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E’ possibile scansionare, nella storia del diritto del lavoro, alcuni periodi: il primo può essere
individuato come la fase originaria del diritto del lavoro, enucleatasi attorno alla legislazione
sociale che viene risposta alle società di mutuo soccorso (lo Stato fa propria quella tutela fino
ad allora realizzata dalle società di mutuo soccorso) Nel 1898 viene posta in essere una
legislazione disciplinante l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro che segna l’anno zero
della previdenza sociale. Successivamente vi è stato il ventennio fascista durante il quale
sono state azzerate alcune libertà fondamentali quali la libertà sindacale, lo sciopero viene
relegato nell’area della illiceità penale, e tuttavia ci sono alcune legislazioni che vanno a
consolidare il nucleo originario del diritto del lavoro (la legislazione in tema di orario e in tema
di disciplina del rapporto di lavoro degli impiegati). Il ventennio si chiude con la redazione del
codice civile del 1942, nel quale si trova un’attenzione particolare al lavoro attraverso il libro
V, e con ciò si determina una rottura col passato (precedente codificazione del 1865 nella
quale il lavoro non aveva un riconoscimento perché quel codice ereditava i principi della
rivoluzione francese, ed era inserito solo nell’area generica della locazione). Tuttavia il codice
del 1942 risentiva molto dell’ideologia dei principi ispiratori del regime corporativo (infatti non
troviamo descritta una relazione conflittuale tra datore di lavoro e lavoratore, non visualizza la
contrapposizione tra capitale e lavoro, non identifica una contrapposizione di interessi, ma
sacrifica entrambi all’interesse superiore della Nazione, dell’economia). Si dice infatti che le
norme del codice civile sono attraversate da uno spirito comunitarista, ove le istanze
potenzialmente in conflitto vengono completamente azzerate a vantaggio della Nazione).
C’è stato un andamento oscillante del contratto a termine: inizialmente non era ammesso, poi
nella 230/1962 si avevano dei limiti ben precisi, successivamente i limiti si sono allargati. I
giorni nostri sono segnati dalla legge Biagi che è una legge che conta al suo interno più di 80
articoli, molti dei quali hanno avuto bisogno di integrazioni legislative di funzione attuativa. La
legge Biagi (D.Lgs. 276/2003) è stata anticipata da una legge di delega nr. 30/2003, a sua
volta anticipata da un documento programmatico: il libro bianco. Il professor Biagi è stato
l’artefice del libro bianco, che risulta essere, quindi, la matrice del D.Lgs. 276/2003.
Qual è l’oggetto del diritto del lavoro? Di chi si occupa il diritto del lavoro? In che modo se ne
occupa?
Anzitutto c’è da distinguere tra il contratto di lavoro subordinato (prestatore di lavoro
subordinato) e il contratto d’opera (lavoratore autonomo). Il diritto del lavoro regge su questa
distinzione tipologica. Si dice anche che il diritto del lavoro è strutturato da una specifica
dicotomia tipizzante rappresentata dal lavoro subordinato e dal lavoro autonomo. Il nostro
ordinamento, a differenza di altri quali Regno Unito, Germania, Francia, ha nozioni generali
legali descrittive di questi contratti. Il caso che più si approssima a quello italiano è quello
spagnolo ove non esiste una nozione generale di lavoro autonomo, bensì una nozione
generale di lavoro dipendente. L’Italia è l’unico paese ad avere, per ciascun tipo contrattuale,
una specifica nozione. I francesi hanno ancora il codice Napoleone, ove il contratto di lavoro
è inserito nella forma locatizia (era ciò che prevedeva anche il codice civile italiano del 1865).
La nozione legale generale di prestatore di lavoro subordinato è nell’art. 2094 c.c., mentre la
norma del contratto d’opera –locatio operis- (da cui estraiamo la figura del lavoratore
autonomo) è nell’art. 2222 c.c.
Art. 2094 c.c.: “Prestatore di lavoro subordinato. E’ prestatore di lavoro subordinato chi si
obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro
intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Art. 2222 c.c.: “Contratto d’opera. Quando una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo
che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”.
L’oggetto del diritto del lavoro ha a che fare con una dicotomia tipizzante, ossia vi è una
contrapposizione tipologica nella materia ed è determinata dal lavoro subordinato e dal
lavoro autonomo. Il primo si ricava dall’art. 2094 c.c. il quale si oppone all’art. 2222 c.c.
Cosa risulta dal raffronto letterale delle due norme? Qual è l’elemento che le differenzia?
Nella prima si ha la subordinazione di un soggetto, nella seconda no. L’elemento
discriminante è, in un caso, la subordinazione, nell’altro caso, l’assenza di subordinazione. I
tipi contrattuali nel diritto sono due e l’elemento discriminante dei tipi contrattuali consiste
nella subordinazione. A questo punto diventa fondamentale chiarire l’espressione
“subordinazione”. Molta della discussione dottrinale ha avuto per tema l’approfondimento del
concetto di subordinazione. Si è data tanta importanza all’argomento perché alla
subordinazione si collegano degli effetti: nell’ordinamento lavoristico, all’esistenza della
subordinazione, in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, conseguono effetti
L’elemento distintivo delle due tipologie tipizzanti il diritto del lavoro è la subordinazione.
L’individuazione della subordinazione è importante perché permette di capire qual è la
disciplina applicabile. L’ordinamento lavoristico si struttura sulla correlazione tra fattispecie
ed effetti. Sono state individuate due teorie, in tema di qualificazione: la prima secondo cui la
nozione di subordinazione deriva esclusivamente dai dati evincibili dall’art. 2094 (metodo di
qualificazione sussuntivo o sillogistico); la seconda per la quale l’art. 2094 visualizza un
lavoratore dipendente senza riuscire a ricomprendere la pluralità in situazioni lavorative,
perché ad esso manca l’elemento della considerazione della disparità socio-economica; è
necessario pertanto considerare anche elementi extra-testuali (metodo tipologico o del
giudizio per approssimazione).
Oggi qual è il metodo della qualificazione? Come si addiviene alla definizione della nozione
di subordinazione? Sotto questo profilo, ancor più della dottrina e degli studi, è necessario
guardare in via prevalente all’attività giurisprudenziale. Un primo rilievo da fare è di natura
metodologica, cioè come procedono i giudici nell’attività di qualificazione? I giudici, sulla
scorta di quelle considerazioni dottrinali volte ad evidenziare l’insufficienza dell’art. 2094 a
descrivere esaustivamente la figura del lavoratore, optano per il metodo tipologico o metodo
dell’approssimazione (adottano la cd. tecnica del fascio di indici). In altri termini, verificano
se, nel caso concreto, sono presenti la maggior parte degli elementi qualificanti la figura
socialmente tipica di lavoratore, sussunta nell’art. 2094 c.c.
I giudici verificano di volta in volta la presenza di quegli elementi caratterizzanti la figura
sociale di lavoratore subordinato, visualizzata nell’art. 2094 c.c. In sostanza, per la
giurisprudenza ogni attività umana, in via di principio, può essere ricondotta o nel lavoro
autonomo o nel lavoro subordinato. Si tratterà tutte le volte di valutare in concreto, in base
alla tecnica del fascio di indici, in base al metodo tipologico o per approssimazione, se quel
caso sia riconducibile all’una o all’altra tipologia contrattuale.
La subordinazione è qualche cosa che si qualifica nel contenzioso, è una questione di rilievo
pratico essenziale perché ad essa si connette una disciplina protettiva (ad esempio, in caso
di infortunio, come lavoratori autonomi non si avrebbe diritto ad una tutela indennitario e ad
eventuali risarcimenti del danno in base alla responsabilità contrattuale, se si è dipendenti sì
invece). L’altro rilievo di grande significato è l’estrema incertezza derivante dal metodo
tipologico, nel senso che l’uso della tecnica del metodo dell’approssimazione genera
incertezza, in quanto possiamo scarsamente prevedere quali potranno essere le conclusioni
di un giudice. La tecnica del fascio d’indici non consente di valutare preventivamente quello
che potrà essere l’orientamento del giudice perché potremmo essere di fronte ad un giudice
che dà un’interpretazione molto elastica oppure restrittiva dell’eterodirezione. Questa è una
considerazione della quale la legge Biagi ha voluto occuparsi, essa ha voluto risolvere uno
dei problemi, a detta del libro bianco, più rilevanti e cioè il problema dei collaboratori
coordinati continuativi. Il libro bianco (documento programmatico) ha considerato i co.co.co.
dei lavoratori autonomi (lavoratori autonomi celati) perché le imprese con quella forma
contrattuale riescono ad evadere la disciplina del diritto del lavoro. L’obiettivo del libro bianco
era quello di sciogliere questi lavoratori dalla forma co.co.co. Pertanto il libro bianco, poi la
Con le trasformazioni della produzione, con il passaggio dal fordismo al post-fordismo sono
aumentate le figure autonome per un verso (nell’esercizio della prestazione), ma dipendenti
sotto altro aspetto (economico-sociale). Questo fenomeno di crisi dell’eterodirezione è
iniziato negli anni ’80 e sta caratterizzando non solo l’ordinamento lavoristico italiano. In
questi vent’anni si è cercato di risolvere questa problematica attraverso varie proposte, per
arginare il fenomeno della restrizione dell’ambito di applicazione del diritto del lavoro (se
decresce il numero di lavoratori subordinati, decresce anche il numero a cui applicare la
normativa di tutela).
Tra le proposte, il sindacato ha detto di ampliare l’area dei significati possibili attribuibili
all’art. 2094 (cioè di concepire una fattispecie di lavoro subordinato tale da ricomprendere
non solo il lavoro cd. eterodiretto, ma anche il lavoro dipendente economicamente). Quindi il
sindacato ha ritenuto necessario modificare la fattispecie di lavoro subordinato tale da
consentire la riconduzione ad essa di ipotesi di lavoro non solo eterodirette ma anche
subordinate sotto il profilo economico-sociale.
Altri hanno sostenuto che il problema non si pone a livello della fattispecie (art. 2094) ma
semmai può essere risolto attraverso un superamento della dicotomia tipizzante. Cioè è
necessario immaginare una figura di lavoro costituente un terzum genus, una figura che si
collochi a metà strada tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato. Quale disciplina si
applica ad una figura di mezzo? Parte della disciplina preventiva del diritto del lavoro.
La terza proposta è quella che ritiene necessario scindere la nozione della correlazione tra
fattispecie ed effetti. Cioè azzerare la regola della inscindibile correlazione tra fattispecie ed
effetti. Questa tesi propone, quindi, l’applicazione del diritto del lavoro anche al di là del
lavoro subordinato. Secondo questi studiosi è prioritario, in questo momento storico, tutelare i
lavoratori indipendentemente dal tipo di lavoro.
Le prime due posizioni dottrinali operano sul fronte della fattispecie, mentre la terza tralascia
il problema delle nozioni per affrontare il problema della disciplina applicabile.
In questo complicato scenario che vede la trasformazione del lavoro e il dibattito
dottrinale/legislativo sulla fattispecie e sulla disciplina applicabile, si è collocato il D.Lgs.
276/2003 con la disciplina del lavoro a progetto. In altri termini, il lavoro a progetto da una
risposta a queste problematiche. A due anni dall’attuazione del decreto, soltanto ora si ha il
formarsi dei precedenti giurisprudenziali (le tre sentenze trattate con l’avv. Bianchi).
Le pronunce giurisprudenziali aiutano a capire quale posizione abbia assunto il legislatore, in
ultima analisi, rispetto alle tre posizioni sopra descritte (modifica della fattispecie o
superamento della fattispecie o intervento sul fronte della disciplina applicabile).
I lavoratori, nelle tre sentenze trattate, si sono rivolti all’autorità giudiziaria perché venisse
riconosciuta l’esistenza del lavoro subordinato. Al contrario, il lavoro a progetto è una
fattispecie di lavoro autonomo. Il D.Lgs. 276/2003 è l’epilogo normativo di un dibattito
ventennale. Aumentano le figure di lavoratori autonomi ma che, tuttavia, si percepiscono
dipendenti, cioè aumentano i co.co.co. (sono autonomi eppure coordinati e continuativi).
Il legislatore del D.Lgs. 276/2003 ha preso una posizione rispetto al tema della fattispecie e
delle tipologie tipizzanti, identificando il lavoro a progetto come lavoro autonomo. Quindi il
legislatore ha confermato le due fattispecie già esistenti (non ha creato un terzum genus). Il
lavoro a progetto ha sostituito le collaborazioni coordinate continuative, salvo alcuni casi
Il D.Lgs. 368/2001, non diversamente dal D.Lgs. 61/2000, costituisce attuazione di una
direttiva comunitaria, la nr. 70 del 1999. Il D.Lgs. 368/2001, oltre ad aver attuato la
direttiva, ha anche ridisegnato la disciplina del contratto a termine, abrogando, quindi, la
legge 230/1962.
Quando è possibile apporre legittimamente un termine ad un contratto di lavoro? Il
D.Lgs. 368/2001 si regge su questa struttura:
1) la norma art. 1 comma 1, il quale definisce le condizioni generali per la legittima
apposizione di un termine: “E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del
contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo”;
2) tre articoli che, in vario modo, derogano a questa norma centrale:
a) art. 3 “Divieti” il quale esplicita i casi che contengono un elenco tassativo di ipotesi
alle quali non si applica l’art. 1.1, e sono:
- per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero (perché si
saboterebbe l’autotutela)
- ove nei precedenti 6 mesi siano stati effettuati licenziamenti collettivi (l’impresa
non può assumere nuovo personale a tempo determinato per svolgere le stesse
mansioni di quello precedentemente licenziato)
- nei casi in cui vi siano riduzione d’orario (per periodi di crisi dell’impresa), ad
esempio la cassa integrazione
- nelle aziende che non hanno redatto la valutazione dei rischi secondo il D.Lgs.
626/1994. Questa è una norma promozionale per l’applicazione della 626/1994 e
punitiva per chi non l’ha attuata (che quindi non ha la possibilità di servirsi del
contratto a termine).
contratto di
somministrazione
(forma scritta)
pagamento prezzo
contratto
A contratto di lavoro a tempo indeterminato
B contratto di lavoro a tempo determinato
di lavoro
Interposizione: scissione tra chi “usava” il lavoratore e chi risultava essere formalmente
il datore di lavoro.
L’appalto di manodopera è sempre stato vietato mentre il contratto di appalto no. Che
differenza c’è tra i due? Nel contratto di appalto lecito non si ha interposizione perché
la differenza sta fondamentalmente nell’appalto (obbligazione di “fare”), mentre
nell’appalto di manodopera c’era un’obbligazione di “dare”. Nella fattispecie vietata il
soggetto terzo si limita a dare i lavoratori.
Art. 1655 c.c.: definizione di appalto. I requisiti legali sono:
- l’organizzazione dei mezzi necessari
Il lavoro somministrato è atipico sotto il profilo della durata e per la presenza del terzo
soggetto. Il vero contratto è quello stipulato tra somministratore ed utilizzatore
(imprenditore). L’art. 20 del D.Lgs. 276/2003 detta le “Condizioni di liceità”. L’agenzia
deve essere autorizzata.
Art. 2105 c.c. = obbligo di fedeltà. E’ un obbligo che opera anche nel caso in cui la
prestazione di lavoro conosce alcune vicende sospensive (es. maternità, scioperi, etc.), a
differenza dell’obbligo di diligenza. L’obbligo dell’art. 2105 c.c. si concretizza in una
serie di divieti, finalizzati alla protezione degli interessi del datore di lavoro.
Art. 2598 c.c. relativo alla concorrenza sleale. La differenza tra l’art. 2105 c.c. e il
2598 c.c. è che nel primo viene presupposta una relazione contrattuale. L’interpretazione
giurisprudenziale ha ritenuto che il lavoratore viene meno a quest’obbligo quando svolge
mansioni assai simili a quelle svolte dal datore di lavoro. Si tratta di vietare un analogo
lavoro nel quale venga impiegato il know-how del datore di lavoro.
L’art. 2125 c.c., invece, è relativo al patto di non concorrenza. Il patto limita lo
svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro a seguito della cessazione del rapporto
di lavoro. Il patto è nullo se non è scritto ed esso implica un corrispettivo al prestatore
di lavoro e, inoltre, è nullo anche nel caso in cui non abbia specifici limiti in tema di
oggetto, tempo e luogo. La disciplina pone un vincolo inderogabile relativo alla durata
(art. 2125.2 c.c.): tre anni normalmente, cinque anni per i dirigenti. Se si pattuisce una
durata maggiore, essa si riduce a questi due termini.
Che cosa succede quando il lavoratore non adempie a questi obblighi? Art. 2106 c.c.: chi
viola è passibile di una sanzione disciplinare (sanzione pecuniaria, richiamo verbale,
licenziamento, trasferimento, sospensione senza retribuzione, etc.). L’ordine d’intensità
delle possibili sanzioni disciplinari è il seguente:
- richiamo verbale
- richiamo scritto
- sanzione pecuniaria
- trasferimento
- sospensione
- licenziamento
Quali sono le regole che accompagnano il potere disciplinare? L’esercizio del potere
sanzionatorio non può svolgersi al di fuori della tutela della persona. Nell’art. 2106 c.c. ci
sono due criteri: 1) quello della proporzionalità (secondo la gravità dell’infrazione); 2)
quello delle norme corporative (ma il sistema corporativo è caduto nel 1944), per cui si va
a guardare lo statuto dei lavoratori all’art. 7 (legge 300/1970). Quindi il potere
disciplinare può essere esplicato soltanto se il codice disciplinare è messo a conoscenza
L’art. 2087 c.c. entra in vigore anche se le parti non l’hanno espressamente previsto.
Neanche se si è derogato, infatti non è derogabile in senso peggiorativo. L’art. 2087 c.c.,
sotto il profilo prevenzionistico, non ha avuto esito positivo perché ha un contenuto
troppo generico. La figura del RLS Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza non è
un obbligo ma un onere. Può, quindi, non esserci. I corsi di formazione sono, invece, un
obbligo. L’azienda può usufruire di agenzie che possono avere o no l’impegno delle risorse
economiche per la sicurezza; se questa è in capo al lavoratore egli ne risponde anche
penalmente. L’art. 2087 c.c. è una normativa di chiusura ed impone un obbligo di diligenza
al datore di lavoro (es. deve mettere a disposizione i DPI più adatti e tecnologicamente
migliori).
Le norme costituzionali che delineano le linee programmatiche per la tutela della lavoratrice
madre e del nascituro sono l’art. 3 (principio di uguaglianza) e l’art. 37 (nella parte riferita alla
lavoratrice madre). La legislazione ordinaria, invece, si è occupata dei principi della non
discriminazione e della tutela della maternità attraverso la legge 903/1977 (recepimento di
una legge comunitaria), relativa alla non discriminazione sessuale in ambito lavorativo.
Successivamente è stata emanata la legge 125/1991, la quale però non ha carattere
cogente, infatti è nata a seguito di una raccomandazione dell’Unione Europea. La legge
125/1991 introduce il principio di produrre un uguagliamento delle condizioni socio-
economico, solo attraverso questo sistema si può dire che il principio di eguaglianza è
effettivamente attuato. La normativa si è ulteriormente sviluppata con il D.Lgs. 145 /2005,
anch’esso strumento di recepimento di una direttiva Europea, che ha analizzato ulteriori
aspetti quali le molestie sessuali.
Per quanto concerne la maternità, la prima legislazione che se ne è occupata è la 1204/1971
i cui tre punti di forza sono:
1) c’è un’interdizione al potere di recesso del datore di lavoro, tale interdizione va dal
momento dell’insorgere della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino. In questo
periodo, nel caso si determinasse un atto di recesso, ci sarebbe una presunzione di
comportamento illegittimo, infatti, il licenziamento sarebbe di natura discriminatoria;
Il trattamento economico del congedo parentale prevede una retribuzione minima del 30%,
salvo la possibilità per il lavoratore di chiedere quota del TFR per pareggiare il minor introito.
Il congedo parentale funziona, in sostanza, in questo modo: se si decide di usufruire di tutta
l’astensione subito (entro il primo anno di vita del bambino) si ha diritto al 30% della
retribuzione; laddove invece si decidesse di scaglionare l’astensione per usufruirne
successivamente, non è più garantito il 30% della retribuzione, ma solo se il nucleo
famigliare non supera un certo reddito. Mentre in passato l’astensione facoltativa prevedeva
un versamento del 30% a carico dell’Inps, salvi ulteriori %, a carico del datore di lavoro,
derivanti da accordi collettivi.
Il genitore solo può usufruire del congedo parentale per la totalità dei 10 mesi. Nei casi
particolari di infermità fisica di uno dei due genitori, l’altro viene considerato “solo” e può
usufruire del congedo come “solo”.
La malattia è un'altra di quelle ipotesi di sospensione per incapacità sopravvenuta che
comportano, quindi, la conservazione del posto e della retribuzione (art. 2110 c.c.). Tuttavia,
la conservazione del posto non è a tempo indeterminato, infatti ci sono delle soglie che se
superate, il rapporto può essere legittimamente risolto. Tali soglie sono stabilite nei contratti
collettivi (o secondo gli usi) e prevedono la valutazione del comporto secco (singolo evento di
malattia) e del comporto per sommatoria (in un certo arco di tempo), definendone i valori. Il
lavoratore ha l’obbligo di avviso tramite raccomandata con ricevuta di ritorno.
Un’altra possibile causa di sospensione è il servizio militare (viene sospeso l’obbligo
retributivo ma rimane quello della conservazione del posto). Il D.Lgs. 53/2000 ha poi previsto
ulteriori pause/permessi, quali, i congedi formativi, i congedi famigliari, i congedi per malattia
del bambino (tutti a costo zero per il datore di lavoro).
Queste tutele non sono previste per i lavoratori autonomi e per quelli a progetto.
La tutela della maternità per le lavoratrici a progetto è prevista solo nella forma
dell’astensione obbligatoria. Il congedo di maternità per la lavoratrice a progetto è previsto
per i 5 mesi e, di conseguenza, il termine del progetto (durata del contratto) si prolunga di 5
mesi. La lavoratrice a progetto però, a differenza di quella di subordinata, non ha l’obbligo di
astensione, infatti può, per ipotesi, lavorare fino all’ultimo giorno prima del parto ed usufruire
dei 5 mesi tutti post-partum (la lavoratrice dipendente ha l’obbligo dell’astensione e, al
massimo, può portare da 2 ad 1 i mesi prima del parto). Questo perché il lavoro subordinato,
I licenziamenti collettivi (legge 223/1991) sono differenti dai licenziamenti individuali, infatti è
la stessa legge 604/1966, all’art. 11 comma 2, a dichiarare la propria estraneità al problema
dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale.
Il problema dei licenziamenti collettivi non è stato trattato da una legge, bensì dall’autonomia
collettiva, cioè ha costituito oggetto di accordi, i contratti collettivi. Questi consentivano una
pluralità di licenziamenti per motivi organizzativi/aziendali a patto che tali licenziamenti si
sottoponessero ad una specifica procedura. Per un lungo periodo la materia è stata regolata
da accordi collettivi, i quali, per loro stessa natura, non trovano un’applicazione generalizzata
ma trovano applicazione nei confronti di chi sono iscritti alle organizzazioni sindacali
stipulanti l’accordo. La tutela, quindi, c’era ma copriva alcuni settori e non altri; copriva le
vicende di licenziamento rispetto a quelle aziende che fossero iscritte alle organizzazioni
sindacali stipulanti l’accordo. Per le altre imprese non vi era alcuna disciplina.
Ad un certo punto l’Unione Europea, negli anni ’70, in coincidenza con le prime grandi crisi di
tipo economico (di tipo petrolifero), interviene con una sua regolamentazione e lo fa in tre
volte: la prima appunto negli anni ’70, poi successivamente e poi recentemente con una terza
direttiva che è un po’ la somma delle due precedenti. L’ordinamento italiano, dopo aver avuto
due procedimenti di infrazione per mancato adempimento delle direttive, decide, solo nel
1991, di disciplinare la materia e di colmare, quindi, il vuoto legislativo, solo in parte riempito
dall’intervento dell’autonomia negoziale collettiva.
Nasce la legge 223/1991 che affronta la nozione di licenziamento collettivo. La definizione
che viene data si appoggia su due criteri (requisiti definitori): il primo criterio si può definire di
tipo numerico-temporale, il secondo di tipo qualitativo.
Il criterio numerico-temporale stabilisce che siamo di fronte ad un licenziamento collettivo
quando esso coinvolge almeno 5 lavoratori, in uno specifico arco temporale di 120 gg. Un
altro criterio numerico è rappresentato dalla consistenza numerica dell’impresa che deve
avere un’unità produttiva superiore/uguale a 15 dipendenti.
Il criterio qualitativo determina che il licenziamento deve essere caratterizzato da una
specifica causale e la legge dice che deve essere conseguenza di una riduzione o
trasformazione di attività di lavoro (causale di natura oggettiva).
Questi criteri devono ricorrere tutti contemporaneamente per richiamare la nozione di
licenziamento collettivo, se ne manca uno si ricade nella disciplina del licenziamento
individuale per motivi oggettivi.
Come si accede ad un licenziamento collettivo? In cosa consiste la disciplina applicata al
licenziamento collettivo?
Si può accedere alla procedura di licenziamento collettivo per due vie: in via diretta o in via
indiretta. Comunque la disciplina è unica. Per via diretta è quando l’imprenditore, in presenza
di una crisi aziendale di tipo irreversibile, decida di intimare una serie di licenziamenti. Per via
indiretta è quando l’imprenditore, dato che con il decorso un certo periodo le cose si
potrebbero risanare, chiede l’aiuto dello Stato attraverso un ammortizzatore sociale e cioè la
cassa integrazione straordinaria (l’INPS interviene nell’erogazione della retribuzione). Dopo
tale periodo si potrebbe avere un rientro della crisi aziendale oppure un’inevitabile espulsione
della parte lavoratrice eccedente attraverso il licenziamento collettivo che qui viene a
chiamarsi licenziamento per messa in mobilità.
In realtà le due ipotesi non sono differenti, solo che una è differita e l’altra è immediata.
Come per il licenziamento individuale, per il licenziamento collettivo la tutela non si spinge
alla valutazione nel merito delle scelte aziendali (l’ordinamento non interviene a sindacare le
I licenziamenti collettivi, prima della legge 223/1991, erano disciplinati dagli accordi quadro
(l’autonomia negoziale collettiva) ma questi erano insufficienti perché erano applicabili solo ai
soggetti iscritti alle organizzazioni stipulanti l’accordo. Gli elementi essenziali della disciplina
della 223/1991 sono: criterio numerico temporale e qualitativo. La differenza tra il
licenziamento individuale e quello collettivo sta, per quest’ultimo, sotto il profilo numerico
temporale e non causale. Le vie per accedere al licenziamento collettivo sono due: diretta ed
indiretta. La tutela, in caso di licenziamento collettivo, si articola in un procedimento: c’è una
procedimentalizzazione degli obblighi datoriali (invece, nel licenziamento con giustificato
motivo oggettivo la garanzia è rappresentata, non dal procedimento ma, dall’obbligo del
ripescaggio). La procedura si articola in due fasi: quella sindacale e quella, eventuale ,
amministrativa. Se entrambe le fasi falliscono, si ha la possibilità del datore della mobilità dei
lavoratori. I soggetti da licenziare vengono discriminati attraverso dei criteri di scelta, ossia:
carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Questi criteri
operano in via sussidiaria (assenti i criteri negoziali), infatti la determinazione dei criteri è
oggetto della contrattazione collettiva.
La condotta antisindacale, regolata dall’art. 28 dello statuto dei lavoratori. L’art. 28 prevede
un particolare procedimento volto alla repressione della condotta antisindacale. E’ un
procedimento molto efficace per rendere effettivo il principio di attività sindacale e il diritto di
sciopero, quindi l’art. 28 dello statuto dei lavoratori è chiaramente a tutela dei diritti sindacali
(libertà e attività) e il diritto di sciopero. E’, pertanto, una norma fondamentale.
Art. 28.1: “Repressione della condotta antisindacale. Qualora il datore di lavoro ponga in
essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività
sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni
sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il
comportamento denunziato…..”
Questo è uno strumento volto a reprimere tutti i comportamenti del datore di lavoro diretti ad
impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché il diritto di sciopero.
Leggendo questo articolo si evince che la condotta antisindacale si ha tutte quelle volte in cui
ci si trovi di fronte ad un comportamento del datore di lavoro diretto ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale e del diritto di sciopero. Non c’è, quindi, una
definizione specifica di “condotta antisindacale”. Quindi di tale comportamento non sono
specificate le caratteristiche strutturali, bensì l’individuazione della condotta sindacale si ha in
base all’idoneità del comportamento a ledere i beni protetti (libertà e attività sindacale e diritto
di sciopero). La condotta antisindacale, così come è regolata dall’art. 28 della legge
300/1970, non è individuata con una fattispecie specifica bensì con una fattispecie aperta.
Ogni volta che si fa un procedimento ex art. 28, il giudice non si troverà di fronte una norma
che individua già la fattispecie, ma dovrà analizzare il comportamento del datore di lavoro per
capire se lede i diritti protetti. Come mai il legislatore non ha dato una definizione di condotta
antisindacale precisa? Perché si è pensato che questo potesse essere uno strumento di
tutela migliore rispetto a quello probabilmente previsto se ci fosse stata una fattispecie
specifica descritta. Questo perché una fattispecie così aperta permette di ricomprendere
all’interno della norma stessa tutti i comportamenti, purché mirati a ledere i diritti di libertà
sindacale e di sciopero. E’ significativo il termine usato: “comportamento”, infatti ciò vuol dire
che la repressione della condotta antisindacale, nel particolare procedimento previsto dall’art.
28 dello statuto dei lavoratori, si applica a tutti i comportamenti (non solo ad atti giuridici,
Libertà sindacale (rif. art. 39 Cost.): “L’organizzazione sindacale è libera”. Ci sono le due
tesi: vale solo per i lavoratori, vale anche per i datori di lavoro. Il termine
“organizzazione” è usato di proposito. Il termine “sindacale” ha una definizione
teleologica e una strutturale. Il tema “libertà” va inteso sia in senso positivo, sia in senso
negativo (sono libera di prendervi parte come no). Ciò è chiaro nell’art. 15 della legge
300/1970.
Art. 28 dello statuto dei lavoratori. Si applica quando si determina una condotta
antisindacale (della libertà sindacale, della condotta sindacale e il diritto di sciopero -
art. 40 Cost. “Diritto di sciopero”). Causale generale: licenziamento per giusta causa,
nozione di contratto a termine, licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Procedimento ex art. 28 (nel caso di licenziamento per motivi antisindacali): il sindacato
adisce il giudice del lavoro, se egli ritiene che la violazione sussista, ordina con decreto
al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo.
La contrattazione collettiva
Si era prodotta con una caratteristica che, a seguito dell’avvento della Costituzione, si è
persa. Nel periodo corporativo esisteva il sindacato unico (non c’era una dialettica) che
era un soggetto di diritto pubblico. Dopo la Costituzione, le organizzazioni sindacali sono,
invece, privatistiche. Nel primo art. delle preleggi il contratto collettivo costituiva una
fonte e quindi aveva un’efficacia erga omnes. Con la Costituzione cambia tutto. L’art. 39
Cost. definisce come bene la libertà sindacale; in questo art. si vede quali dovevano
essere le caratteristiche del contratto collettivo (39.2 obbligo di registrazione; 39.3 gli
statuti dei sindacati devono seguire il principio democratico; 39.4 il sindacato può
stipulare contratti collettivi-ciascuno in proporzione dei suoi iscritti-con efficacia erga
omnes per la categoria rappresentata. Dopo la Costituzione, i sindacati hanno queste
caratteristiche e il contratto collettivo è efficace? No. Infatti l’art. 39, dal comma 2 in
poi, non ha trovato attuazione per due motivi:
- i sindacati di allora non avevano alcuna intenzione di sottoporsi a controlli pubblici sulla
loro composizione (a causa dell’esperienza avuta nel periodo fascista). Quindi i sindacati
non sono persone giuridiche.
- la particolare opposizione alla legge relativa alla consistenza numerica da parte del
sindacato (allora Cisl) espressivo della maggioranza di governo di allora (DC).
Ciò ha ostacolato una legge attuativa dell’art. 39 che sancisce il diverso peso, in sede di
stipulazione degli accordi, in ragione della consistenza numerica.
I sindacati sono quindi associazioni private disciplinate dal Codice Civile nel titolo delle
persone.
Come è il contratto collettivo post-costituzionale? (terzo modello di contrattazione).
Quali sono le sue caratteristiche?
Nota a parte: nel sistema della contrattazione collettiva di diritto comune, la categoria perde
della sua pregnanza. Nella misura in cui io sono vincolata in quanto aderisco
all’organizzazione sindacale stipulante, è nella mia libertà sindacale aderire al sindacato che
più mi aggrada (e lo stesso vale per il datore di lavoro). Il datore di lavoro, per esempio, può
scegliere di aderire o di rinviare per via esplicita o per fatti concludenti, a contratti collettivi
che non asseriscono il mio settore merceologico. Si potrebbero avere delle segretarie che
hanno come contratto collettivo applicabile quello dei metalmeccanici. Quindi, nel sistema del
contratto collettivo di diritto comune, vale l’adesione all’organizzazione sindacale stipulante,
non vale la categoria.
Esiste il fenomeno, molto esteso, dei contratti collettivi espressamente previsti dalla legge,
che è questione diversa da quella dell’estensione legislativa del contratto collettivo. I contratti
collettivi espressamente previsti dalla legge sono contratti che fuoriescono, assumono tratti di
specialità rispetto alla generica categoria del contratto collettivo di diritto comune. Ciò perché
questi contratti espressamente previsti dalla legge non costituiscono una mera/spontanea
espressione dell’autoregolamentazione di interessi privati, ma sono contratti, espressamente
previsti dalla legge, chiamati a svolgere una funzione di tipo integrativo e, in certi casi,
addirittura sostitutiva, della stessa legge. Questo perché il legislatore ritiene che per alcuni
profili di disciplina sia meglio una regola collettiva, cioè che la mediazione collettiva riesca
meglio a rappresentare gli interessi contrapposti, di quanto non riesca a fare il legislatore. Lo
considera uno strumento migliore, più adeguato (infatti molto spesso il legislatore conferisce
una disciplina di cornice e per molti profili di disciplina rinvia alla mediazione collettiva). Le
tecniche utilizzate sotto tale profilo sono diverse, ma essenzialmente due:
1) la norma legale pone in essere una regola di massima, attribuendo al contratto collettivo il
compito di integrare questa regola. Per esempio, nel D.Lgs. 61/2000 (successivamente
modificato) relativo al part-time;
2) la norma legale pone in essere una regola suppletiva, da applicare quando la materia non
è stata regolata da un contratto collettivo. Per esempio, nei criteri di scelta per i licenziamenti
collettivi, indicati dalla legge in via suppletiva (art. 5 della legge 223/1991).
I contratti collettivi espressamente previsti dalla legge godono di un trattamento diverso,
rispetto ai contratti collettivi di diritto comune, sotto due principali profili: a) dei soggetti
stipulanti; b) dell’efficacia.
a) i soggetti della parte lavoratrice che possono sottoscrivere il contratto collettivo, in
particolare in relazione ai soggetti rappresentativi della parte lavoratrice, sono qualificati o
nominati e sono essenzialmente le rappresentanze sindacali aziendali rsa, oppure soggetti
maggiormente rappresentativi a livello comparativo. In altri termini, questo contratto collettivo
gode di un trattamento speciale nella misura in cui la parte lavoratrice sottoscrive tale
contratto in una forma rappresentativa qualificata. Tali soggetti sono individuati dalla legge.
b) hanno efficacia generale nella misura in cui, anche implicitamente, la legge riconosce al
contratto tale efficacia. Però sorge il dubbio di illegittimità costituzionale: ma come è possibile
estendere l’efficacia aggirando l’art. 39? La dottrina è arrivata a tale conclusione: nella
misura in cui questo contratto, proprio in quanto ad esso è attribuita una funzione
Il legislatore degli anni ’70 non si è limitato a ribadire (“ribadire” perché è un principio scolpito
nell’art. 39.1 Cost.) il principio della libertà sindacale ma ha anche cercato di trovare un
sistema normativo capace di sostenere in concreto l’esercizio della libertà sindacale (non è
sufficiente introdurre obblighi per il datore di lavoro). E’ necessario introdurre un apparato
I dirigenti sindacali, proprio per la loro posizione, godono di ulteriori benefici e vantaggi, al
fine di preservarne l’attività e la funzione sindacale. Il legislatore, infatti, nei confronti di tali
soggetti ha ulteriormente articolato la tutela, prevedendo regole specifiche (solo ad essi
applicabili) in relazione a licenziamenti arbitrari e/o discriminatori. Stabilisce, inoltre, regole
peculiari anche per quanto concerne i trasferimenti.
E’ da notare che la disciplina protettiva di tali soggetti perdura anche dopo la cessazione
formale dell’incarico, infatti essa perdura fino all’anno successivo la cessazione dell’incarico.
Quanti possono beneficiare di queste tutele? Si è formata l’opinione prevalente per cui il
numero dei soggetti beneficiari è stabilito dall’art. 23 (relativo ai permessi) ed è in relazione,
quindi, alla consistenza dell’impresa.
Per quanto concerne l’ipotesi di licenziamento arbitrario, a venire in considerazione una
norma che è al di fuori del titolo III e cioè l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, nei commi dal 7°
al 10°. L’art. 18 dello statuto dei lavoratori disciplina la tutela reale (disciplina sanzionatoria in
relazione ai licenziamenti sopra le soglie definite dalla legge 604/1966. Nei commi dal
settimo al decimo troviamo una specifica tutela riconosciuta solo nei confronti del dirigente
sindacale che sia stato licenziato, nella misura in cui si sospetta che il suo licenziamento sia
collegato a motivi discriminatori, proprio in ragione dell’attività svolta da questo soggetto. E’
una norma che configura una specifica procedura giudiziaria: si apre una vertenza e la
norma consente la produzione di un’istanza rivolta al giudice. L’istanza dovrà essere fatta
congiuntamente dal lavoratore dirigente sindacale e dal sindacato cui conferisce mandato,
adducendo la natura arbitraria del licenziamento. Ricevuta l’istanza il giudice può, in ogni
stato e grado del giudizio di merito, disporre con ordinanza (quindi, ancor prima che si vada a
sentenza) la più immediata reintegrazione del lavoratore e ciò appunto lo fa laddove ritenga
irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova in quanto alla giustificazione del recesso forniti
dal datore di lavoro. In base al comma decimo di questo art. 18, c’è un altro elemento di
anomalia rispetto alla disciplina prevista in generale per i licenziamenti individuali, data dal