel che
sappiamo fare, ci rendiamo la vita — in un modo o nell’al-
tro — ben più difficile del necessario. E quanto più stress
incontriamo, tanto più tendiamo ad assumere un atteggia-
mento di questo tipo. Di conseguenza, una buona gestione
dello stress ci richiede anche di prenderci cura di noi stessi; di
non trascurare le nostre capacità, come pure i nostri limiti; di
non pretendere troppo da noi stessi, e di non giudicarci con
severità eccessiva. È importante essere consapevoli di questo
rischio, in modo da cogliere i momenti in cui si verifica; po-
tremo così rivolgerci a una persona di cui abbiamo fiducia,
che ci aiuterà a guardare le cose nella giusta prospettiva.

Conclusione

In queste pagine abbiamo passato in rassegna le principali


«pietre miliari» dello stress management. Seguire queste linee
guida non basterà a garantirvi il successo, ma vi aiuterà a orien-
tarvi nella direzione corretta per gestire al meglio le situazioni
di tensione, minimizzando lo stress. Mi auguro che le idee e i
suggerimenti qui presentati vi incoraggino a proseguire sulla
strada di una migliore gestione dello stress.
Lo stress, come si è visto, è un problema che porta molte
conseguenze negative:
–– può indurre, in primo luogo, un deterioramento delle con-
dizioni di salute;
–– può ridurre il senso di autoefficacia;
–– può mettere in crisi le relazioni con gli altri;
–– può creare un clima negativo, dominato dalla tensione, sul
luogo di lavoro.
E l’elenco potrebbe proseguire; di qui l’importanza di
acquisire delle buone abilità di gestione dello stress.

64
Ma conviene ricordare anche che molte delle altre capacità
di cui parliamo in questo libro hanno a che vedere con una
buona gestione dello stress. Lo stress management, in altri
termini, dipende dal potenziamento di abilità correlate come
time management, assertività, efficacia comunicativa, capacità
di essere sistematici e di concludere. Si tratta, in definitiva,
di saper combinare gli «ingredienti» di abilità diverse, che si
intrecciano e si sostengono a vicenda.

ESERCIZIO 3
Stress, fronteggiamento e sostegno
Per questo esercizio, prendi un foglio di carta e dividilo in tre colonne.
In cima a ogni colonna scrivi: «Fattori di stress»; «Metodi di coping»;
«Fonti di aiuto». Sotto ogni etichetta elenca tutti gli esempi che ti
vengono in mente. Cioè, sotto «Fattori di stress» scrivi tutte le possibili
fonti di stress; sotto «Metodi di coping» elenca i diversi modi con cui
puoi fronteggiare lo stress; sotto «Fonti di aiuto» scrivi le fonti di aiuto
su cui puoi fare leva.
Un esercizio di questo tipo può aiutarti a definire una panoramica dei
problemi legati allo stress che ti trovi a dover affrontare, e può perciò
aiutarti a elaborare un piano per affrontarli. Ad esempio, può aiutarti a
capire che devi rafforzare la tua rete di aiuti; oppure, se ti rendi conto
di avere già un buon sostegno, può aiutarti ad acquisire fiducia. Non
è un esame: se hai finito le idee, sentiti libero di chiedere un parere a
colleghi e ad amici.

65
Capitolo quindicesimo
I colloqui

Introduzione

Prima di tutto, è necessario chiarire che il termine «collo-


quio», in questa sede, si riferisce a qualsiasi discussione formale,
o semi-formale, tra un operatore e uno o più utenti o tra un
insegnante e uno studente o, ancora, tra un infermiere e un
paziente e così via. Parliamo di «colloquio», cioè, in senso ampio,
e non nell’accezione di un «colloquio di lavoro».
Un colloquio è ben altra cosa che una chiacchierata.
Molte volte è lo strumento attraverso cui è possibile avviare un
cambiamento nella situazione. Un buon colloquio deve essere
orientato a uno scopo preciso, al raggiungimento di obiettivi
specifici. Gestire bene i colloqui, pertanto, è un compito che
richiede abilità elevate e che non andrebbe lasciato al caso. In
questo capitolo ci occuperemo proprio delle abilità necessarie
per una buona conduzione dei colloqui ed evidenzieremo al-
cuni degli errori che si tendono più spesso a commettere nella
pratica professionale.
Anzitutto, però, è importante soffermarsi su quello che
andrebbe fatto prima del colloquio stesso.

227
Prima del colloquio

Un buon colloquio si basa su un’accurata progettazione


e preparazione preliminare. Prima di iniziare un colloquio, in
altri termini, è meglio prendere in considerazione tutta una
serie di elementi chiave.

Il tempo e il luogo
La scelta del momento giusto per fare un colloquio può
rivelarsi fondamentale. In molti casi, per la verità, la tempistica
di un colloquio non è poi così importante. In altri casi, però,
la programmazione dei tempi può essere davvero cruciale. Nel
caso di un colloquio con un minore, ad esempio, è meglio non
fissare l’appuntamento all’ora del suo ritorno a casa, da scuola.
Può darsi che il ragazzo abbia bisogno di riposare un po’ o non
abbia ancora avuto il tempo di risistemarsi.
Il fattore tempo può essere importante anche rispetto alla
durata del colloquio. Sia i colloqui brevi e affrettati, sia quelli
eccessivamente lunghi possono rivelarsi inefficaci o addirittura
controproducenti.
Anche l’ambiente, come abbiamo già visto, rappresenta
un aspetto importante per qualsiasi forma di comunicazione.
Il luogo in cui si svolge il colloquio, pertanto, può essere un
elemento determinante. Quale sia il posto migliore, peraltro,
dipende molto da un caso all’altro; l’importante è verificare
sempre, di volta in volta, che l’ambiente in cui ci si trova sia
realmente appropriato, specie nel caso di colloqui su argomenti
delicati, o potenzialmente problematici.

Lo scopo
Un colloquio è, per definizione, una discussione con uno
scopo preciso. È utile tenere sempre ben presente questo aspetto,

228
in fase di preparazione. La chiarezza rispetto agli scopi aiuta a
evitare divagazioni inutili e facilita i progressi nella direzione
dei risultati auspicati.
Esplicitare gli obiettivi aiuta anche i nostri interlocutori
a sentirsi maggiormente a proprio agio rispetto a quanto sta
avvenendo e meno sospettosi o diffidenti nei confronti dell’o-
peratore e delle sue motivazioni.

Siete le persone giuste?


Per certi tipi di colloquio è importante, se non essenziale,
che ci sia un’adeguata «corrispondenza» tra chi conduce il col-
loquio e il suo interlocutore, in termini di genere, o di cultura.
Una donna vittima di violenza sessuale, ad esempio, potrebbe
avere enormi difficoltà a sostenere un colloquio con un uomo.
Un operatore può anche essere esperto nel condurre colloqui,
ma se non è adatto per uno specifico colloquio è meglio sopras-
sedere, onde evitare che il colloquio produca risultati negativi.

La sensibilità linguistica
In certi casi, inoltre, può essere necessario fare ricorso a
interpreti. Laddove emerga un’esigenza di questo tipo, occorre
considerare la situazione con attenzione. È meglio non ricorrere
a un familiare, ad esempio, in un caso caratterizzato da tensioni
all’interno del nucleo familiare; il rischio, in caso contrario, è di
ottenere una rappresentazione deformata (in modo volontario
o involontario) di quanto viene detto. Non è nemmeno il caso
di ricorrere a minori, se non si vuole correre il rischio di esporli
a informazioni inappropriate per loro.

Chi dovrebbe essere coinvolto?


I colloqui, di solito, si svolgono tra due persone soltanto,
ma talvolta possono anche essere presenti più persone al me-

229
desimo tempo. In questi casi, è importante stabilire chi debba
essere coinvolto e chi no. Ancora una volta, non esiste nessuna
regola «pronta per l’uso», che valga sempre. Se non si affronta
la questione, d’altra parte, il rischio è che il colloquio si riveli
inefficace, o che non faccia altro che peggiorare le cose. Può
essere utile fare riferimento alle finalità del colloquio, per de-
cidere, di volta in volta, chi sia opportuno partecipi.

I piani di emergenza
Sarebbe irrealistico predisporre un «piano d’emergenza»
per ogni singolo colloquio, ma è buona norma farlo almeno in
alcune situazioni. Per i colloqui più importanti, ad esempio,
sarebbe un peccato non disporre di una strategia alternativa, nel
caso risulti inefficace l’approccio che si aveva in mente. È quello
che avviene, ad esempio, quando si presentano dei problemi
imprevisti, o delle situazioni di potenziale emergenza.

Le abilità essenziali

Per condurre bene un colloquio è necessario saper appli-


care, da parte degli operatori, almeno alcune abilità essenziali.
Le descriviamo brevemente, una a una.

L’ascolto
Sull’importanza dell’ascolto attivo ci siamo già soffermati
nel capitolo dodicesimo. Il contesto del colloquio è senz’altro
uno di quelli in cui questa abilità si fa apprezzare di più. È im-
probabile, infatti, che un colloquio risulti efficace se non si è in
grado di ascoltare attentamente le persone che si hanno di fronte.
«Saper ascoltare» significa anche saper riconoscere i vissuti
emotivi in gioco. Se una persona prova una rabbia intensa, ad

230
esempio, è improbabile che riesca a fare grandi progressi, sino
a che non avrà riconosciuto, o comunque affrontato, la propria
emozione negativa. Altrettanto importante, per un buon anda-
mento del colloquio, è la capacità di decifrare la comunicazione
non verbale, ossia di saper interpretare quello che ci dice l’altra
persona con il linguaggio corporeo.

L’assertività
Se vogliamo che il colloquio sia orientato a un obiettivo
preciso, e che non lo perda di vista, non possiamo fare a meno
di essere, in una certa misura, «direttivi». Questo non significa
che dobbiamo impartire degli ordini ai nostri interlocutori. Vuol
dire però che dobbiamo sempre mantenere un certo margine
di controllo rispetto all’andamento del colloquio.
Dobbiamo essere, in altre parole, assertivi, per usare un’e-
spressione ampiamente trattata nel capitolo quinto. Dobbiamo
riuscire a realizzare una situazione in cui non c’è nessuno che
perde, perché tutti hanno qualcosa da guadagnare. Si tratta di as-
sumere un atteggiamento che non sia né arrogante nei confronti
degli utenti, né remissivo, al punto da perdere di vista i motivi
del colloquio, o gli obiettivi che perseguiamo per suo tramite.
Saper «condurre», pertanto, è un’abilità sottile. Occorre
tenere sempre le redini del colloquio, senza risultare intrusivi, né
prepotenti. Dobbiamo saper rispondere ai desideri, alle esigenze
e ai sentimenti delle persone; senza dimenticare, però, che quel
colloquio si inserisce in genere in un processo più ampio, di
cui deve rispettare le finalità.

La partnership
Per riuscire a lavorare efficacemente con le persone, dob-
biamo costruire un rapporto di partnership con loro. Un cam-

231
biamento imposto in modo unilaterale, infatti, ha ben poche
probabilità di durare a lungo, rispetto a un cambiamento con-
diviso, e anzi «fatto proprio», dai diretti interessati. L’approccio
cooperativo, in altre parole, è il più efficace, anche se dipende
dalla nostra capacità di conquistarci la fiducia della gente e di
continuare a meritarcela.
Lavorare in questo modo richiede delle abilità che non
vanno sottovalutate. Benché si tratti di abilità che si svilup-
pano più che altro con l’esperienza, si possono fornire alcune
indicazioni di tipo operativo:
–– Non bisogna mai «monopolizzare» la conversazione, che
dovrebbe essere sempre un processo bilaterale.
–– Occorre evitare di far dire agli altri delle cose che non han-
no detto. Nel dubbio, è meglio fare loro una domanda, per
sincerarsi di aver capito bene.
–– Bisogna aiutare le persone a sentirsi sempre a proprio agio, in
modo che siano nelle condizioni di parlare liberamente di sé.
–– Dovremmo chiarire fin dall’inizio che ci teniamo molto a
cooperare con la persona che abbiamo davanti e che il collo-
quio non sarà mai «a senso unico».
Quello di partnership è un concetto molto importante, e
sarà al centro di alcune osservazioni che svolgeremo nella terza
parte del libro.

L’empowerment
C’è anche un altro concetto — già toccato nei capitoli
precedenti — di cui chi è impegnato a tu per tu in un collo-
quio con un’altra persona dovrebbe sempre tenere conto. È il
concetto di empowerment, ovvero quella serie di modalità che
mettono le persone nelle condizioni di recuperare un certo
controllo della propria vita. Attraverso l’empowerment pos-

232
siamo diventare meglio «equipaggiati» per affrontare i nostri
problemi e realizzare gli obiettivi che ci stanno a cuore. Anche
i colloqui, se ben condotti, possono contribuire a questo pro-
cesso, rispetto al quale peraltro un colloquio mal gestito può
provocare danni considerevoli. Nel bene e nel male, la capacità
di conduzione del colloquio da parte nostra può influire non
poco sull’empowerment di chi ci sta di fronte.
Al fine di promuovere l’empowerment, è importante
cercare sempre di:
–– non pregiudicare, e anzi — laddove possibile — rafforzare
l’autostima degli utenti;
–– individuare i fattori che ne ostacolano i progressi, e intra-
prendere azioni dirette a superarli;
–– riconoscere l’esistenza di forme di discriminazione e di
oppressione, che rientrano nell’esperienza di vita di tutti
noi, specie nel campo delle dinamiche interpersonali (vedi i
capitoli undicesimo e ventunesimo).
I colloqui orientati all’empowerment, dunque, sono quelli
che contribuiscono a valorizzare le risorse degli utenti e a su-
perarne le debolezze; o, meglio ancora, a trasformare queste
ultime in nuove risorse.

Uno sguardo alla pratica 15.1


Nell’ambito del suo corso di formazione, Gianna partecipò a un gioco di
ruolo, in cui doveva vestire i panni di un’operatrice che teneva un colloquio
con un ipotetico utente. Il risultato non fu positivo. I supervisori le spiegarono
che trovavano il suo stile di conduzione del colloquio arrogante, quasi privo
di sensibilità; uno stile, insomma, che non avrebbe certo contribuito all’empo-
werment dell’utente. Da parte sua, Gianna aveva sempre ritenuto di avere uno
stile autorevole, da persona sicura di sé. Riguardando il filmato del colloquio,
però, si rese conto che aveva quasi «monopolizzato» la conversazione, senza
permettere all’altra persona di contribuire attivamente al suo svolgimento.

233
L’uso della propria soggettività
I colloqui non si riducono mai al semplice esercizio di una
tecnica. Al contrario, sono sensibilmente condizionati dalla
personalità, dall’esperienza, dalle competenze di chi li conduce.
Dipendono molto, cioè, da quanto — e da come — l’operatore
investe della propria dimensione soggettiva. Potremmo scegliere,
tra le altre cose, di fare degli esempi che nascono dalla nostra
esperienza personale, per aiutare gli altri a comprendere una
particolare situazione, o per indicare loro degli scenari alter-
nativi. Questa operazione, però, presta sempre il fianco a due
rischi che andrebbero assolutamente evitati:
1. Il tentativo di imporre le proprie idee, o i propri valori, alla
situazione vissuta dall’altra persona, senza tenere conto delle
differenze tra le rispettive esperienze di vita;
2. Il tentativo di ridimensionare i problemi degli altri, una volta
messi a confronto con i nostri. Così facendo, rischiamo di
trasmettere il messaggio che non prendiamo quella situazione
sul serio, o che la banalizziamo.
Ciascuno di noi ha degli aspetti della propria personalità, o
della propria esperienza di vita, che possono tornare utili agli altri.
Riconoscere questo dato di fatto può servire a darci la fiducia in
noi stessi che è indispensabile per fare buon uso di questi aspetti.

Sopportare i momenti di silenzio


Certi colloqui, specie quando affrontano questioni di
grande rilevanza emotiva, possono anche richiedere dei mo-
menti prolungati di silenzio. È quello che avviene, ad esempio,
quando il nostro interlocutore è troppo sconvolto per parlare, o
ha bisogno di una pausa di riflessione. Capita spesso, in questi
momenti, che ci sentiamo profondamente a disagio. Sentiamo,
magari, che spetta a noi riempire il prima possibile quel «vuoto»

234
improvviso; che è compito nostro dire qualcosa — al limite
qualsiasi cosa — per interrompere quel fastidioso silenzio.
Nonostante la tensione che proviamo, però, è fondamentale
che sappiamo resistere alla tentazione di «riempire il silenzio».
Dovremmo imparare a sopportare anche i momenti di silenzio,
per più di una buona ragione:
–– come segno di rispetto per la persona, e di sensibilità nei
confronti dei suoi vissuti emotivi;
–– perché, in caso contrario, rischiamo di compromettere la
relazione di fiducia con il nostro interlocutore, che tenderà
ad allontanarsi da noi;
–– perché, infine, la capacità di sopportare i momenti di silenzio
è percepita dalla persona come un segnale di sostegno nei
suoi confronti.
Per quanto sia difficile da tradurre in realtà, la capacità di
reggere i momenti di silenzio e di usarli a beneficio di chi ab-
biamo di fronte è una competenza preziosa, che vale senz’altro
la pena sviluppare.

Mantenere i confini
Le interazioni interpersonali possono avvenire su vari
livelli e in «sfere di vita» diverse. Ci sono sempre, a seconda
delle circostanze, delle regole sociali che definiscono i compor-
tamenti più appropriati a ogni situazione. Esiste però il rischio
che il colloquio, se non viene condotto con attenzione, possa
trasgredire queste regole. È una «trasgressione» che può assumere
tante forme diverse, tra le quali:
–– La violazione della riservatezza, che rappresenta — come si
è visto nel capitolo precedente — una questione di grande
importanza. È necessario riconoscere, però, i «confini» entro
i quali essa può essere effettivamente rispettata.

235
–– Un aspetto importante del lavoro con le persone è dato dalla
qualità dei rapporti con i nostri interlocutori. Un «buon rap-
porto», però, è cosa diversa dall’amicizia, la quale può anche
pregiudicare, a volte, il buon esito di un intervento professio-
nale. È importante, quindi, non perdere di vista la distinzione
tra semplici rapporti interpersonali e rapporti professionali.
–– Gli operatori si inscrivono, generalmente, in una rete più
ampia, che comprende altre figure professionali e/o volontari.
C’è sempre il rischio latente che, nell’ansia di renderci utili a
tutti i costi, ci facciamo carico di mansioni che spetterebbero
ad altri. Il che può avere effetti negativi, sotto quattro punti
di vista:
1. È probabile che l’operatore a cui «togliamo il lavoro» sia
più esperto di noi nello specifico compito di cui si occupa.
2. Queste «invasioni di campo» possono generare risentimenti
e ostacolare lo sviluppo delle partnership.
3. Dedicare del tempo al lavoro altrui sottrae del tempo, ine-
vitabilmente, alle attività di nostra specifica competenza.
4. Se svolgiamo mansioni che non siamo ufficialmente tenuti
a svolgere, non è detto che il nostro datore di lavoro o
la nostra assicurazione ci possano coprire nel caso in cui
qualcosa andasse storto.

La struttura del colloquio


Così come per le forme di comunicazione scritta, anche
per i colloqui è bene disporre di una struttura definita. Si tratta
di seguire, in linea di massima, lo stesso modello tripartito che
è stato presentato a proposito delle relazioni scritte (si veda il
capitolo quattordicesimo):
1. La tappa introduttiva. È questa la fase iniziale del colloquio,
che spesso comprende alcune espressioni di cortesia, con
l’obiettivo di aiutare le persone a rilassarsi e a calarsi nel

236
proprio ruolo. È anche importante, in questa fase, esplicitare
le finalità e l’oggetto specifico del colloquio. Se questi aspetti
non vengono chiariti fin dall’inizio, si rischia che l’intero
svolgimento del colloquio ne risulti condizionato e che si
crei un clima di diffidenza tra le parti coinvolte.
2. La parte centrale. La fase intermedia è quella in cui si deve
svolgere gran parte del colloquio. Nel corso di questa fase
si scambiano le informazioni rilevanti e si sviluppa l’attività
di problem solving. È questo lo snodo in cui si assumono
decisioni, si prendono accordi, si affrontano i conflitti e si
realizzano — o si interrompono — eventuali progressi.
3. La conclusione. Trarre le fila di un colloquio, quando ormai
ci si avvicina alla conclusione, è un compito che richiede
competenze elevate: si tratta di fare sintesi dei contenuti
trattati, di stabilire che cosa potrebbe accadere nel futuro
immediato (ad esempio la data e l’orario di un nuovo collo-
quio), di verificare che la persona abbia compreso bene gli
accordi presi, e via discorrendo. In questa fase può anche
essere utile qualche frase con tono informale, da chiacchie-
rata, per chiudere l’interazione.
Organizzare i colloqui in questo modo ci aiuta a non
perdere di vista gli obiettivi perseguiti e contribuisce a dare
professionalità al nostro operato. È importante, però, non
confondere l’idea di «struttura» con quella di «rigidità». I due
concetti, infatti, non coincidono. Occorre sempre un certo
grado di flessibilità. Su come costruire un buon equilibrio, via
via, tra struttura e flessibilità, si ritornerà nel corso del capitolo
ventiduesimo.

Riassunti e feedback
Come ho già ricordato, saper fare un buon riassunto è un
aspetto importante nella conclusione di un colloquio. Questa

237
stessa capacità, però, può rivelarsi utile anche nelle fasi prece-
denti. Saper riassumere alla persona con cui si parla gli aspetti
essenziali di quello che si è detto può risultare utile per molti
motivi:
–– per confermare all’altra persona che la stiamo ascoltando;
–– per far emergere le eventuali incomprensioni, o i frainten-
dimenti che potrebbero essersi realizzati precedentemente;
–– per chiarire meglio i punti d’accordo e di disaccordo;
–– per riepilogare l’andamento del colloquio nel suo insieme,
evidenziando i vari fili tematici che si sono intrecciati in esso;
–– per lasciare all’altra persona un po’ di tempo e di spazio per
riflettere, o per rielaborare quanto le è stato detto;
–– per incoraggiare la collaborazione, esplicitando un punto di
vista condiviso dall’altra persona;
–– per contribuire a fare sì che il colloquio non «esca dal semi-
nato», sino ad andare completamente fuori tema.

Gli errori da evitare

Se è importante acquisire le abilità appena descritte, per


gestire bene un colloquio, occorre anche evitare tutta una serie
di errori. La stessa capacità di aggirarli rappresenta, di per sé,
qualcosa di prezioso da imparare. È assai utile, quindi, com-
prendere bene quali siano i rischi che si possono correre più di
frequente. A tale scopo, ci accingiamo a descrivere alcuni dei
classici «tranelli» in cui si può incorrere nella conduzione di un
colloquio (vedi anche la figura 15.1).

Le dinamiche collusive
Berne (1968) ha descritto tutta una serie di «giochi» che
si possono innescare nelle relazioni interpersonali. Tali dina-

238
miche possono impedire uno svolgimento sereno e costruttivo
del colloquio. In altri termini, possono ostacolare il normale
svolgimento dei processi di comunicazione.
Non di rado, queste dinamiche fanno leva su un elemento
«collusivo». È quello che avviene, ad esempio, quando si crea
un tacito accordo tra le parti, del tipo: «Io non ho intenzione di
provocarti, se tu non mi provochi». Accordi di questo genere,
quasi mai esplicitati ma per nulla infrequenti, si traducono
in una complessa «ragnatela» di sottili accorgimenti, basati
sulla complicità di entrambi gli interlocutori. Quando questo
avviene, le possibilità di realizzare un buon colloquio — in
termini di collaborazione e di empowerment — si riducono
notevolmente.

Dinamiche
collusive
Incapacità
di cogliere le
Chiacchiere
implicazioni della
a vuoto
struttura
sociale
ERRORI
DA EVITARE

False Gergo
rassicurazioni specialistico

Promesse

Fig. 15.1 Gli errori da evitare.

239
L’incapacità di cogliere i risvolti della struttura sociale
Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza a non
notare, o a evitare deliberatamente, tutte le questioni legate
allo «status quo» della struttura sociale. Si parla ad esempio,
nel mondo anglosassone, di colour blindness — cioè di «cecità
al colore» (della pelle) — per indicare l’incapacità di tenere
conto delle differenze culturali e degli effetti del razzismo. Si
parla altresì di gender blindness, o di «cecità di genere», quando
si vuole alludere a una visione del mondo unilaterale, che pone
gli uomini e il genere maschile come «unità di riferimento» della
normalità, senza rivolgere attenzione ai problemi, o ai punti di
vista, delle donne.
Quanti lavorano con le persone dovrebbero sempre fare
attenzione a tutti i fattori strutturali che possono alimentare
processi di discriminazione e di oppressione: appartenenza
etnica, genere, età, disabilità, e così via. Anche in sede di collo-
quio, se non si tiene adeguatamente conto di questo, si rischia
di perpetuare le forme di disuguaglianza preesistenti.

Il gergo specialistico
Si è già detto più volte dell’esigenza di esprimersi sempre in
modo chiaro. Un aspetto che va ancora messo in risalto, però, è
rappresentato dai problemi che possono derivare dall’impiego
di espressioni gergali nel corso di un colloquio. Le espressioni
gergali possono senz’altro essere utili per indicare distinzioni e
sfumature di tipo tecnico, che sarebbero difficili da formulare
con il linguaggio colloquiale. Usate in modo inappropriato,
però, tali espressioni possono ostacolare non poco la comuni-
cazione tra le parti.
Occorre inoltre riconoscere che non sempre, quando fac-
ciamo uso di espressioni gergali, ce ne rendiamo conto. Bastano
una parola che a noi sembra semplice, o una sigla non spiegata,

240
per generare confusione e diffidenza nei nostri interlocutori,
se non facciamo attenzione alla differenza tra il linguaggio
specialistico e quello della vita di tutti i giorni.

Le promesse
È facile cadere nella tentazione di fare delle promesse, nel
corso di un colloquio. È una tentazione, però, a cui occorre
assolutamente resistere. Raramente, infatti, si può avere la cer-
tezza di mantenerle; d’altro canto, una promessa insoddisfatta
può mettere gravemente a rischio la fiducia nei confronti di
chi l’aveva fatta.
Anche le promesse più semplici non sempre possono
essere mantenute, sia pure per i motivi più banali, come, ad
esempio, una malattia o cause di forza maggiore. Oltretutto,
molti si trovano a lavorare in un contesto di aspettative sempre
più elevate e difficili da soddisfare; è senz’altro possibile che
certe promesse, per quanto formulate in buona fede, debba-
no poi cedere il passo a priorità di altra natura. La massima
«non fare delle promesse che non potrai mantenere» è sempre
d’attualità; e nel campo dell’insegnamento, del lavoro sociale,
dell’assistenza sanitaria, le promesse che possiamo avere la cer-
tezza di mantenere sono davvero assai poche. Di qui l’esigenza
di usare grande cautela.

Le false rassicurazioni
Questo aspetto è una diretta conseguenza di quello che
abbiamo appena trattato. È pericoloso dare alle persone del-
le false rassicurazioni, se non vogliamo correre il rischio di
comprometterne la fiducia e il rispetto nei nostri confronti.
Di fronte a una persona in difficoltà, è facile cadere nella
tentazione di uscirsene con una frase del tipo: «Vedrai, tutto
andrà bene». Occorre che riflettiamo, però, su quello che po-

241
trebbe accadere qualora le cose non andassero tanto «bene».
In un momento di crisi, è comprensibile che una persona
faccia profondo affidamento sulle cose che le diciamo. È
importante, quindi, evitare di darle rassicurazioni infondate.
Si tratta, semmai, di rassicurarla entro i limiti di ciò che è
realistico (cosa che è perfettamente possibile), evitando di
raccontarle falsità.

Le chiacchiere a vuoto
Del fatto che occorre essere chiari e precisi nel definire
lo scopo del colloquio abbiamo già detto più volte in queste
pagine. Non andrebbe mai sottovalutato, pertanto, il rischio di
scivolare da un colloquio a un insieme di chiacchiere senza capo
né coda. Questo non significa che non ci sia alcuno spazio, in un
buon colloquio, per convenevoli o per chiacchierate informali.
Significa piuttosto che questi elementi dovrebbero rimanere
marginali, rispetto ai contenuti che andranno affrontati nel
corso del colloquio.

Uno sguardo alla pratica 15.2


Barbara era una studentessa in tirocinio che, tra gli altri suoi compiti, do-
veva accompagnare un assistente sociale nelle sue mansioni quotidiane.
Dopo la visita a una famiglia, Barbara era confusa, poiché non capiva che
senso avesse il colloquio a cui aveva appena assistito. Le sembrava che
tutto si fosse ridotto a una discussione generale rispetto alla situazione
della famiglia, senza nessuna precisa finalità. Facendosi coraggio, Bar-
bara fece presente questa sua perplessità. La risposta che ottenne, però,
fu scoraggiante: «Non mi piace essere sempre irreggimentato nelle cose
che faccio; preferisco prendere le cose così come vengono». Agli occhi di
Barbara, quella risposta fu un’ulteriore conferma della confusione di idee
e della scarsa capacità di progettare le cose dell’operatore con cui stava
facendo il tirocinio.

242
Conclusione

Saper condurre bene un colloquio, per chi lavora con le


persone, è un’abilità fondamentale. Si tratta di un’attività che
richiede, come abbiamo visto, notevoli competenze, e che presta
il fianco a molteplici difficoltà. Con la pratica — tanto più se
questa è orientata da principi adeguati — è possibile sviluppare
e affinare le abilità che di volta in volta si rendono necessarie.
Così facendo riusciremo anzitutto a evitare gli errori più gravi.
Con l’esperienza, poi, potremo anche acquisire le abilità adatte
a fronteggiare particolari situazioni, o compiti specifici, come
tenere colloqui con adolescenti difficili, o trasmettere all’altra
persona la sicurezza necessaria per convincerla ad «aprirsi».
Condurre i colloqui è uno degli aspetti della pratica pro-
fessionale che racchiude le maggiori potenzialità sulla strada
di un continuo miglioramento — fino a raggiungere livelli di
eccellenza — e che consente, quindi, di trarre soddisfazione
dal proprio lavoro.

ESERCIZIO 15
Pianificare un colloquio
Quello che ti chiedo è di preparare il piano dettagliato di un colloquio,
reale (che intendi effettivamente condurre) o immaginario (che serve
soltanto per fare esercizio). Puoi fare riferimento al paragrafo Prima
del colloquio di questo capitolo. Usa lo spazio sottostante per prendere
appunti.

________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________
________________________________________________

243
Mucchielli
La relazione di aiuto, in particolare quando assume la forma più
strutturata del colloquio faccia a faccia, costituisce un essenziale
strumento di lavoro (l’unico a volte) per molte professioni. Quali
competenze e abilità deve esercitare un operatore per ricreare,
nella situazione di colloquio, dinamiche psicologiche favorevoli Roger Mucchielli
all’apertura emozionale, alla fiducia, alla chiarificazione? Come

Apprendere
può evitare di introdurre distorsioni, blocchi o regressioni? Il
presente volume, testo di riferimento a livello internazionale sul
counseling, illustra e presenta in dettaglio queste abilità e con-

il counseling
sente di esercitarle in modo diretto, tramite una serie di esercizi

APPRENDERE IL COUNSELING
appositamente predisposti. Unanimemente considerato il manuale
pratico più completo e approfondito per la formazione al colloquio
di aiuto, offre un testo ricco di esempi di colloquio aggiornati e
sempre attuali e di schede operative per esercizi individuali e di
gruppo.
Apprendere il counseling è un’opera destinata in modo particolare
agli operatori delle professioni di aiuto (psicologi, psicoterapeuti,
assistenti sociali, educatori, counselor) e agli studenti in formazio- Manuale di autoformazione
ne in questi specifici campi disciplinari, ma per la sua chiarezza
nell’esposizione e il suo taglio operativo può costituire un valido al colloquio di aiuto
supporto anche per molti altri professionisti (medici, insegnanti,
magistrati, avvocati, sacerdoti, amministratori, operatori assisten-
ziali, ecc.): una migliore abilità di comprensione e di relazione
interpersonale può rappresentare un essenziale arricchimento del
loro modo di essere e di operare.

€ 21,00
Primo esercizio

Ricerca delle cause di fallimento


o di insoddisfazione di un colloquio

A. Rievoca qui sotto le circostanze nelle quali tu, personalmente, hai chiesto un
colloquio a qualcuno per poterti spiegare a proposito di qualcosa (un fatto personale
o professionale, i risultati scolastici di un figlio, una richiesta di consulenza d’orienta-
mento, una consulenza giuridica, un colloquio preliminare per concludere un accordo,
ecc.) e in cui, avendo ottenuto il colloquio, te ne sei ripartito con la sensazione di non
essere riuscito a farti comprendere, a farti «intendere». Annota tutti i casi di questo
tipo di cui ti ricordi e descrivi in poche parole come è avvenuto.

Spazio per annotazioni

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


114 Apprendere il counseling

B. Riprendendo adesso questi casi uno alla volta, cerca i motivi del fallimento
del colloquio.

Spazio per annotazioni

C. Prendendo in esame l’esperienza derivata dalla partecipazione a colloqui in


cui hai sostenuto il ruolo di intervistato:
– Sistema in ordine di importanza reale (quindi di maggior frequenza) le 20 cause
di fallimento di un colloquio enumerate alla pagina seguente (dove compaiono in
ordine alfabetico).
– Spiega quello che avviene, a tuo avviso, in ciascun caso tra i due partner (psicologia
della loro relazione interpersonale).

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


Primo esercizio 115

Dapprima leggi tutta la lista, poi utilizza, per rispondere, la tabella delle pagine
seguenti.
1. Antipatia (sia immediata, sia provata successivamente nel corso del colloquio)
nei confronti di colui o di colei che ti riceve.
2. A priori, preconcetti o pregiudizi, da parte tua, nei confronti dell’altro e «delle
persone di quel tipo».
3. Arredamento generale e mobilio insolito, scomodo, che non favorisce il rilassa-
mento.
4. Aspetto fisico scioccante, che impressiona negativamente.
5. Differenza d’età imbarazzante (in qualsiasi senso).
6. Difficoltà da parte dell’intervistato a «situare» esattamente il ruolo, le responsabilità
o il potere di colui che lo riceve.
7. Diversità di sesso imbarazzante.
8. Idee preconcette (derivate anche da esperienze precedenti) sul colloquio come
«avrebbe dovuto» svolgersi e sconcerto davanti alla realtà.
9. Impressione sgradevole di un preconcetto o di un pregiudizio dell’interlocutore
verso di te e «le persone come te».
10. Interruzione e disturbo provenienti dall’esterno.
11. L’interlocutore è distratto, non ascolta.
12. L’interlocutore sostiene di non essere competente, ti indirizza a un altro oppure
resta nel vago, rimanda a più tardi, desiste pur mostrandosi cortese.
13. L’interlocutore ti fa dire ciò che non hai detto e questo si ripete nel corso del
colloquio.
14. L’interlocutore ti interrompe, non ti lascia spiegare completamente il tuo punto di
vista o si mette a parlare d’altro, racconta cose personali o fa delle digressioni.
15. L’interlocutore ti muove dei rimproveri, ti biasima, ti giudica, contesta ciò che hai
appena incominciato a dire.
16. Locale rumoroso, angusto, o al contrario molto grande, che mette a disagio per
la sua disposizione e l’impressione che dà.
17. Mancanza di tempo. L’interlocutore ha fretta; lo dice o ce ne si accorge.
18. Momento mal scelto, sia per te che per l’interlocutore.
19. Posizione spaziale rispettiva molto fastidiosa (scrivania che separa, poltrone
morbide in cui ti senti come sprofondato, interlocutore poco visibile, ecc.).
20. Status sociale elevato dell’interlocutore (o grande differenza di status sociale tra
i due partner, a vantaggio di colui che ti riceve), il che non ti mette a tuo agio o
disturba l’esposizione del tuo punto di vista personale.

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116 Apprendere il counseling

Ordine di Numero d’ordine della lista Descrizione


importanza precedente o richiamo della degli effetti psicologici
secondo te «causa di disturbo» sul colloquio

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Primo esercizio 117

Ordine di Numero d’ordine della lista Descrizione


importanza precedente o richiamo della degli effetti psicologici
secondo te «causa di disturbo» sul colloquio

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Terzo esercizio

Dieci frammenti di colloquio:


test degli atteggiamenti spontanei

Troverai qui di seguito dieci frammenti di colloquio. A ciascun frammento corri-


spondono, nelle pagine che seguono, sei risposte differenti. Leggi attentamente ciò
che dice il soggetto del primo frammento, immaginando il personaggio e la situazione
descritta come se fosse la tua.
Supponiamo poi che questa persona sia da te conosciuta a un livello sufficiente
perché essa possa dire ciò che dice come lo dice, e che tu debba risponderle. Leggi
allora tutte e sei le risposte proposte per ciascun frammento considerato. Lasciandoti
portare dalla tua spontaneità (vale a dire senza cercare di capire se la risposta è ogget-
tivamente buona oppure no), cerchia il numero della risposta che più si avvicina (o è
meno distante) a quella che tu avresti dato a questa persona nelle stesse circostanze.
In seguito fai lo stesso per tutti gli altri frammenti.

Frammenti di colloquio

CASO 1. Donna di 37 anni (voce stanca)


Non so proprio che cosa fare. Ah! Non so proprio se devo riprendere il mio
posto di centralinista… mi dà talmente ai nervi, riesco a sopportarlo a malapena…
ma è un posto sicuro e con un buono stipendio; quindi, allora, o piantare lì tutto e
fare solo quello che mi interessa davvero, in ogni caso un lavoro meno monotono,
ma questo vorrebbe dire ricominciare daccapo con una retribuzione molto bassa…
Non so se riuscirei a farlo o no…
Dopo la lettura di questo frammento, vai alla sezione «Risposte» per indicare
quale risposta sceglieresti fra le sei proposte. Lo stesso vale per gli altri frammenti.

CASO 2. Uomo di 30 anni (voce strana, ingenua, rozza)


Ho proprio uno strano sentimento: quando mi capita qualcosa di bello, ecco,
non sono capace di crederci, faccio come se non fosse successo, mi dà un fastidio!

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126 Apprendere il counseling

Volevo un appuntamento con Laura, le ho girato attorno per delle settimane prima di
avere abbastanza coraggio da chiederle un appuntamento… e lei ha detto di sì. Non
potevo crederci. Non riuscivo talmente a crederci che non sono nemmeno andato
all’appuntamento.

CASO 3. Uomo di 35 anni (voce forte, scandita, aggressiva)

Sono deciso a fare qualcosa; non ho paura di lavorare sodo, non ho paura di
ricevere dei colpi pesanti a patto di avere ben chiaro in che direzione sto andando!
Non ho per niente paura di passare sopra agli altri se li trovo sul mio cammino poiché
voglio tutto per me! Non posso accontentarmi di un lavoro mediocre! Voglio diventare
qualcuno!

CASO 4. Donna di 30 anni (voce scoraggiata)

Sono dieci anni che abito in questa città e sette anni che vivo nello stesso ap-
partamento, ma non conosco nessuno. In ufficio mi sembra di non potermi fare degli
amici, è come se fossi paralizzata. Mi sforzo di essere gentile con gli altri colleghi ma
mi sento come contratta e a disagio; allora mi dico che non me ne importa niente.
Non si può fare affidamento sulle persone. Ognuno pensa per sé. Non voglio amici e
qualche volta finisco per esserne veramente convinta.

CASO 5. Ex militare di 30 anni (furore e amarezza contemporaneamente)

A che serve! Nessuno è corretto con me. Quelli che sono rimasti a casa hanno
avuto le cose migliori, hanno approfittato di noi mentre eravamo in missione a rischiare
la pelle. Vadano al diavolo tutti quanti! Fanno il doppio gioco. Quanto a mia moglie…
[silenzio] ah sì!…

CASO 6. Uomo di 35 anni (voce chiara e decisa)

Io so che potrei farcela in questa faccenda; tutto ciò che occorre è una visione
complessiva del problema, un po’ di buon senso e il coraggio di tentare. Io queste
cose ce le ho tutte. Se riuscissi anche ad avere un aiuto per il denaro non esiterei un
attimo a lanciarmi.

CASO 7. Uomo di 46 anni (voce amara e tesa)

Ecco, è uno che è appena arrivato in azienda ma è uno furbo, ha sempre la


risposta pronta, crede di essere un genio. Ma Buon Dio!… non sa con chi ha a che
fare! Sarei capace di fare meglio di lui se volessi!

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Terzo esercizio 127

CASO 8. Donna di 28 anni (voce tesa, arrabbiata, contenuta)

Quando la guardo! … Non è carina quanto me, è anche meno intelligente, non
ha stile e io mi chiedo come farà a incantare così tante persone. Come fanno a non
accorgersene con tutte quelle smancerie? Riesce sempre a fare qualunque cosa e
tutti rimangono ammirati per come c’è riuscita. Non la posso soffrire! Mi fa impazzire!
Riesce ad avere tutto ciò che vuole! Ha avuto il mio posto, ha avuto Stefano, me l’ha
letteralmente rubato e poi ha osato negare! Quando l’ho messa davanti all’evidenza,
quando le ho detto ciò che pensavo ha risposto: «Mi dispiace!». Ma… Bene! Gliela
farò vedere io!

CASO 9. Dialogo tra il medico del lavoro e Martino, impiegato neoassunto

– Allora, Martino, come va con i colleghi d’ufficio?


– Ah, che vadano al diavolo! Io ho cercato di fare del mio meglio, ma quando il
direttore e il suo vice si sono arrabbiati con me perché avevo fatto un errore nel
compilare una fattura complicata questo mi ha… cerco di fare meglio che posso…
cerco veramente di fare meglio che posso, ma quando arrivano a dirmi che non è
abbastanza… questo mi dimostra sempre più chiaramente che sono un buono a
nulla.

CASO 10. Frammento di dialogo tra uno studente e il responsabile del suo piano
di studio

– Avanti! Cosa posso fare per te?


– Professore, vorrei che mi aiutasse per quanto riguarda il programma del prossimo
trimestre invernale. Ho chiesto a diverse persone un consiglio su quello che devo
scegliere, ma mi dicono tutti una cosa diversa dall’altra ed è difficile per me decidere
che cosa fare. Lei ritiene… Sono soltanto al primo anno e non so proprio che cosa
sia meglio…

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128 Apprendere il counseling

Risposte
Caso 1 Scelta

1. Puoi dirmi prima di tutto che cos’è che ti interessa attualmente?


È importante che ci riflettiamo sopra.
2. Attenzione, prima di lanciarti in qualcosa di nuovo, dovresti essere
sicura che questo sia effettivamente più vantaggioso e che non
rischi di lasciare il certo per l’incerto.
3. Beh, via, non c’è da disperarsi! Si tratta di sapere a quale altra
mansione potresti essere assegnata. Posso farti avere un colloquio
con il capo del personale.
4. Il tuo imbarazzo ha una doppia spiegazione: da un lato sei titu-
bante nell’abbandonare il posto che occupi attualmente; dall’altro,
soprattutto, non sai quale altro impiego ti convenga.
5. Ti trovi in una situazione di conflitto: o correre i rischi legati all’inizio
di un lavoro completamente nuovo oppure scegliere la sicurezza
di un posto di lavoro che però non ti piace.
6. Ti stai preoccupando troppo: non è certo logorando i tuoi nervi
che risolverai le tue difficoltà. Non bisogna ridursi in questo stato.
Tutto finirà per sistemarsi.

Caso 2 Scelta

1. Bisogna maturare, ragazzo mio, ed essere un po’ più realisti


per quanto riguarda le donne. Sono esseri umani anche loro;
desiderano degli incontri tanto quanto te.
2. Così ti sembra sempre irreale quando ti capita qualcosa di bello.
3. Ti sei talmente convinto che non ti possa succedere niente di
bello, che quando avviene ti sembra impossibile che possa essere
vero.
4. Mi chiedo se questa sensazione di irrealtà non possa essere
collegata a un momento particolare della tua esistenza. Potresti
spiegarmi un po’ meglio cosa volevi dire con «quando mi capita
qualcosa di bello»?
5. Ma ti sembra il caso di prendersela tanto? Tutti noi abbiamo
superato sensazioni o desideri strani. Sono convinto che riuscirai
a superare questa situazione.

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Terzo esercizio 129

Caso 2 Scelta

6. Penso che questa esperienza ti possa servire di insegnamento.


La prossima volta, dovrai sforzarti di accettare la buona sorte.

Caso 3 Scelta

1. Insomma, ti comporti da ambizioso perché devi provare a te


stesso il tuo valore.
2. Tu credi che occorra comunque essere il primo, indipendentemente
dagli sforzi e dai mezzi che si devono impiegare per riuscirci?
3. Cos’è, secondo te, che ti spinge con così grande decisione a
cercare di diventare qualcuno?
4. Ti interesserebbe sottoporti a qualche test per determinare in
quale settore potresti avere miglior successo? Potrebbe essere
molto vantaggioso per te, anche se è senz’altro possibile che
con la tua determinazione tu possa farcela in molte situazioni.
5. Una grande ambizione può essere veramente una situazione di
vantaggio per qualcuno. Tuttavia, sei certo di pensare veramente
quel che dici, cioè che non ti importerebbe nulla di passare sopra
chiunque ti ostruisca il cammino? Non pensi che questo potrebbe
rivelarsi più negativo che positivo per te?
6 Le tue opinioni sono senza dubbio decise, ma devi calmarti,
pensarci sopra e vedrai che riuscirai a trovare il tuo sangue freddo
senza perdere l’entusiasmo.

Caso 4 Scelta

1. Sei troppo pessimista. Non può mica andare sempre così. Vedrai
che per forza di cose prima o poi qualcuno si avvicinerà a te.
2. Conosco altre persone nella tua situazione. Però loro sono riu-
scite a costruirsi delle relazioni piacevoli frequentando qualche
associazione. L’importante è non convincersi che si deve restare
soli per forza.

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130 Apprendere il counseling

Caso 4 Scelta

3. Forse, se mi racconti qualcosa di più sul modo con cui cerchi


di farti degli amici, potremmo avere un’idea più chiara di quello
che non va.
4. Questa situazione dura da così tanto tempo che hai finito per
convincerti che non ci sono alternative. È questo che volevi dire?
5. Forse non vuoi farti degli amici unicamente per proteggerti da
qualcos’altro.
6. È spiacevole non avere amici ed è veramente il caso di affron-
tare le situazione. C’è un certo numero di cose che potresti
fare per imparare a farti degli amici, e più presto comincerai,
meglio sarà.

Caso 5 Scelta

1. Avevi cominciato a dirmi qualcosa a proposito di tua moglie…


2. La sensazione di essere sfruttati fa diventare sospettosi…
3. Non ti senti rispettato e questo ti fa arrabbiare perché ritieni di
aver diritto a dei riguardi più di altri.
4. Capisco le tue sensazioni attuali, ma questo ti impedisce di andare
avanti se non cerchi di superarle.
5. Non sei l’unico a essere arrabbiato. E con validi motivi, anche.
Tuttavia con il tempo riuscirai a dimenticare e a rimetterti in
corsa.
6. Sei attirato dall’idea di vendicarti, ma ciò complica sempre le
cose, o no?

Caso 6 Scelta

1. Forse desideri l’indirizzo di un consulente finanziario; in questi


casi occorrono sempre delle informazioni prima di accedere a
dei prestiti.
2. Perfetto. Bisogna essere sicuri di sé se si vuole ottenere qualco-
sa. Cominciare esitando può veramente rovinare tutto. Sei sulla
buona strada e ti auguro di farcela.

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


Terzo esercizio 131

Caso 6 Scelta

3. Se tu potessi avere i fondi per iniziare, saresti certo di ricavarne


un guadagno.
4. Ti senti sicuro di poter riuscire poiché ti rendi effettivamente conto
di quello che serve perché l’affare vada a buon fine. Quando si
vedono le cose così chiaramente, la sicurezza viene da sé.
5. Hai già analizzato i rischi che dovrai correre?
6. Ti poni molti problemi per ciò che riguarda il denaro, il modo di
procurartelo e l’arte di servirtene.

Caso 7 Scelta

1. Tu pensi di dover essere il primo. È veramente importante per te


restare sempre il migliore.
2. Assumendo fin dall’inizio un simile atteggiamento nei confronti
di questo nuovo venuto, le cose si possono complicare.
3. Ciò richiederà, senza dubbio, di agire con molto metodo e rifles-
sione, cosa che tu puoi benissimo fare.
4. Questo nuovo venuto che sembra così arrogante ti fa venir voglia
di superarlo!
5. Via! Bisogna saper stare al gioco! Pensi davvero che sia così
importante riuscire a superarlo?
6. Ti sei informato accuratamente sui precedenti e sulle funzioni
attuali di questo tuo collega in azienda? Che cosa sai a questo
proposito?

Caso 8 Scelta

1. Questa tipa assomiglia a qualche altra ragazza con cui hai avuto
a che fare?
2. Pensi che lei riesca ad avere ciò che, in realtà, dovrebbe spettare
a te.
3. Si direbbe che tu abbia assunto un atteggiamento un po’ violento
nei suoi confronti. Tutti abbiamo dei pregiudizi nei confronti di
qualcuno, tuttavia è molto raro che ne ricaviamo qualcosa di
positivo.

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


132 Apprendere il counseling

Caso 8 Scelta

4. È un tipico caso di gelosia provocato dalla presenza di una per-


sona che è forse un po’ più capace o più accorta di noi.
5. Perché non provi a osservarla e a batterla sul suo terreno? Se
è tutto un bluff, dovresti riuscire ad averla te l’ultima parola.
6. Alla tua età si è naturalmente molto sensibili a ogni delusione, ma
si ha il vantaggio di essere più ragionevoli e di avere maggiore
esperienza della vita.

Caso 9 Scelta

1. Via, Martino, cerca di fare il punto! È proprio così grave questa


faccenda? Basta non drammatizzare!
2. In altri termini, appena ricevi una critica, hai la tendenza a mostrarti
colpevole?
3. Avevi fatto del tuo meglio, ma ti hanno fatto rilevare che avevi
commesso uno sbaglio, così di colpo ti sei messo a pensare di
non valere nulla.
4. Dai, amico, se ti lasci smontare da una cosa simile, allora sì che
dimostrerai di essere un buono a nulla!
5. Dimmi, Martino, è solamente a causa di questo episodio che hai
iniziato a dubitare di te stesso?
6. A questo punto devi prendere in considerazione tutto ciò che
sei riuscito a fare cercando di non farti confondere dalle tue
imperfezioni. Fai un bilancio dei tuoi successi.

Caso 10 Scelta

1. Se ho ben compreso, ritieni di non essere in grado di decidere


autonomamente.
2. Se ho ben capito, desideri parlare di quali insegnamenti opzionali
metterai nel tuo piano di studi.
3. Andiamo! Se tu pensassi con la tua testa, per decidere cosa devi
fare e vuoi fare, invece che stare ad ascoltare ciò che dicono gli
altri, forse ne avresti un maggior vantaggio!

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


Terzo esercizio 133

Caso 10 Scelta

4. Ecco, io mi chiedo se la soluzione dei tuoi problemi non dipenda


maggiormente dall’avere più fiducia in te stesso piuttosto che nel
fare una determinata scelta nell’ambito dei corsi.
5. Certo, adesso ci pensiamo. Talvolta è abbastanza difficile trovare
la propria collocazione nella struttura universitaria.
6. Hai già fatto il calcolo delle ore richieste per frequentare i corsi
da seguire e quello del tempo che hai a disposizione?

Registrazione delle risposte

Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso Caso
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

A 2 1 5 6 6 2 5 3 4 3

B 4 2 1 5 2 6 1 4 2 2

C 6 5 6 1 5 4 3 6 1 5

D 1 4 3 3 1 5 6 1 5 6

E 3 6 4 2 4 1 2 5 6 4

F 5 3 2 4 3 3 4 2 3 1

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


134 Apprendere il counseling

Utilizzazione dell’esercizio a livello individuale

Comincia con il riportare il numero della risposta scelta per ogni frammento nella
tabella della pagina precedente, ad esempio colorando in rosso (o tratteggiando) la
casella che, per ognuno dei dieci casi, contiene il numero della tua risposta spontanea,
senza preoccuparti delle lettere che si trovano nella prima colonna a sinistra.
Dovresti poter evidenziare alcune cose:
– innanzitutto una certa riga dominante, quella che, in orizzontale, contiene il maggior
numero di caselle colorate o tratteggiate (5 o più);
­– in seguito, una sottodominante, vale a dire la riga che, dopo la dominante, contiene
il maggior numero di caselle colorate o tratteggiate (3 o 4) (si può avere più di una
sottodominante);
­– infine, delle caselle isolate, vale a dire soltanto una o due risposte per riga.
Puoi valutare autonomamente l’importanza della tua tendenza dominante e
sottodominante osservando il numero di caselle colorate o tratteggiate sulle dieci di-
sponibili, dato che ti è stato richiesto di rispondere a dieci frammenti. Una dominante
di nove caselle su dieci, ad esempio, denota un atteggiamento rigido e sistematico,
mentre un massimo di quattro caselle per riga indica solamente una tendenza. Può
succedere che non vengano individuate né dominanti né sottodominanti (ossia nessuna
riga contiene più di due caselle colorate o tratteggiate). Il senso di questo fenomeno
viene descritto in seguito.

Significato delle dominanti

La lettera che, nella tabella, nella prima colonna a sinistra, corrisponde alla tua
riga dominante, indica la tendenza abituale o cronica della tua personalità nei rapporti
con gli altri in situazione di colloquio o quando si raccolgono delle confidenze. In altre
parole, I’esercizio denota (o ti permette di rilevare) il tuo atteggiamento cronico così
come emerge dalle tue risposte spontanee. Questo atteggiamento è uno dei sei
descritti nella tabella seguente.
Ti invitiamo a riflettere sul tuo atteggiamento cronico e a ricercare in buona fede tutti
i modi in cui ti esprimi con i tuoi vicini, con le tue amiche e amici, con i tuoi collaboratori.
Annota i tipi di reazione che hai frequentemente fatto scattare senza saperlo e
che ora puoi far risalire al tuo atteggiamento come induttore di queste reazioni.

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


Terzo esercizio 135

Lettere di riferimento Significato (tipo di atteggiamento abituale nel rapporto duale)

Le tue risposte sono valutative, vale a dire che esse


A implicano un’opinione etica personale e comportano un
Valutazione giudizio (di critica o di approvazione) nei confronti degli
altri. Ti atteggi a censore morale.

Le tue risposte sono delle interpretazioni di ciò che ti viene


detto. Non comprendi che ciò che vuoi comprendere,
B cerchi ciò che sembra essenziale a te e nella tua mente
Interpretazione cerchi una spiegazione. Infatti operi una distorsione
in rapporto a ciò che l’altro voleva dire; deformi il suo
pensiero.

Le tue risposte sono delle risposte di sostegno, che


C mirano ad apportare incoraggiamento, consolazione
Sostegno o compensazione. Sei molto conciliante e ritieni che si
debba evitare che gli altri drammatizzino.

Le tue risposte sono indagatrici. Sei smanioso di sa-


perne di più e orienti il colloquio verso ciò che sembra
D importante a te, come se accusassi l’altro di non voler
Investigazione dire l’essenziale o di perdere il tempo. Sei senza dub-
bio sbrigativo e incalzi il cliente chiedendogli ciò che ti
sembra essenziale.

Le tue risposte tendono a giungere a una soluzione im-


mediata del problema. Reagisci con l’azione e incitando
E all’azione. Vedi subito la soluzione che tu sceglieresti per
Soluzione te stesso in una simile situazione; non aspetti di saperne
di più. Con questo sistema ti sbarazzi velocemente del
cliente e delle sue lamentazioni.

Le tue risposte sono comprensive e riflettono il tentativo


di entrare sinceramente nel problema così come esso
viene vissuto dall’altro. Vuoi assicurarti di avere ben
F capito ciò che è stato detto. Questo atteggiamento dà
Comprensione
fiducia all’interlocutore e fa sì che egli si esprima più
compiutamente, poiché in questo modo ha la prova
che ascolti senza pregiudizi.

© 2016, R. Mucchielli, Apprendere il counseling, Trento, Erickson


xx

Geldard e Geldard
Kathryn e David Geldard ldard
Immaginate che qualcuno si rivolga a voi, per
La maggior parte di noi si trova, prima o poi, davanti ai problemi
th ry n Gelda rd e David Ge via di un problema che continua a preoccuparlo.
Ka

PARLAMI,
Lavorano insieme come counselor liberi professio- degli altri: persone che ci sono vicine nella vita privata, come amici Come pensate che potreste fare, per aiutarlo a
nisti e gestiscono training avanzati di counseling o parenti, o persone con cui abbiamo a che fare per lavoro, come sentirsi meglio? Potreste forse ripensare a un
per professionisti. Kathryn Geldard è una psicologa pazienti, alunni o colleghi. In una situazione di questo tipo, può momento in cui avete avuto un problema voi,
specializzata dell’età infantile e della famiglia e una e qualcun altro vi ha aiutato a superarlo. Vi

TI ASCOLTO
succedere di sentirsi a disagio oppure inutili, perché mancano gli
terapista occupazionale. ricordate che cosa avesse fatto quella persona?
strumenti per affrontarla al meglio.
Hanno pubblicato numerosi libri sul counseling, Perché una persona a disagio cominci a sentirsi
Questo libro, scritto in modo semplice ed efficace, accompagna il
concentrandosi soprattutto sulle problematiche dei
lettore a conoscere le principali abilità necessarie per saper ascol- un po’ meglio occorre, in generale, che si svolga
bambini e degli adolescenti.
tare gli altri e aiutarli nella vita di tutti i giorni. Il volume spiega
nseling nella vita quotidiana un determinato processo. Il passaggio chiave
le varie fasi del colloquio di aiuto (counseling), dal momento in Le abilità di cou è che la persona interessata avverta, da parte
cui si invita l’altra persona a parlare con noi fino al momento in vostra, un atteggiamento empatico, rispettoso e
cui si tenta di individuare una soluzione al problema. Attraverso disinteressato. Tra voi e il vostro interlocutore si
numerosi esempi concreti, esercitazioni e conversazioni-campione, dovrebbe creare una relazione che rappresenta,
vengono analizzate le diverse fasi dell’incontro e gli atteggiamenti a nostro giudizio, il vero elemento distintivo

PARLAMI, TI ASCOLTO
da assumere per ottenere i migliori risultati. del processo d’aiuto. È dalla qualità di questa
Per la sua chiarezza e il taglio pratico, questo libro risulta prezioso relazione, infatti, che dipende la reazione di
sia per chi desidera essere di sostegno a familiari e amici, sia per gli quella persona nei vostri confronti: se si sentirà
«addetti ai lavori», come operatori sociosanitari, educatori, assistenti effettivamente valorizzata, invece che giudicata.
sociali, insegnanti, medici e infermieri. A partire da qui, si potrà quindi sviluppare un
clima positivo, fatto di reciproca accettazione.
Aiutare qualcuno a stare meglio con se stesso,
comunque, è un’azione processuale: non si potrà
mai esaurire in un unico evento. È un processo che
inizia nel momento in cui qualcuno si rende conto
che ci sono altre persone (come noi) disponibili
ad ascoltare i suoi problemi, o a condividere i
suoi vissuti emotivi. Quel «qualcuno» avrà così
un’opportunità per riconoscere, rivivere, espri-
Collana mere e sfogare le sue emozioni. Così facendo,
CAPIRE CON IL CUORE potrà anche comprendere meglio i suoi motivi di

I Psicologia I Educazione I Disabilità I Culture I Narrativa turbamento, o di preoccupazione. A questo punto,


si troverà nella posizione giusta per affrontare il
Collana «nocciolo del problema».
CAPIRE CON IL CUORE
I Psicologia € 18,50
Educazione
Disabilità
Culture
Narrativa
Esempi pratici

Vi proponiamo alcuni esempi, tra gli infiniti possibili, delle


cose che vi potrebbe dire qualcuno che sta vivendo una situazione
di disagio. Per ogni esempio, potreste forse pensare alle risposte che
vi paiono più appropriate:
– per rispecchiare i vissuti emotivi;
– per rispecchiare i contenuti;
– per rispecchiare gli uni e gli altri.
Alla fine del capitolo, proveremo a suggerirvi le risposte che
avremmo probabilmente messo in campo noi.
L’importante, nelle risposte, è che vi sforziate di non ripetere alla
lettera le parole del vostro interlocutore. Dovreste cercare, inoltre, di essere
quanto più brevi possibili. Non è necessario che rispecchiate tutte le cose
che vi vengono dette; basteranno quelle che ritenete più importanti.
Va da sé che le vostre risposte potranno senz’altro essere diverse
da quelle che vi suggeriamo noi; ciascuno di noi è diverso da tutti gli
altri, e tenderà a reagire a modo suo. È probabile, del resto, che le
affermazioni del vostro interlocutore siano suscettibili di interpreta-
zioni ben diverse, specie se sono espresse in forma scritta. Se si tratta
di un colloquio, basta fare caso al tono di voce, in molti casi, per
capire se la persona che vi parla sia triste, allegra, o magari frustrata;
il che è impossibile quando le parole sono solo lette.
Esempio 1
«Mia madre è una signora ormai anziana. Ieri sera mi ha
telefonato per dirmi che era scivolata per terra. Da quello che
ho capito, deve essersi rotta un ginocchio, cadendo mentre
faceva le scale. Magari non vivessi così lontano da lei!».

Esempio 2
«Mia figlia è davvero disobbediente, continua a comportarsi
in malo modo. È una continua fonte di tensioni, perché si mette
sempre a litigare con suo fratello e con il padre».

Esempio 3
«Questo contratto, per me, è fondamentale. È veramente
strano: ho mandato un fax all’azienda la settimana scorsa,

94
e non mi è arrivata nessuna risposta. E sì che, fino adesso,
sembrava che ci tenessero molto anche loro a mettersi d’ac-
cordo con me, sui contenuti del contratto».

Esempio 4
«Mio figlio si sposerà a Birmingham. La sua futura mo-
glie è proprio una bella persona, non vedo l’ora di andare al
matrimonio».

Esempio 5
«Il mio capo ha veramente delle grandi idee. Un progetto come
questo andrà bene di sicuro. Dovrebbe andare bene anche per
me, visto che mi ha affidato l’incarico di coordinare il lavoro».

Esempio 6
«Il mio professore mi ha dato questa tesina da fare. È tutto
il giorno che cerco materiali e informazioni, per avere qualche
idea, ma non ho trovato proprio niente».

In conclusione

Quando fate uso della riformulazione, non è il caso che vi


preoccupiate troppo, se non sempre riuscite a essere precisi come
vorreste. Se il vostro modo di riformulare è inaccurato, infatti, è
probabile che il diretto interessato vi corregga, e così facendo riesca
anche ad esplicitare meglio il suo vissuto emotivo.
Ci siamo interrogati, in questo capitolo, sui modi possibili per
coinvolgersi con qualcuno e mostrargli un atteggiamento di rispetto
e di autentico interesse, ascoltandolo in modo da fargli capire che
quel che ci dice, per noi, è importante. Una volta che qualcuno
abbia cominciato a narrare la sua storia, potreste scoprire che questa
è motivo, per il diretto interessato, di confusione e di disorienta-
mento. Avrete quindi bisogno di districarvi in mezzo alle cose che
vi ha raccontato, così da aiutare anche lui a «vederci meglio dentro».
Facendo questo, gli sarà possibile mettere a fuoco, poco alla volta, i
problemi essenziali, quelli da cui dipendono tutti gli altri. Come tutto
questo, in concreto, sia possibile, sarà l’argomento a cui è dedicato
il prossimo capitolo.

95
Di fronte agli esempi pratici: le nostre risposte

Di fronte agli esempi che vi abbiamo proposto, vi riportiamo i


modi in cui, se li vivessimo in concreto, ci comporteremmo noi.
Esempio 1
«Sembri preoccupato» [Riformulazione del vissuto emo-
tivo]
«Sei preoccupato» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Tua madre si è fatta male» [Riformulazione del conte-
nuto]
«Sei preoccupato per via di tua madre» [Riformulazione del
vissuto emotivo e del contenuto]
«Sembra che tu sia preoccupato per via di tua madre, e
vorresti abitare in un posto più vicino a dove sta lei» [Rifor-
mulazione del vissuto emotivo e del contenuto]

Esempio 2
«Sembri arrabbiata» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Sei arrabbiata» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Tua figlia ti fa parecchio preoccupare» [Riformulazione
del contenuto]
«Sei arrabbiata, perché tua figlia ti fa preoccupare» [Rifor-
mulazione del vissuto emotivo e del contenuto]

Esempio 3
«Sei perplesso» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Sei preoccupato» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Sembri perplesso e preoccupato» [Riformulazione del
vissuto emotivo; facendo riferimento, in questo caso, a due
sensazioni distinte]
«Questa azienda ti aveva dato l’impressione di essere
interessata a trattare con te, ma poi non si sono più fatti vivi»
[Riformulazione del contenuto]
«Sei perplesso, e anche preoccupato, perché non hai più
ricevuto nessuna risposta dall’azienda» [Riformulazione del
vissuto emotivo e del contenuto]

Esempio 4
«Sembri felice» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Ho l’impressione che tu sia proprio felice» [Riformulazione
del vissuto emotivo]

96
«Chissà come sarai contenta» [Riformulazione del vissuto
emotivo]
«Andrai presto al matrimonio di tuo figlio, a Birmingham»
[Riformulazione del contenuto]
«Sembri proprio felice, all’idea di andare al matrimonio di tuo
figlio» [Riformulazione del contenuto e del vissuto emotivo]

Esempio 5
«Sembri contento» [Riformulazione del vissuto emotivo]
«Insomma, sei proprio contento» [Riformulazione del
vissuto emotivo]
«Il tuo capo ti ha assegnato un ruolo di responsabilità per
un progetto importante» [Riformulazione del contenuto]
«Sembri davvero contento, da quando ti hanno assegnato il
coordinamento di quel progetto» [Riformulazione del contenuto
e del vissuto emotivo]

Esempio 6
«Sembri proprio insoddisfatta» [Riformulazione del vissuto
emotivo]
«Sembra che tu sia insoddisfatta» [Riformulazione del
vissuto emotivo]
«Insomma, sei insoddisfatta» [Riformulazione del vissuto
emotivo]
«Anche se hai cercato, non riesci a trovare quello che ti
servirebbe» [Riformulazione del contenuto]
«Sei insoddisfatta, perché non riesci a trovare le informa-
zioni che ti servirebbero» [Riformulazione del contenuto e del
vissuto emotivo]

97
RIASSUNTO DEL CAPITOLO

• Per aiutare gli altri, occorre essere in grado di ascoltarli, anziché


parlare in continuazione.
• Quando ci mettiamo ad ascoltare gli altri, per avviare un colloquio
d’aiuto efficace, dovremo tenere conto di tanti fattori: contatto
visivo, espressione facciale, prossimità fisica, posizione del
corpo, tono della voce, pause e dovremo fare uso di feedback
e risposte brevi, di tipo sia verbale, sia non verbale.
• I vissuti emotivi non sono la stessa cosa dei pensieri e possono
essere espressi con parole specifiche.
• «Rispecchiare» un vissuto emotivo vuol dire far sapere all’altra
persona che riusciamo a comprendere, in qualche modo, il suo
stato d’animo.
• «Rispecchiare» il contenuto di una conversazione significa ribadire
gli aspetti più importanti di ciò che l’altra persona ci ha confidato,
in modo sintetico, e impiegando parole diverse dalle sue.
• Un appropriato utilizzo della riformulazione:
– trasmette all’altra persona un messaggio ben preciso: che la
ascoltate e la comprendete;
– la aiuta a comprendere meglio, a sua volta, le proprie espe-
rienze emotive;
– la incoraggia a continuare a raccontarvi le sue esperienze che
ha deciso di condividere con voi.

98
Dare un invito
iniziale a par-
lare

Reagire in modo
Dare un ulte-
adeguato al declino
riore invito
dell’invito

Aiutare la perso-
Ascoltare at- na a riconoscere
tivamente la i vissuti emotivi,
Dare conferma
persona, e la a riappropriarsene,
sua storia a esprimerli verso
l’esterno

Mettere a fuoco il «noc-


ciolo del problema»

Aiutare la persona a
trovare delle soluzioni

Porre fine alla conversazione

Fig. 5.1 Il processo che si crea nell’utilizzo delle abilità elementari di counseling,
in una conversazione.

In certi casi, è meglio aiutare il nostro interlocutore a terminare


la conversazione, una volta raccontata la sua storia, o una volta messo
a fuoco il problema principale, anziché proseguire nelle fasi successive
del processo. È importante ricordare che un obiettivo soddisfacente
può anche essere semplicemente il fatto che l’altra persona riesca a
raccontare la sua esperienza e, per questo, si senta meglio. Molte
volte, tuttavia, si può essere motivati ad andare avanti, per trovare
delle soluzioni per i propri problemi.

101
La conferma

La conferma è quel passaggio attraverso cui facciamo sapere al


nostro interlocutore che abbiamo ascoltato, e compreso, ciò che ci
ha raccontato di sé e della situazione che vive. Si tratta di mostrargli
che riusciamo a guardare a quella situazione da un punto di vista
vicinissimo al suo. È un’operazione che può essere realizzata in tanti
modi diversi.
Come prima cosa, possiamo fare uso delle abilità di cui abbiamo
già discusso nel capitolo precedente. Pensiamo in particolare alla
capacità di ascolto attivo, grazie alla quale possiamo trasmettere a
quella persona tutta la nostra attenzione e comprensione.

Dare la conferma è un po’ come dire: vedo anch’io quello che vedi tu

Mano a mano che la persona ci parla, in effetti, ci descriverà


quella situazione nel modo in cui la vede lei. Se ci sforziamo di guardare
le cose dal suo angolo visivo, potremo vedere anche noi il ritratto che
sta dipingendo di se stessa e della sua situazione. Naturalmente, questo
ritratto può non coincidere con quello che faremmo noi. I nostri punti
di vista possono anche essere molto diversi. Nondimeno, se vogliamo
aiutarla a sentirsi meglio, dovremo anzitutto confermare il suo ritratto,
in modo che si renda conto che la comprendiamo veramente. Cercare
di convincerla che il suo ritratto è «sbagliato» non servirà a nulla; ciò
di cui ha bisogno, semmai, è essere ascoltata e capita per quello che
è. Per aiutarla a superare il suo disagio, pertanto, dovrete convincerla
che capite e rispettate il suo punto di vista. È proprio a questo che
ci riferiamo, quando parliamo di «dare conferma».
Ed ecco alcuni modi, tra i tanti possibili, per sostenere il ritratto
tracciato dal vostro interlocutore.
Sì, mi rendo conto che è così.
Capisco quello che mi dici.
Comprendo quello che ti succede.
Penso di riuscire a capire come ti senti.

Vale la pena rileggere quest’ultima frase: non abbiamo detto,


semplicemente: «So come ti senti». È impossibile, infatti, sapere come

102
le proprie preoccupazioni, e formulare un primo «invito a parlare»,
secondo il modello che abbiamo descritto nel capitolo terzo. Se Katia
avesse dato una risposta positiva, la conversazione poteva senz’altro
proseguire. Maddalena avrebbe potuto utilizzare le abilità descritte
nel capitolo quarto, per dare al collega l’opportunità di parlarle un
po’ dei suoi problemi. Più precisamente, Maddalena avrebbe potuto
fare una riformulazione dei suoi vissuti emotivi, con qualche frase
come quelle che seguono:
Sembri proprio triste, quando parli di tua moglie che sta
perdendo la vista.
Ti senti davvero sconvolto, per via di questa situazione.
Sei preoccupato per tua moglie.
Sei infuriato perché pensi che i dottori non siano stati
capaci di aiutarla.

A seconda di quel che aveva detto Katia in precedenza, l’una o


l’altra di queste risposte avrebbe potuto aiutarlo a entrare in contatto
con i suoi sentimenti. Avrebbe quindi potuto andare avanti a par-
lare di sé, o — comunque — avrebbe potuto trovare un modo per
esprimere meglio ciò che provava. Se ad esempio Maddalena avesse
notato che era triste, e gli avesse rispecchiato questo stato emotivo,
Katia avrebbe potuto anche cominciare a piangere.

La tendenza a evitare di esprimere i propri vissuti emotivi


Molti di noi, nelle relazioni sociali della vita di tutti i giorni, sono
abituati a evitare di esprimere, per quanto possibile, i propri vissuti
emotivi. Cerchiamo per lo più di nasconderli, e ci aspettiamo che
gli altri, quando ci parlano, facciano altrettanto. Se ciò non avviene,
ci sforziamo di cambiare argomento, o mandiamo loro dei messaggi
che vorrebbero essere rassicuranti: non è il caso che si preoccupino,
dovrebbero essere più ottimisti, e così via. Come mai ci comportia-
mo in questo modo? Probabilmente perché affrontare direttamente
certi nostri vissuti emotivi — e a maggior ragione quelli degli altri
— può essere spiacevole, o addirittura doloroso. Il problema è inoltre
che, se qualcuno di racconta delle sue emozioni negative (tristezza,
delusione, frustrazione, rabbia, ecc.), è probabile che inneschi in noi
il ricordo di emozioni dello stesso tipo; il che ha molte probabilità di

106
calma, lasciando che si sfoghi, senza interruzioni; oppure se non sia
meglio interrompere la vostra conversazione. La domanda che dovreste
farvi è pressappoco la seguente: «Se continua a piangere, sarò in grado
di gestire la situazione?». Se la vostra risposta è affermativa, potrete
senz’altro lasciare che quella persona pianga, sfoghi tutta la sua tristezza,
e poi — magari — si senta un po’ meglio di prima. In alternativa, si
tratterà di riconoscere che, date le circostanze, potrete aiutarla soltanto
fino a un certo punto; oltre quel punto, dovrete pensare a voi stessi.
Nella prima ipotesi, oltre a lasciare che l’altra persona si sfoghi con
le lacrime, potreste persino incoraggiarla, con qualche frase del tipo: «Non
mi dà nessun fastidio se piangi»; «Non c’è nessun problema, per me:
piangi pure tranquillamente» (ammesso che la cosa sia vera). Dovrete
trasmettere a quella persona, cioè, un esplicito messaggio: non deve aver
paura o vergognarsi di piangere, quando si trova lì insieme con voi.
Rimanere al vostro posto senza dire nulla, mentre l’altra persona
scoppia in lacrime, può effettivamente contribuire a migliorare il suo
stato d’animo. L’importante è che non perdiate la calma, in modo che
l’altra persona percepisca in voi una presenza empatica, collaborativa,
ma non intrusiva. Qualche volta, peraltro, può essere utile assumere un
ruolo un po’ più incisivo, ad esempio chiedendole di descrivere con le
sue parole i motivi per cui piange. Molte volte, chi comincia a piangere
non riuscirà a dirvi assolutamente nulla. Dopo un po’, comunque, è
possibile che si creino le condizioni per riprendere la conversazione. A
quel punto, potreste fare una o più domande di questo tipo:
Mi puoi dire con che cosa hanno a che fare le tue lacrime?
Mi puoi dire che messaggio trasmettono le tue lacrime?
Se le tue lacrime potessero parlare, che cosa direbbero?

Con simili domande, la persona sarà invitata a riflettere sul perché


stia piangendo. A quel punto, potrebbe anche trovare una risposta
esplicita, che le consentirà di affrontare direttamente il problema da
cui dipende, in ultima analisi, la sua angoscia.

Dovremmo cercare di consolarle?


Molti di noi tendono a credere che il modo «migliore» per
aiutare qualcuno in difficoltà sia abbracciarlo, dargli una pacca sulla

109
spalla, e magari rassicurarlo: «Vedrai che andrà tutto bene». Che cosa
ne pensate voi?
Non tutti sono d’accordo, in effetti, sul fatto che «la soluzione»,
di fronte a una persona provata dalla sofferenza, stia nel contatto
fisico, o magari nel passarle un fazzoletto, mentre piange.
È una questione che va affrontata nel rispetto dei «paletti»
interpersonali, professionali e morali. Le persone in stato di disagio
emotivo sono molto vulnerabili, e possono scoprirsi — per via della
situazione che vivono — addirittura bisognose. Sarebbe profonda-
mente immorale approfittare della loro condizione di debolezza, con il
pretesto di «consolarle». La relazione andrà sempre mantenuta all’in-
terno dei confini appropriati. Oltrepassarli, per qualunque ragione,
non aiuterebbe la persona che abbiamo davanti; semmai, la farebbe
sentire ancora più impotente e manipolata. Il rischio, anzi, è che si
verifichino situazioni di abuso, con il risultato che quella persona,
in futuro, sarà portata a non accettare più aiuto da nessuno (e tanto
meno a chiederlo), anche quando ne avrà bisogno.
In generale, siamo convinti che non sia utile sforzarsi di consolare
l’altra persona, ma piuttosto rimanere in silenzio, attenti e rispettosi,
accanto a lei. Cercare di consolarla — poniamo — con qualche tipo
di contatto fisico rischierebbe di ostacolarla nello sforzo di raccontare
il suo problema, e quindi di sfogarsi un po’. Correremmo il rischio,
oltretutto, di oltrepassare i confini della «sfera personale» di quella
persona. Una regola di questo tipo, naturalmente, conosce tantissime
eccezioni: pensiamo ad esempio alle relazioni di intimità, come quelle
di coppia, o tra genitori e figli.

Se volete camminare accanto a una persona, non dovete interrompere


il suo cammino

Se cercate di aiutare quella persona a smettere di piangere,


oltretutto, le trasmetterete un messaggio negativo: la sua storia, e la
sua sofferenza, hanno travolto anche voi. Se passa un messaggio di
questo tipo, è probabile che l’altra persona la smetta di parlare dei
suoi problemi, e magari cominci a interessarsi dei vostri.
Riteniamo sia fondamentale, invece, che la persona che aiutate
non perda fiducia nella sua possibilità di gestire la situazione. Anche

110
nei momenti di sfiducia, se si lascia che pianga e non la si interrompe,
è probabile che poco alla volta smetta da sola, e si renda conto di avere
recuperato il proprio autocontrollo. Quando questo non avviene, sarà
il caso di suggerirle di contattare un counselor professionista.

Proteggersi dal rischio di subire violenze

Dobbiamo tutti stare particolarmente attenti, quando ci troviamo


ad aiutare qualcuno a riconoscere, ed esprimere verso l’esterno, emozioni
forti come la rabbia. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che non tutti
sanno gestire la collera in modo appropriato; non è da escludere che
qualcuno si comporti in modo violento. È un rischio che va valutato con
l’esperienza, caso per caso. Se avete il sospetto che il vostro interlocutore
possa avere scatti di collera incontrollati, sarà meglio non incoraggiarlo
a esprimere questa sua emozione negativa. Occorre che usiate grande
cautela, perché gli attacchi di collera possono essere davvero terrificanti,
e chi non è capace di controllarli può anche risultare pericoloso. Non
è ovviamente opportuno né ragionevole, in casi del genere, stimolare
un’approfondita esplorazione dei vissuti emotivi di quella persona.
Come prima tappa, dovrà imparare lei stessa a controllare i suoi scatti
di collera; da parte vostra, dovrete cercare di evitare che questi abbiano
luogo, e segnalare la persona a un professionista dell’aiuto.
Una volta detto dell’esigenza di proteggerci da eventuali violenze,
dobbiamo anche riconoscere un’altra cosa: che la maggior parte delle
persone con cui interagiamo difficilmente scivolerà in comportamenti
di questo tipo. Se confidate nel fatto che chi avete davanti appartenga
a questo secondo gruppo, potrete anche rispecchiare i suoi vissuti di
collera, aiutando la persona a esprimerli in modo appropriato. Quando
ci sono di mezzo emozioni come la rabbia o la collera, comunque, è
sempre meglio essere prudenti.

Riconoscere i vostri vissuti emotivi

Ogni espressione di un forte vissuto emotivo, da parte della


persona che aiutate, tenderà inevitabilmente a influenzare anche voi.

111
Come pensate che vi potreste sentire, in questi casi? Come reagireste,
ad esempio, se un vostro amico (o collega) scoppiasse in lacrime, men-
tre vi racconta qualche cosa di triste? Sarete forse tentati di aiutarlo
a smettere di piangere; magari vi sforzerete di distrarlo, cambiando
l’argomento della conversazione. Una reazione di questo tipo, benin-
teso, sarebbe perfettamente naturale. È proprio quello che ci hanno
sempre insegnato a fare, sin da bambini: quando c’è qualcuno che
piange, bisogna consolarlo! Ditegli che non pianga più, e tutto andrà
bene. Purtroppo, una soluzione di questo tipo aiuterà forse voi, ma
non — con ogni probabilità — il diretto interessato.
Quando diciamo a qualcuno: «Non piangere», gli offriamo un
po’ di consolazione nell’immediato, ma non lo aiutiamo certo ad
affrontare i problemi da cui dipendono le sue emozioni negative. Di
fatto, lo incoraggiamo a mettere i problemi da parte, almeno sino
alla prossima volta che torneranno a galla. È evidente che questa
non è una soluzione appropriata, per una relazione d’aiuto efficace.
Dovremmo piuttosto aiutare quella persona a sfogare liberamente
certi suoi vissuti emotivi, in modo da lasciarli alle proprie spalle, e
andare oltre. Dobbiamo essere pronti, quindi, a fronteggiare — e non
ad aggirare — tutte le situazioni in cui chi ci sta davanti si mette a
piangere, o si mostra disperato, disilluso, infuriato, e via discorrendo.
È innegabile che in certi casi, di fronte a emozioni «forti» di questo
tipo, diventa difficile gestire anche le nostre reazioni emotive.
Quando invitiamo una persona a esprimere liberamente i suoi
vissuti emotivi, è probabile che questa riesca ad acquisire maggiore
consapevolezza della propria sfera emotiva. Quando questo avviene,
le sue emozioni si possono fare più intense, e risulta più facile anche
esprimerle in forma esplicita. Se notassimo che qualcuno, come nel-
l’esempio di Katia, ha un’aria molto triste, e rispecchiassimo la sua
tristezza dicendo: «Sembri triste», quella persona potrebbe mettersi a
piangere. Se invece dicessimo a qualcuno: «Sembri arrabbiato», questi
potrebbe senz’altro risponderci con un tono incollerito. Potrebbe
addirittura ribattere, con lo stesso tono di voce: «Non sono affatto
arrabbiato!». Eppure, una risposta adirata come questa potrebbe già
bastargli per sfogare, almeno in parte, la sua rabbia.
Come ormai sappiamo, se vogliamo aiutare qualcuno a sen-
tirsi meglio dovremo dargli l’opportunità — attraverso un esplicito

112
invito — di esprimere liberamente i suoi vissuti emotivi, compresi
quelli negativi, nella misura in cui se la sente. Il problema, però, è
che rischieremo anche noi di «esporci» a emozioni forti, talvolta
dolorose. Può essere questo, infatti, l’effetto dello «scaricamento
emotivo» dell’altra persona. La nostra presenza dovrebbe aiutarla
proprio ad alleggerirsi, o a «scaricarsi le spalle», di determinati suoi
vissuti emotivi. Alcuni di questi, cadendo dalle sue spalle, scivoleranno
per terra; altri, inevitabilmente, potranno cadere anche sulle nostre
spalle, innescando ulteriori reazioni emotive da parte nostra. Per la
persona che aiutiamo, si tratterà di un processo catartico, o addirittura
terapeutico; quanto a noi, per quanto esperti o ben attrezzati, dovre-
mo essere pronti — almeno in taluni casi — al possibile «impatto
emotivo» di quel che l’altra persona ci va raccontando. Sotto questo
profilo, vale senz’altro la pena che leggiate il capitolo decimo, che
vi aiuterà a prendervi meglio cura delle vostre esigenze (oltre che di
quelle dell’altra persona).

Come gestire le vostre reazioni emotive, in un colloquio d’aiuto?


Se avete imparato a «mettervi nei panni» della persona che aiu-
tate, e a vedere il mondo dal suo punto di vista, vi sarete anche resi
vulnerabili — in una certa misura — alle sue reazioni emotive.

Le emozioni sono contagiose!

Di qui nasce un’ovvia domanda: se aiutate qualcuno che, triste


com’è, scoppia in lacrime, vi dovrete forse mettere a piangere anche
voi? Come sarà meglio gestire le vostre reazioni emotive, in una
situazione del genere? Una soluzione potrebbe essere quella di far
capire alla persona che condividete, in qualche modo, la sua tristezza.
Diversamente da lei, però, dovrete mostrare di non sentirvi sopraffatti
da quello che vi sta raccontando. Non è da escludere, specie in certi
casi, che vi sentiate così coinvolti da cominciare a piangere anche
voi; ognuno di noi, dopo tutto, è un essere umano con le sue emo-
zioni e i suoi sentimenti. È meglio, comunque, che riusciate a dare
l’impressione di saper affrontare la situazione, e di sapere reggere il

113
«peso emotivo» di quel che vi viene detto. Se non riuscite a farlo, il
vostro interlocutore potrebbe anche pensare, tra sé e sé: «Accidenti,
è veramente sconvolto da quello che gli sto dicendo. Forse è meglio
che mi fermi qui, per non far stare male anche lui». Invece di riuscire
a concentrarsi sui suoi problemi, quella persona potrebbe addirittura
sentirsi in colpa nei vostri confronti!
Non dobbiamo perdere di vista, in ogni caso, la nostra au-
tenticità. Più che cercare di reprimere tout court le nostre reazioni
emotive, quindi, potremmo cercare di esprimerle nel modo più
empatico possibile:
Mi sento triste anch’io, per le cose che mi hai appena
raccontato.

O magari:
Sono colpito anch’io dalle cose che mi dici.

L’importante, comunque, è dare la chiara impressione che vi va


bene ascoltare la storia di quella persona, per quanto sia «carica» dei
suoi vissuti emotivi. Dopo che avrete aiutato qualcuno a sfogare le sue
emozioni più intense, è utile che vi prendiate cura anche di voi stessi,
secondo le indicazioni che presenteremo nel capitolo decimo.

114
RIASSUNTO DEL CAPITOLO

• Per avviare un processo di cambiamento, dobbiamo essere in


grado di:
– ascoltare in modo attivo;
– dare conferma;
– aiutare la persona a riconoscere i suoi vissuti emotivi, a riap-
propriarsene, a esprimerli in modo esplicito.
• Per dare seguito al processo di cambiamento, dovremo aiutare
la persona a:
– concentrare l’attenzione sul «nocciolo del problema»;
– trovare delle soluzioni adatte al suo caso.
• Il processo di conferma richiede di trasmettere alla persona un
preciso messaggio: la stiamo ascoltando, la comprendiamo,
riusciamo a guardare le cose dal suo punto di vista.
• Esprimere apertamente i propri vissuti emotivi è motivo di sol-
lievo, e aiuta la persona a sentirsi meglio.
• Può essere utile aiutarla a identificare i suoi vissuti emotivi, fino
a dare loro un nome.
• Le parole che si possono impiegare, a tale scopo, sono diverse
per intensità e per sfumatura di significato.
• In linea di principio, è più utile lasciare che la persona pianga,
anziché interromperla nel tentativo di consolarla.
• Siate consapevoli del fatto che ci sono persone incapaci di
controllare le loro reazioni di collera; è necessario che usiate
cautela e prendiate le necessarie precauzioni.
• Dovete anche saper riconoscere le vostre reazioni emotive, per
poi riuscire a gestirle in modo appropriato (come vedremo nel
capitolo decimo).

115
CAPITOLO 6
Puntare al «nocciolo» del problema

Giunti a questo punto, possiamo anche fare una breve pausa per
riepilogare ciò di cui abbiamo discusso sino a ora. Come prima cosa,
abbiamo presentato i modi in cui è possibile «mettersi nei panni»
di qualcun altro, ascoltando con attenzione quel che ci racconta.
Abbiamo parlato dei modi in cui possiamo utilizzare certe brevi in-
teriezioni — «Uhm», «Ah ah», «Sì», e così via — per fare percepire
all’altra persona il nostro ascolto attivo nei suoi confronti. Abbiamo
quindi visto come sia possibile, attraverso la riformulazione, far
sapere a quella persona che la ascoltiamo e la comprendiamo. Come
ricorderete, si tratta di riuscire a identificare i suoi vissuti emotivi, per
poi rispecchiarli nel modo più accurato possibile, aiutandola a rico-
noscere meglio le proprie emozioni, e ad affrontarle come tali. Tutte
le abilità che abbiamo descritto servono a dare vita a una relazione
empatica, al cui interno incoraggiare l’altra persona a continuare a
parlarci dei suoi problemi.
Se vi trovate ad aiutare qualcuno, facendo uso di queste abilità
pratiche, provate per un attimo a immaginare che quel «qualcuno»
siate voi: con gli stessi problemi, nella stessa situazione, dal medesi-
mo punto di vista. Se ci riuscite, potrete capire, almeno in una certa
misura, come realmente si senta il vostro interlocutore.
Mano a mano che ascoltate la sua storia, potreste avvertire la
sua fatica a descrivere il problema nei giusti termini, magari perché
è confusa da tutte le idee e le sensazioni diverse che le ronzano in
testa. Il più delle volte, le cose vanno proprio così. In questi casi,
ascoltare la persona con attenzione è un passaggio importante, ma
non risolutivo: per esserle davvero d’aiuto, dovrete incoraggiarla,

117
Thompson
Neil Thompson Nuova
Neil Thompson Edizion
«Essere “creativi” significa uscire dai binari dei

Scrittore, educatore e consu-


Che si tratti di prendersi cura degli altri e dei loro problemi, di gestire e modi di lavorare abituali e convenzionali. Tra i

LAVORARE
collaboratori o di lavorare in team, tutto dipende dalla propria abilità maggiori ostacoli allo sviluppo della creatività
lente indipendente, vanta una
di rapportarsi efficacemente con gli altri. Occorre quindi sviluppare vi è l’atteggiamento di chi dice: “Non ci riesco.
pluridecennale esperienza di
una più matura consapevolezza delle dinamiche che intervengono Non sono assolutamente una persona creativa!”.
lavoro nell’ambito dei servizi
È questo un tipico atteggiamento disfattista,

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alla persona. Nella sua carrie- quando si lavora con le persone e arricchire il proprio bagaglio di
ra è stato docente in quattro competenze nelle relazioni interpersonali. proprio di chi confonde abilità che si possono
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Far emergere il meglio dalle relazioni sorta di qualità magica, quasi si trattasse di un
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Capitolo secondo
Gestire bene il tempo

Introduzione

La capacità di gestire bene il tempo, o time management,


è qualche cosa che si tende ad associare ai professionisti, ai
manager o ai dirigenti delle grandi imprese, più che ai lavora-
tori «normali». Circolano molti pregiudizi e fraintendimenti,
in effetti, a proposito del time management: su ciò che è, su
come funziona, sul perché sia così importante e via discorren-
do. In questo capitolo ci proponiamo di sgombrare il campo
dai dubbi più frequenti, presentando un’introduzione chiara e
comprensibile al time management.

Che cos’è il time management?

Si tende spesso a distinguere, nel linguaggio comune, tra


efficacia (fare le cose giuste) ed efficienza (fare le cose bene).
Benché l’efficacia sia un aspetto di indubbia importanza, ri-
spetto al time management ci interessa soprattutto l’aspetto
dell’efficienza. Il tempo è una risorsa scarsa, che richiede di
essere utilizzata nel modo migliore possibile, e non va certo
sprecata, né impiegata male.
Si usa dire spesso, nel mondo del lavoro, che «il tempo è
denaro». Se lavoriamo con le persone, il tempo può essere davvero

39
la risorsa più preziosa di cui disponiamo. Molte volte, anzi, il
tempo è la cosa più importante che possiamo offrire agli altri; un
motivo in più per non sprecarlo, o per non impiegarlo malamente.
Il time management, però, non ha a che vedere soltanto
con l’organizzazione del nostro tempo e con il tentativo di non
sprecarlo. Uno dei suoi aspetti principali — anzi, essenziali —
sta infatti nella capacità di calibrare l’energia e di mantenere
su livelli ottimali la motivazione e l’impegno personale. In altri
termini, è qualche cosa che riguarda non solo la quantità di
tempo, ma anche la sua qualità.
La questione dell’energia, della motivazione e dell’impegno
assume particolare importanza per chi lavora a stretto contat-
to con le persone. I problemi e le esperienze di vita in cui ci
imbattiamo, in questo campo, possono farci sentire esauriti,
demoralizzati, talvolta addolorati o carichi di rabbia. Altre volte,
il lavoro con le persone può risultare noioso, poco stimolan-
te, ripetitivo: può comportare, ad esempio, tutta una serie di
adempimenti burocratici da sbrigare in ufficio. Nell’uno come
nell’altro caso, è evidente che la motivazione è un elemento di
grande rilevanza. Di qui una domanda di importanza vitale: in
che modo è possibile mantenere l’impegno e la motivazione,
nei momenti più difficili del lavoro?
Per rispondere a questa domanda, nelle pagine seguenti ci
occuperemo principalmente di due aspetti: come organizzare
il proprio tempo in modo ottimale e come mantenere alte le
proprie energie. Come prima cosa, però, dobbiamo spendere
qualche riflessione sul funzionamento dei processi di time
management, e sugli effetti che ne derivano.

Come funziona il time management

Il modo più comune di guardare al time management è


quello della cosiddetta «cronotecnica»: si tratta di analizzare

40
in dettaglio il modo in cui si trascorre abitualmente il proprio
tempo sul luogo di lavoro. È possibile utilizzare, a questo scopo,
strumenti ormai ben noti, come registri o «diari del tempo».
Questo approccio al time management ha i suoi lati positivi,
come quello di mettere a fuoco un’immagine esauriente del
modo in cui si impiega il proprio tempo; accanto a questo, però,
c’è anche l’altro lato della medaglia. Il problema più evidente è
che un’attenzione eccessiva alle «modalità d’uso» del tempo si
rivela assai dispendiosa e quindi risulta controproducente. Se
guardiamo troppo ai dettagli, inoltre, rischiamo di perdere di
vista le nostre energie e motivazioni.
L’approccio che presentiamo in queste pagine è sensibil-
mente diverso. Il suo obiettivo di fondo è aiutarvi a capire (e in-
coraggiarvi ad applicare) i principi di base del time management,
sul piano dell’organizzazione del tempo e del mantenimento
di adeguati livelli di energia. In questa prospettiva, il time ma-
nagement richiede la sensibilità di saper cogliere l’importanza
del tempo e dell’energia di cui si dispone, per svolgere bene un
determinato lavoro. Conoscere i principi che stanno alla base
del time management serve proprio a sviluppare questo tipo
di sensibilità.
Può essere utile, per comprendere il funzionamento del
time management, cogliere alcuni dati di fondo:
–– Non esistono risposte giuste, valide per tutti. Ciò che va bene per
voi potrebbe risultare inadatto per qualcun altro, e viceversa.
È importante, nell’imparare il time management, tenere
conto della personalità, delle esigenze, della situazione in cui
si trova ciascuno di noi.
–– In un giorno ci sono solamente ventiquattro ore. Per quanto
possiate diventare bravi a gestire il tempo, ci sono dei limiti
oltre i quali non si può andare. Una buona gestione del tempo
vi può aiutare a non sovraccaricarvi, ma non è sufficiente a
«proteggervi» dagli eccessi di lavoro.

41
–– Il time management è qualche cosa che si può imparare. Come
abbiamo detto all’inizio di questo libro, ci sono delle abilità
che si tende spesso a scambiare per «qualità». Si tende a credere
che vi siano persone che, a differenza delle altre, sarebbero
«tagliate» per organizzare bene il proprio tempo. L’esperienza
ci insegna che non è il caso di essere così fatalisti: ciascuno
di noi ha in sé le potenzialità per rafforzare le proprie abilità
di time management.

Organizzare il proprio tempo

La capacità di organizzare il proprio tempo nel modo mi-


gliore è un aspetto importante per chi lavora con le persone. Il
lavoro con le persone, infatti, è ben poco compatibile con una
scansione rigida e inflessibile dei tempi di lavoro. Di solito, i
singoli lavoratori hanno dalla loro un certo margine di mano-
vra, per decidere come impiegare il tempo di cui dispongono.
Spesso, però, si stenta a comprendere l’importanza di una
buona gestione del tempo e non le si riconosce l’attenzione
che meriterebbe. Non è raro, quindi, imbattersi in operatori di
grande esperienza e competenza che pure hanno serie difficoltà
a gestire bene il tempo di lavoro. Ciò ha ripercussioni negative
sull’efficacia delle loro iniziative a favore degli altri. È per questo
che è senz’altro utile dedicare un po’ di tempo a comprendere i
fondamenti del time management. L’idea di un buon «investi-
mento del tempo», del resto, sta alla base del primo principio
di time management che ci accingiamo a trattare.

Investire tempo per risparmiare tempo


C’è chi commette l’errore di diventare «troppo impegnato»
per potersi permettere di organizzare o di pianificare il proprio
tempo. Quando ciò si verifica, la persona direttamente interes-

42
sata ha ormai perso il controllo del proprio tempo e faticherà
non poco per recuperarlo. Un buon time management richie-
de di saper mettere da parte una certa quantità di tempo, per
programmare le modalità di impiego del tempo restante, fissare
delle priorità, prevedere i problemi che potrebbero emergere,
riconoscere le potenziali opportunità, e così via. Occorre, in
altri termini, investire del tempo in attività di programmazione
e di organizzazione, che serviranno poi a risparmiare del tempo.
Chi non riesce a fare questo «investimento» potrebbe anche
risparmiare un po’ di tempo nell’immediato, ma sul lungo
periodo rischierà di perderne assai di più.
Detto questo, va anche riconosciuto il rischio opposto:
quello di investire troppo tempo nella programmazione. C’è chi
dedica tanto di quel tempo a programmare il lavoro da non avere
più tempo per farlo. C’è chi continua a compilare liste infinite di
compiti da fare, senza poi trovare il tempo per svolgerne alcuno.
È fondamentale, quindi, saper trovare un giusto equilibrio tra
un investimento scarso e uno eccessivo. La programmazione
è uno strumento in vista di uno scopo e non uno scopo in sé.

Uno sguardo alla pratica 2.1


Tommaso era orgoglioso di tutto il lavoro che era capace di fare. Si sentiva
veramente soddisfatto quando considerava quanti impegni aveva. Gli
piaceva essere visto dagli altri come una persona «impegnata»: si sentiva
importante. Quello che non gli riusciva, però, era ritagliarsi un po’ di tempo per
programmare meglio il lavoro, per darsi delle priorità, per farsi una «visione
globale» delle cose che faceva. Benché fosse costantemente impegnato,
non si poteva dire che impiegasse il tempo in modo ottimale; molta della
sua energia, anzi, andava sprecata. Questo divenne evidente quando se ne
andò il suo vecchio capoufficio e fu sostituito da una persona che cominciò
a preoccuparsi seriamente per il suo modo di lavorare. Tommaso si sentì
profondamente a disagio nel sentirsi dire, da un giorno all’altro, che doveva
imparare a gestire meglio il tempo e gli ci volle un bel po’ per cogliere a fondo
l’importanza di un time management accurato ed efficace.

43
Fissare delle priorità
Quando ci troviamo davanti un lungo elenco di cose da
fare, può essere utile stabilire quali siano le più importanti e quali
vadano fatte per prime. Si tratta, in altri termini, di fissare delle
priorità. Il che può risultare difficile, per tre ordini di ragioni:
–– Non ci sono molti criteri che ci permettano di stabilire un
ordine di importanza nelle cose.
–– Le cose importanti sulla lista potrebbero essere così nume-
rose che risulterebbe impossibile, in ogni caso, farle tutte. È
necessario prendere qualche decisione drastica, per togliere
dall’elenco i compiti di troppo.
–– Ci può anche essere un conflitto di interessi. Ci possono essere
delle voci sulla lista, ad esempio, che ai vostri occhi hanno
un’estrema importanza, ma dal punto di vista di altre persone
influenti — ad esempio il vostro capo — sono decisamente
meno importanti.
Non è detto, quindi, che fissare delle priorità sia una cosa
semplice. Con un po’ di esperienza, comunque, scoprirete voi
stessi che i benefici che ne derivano sono ben superiori ai risvolti
negativi. Il punto, semmai, è guardarsi dal rischio di fissare le pri-
orità in modo eccessivamente rigido. Se non si mantiene una certa
flessibilità, le priorità possono rivelarsi più d’ostacolo che d’aiuto.
Ad esempio, un tattica utile potrebbe essere quella di pen-
sare alle conseguenze a cui si va incontro se non si completa un
particolare lavoro. Se non portassimo a termine un incarico,
quanto sarebbe grave? Naturalmente, questa non è una regola
ferrea: ma può essere utile per aiutarci a valutare l’importanza
relativa da attribuire a priorità in conflitto tra loro.

Non perdere di vista l’obiettivo


Ciascuno di noi rischia di sprecare molto tempo, ogni
volta che perde di vista l’obiettivo che si era prefissato, o che

44
lo scopo delle sue azioni diventa incerto e confuso. Non è raro,
in effetti, scivolare in una sorta di circolo vizioso. Un carico
di impegni eccessivo può farci perdere di vista completamente
gli obiettivi, rendendoci ancora più tesi per «il tempo che non
c’è»; cosa che ci rende ancora più confusi rispetto agli obiettivi,
e il circolo continua.
Quindi, la capacità di mantenere ben chiari gli obiettivi
anche quando siamo sotto pressione è un aspetto basilare per
un time management efficace. Il principio del «non perdere di
vista l’obiettivo» è strettamente legato alla capacità di lavorare
in modo metodico e ordinato, come vedremo più a fondo nel
capitolo ventiduesimo.

Evitare di perdere tempo


Che sia importante evitare di perdere tempo, in sé, è
un’affermazione abbastanza ovvia. Nonostante questa ovvietà,
è facile constatare che molte volte non si prende alcuna inizia-
tiva, nemmeno delle più semplici ed elementari, per evitare gli
sprechi di tempo. Pensiamo, ad esempio, a tutte le volte che ci
rivolgiamo di persona a qualcuno per avere informazioni che
si potevano ottenere per telefono; o alle situazioni in cui due
membri della stessa équipe partecipano a una riunione in cui
era sufficiente la presenza di uno solo di loro; o ai resoconti
eccessivamente lunghi e dettagliati, laddove bastava una breve
ricostruzione dei punti essenziali; o al fatto di sbrigare man-
sioni che avrebbero potuto benissimo essere affidate ad altri; o
ai continui tentativi a vuoto di telefonare a qualcuno, quando
una breve lettera sarebbe più che sufficiente.
Questo non vuol dire, beninteso, che tutti gli incontri
vadano rimpiazzati da comunicazioni telefoniche. Questo,
evidentemente, sarebbe assurdo. Certe volte, nondimeno, le
visite «in carne e ossa» non sono necessarie e rappresentano una

45
perdita di tempo. È necessaria, semmai, la capacità di identi-
ficare le circostanze in cui si rischia di perdere del tempo, per
poi utilizzare quel tempo in modo più costruttivo. Si tratta di
sviluppare un buon livello di sensibilità e di autoconsapevolez-
za, come abbiamo visto nel corso del capitolo precedente. La
capacità di cogliere le situazioni in cui si potrebbe risparmiare
del tempo è qualche cosa che si può sviluppare con la pratica e
con l’esperienza; qualche cosa, comunque, che non mancherà
di ripagare dell’investimento fatto.

Usare un’agenda
L’agenda è uno degli strumenti principali del time mana-
gement. La si può utilizzare nell’ambito della programmazione,
del monitoraggio, del coordinamento delle proprie attività.
Non si tratta solo di un posto dove annotare appuntamenti con
altre persone. Ad esempio, se dobbiamo scrivere una relazione,
potremo fare uso dell’agenda per organizzare il tempo dedicato
a questa attività. In questo modo, l’agenda diviene un tassello
importante di ogni strategia di gestione del tempo. Anche
rispetto all’utilizzo dell’agenda è possibile sviluppare meglio
alcune tecniche e abilità ad hoc.
L’agenda vi aiuta a controllare meglio il vostro tempo e
vi mette al riparo da situazioni imbarazzanti come quella di
dimenticarsi un appuntamento o di fissarne due alla stessa ora.
Una buona tecnica per usare l’agenda, pur nella sua semplicità,
è la seguente: si traccia una linea verticale nel mezzo di ogni
pagina, si annotano sulla parte sinistra gli impegni o gli appun-
tamenti, e sulla parte destra le cose ancora da fare. All’inizio
di ogni giorno potrete dare un’occhiata alla lista della pagina
precedente, depennando le cose che sono state fatte, o che non
c’è più bisogno di fare. Rimarranno soltanto le cose ancora da
fare, che potrete riportare nella parte destra della pagina di oggi.

46
La regola dei tre minuti
È facile che, nel corso della settimana, si accumulino tante
piccole cose da fare. Ciascuna, presa di per sé, non richiede
grandi sforzi; quando cominciano ad accumularsi, però, l’im-
pegno si fa decisamente maggiore. E visto che districarsi tra
tante «cosette» da fare può risultare sgradevole, non sorprende
la tendenza a procrastinare. Una volta che si comincia a rinviare,
però, il «mucchio» delle cose in arretrato è destinato a crescere;
il che, a sua volta, aumenta l’indisponibilità a farsene carico.
Ed ecco che si è innescato un circolo vizioso.
Una buona soluzione, accessibile a tutti, è la «regola dei tre
minuti». Se la cosa che dovete fare richiede meno di tre minuti
— compilare un modulo, dare una breve risposta via e-mail,
e così via — allora occupatevene subito. Oltre a prevenire gli
arretrati di lavoro, eviterete anche, più avanti, ritardi dovuti
all’adempimento di queste cose di poco conto.

Lavorare insieme
Lavorare in modo collaborativo, anche nella forma di un
vero e proprio lavoro in équipe, permette di valorizzare i punti
di forza di ciascuno, riducendo gli effetti dei rispettivi punti di
debolezza. Una strategia di tipo cooperativo, di conseguenza,
può senz’altro contribuire a una buona gestione dei tempi di
lavoro. Si tratta, comunque, soltanto di una possibilità: non sta
scritto da nessuna parte che la cooperazione, di per sé, garanti-
sca necessariamente un migliore utilizzo del tempo. I tentativi
di collaborare possono anche dare luogo a sovrapposizioni (o
a compiti che rimangono scoperti), incongruenze, dibattiti
vuoti e interminabili, incapacità di decidere; in definitiva, a un
cattivo utilizzo delle risorse disponibili (tempo compreso). «Il
lavorare insieme», pertanto, non si può ridurre a uno slogan:
richiede un adeguato investimento di tempi e di energie. Per

47
riuscire a collaborare bene dobbiamo saper fissare dei «paletti»
e chiarire le aspettative reciproche, onde evitare confusione e
l’insorgere di conflitti.

Gestire i livelli di energia

La capacità di organizzare e coordinare i propri impegni


in funzione del tempo disponibile ha una parte importante per
un buon utilizzo di una risorsa scarsa, quale è il tempo. Occorre
anche approfondire, però, il modo migliore per gestire i livelli
di energia e per mantenere le motivazioni sul lavoro.

La programmazione dei tempi di lavoro (timing)


Alcuni di noi si possono definire persone «mattinie-
re», mentre altri non lo sono affatto. Certe persone, in altri
termini, sono particolarmente lucide nelle prime ore del
mattino, mentre altre si «risvegliano» in momenti successivi
della giornata, o magari verso sera. È importante capire quali
siano, per ciascuno di noi, gli «orari ottimali»: sarà possibi-
le, in tal modo, programmare meglio le cose che abbiamo
da fare. Potrebbe non essere una buona idea, ad esempio,
fissare un impegno oneroso e difficile in una fascia oraria in
cui, abitualmente, non diamo il meglio di noi stessi. Anche
questo aspetto del time management rimanda direttamente
al tema dell’autoconsapevolezza, trattato nel capitolo primo.
È importante, infatti, riconoscere non soltanto i nostri punti
di forza e di debolezza, ma anche — per così dire — i nostri
momenti di forza e di debolezza. Una buona programmazione
dei tempi ci potrà aiutare ad «abbinare» l’andamento delle
nostre energie con i vari compiti che dobbiamo affrontare, in
modo da riservare i compiti più impegnativi per i momenti
di maggiore lucidità.

48
La persona giusta nel posto giusto
Si tende spesso, nel lavoro di gruppo o di équipe, a dividere
il lavoro senza considerare più di tanto quali siano, per ciascuna
delle mansioni previste, le persone più idonee. Ciò, in termini
di time management, è controproducente, giacché si traduce
in un impiego non ottimale delle risorse disponibili. Ciascuno
di noi ha i suoi punti di forza e di debolezza; aspetti del lavoro
che gradisce e aspetti che non gli sono congeniali. Valorizzan-
do le cose che sappiamo fare meglio e che ci piacciono di più
si manterranno livelli di motivazione più elevati e, a parità di
tempo disponibile, si otterranno risultati migliori. Vale quindi
la pena, in un contesto di lavoro di gruppo o di staff, mettere
a fuoco le preferenze individuali di ogni lavoratore, in modo
che ciascuno — per quanto possibile — abbia l’opportunità
di dare il meglio di sé.

Uno sguardo alla pratica 2.2


Patrizia era abbastanza soddisfatta, nell’insieme, del proprio lavoro. Alcuni
aspetti, però, non le piacevano affatto e non di rado la rendevano spossata
e demotivata. Un giorno, tuttavia, scoprì che una delle mansioni che le pia-
cevano meno — seguire la formazione dei nuovi membri dello staff — era
estremamente gradita alla sua collega Gianna. Dopo aver discusso insieme
delle rispettive mansioni, Patrizia e Gianna provarono a «scambiarsi» una
parte del lavoro. La cosa ebbe grande successo. Grazie alla collaborazione,
entrambe avevano potuto migliorare la qualità del proprio lavoro.

La regola «via il dente, via il dolore»


Quando dobbiamo svolgere delle mansioni che non ci
fanno «impazzire» di gioia, o che non sopportiamo proprio, è
meglio affrontarle il prima possibile. Se riusciamo a «levarcele
di torno», avremo di che essere soddisfatti e sollevati. Gli effetti
saranno positivi sia per il morale, sia per le energie lavorative.

49
Se sappiamo — ad esempio — che domani dovremo fare una
telefonata sgradevole, è meglio che ci impegniamo a farla non
appena arrivati in ufficio.
Se non prendiamo di petto queste mansioni sgradevoli e
continuiamo a procrastinarle, possono tormentarci, demotivarci
e condizionare negativamente il nostro rendimento sul lavoro. È
importante, quindi, seguire la semplice regola del «via il dente,
via il dolore»: si tratta di identificare le cose verso cui siamo più
riluttanti, per poi metterci a farle prima di tutte le altre.

Fare una pausa


Chi dice sempre di essere «troppo impegnato per fare una
pausa» si espone a una situazione pericolosa. Non si rende contro,
oltretutto, di un dato elementare: a parità di mansione da svolgere,
un lavoratore riposato è più produttivo di uno spossato dalla fatica.
Quando il tempo è tiranno, e il lavoro da fare è tanto,
è facile scivolare nella trappola del «proseguire a oltran-
za», senza un attimo di pausa. Il risparmio di tempo, così
facendo, è soltanto apparente. Tanto per dire, è probabile
che una persona che lavora un’ora e mezza, fa una pausa di
un quarto d’ora e poi continua a lavorare per un’altra ora
e un quarto, produca di più — in termini sia quantitativi,
sia qualitativi — di una che lavora ininterrottamente per
tre ore, senza fare il minimo «stacco». Lavorare a oltranza,
senza pause, può avere effetti logoranti, aumenta le pro-
babilità di commettere errori, o comunque di «produrre»
assai meno del solito. (Thompson, 1993, pp. 131-132)

L’aumento del carico di lavoro


Un lavoro fatto male, o senza la necessaria attenzione, porta
via molto più tempo del necessario. Se non calibriamo bene i
tempi di lavoro, rischieremo di dedicare alle singole mansioni

50
un tempo ben superiore a quello che esse richiederebbero. Que-
sto, sul versante delle motivazioni, è un aspetto importante: se
siamo poco motivati finiremo per allungare inutilmente i tempi
di lavoro, cosa che, a sua volta, avrà ripercussioni negative sulle
nostre motivazioni.
Se invece ci sforziamo di completare in tempi ragionevoli
le mansioni che ci vengono assegnate, ne usciremo rafforzati
nel nostro senso di fiducia, di padronanza, di autorealizzazione.
L’impegno a evitare ogni allungamento superfluo dei tempi di
lavoro sarà ampiamente ripagato, sul piano delle nostre moti-
vazioni al lavoro.

Essere ottimisti
Per mantenere, se non rafforzare, i livelli di energia e di
motivazione, è fondamentale l’ottimismo. Un atteggiamento
pessimista, infatti, contribuisce di per sé ad abbassare il morale
e la soddisfazione sul lavoro. Ne può derivare un circolo vizioso,
in cui pessimismo e morale sotto i tacchi si rinforzano — e
quindi si peggiorano — a vicenda.
Essere ottimisti può generare un circolo virtuoso che dà
luogo a un miglioramento della soddisfazione e del morale sul
lavoro, il che contribuirà a un atteggiamento più improntato
all’ottimismo. Vedremo più in dettaglio nel capitolo decimo
quanto sia importante non perdere mai di vista gli aspetti positivi.

Lavorare insieme
Oltre che a una migliore organizzazione dei tempi di lavo-
ro, lavorare insieme può giovare alle energie e alle motivazioni
lavorative. Il lavoro in équipe, la collaborazione e il sostegno
reciproco possono rivelarsi strategie vincenti, nella misura in
cui generano un senso positivo:

51
–– di sicurezza e di fiducia («l’unione fa la forza»);
–– di impegno a favore degli altri;
–– di cameratismo, di identità di gruppo, di senso d’apparte-
nenza;
–– di orgoglio e di soddisfazione per i risultati positivi ottenuti
insieme.

Conclusione

Essere ben organizzati, nell’impiego dei tempi di lavoro,


non è una qualità «naturale». È, piuttosto, il prodotto di un
insieme di abilità che possono essere apprese e potenziate, grazie
alla pratica e all’esperienza. I suggerimenti di questo capitolo
possono aiutarvi a migliorare nella capacità di gestire i tempi,
purché vi impegniate effettivamente ad applicarle. Se non ne
siete convinti più di tanto, o le praticate così, «tanto per fare»,
non vi gioveranno granché.
L’ingrediente essenziale è quindi la fiducia, in una duplice
accezione. Tanto per cominciare, dobbiamo confidare nella
nostra capacità di apprendere cose nuove, di acquisire delle
nuove abilità. In secondo luogo, dobbiamo avere fiducia nelle
tecniche di cui facciamo uso. Se si riesce ad attivare questa
fiducia, l’autoefficacia di ciascuno di noi ha davanti a sé degli
enormi margini di miglioramento.

ESERCIZIO 2
Riuscire a organizzarsi
In questo capitolo abbiamo fornito molti suggerimenti per gestire
meglio il tuo tempo. Ora, per aiutarti a metterli in pratica, abbiamo
pensato a questo esercizio.
Innanzitutto, prendi un foglio di carta, di formato A4, e tienilo vicino
a te, scorrendo velocemente l’intero capitolo. Segna sul foglio tutte le

52
indicazioni concrete che secondo te potresti mettere a buon frutto nel
tuo lavoro (ad esempio, la regola «via il dente, via il dolore»). Quando
avrai finito, avrai una lista di azioni e potrai quindi pianificare un per-
corso per mettere in atto la tua nuova strategia di gestione del tempo.

53
Capitolo terzo
Gestire lo stress

Introduzione

Ogni attività lavorativa comporta un certo livello di


tensione e ci espone a una buona misura di stress, tanto più
in un campo come quello dei servizi alla persona. In questo
capitolo ci occuperemo delle tre componenti essenziali dello
stress management:
–– i fattori di stress (stressors), ossia le cause di stress più comuni
e diffuse;
–– i metodi di coping, cioè i modi in cui possiamo cercare di
affrontare la pressione dello stress;
–– le modalità di aiuto, e quindi i modi in cui è possibile facilitare
i processi di coping.
Una volta esaminati questi tre aspetti, guarderemo alle
abilità e alle strategie necessarie per mantenere la tensione sotto
controllo, evitando di essere danneggiati dallo stress.

Stress e tensione

Anzitutto è importante definire con precisione quello che


intendiamo per «stress». Arroba e James (1992) definiscono lo

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stress come «risposta a livelli inappropriati di tensione». Sono
due gli elementi più significativi di questa definizione:
1. Il termine «risposta» indica che lo stress scaturisce dal modo in
cui reagiamo alla tensione; dunque «gestire lo stress» vuol dire
anche saper controllare le nostre reazioni, oltre che la tensione
che le provoca. Ritorneremo su questo aspetto più avanti.
2. L’aggettivo «inappropriato» suggerisce che lo stress può deri-
vare non solo da un livello eccessivo di tensione, ma anche da
un livello insufficiente, come quando ci annoiamo, o siamo
privi di stimoli.
Possiamo quindi distinguere, come proponiamo nella
figura 3.1, fra la tensione — che può essere, a seconda delle
circostanze, positiva (una fonte di stimoli e di motivazione) o
negativa (una fonte di preoccupazioni e di conflitto) — e lo
stress, che è sempre qualche cosa di negativo e dannoso.

Livello di tensione
Stress
eccessivo

Livello di tensione
Assenza di stress
appropriato

Livello di tensione
Stress
insufficiente

Fig. 3.1 I diversi livelli di tensione.

Ricapitolando:
–– lo stress non equivale alla tensione: quest’ultima è un fatto
inevitabile, mentre lo stress può anche essere evitato;

56
–– lo stress si verifica più facilmente laddove la tensione è ec-
cessiva, o insufficiente;
–– lo stress dipende non solo dal livello di tensione che avver-
tiamo, ma anche dal modo in cui reagiamo.
È importante che la distinzione tra questi due concetti
chiave sia ben chiara. Se non siete sicuri di averla compresa
bene, vi suggeriamo una rilettura di questo paragrafo, prima
di procedere oltre.

Gli effetti dello stress

Lo stress può essere all’origine di molteplici eventi negativi.


Basti soltanto pensare ad alcuni dei più frequenti, esposti qui
di seguito.
–– Patologie correlate allo stress. È risaputo che lo stress contri-
buisce in modo determinante a malattie cardiache, coliti,
ulcere, e così via.
–– Vulnerabilità alle malattie. Lo stress indebolisce i nostri livelli
di resistenza alle malattie in generale.
–– Cali motivazionali. Lo stress ci fa perdere entusiasmo fino a
farci sentire, come si suol dire, «con il morale sotto i tacchi».
–– Insoddisfazione sul lavoro. Nel nostro ambiente di lavoro,
quando siamo sotto stress, tendiamo a considerare solo gli
aspetti negativi, perdendo di vista quelli positivi.
–– Tensione e irritabilità. Lo stress può anche essere motivo di
disaccordi o di conflitti.
–– Tendenza a commettere errori. Lo stress ci espone al rischio di
commettere molti più errori del solito, cosa che — nel lavoro
con le persone — può avere conseguenze pesanti.
Non si tratta certo di un elenco esaustivo, ma ci pare suffi-
ciente a mostrare che il tempo e gli sforzi dedicati a prevenire lo
stress, o a contrastarlo, rappresentano un ottimo investimento.

57
Uno sguardo alla pratica 3.1
Un’équipe di cinque persone riusciva a gestire abbastanza bene, senza
particolari difficoltà, il carico di lavoro che le era stato assegnato. Un gior-
no, però, Pietro — uno di loro — si sentì intimare, con tono estremamente
aggressivo, di «mettersi a fare la sua parte». Il dirigente seppe dell’incidente,
ma non lo prese sul serio; si limitò a definirlo «una storia come tante». Da
parte sua, Pietro si sentiva male, poco aiutato e ancor meno considerato.
Pochi giorni più tardi, un certificato medico comunicava che Pietro doveva
prendersi due settimane di assenza per malattia, a causa di un «esaurimento
nervoso». Nelle due settimane successive, gli altri componenti dell’équipe si
trovarono con un carico di lavoro aggiuntivo del 25%, che riuscirono — sia
pure con difficoltà — a smaltire. Terminato quel periodo, però, arrivò un
nuovo certificato: l’assenza di Pietro si sarebbe prolungata per altre quattro
settimane. I suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi e a domandarsi se
Pietro sarebbe mai ritornato. Per Patrizia, che stava attraversando un pe-
riodo difficile con il marito, questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Lo stress, per lei, era troppo. Si prese a sua volta un permesso per malattia,
cosa che costrinse i suoi colleghi a farsi carico, da soli, di un lavoro che era
aumentato addirittura del 40%. Per i tre operatori rimasti, la tensione si era
fatta fortissima. Erano giunti a domandarsi se avrebbero mai visto la luce,
alla fine di quel tunnel. La situazione era veramente snervante. Sarebbe
bastato un piccolo imprevisto a far saltare tutto per aria.

Comprendere il proprio stress

Giacché lo stress è legato al modo in cui ciascuno reagisce


alle tensioni che avverte, si tratta di un problema che ha molti
risvolti sul piano personale e varia considerevolmente da indi-
viduo a individuo. È importante, quindi, che ciascuno sia in
grado di comprendere l’impatto dello stress e della tensione sulla
propria esperienza di vita. L’esercizio 3, alla fine di questo capito-
lo, è pensato proprio per aiutarti a disegnare il quadro della tua
situazione, con un occhio di riguardo alla gestione dello stress.
Avere un quadro chiaro delle pressioni a cui si è sottopo-
sti, ma anche delle risorse di fronteggiamento e di sostegno di

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cui si dispone, è importante per gestire lo stress. Senza questo
quadro, si lavora alla cieca. Per quanto importante, però, questa
consapevolezza non è sufficiente: comprendere lo stress è sol-
tanto il primo passo dello stress management. Occorre anche
potenziare le proprie abilità e strategie di gestione dello stress,
come vedremo nel corso delle prossime pagine.

Abilità e strategie di stress management

L’esperienza dello stress, come abbiamo visto, è estrema-


mente variabile, e dipende non poco dalla situazione personale
di ciascuno di noi. Ciò detto, è comunque possibile individuare
alcuni principi e linee guida, di carattere generale.
1. Conoscere se stessi. Sembrerà un luogo comune, ma avere un
buon livello di consapevolezza di sé è fondamentale, giacché
aiuta a riconoscere i propri punti di forza e di debolezza: le
risorse personali da cui possiamo attingere nei momenti di
bisogno, ma anche gli aspetti che ci rendono più vulnerabili.
Come abbiamo osservato nel capitolo primo, l’autoconsa-
pevolezza è un requisito essenziale per lavorare bene con le
persone. Tale requisito è altrettanto importante per quanto
riguarda la gestione dello stress. Laddove manca una suffi-
ciente consapevolezza di sé, infatti, gestire lo stress si può
rivelare assai più impegnativo del necessario.
2. Fissare degli obiettivi. È utile darsi degli obiettivi precisi, per
avere un traguardo ben definito a cui puntare, in modo da
non sentirsi «alla deriva» o privi di uno scopo. Definire degli
obiettivi può servire anche a rafforzare le nostre motivazioni
e a ottenere — una volta che gli obiettivi siano stati raggiunti
— una legittima soddisfazione dal lavoro che facciamo. Come
si suol dire, infatti, «se non sappiamo dove vogliamo andare,
nessuna strada potrà condurci a destinazione». Individuare
degli obiettivi e avere le idee ben chiare su quel che ci occor-

59
re per realizzarli ci aiuta a identificare la strada che stiamo
percorrendo. Ci aiuta a tenere lontano quel senso di disorien-
tamento che si accompagna, il più delle volte, all’esperienza
dello stress. Si tratta di una questione di grande importanza,
su cui ritorneremo nei capitoli ventunesimo e ventiduesimo.
3. Cambiare atteggiamenti. Cambiare il proprio atteggiamento
nei confronti di qualche cosa può cambiare il modo in cui
quel «qualche cosa» ci condiziona. Se l’obiettivo che ci sia-
mo dati è diventare i più grandi lavoratori del mondo, ad
esempio, ben presto ci troveremo sopraffatti dalla tensione!
Per metterci al riparo da uno stress inutile, in casi come que-
sto, occorre cambiare il nostro atteggiamento. Una buona
soluzione può essere accontentarsi, almeno all’inizio, di un
obiettivo più modesto. Puntare all’eccellenza può rivelarsi
una fonte di stimoli e di motivazione (e quindi di tensione
positiva); ma puntare a essere i migliori può far sì che la ten-
sione sconfini nello stress. Se è vero che lo stress è la reazione
a un livello di tensione inappropriato, cambiare il proprio
modo di reagire alle circostanze esterne può costruire una
soluzione efficace per gestire meglio la tensione. Per dirla
con il linguaggio degli specialisti, si tratta di mettere in atto
una «ristrutturazione cognitiva».
4. Essere assertivi. La questione dell’assertività sarà oggetto del
capitolo quinto, sicché non ci dilungheremo, in questa sede,
sull’argomento. Va comunque ricordato che l’essere assertivi
— trovare, cioè, un ragionevole punto di equilibrio tra gli
estremi della sottomissione e dell’aggressività — è un aspetto
importante dello stress management. L’assertività ci aiuta a
impedire agli altri di disporre di noi a loro piacimento, ma
serve anche a prevenire i conflitti; o, quantomeno, a ridurne gli
effetti negativi, come vedremo nel corso del capitolo quinto.
5. Mantenere il controllo. Questo principio non si riduce al
classico messaggio del «non farsi prendere dal panico», che

60
pure è importante. La verità è che, quando siamo sottoposti
a una forte tensione, è facile che perdiamo la padronanza
di noi stessi e delle cose che facciamo. Da una ricerca di
qualche anno fa sui casi di abuso minorile (DoH, 1991),
ad esempio, emergeva che gli assistenti sociali dei servizi di
tutela minorile tendevano a fare molti errori a causa della
tensione a cui erano sottoposti. Era come se le loro capacità
di giudizio si offuscassero, con tutte le conseguenze negative
che ne derivavano. Un buon consiglio, in casi come questi, è
quello di stare calmi e di tenere in mano la situazione. Questo
non vuol dire, peraltro, assumere atteggiamenti autoritari o
impositivi; si tratta soltanto di non lasciarsi sfuggire quello
che sta succedendo attorno a noi, non permettere a noi
stessi di diventare degli osservatori impotenti, vittime delle
circostanze. Molte cose, comunque, vanno ben al di là delle
nostre capacità di controllo; non possiamo che prenderne
serenamente atto (Thompson, 2012a). D’altra parte, occorre
guardarsi dal rischio del disfattismo, tipico di chi sottovaluta
la propria capacità di controllare il corso degli eventi (come
nell’esempio sul time management, presentato nel capitolo
secondo).
6. Tracciare dei confini. Gli equivoci e le ambiguità ci accom-
pagnano nella vita di tutti i giorni, ma quando siamo sotto
pressione possono assumere dimensioni incontrollabili. È
per questo che è importante acquisire una buona capacità
di «tracciare confini». Sono confini che hanno a che vede-
re, prima di tutto, con le responsabilità: occorre avere ben
chiaro ciò di cui siamo e ciò di cui non siamo responsabili.
Ci sono due ottime ragioni per farlo: primo, se abbiamo la
responsabilità di qualche cosa e non ne siamo ben consape-
voli, rischiamo di trovarci seriamente in difficoltà, qualora
le cose si mettano male; secondo, se ci assumiamo l’onere
di impegni che esulano dalle nostre responsabilità (perché

61
di competenza di altri), ci ritroveremo con un «carico» del
tutto gratuito ed evitabile; o, per dirla diversamente, con
un ulteriore fattore di stress. È importante, quindi, saper
riconoscere i confini delle responsabilità nostre e altrui
(Thompson, 2015a).
7. Gestire bene il tempo. Ritorniamo su questo aspetto, trattato
nel capitolo precedente, perché il time management è un
tassello importante per qualsiasi professionista che lavora
con le persone. Come si è visto, occorre gestire non solo il
tempo, ma anche le energie di cui disponiamo; mantenere
livelli di motivazione e di impegno adeguati è essenziale per
affrontare attivamente la tensione, anziché farsene travol-
gere. Gestire bene il tempo di cui si dispone serve anche a
mantenere un buon controllo su di sé e sulla situazione (si
veda il punto 5) e quindi di tenere a bada lo stress. Se invece
perdiamo tempo e non manteniamo un livello di impegno
costante, difficilmente riusciremo ad affrontare le difficoltà
tipiche del lavoro con le persone.
8. Farsi aiutare dagli altri. C’è chi, stoicamente, vorrebbe
sempre affrontare da solo qualsiasi situazione difficile,
senza farsi aiutare da nessuno. È come se chiedere aiuto
fosse un segno di debolezza, qualche cosa da evitare a tutti
i costi. Una strategia di questo tipo è carica di insidie,
perché ci colloca ai margini di quella rete di sostegno e di
aiuto reciproco che, in certi casi, può fare la differenza.
Per evitare questo rischio, l’atteggiamento di chi si crede
«duro e puro», autonomo dagli altri in tutto e per tutto,
andrà senz’altro respinto (Cranwell-Ward e Abbey, 2005).
Un passo importante che va fatto, in questa direzione, è
riconoscere che chiedere aiuto è un segnale di forza, non
di debolezza; un segnale della nostra capacità di gestire lo
stress in modo realistico, nella consapevolezza dei nostri
limiti.

62
Uno sguardo alla pratica 3.2
Sandra sapeva che il suo nuovo impiego sarebbe stato impegnativo, ma
non pensava così tanto. Si sentiva sommersa dal lavoro, senza nessuno
che le desse una mano. All’inizio, decise che in fondo andava bene così:
se la sarebbe cavata da sola, impegnandosi più che poteva. Bastava che
lasciasse da parte i suoi problemi personali, per concentrarsi il più possibile,
anima e corpo, sul lavoro. Un giorno, però, commise un errore che avrebbe
potuto avere conseguenze gravi. Cominciò a rendersi conto che non serviva
a nulla fare finta che i problemi non ci fossero. Decise di parlare con i colle-
ghi di tutte queste sue difficoltà. Di fronte alle risposte che ricevette, cariche
di comprensione nei suoi confronti, rimase veramente stupita. I colleghi si
dissero senz’altro disponibili a venirle incontro e a darle una mano. Uno
di loro, in particolare, fece un’osservazione che aiutò Sandra a capire che
aveva sbagliato a non chiedere aiuto sin dall’inizio: «Avevamo l’impressione
che tu fossi una di quelle persone che vogliono fare sempre tutto da sole, e
detestano il lavoro di équipe».

9. Evitare modi inadeguati di affrontare lo stress. Ci sono dei modi


di affrontare lo stress che sono utili, efficaci e costruttivi. Ce ne
sono altri, però, che si possono rivelare dannosi e distruttivi;
in casi di questo tipo, «il gioco non vale la candela». Se ad
esempio tentiamo di affrontare una difficoltà mettendoci a
bere, reagendo in modo violento, o negando completamente
l’esistenza del problema, rischieremo soltanto di aumentare
la tensione, o addirittura di aggravare la situazione; la «me-
dicina», in altri termini, risulterà peggiore della malattia. C’è
molto da guadagnare a evitare reazioni di questo tipo, sforzan-
dosi di sostituirle con atteggiamenti più propositivi. La cosa
migliore, in linea di principio, è puntare sul fronteggiamento
attivo, prendendo di petto il problema che abbiamo davanti,
senza nutrire eccessiva fiducia nel fronteggiamento passivo
(cioè nel tentativo di fuggire dalla pressione o dal problema).
10. Avere cura di sé. Lo stress tende spesso a renderci sin troppo
duri ed esigenti nei confronti di noi stessi. Ci poniamo degli

63
obiettivi irrealistici (vedi al punto 3), svalutiamo quel che
sappiamo fare, ci rendiamo la vita — in un modo o nell’al-
tro — ben più difficile del necessario. E quanto più stress
incontriamo, tanto più tendiamo ad assumere un atteggia-
mento di questo tipo. Di conseguenza, una buona gestione
dello stress ci richiede anche di prenderci cura di noi stessi; di
non trascurare le nostre capacità, come pure i nostri limiti; di
non pretendere troppo da noi stessi, e di non giudicarci con
severità eccessiva. È importante essere consapevoli di questo
rischio, in modo da cogliere i momenti in cui si verifica; po-
tremo così rivolgerci a una persona di cui abbiamo fiducia,
che ci aiuterà a guardare le cose nella giusta prospettiva.

Conclusione

In queste pagine abbiamo passato in rassegna le principali


«pietre miliari» dello stress management. Seguire queste linee
guida non basterà a garantirvi il successo, ma vi aiuterà a orien-
tarvi nella direzione corretta per gestire al meglio le situazioni
di tensione, minimizzando lo stress. Mi auguro che le idee e i
suggerimenti qui presentati vi incoraggino a proseguire sulla
strada di una migliore gestione dello stress.
Lo stress, come si è visto, è un problema che porta molte
conseguenze negative:
–– può indurre, in primo luogo, un deterioramento delle con-
dizioni di salute;
–– può ridurre il senso di autoefficacia;
–– può mettere in crisi le relazioni con gli altri;
–– può creare un clima negativo, dominato dalla tensione, sul
luogo di lavoro.
E l’elenco potrebbe proseguire; di qui l’importanza di
acquisire delle buone abilità di gestione dello stress.

64
Ma conviene ricordare anche che molte delle altre capacità
di cui parliamo in questo libro hanno a che vedere con una
buona gestione dello stress. Lo stress management, in altri
termini, dipende dal potenziamento di abilità correlate come
time management, assertività, efficacia comunicativa, capacità
di essere sistematici e di concludere. Si tratta, in definitiva,
di saper combinare gli «ingredienti» di abilità diverse, che si
intrecciano e si sostengono a vicenda.

ESERCIZIO 3
Stress, fronteggiamento e sostegno
Per questo esercizio, prendi un foglio di carta e dividilo in tre colonne.
In cima a ogni colonna scrivi: «Fattori di stress»; «Metodi di coping»;
«Fonti di aiuto». Sotto ogni etichetta elenca tutti gli esempi che ti
vengono in mente. Cioè, sotto «Fattori di stress» scrivi tutte le possibili
fonti di stress; sotto «Metodi di coping» elenca i diversi modi con cui
puoi fronteggiare lo stress; sotto «Fonti di aiuto» scrivi le fonti di aiuto
su cui puoi fare leva.
Un esercizio di questo tipo può aiutarti a definire una panoramica dei
problemi legati allo stress che ti trovi a dover affrontare, e può perciò
aiutarti a elaborare un piano per affrontarli. Ad esempio, può aiutarti a
capire che devi rafforzare la tua rete di aiuti; oppure, se ti rendi conto
di avere già un buon sostegno, può aiutarti ad acquisire fiducia. Non
è un esame: se hai finito le idee, sentiti libero di chiedere un parere a
colleghi e ad amici.

65
Capitolo quindicesimo
I colloqui

Introduzione

Prima di tutto, è necessario chiarire che il termine «collo-


quio», in questa sede, si riferisce a qualsiasi discussione formale,
o semi-formale, tra un operatore e uno o più utenti o tra un
insegnante e uno studente o, ancora, tra un infermiere e un
paziente e così via. Parliamo di «colloquio», cioè, in senso ampio,
e non nell’accezione di un «colloquio di lavoro».
Un colloquio è ben altra cosa che una chiacchierata.
Molte volte è lo strumento attraverso cui è possibile avviare un
cambiamento nella situazione. Un buon colloquio deve essere
orientato a uno scopo preciso, al raggiungimento di obiettivi
specifici. Gestire bene i colloqui, pertanto, è un compito che
richiede abilità elevate e che non andrebbe lasciato al caso. In
questo capitolo ci occuperemo proprio delle abilità necessarie
per una buona conduzione dei colloqui ed evidenzieremo al-
cuni degli errori che si tendono più spesso a commettere nella
pratica professionale.
Anzitutto, però, è importante soffermarsi su quello che
andrebbe fatto prima del colloquio stesso.

227
Prima del colloquio

Un buon colloquio si basa su un’accurata progettazione


e preparazione preliminare. Prima di iniziare un colloquio, in
altri termini, è meglio prendere in considerazione tutta una
serie di elementi chiave.

Il tempo e il luogo
La scelta del momento giusto per fare un colloquio può
rivelarsi fondamentale. In molti casi, per la verità, la tempistica
di un colloquio non è poi così importante. In altri casi, però,
la programmazione dei tempi può essere davvero cruciale. Nel
caso di un colloquio con un minore, ad esempio, è meglio non
fissare l’appuntamento all’ora del suo ritorno a casa, da scuola.
Può darsi che il ragazzo abbia bisogno di riposare un po’ o non
abbia ancora avuto il tempo di risistemarsi.
Il fattore tempo può essere importante anche rispetto alla
durata del colloquio. Sia i colloqui brevi e affrettati, sia quelli
eccessivamente lunghi possono rivelarsi inefficaci o addirittura
controproducenti.
Anche l’ambiente, come abbiamo già visto, rappresenta
un aspetto importante per qualsiasi forma di comunicazione.
Il luogo in cui si svolge il colloquio, pertanto, può essere un
elemento determinante. Quale sia il posto migliore, peraltro,
dipende molto da un caso all’altro; l’importante è verificare
sempre, di volta in volta, che l’ambiente in cui ci si trova sia
realmente appropriato, specie nel caso di colloqui su argomenti
delicati, o potenzialmente problematici.

Lo scopo
Un colloquio è, per definizione, una discussione con uno
scopo preciso. È utile tenere sempre ben presente questo aspetto,

228
in fase di preparazione. La chiarezza rispetto agli scopi aiuta a
evitare divagazioni inutili e facilita i progressi nella direzione
dei risultati auspicati.
Esplicitare gli obiettivi aiuta anche i nostri interlocutori
a sentirsi maggiormente a proprio agio rispetto a quanto sta
avvenendo e meno sospettosi o diffidenti nei confronti dell’o-
peratore e delle sue motivazioni.

Siete le persone giuste?


Per certi tipi di colloquio è importante, se non essenziale,
che ci sia un’adeguata «corrispondenza» tra chi conduce il col-
loquio e il suo interlocutore, in termini di genere, o di cultura.
Una donna vittima di violenza sessuale, ad esempio, potrebbe
avere enormi difficoltà a sostenere un colloquio con un uomo.
Un operatore può anche essere esperto nel condurre colloqui,
ma se non è adatto per uno specifico colloquio è meglio sopras-
sedere, onde evitare che il colloquio produca risultati negativi.

La sensibilità linguistica
In certi casi, inoltre, può essere necessario fare ricorso a
interpreti. Laddove emerga un’esigenza di questo tipo, occorre
considerare la situazione con attenzione. È meglio non ricorrere
a un familiare, ad esempio, in un caso caratterizzato da tensioni
all’interno del nucleo familiare; il rischio, in caso contrario, è di
ottenere una rappresentazione deformata (in modo volontario
o involontario) di quanto viene detto. Non è nemmeno il caso
di ricorrere a minori, se non si vuole correre il rischio di esporli
a informazioni inappropriate per loro.

Chi dovrebbe essere coinvolto?


I colloqui, di solito, si svolgono tra due persone soltanto,
ma talvolta possono anche essere presenti più persone al me-

229
desimo tempo. In questi casi, è importante stabilire chi debba
essere coinvolto e chi no. Ancora una volta, non esiste nessuna
regola «pronta per l’uso», che valga sempre. Se non si affronta
la questione, d’altra parte, il rischio è che il colloquio si riveli
inefficace, o che non faccia altro che peggiorare le cose. Può
essere utile fare riferimento alle finalità del colloquio, per de-
cidere, di volta in volta, chi sia opportuno partecipi.

I piani di emergenza
Sarebbe irrealistico predisporre un «piano d’emergenza»
per ogni singolo colloquio, ma è buona norma farlo almeno in
alcune situazioni. Per i colloqui più importanti, ad esempio,
sarebbe un peccato non disporre di una strategia alternativa, nel
caso risulti inefficace l’approccio che si aveva in mente. È quello
che avviene, ad esempio, quando si presentano dei problemi
imprevisti, o delle situazioni di potenziale emergenza.

Le abilità essenziali

Per condurre bene un colloquio è necessario saper appli-


care, da parte degli operatori, almeno alcune abilità essenziali.
Le descriviamo brevemente, una a una.

L’ascolto
Sull’importanza dell’ascolto attivo ci siamo già soffermati
nel capitolo dodicesimo. Il contesto del colloquio è senz’altro
uno di quelli in cui questa abilità si fa apprezzare di più. È im-
probabile, infatti, che un colloquio risulti efficace se non si è in
grado di ascoltare attentamente le persone che si hanno di fronte.
«Saper ascoltare» significa anche saper riconoscere i vissuti
emotivi in gioco. Se una persona prova una rabbia intensa, ad

230
esempio, è improbabile che riesca a fare grandi progressi, sino
a che non avrà riconosciuto, o comunque affrontato, la propria
emozione negativa. Altrettanto importante, per un buon anda-
mento del colloquio, è la capacità di decifrare la comunicazione
non verbale, ossia di saper interpretare quello che ci dice l’altra
persona con il linguaggio corporeo.

L’assertività
Se vogliamo che il colloquio sia orientato a un obiettivo
preciso, e che non lo perda di vista, non possiamo fare a meno
di essere, in una certa misura, «direttivi». Questo non significa
che dobbiamo impartire degli ordini ai nostri interlocutori. Vuol
dire però che dobbiamo sempre mantenere un certo margine
di controllo rispetto all’andamento del colloquio.
Dobbiamo essere, in altre parole, assertivi, per usare un’e-
spressione ampiamente trattata nel capitolo quinto. Dobbiamo
riuscire a realizzare una situazione in cui non c’è nessuno che
perde, perché tutti hanno qualcosa da guadagnare. Si tratta di as-
sumere un atteggiamento che non sia né arrogante nei confronti
degli utenti, né remissivo, al punto da perdere di vista i motivi
del colloquio, o gli obiettivi che perseguiamo per suo tramite.
Saper «condurre», pertanto, è un’abilità sottile. Occorre
tenere sempre le redini del colloquio, senza risultare intrusivi, né
prepotenti. Dobbiamo saper rispondere ai desideri, alle esigenze
e ai sentimenti delle persone; senza dimenticare, però, che quel
colloquio si inserisce in genere in un processo più ampio, di
cui deve rispettare le finalità.

La partnership
Per riuscire a lavorare efficacemente con le persone, dob-
biamo costruire un rapporto di partnership con loro. Un cam-

231
biamento imposto in modo unilaterale, infatti, ha ben poche
probabilità di durare a lungo, rispetto a un cambiamento con-
diviso, e anzi «fatto proprio», dai diretti interessati. L’approccio
cooperativo, in altre parole, è il più efficace, anche se dipende
dalla nostra capacità di conquistarci la fiducia della gente e di
continuare a meritarcela.
Lavorare in questo modo richiede delle abilità che non
vanno sottovalutate. Benché si tratti di abilità che si svilup-
pano più che altro con l’esperienza, si possono fornire alcune
indicazioni di tipo operativo:
–– Non bisogna mai «monopolizzare» la conversazione, che
dovrebbe essere sempre un processo bilaterale.
–– Occorre evitare di far dire agli altri delle cose che non han-
no detto. Nel dubbio, è meglio fare loro una domanda, per
sincerarsi di aver capito bene.
–– Bisogna aiutare le persone a sentirsi sempre a proprio agio, in
modo che siano nelle condizioni di parlare liberamente di sé.
–– Dovremmo chiarire fin dall’inizio che ci teniamo molto a
cooperare con la persona che abbiamo davanti e che il collo-
quio non sarà mai «a senso unico».
Quello di partnership è un concetto molto importante, e
sarà al centro di alcune osservazioni che svolgeremo nella terza
parte del libro.

L’empowerment
C’è anche un altro concetto — già toccato nei capitoli
precedenti — di cui chi è impegnato a tu per tu in un collo-
quio con un’altra persona dovrebbe sempre tenere conto. È il
concetto di empowerment, ovvero quella serie di modalità che
mettono le persone nelle condizioni di recuperare un certo
controllo della propria vita. Attraverso l’empowerment pos-

232
siamo diventare meglio «equipaggiati» per affrontare i nostri
problemi e realizzare gli obiettivi che ci stanno a cuore. Anche
i colloqui, se ben condotti, possono contribuire a questo pro-
cesso, rispetto al quale peraltro un colloquio mal gestito può
provocare danni considerevoli. Nel bene e nel male, la capacità
di conduzione del colloquio da parte nostra può influire non
poco sull’empowerment di chi ci sta di fronte.
Al fine di promuovere l’empowerment, è importante
cercare sempre di:
–– non pregiudicare, e anzi — laddove possibile — rafforzare
l’autostima degli utenti;
–– individuare i fattori che ne ostacolano i progressi, e intra-
prendere azioni dirette a superarli;
–– riconoscere l’esistenza di forme di discriminazione e di
oppressione, che rientrano nell’esperienza di vita di tutti
noi, specie nel campo delle dinamiche interpersonali (vedi i
capitoli undicesimo e ventunesimo).
I colloqui orientati all’empowerment, dunque, sono quelli
che contribuiscono a valorizzare le risorse degli utenti e a su-
perarne le debolezze; o, meglio ancora, a trasformare queste
ultime in nuove risorse.

Uno sguardo alla pratica 15.1


Nell’ambito del suo corso di formazione, Gianna partecipò a un gioco di
ruolo, in cui doveva vestire i panni di un’operatrice che teneva un colloquio
con un ipotetico utente. Il risultato non fu positivo. I supervisori le spiegarono
che trovavano il suo stile di conduzione del colloquio arrogante, quasi privo
di sensibilità; uno stile, insomma, che non avrebbe certo contribuito all’empo-
werment dell’utente. Da parte sua, Gianna aveva sempre ritenuto di avere uno
stile autorevole, da persona sicura di sé. Riguardando il filmato del colloquio,
però, si rese conto che aveva quasi «monopolizzato» la conversazione, senza
permettere all’altra persona di contribuire attivamente al suo svolgimento.

233
L’uso della propria soggettività
I colloqui non si riducono mai al semplice esercizio di una
tecnica. Al contrario, sono sensibilmente condizionati dalla
personalità, dall’esperienza, dalle competenze di chi li conduce.
Dipendono molto, cioè, da quanto — e da come — l’operatore
investe della propria dimensione soggettiva. Potremmo scegliere,
tra le altre cose, di fare degli esempi che nascono dalla nostra
esperienza personale, per aiutare gli altri a comprendere una
particolare situazione, o per indicare loro degli scenari alter-
nativi. Questa operazione, però, presta sempre il fianco a due
rischi che andrebbero assolutamente evitati:
1. Il tentativo di imporre le proprie idee, o i propri valori, alla
situazione vissuta dall’altra persona, senza tenere conto delle
differenze tra le rispettive esperienze di vita;
2. Il tentativo di ridimensionare i problemi degli altri, una volta
messi a confronto con i nostri. Così facendo, rischiamo di
trasmettere il messaggio che non prendiamo quella situazione
sul serio, o che la banalizziamo.
Ciascuno di noi ha degli aspetti della propria personalità, o
della propria esperienza di vita, che possono tornare utili agli altri.
Riconoscere questo dato di fatto può servire a darci la fiducia in
noi stessi che è indispensabile per fare buon uso di questi aspetti.

Sopportare i momenti di silenzio


Certi colloqui, specie quando affrontano questioni di
grande rilevanza emotiva, possono anche richiedere dei mo-
menti prolungati di silenzio. È quello che avviene, ad esempio,
quando il nostro interlocutore è troppo sconvolto per parlare, o
ha bisogno di una pausa di riflessione. Capita spesso, in questi
momenti, che ci sentiamo profondamente a disagio. Sentiamo,
magari, che spetta a noi riempire il prima possibile quel «vuoto»

234
improvviso; che è compito nostro dire qualcosa — al limite
qualsiasi cosa — per interrompere quel fastidioso silenzio.
Nonostante la tensione che proviamo, però, è fondamentale
che sappiamo resistere alla tentazione di «riempire il silenzio».
Dovremmo imparare a sopportare anche i momenti di silenzio,
per più di una buona ragione:
–– come segno di rispetto per la persona, e di sensibilità nei
confronti dei suoi vissuti emotivi;
–– perché, in caso contrario, rischiamo di compromettere la
relazione di fiducia con il nostro interlocutore, che tenderà
ad allontanarsi da noi;
–– perché, infine, la capacità di sopportare i momenti di silenzio
è percepita dalla persona come un segnale di sostegno nei
suoi confronti.
Per quanto sia difficile da tradurre in realtà, la capacità di
reggere i momenti di silenzio e di usarli a beneficio di chi ab-
biamo di fronte è una competenza preziosa, che vale senz’altro
la pena sviluppare.

Mantenere i confini
Le interazioni interpersonali possono avvenire su vari
livelli e in «sfere di vita» diverse. Ci sono sempre, a seconda
delle circostanze, delle regole sociali che definiscono i compor-
tamenti più appropriati a ogni situazione. Esiste però il rischio
che il colloquio, se non viene condotto con attenzione, possa
trasgredire queste regole. È una «trasgressione» che può assumere
tante forme diverse, tra le quali:
–– La violazione della riservatezza, che rappresenta — come si
è visto nel capitolo precedente — una questione di grande
importanza. È necessario riconoscere, però, i «confini» entro
i quali essa può essere effettivamente rispettata.

235
–– Un aspetto importante del lavoro con le persone è dato dalla
qualità dei rapporti con i nostri interlocutori. Un «buon rap-
porto», però, è cosa diversa dall’amicizia, la quale può anche
pregiudicare, a volte, il buon esito di un intervento professio-
nale. È importante, quindi, non perdere di vista la distinzione
tra semplici rapporti interpersonali e rapporti professionali.
–– Gli operatori si inscrivono, generalmente, in una rete più
ampia, che comprende altre figure professionali e/o volontari.
C’è sempre il rischio latente che, nell’ansia di renderci utili a
tutti i costi, ci facciamo carico di mansioni che spetterebbero
ad altri. Il che può avere effetti negativi, sotto quattro punti
di vista:
1. È probabile che l’operatore a cui «togliamo il lavoro» sia
più esperto di noi nello specifico compito di cui si occupa.
2. Queste «invasioni di campo» possono generare risentimenti
e ostacolare lo sviluppo delle partnership.
3. Dedicare del tempo al lavoro altrui sottrae del tempo, ine-
vitabilmente, alle attività di nostra specifica competenza.
4. Se svolgiamo mansioni che non siamo ufficialmente tenuti
a svolgere, non è detto che il nostro datore di lavoro o
la nostra assicurazione ci possano coprire nel caso in cui
qualcosa andasse storto.

La struttura del colloquio


Così come per le forme di comunicazione scritta, anche
per i colloqui è bene disporre di una struttura definita. Si tratta
di seguire, in linea di massima, lo stesso modello tripartito che
è stato presentato a proposito delle relazioni scritte (si veda il
capitolo quattordicesimo):
1. La tappa introduttiva. È questa la fase iniziale del colloquio,
che spesso comprende alcune espressioni di cortesia, con
l’obiettivo di aiutare le persone a rilassarsi e a calarsi nel

236
proprio ruolo. È anche importante, in questa fase, esplicitare
le finalità e l’oggetto specifico del colloquio. Se questi aspetti
non vengono chiariti fin dall’inizio, si rischia che l’intero
svolgimento del colloquio ne risulti condizionato e che si
crei un clima di diffidenza tra le parti coinvolte.
2. La parte centrale. La fase intermedia è quella in cui si deve
svolgere gran parte del colloquio. Nel corso di questa fase
si scambiano le informazioni rilevanti e si sviluppa l’attività
di problem solving. È questo lo snodo in cui si assumono
decisioni, si prendono accordi, si affrontano i conflitti e si
realizzano — o si interrompono — eventuali progressi.
3. La conclusione. Trarre le fila di un colloquio, quando ormai
ci si avvicina alla conclusione, è un compito che richiede
competenze elevate: si tratta di fare sintesi dei contenuti
trattati, di stabilire che cosa potrebbe accadere nel futuro
immediato (ad esempio la data e l’orario di un nuovo collo-
quio), di verificare che la persona abbia compreso bene gli
accordi presi, e via discorrendo. In questa fase può anche
essere utile qualche frase con tono informale, da chiacchie-
rata, per chiudere l’interazione.
Organizzare i colloqui in questo modo ci aiuta a non
perdere di vista gli obiettivi perseguiti e contribuisce a dare
professionalità al nostro operato. È importante, però, non
confondere l’idea di «struttura» con quella di «rigidità». I due
concetti, infatti, non coincidono. Occorre sempre un certo
grado di flessibilità. Su come costruire un buon equilibrio, via
via, tra struttura e flessibilità, si ritornerà nel corso del capitolo
ventiduesimo.

Riassunti e feedback
Come ho già ricordato, saper fare un buon riassunto è un
aspetto importante nella conclusione di un colloquio. Questa

237
stessa capacità, però, può rivelarsi utile anche nelle fasi prece-
denti. Saper riassumere alla persona con cui si parla gli aspetti
essenziali di quello che si è detto può risultare utile per molti
motivi:
–– per confermare all’altra persona che la stiamo ascoltando;
–– per far emergere le eventuali incomprensioni, o i frainten-
dimenti che potrebbero essersi realizzati precedentemente;
–– per chiarire meglio i punti d’accordo e di disaccordo;
–– per riepilogare l’andamento del colloquio nel suo insieme,
evidenziando i vari fili tematici che si sono intrecciati in esso;
–– per lasciare all’altra persona un po’ di tempo e di spazio per
riflettere, o per rielaborare quanto le è stato detto;
–– per incoraggiare la collaborazione, esplicitando un punto di
vista condiviso dall’altra persona;
–– per contribuire a fare sì che il colloquio non «esca dal semi-
nato», sino ad andare completamente fuori tema.

Gli errori da evitare

Se è importante acquisire le abilità appena descritte, per


gestire bene un colloquio, occorre anche evitare tutta una serie
di errori. La stessa capacità di aggirarli rappresenta, di per sé,
qualcosa di prezioso da imparare. È assai utile, quindi, com-
prendere bene quali siano i rischi che si possono correre più di
frequente. A tale scopo, ci accingiamo a descrivere alcuni dei
classici «tranelli» in cui si può incorrere nella conduzione di un
colloquio (vedi anche la figura 15.1).

Le dinamiche collusive
Berne (1968) ha descritto tutta una serie di «giochi» che
si possono innescare nelle relazioni interpersonali. Tali dina-

238
miche possono impedire uno svolgimento sereno e costruttivo
del colloquio. In altri termini, possono ostacolare il normale
svolgimento dei processi di comunicazione.
Non di rado, queste dinamiche fanno leva su un elemento
«collusivo». È quello che avviene, ad esempio, quando si crea
un tacito accordo tra le parti, del tipo: «Io non ho intenzione di
provocarti, se tu non mi provochi». Accordi di questo genere,
quasi mai esplicitati ma per nulla infrequenti, si traducono
in una complessa «ragnatela» di sottili accorgimenti, basati
sulla complicità di entrambi gli interlocutori. Quando questo
avviene, le possibilità di realizzare un buon colloquio — in
termini di collaborazione e di empowerment — si riducono
notevolmente.

Dinamiche
collusive
Incapacità
di cogliere le
Chiacchiere
implicazioni della
a vuoto
struttura
sociale
ERRORI
DA EVITARE

False Gergo
rassicurazioni specialistico

Promesse

Fig. 15.1 Gli errori da evitare.

239
L’incapacità di cogliere i risvolti della struttura sociale
Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza a non
notare, o a evitare deliberatamente, tutte le questioni legate
allo «status quo» della struttura sociale. Si parla ad esempio,
nel mondo anglosassone, di colour blindness — cioè di «cecità
al colore» (della pelle) — per indicare l’incapacità di tenere
conto delle differenze culturali e degli effetti del razzismo. Si
parla altresì di gender blindness, o di «cecità di genere», quando
si vuole alludere a una visione del mondo unilaterale, che pone
gli uomini e il genere maschile come «unità di riferimento» della
normalità, senza rivolgere attenzione ai problemi, o ai punti di
vista, delle donne.
Quanti lavorano con le persone dovrebbero sempre fare
attenzione a tutti i fattori strutturali che possono alimentare
processi di discriminazione e di oppressione: appartenenza
etnica, genere, età, disabilità, e così via. Anche in sede di collo-
quio, se non si tiene adeguatamente conto di questo, si rischia
di perpetuare le forme di disuguaglianza preesistenti.

Il gergo specialistico
Si è già detto più volte dell’esigenza di esprimersi sempre in
modo chiaro. Un aspetto che va ancora messo in risalto, però, è
rappresentato dai problemi che possono derivare dall’impiego
di espressioni gergali nel corso di un colloquio. Le espressioni
gergali possono senz’altro essere utili per indicare distinzioni e
sfumature di tipo tecnico, che sarebbero difficili da formulare
con il linguaggio colloquiale. Usate in modo inappropriato,
però, tali espressioni possono ostacolare non poco la comuni-
cazione tra le parti.
Occorre inoltre riconoscere che non sempre, quando fac-
ciamo uso di espressioni gergali, ce ne rendiamo conto. Bastano
una parola che a noi sembra semplice, o una sigla non spiegata,

240
per generare confusione e diffidenza nei nostri interlocutori,
se non facciamo attenzione alla differenza tra il linguaggio
specialistico e quello della vita di tutti i giorni.

Le promesse
È facile cadere nella tentazione di fare delle promesse, nel
corso di un colloquio. È una tentazione, però, a cui occorre
assolutamente resistere. Raramente, infatti, si può avere la cer-
tezza di mantenerle; d’altro canto, una promessa insoddisfatta
può mettere gravemente a rischio la fiducia nei confronti di
chi l’aveva fatta.
Anche le promesse più semplici non sempre possono
essere mantenute, sia pure per i motivi più banali, come, ad
esempio, una malattia o cause di forza maggiore. Oltretutto,
molti si trovano a lavorare in un contesto di aspettative sempre
più elevate e difficili da soddisfare; è senz’altro possibile che
certe promesse, per quanto formulate in buona fede, debba-
no poi cedere il passo a priorità di altra natura. La massima
«non fare delle promesse che non potrai mantenere» è sempre
d’attualità; e nel campo dell’insegnamento, del lavoro sociale,
dell’assistenza sanitaria, le promesse che possiamo avere la cer-
tezza di mantenere sono davvero assai poche. Di qui l’esigenza
di usare grande cautela.

Le false rassicurazioni
Questo aspetto è una diretta conseguenza di quello che
abbiamo appena trattato. È pericoloso dare alle persone del-
le false rassicurazioni, se non vogliamo correre il rischio di
comprometterne la fiducia e il rispetto nei nostri confronti.
Di fronte a una persona in difficoltà, è facile cadere nella
tentazione di uscirsene con una frase del tipo: «Vedrai, tutto
andrà bene». Occorre che riflettiamo, però, su quello che po-

241
trebbe accadere qualora le cose non andassero tanto «bene».
In un momento di crisi, è comprensibile che una persona
faccia profondo affidamento sulle cose che le diciamo. È
importante, quindi, evitare di darle rassicurazioni infondate.
Si tratta, semmai, di rassicurarla entro i limiti di ciò che è
realistico (cosa che è perfettamente possibile), evitando di
raccontarle falsità.

Le chiacchiere a vuoto
Del fatto che occorre essere chiari e precisi nel definire
lo scopo del colloquio abbiamo già detto più volte in queste
pagine. Non andrebbe mai sottovalutato, pertanto, il rischio di
scivolare da un colloquio a un insieme di chiacchiere senza capo
né coda. Questo non significa che non ci sia alcuno spazio, in un
buon colloquio, per convenevoli o per chiacchierate informali.
Significa piuttosto che questi elementi dovrebbero rimanere
marginali, rispetto ai contenuti che andranno affrontati nel
corso del colloquio.

Uno sguardo alla pratica 15.2


Barbara era una studentessa in tirocinio che, tra gli altri suoi compiti, do-
veva accompagnare un assistente sociale nelle sue mansioni quotidiane.
Dopo la visita a una famiglia, Barbara era confusa, poiché non capiva che
senso avesse il colloquio a cui aveva appena assistito. Le sembrava che
tutto si fosse ridotto a una discussione generale rispetto alla situazione
della famiglia, senza nessuna precisa finalità. Facendosi coraggio, Bar-
bara fece presente questa sua perplessità. La risposta che ottenne, però,
fu scoraggiante: «Non mi piace essere sempre irreggimentato nelle cose
che faccio; preferisco prendere le cose così come vengono». Agli occhi di
Barbara, quella risposta fu un’ulteriore conferma della confusione di idee
e della scarsa capacità di progettare le cose dell’operatore con cui stava
facendo il tirocinio.

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Conclusione

Saper condurre bene un colloquio, per chi lavora con le


persone, è un’abilità fondamentale. Si tratta di un’attività che
richiede, come abbiamo visto, notevoli competenze, e che presta
il fianco a molteplici difficoltà. Con la pratica — tanto più se
questa è orientata da principi adeguati — è possibile sviluppare
e affinare le abilità che di volta in volta si rendono necessarie.
Così facendo riusciremo anzitutto a evitare gli errori più gravi.
Con l’esperienza, poi, potremo anche acquisire le abilità adatte
a fronteggiare particolari situazioni, o compiti specifici, come
tenere colloqui con adolescenti difficili, o trasmettere all’altra
persona la sicurezza necessaria per convincerla ad «aprirsi».
Condurre i colloqui è uno degli aspetti della pratica pro-
fessionale che racchiude le maggiori potenzialità sulla strada
di un continuo miglioramento — fino a raggiungere livelli di
eccellenza — e che consente, quindi, di trarre soddisfazione
dal proprio lavoro.

ESERCIZIO 15
Pianificare un colloquio
Quello che ti chiedo è di preparare il piano dettagliato di un colloquio,
reale (che intendi effettivamente condurre) o immaginario (che serve
soltanto per fare esercizio). Puoi fare riferimento al paragrafo Prima
del colloquio di questo capitolo. Usa lo spazio sottostante per prendere
appunti.

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