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WILLIAM BLAKE,
Canti d'innocenza (La divina immagine)
WILLIAM BLAKE.
Canti d'esperienza (Una divina immagine)
Will Graham fece sedere Crawford al tavolo da picnic tra la casa e la ri-
va dell'oceano e gli posò davanti un bicchiere di tè ghiacciato.
Jack Crawford guardò la piacevole vecchia casa di legno sbiancato dal
sale, immersa nella luce. «Avrei dovuto venire a trovarti a Marathon quan-
do smontavi dal lavoro» disse. «Qui non ti andrà di parlarne.»
«Non mi va di parlarne in nessun posto, Jack. Sei tu che devi parlarne,
quindi avanti. Basta che tu non mi faccia vedere foto. Se te le sei portate
dietro, lasciale nella borsa... Molly e Willy dovrebbero tornare da un mo-
mento all'altro.»
«Quanto ne sai?»
«So quello che c'era scritto sul "Miami Herald" e sul "Times"» disse
Graham. «Due famiglie massacrate nelle loro case a un mese di distanza
l'una dall'altra. A Birmingham e ad Atlanta. Le circostanze erano simili.»
«Non simili. Identiche.»
«Quante confessioni fino ad ora?»
«Quando ho telefonato oggi pomeriggio erano ottantasei» rispose Cra-
wford. «Maniaci. Nessuno conosceva i particolari. Quello fa a pezzi gli
specchi e adopera le schegge. Nessuno di loro lo sapeva.»
«Che altro sei riuscito a non far finire sui giornali?»
«È biondo, usa la mano destra ed è molto robusto. Porta scarpe numero
quarantacinque. Riuscirebbe a piegare una rotaia ferroviaria. Niente im-
pronte, porta i guanti.»
«Questo però alla stampa l'hai detto.»
Con le serrature non ci sa fare troppo,» proseguì Crawford. «L'ultima
volta per entrare in casa ha usato un tagliavetro e una ventosa. Oh, il san-
gue è del gruppo AB positivo.»
«Qualcuno l'ha ferito?»
«Che noi sappiamo, no. Siamo riusciti a scoprirlo dallo sperma e dalla
saliva. Lascia in giro una quantità di secrezioni.» Crawford guardò lonta-
no, verso la superficie liscia del mare «Will, voglio chiederti una cosa.
Queste cose le hai lette sui giornali. Del secondo caso hanno parlato tutte
le TV. Hai mai pensato di chiamarmi?»
«No.»
«Perché?»
«La prima volta, per quello di Birmingham, hanno dato pochi particola-
ri. Poteva trattarsi di qualunque cosa — una vendetta, un parente.»
«Ma dopo il secondo sapevi di cosa si trattava.»
«Già. Uno psicopatico. Non ti ho telefonato perché non volevo farlo. So
chi hai assegnato a questa storia. Disponi del miglior laboratorio che ci sia.
Hai Heimlich a Harvard e Bloom all'Università di Chicago...»
«E ho te qui che te ne stai a riparare dei motori marini del cazzo.»
«Non credo che ti sarei più tanto utile, Jack. Non ci penso più, ormai.»
«Davvero? Ne hai presi due. Gli ultimi due casi che ci siamo trovati per
le mani li hai presi tu.»
«E come? Facendo le stesse cose che fate tu e gli altri.»
«Non è del tutto vero, Will. È il modo che hai di pensare.»
«Penso che sono state dette un sacco di stronzate sul mio modo di pensa-
re.»
«Ma se hai fatto dei salti logici che non hai mai spiegato.»
«Avevo anche le prove» obiettò Graham.
«Certo. Certo che c'erano. E tante... ma dopo. Per incastrarlo, prima, a-
vevamo così poche cose in mano che non c'era nemmeno un motivo plau-
sibile per occuparcene.»
«La gente che ti serve ce l'hai, Jack. Non credo che io migliorerei la si-
tuazione. Sono venuto qui proprio per starmene lontano da quelle cose.»
«Lo so. L'ultima volta sei rimasto ferito. Adesso mi sembra che tu stia
bene.»
«Sto bene. Non è per le coltellate che mi sono preso. È capitato anche a
te.»
«Sì, anche a me, ma non così.»
«Dicevo: non per quello. Ho semplicemente deciso di piantarla lì. Non
credo di riuscire a spiegarmi.»
«Dio sa come ti capisco, se non riesci più a guardare.»
«No. Sai, non è questione di riuscire o non riuscire a guardare. È sempre
sgradevole ma si riesce comunque a riprendere a funzionare, sapendo che
quelli sono morti. Il peggio è l'obitorio, le interviste. Bisogna toglierseli
dalla testa e continuare a pensare. Non credo che adesso riuscirei a farcela.
Potrei costringermi a guardare ma mi impedirei di pensare.»
«Questi, sono tutti morti, Will» disse Crawford più gentilmente che po-
té.
Jack Crawford nel modo di parlare di Graham avvertiva il suo stesso
ritmo, la sua stessa sintassi. Gli era già capitato di notare, Graham farlo
con altri. Spesso, quando era immerso in una conversazione animata, Gra-
ham assumeva il modo di parlare dell'interlocutore. In un primo momento
Crawford aveva creduto che lo facesse deliberatamente, che fosse un truc-
co per tenere l'andamento della conversazione. In seguito però si era reso
conto che era un comportamento involontario e che a volte cercava di im-
pedirselo senza riuscirci.
Infilò due dita nella tasca della giacca. Gettò due foto sul tavolo.
«Tutti morti» disse.
Graham lo fissò un attimo poi prese le foto.
Erano semplici istantanee: una donna seguita da tre bambini e da un'ani-
tra portava l'attrezzatura per il picnic verso la sponda di uno stagno. Nel-
l'altra si vedeva una famiglia riunita intorno a una torta.
Dopo una trentina di secondi posò le foto. Le allontanò con un dito e
guardò verso la spiaggia dove il bambino se ne stava accosciato, intento a
osservare qualcosa sulla sabbia. La donna, in piedi con una mano sul fian-
co, osservava la schiuma delle onde che le morivano intorno alle caviglie.
S'inarcò all'indietro per liberarsi le spalle dai capelli bagnati.
Graham, ignorando l'ospite, rimase a osservare Molly e il ragazzo alme-
no quanto aveva guardato le fotografie.
Crawford era soddisfatto. S'impedì di mostrarlo con la stessa cura con
cui aveva scelto il posto per parlare. Era sicuro di averlo convinto. Bastava
lasciarlo cuocere.
Tre cani orrendi arrivarono trotterellando e si lasciarono cadere a terra
vicino al tavolo.
«Mio Dio» disse Crawford.
«Sono cani, probabilmente» spiegò Graham. «La gente non fa che ab-
bandonare qui i propri cuccioli. Quelli belli riesco a darli via. Gli altri ri-
mangono e diventano grossi.»
«Sono belli grassi.»
«Molly stravede per i randagi.»
«Fai una bella vita qui, Will. Molly e il ragazzo. Quanti anni ha?»
«Undici.»
«Ha un bell'aspetto. Diventerà più alto di te»
Graham annuì. «Suo padre lo era. Qui sono fortunato, lo so.»
«Volevo venire giù, con Phyllis. Qui in Florida. Per trovare un posto do-
ve trasferirmi quando vado in pensione. Così la smetto di vivere come un
pesce d'acquario. Lei dice che tutti i suoi amici sono ad Arlington.»
«Volevo ringraziarla per i libri che mi ha portato in ospedale, ma non
l'ho mai fatto. Ringraziala tu da parte mia.»
«Senz'altro.»
Due uccellini dai colori vivaci atterrarono sul tavolo sperando di trovare
delle briciole. Crawford li osservò saltellare qua e là finché non frullarono
via.
«Will, questo maniaco sembra seguire le fasi della luna. Ha ucciso la
famiglia Jacobi a Birmingham il 28 giugno, quando c'era la luna piena. I
Leeds ad Atlanta li ha massacrati l'altra notte, il 26 luglio. La differenza è
di un mese lunare meno un giorno. Quindi, se abbiamo fortuna, dovremmo
avere un po' più di tre settimane prima che ci riprovi.»
«Non credo che ti vada di stare qui in Florida ad aspettare di leggere il
prossimo sul tuo "Miami Herald". Diavolo, non sono mica il Papa, non ti
sto dicendo quello che dovresti fare. Però voglio chiederti una cosa. Hai ri-
spetto per le mie facoltà di giudizio?»
«Sì.»
«Credo che se ci dai una mano abbiamo la possibilità di prenderlo pri-
ma. Dai, Will, mettiti in sella e vieni ad aiutarci. Va' a dare un'occhiata a
Birmingham e ad Atlanta, poi vieni a Washington.»
Graham non rispose.
Crawford attese; cinque ondate lambirono la spiaggia. Si alzò gettandosi
la giacca sulla spalla. «Parliamone dopo cena.»
«Resta qui a mangiare.»
Crawford scosse il capo. «Torno dopo. Probabilmente ci sono dei mes-
saggi per me all'Holiday Inn e dovrò stare un po' al telefono. Comunque,
ringrazia Molly.»
L'auto a nolo di Crawford sollevò dal fondo di conchiglie della strada
una polvere impalpabile che si posò sui cespugli ai bordi.
Graham tornò al tavolo. Temeva che questa sarebbe stata l'immagine che
avrebbe ricordato di Sugarloaf Key... i cubetti di ghiaccio che si fondevano
nei bicchieri di tè ghiacciato, i tovaglioli di carta che volavano via dal ta-
volo d'abete trascinati dalla brezza, Molly con Willy giù alla spiaggia.
Crawford tornò dopo cena. Era senza giacca e cravatta, e si era arrotolate
le maniche della camicia, tanto per avere un'aria disinvolta. A Molly i suoi
avambracci muscolosi e pallidi parvero disgustosi. Le sembrava una
scimmia tremendamente intelligente. Gli portò il caffè sotto il ventilatore
del portico e gli tenne compagnia mentre Graham e Willy andavano a dar
da mangiare ai cani. Non disse nulla. Le falene urtavano con tonfi morbidi
contro le zanzariere.
«Ha Paria di star bene» disse Crawford. «Tutti e due: siete asciutti e ab-
bronzati.»
«Lo porti con te qualunque cosa io gli possa dire, vero?»
«Già. Devo. Sono costretto. Ma giuro su Dio, Molly , che farò tutto
quello che posso per rendergli le cose facili. È cambiato. È una bella cosa
che vi siate sposati.»
«Continua a migliorare. Adesso gli incubi non li ha più tanto spesso. Per
un po' di tempo ha avuto una vera e propria ossessione per i cani. Adesso
se ne occupa e basta; non ne parla più di continuo. Sei suo amico, Jack,
perché non lo lasci in pace?»
«Perché, per sua sfortuna, è il migliore. Perché ha un modo di pensare
diverso da quello degli altri. In un modo o nell'altro non segue mai dei bi-
nari prefissati.»
«È convinto che tu voglia fargli vedere il luogo del delitto.»
«Effettivamente è vero. Quando si tratta di analizzare i fatti non c'è nes-
suno migliore di lui. Ma ha anche un'altra qualità. Immaginazione, capaci-
tà di proiezione... chiamala come vuoi. E questo non gli piace.»
«Non piacerebbe neanche a te, se l'avessi. Devi promettermi una cosa,
Jack. Promettimi di stare attento che non vada troppo vicino. Credo che
combattere lo ucciderebbe.»
«Non dovrà farlo. Te lo prometto.»
Quando Graham ebbe finito di dar da mangiare ai cani, Molly lo aiutò a
fare le valigie.
Il pazzo tolse il gancio dalle tendine esterne della porta. Si fermò immo-
bile nell'oscurità del portico ed estrasse qualcosa di tasca. Una ventosa,
forse la base di un temperamatite, di quelli che si fissano al piano della
scrivania.
Accucciato contro il battente della porta, in basso, sollevò il capo per
guardare dentro. Leccò la ventosa con la lingua, la premette contro il ve-
tro e fece scattare la leva per farla aderire. Alla ventosa era fissato un mi-
nuscolo tagliavetro con il quale incidere un cerchio.
Lo stridere del tagliavetro e un colpetto deciso per staccare il cerchio.
Una mano per picchiare, l'altra per tenere la ventosa. Il vetro non doveva
cadere. Il pezzo staccato è leggermente irregolare perché la fettuccia si è
arrotolata intorno al manico della ventosa. Un piccolo rumore raschiante
mentre posa a terra il pezzo di vetro. Non si preoccupa di lasciare sul ve-
tro tracce di saliva del gruppo AB.
Insinua la mano coperta da un guanto aderente nel buco, trova il pomel-
lo della serratura. La porta si apre senza rumore. È in casa. Vede il pro-
prio corpo nella cucina sconosciuta, illuminata dalla luce della cappa. La
casa è piacevolmente fresca.
Sentiva la propria voce ripetere le frasi del rapporto del medico legale,
anche se non le aveva mai lette ad alta voce: «... le feci appaiono formate...
è visibile una traccia di talco sulla gamba destra in basso. Si nota una frat-
tura della parete mediana dell'orbita causata dall'inserimento di un fram-
mento di vetro...»
Cercò di pensare alla spiaggia di Sugarloaf Key, di sentire il rumore del-
le onde. Con gli occhi della mente si raffigurò il suo banco da lavoro e
provò a immaginare lo scappamento dell'orologio ad acqua che stava co-
struendo insieme a Willy. Cantò sottovoce Whisky River e ripeté a mente,
dall'inizio alla fine, il motivo di Black Mountain Rag. La musica che pia-
ceva a Molly. Nessun problema per la chitarra di Doc Watson. Ma si perse
quando intervenne il violino. Molly aveva cercato di insegnargli a ballare
il clog nel cortiletto posteriore... la vide saltellare... finalmente si assopì.
Si svegliò un'ora dopo, irrigidito e coperto di sudore. Vedeva la sagoma
dell'altro cuscino stagliarsi contro la luce del bagno... era la signora Leeds
distesa accanto a lui — massacrata — gli occhi squarciati e il sangue che
le scendeva sulle tempie e sulle orecchie simile alle stanghette di un paio
di occhiali. Non riuscì a voltare la testa per guardarla. Nel cervello gli ri-
suonava un urlo. Allungò una mano e toccò il lenzuolo asciutto.
La tensione si era scaricata, provò un sollievo immediato.
Si alzò con il batticuore e indossò un'altra maglietta.
Quella zuppa di sudore la gettò nella vasca. Non riuscì a mettersi sul lato
asciutto del letto. Preferì posare un asciugamano dall'altra parte e vi si di-
stese sopra, appoggiandosi allo schienale con un bicchiere in mano. Ne
bevve un buon terzo.
Cercò di pensare a qualcosa, a qualunque cosa. Alla farmacia dove ave-
va comperato l'analgesico; forse perché, in tutta la giornata, era stato l'uni-
co momento in cui era mancato il contatto con la morte.
Gli vennero in mente i vecchi drugstores con la fontanella del seltz. Da
bambino pensava che avessero un che di furtivo. Quando si entrava, veni-
va sempre in mente l'idea di comperare un preservativo, servisse o meno.
Sugli scaffali c'erano oggetti sui quali lo sguardo non poteva indugiare
troppo.
Nella farmacia dove aveva comprato l'analgesico, invece, i contraccettivi
in confezione corredata da illustrazioni si trovavano in una scatola di per-
spex dietro il registratore di cassa, incorniciati come un'opera d'arte.
Preferiva i drugstores e i prodotti della sua infanzia. Graham aveva qua-
si quarant'anni e cominciava appena ad apprezzare l'atmosfera dei tempi
passati. Era come un'ancora di salvataggio nella tempesta.
Pensò a Smoot. Il vecchio Smoot quando Graham era bambino si occu-
pava delle bibite per conto del farmacista proprietario del drugstore locale.
Smoot, che aveva l'abitudine di bere sul lavoro, dimenticava di abbassare
le tendine della vetrina e i dolci esposti si scioglievano. Dimenticava di
spegnere la macchina per il caffè e qualcuno aveva avvertito i pompieri.
Vendeva gelati a credito ai bambini.
Ma la sua peggiore mancanza l'aveva fatta ordinando cinquanta bambole
da un commesso viaggiatore mentre il proprietario era in vacanza. Al suo
ritorno, Smoot era stato licenziato per una settimana. Poi era stata organiz-
zata una svendita delle bambole, che erano state disposte in vetrina a semi-
cerchio in modo da fissare tutte chiunque le guardasse.
Gli occhi delle bambole erano color fiordaliso. L'effetto d'insieme era
impressionante e Graham per un po' di tempo non fece che guardarle. Sa-
peva che erano solo bambole, ma si rendeva conto che attiravano l'atten-
zione. Erano così tante. Anche altri si fermavano davanti alla vetrina. Le
bambole erano di gesso, avevano tutte la stessa pettinatura, ma tutti quegli
occhi gli facevano venire ugualmente i brividi sulla faccia.
Cominciò a rilassarsi un pochino. Lo sguardo fisso delle bamboline.
Buttò giù un sorso, ansimò e soffocò un colpo di tosse. Cercò in fretta l'in-
terruttore dell'abat-jour e andò a prendere la cartelletta dalla cassettiera.
Prese i rapporti dell'autopsia dei tre figli insieme alla piantina della camera
dei genitori e li distese sul letto.
Ecco le tre macchie oblique sullo spigolo, ed ecco quelle corrispondenti
sulla moquette. Ecco la statura dei tre bambini. Fratello, sorella, il figlio
più grande. Le misure corrispondevano, per tutti e tre.
Erano stati messi uno accanto all'altro, appoggiati alla parete di fronte al
letto. Un pubblico. Un pubblico di morti. E il padre. Legato per il torace
alla spalliera, composto in modo da far sembrare che fosse seduto sul letto.
Il segno del legaccio era rimasto sulla parete sopra la spalliera.
Cosa guardavano? Niente, erano tutti morti. Ma avevano gli occhi aperti.
Guardavano lo spettacolo che aveva per protagonista il pazzo e il corpo
della signora Leeds, sul letto, accanto al marito. Spettatori. Il maniaco
guardandosi intorno li vedeva in viso.
Graham si chiese se avesse acceso una candela. Il baluginio poteva si-
mulare un'espressione. Non erano state trovate candele. Forse ci avrebbe
pensato la prossima volta. Questo primo esile legame con l'assassino irri-
tava e pungeva come una sanguisuga. Pensando, morse l'orlo del lenzuolo.
Perché li hai spostati di nuovo? Perché non li hai lasciati così? C'è
qualcosa che non vuoi farmi sapere sul tuo conto. Dev'esserci qualcosa di
cui ti vergogni. O è qualcosa che non puoi permetterti di farmi sapere?
Gli hai aperto gli occhi?
La signora Leeds era bella, vero? Hai acceso la luce dopo aver tagliato
la gola al marito per farglielo vedere mentre cadeva, vero? I guanti ti da-
vano un fastidio terribile quando la toccavi, vero?
C'erano tracce di talco sulle gambe della signora Leeds.
Non c'era talco nel bagno.
Gli parve che qualcun altro facesse queste due affermazioni con una vo-
ce piatta.
Ti sei tolto i guanti, vero? Il talco è uscito dal guanto di gomma mentre
te lo toglievi per toccarla, VERO, FIGLIO DI PUTTANA? L'hai toccata a
mani nude, poi ti sei rimesso i guanti e l'hai ripulita. Ma gli occhi agli al-
tri li hai aperti quando eri senza guanti?
Jack Crawford rispose al quinto squillo. Aveva già ricevuto molte tele-
fonate quella notte e non era affatto intontito.
«Sono Will.»
«Dimmi.»
«Price si occupa ancora di impronte latenti?»
«Sì. Ma non in generale. Adesso si occupa delle impronte dell'indice.»
«Credo che dovrebbe venire ad Atlanta.»
«Perché? L'hai detto tu che il tipo che abbiamo qui è bravo.»
«Sì, è bravo, ma non quanto Price.»
«Cosa devi fargli fare? Dove deve cercare?»
«Sulle unghie delle mani e dei piedi della signora Leeds. Sono dipinte, è
una superficie liscia. E la cornea degli occhi di tutti gli altri. Sono convinto
che si è tolto i guanti, Jack.»
«Cristo, Price deve arrivare di corsa» disse Crawford. «Oggi pomeriggio
c'è il funerale.»
Jimmy Price si era portato dietro un bel po' d'attrezzatura: due casse pe-
santi, più la borsa della macchina fotografica e il treppiede. Attraversò l'a-
trio dell'Impresa pompe funebri Lombard di Atlanta producendo una serie
di clangori metallici. Era un vecchietto smunto e il suo umore non era stato
certo reso migliore dalla lunga corsa in taxi dall'aeroporto nel pieno del
traffico del mattino.
Un giovanotto altezzoso e ben pettinato lo accompagnò in un ufficio dal-
le pareti color crema e albicocca. Sulla scrivania, vuota, c'era una scultura:
Mani in preghiera.
Price stava esaminando i polpastrelli delle mani in preghiera quando en-
trò il signor Lombard in persona. Il proprietario dell'impresa controllò con
estrema cura i documenti di Price.
«Naturalmente il vostro ufficio di Atlanta o la vostra agenzia, o come si
chiama, mi ha avvertito, signor Price. Ma ieri sera abbiamo dovuto chia-
mare la polizia per allontanare uno scocciatore che cercava di prendere
delle foto per il "National Tattler", quindi preferisco essere molto pruden-
te, lei capirà. Ci hanno consegnato i corpi questa notte all'una e oggi alle
cinque ci sarà il funerale. Non possiamo perdere tempo.»
«Non ci vorrà molto» lo informò Price. «Mi serve solo un assistente di
intelligenza discreta, se ne ha uno. Per caso lei ha toccato i cadaveri, signor
Lombard?»
«No.»
«Veda di sapere chi li ha toccati. Dovrò prendere a tutti le impronte digi-
tali.»
La conferenza stampa del capo della polizia stava per concludersi pro-
prio mentre Crawford e Graham uscivano dall'ufficio di Springfield. I
giornalisti si precipitarono verso il telefono. Gli intervistatori della televi-
sione stavano preparando dei "tagli". In piedi, da soli, di fronte alle tele-
camere ripetevano le domande più interessanti udite alla conferenza stam-
pa e allungavano il microfono verso il vuoto in attesa di una risposta che
sarebbe stata attaccata in seguito dalle riprese della conferenza del capo
della polizia.
Crawford e Graham scendevano dalla scalinata esterna quando un omet-
to schizzò loro davanti, piroettò su se stesso e scattò una foto. Il viso ap-
parve dietro la macchina fotografica.
«Will Graham!» esclamò. «Ti ricordi di me... Freddy Lounds? Mi occu-
pavo del caso Lecter per il "Tattler". Sono stato io a scrivere il libro.»
«Mi ricordo,» disse Graham, continuando a scendere i gradini. Lounds
scese con loro precedendoli di qualche passo.
«Quando ti hanno chiamato, Will? Cos'hai scoperto?»
«Con lei non voglio parlarne, Lounds.»
«Cosa ha in comune questo tizio con Lecter? Anche lui fa alle vittime...»
«Lounds.» Graham aveva alzato la voce, Crawford si mise subito in
mezzo. «Lounds, lei scrive delle cagate e il "National Tattler" è carta da
culo. Mi stia lontano.»
Crawford lo afferrò per un braccio. «Se ne vada, Lounds. Avanti. Will,
andiamo a fare colazione. Su, Will, andiamo.» Girarono l'angolo cammi-
nando in fretta.
«Mi spiace, Jack. Non lo sopporto, quel bastardo. Quando ero all'ospe-
dale è entrato in camera e...»
«Lo so» lo interruppe Crawford. «Sono stato io a sbatterlo fuori, per
quel che è servito.» Ricordava la foto apparsa sul "National Tattler" quan-
do il caso Lecter era ormai concluso. Lounds era entrato nella stanza del-
l'ospedale mentre Graham era addormentato. Gli aveva tolto il lenzuolo e
aveva scattato una foto della colostomia provvisoria che gli avevano fatto.
Sulla rivista l'immagine era apparsa con un rettangolo nero che nascon-
deva l'inguine. La didascalia diceva: "Le budella del poliziotto pazzo".
Si fermarono in un bar tavola calda pulito e luminoso. A Graham trema-
vano le mani. Rovesciò un po' di caffè nel piattino.
Notò che il fumo della sigaretta di Crawford infastidiva una coppia nel
séparé vicino. I due mangiavano in silenzio, la loro irritazione si mescola-
va al fumo.
In un tavolo vicino all'ingresso, due donne, evidentemente madre e fi-
glia, litigavano. Parlavano a voce bassa, il viso imbruttito dall'ira. Avverti-
va sul viso e sul collo le vibrazioni della loro rabbia.
Crawford gli stava dicendo che quello stesso mattino avrebbe dovuto te-
stimoniare in un processo a Washington. Temeva che le udienze l'avrebbe-
ro tenuto lontano dal caso. Accese un'altra sigaretta, scrutando le mani ab-
bronzate di Graham attraverso la fiamma dell'accendino.
«La polizia di Atlanta e quella di Birmingham possono confrontare le
impronte con quelle dei loro maniaci sessuali» disse Crawford. «E anche
noi. E Price è già riuscito a tirar fuori una sola impronta dallo schedario.
Basta che programmi il FINDER... abbiamo fatto un bel po' di progressi da
quando te ne sei andato.»
Il FINDER, il lettore ed elaboratore automatico di impronte digitali del-
l'FBI, era in grado di riconoscere l'impronta del pollice paragonandola alle
schede memorizzate e relative anche a responsabili di reati non sessuali.
«Quando lo becchiamo, con quell'impronta e con il segno dei denti, riu-
sciamo a metterlo al fresco» disse Crawford.
«Quello che dobbiamo fare è cercare di immaginare chi potrebbe essere,
tenendoci sulle generali. Adesso fammi un piacere. Diciamo che abbiamo
arrestato un buon sospetto. Tu lo vedi. Cos'è che non ti sorprende sul suo
conto?»
«Non lo so, Jack. Per me in questo momento non ha una faccia. Po-
tremmo perdere un mucchio di tempo a cercare della gente che ci siamo
inventati nella nostra testa. Hai parlato a Bloom?»
«Ieri sera al telefono. Bloom non crede che abbia tendenze suicide e an-
che Heimlich è del suo parere. Bloom è stato qui solo un paio d'ore, il pri-
mo giorno, ma tanto lui quanto Heimlich hanno in mano tutta la pratica.
Bloom questa settimana deve esaminare i candidati al dottorato di ricerca.
Mi ha chiesto di salutarti. Hai il suo numero di telefono a Chicago?»
«Sì, ce l'ho.»
A Graham il dottor Alan Bloom, un ometto rotondo con gli occhi tristi,
era simpatico. Bloom era uno psichiatra bravissimo, esperto in criminolo-
gia. Graham gli era riconoscente perché non aveva mai manifestato un in-
teresse professionale nei suoi confronti. Non capitava spesso, avendo a che
fare con gli psichiatri.
«Bloom ha detto che non lo sorprenderebbe se ricevessimo un messag-
gio dal Lupo Mannaro. Potrebbe scriverci un biglietto» disse Crawford.
«Sì, sulla parete di una camera da letto.»
«Bloom pensa che possa essere sfigurato o che possa credere di esserlo.
Mi ha anche detto però di non dare molto peso alla cosa. "Non vorrei che
tu ti mettessi a dare la caccia a uno che non esiste" mi ha detto. "Potresti
distrarre gli sforzi". Mi ha anche detto che gli hanno insegnato all'universi-
tà a dire queste cose.»
«Ha ragione» disse Graham.
«Tu invece potresti raccontare qualcosa sul suo conto, altrimenti non a-
vresti trovato quell'impronta» incalzò Crawford.
«Le tracce erano lì su quella maledetta parete, Jack. Non ho fatto niente
di speciale. Ehi, senti una cosa, da me non aspettarti troppo, d'accordo?»
«Oh, lo prenderemo. Ne sei convinto, vero?»
«Sì, ne sono convinto. In un modo o nell'altro.»
«E qual è questo modo?»
«Troveremo degli indizi che sono stati trascurati.»
«E l'altro?»
«Continuerà a darsi da fare finché una sera farà troppo chiasso e il mari-
to farà in tempo a prendere il fucile.»
«Altre possibilità?»
«Credi che io possa identificarlo in una stanza, in mezzo ad altre perso-
ne? No, queste cose le fa solo Ezio Pinza. Il Lupo Mannaro continuerà con
le sue imprese finché non diventeremo furbi o avremo fortuna. Non si fer-
merà.»
«Perché?»
«Perché gli piace proprio.»
«Vedi che sai qualcosa sul suo conto» osservò Crawford.
Graham tacque finché non furono usciti. «Aspetta la prossima luna pie-
na» disse a Crawford. «Poi potrai dirmi quanto so sul suo conto.»
Tornò in albergo e dormì due ore e mezzo. Si svegliò a mezzogiorno, fe-
ce una doccia e ordinò una tazza di caffè e un sandwich. Era ora di studiare
con attenzione la pratica Jacobi. Con il sapone dell'albergo lavò gli occhia-
li che gli servivano per leggere e si accomodò accanto alla finestra con la
pratica davanti. I primi minuti prestò attenzione a tutti i rumori, ai passi
nell'atrio, al tonfo lontano della porta dell'ascensore. Poi si concentrò sulla
pratica.
Il cameriere arrivò con il vassoio, bussò e rimase in attesa. Bussò di
nuovo: nessuna risposta. Infine lasciò la colazione sul pavimento davanti
alla porta e firmò il conto.
Hoyt Lewis, addetto alla lettura dei contatori per la Georgia Power
Company, parcheggiò il camioncino sotto un grosso albero nel vicolo e se-
dette alla base del tronco con il cestino della colazione. Ormai, da quando
se lo preparava da solo, non era più un piacere aprirlo. Non trovava più bi-
gliettini, non trovava più dolcetti sorpresa.
A metà del panino una voce alta lo fece sobbalzare.
«Scommetto che questo mese Ho consumato mille dollari di corrente,
non è vero?»
Lewis si voltò e vide all'altezza del finestrino il viso paonazzo di H.G.
Parsons. Parsons portava un paio di bermuda e impugnava un rastrello.
«Non capisco cosa dice.»
«Scommetto che lei dirà che questo mese ho consumato mille dollari di
corrente. Ha capito, adesso?»
«Non so cos'ha consumato perché non ho ancora letto il suo contatore,
signor Parsons. Quando lo leggerò, scriverò il numero qui su questo fo-
glietto.»
Parsons era arrabbiato per la bolletta. Si era già lamentato con la società
elettrica sostenendo di pagare troppo.
«Sto controllando i consumi» disse Parsons. «Mi rivolgerò alla commis-
sione di controllo dei servizi pubblici.»
«Vuole leggere il contatore con me? Facciamolo subito e...»
«Il contatore lo so leggere da solo. Magari lo saprebbe leggere anche lei,
se non fosse così faticoso.»
«Si calmi un attimo, Parsons.» Lewis scese dal camioncino. «Si calmi un
attimo, maledizione. L'anno scorso lei ha messo una calamita sul contato-
re. Sua moglie mi ha detto che lei era in ospedale così ho lasciato perdere e
non ho detto niente. L'inverno scorso, quando ci ha versato dentro la me-
lassa, ho fatto rapporto. Ho saputo che poi lei la bolletta l'ha pagata.
«La sua bolletta ha cominciato a salire quando lei ha modificato da solo
l'impianto elettrico. Gliel'ho detto e ridetto: c'è qualcosa in quell'impianto
che mangia corrente. Ha chiamato un elettricista per scoprire dov'è la per-
dita? No, chiama in ufficio e si lamenta di me. Ormai ne ho piene le scato-
le.» Lewis era livido di rabbia.
«Voglio andare fino in fondo» disse Parsons, arretrando verso il cortile
di casa. «La stanno tenendo d'occhio, caro il mio Lewis. C'è qualcuno che
controlla le letture prima di lei» disse dall'altra parte dello steccato. «Tra
poco vedrà che anche lei dovrà lavorare come tutti.»
Lewis innestò la marcia e si allontanò lungo il vicolo. Avrebbe dovuto
trovarsi un altro posto per terminare la colazione. Gli spiaceva. Quel gros-
so albero con la sua ombra per anni era stato il posto ideale per lo spuntino
di mezzogiorno.
Era proprio dietro la casa di Charles Leeds.
Alle cinque e mezzo del pomeriggio Hoyt Lewis si fermò con la propria
automobile davanti al Cloud Nine Lounge dove, tanto per calmarsi, buttò
giù numerosi bicchieri.
Quando telefonò alla moglie da cui era diviso riuscì solo a dire: «Mi
piacerebbe che tu mi preparassi ancora la colazione».
«Dovevi pensarci prima, signor furbacchione» rispose lei e riappese.
Giocò cupamente una partita a Shuffleboard con alcuni guardiafili e uno
spedizioniere della società elettrica, poi diede un'occhiata agli altri avven-
tori. Cominciavano a frequentarlo dei maledetti impiegati delle compagnie
aeree. Tutti con i baffetti uguali e la vocetta educata. Un po' di tempo an-
cora e avrebbero fatto diventare il Cloud Nine un pub inglese, completo di
bersaglio per le freccette. Non c'era più niente di sicuro, di stabile.
«Ehi, Hoyt. Facciamoci una birra.» Era il suo responsabile, Billy Meeks.
«Senti Billy, devo parlarti.»
«Cosa c'è?»
«Lo conosci Parsons, quel vecchio figlio di una troia, quello che telefona
sempre?»
«Già, mi ha proprio telefonato la settimana scorsa» disse Meeks. «Cosa
c'è?»
«Ha detto che qualcuno va a controllare le letture prima di me, come se
si pensasse che io non faccio il giro. Tu non crederai che faccio le letture
da casa, vero?»
«Neanche per sogno.»
«Dici sul serio, no? Voglio dire, se sono sulla lista nera di qualcuno, vor-
rei che quello si facesse avanti per dirmelo.»
«Se tu fossi sulla mia lista nera, credi che avrei paura di dirtelo in fac-
cia?»
«No.»
«Allora d'accordo. Se qualcuno ti controllasse, lo saprei. I dirigenti sono
sempre informati di situazioni del genere. Nessuno ti controlla, Hoyt. Non
devi stare a badare a Parsons. È solo un vecchio rompiscatole. Mi ha tele-
fonato la settimana scorsa e mi ha detto: "Congratulazioni, finalmente ave-
te aperto gli occhi sul conto di Hoyt Lewis". Non gli ho badato assoluta-
mente.»
«Sarebbe stato meglio denunciarlo per quel contatore» disse Lewis. «Me
ne stavo lì nel vicolo sotto un albero per far colazione quando mi è saltato
addosso. Qualcuno dovrebbe prenderlo a calci in culo.»
«Anch'io mi mettevo lì quando andavo in giro» osservò Meeks. «Ti dico
una cosa. Una volta ho visto la signora Leeds — be', forse non è il caso di
parlarne adesso che è morta — ma un paio di volte l'ho vista in cortile che
prendeva il sole in costume da bagno. Cavoli. Aveva un pancino mica ma-
le. Che peccato per tutti loro. Era proprio una bella donna.»
«Non hanno ancora preso nessuno?»
«No.»
«Peccato che quello si sia fatto i Leeds quando lì vicino c'era il vecchio
Parsons» osservò Lewis.
«Ti dirò una cosa, io alla mia vecchia le proibisco di mettersi nel cortile
dietro in costume da bagno. Lei dice che sono scemo, che non la vede nes-
suno. E io le dico che non si può mai essere sicuri che da dietro la siepe
non salti fuori un bastardo con l'affare di fuori. Ti hanno interrogato? Ti
hanno chiesto se hai visto qualcuno?»
«Sì, credo che abbiano interrogato tutti quelli che passano di lì. I postini,
tutti. Ma io quella settimana coprivo Laurelwood, dall'altra parte di Betty
Jane Drive. Ho finito ieri.» Lewis grattò con l'unghia l'etichetta della birra.
«Mi hai detto che Parsons ha telefonato la settimana scorsa?»
«Proprio.»
«Allora qualcuno dev'essere andato a leggergli il contatore. Altrimenti
oggi non sarebbe venuto lì a rompermi le scatole. Hai detto che non hai
mandato nessuno, e senz'altro non sono io quello che ha visto.»
«Forse erano quelli dei telefoni che facevano qualche controllo.»
«Forse.»
«Però non abbiamo pali in comune.»
«Pensi che dovrei avvertire la polizia?»
«Male non farebbe» disse Meeks.
«No, e magari parlare con qualche sbirro farebbe bene a Parsons. Per lo
meno quando li vede arrivare si caga sotto.»
Graham tornò alla casa dei Leeds nel tardo pomeriggio. Entrò dalla porta
principale e cercò di non guardare il disastro che l'assassino si era lasciato
dietro. Fino ad allora aveva visto solo documenti, un mattatoio e le bestie
macellate, ma dopo il fatto. Sapeva già abbastanza bene com'erano stati
uccisi. Voleva vedere come avevano vissuto.
Un'ispezione, quindi. Nel garage c'era un motoscafo di buona marca, u-
sato ma ben tenuto e una station wagon. C'erano anche mazze da golf e
una moto da cross. Trapano e altri attrezzi a motore erano praticamente
nuovi. Giocattoli per adulti.
Graham prese una mazza da golf dalla borsa, la strinse per il manico, ac-
cennò un colpo. La borsa soffiò odore di cuoio quando la ripose contro la
parete. Le cose di Charles Leeds.
In casa andò alla ricerca di tutti gli altri oggetti del capofamiglia. Nello
studiolo trovò delle stampe con soggetti di caccia. C'era anche la collana
dei classici, tutti in fila. Negli scaffali notò H. Allen Smith, Perelman e
Max Shulman. Vonnegut ed Evelyn Waugh. Su un tavolo vide aperto Beat
to Quarters, di C.S. Forester.
Nell'armadietto dello studio trovò un buon fucile di piccolo calibro, una
Nikon, una cinepresa superotto Bolex con relativo proiettore.
Graham, che non aveva quasi nulla salvo un minimo di attrezzatura da
pesca, una Volkswagen di terza mano e due casse di Montrachet, avvertì
una leggera irritazione verso quei giocattoli per adulti e se ne chiese il mo-
tivo.
Chi era Leeds? Un consulente fiscale di successo, un tifoso di football
americano, un uomo alto e snello che amava l'allegria, che si era alzato dal
letto per lottare malgrado avesse la gola squarciata.
Seguì le sue tracce in tutta la casa, come per uno strano senso di defe-
renza. Conoscere prima lui e le sue abitudini era, in un certo senso, un mo-
do di chiedere il permesso di guardare, poi, nella vita di sua moglie.
Era sicuro che fosse stata la donna ad attirare il mostro, proprio come il
frinire del grillo attrae la morte, portata dalla mosca dagli occhi rossi.
E adesso la signora Leeds.
Aveva un piccolo spogliatoio privato al piano superiore.
Fece in modo di entrare senza guardare in camera da letto. Le pareti era-
no gialle e la stanza appariva intatta, a parte lo specchio in frantumi sopra
la toilette. Sul pavimento, davanti all'armadio, c'erano un paio di mocassi-
ni, proprio come se se li fosse appena tolti. La vestaglia era attaccata a un
gancio e nell'armadio c'era quel leggero disordine, tipico di una donna che
deve tenere a posto molti altri armadi.
Trovò il suo diario in una scatola di velluto color prugna, sulla toilette.
La chiave era stata appiccicata al bordo con nastro adesivo e un'etichetta
della polizia.
Graham sedette su una sedia bianca girevole e lo aprì a caso
Sulla pagina era rimasta la cenere del sigaro di uno degli investigatori.
Graham continuò a leggere finché non cominciò a scendere l'oscurità,
passando attraverso l'operazione alle tonsille della figlia, e il grosso spa-
vento che la signora Leeds si era presa in giugno scoprendo un piccolo no-
dulo al seno. (Mio Dio, i bambini sono così piccoli).
Tre pagine dopo, il nodulo si era rivelato una piccola cisti benigna, poi
asportata senza difficoltà.
Graham si sentiva istupidito, con la testa come imbottita. Nuotò nella pi-
scina dell'albergo finché non si sentì le gambe molli e uscì dalla vasca pen-
sando a due cose: un bicchiere di martini col gin e il sapore della bocca di
Molly.
Si preparò da solo il martini in un bicchiere di plastica e telefonò a
Molly.
«Pronto, delinquente.»
«Ehi, bello! Dove sei?»
«Ad Atlanta, in questo albergo maledetto.»
«Hai combinato qualcosa di buono?»
«Niente di notevole. Mi sento solo.»
«Anch'io.»
«Ho voglia.»
«Anch'io.»
«Dimmi un po', cos'hai fatto?»
«Be', oggi ho avuto una discussione con la signora Holper. Voleva resti-
tuirmi un vestito con una gran macchia di whisky sul sedere. Naturalmente
se l'era messo alla festa.»
«E che cosa le hai detto?»
«Le ho detto che non gliel'avevo venduto in quelle condizioni.»
«E lei?»
«Ha detto che non le avevo mai fatto difficoltà quando mi aveva reso i
vestiti, che per questo veniva nel mio negozio, invece di andare in altri.»
«E tu, a questo punto?»
«Oh, le ho detto che ero un po' fuori di me perché Will al telefono dice
delle fesserie.»
«Capisco.»
«Willy sta bene. Sta seppellendo delle uova di tartaruga che i cani hanno
scavato. Dimmi cosa fai tu, adesso.»
«Leggo dei rapporti. Mangio porcherie.»
«Immagino che penserai anche un bel po'.»
«Proprio così.»
«Ti posso aiutare?»
«Non ho ancora in mano niente di preciso, Molly. Non ci sono abbastan-
za indizi. Be', a dir la verità ce ne sono un sacco, ma non li ho ancora stu-
diati abbastanza.»
«Intendi restarci per un po', ad Atlanta? Non voglio seccarti dicendoti di
tornare a casa, volevo solo saperlo.»
«Non so. Senz'altro dovrò restare qui ancora qualche giorno. Mi man-
chi.»
«Hai voglia di parlare o di scopare?»
«Non credo che riuscirei a reggerlo. Forse è meglio non farlo.»
«Non fare cosa?»
«Parlare di scopare.»
«D'accordo. Comunque, ti dispiace se io ci penso?»
«Assolutamente no.»
«Abbiamo un altro cane.»
«Oh, all'inferno.»
«Dev'essere un incrocio tra un basset hound e un pechinese.»
«Dev'essere splendido.»
«Ha due palle grosse così.»
«Non preoccuparti delle sue palle.»
«Strisciano quasi per terra. Quando corre deve farle rientrare.»
«Impossibile.»
«Sì che è possibile, come fai a sapere che non si può?»
«Lo so.»
«Tu le tue le sai far rientrare?»
«Lo sapevo che ci saremmo arrivati.»
«Allora?»
«Se proprio lo vuoi sapere, una volta l'ho fatto.»
«In che occasione?»
«Da ragazzo. Dovevo saltare in fretta una rete di filo spinato»
«Perché?»
«Avevo in mano un'anguria che non avevo coltivato io.»
«Scappavi? E da chi?»
«Da un tizio che conoscevo. Aveva mollato i cani ed era uscito di casa in
mutande con il fucile da caccia. Fortunatamente ha inciampato in un gra-
ticcio dei fagioli e mi ha dato il tempo di scappare.»
«Ti ha sparato?»
«Sul momento ho pensato di sì, ma forse il rumore che ho sentito dev'es-
sermi uscito dal di dietro. Non l'ho mai saputo bene.»
«E hai saltato la rete?»
«Senza difficoltà.»
«Una mentalità criminale, anche allora.»
«Non ho una mentalità criminale.»
«Certo che non ce l'hai. Pensavo di pitturare la cucina. Di che colore ti
piacerebbe? Will? Di che colore ti piacerebbe? Sei ancora in linea?»
«Sì, ehm, gialla. Facciamola gialla.»
«Il giallo non mi sta bene. Sarei verde, a colazione.»
«Allora azzurro.»
«L'azzurro è freddo.»
«Be', allora maledizione falla color cacca di neonato, per quel che me ne
frega... No, senti, probabilmente torno a casa presto. Ce ne andiamo al co-
lorificio e compriamo un po' di roba, d'accordo? Magari anche qualche
manico nuovo o roba del genere.»
«Va bene, comperiamo qualche manico. Chissà perché ti parlo di queste
cose. Senti, ti amo, mi manchi e stai facendo la cosa giusta. Lo so che pesa
anche a te. Io sono qui e mi trovi qui quando forni a casa, in qualunque
momento, oppure possiamo vederci in qualunque posto, in qualunque
momento. È tutto.»
«Cara, cara Molly. Adesso va' a dormire.»
«Va bene.»
«Buonanotte.»
Graham rimase disteso con le mani intrecciate dietro la testa, immagi-
nando cenette con Molly. Granchi e Sancerre, la brezza salina mescolata al
vino.
Ma il suo guaio era quello di ripensare alle conversazioni. Anche ora
cominciò a farlo. Era scattato quando lei, innocentemente, aveva detto che
aveva una mentalità "criminale". Si era comportato da stupido. L'interesse
che Molly provava per lui gli era in gran parte inspiegabile.
Telefonò alla centrale di polizia e lasciò un appunto a Springfield per
dirgli che il mattino dopo voleva dare una mano nelle indagini porta a por-
ta. Non c'era nient'altro da fare.
Il gin lo aiutò a prendere sonno.
6
Millecento chilometri verso sud ovest, a St. Louis, nella mensa del Ga-
teway Film Laboratory, Francis Dolarhyde aspettava un hamburger. I piatti
della tavola calda erano coperti da una pellicola di plastica. Era fermo ac-
canto al registratore di cassa e beveva del caffè in un bicchiere di carta.
Una ragazza dai capelli rossi che indossava la vestaglia del laboratorio
entrò nel locale e si fermò a esaminare la distributrice automatica di dol-
ciumi. Lanciò diverse occhiate a Francis Dolarhyde, stringendo le labbra.
Alla fine gli si avvicinò e disse: «Il signor D?».
Dolarhyde si voltò. Quando non era in camera oscura metteva sempre un
paio di occhiali rossi. La ragazza si costrinse a fissare il ponte degli oc-
chiali.
«Le dispiacerebbe sedersi qui con me un minuto? Dovrei dirle una co-
sa.»
«Cosa mi puoi dire, Eileen?»
«Che sono davvero spiacente. Bob era ubriaco fradicio e — sa — faceva
un po' il pagliaccio. Non diceva sul serio. La prego, sieda. Un minuto solo.
Le dispiace?»
«Mmmm hmmm.» Dolarhyde non diceva mai «sì» aveva difficoltà a
pronunciare le sibilanti.
Sedettero. Eileen torceva un tovagliolo tra le mani.
«Al party si divertivano tutti, eravamo contenti che fosse venuto anche
lei» disse. «Eravamo davvero contenti e anche sorpresi. Lei sa com'è Bob,
non fa che imitare le voci... dovrebbero prenderlo alla radio. Ha imitato
due o tre persone, ha raccontato barzellette e simili... se vuole parla proprio
come un negro. Quando ha fatto quell'altra voce, non voleva farla sentire a
disagio. Era troppo ubriaco per sapere chi c'era al party.»
«Ridevano tutti... e a un certo punto non ridevano più» Dolarhyde evitò
di dire «hanno smesso di ridere» sempre a causa delle "s".
«È stato quando Bob ha capito quello che aveva fatto.»
«Però ha continuato.»
«Lo so» disse la ragazza, costringendosi a sollevare lo sguardo dal tova-
gliolo verso gli occhiali senza indugiare a metà strada. «Dopo me ne ha
parlato. Ha detto che non c'era nessuna intenzione, e visto che ornai c'era
dentro, ha cercato di tenere in piedi lo scherzo. Lei avrà visto quanto è di-
ventato rosso.»
«Mi ha invitato a... fare un duetto con lui.»
«Ha cercato di metterle un braccio intorno alle spalle, signor D. Voleva
che ridesse anche lei.»
«E mi è venuto da ridere, Eileen.»
«Bob è dispiaciutissimo.»
«Be', non vorrei proprio. Davvero. Glielo dica pure. E comunque qui al
laboratorio non cambierà niente. Cavoli, con un talento come quello di
Bob affronterei... battute di continuo.» Era riuscito a evitare la parola
"scherzi". «Tra non molto faremo una riunione, vedrà che non ce l'ho con
lui.»
«Bene, signor D. Lei lo conosce, dietro tutti quegli scherzi è un ragazzo
molto sensibile.»
«Come no. E anche dolce, immagino.» La voce di Dolarhyde era soffo-
cata dalla mano. Quando era seduto, teneva sempre premuta la nocca del-
l'indice contro la radice del naso.
«Mi scusi?»
«Credo che lei sia la donna adatta per lui, Eileen»
«Lo credo anch'io, davvero. Beve solo durante il weekend. Ha appena il
tempo di cominciare a rilassarsi che sua moglie lo chiama. Fa delle smor-
fie mentre le parla, ma dopo vedo benissimo che è sconvolto. Una donna
queste cose le sa.» Gli toccò leggermente il polso e nonostante gli occhiali
vide che gli occhi di Dolarhyde avevano registrato il contatto. «Non se la
prenda, signor D. Sono contenta che abbiamo parlato.»
«Anch'io, Eileen.»
Dolarhyde la osservò allontanarsi. Aveva un succhiotto nell'incavo del
ginocchio. Credeva, e non sbagliava, di non esserle simpatico. Del resto
non lo era a nessuno.
La grande camera oscura era fresca e odorava di prodotti chimici. Lavo-
rando con la luce rossa Francis Dolarhyde controllò il bagno di sviluppo
nella vasca A. Ogni ora nella vasca passavano centinaia di metri di film
fatti da dilettanti che arrivavano da tutti gli Stati Uniti. Temperatura e fre-
schezza del bagno erano critiche. La responsabilità, così come quella di
tutte le operazioni successive fino all'asciugatura erano sue. Diverse volte
al giorno doveva prendere dalla vasca campioni di film e controllarli foto-
gramma per fotogramma. Il locale era silenzioso. Dolarhyde non voleva
che i suoi assistenti chiacchierassero e comunicava con loro quasi esclusi-
vamente a segni.
Finito l'orario di lavoro rimase solo in camera oscura per sviluppare, a-
sciugare e tagliare alcuni film che aveva girato personalmente.
Tornò a casa verso le dieci di sera. Viveva da solo in una grande casa e-
reditata dai nonni che si ergeva alla fine di un viale coperto di ghiaia in
mezzo a un frutteto a nord di St. Charles, Missouri, sulla sponda opposta
del fiume Missouri rispetto a St. Louis. Il proprietario lasciava il frutteto in
abbandono. Tra gli alberi verdi ne sorgevano altri secchi e contorti. Era la
fine di luglio e in tutto il frutteto aleggiava un odore di mele marce. Di
giorno c'erano molte api. Gli abitanti più vicini vivevano a più di mezzo
chilometro di distanza.
Dolarhyde quando tornava a casa faceva sempre un giro di ispezione in-
torno alla casa; alcuni anni prima avevano tentato di rubare. Accese le luci
in tutte le stanze e si guardò in giro. Un visitatore non avrebbe creduto che
vivesse da solo. Negli armadi erano ancora appesi gli abiti dei nonni, sul
cassettone della nonna c'erano ancora le sue spazzole con il pettine. La
dentiera si trovava in un bicchiere sul comodino. L'acqua era ormai evapo-
rata da molto tempo. La nonna era morta dieci anni prima.
L'incaricato delle pompe funebri gli aveva chiesto: «Signor Dolarhyde,
le dispiacerebbe farmi avere la dentiera di sua nonna?» Aveva risposto:
«Le chiuda gli occhi e basta».
Soddisfatto di essere solo in casa, Dolarhyde salì al piano superiore, fece
una lunga doccia e si lavò i capelli.
Indossò un kimono di tessuto sintetico che dava la stessa sensazione del-
la seta e si distese sul lettino nella stanza che aveva occupato fin dall'in-
fanzia. Il casco asciugacapelli della nonna aveva una cuffia di plastica con
un tubo. Si infilò la cuffia e aspettando che i capelli asciugassero, sfogliò
una nuova rivista d'alta moda. Il disprezzo e la brutalità di alcune fotogra-
fie erano notevoli.
Cominciò a sentirsi eccitato. Mosse il paralume metallico della lampada
da tavolo illuminando una stampa sulla parete ai piedi del letto, era Il Dra-
go Rosso e La Donna Vestita di Sole.
Quell'immagine lo aveva lasciato stupefatto la prima volta che l'aveva
vista. Mai in precedenza aveva visto qualcosa che si avvicinasse alle im-
magini che aveva in testa. Sentiva che Blake doveva avergli letto nel pen-
siero, doveva aver visto il Drago Rosso. Per settimane Dolarhyde era vis-
suto con la preoccupazione che i pensieri potessero uscirgli dalle orecchie
come una nebbia luminosa, rendersi visibili nella camera oscura, danneg-
giare i film. Si era infilato dei batuffoli di cotone nelle orecchie. Poi te-
mendo che il cotone fosse troppo infiammabile, aveva provato a mettere
della paglietta di ferro. Le orecchie però sanguinavano. Infine aveva taglia-
to dei pezzettini di amianto dal supporto di un ferro da stiro e ne aveva fat-
to delle palline che poteva infilarsi nelle orecchie.
Il Drago Rosso per molto tempo era stato tutto quel che aveva. Ora non
più. Avvertì l'erezione.
Avrebbe voluto arrivarci lentamente, ma ormai non poteva più aspettare.
Chiuse i pesanti tendaggi delle finestre del salotto al piano terreno, poi
piazzò schermo e proiettore. Il nonno, malgrado le obiezioni della nonna,
in salotto aveva sistemato una poltrona dallo schienale pieghevole (la non-
na aveva subito messo un centrino sul poggiatesta). Ma ora Dolarhyde era
contento della decisione del nonno: la poltrona era molto confortevole. Po-
sò un asciugamano sul bracciolo.
Spense le luci. Reclinato nella camera al buio, avrebbe potuto trovarsi
dovunque. Al soffitto aveva appeso un impianto a luci rotanti che proietta-
vano chiazze multicolori sulle pareti, sul pavimento, sulla sua pelle. A-
vrebbe potuto benissimo essere sul lettino antigravità di un'astronave, in
una bolla di vetro tra le stelle. Quando chiudeva gli occhi gli pareva di sen-
tire i cerchietti di luce passargli sul corpo e quando li riapriva quelle pote-
vano benissimo essere le luci di una città, sopra o sotto di lui. Non c'erano
più né alto né basso. L'apparecchio, scaldandosi, aumentava la velocità di
rotazione e i circoli di luce gli passavano sul corpo, si allargavano in for-
mazione sui mobili, cadevano come piogge di meteoriti lungo le pareti.
Avrebbe potuto trovarsi in una cometa che si tuffava nella Nebulosa del
Granchio.
Un solo posto era riparato dalla luce. Dolarhyde aveva sistemato vicino
all'apparecchio un cartoncino che proiettava un'ombra sullo schermo cine-
matografico.
Qualche volta, in futuro, avrebbe fumato prima, per aumentare l'effetto.
Ma questa volta non ce n'era bisogno.
Toccò il telecomando per avviare il proiettore. Sullo schermo apparve un
rettangolo bianco che divenne grigio attraversato da una striscia rossa
mentre la testa della pellicola passava davanti all'obiettivo, poi il terrier
grigio rizzò le orecchie e corse verso la porta di cucina tremando e agitan-
do il mozzicone di coda. Uno stacco e si vide il cane correre lungo il mar-
ciapiede, voltando il muso per mordere, sempre correndo.
Ora in cucina entrava la signora Leeds con la spesa. Scoppiò a ridere e si
accarezzò i capelli. La seguirono i bambini.
Un altro stacco: l'immagine malamente illuminata di Dolarhyde nella
camera da letto del primo piano. È in piedi, nudo; davanti a lui la stampa
de Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Indossa un paio di "occhiali
da combattimento", del tipo avvolgente, il preferito dai giocatori di ho-
ckey. Ha un'erezione che stimola con una mano.
L'immagine si fa sfuocata mentre Dolarhyde si avvicina alla cinepresa
con movimenti stilizzati; una mano si allunga per cambiare la lunghezza
focale mentre il viso riempie lo schermo. L'immagine tremola, diviene im-
provvisamente netta fermandosi su un dettaglio della bocca, il labbro supe-
riore sfigurato rovesciato all'indietro, la lingua che spunta tra i denti, un
occhio ancora nell'inquadratura. La bocca riempie lo schermo e le labbra,
vibranti, lasciano vedere i denti irregolari; lo schermo si oscura quando
l'obiettivo entra in bocca.
Le difficoltà di ripresa nel pezzo successivo sono evidenti.
Un cerchio di luce saltellante inquadra il letto sul quale Charles Leeds
cerca di liberarsi dalle coperte; la signora Leeds si rizza a sedere riparan-
dosi gli occhi, si volta verso il marito e gli posa le mani addosso poi rotola
verso il bordo del letto e cerca di alzarsi, le gambe impacciate dalle coper-
te. La cinepresa punta bruscamente verso il soffitto, le modanature passano
rapide sullo schermo, l'immagine si stabilizza. La signora Leeds è di nuovo
distesa sul letto, una macchia scura si spande sulla camicia da notte, men-
tre il marito, coprendosi il collo con le mani e un'espressione selvaggia ne-
gli occhi, fa per alzarsi. Lo schermo diventa scuro, si sente il rumore di un
taglio.
Ora la cinepresa è immobile, fissata a un treppiede. Ora sono tutti morti.
Messi in posa. Due bambini seduti contro la parete di fronte al letto, uno
contro la parete di fronte alla cinepresa. Marito e moglie sono distesi sul
letto, nascosti dalle coperte. Il signor Leeds appoggia la schiena alla spal-
liera del letto, il lenzuolo copre la corda che gli stringe il torace, la testa è
piegata di lato.
Dolarhyde entra in scena da sinistra con i movimenti stilizzati di un dan-
zatore balinese. Coperto di sangue e nudo, se si eccettuano guanti e occhia-
li, si mette in posa e saltella tra i morti. Si avvicina al lato del letto lontano
dall'obiettivo, quello della signora Leeds, prende un angolo delle coperte e,
con un colpo secco, le butta lontano fermandosi in posa come se avesse
appena eseguito una Veronica.
Guardando la scena nel salotto dei nonni, Dolarhyde si ritrovò coperto di
sudore. Con la lingua spessa leccava di continuo la cicatrice sul labbro su-
periore mugolando e stimolandosi.
Ma persino al culmine del piacere gli dispiacque vedere che nella scena
successiva aveva perso tutta la sua grazia e l'eleganza di movimenti, met-
tendosi a grufolare come un maiale, con il sedere goffamente rivolto verso
la cinepresa. Mancavano pause drammatiche e senso di pace, il crescendo
dell'azione mancava di gradualità, di ritmo... solo una frenesia brutale.
Comunque era ugualmente una cosa meravigliosa. Era meraviglioso
guardare il film. Non però quanto l'azione ripresa.
I due difetti più appariscenti, pensava, erano, uno, il fatto che nel film
non veniva mostrata la morte dei Leeds e, due, la sua interpretazione sca-
dente verso la fine. Tutti i suoi valori parevano andare perduti. Il Drago
Rosso non si sarebbe comportato così.
Bene. Aveva ancora molti film da fare e, con l'esperienza, sperava che
sarebbe riuscito a conservare un certo distacco estetico persino nei mo-
menti più intimi.
Doveva riuscirci. Questa era l'opera della sua vita, un'impresa magnifica.
Sarebbe sopravvissuta in eterno.
Doveva accelerare le cose, scegliere altri attori. Aveva già preparato una
copia di svariati picnic familiari per il 4 di luglio. Con la fine dell'estate al
laboratorio il lavoro, come sempre, aumentava di netto a mano a mano che
arrivavano i film delle vacanze. Un'altra ondata sarebbe arrivata dopo il
Giorno del Ringraziamento.
Le famiglie gli mandavano ogni giorno la loro richiesta di parteci-
pazione al film.
Graham aveva la netta sensazione che la pista fosse ormai fredda. La ca-
sa era all'estrema periferia, in una zona entrata da poco a far parte della cit-
tà. Si fermò un attimo sul bordo della superstrada per controllare la mappa
poi trovò l'uscita che si immetteva su una strada secondaria asfaltata.
Era passato più di un mese dal massacro. Cosa stava facendo in quel pe-
riodo? Metteva una coppia di motori diesel in uno scafo Rybovich da 18
metri, faceva segno ad Ariaga che manovrava la gru di far scendere il mo-
tore ancora un centimetro. Molly era venuta a trovarlo nel tardo pomerig-
gio e tutti e tre si erano messi seduti sotto una tenda nel pozzetto della bar-
ca ancora in costruzione a mangiare i gamberoni portati da Molly, bevendo
birra Dos Equis fredda. Ariaga aveva spiegato come si pulivano i gamberi
d'acqua dolce, mentre i raggi del sole, spezzati dall'acqua, giocavano con-
tro il soffitto della timoneria.
Il condizionatore gli spruzzò un po' d'acqua sulla camicia. Ora si trovava
a Birmingham, non c'erano né gamberoni né gabbiani; alla sua destra si a-
privano pascoli e terreni boscosi con capre e cavalli; alla sua sinistra si e-
stendeva Stonebridge, una vecchia area residenziale con alcune ville ele-
ganti e un certo numero di case di gente ricca.
Vide l'insegna dell'agenzia immobiliare un centinaio di metri prima di
arrivare. La casa degli Jacobi era l'unica sul lato destro della strada. La lin-
fa caduta dai noci americani sulla banchina rendeva appiccicosa la ghiaia
che scrosciava contro i parafanghi dell'auto. Un carpentiere issato su una
scala stava sistemando delle grate alle finestre; salutò con un cenno della
mano Graham che a piedi girava intorno alla casa.
Su un lato si apriva un patio pavimentato con lastre di pietra e ombreg-
giato da una grossa quercia. Di notte l'albero bloccava anche la luce del
lampione sulla strada. Era da qui che il Lupo Mannaro era entrato: attra-
verso le vetrate scorrevoli. Le porte erano state sostituite, sul telaio d'allu-
minio ancora lucido si notava l'adesivo del fabbricante. Una grata di sicu-
rezza in ferro battuto le proteggeva. Anche la porta della cantina — in ac-
ciaio, fissata con chiavistelli — era nuova. Sulle lastre di pietra dell'atrio
erano sparsi i pezzi di una vasca da bagno.
Graham entrò. Pavimenti nudi e aria di chiuso. Nella casa vuota echeg-
giava il rumore dei suoi passi.
Gli specchi nuovi nei locali da bagno non avevano mai riflesso né le fac-
ce della famiglia Jacobi né quella dell'assassino. Tutti mostravano una
macchietta confusa dov'era stato staccato il cartellino del prezzo. In un an-
golo della camera da letto principale c'era un telone ripiegato. Graham vi si
sedette e rimase immobile a lungo: i raggi del sole che entravano dalla fi-
nestra nuda si mossero di una ventina di centimetri.
Non c'era nulla in quel posto. Più nulla.
Se fosse venuto qui immediatamente dopo il primo delitto, i Leeds sa-
rebbero stati ancora vivi? si chiese. Valutò quanto questo carico gli pesasse
sulle spalle.
Nemmeno quando fu uscito di casa e si ritrovò di nuovo sotto il cielo
non se ne sentì liberato.
Si fermò all'ombra di un noce, le spalle curve, le mani in tasca, e guardò
lungo il vialetto in direzione della strada che passava di fronte alla casa.
In che modo era arrivato lì il Lupo Mannaro? Senz'altro in macchina. E
dove l'aveva parcheggiata? Il vialetto di ghiaia era troppo rumoroso per
una visita notturna, pensò. La polizia di Birmingham però non era dello
stesso parere.
Andò sulla strada asfaltata, lungo la quale due fossati correvano paralleli
per tutta la lunghezza. Se il terreno era duro e asciutto doveva essere pos-
sibile attraversare il canaletto e nascondere una macchina tra i cespugli
dalla parte della casa.
Di fronte alla casa del delitto, sul lato opposto della strada, c'era l'unico
cancello di Stonebridge. Un'insegna annunciava la presenza di un servizio
di sorveglianza privato. Una macchina sconosciuta sarebbe stata notata. E
lo stesso valeva per un uomo a piedi, di notte. Eliminare l'ipotesi che l'as-
sassino avesse parcheggiato di fronte a Stonebridge.
Graham rientrò in casa e fu sorpreso di vedere che il telefono era ancora
collegato. Chiamò l'ufficio meteorologico e venne a sapere che il giorno
prima dell'assassinio erano caduti 75 mm di pioggia. Quindi i fossati dove-
vano essere pieni. Il Lupo Mannaro non aveva nascosto la macchina vicino
alla strada asfaltata.
Un cavallo nel pascolo accanto al giardino accompagnò Graham che,
passando vicino allo steccato pitturato a calce, si dirigeva verso il retro del-
la casa. Diede una caramella al cavallo e lo abbandonò all'angolo prose-
guendo lungo lo steccato dietro il garage e i fabbricati annessi.
Si fermò quando trovò la buca dove i tre bambini avevano seppellito il
gatto. Quando si trovava con Springfield alla polizia di Atlanta i fabbricati
annessi se li era immaginati bianchi. Invece erano verde scuro.
I bambini avevano avvolto il gatto in uno strofinaccio per i piatti e lo a-
vevano seppellito in una scatola da scarpe con un fiore tra le zampe.
Graham posò l'avambraccio sullo steccato e vi appoggiò la fronte.
Il funerale di un animale di casa, rito solenne dell'infanzia. Il papà o la
mamma che tornavano in casa vergognandosi di pregare. I bambini che si
guardavano l'un l'altro scoprendo di avere i nervi saldi proprio quando una
perdita lacera. Uno china la testa, tutti lo imitano, il manico della vanga è
più alto di tutti e tre. Segue una discussione per decidere se il gatto sia in
paradiso con Dio e Gesù; poi per un po' i bambini evitano di alzare la voce.
Graham, mentre se ne stava lì con il sole che gli picchiava sul collo, eb-
be una certezza: il Lupo Mannaro, proprio come aveva ucciso il gatto, a-
veva osservato i bambini seppellirlo. Doveva controllare se gli era stato
possibile.
Non aveva fatto due viaggi sul posto, uno per uccidere il gatto, il secon-
do per la famiglia. Era venuto, aveva ucciso l'animale e aveva atteso che i
bambini lo trovassero.
Impossibile determinare esattamente dov'era stata rinvenuta la bestiola.
La polizia non era riuscita a trovare nessuno che avesse parlato con gli Ja-
cobi una decina di ore prima della morte.
In che modo il Lupo Mannaro era arrivato e dove era rimasto ad attende-
re?
Oltre lo steccato, dietro la casa, crescevano dei cespugli ad altezza
d'uomo, una trentina di metri dopo iniziavano gli alberi. Graham estrasse
dalla tasca posteriore la mappa tutta spiegazzata e la aprì sullo steccato.
Dietro la casa degli Jacobi si apriva una striscia alberata larga quattrocento
metri che proseguiva in tutte e due le direzioni. Dall'altra parte del bosco
correva una strada parallela a quella davanti alla casa.
Ritornò verso la superstrada misurando la distanza con il conta-
chilometri parziale. Svoltò verso sud poi tornò sulla parallela che aveva vi-
sto sulla mappa. Azzerò di nuovo il contachilometri e proseguì lentamente
finché fu certo di essere arrivato all'altezza della casa, dall'altra parte del
bosco.
L'asfalto finiva davanti a un quartiere di case popolari sorto così di re-
cente che la mappa non lo indicava. Fermò la macchina nel parcheggio. La
maggior parte delle auto erano vecchie e malconce, due erano posate su
blocchi di legno.
Un gruppo di bambini negri giocava a pallacanestro su uno spiazzo di
terra battuta con un solo canestro privo di rete. Graham sedette un po' sul
cofano della macchina per osservarli.
Avrebbe voluto togliersi la giacca ma sapeva che la 44 Special e la mac-
china fotografica piatta appesa alla cintura avrebbero attirato l'attenzione.
Si sentiva sempre stranamente imbarazzato quando la gente gli guardava la
pistola.
I giocatori della squadra con la camicia erano otto mentre quelli a torso
nudo erano undici. Giocavano tutti. La partita veniva arbitrata per accla-
mazione.
Un piccolo, di quelli a torso nudo, gettato a terra nella mischia sotto ca-
nestro, si trascinò arrabbiato verso casa. Tornò rinfrancato da un biscotto e
si gettò di nuovo nel branco.
Le urla e i tonfi della palla gli sollevarono il morale.
Un canestro, una palla e basta. Lo colpì di nuovo la quantità di oggetti
che i Leeds possedevano. E anche gli Jacobi, secondo la polizia di Birmin-
gham, quando nel rapporto era stato escluso il furto come movente dell'o-
micidio. Barche, attrezzi sportivi e da campeggio, macchine fotografiche,
fucili e canne da pesca. Un'altra delle cose che le due famiglie avevano in
comune.
E con il pensiero dei Leeds e degli Jacobi vivi gli venne in mente anche
l'immagine di come erano stati ridotti dopo: non riuscì più a guardare la
partita. Respirò a fondo e si diresse verso l'oscurità della boscaglia, dall'al-
tra parte della strada.
Il sottobosco folto, fin dove cominciavano i pini si fece più rado quando
Graham si trovò nell'ombra fitta. Gli fu facile avanzare sul tappeto di aghi.
L'aria era calma e immobile. Negli alberi davanti a lui le ghiandaie annun-
ciarono il suo arrivo.
Il terreno scendeva leggermente verso il letto asciutto del ruscello dove
crescevano alcuni cipressi; nell'argilla rossa si vedevano le impronte degli
opossum e dei topi di campagna. C'erano anche impronte umane, alcune
lasciate da bambini. Avevano tutte i contorni incerti, era piovuto diverse
volte da quando erano state lasciate.
Oltre il ruscello il terreno riprendeva a salire trasformandosi in un misto
di terriccio e di sabbia dove crescevano le felci. Graham risalì il pendio
nella calura finché, sul limitare del bosco, non vide la luce penetrare tra gli
alberi.
Tra i tronchi si vedeva il primo piano della casa degli Jacobi.
Si tuffò di nuovo nel sottobosco che si estendeva dagli alberi fino allo
steccato che chiudeva il lato posteriore della proprietà. Quando l'ebbe at-
traversato si fermò a guardare nel cortile posteriore.
Il Lupo Mannaro avrebbe potuto benissimo lasciare la macchina nel par-
cheggio del nuovo quartiere, attraversare il bosco e arrivare dietro la casa.
Poteva benissimo aver attirato il gatto tra i cespugli per strozzarlo, poi, con
il corpo dell'animale in una mano, essersi avvicinato strisciando sulle gi-
nocchia fino allo steccato. Graham vedeva il gatto descrivere una parabola
per aria, senza girarsi per atterrare sulle zampe, e ricadere di schiena con
un tonfo sordo nel cortile.
Doveva essere successo di giorno: i bambini di notte non avrebbero né
trovato né seppellito il gatto.
Aveva atteso per vedere quando lo trovavano. Aveva atteso tutto il gior-
no nella calura del sottobosco? Se si fosse fermato vicino allo steccato sa-
rebbe stato visibile. D'altra parte, per vedere il cortile da più lontano a-
vrebbe dovuto stare in piedi, contro il sole, visibile dalle finestre di casa.
Chiaramente doveva essere tornato indietro, tra gli alberi. E fu quello che
fece anche lui.
I poliziotti di Birmingham non erano stati stupidi. Si vedeva dove si era-
no fatti strada tra i cespugli per rastrellare la zona circostante la casa. Que-
sto però prima di trovare il gatto. Cercavano indizi, oggetti lasciati cadere,
tracce... non un posto di vedetta.
Si addentrò qualche metro nel bosco poi proseguì di lato zigzagando nel-
l'ombra fitta. Arrivò in una zona collinosa da dove si vedeva parzialmente
il cortile, poi scese, avvicinandosi al limitare del bosco.
Continuò così scrutando il terreno per più di un'ora finché non notò un
bagliore a terra. Lo perse, lo ritrovò. Era l'anello di strappo di una lattina,
seminascosto tra le foglie ai piedi di un olmo, uno dei pochi tra i pini.
Lo vide da tre metri di distanza e per cinque minuti non si avvicinò esa-
minando attentamente il terreno intorno. Si accucciò e ripulì la terra dalle
foglie avvicinandosi al tronco, per evitare di rovinare eventuali tracce. Pia-
no piano, un po' alla volta, liberò dalle foglie tutta la zona intorno al tron-
co. Nessuna impronta era rimasta sul tappeto di foglie dell'anno preceden-
te.
Vicino all'anello di alluminio trovò un torsolo di mela rinsecchito e roso
dalle formiche. Gli uccelli avevano beccato i semi. Esaminò attentamente
il terreno per dieci minuti buoni. Alla fine sedette, stirò le gambe indolen-
zite e appoggiò la schiena al tronco.
Un cono di moscerini roteava in un fascio di luce. Un bruco s'inerpicava
sotto una foglia.
Su un ramo sopra la sua testa c'era un pezzo d'argilla rossa modellato
dalla suola di uno scarpone.
Graham appese la giacca al ramo e prese con cautela a salire sull'albero,
dalla parte opposta, scrutando i rami sopra il pezzo d'argilla. A una decina
di metri di altezza guardò e a circa centocinquanta metri di distanza vide la
casa. Da quell'altezza sembrava diversa, dominata dal colore del tetto. Ve-
deva benissimo il cortile e il terreno intorno ai fabbricati annessi. Da quel
punto con un buon binocolo era facilissimo vedere l'espressione di un viso.
Udiva in lontananza il rumore del traffico e, ancor più lontano, un cane
da caccia che rincorreva la preda. Poi all'improvviso il frinire di una cicala
soffocò tutto il resto.
Un grosso ramo proprio sopra di lui puntava diritto verso la casa degli
Jacobi. Graham si issò ancora e guardò dall'altra parte del tronco.
Si trovò vicino alla guancia una lattina di bibita gassata, incastrata tra il
ramo e il tronco.
«Come sei bella» sussurrò Graham alla corteccia. «Oh, Signore, sei pro-
prio bella. Vieni qui, lattina.»
Poteva averla lasciata lì un bambino.
Salì ancora muovendosi attentamente tra i ramoscelli, poi girò dall'altra
parte finché non vide in basso il ramo sul quale posava la lattina.
Un pezzo di corteccia delle dimensioni di una carta da gioco era stato
asportato lasciando apparire la parte inferiore, verdastra. Al centro del ret-
tangolo verde, inciso nel legno, Graham vide questa figura
Era un lavoro accurato, preciso, fatto con un coltello molto affilato. Non
era opera di un bambino.
Fotografò il disegno, variando con cura l'esposizione.
Dal ramo si godeva un'ottima vista migliorata oltretutto dal fatto che un
ramoscello del ramo superiore era stato tagliato. Le fibre del legno erano
comprèsse e le estremità leggermente schiacciate dalla lama.
Graham cercò dove fosse finito. Se fosse caduto sul terreno l'avrebbe
trovato. Eccolo; era rimasto preso tra le frasche, sotto; foglie marroni rin-
secchite tra le foglie verdi.
Al laboratorio avrebbero avuto bisogno delle due parti del taglio per sta-
bilire che tipo di lama era. Significava dover tornare con una sega. Prese
numerose fotografie dello spuntone, borbottando tra sé.
Credo che dopo aver ammazzato e gettato nel cortile il gatto tu sia sali-
to su quest'albero ad aspettare. Credo che tu abbia osservato i bambini e
passato il tempo sognando a occhi aperti. Quando si è fatto buio, li hai vi-
sti passare davanti alle finestre illuminate, hai visto calare gli scuri, le luci
spegnersi una dopo l'altra e, dopo un po', sei sceso e sei entrato in casa. È
così, vero? Non doveva essere troppo difficile scendere da qui con una
torcia elettrica e la luce della luna piena.
Calarsi fu piuttosto difficile. Infilò un ramoscello nell'apertura della lat-
tina, la sollevò delicatamente e scese, un ramo dopo l'altro,, con il ramo-
scello tra i denti quando doveva tenersi con tutte e due le mani.
Tornato al nuovo quartiere Graham scoprì che qualcuno aveva scritto
"Levon è un fesso" sulla fiancata della sua automobile. L'altezza a cui era
stato scritto indicava che anche i più piccoli abitanti del quartiere avevano
fatto grandi progressi nello scrivere.
Si chiese se avessero scritto qualcosa anche sull'auto del Lupo Mannaro.
Rimase per qualche minuto seduto, guardando verso la fila di finestre.
Dovevano esserci un centinaio di appartamenti. Forse qualcuno avrebbe ri-
cordato uno sconosciuto di razza bianca nel parcheggio, di sera tardi. Va-
leva la pena di provare, anche se ormai era passato un mese; bisognava
chiedere a tutti, e senza perdere tempo: aveva bisogno di chiedere l'aiuto
della polizia di Birmingham.
Respinse la tentazione di spedire direttamente la lattina a Jimmy Price a
Washington. Doveva chiedere uomini alla polizia di Birmingham. Meglio
consegnare loro quello che aveva trovato. Cercare impronte sulla lattina
era un lavoro semplice. Ma cercare i segni lasciati dall'acido contenuto nel
sudore era un'altra questione. Price avrebbe potuto farlo dopo che la poli-
zia di Birmingham avesse passato la polvere per rilevare le impronte, pur-
ché nessuno la toccasse con le dita. Meglio consegnarla alla polizia. Sape-
va che il laboratorio scientifico dell'FBI si sarebbe buttato sull'incisione
nel ramo come una mangusta rabbiosa. Copia delle foto per tutti, nessuno
avrebbe perso nulla.
Chiamò la squadra omicidi dalla casa degli Jacobi. Gli investigatori arri-
varono proprio mentre l'agente immobiliare faceva entrare dei potenziali
acquirenti.
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Di ritorno a casa comprò della carta igienica di quella che si scioglie nel-
l'acqua e che viene usata sulle barche e nei camper, e un vasocostrittore per
il naso.
Si sentiva bene malgrado la febbre da fieno; come molte persone che
hanno subito importanti interventi di rinoplastica, Dolarhyde non aveva
peli all'interno del naso ed era tormentato dalla febbre da fieno e da affe-
zioni delle vie respiratorie superiori.
Attese con pazienza quando un camion fermo lo tenne bloccato dieci
minuti sul ponte sul fiume Missouri che lo portava a St. Charles. Il suo
furgone nero, tutto foderato di moquette, era fresco e silenzioso. Lo stereo
suonava la musica vacua di Händel.
Picchiettò le dita sul volante seguendo la musica e si soffiò il naso. Nella
corsia accanto, in una decappottabile, vide due donne. Indossavano cal-
zoncini corti e camicette annodate sotto il seno. Dolarhyde, dall'alto del
furgone guardò giù, nella macchina. Le due ragazze sembravano stanche e
annoiate; tenevano gli occhi socchiusi, abbagliate dal sole del tramonto.
Quella sul sedile di destra appoggiava la nuca allo schienale e teneva i pie-
di sul cruscotto. Sullo stomaco, nudo, si erano formati due solchi profondi.
Dolarhyde notò un succhiotto all'interno della coscia. La ragazza lo sorpre-
se a guardare, si rizzò a sedere e incrociò le gambe. Un'espressione di fa-
stidio e di disgusto le apparve sul viso.
Disse qualcosa alla donna al volante. Ambedue guardarono dritto davan-
ti a loro. Stavano parlando di lui, lo sapeva. Si sentiva così allegro che la
cosa non riuscì a irritarlo. Poche cose ormai lo irritavano. Sapeva che stava
assumendo un'appropriata dignità.
La musica era davvero piacevole.
Le auto di fronte a Dolarhyde cominciarono ad avviarsi. La corsia ac-
canto invece era sempre ferma. Non vedeva l'ora di essere a casa. Continuò
a picchiettare le dita sul volante a ritmo di musica mentre con l'altra mano
abbassava il finestrino.
Si raschiò la gola e sputò un grumo di catarro verdastro addosso alla
donna, colpendola proprio vicino all'ombelico. Sentì alle sue spalle gli in-
sulti, lanciati con voce acuta, mescolarsi alla musica di Händel.
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«Non so cosa dirle, mio padre non lo conoscevo tanto bene» spiegò Ni-
les Jacobi mentre Graham lo riaccompagnava alla scuola in macchina. «Ha
lasciato la mamma quando avevo tre anni e poi non l'ho più visto... mam-
ma non l'avrebbe permesso.»
«La primavera scorsa è venuto a trovarti.»
«Sì.»
«A Chino.»
«Lo sa benissimo.»
«Sto solo cercando di metter le cose in chiaro. Cosa è successo?»
«Be', era lì in sala colloqui, tutto teso che cercava di non guardarsi in gi-
ro... c'è un sacco di gente che crede di essere allo zoo. Mamma mi aveva
parlato molto di lui, ma a vederlo non sembrava tanto cattivo. Era solo un
tizio lì in piedi, con una giacca sportiva malmessa.»
«Cosa ti ha detto?»
«Be', io mi aspettavo o che mi prendesse per il collo o che si sentisse in
colpa: è quello che capita di solito ai colloqui. Invece mi ha chiesto solo se
pensavo di poter andare a scuola. Ha detto che avrebbe chiesto l'affida-
mento se ci andavo. E se mi fossi sforzato. "Devi essere tu a darti una ma-
no. Provaci e: a pagare la scuola ci penserò io" e roba del genere.»
«Questo quanto tempo prima che tu uscissi?»
«Due settimane.»
«Niles, quando eri a Chino hai mai parlato a nessuno della tua famiglia?
A qualche compagno di cella?»
Niles Jacobi lanciò una rapida occhiata a Graham. «Oh. Oh, capisco. No.
Non di mio padre. Erano anni che nemmeno pensavo a lui, perché avrei
dovuto parlarne?»
«E qui? Hai mai portato qualche amico in casa dei tuoi genitori?»
«Del mio genitore, caso mai. Lei non era mia madre.»
«Ci hai mai portato nessuno? Compagni di scuola oppure...»
«Oppure teppisti, agente Graham?»
«Esatto.»
«No.»
«Mai?»
«Mai una volta.»
«Ti ha mai accennato a minacce, ti sembrava preoccupato per qualcosa
gli ultimi due mesi prima del fatto?»
«L'ultima volta che l'ho visto era preoccupato sì, ma per i miei voti. A-
vevo fatto un mucchio di assenze. Mi aveva comprato due sveglie. Non so
altro.»
«Hai per caso delle sue carte personali: corrispondenza, fotografie, qua-
lunque cosa?»
«No.»
«Una foto della famiglia però ce l'hai. È sulla cassettiera in camera tua.
Vicino alla pipa ad acqua.»
«La pipa ad acqua non è mia. Non mi sognerei neanche di mettermi in
bocca quello schifo.»
«La foto mi serve. La faccio riprodurre e te la rimando. Hai qualche altra
cosa?»
Jacobi estrasse una sigaretta dal pacchetto e si palpò le tasche cercando i
fiammiferi. «No, ho solo quella. Chissà perché me l'hanno data. Mio padre
che sorrideva alla signora Jacobi e a tutti i mostriciattoli. Può tenersela. Io
così non l'avevo mai visto.»
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sei bellissimo...
Sarah rallentava per ripetere ogni coppia di numeri all'agente che telefo-
nava da Chicago. Quando ebbe finito, l'elenco delle citazioni copriva un
quarto di pagina. Era firmata "Che tu sia benedetto, 666".
«È tutto» annunciò Sarah.
Crawford prese il telefono. «Okay, Chester, com'è andata con il respon-
sabile della pubblicità?... No, hai fatto bene... Non si capisce un bel niente,
hai ragione. Resta vicino al telefono, ti richiamo.»
«Un codice» osservò Graham.
«C'era da aspettarselo. Abbiamo ventidue minuti per trovare un messag-
gio, se riusciamo a risolverlo. Il capo tipografo ha bisogno di dieci minuti
di preavviso e di 300 dollari per infilarlo in questo numero. Bowman si
trova nel suo ufficio, hanno rimandato il processo. Telefono all'ufficio crit-
tografia della Langley. Sarah, manda subito un telex all'ufficio crittografia
della CIA. Io li avverto che sta arrivando.»
Bowman posò il messaggio sulla scrivania e lo allineò esattamente con il
piano di carta assorbente. Poi pulì accuratamente le lenti degli occhiali
senza montatura. A Graham parve che ci mettesse moltissimo.
Bowman aveva la fama di essere uno che non perdeva tempo. Anche
quelli della sezione esplosivi lo riconoscevano, e gli perdonavano di non
essere un ex marine.
«Abbiamo ancora venti minuti» disse Graham.
«Capisco. Hai telefonato a Langley?»
«L'ha fatto Crawford.»
Bowman lesse e rilesse il messaggio, lo guardò al rovescio e di lato, pas-
sò le dita lungo i margini del foglio. Quindi prese una Bibbia da uno scaf-
fale. Per cinque minuti si sentì solo il rumore del loro respiro e della velina
delle pagine.
«No» disse alla fine. «Non ce la facciamo. Meglio usare il tempo che
rimane per fare qualcos'altro, se hai qualcos'altro da fare.»
Graham gli mostrò una mano vuota.
Bowman girò intorno alla scrivania mettendosi di fronte a Graham e si
tolse gli occhiali. Sul naso si vedevano due chiazze rosee. «Sei sicuro che
questo tuo Lupo Mannaro abbia spedito solo questo biglietto a Lecter?»
«Sì.»
«Allora il codice dev'essere piuttosto facile. Devono semplicemente non
farsi capire da chi lo legge per caso. Del messaggio mancano solo poco più
di sette centimetri, non c'è molto spazio per istruzioni. I numeri non sono
quelli del codice carcerario... quello a colpi. Secondo me si basa su un li-
bro.»
Crawford si unì a loro. «Un libro?»
«Sembrerebbe proprio. Il primo numero, quel "Cento preghiere" potreb-
be essere il numero della pagina. Le coppie di numeri potrebbero essere la
riga e la lettera. Ma quale libro?»
«Non la Bibbia?» chiese Crawford.
«No, non è la Bibbia. In un primo momento l'ho pensato anch'io. Mi ha
messo fuori strada il "Galati 6:11". Andrebbe bene, ma in realtà è una
coincidenza perché poi c'è un "Galati 15:2" e il libro dei Galati ha solo sei
capitoli. Lo stesso per Giona 6:8... nel libro di Giona ci sono solo quattro
capitoli. Non ha usato la Bibbia.»
«Forse il titolo del libro è nascosto nella parte in chiaro del messaggio»
suggerì Crawford.
Bowman scosse il capo. «Non credo.»
«Allora è stato il Lupo Mannaro a indicargli il libro da usare. Deve aver-
lo specificato nel biglietto» intervenne Graham.
«Pare proprio che sia così» disse Bowman. «E se torchiassimo Lecter?
In un ospedale psichiatrico penso che le droghe...»
«Tre anni fa hanno provato a fargli del sodium amytal per scoprire dove
aveva seppellito uno studente di Princeton» disse Graham. «Gli ha detto di
andare a fare un bagno. E poi se lo spremiamo perdiamo il contatto. Se è
stato il Lupo Mannaro a scegliere il libro, doveva sapere che Lecter l'aveva
in cella.»
«So per certo che non ha ordinato libri e non ne ha chiesti in prestito a
Chilton» disse Crawford.
«Cos'è uscito sulla stampa a questo proposito, Jack? I libri che Lecter
legge.»
«Hanno detto che ha libri di medicina, di psicologia, di cucina.»
«E allora deve trattarsi di un testo fondamentale, qualcosa che il Lupo
Mannaro sa che Lecter ha senz'altro» disse Bowman. «Ci serve un elenco
dei libri che ha in cella. Tu ce l'hai?»
«No.» Graham si fissò la punta delle scarpe. «Potrei chiamare Chilton...
Un momento: quando Rankin e Willingham gli hanno perquisito la cella
hanno preso delle polaroid per poi poter rimettere tutto in ordine.»
«Ti spiace chiedergli di venire da me con le foto dei libri?» disse Bo-
wman, riempiendo la borsa.
«Dove?»
«Alla biblioteca del Congresso.»
Crawford chiamò per l'ultima volta l'ufficio crittografico della CIA. Il
computer di Langley cercava di elaborare una serie incredibile di griglie
alfabetiche. Nessun risultato. Il crittografo fu d'accordo con Bowman: pro-
babilmente il codice era basato su un libro.
Crawford guardò l'orologio. «Will, ci restano tre possibilità. Dobbiamo
decidere immediatamente. Possiamo non far pubblicare il messaggio di
Lecter. Possiamo sostituirlo con nostri messaggi in chiaro e invitare il Lu-
po Mannaro ad andare alla buca delle lettere. Oppure possiamo lasciar
pubblicare l'annuncio di Lecter così com'è.»
«Sei sicuro che siamo ancora a tempo a non farlo pubblicare?»
«Chester è sicuro che il capo della tipografia lo cancella per 500 dollari,
più o meno.»
«Non vorrei mettere un messaggio in chiaro, Jack. Probabilmente chiu-
derebbe il contatto con Lecter.»
«Già. Ma non mi va l'idea di far circolare l'annuncio di Lecter senza sa-
pere cosa dice» obiettò Crawford. «Cosa potrebbe dirgli che già non sa? Se
ha scoperto che abbiamo un'impronta parziale del pollice e che le sue im-
pronte non si trovano in nessun archivio, potrebbe tagliarsi i pollici, to-
gliersi la dentiera e farci un gran sorriso a tutte gengive in tribunale.»
«Nel riassunto che ho dato a Lecter, dell'impronta del pollice non si par-
lava. Meglio far uscire l'annuncio. Per lo meno così incoraggiamo il Lupo
Mannaro a scrivergli di nuovo.»
«E se lo incoraggiasse a fare qualche altra cosa?»
«Staremmo male per un bel po'» concluse Graham. «Comunque dob-
biamo farlo.»
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