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L'economia classica è generalmente considerata la prima scuola moderna nella storia del pensiero

economico. I principali pensatori e sviluppatori di questa scuola includono Adam Smith, Jean-Baptiste
Say, David Ricardo, Thomas Malthus e John Stuart Mill.

La ricchezza delle nazioni di Adam Smith nel 1776 è considerata un indicatore dell'inizio dell'era
dell'economia classica. Questo flusso è emerso fino alla metà del XIX secolo, ed è stato successivamente
sostituito dall'economia neoclassica, nata in Gran Bretagna nel 1870. La definizione di economia classica
è dibattuta da numerosi studiosi, soprattutto nel periodo 1830-1870, e la sua continuazione
all'economia neoclassica. Il termine "economia classica" è stato originariamente coniato da Karl Marx
per riferirsi all'economia ricardiana, la scuola di economia sviluppata da David Ricardo e James Mill e dai
loro predecessori. Tuttavia, l'uso di questo termine è stato successivamente ampliato per riferirsi a tutti i
seguaci di Ricardo.[1]

L'economia classica afferma che il libero mercato si regolerà da solo se non ci sarà l'intervento di
nessuna delle parti. Adam Smith la definì la metafora della "mano invisibile", che avrebbe spostato i
mercati verso il loro equilibrio naturale senza interferenze esterne.

A differenza dell'economia keynesiana, l'economia classica enfatizza l'applicazione di prezzi flessibili, sia
in termini di salari che di beni. Un'altra enfasi è sulla legge di Say: l'offerta crea la propria domanda, cioè
la produzione aggregata genererà un reddito sufficiente per coprire tutte le spese risultanti. Al contrario
di Keynes, che ha affermato che ci deve essere risparmio, spesa o utilizzo di altri strumenti di
finanziamento per finanziare le spese e coprire i costi di produzione. Un altro postulato enfatizzato
dall'economia classica è l'equilibrio tra risparmio e investimento, assumendo che i tassi di interesse
flessibili mantengano sempre l'equilibrio.

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