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“Vorrei scappare, qualche volta. Perché sono timido, sono molto timido, sono ottantaquattro anni di timidezza, che si va facendo
ogni giorno più grande. Odio la folla, odio la pubblicità. Odio la fama. Vorrei essere un uomo invisibile”. Jorge Luis Borges
Parlare di Jorge Luis Borges è difficile data la complessità dell’autore, la sua enorme
cultura e le sue letture sono note a tutti, il suo linguaggio è variegato ed
enciclopedico. Quando penso a Borges mi vengono in mente le sue biblioteche a mo’
di labirinti di cui conosceva a mena dito ogni volume. La sensazione frequente che
avverto dopo aver letto una qualsiasi pagina di Borges è di non avere più parole, che
le parole siano già state tutte usate da lui stesso. Questo scritto stringato e per forza di
cose parziale, data l’irriducibilità e l’immensità dell’universo “Borgesiano”, vuole
essere soltanto un piccolo stimolo per chi vuole avvicinarsi alla lettura del poeta
argentino. Per chi fosse interessato alla vita di Borges Internet pullula di dati
biografici. In questo breve e parziale scritto decido di parlare solo delle raccolte
poetiche di Jorge Luis Borges e tralascio volutamente gli scritti in prosa, perché
meritano una più attenta e profonda lettura e riflessione. Le ultime due cose: sto
scrivendo questo breve scritto per me, perché è solo scrivendo che riesco a
comprendere meglio un autore, come se attraverso la parola scritta riuscissi a fermare
meglio nella mia mente e nella mia anima alcune cose. E la seconda ed ultima cosa:
mi ripropongo in futuro di scrivere la seconda parte che riguarda le opere poetiche a
cominciare da: “L’altro, lo stesso” del 1964 se ne avrò la voglia e la forza di farlo.
quella dei sobborghi di Buenos Aires. La stessa città diventa una “sorta” di metafora
dell’universo: Buenos Aires rivela i suoi segreti al tramonto, nel silenzio o di notte
dinanzi agli specchi. Infatti secondo Borges il mondo è solo un’illusione della mente
umana, una specie di sogno che rischia di dissolversi quando i sognatori smettono di
dormire. Ed è proprio al tramonto il momento magico in cui la luce si dissolve ed
avanza l’ombra. Per Borges, il tramonto rappresenta lo schiarirsi delle cose che ci
circondano prima che scenda il buio. Forse il tramonto è l’unico istante durante il
quale si esce dall’illusione del sogno, dal ritenere la propria esistenza sospesa, tra
realtà e ambiguità del reale, per poi tuffarsi ancora nel dubbio. Parafrasando lo stesso
Borges: “Sarà stata quell’ora della sera d’argento / a dare tenerezza alla strada /
rendendola reale come un verso / dimenticato e ritrovato”. Buenos Aires emerge dai
versi come luogo simbolo di questa presenza indecisa tra realtà e sogno. Passa il
tempo, lo sguardo si spinge verso i confini, verso la periferia ed il deserto. Ciò che
importa a Borges non è la novità frenetica del centro cittadino, la vitalità dei quartieri
cosiddetti moderni, bensì le strade periferiche, i cortili desueti, gli androni, i balconi
chiusi. In questo è possibile intravedere la “ribellione Borgesiana” contro la
contemporaneità. Come afferma Borges ne “Il Sud”: “aver sentito il cerchio d’acqua
/ nel segreto pozzo, / l’odore del gelsomino e della madreselva, / il silenzioso uccello
addormentato, / la volta dell’androne, l’umido / -forse son queste cose la poesia”. Le
tematiche che appartengono al movimento avanguardistico dell’Ultraismo a cui lo
stesso Borges aveva contribuito alla creazione e che quindi si ritrovano anche in
“Fervore di Buenos Aires” sono: l’intenzione di riportare la lirica alla metafora,
l’eliminazione del superfluo e dell’esplicativo, il rifiuto di uno stile manieristico ed
ornamentale, una maggiore suggestività del testo attraverso la combinazione di
immagini e l’uso di procedimenti retorici come la sinestesia. Di “Fervore di Buenos
Aires” mi colpisce questo aneddoto raccontato dallo stesso autore, al confine fra il
fantastico ed il reale, riguardo al fatto che delle poche centinaia di copie pubblicate a
lui ne rimasero pochissime, il resto le regalava nascondendole nei cappotti delle
persone durante le riunioni nei caffè letterari di Buenos Aires o facendole recapitare
in altri modi strani.
LUNA DI FRONTE
“Luna di fronte” è la seconda Opera di Jorge Luis Borges, E’ una breve raccolta di
poesie, diciassette per la precisione, in cui Borges non si pone il problema
dell'attualità della sua poesia, infatti come afferma lo stesso autore: "Essere moderno
LucaniArt Magazine, settembre 2018
La terza opera di Borges è una raccolta di poesie “Quaderno San Martin”. In questa
raccolta i temi portanti sono: Buenos Aires e la morte. Il componimento che si eleva
sugli altri per ammissione dello stesso Borges è “La notte che nel sud lo
vegliarono”, infatti parafrasando lo stesso autore: “ è forse la prima poesia autentica
che scrissi”. La scena di una notte di veglia funebre che diventa occasione per i vivi
che si riuniscono di sentirsi vicini, e di comprendere forse qualcosa di più della vita.
Buenos Aires secondo Borges è una città eterna, infatti usando le sue stesse parole:
“A me sembra una fandonia che Buenos Aires ebbe l’inizio: la giudico tanto eterna
come l’acqua e l’aria”. Importanti per Borges sono gli alberi e gli androni, i balconi e
le vie di Buenos Aires che sembrano prendere vita al tramonto. La morte durante la
guerra del vecchio Isidoro Azevedo, prende forma nel ricordo dello stesso Borges,
“nella camera da letto che si affaccia sul giardino / morì in un sogno per la Patria” e
più avanti “Io ero piccolo, io non sapevo allora della morte; io ero l’immortale / io
lo cercai per molti giorni nelle stanze senza luce”. Nel “Quaderno San Martin”
prendono forma i ricordi, le vie, i quartieri, le riflessioni sulla morte, il lento ed
indolente passeggiare della gente animata dal suono di un organetto che accenna un
tango o una milonga.
L’ARTEFICE
LucaniArt Magazine, settembre 2018
“L’artefice” è una raccolta poetica del 1960 formata da due parti: la prima che da il
nome all’intera raccolta appunto “L’artefice” formata da parti in prosa e parti in versi
e “Museo” interamente in versi, sono ventitre brani in prosa e trentuno poesie.
Secondo Borges “L’artefice” è nato così: “Un giorno il mio amico Carlos Frias, di
Emecé, mi chiese un nuovo libro per la serie della mia cosiddetta opera completa.
Risposi che non avevo nulla da dargli. Una domenica oziosa, frugando nei cassetti di
casa, scovai delle poesie sparse e dei brani di prosa... Questi frammenti, scelti e
ordinati e pubblicati nel 1960, divennero “L’artefice”. Borges parte dal presupposto
che tutto è stato già scritto e inventato. La storia si ripete in continuazione. Il tempo
scorre seguendo situazioni similari solo leggermente modificate. In questo
meccanismo l’essere umano è spettatore e attore, contemporaneamente. Ne
“L’artefice” si rincorrono autori amati dallo stesso Borges: Leopoldo Lugones a cui
lo stesso Borges vuole regalare un suo libro, William Shakespeare, Dante Alighieri,
Omero e Borges stesso. Non è un citare giusto per citare, ma anzi è un lampo di genio
nei labirinti della letteratura che si trasforma in uno spunto per raccontare altre storie.
Ne “L’artefice” la realtà viene trasformata nel sogno ed il sogno diventa realtà, come
se ci trovassimo di fronte ad uno specchio. Ne “Dreamtigers” in cui ricorda i sogni
da bambino popolati da tigri, sogni che derivavano da letture di enciclopedie
effettuate appunto durante la sua infanzia, tigri che gli hanno fatto visita fino ai sogni
della vecchiaia. Il dialogo con Macedonio Fernàndez sul senso della vita e della
morte, con in sottofondo la musica di un tango suonato da una fisarmonica de
“Dialogo sopra un dialogo”. Le riflessioni sulla crescita delle proprie unghia e della
barba dopo la morte ne “Le unghie”. Oppure la discussione filosofica di
“Argumentum ornythologicum”. La Julia di “Gli specchi velati”, l’indios de “Il
prigioniero”, per citare altri personaggi de: “L’artefice”. Ma i brani che più mi
piacciono sono: “La trama” in cui Borges mette a paragone l’assassinio di Giulio
Cesare con un altro assassinio avvenuto nei sobborghi di Buenos Aires. In entrambe i
casi si tratta di un parricidio, il primo da parte del celeberrimo Bruto ed il secondo da
parte di un giovane delinquente inconsapevole. Parafrasando lo stesso Borges: “Al
destino piacciono le ripetizioni, le varianti, le simmetrie: diciannove secoli dopo, nel
sud della provincia di Buenos Aires, un gaucho è aggredito da altri gauchos e nel
cadere riconosce un suo figlioccio”. Un altro è: “Borges e io”, in cui c’è uno
sdoppiamento: Borges che parla di Borges! E dice: “All’altro, a Borges, accadono le
cose. Io cammino per Buenos Aires, di Borges ho notizie attraverso la posta, e vedo
il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico” e più avanti: “io
vivo, mi lascio vivere, perché Borges possa tramare la sua letteratura”, questo
fantastico pezzo di letteratura si conclude così: “Così la mia vita è una fuga e io
perdo ogni cosa e tutto è dell’oblio, o dell’altro. Non so chi dei due scrive questa
LucaniArt Magazine, settembre 2018
pagina”. Tutto sembra prendere forma e vita nei versi di Borges, dalle clessidre, alle
scacchiere, dagli specchi alla pioggia con il ricordo del padre. Anche le allusioni
fanno parte dell’universo “Borgesiano”, sia quella ad un’ombra che quella al
colonnello Francisco Borges. “L’artefice” è un insieme di brani e di versi molto caro
al suo stesso autore, nonostante la sua nascita sia stata in un certo senso
“rocambolesca”. Infatti dice nell’epilogo lo stesso Borges: “di quanti libri ho dato
alle stampe, nessuno credo, è tanto personale quanto questo” e più avanti: “Un uomo
si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno
spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di
pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire,
scopre che quel paziente labirinto di linee traccia il suo volto”, perché la poesia è
un’urgenza dell’anima, la rivelazione di un destino ineludibile.
Mariano Lizzadro