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Corso di Laurea Triennale in Sviluppo economico, cooperazione internazionale e socio-

sanitaria e gestione dei conflitti


Numero di matricola: 7051998
Economia dello sviluppo
Professore Nicolò Bellanca
Anno accademico 2020/2021

Come sorridere anche noi. Accesso alle conoscenze, crescita


economica e riduzione delle disuguaglianze
Ugo Pagano
Alessandra Rossi

Riassunto:
Sulla rivista “L’industria”, Ugo Pagano, docente del dipartimento di economia all’università di
Siena, e Alessandra Rossi, docente del dipartimento di economia all’università di Pescara,
illustrano in prospettiva storica le potenziali cause dei preoccupanti risultati in materia di politica
industriale che hanno portato l’economia italiana alla stagnazione, focalizzando particolarmente
l’attenzione sul modo in cui l’assetto istituzionale globale abbia portato ad uno squilibrio fra
monopolio intellettuale e conoscenze liberamente accessibili.
Per un approccio corretto alla lettura di questo testo è però necessario chiarire un concetto: la
catena globale di valore (cgv) è il processo organizzativo del lavoro all’interno del quale le singole
fasi della filiera produttiva vengono svolte in imprese dislocate nei vari paesi del mondo in base
alla convenienza economica e/o al livello di specializzazione e competenza delle aziende coinvolte.
All’origine della catena vi sono le attività di ricerca e sviluppo e alla sua fine l’attività di marketing,
garanzia ed assistenza per i consumatori finali. Sulla base del sistema economico della “nuova
globalizzazione”, gli autori di questo scritto si occupano di mostrare alcune delle cause responsabili
della crescita della disuguaglianza in Italia (e nel mondo): in particolare, in seguito all’accordo sui
“trade related aspects of intellectual property rights” (TRIPS) del 1994 relativo alla costituzione della
World Trade Organization, si è affermata una nuova forma di capitalismo dei monopoli
intellettuali, caratterizzata da forti e sempre più ingenti disuguaglianze e da una profonda e
pressante stagnazione dell’economia. Questo è progressivamente avvenuto in quanto tale
accordo, nato per favorire l’innovazione e lo sviluppo tecnologico, ha invece rafforzato il
monopolio esercitato sui diritti di proprietà intellettuale, compromettendo così l’equilibrio tra
conoscenze liberamente accessibili e conoscenze oggetto di privatizzazione. Viene inoltre
enunciato il concetto di “smile curve”, introdotto dal fondatore dell’azienda Acer, Stan Shih, il
quale fa riferimento alla distribuzione del valore aggiunto nelle imprese. Alla luce di questo
concetto, notiamo come la crescente monopolizzazione intellettuale abbia portato all’aumento
della curvatura della catena di valore verso il basso. Questo è dovuto l’aumento della percentuale
di valore della prima e dell’ultima fase della filiera produttiva, a discapito delle fasi intermedie.
Alla luce di ciò, gli autori focalizzano l’attenzione su come, paradossalmente, un’istituzione nata
per favorire la concorrenza dei mercati internazionali, abbia invece rafforzato i dpi, ovvero degli
strumenti di difesa dalla concorrenza più potenti di qualsiasi dazio che non solo impediscono la
concorrenza, ma la produzione stessa di un bene. Inoltre la stessa organizzazione, la cui mission
era di favorire lo sviluppo dei mercati internazionali, tende ad incentivare forme di concorrenza
sleale in cui ogni paese tenta di usufruire delle conoscenze in open science degli altri paesi,
accrescendo la sua quota di conoscenze proprietarie. Gli effetti dell’evoluzione delle cgv, e quindi
l’aumento della curvatura verso il basso della smile curve, hanno portato a una caduta del valore
che gli individui che operano nei tratti intermedi aggiungono al prodotto e una conseguente
caduta notevole delle loro retribuzioni. Molte grandi imprese hanno infatti decentrato la fase
produttiva verso imprese più piccole dislocate in zone diverse del mondo, con salari medi più
bassi, portando ad aumentare così la crescita della disuguaglianza e la precarietà del lavoro.
Vi sono dunque tre argomenti di notevole importanza da includere nel dibattito sul tema: le
imprese possono acquisire brevetti al solo fine di bloccare lo sviluppo delle tecnologie da parte
della concorrenza (patent troll); nel campo del progresso tecnologico spesso le innovazioni
derivano dalla conoscenza e dall’applicazione di innovazioni precedenti; vi è incompatibilità
assoluta tra la scienza, la quale si basa sul dibattito aperto e sulla continua verifica dei risultati, e
l’appropriazione privata delle conoscenze, la quale, data l’atmosfera di segretezza, spesso tende a
indurre diffidenza fra i soggetti coinvolti. Nel dibattito sull’ utilità del monopolio intellettuale è
importante considerare anche la sfera temporale: quando si introducono strumenti di
appropriazione esclusiva delle conoscenze gli effetti positivi sono immediati in quanto questi
esercitano un effetto incentivante sugli investimenti innovativi, ma nel lungo periodo si
manifestano effetti disincentivanti quali, ad esempio, il rischio nell’investire in innovazioni che
potrebbero essere bloccate dal numero crescente di coloro che posseggono dpi complementari
(spesso proprio con l’obiettivo di bloccare la concorrenza). Questo sfasamento temporale può
creare l’illusione che dpi globali contribuiscano alla crescita dell’economia, ma di fatto questi
hanno ricadute positive sui profitti delle imprese solo nell’immediato.
L’attuale assetto istituzionale, caratterizzato da dpi globali e assenza di cooperazione
internazionale, crea una divisione fra investimenti in conoscenza comune e in conoscenza
appropriabile, il cui confine mette in risalto uno squilibrio sempre più crescente a favore della
seconda categoria. Nel caso di una economia chiusa, lo stato potrebbe delineare un confine
ragionevole fra conoscenza pubblica e conoscenza appropriabile, mentre in una economia aperta,
per tutelare lo sviluppo del paese, sarebbe necessario che gli stati stringessero accordi sia di
cooperazione per la produzione di conoscenza pubblica, sia di rispetto della proprietà intellettuale
privata, portando così al raggiungimento di risultati simili a quelli perseguibili una economia
chiusa. La situazione attuale vede le istituzioni, preposte da secoli alla produzione di conoscenza
pubblica, brevettare il più possibile tagliando fondi potenzialmente disponibili per la produzione di
open science. Questo perché a ogni stato conviene accrescere il proprio portafoglio di conoscenze
privatamente appropriabili, ma dopo un boom iniziale dovuto al loro effetto immediato, un
rafforzamento dei dpi non può che portare ad una stagnazione degli investimenti. Inoltre le
imprese che posseggono un elevato numero di dpi possono contare su un elevato livello di
garanzia sui frutti delle loro innovazioni complementari a queste conoscenze private e sono
incentivate ad investire in capacità innovative che permettono l’acquisizione di nuovi dpi. Nel caso
di un’azienda priva di dpi, l’assenza di diritti di proprietà rende rischioso l’apprendimento di
capacità produttive e porta al basso grado di investimento in diritti di proprietà intellettuale e altri
intangibili.
Se una gran parte della ricerca venisse effettuata in open science, o venisse svolta in strutture
private ma con lo scopo della divulgazione dei risultati, allora la comunità industriale sarebbe
invitata a dialogare, cooperare e interagire nei processi innovativi. Così facendo si avrebbe la
possibilità di sviluppare un mercato concorrenziale caratterizzato da un grande numero di imprese
capaci di adottare in tempi brevi le innovazioni. La situazione in cui ci troviamo è però ben diversa:
data la presenza di rigidi diritti di proprietà intellettuale si tende ad evitare lo scambio di idee fra
ricercatori, portando così ad una forte concentrazione delle attività innovative in pochi centri che,
grazie a brevetti e diritti di conoscenza preesistenti, possono garantirsi l’appropriazione dei frutti
delle loro attività, creando così una rigida gerarchia fra imprese.
L’insieme di queste dinamiche porta profonde ripercussioni sul piano della disuguaglianza: mente
nelle aziende si tende a concentrare le due fasi estreme della catena, caratterizzate dalla presenza
di monopolio intellettuale, le fasi intermedie vengono decentrate in altre imprese le quali non
hanno la possibilità di fare concorrenza alle imprese detentrici di marchi o brevetti senza
infrangere i loro dpi. Inoltre, queste imprese che operano nella fase intermedia della cgv, hanno
poche opportunità di sviluppare una conoscenza lavorativa autonoma e si trovano in una
situazione in cui l’assenza di proprietà intellettuale e gli esigui investimenti in capacità e
conoscenze dei loro lavoratori rende necessario un taglio dei costi, portando inevitabilmente ad
innalzare il grado di precarizzazione del lavoro.
Lo sviluppo delle dpi ha fortemente danneggiato il nostro paese che, negli anni ’80, vantava una
economia basata sulla conoscenza diffusa. Erano infatti le piccole imprese a saper sfruttare al
meglio macchine e tecnologie disponibili, in quanto i distretti industriali italiani erano caratterizzati
da una reciproca imitazione delle pratiche migliori e la presenza di imprese fondate da operai
qualificati. Facendo riferimento alla smile curve, ci si aspettava che la curva si sarebbe appiattita o
addirittura invertita: difatti in una economia in cui è presente una forte intensità di conoscenza, e
questa è disponibile a tutti, il valore aggiunto dalle piccole imprese concentrate nella fase
intermedia della catena potrebbe avere un ruolo più rilevante nella catena del valore. Questo non
è avvenuto in quanto, con l’avvento delle trips, le imprese italiane si sono trovate in una doppia
morsa causata dal passaggio della conoscenza industriale da bene comune a bene appropriabile.
In primo piano vi è la situazione per la quale le imprese non possedevano né portafogli di dpi, né
delle dimensioni aziendali che permettessero di dotarsene; in secondo piano l’economia italiana
non presentava costi sufficientemente bassi da poter concorrere con i salari medi di paesi come la
Cina e l’India. Ne è scaturito che, trovandosi in una situazione di elevato debito pubblico, si è reso
necessario adottare una politica di privatizzazioni proprio nel momento in cui le grandi imprese
diventavano importanti per le economie di scala derivanti dai dpi.
Diverso è invece quello che è successo agli Stati Uniti, dove le imprese, sfruttando anche dei
cofinanziamenti da parte dello stato, si sono dotate di floridi pacchetti di dpi. Subito dopo la guerra
fredda i dpi accumulati dalle imprese hanno esteso la loro validità a livello globale, portando così
le aziende statunitensi ad usufruire di un duplice vantaggio: da un lato hanno sfruttato i numerosi
pacchetti di intangibili, controllando così vari settori di innovazione tecnologica; dall’altro hanno
potuto frammentare i loro processi produttivi, decentrando le sedi produttive in imprese più
piccole e con inferiori costi di lavoro. Alla luce di ciò possiamo dire che le imprese americane sono
quelle che almeno in un primo momento hanno potuto usufruire dei vantaggi dell’assetto
economico globale che andava formandosi.
L’Italia a questo proposito, avendo particolarmente sofferto a causa degli effetti di questo nuovo
assetto industriale, avrebbe particolare interesse nel riequilibrare il confine fra conoscenza
pubblica e conoscenza appropriabile privatamente. Quello che potrebbe fare sarebbe farsi
portavoce di una modifica dell’assetto istituzionale globale, eliminandone gli effetti che le attuali
istituzioni mondiali hanno sulla stagnazione e sulla diseguaglianza. Una proposta di eliminazione
della concorrenza sleale causata dal trips dovrebbe essere articolata su almeno tre piani, tra loro
complementari: la necessità di trovare un equilibrio ragionevole fra conoscenze private e
liberamente accessibili; introdurre uno stndard minimo di investimenti i open science per ciascun
membro del wto; creare un sistema di acquisto pubblico di dpi che causerebbero un blocco
sull’innovazione incrementale o complementare.
È di particolare importanza quindi porsi l’obiettivo di raggiungere risultati simili a quelli che si
avrebbero in una economia chiusa, dove uno Stato Nazionale si occupa di regolamentare
ragionevolmente il confine fra conoscenza finanziata pubblicamente e conoscenza sostenuta
privatamente. È bene sottolineare che il raggiungimento di questo obiettivo rappresenta una
precondizione imprescindibile per perseguire la stessa mission del wto. È infatti vero che sussidi,
dumping e proprietà intellettuale distolgono l’attenzione da altre forme di concorrenza sleale che
minacciano le dinamiche di crescita e sviluppo degli stessi paesi membri. Un esempio di
concorrenza sleale legittimata da queste istituzioni è la gara alla riduzione dei costi, quando i paesi
si fanno concorrenza sui mercati dei prodotti, che porta le aziende ad abbassare i costi di
produzione a discapito della condizione dei lavoratori e degli standard ambientali. Dovrebbe
essere un obiettivo primario del wto prendere iniziativa di policy a carattere multilaterale piuttosto
che unilaterale, data la scarsa efficacia della seconda categoria. Quello che l’Italia può fare è da un
lato favorire la crescita dimensionale delle imprese e dall’altro rinnovare e preservare la natura
cooperativa e associazionistica che aveva caratterizzato le piccole imprese italiane fino agli anni
’90. Le misure sopra citate avrebbero inoltre come effetto quello di rilanciare l’economia
mondiale. Si parla infatti del trasferimento di un fattore produttivo dal dominio privato a quello
pubblico, misura che genererebbe un duplice incentivo all’investimento: da un lato da parte dei
soggetti precedentemente esclusi dai dpi bloccanti; dall’altro da parte degli ex monopolisti, i quali
si troverebbero a fronteggiare una maggiore concorrenza.
Qualsiasi metodo scelto per riformare le istituzioni internazionali parte dal presupposto che le
istituzioni fondate a Marrakech nel 1994 hanno portato ad incentivare forme di concorrenza sleale
fra paesi che contraddicono la loro stessa missione: è infatti essenziale partire da questa
constatazione per spegnere il perverso sorriso che caratterizza l’assetto economico globale.

Commento :
Numerosi economisti hanno indicato come causa della stagnazione economica la proprietà
intellettuale, cioè il monopolio sui prodotti frutto delle innovazioni. Basta infatti sfogliare alcune
edizioni della rivista “l’Industria” per rendersi conto di quanto il tema sia saturo di argomentazioni
a favore della tesi. In questa rivista ho trovato un articolo di Ugo Pagani, autore dello scritto sopra
riassunto, ed Emanuele Felice, all’interno del quale vengono argomentate le cause del declino
dell’economia italiana, sulla scia del pensiero di Marcello De Cecco. Nel pieno dello sviluppo della
nostra economia, De Cecco aveva già presagito che ricerca e innovazione, grande industria e
investimenti in capitale umano sarebbero state le uniche armi per difendersi da una condizione in
cui, sul piano internazionale, l’Italia sarebbe stata relegata nelle periferie dei mercati globali. Il
nostro paese era stato infatti una fortunata eccezione alla regola per la quale un paese avanzato
non può vivere delle tecnologie sviluppate da altri paesi, ma deve al contrario investire nella
propria capacità di innovare autonomamente. In questi termini, il governo avrebbe avuto bisogno
di investire di più sul capitale umano e sulla innovazione e avrebbe dovuto potenziare l’efficacia
dell’amministrazione statale e delle politiche industriali. Si è pensato, invece, di poter competere
con un sistema caratterizzato da piccole imprese (il “piccolo uguale bello” che per De Cecco era
potenzialmente pericoloso se non accompagnato da ingenti investimenti pubblici in capitale
umano). Secondo il pensiero di De Cecco, inoltre, il nostro paese si preoccupa troppo delle
pensioni (il che è ragionevole, in quanto paese più vecchio d’Europa) e questo causa
inevitabilmente il taglio di fondi a favore di istruzione e R&S.
Nel dibattito sull’utilità dei diritti di proprietà intellettuale vi sono pareri discordi. Da un lato c’è chi
come Yvo de Boer, consulente delle Nazioni Unite in materia di politica ambientale internazionale,
sostiene che il dibattito sia ancora in larga misura trattabile solo sul piano teorico, in quanto anche
gli stessi PVS nei rapporti ufficiali forniti alla convenzione quadro delle nazioni unite sui
cambiamenti climatici (UNFCC) non rapportano tra le problematiche essenziali l’esubero dei dpi o
la difficoltà nell’accesso ad essi, nonostante questi rappresentino un evidente ostacolo per il
trasferimento delle tecnologie dal mondo industrializzato a quello in via di sviluppo. Lo stesso De
Boer ha dichiarato: "Abbiamo bisogno di capire meglio dove i DPI possono impedire l'accesso alle
nuove tecnologie e dove invece no". Dall’altra parte c’è chi invece sostiene la tesi per la quale i dpi
non incentivano il progresso tecnologico ma, al contrario, portano alla creazione di veri e propri
monopoli intellettuali grazie ai quali, attraverso elementari leggi di mercato, le imprese detentrici
di marchi e brevetti accrescono i loro profitti (ad esempio attraverso la diminuzione della quantità
prodotta di un bene al fine di mantenerne alto il prezzo) e escludono altre realtà economiche dalla
concorrenza, rendendo così i dpi degli strumenti di tutela più forti di qualsiasi dazio. Alessandro
Sterlacchini, in un saggio intitolato “la relazione fra scienza, tecnologia e giustizia sociale” dice che
il punto di partenza per una vera riforma globale al sistema basato sull’appropriazione privata
delle conoscenze “risiede nella constatazione che i progressi della scienza e della tecnologia non
sono fenomeni ineluttabili ma possono essere governati al fine di accrescere il benessere
dell’intero sistema economico-sociale invece che a vantaggio di pochi”
Particolare è stato l’approccio delle istituzioni sul tema. Nel 2000 l’Unione Europea varò la
strategia di Lisbona con l’obbiettivo di "diventare l'economia basata sulla conoscenza più
competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con
nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale", attraverso manovre quali la
creazione di uno spazio per la ricerca e l’innovazione, la rimozione degli ostacoli alla mobilità dei
ricercatori in Europa e la creazione, entro il 2001, del brevetto europeo. A distanza di cinque anni,
a metà del percorso concordato a Lisbona, rileviamo però un sostanziale fallimento da parte
dell’UE che, fatta eccezione per il brevetto europeo, non è riuscita a portare a termine gli obbiettivi
presenti nella suddetta strategia. In Germania invece è presente ormai da tempo una istituzione,
citata dagli autori di questo scritto, chiamata Fraunhofer. Si tratta della più grande organizzazione
al mondo per la ricerca applicata che già nel 2015 contava 67 istituti e più di 24.000 persone
coinvolte, tra dipendenti e dottorandi, in diversi settori. Fraunhofer-gesellschaft si occupa di
fornire servizi di ricerca e sviluppo con lo scopo di aumentare la capacità competitiva delle aziende
orientate all’innovazione e il suo budget operativo è finanziato per almeno un terzo da contratti di
ricerca con i clienti industriali. Ad oggi sono presenti sedi distaccate della Fraunhofer in Italia,
Portogallo, Austria, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Cile.
A sostenimento della tesi per la quale gli inventori sono in grado di ottenere grossi profitti senza
l’ausilio dei dpi riporto la storia di Robert Plath: ex aviatore della Northwest Airlines, nel 1987
decide di sperimentare una valigia con le rotelle e, dato il successo, comincia a venderla ai suoi
colleghi. In poco tempo decide di abbandonare il suo lavoro per fondare Travelpro, azienda
produttrice di trolley non protetta da marchi, brevetti o altri intangibili. Il sign. Path sarà perito
sotto il peso schiacciante della concorrenza? Decisamente no. La Travelpro è da 37 anni una delle
leader mondiali fra le aziende produttrici di trolley.
Sono molte quindi le cause della stagnazione economica in Italia, ma Ugo Pagani e Alessandra
Rossi richiamano l’attenzione sul divario e lo squilibrio che vi è fra conoscenze liberamente
accessibili e appropriabili in privativa, marcando l’importanza degli effetti che il sistema economico
della “nuova globalizzazione” ha avuto sull’equilibrio delle catene globali del valore. Le traiettorie
economiche hanno un carattere endogeno rispetto alle istituzioni e alle politiche industriali nel
quale hanno luogo, e si rende dunque necessario, in particolare per la condizione italiana, farsi
portavoce a livello internazionale di una riforma dell’assetto istituzionale globale che non altro non
fa se non alimentare e valorizzare gli estremi della cgv, concentrati nei paesi più industrializzati, a
discapito di quelle realtà economiche meno sviluppate (o sottosviluppate) che vengono schiacciate
dal pressante peso dell’impossibilità sia dell’accesso alle nuove tecnologie industriali, sia dello
sviluppo di nuove tecnologie complementari o derivanti da innovazioni preesistenti. Solo così
quello che gli autori chiamano “un sorriso perverso” espresso dalla smile curve potrà tendere a
diventare un timido sorriso, permettendo così da far “sorridere anche noi. Senza ridere degli altri.”

Bibliografia:

 Emanuele Felice, Ugo Pagano, Il declino dell'economia italiana. Una riflessione che
parte dal pensiero di Marcello De Cecco, in "L'industria, Rivista di economia e politica
industriale" 2/2019, pp. 185-196, doi: 10.1430/94131
 Alessandro Sterlacchini, La relazione tra scienza, tecnologia e giustizia sociale, in
"L'industria, Rivista di economia e politica industriale" 4/2019, pp. 633-634, doi:
10.1430/95934

Sitografia:
 https://www.donzelli.it/libro/9788860369949
 http://www.dt.mef.gov.it/it/attivita_istituzionali/analisi_programmazione_economico_fina
nziaria/documenti_programmatici/sezione1/strategia_di_lisbona.html
 https://www.scienzainrete.it/articolo/fraunhofer-gesellschaft-%C5%ABber-alles/antonio-
pilello/2017-03-13

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