Sei sulla pagina 1di 292

THOMAS HARRIS

IL DELITTO DELLA TERZA LUNA


(Red Dragon, 1981)

Si vede solo ciò che si osserva, e si osserva


solo ciò che già esiste nella mente
Alphonse Bertillon

... Perché la grazia ha cuore umano,


Volto umano la pietà,
E l'amore, umana forma divina,
E veste umana, la pace.

WILLIAM BLAKE,
Canti d'innocenza (La divina immagine)

La crudeltà ha cuore umano,


E volto umano la gelosia,
Il terrore, umana forma divina,
E veste umana, il mistero.

Di ferro forgiato è la veste umana,


Un'ignea forgia l'umana forma,
Ermetica fornace il volto umano,
Sua avida gola è il cuore.

WILLIAM BLAKE.
Canti d'esperienza (Una divina immagine)

Will Graham fece sedere Crawford al tavolo da picnic tra la casa e la ri-
va dell'oceano e gli posò davanti un bicchiere di tè ghiacciato.
Jack Crawford guardò la piacevole vecchia casa di legno sbiancato dal
sale, immersa nella luce. «Avrei dovuto venire a trovarti a Marathon quan-
do smontavi dal lavoro» disse. «Qui non ti andrà di parlarne.»
«Non mi va di parlarne in nessun posto, Jack. Sei tu che devi parlarne,
quindi avanti. Basta che tu non mi faccia vedere foto. Se te le sei portate
dietro, lasciale nella borsa... Molly e Willy dovrebbero tornare da un mo-
mento all'altro.»
«Quanto ne sai?»
«So quello che c'era scritto sul "Miami Herald" e sul "Times"» disse
Graham. «Due famiglie massacrate nelle loro case a un mese di distanza
l'una dall'altra. A Birmingham e ad Atlanta. Le circostanze erano simili.»
«Non simili. Identiche.»
«Quante confessioni fino ad ora?»
«Quando ho telefonato oggi pomeriggio erano ottantasei» rispose Cra-
wford. «Maniaci. Nessuno conosceva i particolari. Quello fa a pezzi gli
specchi e adopera le schegge. Nessuno di loro lo sapeva.»
«Che altro sei riuscito a non far finire sui giornali?»
«È biondo, usa la mano destra ed è molto robusto. Porta scarpe numero
quarantacinque. Riuscirebbe a piegare una rotaia ferroviaria. Niente im-
pronte, porta i guanti.»
«Questo però alla stampa l'hai detto.»
Con le serrature non ci sa fare troppo,» proseguì Crawford. «L'ultima
volta per entrare in casa ha usato un tagliavetro e una ventosa. Oh, il san-
gue è del gruppo AB positivo.»
«Qualcuno l'ha ferito?»
«Che noi sappiamo, no. Siamo riusciti a scoprirlo dallo sperma e dalla
saliva. Lascia in giro una quantità di secrezioni.» Crawford guardò lonta-
no, verso la superficie liscia del mare «Will, voglio chiederti una cosa.
Queste cose le hai lette sui giornali. Del secondo caso hanno parlato tutte
le TV. Hai mai pensato di chiamarmi?»
«No.»
«Perché?»
«La prima volta, per quello di Birmingham, hanno dato pochi particola-
ri. Poteva trattarsi di qualunque cosa — una vendetta, un parente.»
«Ma dopo il secondo sapevi di cosa si trattava.»
«Già. Uno psicopatico. Non ti ho telefonato perché non volevo farlo. So
chi hai assegnato a questa storia. Disponi del miglior laboratorio che ci sia.
Hai Heimlich a Harvard e Bloom all'Università di Chicago...»
«E ho te qui che te ne stai a riparare dei motori marini del cazzo.»
«Non credo che ti sarei più tanto utile, Jack. Non ci penso più, ormai.»
«Davvero? Ne hai presi due. Gli ultimi due casi che ci siamo trovati per
le mani li hai presi tu.»
«E come? Facendo le stesse cose che fate tu e gli altri.»
«Non è del tutto vero, Will. È il modo che hai di pensare.»
«Penso che sono state dette un sacco di stronzate sul mio modo di pensa-
re.»
«Ma se hai fatto dei salti logici che non hai mai spiegato.»
«Avevo anche le prove» obiettò Graham.
«Certo. Certo che c'erano. E tante... ma dopo. Per incastrarlo, prima, a-
vevamo così poche cose in mano che non c'era nemmeno un motivo plau-
sibile per occuparcene.»
«La gente che ti serve ce l'hai, Jack. Non credo che io migliorerei la si-
tuazione. Sono venuto qui proprio per starmene lontano da quelle cose.»
«Lo so. L'ultima volta sei rimasto ferito. Adesso mi sembra che tu stia
bene.»
«Sto bene. Non è per le coltellate che mi sono preso. È capitato anche a
te.»
«Sì, anche a me, ma non così.»
«Dicevo: non per quello. Ho semplicemente deciso di piantarla lì. Non
credo di riuscire a spiegarmi.»
«Dio sa come ti capisco, se non riesci più a guardare.»
«No. Sai, non è questione di riuscire o non riuscire a guardare. È sempre
sgradevole ma si riesce comunque a riprendere a funzionare, sapendo che
quelli sono morti. Il peggio è l'obitorio, le interviste. Bisogna toglierseli
dalla testa e continuare a pensare. Non credo che adesso riuscirei a farcela.
Potrei costringermi a guardare ma mi impedirei di pensare.»
«Questi, sono tutti morti, Will» disse Crawford più gentilmente che po-
té.
Jack Crawford nel modo di parlare di Graham avvertiva il suo stesso
ritmo, la sua stessa sintassi. Gli era già capitato di notare, Graham farlo
con altri. Spesso, quando era immerso in una conversazione animata, Gra-
ham assumeva il modo di parlare dell'interlocutore. In un primo momento
Crawford aveva creduto che lo facesse deliberatamente, che fosse un truc-
co per tenere l'andamento della conversazione. In seguito però si era reso
conto che era un comportamento involontario e che a volte cercava di im-
pedirselo senza riuscirci.
Infilò due dita nella tasca della giacca. Gettò due foto sul tavolo.
«Tutti morti» disse.
Graham lo fissò un attimo poi prese le foto.
Erano semplici istantanee: una donna seguita da tre bambini e da un'ani-
tra portava l'attrezzatura per il picnic verso la sponda di uno stagno. Nel-
l'altra si vedeva una famiglia riunita intorno a una torta.
Dopo una trentina di secondi posò le foto. Le allontanò con un dito e
guardò verso la spiaggia dove il bambino se ne stava accosciato, intento a
osservare qualcosa sulla sabbia. La donna, in piedi con una mano sul fian-
co, osservava la schiuma delle onde che le morivano intorno alle caviglie.
S'inarcò all'indietro per liberarsi le spalle dai capelli bagnati.
Graham, ignorando l'ospite, rimase a osservare Molly e il ragazzo alme-
no quanto aveva guardato le fotografie.
Crawford era soddisfatto. S'impedì di mostrarlo con la stessa cura con
cui aveva scelto il posto per parlare. Era sicuro di averlo convinto. Bastava
lasciarlo cuocere.
Tre cani orrendi arrivarono trotterellando e si lasciarono cadere a terra
vicino al tavolo.
«Mio Dio» disse Crawford.
«Sono cani, probabilmente» spiegò Graham. «La gente non fa che ab-
bandonare qui i propri cuccioli. Quelli belli riesco a darli via. Gli altri ri-
mangono e diventano grossi.»
«Sono belli grassi.»
«Molly stravede per i randagi.»
«Fai una bella vita qui, Will. Molly e il ragazzo. Quanti anni ha?»
«Undici.»
«Ha un bell'aspetto. Diventerà più alto di te»
Graham annuì. «Suo padre lo era. Qui sono fortunato, lo so.»
«Volevo venire giù, con Phyllis. Qui in Florida. Per trovare un posto do-
ve trasferirmi quando vado in pensione. Così la smetto di vivere come un
pesce d'acquario. Lei dice che tutti i suoi amici sono ad Arlington.»
«Volevo ringraziarla per i libri che mi ha portato in ospedale, ma non
l'ho mai fatto. Ringraziala tu da parte mia.»
«Senz'altro.»
Due uccellini dai colori vivaci atterrarono sul tavolo sperando di trovare
delle briciole. Crawford li osservò saltellare qua e là finché non frullarono
via.
«Will, questo maniaco sembra seguire le fasi della luna. Ha ucciso la
famiglia Jacobi a Birmingham il 28 giugno, quando c'era la luna piena. I
Leeds ad Atlanta li ha massacrati l'altra notte, il 26 luglio. La differenza è
di un mese lunare meno un giorno. Quindi, se abbiamo fortuna, dovremmo
avere un po' più di tre settimane prima che ci riprovi.»
«Non credo che ti vada di stare qui in Florida ad aspettare di leggere il
prossimo sul tuo "Miami Herald". Diavolo, non sono mica il Papa, non ti
sto dicendo quello che dovresti fare. Però voglio chiederti una cosa. Hai ri-
spetto per le mie facoltà di giudizio?»
«Sì.»
«Credo che se ci dai una mano abbiamo la possibilità di prenderlo pri-
ma. Dai, Will, mettiti in sella e vieni ad aiutarci. Va' a dare un'occhiata a
Birmingham e ad Atlanta, poi vieni a Washington.»
Graham non rispose.
Crawford attese; cinque ondate lambirono la spiaggia. Si alzò gettandosi
la giacca sulla spalla. «Parliamone dopo cena.»
«Resta qui a mangiare.»
Crawford scosse il capo. «Torno dopo. Probabilmente ci sono dei mes-
saggi per me all'Holiday Inn e dovrò stare un po' al telefono. Comunque,
ringrazia Molly.»
L'auto a nolo di Crawford sollevò dal fondo di conchiglie della strada
una polvere impalpabile che si posò sui cespugli ai bordi.
Graham tornò al tavolo. Temeva che questa sarebbe stata l'immagine che
avrebbe ricordato di Sugarloaf Key... i cubetti di ghiaccio che si fondevano
nei bicchieri di tè ghiacciato, i tovaglioli di carta che volavano via dal ta-
volo d'abete trascinati dalla brezza, Molly con Willy giù alla spiaggia.

Calava il tramonto a Sugarloaf Key, gli aironi erano immobili, la palla


rossa del sole si gonfiava.
Will Graham e Molly Poster Graham sedevano su un tronco sbiancato
dalla salsedine portato dalle correnti. Avevano il viso arrossato dalla luce
del tramonto, che si stagliava contro l'ombra violacea alle loro spalle.
Molly gli prese la mano.
«Crawford è passato da me al negozio prima di venire qui» disse. «Mi
ha chiesto le indicazioni per arrivare alla casa. Ho cercato di telefonarti.
Una volta tanto dovresti deciderti a rispondere al telefono. Abbiamo visto
la macchina tornando e siamo andati alla spiaggia facendo il giro.»
«Che altro ti ha chiesto?»
«Come stavi.»
«E tu?»
«Gli ho detto che stai bene e che doveva lasciarti in pace. Cosa vuole
farti fare?»
«Farmi osservare gli indizi. Sono uno specialista di medicina legale,
Molly. L'hai visto, il diploma.»
«L'hai usato per chiudere una fessura nel soffitto. Quello l'ho visto.»
Spostò il tronco per guardarlo in faccia. «Se la vita che facevi prima ti
manca, credo che dovresti parlarmene. Non lo fai mai. Adesso sei franco,
calmo e sciolto... mi piace.»
«Facciamo una vita piacevole qui, no?»
Molly ammiccò. Una sola volta. Graham capì che avrebbe dovuto dire
qualcosa di meglio. Prima che riuscisse a rimediare Molly proseguì.
«Quello che hai fatto per Crawford, ti ha fatto male. C'è un sacco d'altra
gente a cui può rivolgersi — credo addirittura tutto il governo. Perché non
ci lascia in pace?»
«Non te l'aveva detto, Crawford? Era il mio sovrintendente le due volte
in cui ho lasciato l'accademia dell'FBI e sono entrato in azione; gli unici
due casi come questo che gli erano mai capitati, e sono molti anni che la-
vora. Adesso ne ha uno nuovo. Gli psicopatici di quel tipo sono molto rari.
Sa che mi sono fatto... un'esperienza.»
«Te la sei proprio fatta» disse Molly. Graham aveva la camicia sbottona-
ta e si notava la curva della cicatrice che gli attraversava lo stomaco. Era
larga un dito, in rilievo, e non si abbronzava mai. Scendeva dall'anca sini-
stra per risalire fino alla gabbia toracica, sull'altro fianco.
Il dottor Hannibal Lecter gliel'aveva inferta con un coltello per tagliare il
linoleum. Era accaduto un anno prima che Molly lo conoscesse. Graham
era stato sul punto di morire. Il dottor Lecter, che i giornali popolari so-
prannominavano "Hannibal il cannibale", era il secondo psicopatico che
Graham aveva catturato.
Quando era uscito dall'ospedale, Graham si era dimesso dall'FBI, aveva
lasciato Washington per trovare lavoro come meccanico di motori Diesel
presso il cantiere di Marathon, nei Florida Keys, un mestiere che aveva
imparato già da piccolo. Aveva dormito in una roulotte nel cantiere finché
non si era trasferito nella piacevole casa sgangherata di Molly a Sugarloaf
Key. Si mise a cavalcioni sul tronco e le prese le mani, Molly infilò i piedi
sotto i suoi.
«D'accordo, Molly. Crawford è convinto che io abbia quel certo non so
che, quando si tratta di scoprire i mostri. È una specie di superstizione.»
«Ne sei convinto anche tu?»
Graham osservò tre pellicani volare in fila tra le onde di marea. «Molly,
per svariati motivi è difficile prendere uno psicopatico intelligente, soprat-
tutto se è un sadico. Primo, non c'è nessun movente al quale si possa risali-
re. Quindi questa pista non si può seguire. E non ci si può quasi mai basare
sull'aiuto di informatori. Sai, dietro agli arresti ci sono molte più soffiate
che indagini, in casi come questi però non si trovano informatori. Può darsi
che lui non sappia nemmeno quello che fa. E allora bisogna basarsi sugli
indizi, se ci sono, ed estrapolare. Bisogna cercare di ricostruire il suo modo
di pensare, trovare dei modelli di comportamento.»
«E poi andargli dietro e prenderlo» disse Molly. «Ho paura che, se ti
metti a cercare questo pazzo, o qualunque cosa sia... ho paura che ti faccia
quello che ti ha fatto l'ultimo. Ecco di cosa ho paura.»
«Non mi vedrà mai e non saprà mai il mio nome, Molly. Sarà la polizia
che lo dovrà prendere se riuscirà a trovarlo, non io. Crawford ha sempli-
cemente bisogno di un altro punto di vista.»
Molly guardò il sole rosso posato sulla superficie del mare. In alto ri-
splendevano dei cirri.
A Graham piaceva quel suo modo di girare la testa, di offrirgli la parte
meno bella del profilo. Vide pulsarle la gola e all'improvviso ricordò il sa-
pore di sale della sua pelle. Deglutì e disse: «Che diavolo posso fare?».
«Quello che hai già deciso di fare. Se resti qui e quello ammazza qual-
cun altro magari finisce che questo posto non ti piace più. Sai, Mezzogior-
no di fuoco e balle del genere. Se le cose stanno così, non è una domanda,
la tua.»
«E se lo fosse, cosa mi risponderesti?»
«Di restare qui con me. Con me. Con me. E con Willy: se dovesse servi-
re, metterei in mezzo anche lui. Io dovrei asciugarmi le lacrime e svento-
larti il fazzoletto. Se poi le cose non dovessero andar bene avrei la soddi-
sfazione di sapere che sei morto facendo la cosa giusta. Non durerebbe più
di un paio di tacchi. Poi potrei tornarmene a casa e togliere un cuscino dal
letto.»
«Ma io starei in seconda fila.»
«Ma neanche per sogno che ci staresti. Sono egoista, eh?»
«Non me ne importa.»
«Neanche a me. Qui viviamo in una situazione molto dolce, molto inten-
sa. Tutte le cose che ti succedono prima che tu te ne renda conto. Anzi,
prima che tu le apprezzi.»
Graham annuì.
«Non voglio perderle, né in un modo né nell'altro» concluse Molly.
«No. Non vogliamo perderle.»
L'oscurità cadde rapidamente e Giove apparve poco sopra l'orizzonte,
verso sud ovest.
Tornarono a casa prima che salisse la falce di luna. Lontano, oltre la ri-
sacca, i pesciolini saltavano fuori dall'acqua per sfuggire alla morte.

Crawford tornò dopo cena. Era senza giacca e cravatta, e si era arrotolate
le maniche della camicia, tanto per avere un'aria disinvolta. A Molly i suoi
avambracci muscolosi e pallidi parvero disgustosi. Le sembrava una
scimmia tremendamente intelligente. Gli portò il caffè sotto il ventilatore
del portico e gli tenne compagnia mentre Graham e Willy andavano a dar
da mangiare ai cani. Non disse nulla. Le falene urtavano con tonfi morbidi
contro le zanzariere.
«Ha Paria di star bene» disse Crawford. «Tutti e due: siete asciutti e ab-
bronzati.»
«Lo porti con te qualunque cosa io gli possa dire, vero?»
«Già. Devo. Sono costretto. Ma giuro su Dio, Molly , che farò tutto
quello che posso per rendergli le cose facili. È cambiato. È una bella cosa
che vi siate sposati.»
«Continua a migliorare. Adesso gli incubi non li ha più tanto spesso. Per
un po' di tempo ha avuto una vera e propria ossessione per i cani. Adesso
se ne occupa e basta; non ne parla più di continuo. Sei suo amico, Jack,
perché non lo lasci in pace?»
«Perché, per sua sfortuna, è il migliore. Perché ha un modo di pensare
diverso da quello degli altri. In un modo o nell'altro non segue mai dei bi-
nari prefissati.»
«È convinto che tu voglia fargli vedere il luogo del delitto.»
«Effettivamente è vero. Quando si tratta di analizzare i fatti non c'è nes-
suno migliore di lui. Ma ha anche un'altra qualità. Immaginazione, capaci-
tà di proiezione... chiamala come vuoi. E questo non gli piace.»
«Non piacerebbe neanche a te, se l'avessi. Devi promettermi una cosa,
Jack. Promettimi di stare attento che non vada troppo vicino. Credo che
combattere lo ucciderebbe.»
«Non dovrà farlo. Te lo prometto.»
Quando Graham ebbe finito di dar da mangiare ai cani, Molly lo aiutò a
fare le valigie.

Will Graham passò lentamente in macchina di fronte alla casa dov'era


vissuta e morta la famiglia di Charles Leeds. Le finestre erano buie. Era
accesa solo una lampada esterna. Parcheggiò a due isolati di distanza e tor-
nò indietro nella notte calda, portando con sé in una cartelletta i rapporti
delle indagini della polizia di Atlanta.
Aveva insistito per andare da solo sul posto. Se fosse stato con un altro
non sarebbe riuscito a concentrarsi... questo almeno aveva detto a Cra-
wford. Il motivo però era un altro e lo riguardava direttamente: non sapeva
bene come avrebbe reagito. Non voleva sentirsi continuamente sotto os-
servazione.
All'obitorio era andato tutto bene.
La casa di mattoni a due piani in un giardino fitto di alberi, era arretrata
rispetto alla strada. Graham si fermò un bel po' di tempo sotto i rami, os-
servandola. Si sforzò di arrestare completamente quel che provava dentro.
Sentiva nella mente come un pendolo d'argento oscillare nel buio. Attese
finché non fu immobile.
Passarono in macchina alcuni vicini, lanciarono brevi occhiate alla casa
per poi distogliere lo sguardo. Una casa dove c'è stato un delitto è sgrade-
vole per i vicini, come il viso di una persona che ci ha tradito. Solo gli e-
stranei e i bambini si fermano a guardarla.
Le tende erano tirate. Graham era contento perché significava che nes-
sun parente era entrato dopo la polizia. I parenti le chiudono sempre.
Si spostò sul fianco della casa, muovendosi con cautela, senza accendere
la torcia elettrica. Si fermò due volte ad ascoltare. La polizia di Atlanta sa-
peva che lui si trovava lì, ma i vicini no. Dovevano senz'altro essere nervo-
si, avrebbero potuto sparare.
Guardando da una delle finestre posteriori riusciva a vedere la luce pro-
veniente dalla parte anteriore del giardino che delineava la sagoma dei
mobili. Nell'aria c'era un profumo intenso di gelsomini. Nella parte poste-
riore della casa si allungava per quasi tutta la lunghezza una veranda, sulla
porta della quale c'era il sigillo del dipartimento di polizia di Atlanta. Gra-
ham lo ruppe ed entrò. Un pannello di compensato chiudeva il vetro della
porta che dava in cucina, asportato dalla polizia. Alla luce della torcia la
aprì con la chiave che si era fatto dare. Voleva accendere le luci. Avrebbe
voluto appuntarsi il distintivo lucente, fare qualche rumore per giustificare
la sua presenza nella casa silenziosa in cui cinque persone erano morte.
Non fece nulla. Entrò nella cucina buia e sedette al tavolo per la prima co-
lazione.
Nell'oscurità si vedevano le due fiammelle blu per l'accensione automa-
tica della cucina a gas. Si sentiva profumo di cera per mobili e di mele.
Scattò un termostato e il condizionatore si accese. Graham sussultò e
avvertì un brivido di paura. La conosceva bene la paura. Questa poteva
controllarla. Era semplicemente un po' spaventato, poteva benissimo pro-
seguire.
Quand'era spaventato sentiva e vedeva meglio; non riusciva a parlare
concisamente e a volte la paura lo rendeva brusco. Qui non era rimasto
nessuno a cui parlare, nessuno da offendere.
La follia era entrata in casa da quella porta, era passata da questa cucina,
camminando con un paio di piedi numero quarantacinque. Seduto nell'o-
scurità ne avvertì la presenza, proprio come un segugio annusa la paura.
Per quasi tutto il giorno e buona parte della serata aveva studiato i rap-
porti degli investigatori della squadra omicidi. Ricordò che la polizia ave-
va trovato accesa la luce della cappa. La riaccese.
Sulla parete accanto ai fornelli erano appesi due imparaticci incorniciati.
Su uno era scritto: «I baci sono effimeri, un buon pranzo no». Sull'altro:
«È sempre in cucina che agli amici piace stare, per sentire battere il cuore
della casa, per trarne conforto».
Graham guardò l'orologio. Le undici e mezzo. Secondo il medico legale
il massacro doveva essere avvenuto tra le undici di sera e l'una.
Come prima cosa, doveva pensare a come era entrato in casa...

Il pazzo tolse il gancio dalle tendine esterne della porta. Si fermò immo-
bile nell'oscurità del portico ed estrasse qualcosa di tasca. Una ventosa,
forse la base di un temperamatite, di quelli che si fissano al piano della
scrivania.
Accucciato contro il battente della porta, in basso, sollevò il capo per
guardare dentro. Leccò la ventosa con la lingua, la premette contro il ve-
tro e fece scattare la leva per farla aderire. Alla ventosa era fissato un mi-
nuscolo tagliavetro con il quale incidere un cerchio.
Lo stridere del tagliavetro e un colpetto deciso per staccare il cerchio.
Una mano per picchiare, l'altra per tenere la ventosa. Il vetro non doveva
cadere. Il pezzo staccato è leggermente irregolare perché la fettuccia si è
arrotolata intorno al manico della ventosa. Un piccolo rumore raschiante
mentre posa a terra il pezzo di vetro. Non si preoccupa di lasciare sul ve-
tro tracce di saliva del gruppo AB.
Insinua la mano coperta da un guanto aderente nel buco, trova il pomel-
lo della serratura. La porta si apre senza rumore. È in casa. Vede il pro-
prio corpo nella cucina sconosciuta, illuminata dalla luce della cappa. La
casa è piacevolmente fresca.

Inghiottì due caramelle di gomma; il rumore secco del cellophane infila-


to nella tasca gli diede fastidio. Attraversò il soggiorno tenendo per abitu-
dine la torcia ben staccata dal corpo. Aveva studiato la pianta della casa
ma voltò nella direzione sbagliata prima di riuscire a trovare le scale. I
gradini non scricchiolavano.
Si fermò di fronte alla porta della camera da letto principale. Riusciva a
vedere qualcosa anche senza torcia. Un orologio digitale sul comodino
proiettava l'ora sul soffitto, mentre sulla consolle accanto alla porta del ba-
gno era accesa una luce da notte arancione. Si sentiva, intenso, l'odore me-
tallico del sangue.
Con gli occhi abituati all'oscurità ci si vedeva abbastanza bene. Il pazzo
poteva distinguere il signor Leeds dalla moglie. Per attraversare la stanza,
afferrare il padrone di casa per i capelli e tagliargli la gola la luce era suffi-
ciente. E poi? Tornare indietro, accendere l'interruttore... un saluto alla si-
gnora Leeds e infine lo sparo che l'aveva immobilizzata?
Graham accese le luci e le chiazze di sangue gli urlarono addosso dalle
pareti, dal materasso e dal pavimento. L'aria stessa pareva piena di grida e
di sangue. Indietreggiò, allontanandosi dal rumore che riempiva la stanza
silenziosa, piena di macchie scure e secche.
Rimase seduto sul pavimento finché in testa fu tornato il silenzio. Im-
mobile, immobile, rimani immobile.
Il numero e la varietà delle chiazze di sangue avevano lasciato perplessi
gli investigatori della squadra omicidi che cercavano di ricostruire le fasi
del delitto. Tutte le vittime erano state trovate massacrate a letto. La posi-
zione delle macchie però non permetteva di accettare questa ipotesi.
In un primo momento avevano pensato che Charles Leeds fosse stato
aggredito nella camera della figlia e che poi il corpo fosse stato trascinato
nella camera da letto principale. Avevano cambiato idea dopo aver esami-
nato più attentamente la forma delle macchie.
I movimenti dell'assassino nelle stanze non erano stati ancora stabiliti
con precisione.
Ora, dopo aver letto i rapporti del medico legale del laboratorio di poli-
zia scientifica, Will Graham cominciò a capire qual era stata la successione
dei fatti.
L'assassino aveva tagliato la gola a Charles Leeds, mentre questi dormi-
va accanto alla moglie, era tornato indietro per accendere la luce: infatti la
superficie liscia di un guanto aveva lasciato sull'interruttore tracce di ca-
pelli e di grasso del signor Leeds. Poi aveva sparato alla moglie mentre
questa si rizzava a sedere sul letto. Infine si era diretto verso le camere dei
figli. Leeds era sceso dal letto con la gola tagliata e aveva cercato di pro-
teggere i propri figli, perdendo una gran quantità di sangue. C'erano i segni
dei fiotti sgorgati dall'arteria mentre cercava di lottare. Era stato respinto,
era caduto ed era morto con la figlia nella sua stanza.
A uno dei due bambini l'assassino aveva sparato nel letto. Anche l'altro
era stato trovato a letto, ma nei suoi capelli erano stati scoperti dei granelli
di polvere. Gli investigatori erano convinti che l'assassino l'avesse tirato
fuori da sotto il letto e gli avesse sparato.
Quando tutti erano ormai morti, salvo forse la signora, l'assassino aveva
fatto a pezzi gli specchi, aveva scelto dei frammenti poi si era di nuovo de-
dicato alla donna.
Nella cartelletta Graham aveva la copia del rapporto del medico legale.
Ecco quello della signora Leeds. Il proiettile era penetrato all'altezza del-
l'ombelico, sulla destra, fermandosi contro la spina dorsale, all'altezza delle
vertebre lombari. La morte però era avvenuta per strangolamento.
L'aumento del tasso di serotonina e il livello di istamina nella ferita indi-
cavano che doveva essere sopravvissuta almeno cinque minuti dopo essere
stata colpita. L'istamina però era molto più elevata della serotonina, il che
significava che non poteva essere sopravvissuta più di quindici minuti. La
maggior parte delle altre ferite — probabilmente — erano state inferte do-
po la morte.
In questo caso cos'aveva fatto l'assassino prima che la donna morisse?
D'accordo, aveva lottato con il marito e aveva ucciso i bambini, ma non
doveva averci messo più di un minuto. Aveva rotto gli specchi. Ma cos'al-
tro aveva fatto?
Gli investigatori avevano lavorato bene. Avevano preso tutte le misure e
tutte le fotografie possibili, avevano raccolto e setacciato avevano control-
lato i filtri di scarico del lavandino. Graham, comunque, continuava a cer-
care.
Dalle foto prese dalla scientifica e dalle sagome segnate con nastro ade-
sivo sui materassi, Graham riuscì a capire dov'erano stati trovati i cadaveri.
Le prove — tracce di nitrato sulle lenzuola, per quanto riguardava le ferite
d'arma da fuoco — indicavano che erano stati trovati in una posizione non
molto diversa da quella in cui erano morti.
Tuttavia, rimanevano senza spiegazione il numero di macchie di sangue
e i graffi sanguinosi trovati sulla moquette dell'anticamera. Un investigato-
re aveva avanzato l'ipotesi che alcune delle vittime avessero cercato di
scappare dall'assassino strisciando via. Graham non ne era convinto: evi-
dentemente il pazzo li aveva spostati quando erano già morti e poi li aveva
rimessi sul letto nella posizione in cui li aveva uccisi.
Quello che aveva fatto alla signora Leeds era evidente. Ma agli altri?
Non li aveva sfigurati come aveva fatto con la donna. I figli erano stati
ammazzati ciascuno con una pallottola in testa. Charles Leeds era morto
dissanguato, e soffocato dal proprio sangue. Sul corpo gli era stata trovata
solo la traccia superficiale lasciata da un legaccio stretto intorno al torace.
Si pensava che fosse stato legato quando ormai era morto. Cosa aveva fat-
to l'assassino ai cadaveri?
Estrasse dalla cartelletta le foto prese dalla polizia e i rapporti del labora-
torio sulle singole macchie di sangue e sulle tracce organiche trovate nella
stanza nonché le tavole standard di paragone sulla traiettoria delle gocce di
sangue.
Esaminò attentamente tutte le stanze cercando di collegare chiazze e fe-
rite, lavorando a ritroso. Segnò ogni macchia su una piantina della camera
da letto principale usando le tavole standard per stimare direzione e veloci-
tà delle gocce. Sperava di riuscire a capire quali erano state le posizioni dei
corpi durante le varie fasi del massacro.
Ecco qui tre chiazze in fila inclinate intorno all'angolo della camera. Sul-
la moquette, sotto, erano visibili tre macchie appena accennate. Altre si
trovavano sulla spalliera del letto, dalla parte di Charles Leeds. E altri se-
gni alla base. La piantina sembrava ormai uno di quei quiz tipo «Che cosa
apparirà?», senza però i numeri. Graham la fissò a lungo, guardò di nuovo
la stanza, tornò ad osservare la piantina finché non gli venne male alla te-
sta.
Andò in bagno e inghiottì le ultime due pastiglie di analgesico, racco-
gliendo l'acqua con le mani. Si bagnò il viso asciugandolo con i lembi del-
la camicia. L'acqua era scrosciata sul pavimento: aveva dimenticato che il
sifone non c'era più. La stanza da bagno era intatta salvo per lo specchio
rotto e le tracce della polvere rossa per rilevare le impronte, chiamata San-
gue di Drago. Spazzolini, creme per il viso, rasoio erano tutti al loro posto.
Sembrava quasi che l'intera famiglia continuasse a usare quella stanza.
Sul portasciugamani c'era ancora il collant della signora Leeds, appeso ad
asciugare. Graham notò che la donna aveva l'abitudine di tagliar via una
gamba da un collant quando c'era una smagliatura per poi metterne insie-
me due paia, per risparmiare. Questo piccolo espediente lo colpì doloro-
samente: Molly faceva lo stesso.
Uscì dalla finestra sul tetto del portico e si mise a sedere sulle tegole ru-
vide. Si abbracciò le ginocchia. Sentiva la camicia bagnata fredda contro la
schiena. Espirò rumorosamente dal naso per buttar fuori la puzza di cada-
vere.
Le luci di Atlanta coloravano il cielo notturno rendendo difficile vedere
le stelle. Giù nei Keys il cielo sarebbe stato limpido. In quel momento, in-
sieme a Molly e a Willy, avrebbe potuto guardare le stelle cadenti, cercan-
do di sentire il sibilo che — con aria molto seria — dicevano che una stella
cadente avrebbe dovuto fare. La notte di San Lorenzo era vicina e Willy
tutto eccitato rimaneva alzato a osservare.
Rabbrividì e buttò fuori di nuovo il respiro. Non voleva pensare a Molly
in questo momento. Era di cattivo gusto e, oltretutto, lo distraeva.
Graham si preoccupava molto delle questioni di gusto. Spesso i suoi
pensieri non erano di buon gusto. Nella sua mente non c'erano barriere ef-
ficaci e solide. Quel che vedeva e imparava influenzava tutte le altre sue
conoscenze. E certe combinazioni era difficile sopportarle. Comunque, non
riusciva a prevederle, né a bloccarle e a reprimerle. I valori di decenza e
senso morale che aveva imparato stavano sempre in agguato, sconvolti
dalle associazioni, inorriditi dai sogni; gli dispiaceva di non avere fortilizi
nel cervello per difendere ciò che amava. Le associazioni scattavano alla
velocità della luce. I giudizi di valore invece andavano al passo di una let-
tura attenta. Non riuscivano mai a essere all'altezza della situazione, a diri-
gere il corso dei suoi pensieri.
A suo avviso questa sua struttura mentale era grottesca ma utile, come le
sedie fatte di corna di cervo. Non ci poteva far nulla.
Spense le luci e uscì dalla porta della cucina. La torcia illuminò una bi-
cicletta e una cuccia di vimini per il cane in fondo alla veranda. Nel corti-
letto posteriore c'era un canile e accanto ai gradini una ciotola.
Tutto indicava che i Leeds erano stati sorpresi nel sonno.
Fermando la torcia fra il mento e il torace scrisse un appunto: Jack, do-
v'era il cane?
Tornò all'albergo. Dovette concentrarsi sulla guida malgrado alle quattro
e mezzo del mattino ci fosse poco traffico. Il mal di testa continuava, fu
costretto a cercare una farmacia aperta tutta la notte.
Ne trovò una a Peachtree. Un sorvegliante sciatto e sudicio sonnecchiava
accanto alla porta. Un farmacista con uno spolverino scuro sul quale risal-
tava la forfora gli vendette l'analgesico. L'illuminazione faceva addirittura
male agli occhi. A Graham i farmacisti giovani non piacevano. Avevano
sempre un'aria sozza. Spesso erano presuntuosi e sospettava che, in fami-
glia, avessero un comportamento sgradevole.
«Altro?» chiese il farmacista, tenendo le dita sulle chiavi del registratore
di cassa. «Vuole altro?»
L'ufficio dell'FBI di Atlanta gli aveva prenotato una stanza in un hotel
assurdo vicino a Peachtree Center, il nuovo quartiere direzionale della cit-
tà. Gli ascensori di vetro erano a forma di baccello, tanto per fargli capire
che adesso era davvero in città.
Salì in camera insieme a due partecipanti a un qualche congresso che
portavano appesa al bavero una targhetta con scritto "Salve!". Si tenevano
aggrappati al corrimano e salivano guardando nell'atrio.
«Guarda quella lì al banco... è Wilma, è appena entrata» disse il più
grosso. «Dio Cristo, che voglia di darle una bella sbattuta.»
«Già, scoparla finché le viene il sangue dal naso» disse l'altro.
Paura ed eccitazione, e rabbia per la paura.
«Di', sai perché le donne hanno le gambe?»
«Perché?»
«Così non si lasciano dietro la bava come le lumache.»
Le porte dell'ascensore si aprirono.
«Non ci credi? È così» disse il più grosso. Uscendo barcollò, urtando le
pareti dell'ascensore.
«Il cieco che porta in giro lo zoppo» disse l'altro.
Graham posò la cartelletta sulla cassettiera. Poi per non vederla la infilò
in un cassetto. Non ne poteva più di morti con gli occhi spalancati. Voleva
telefonare a Molly, ma era troppo presto.
Alla centrale di polizia di Atlanta era in programma una riunione per le
otto del mattino, dove aveva ben poco da dire.
Doveva cercare di dormire. Il suo cervello era una specie di pensione
piena di gente in cui tutti discutevano e dove qualcuno, giù nell'atrio, liti-
gava. Si sentiva vuoto, annebbiato; prima di mettersi a letto bevve due dita
di whisky versandolo nel bicchiere della toilette. Sentiva l'oscurità premer-
gli addosso, troppo vicina. Andò ad accendere la luce del bagno e tornò a
letto. Finse che Molly. fosse di là a spazzolarsi i capelli.

Sentiva la propria voce ripetere le frasi del rapporto del medico legale,
anche se non le aveva mai lette ad alta voce: «... le feci appaiono formate...
è visibile una traccia di talco sulla gamba destra in basso. Si nota una frat-
tura della parete mediana dell'orbita causata dall'inserimento di un fram-
mento di vetro...»
Cercò di pensare alla spiaggia di Sugarloaf Key, di sentire il rumore del-
le onde. Con gli occhi della mente si raffigurò il suo banco da lavoro e
provò a immaginare lo scappamento dell'orologio ad acqua che stava co-
struendo insieme a Willy. Cantò sottovoce Whisky River e ripeté a mente,
dall'inizio alla fine, il motivo di Black Mountain Rag. La musica che pia-
ceva a Molly. Nessun problema per la chitarra di Doc Watson. Ma si perse
quando intervenne il violino. Molly aveva cercato di insegnargli a ballare
il clog nel cortiletto posteriore... la vide saltellare... finalmente si assopì.
Si svegliò un'ora dopo, irrigidito e coperto di sudore. Vedeva la sagoma
dell'altro cuscino stagliarsi contro la luce del bagno... era la signora Leeds
distesa accanto a lui — massacrata — gli occhi squarciati e il sangue che
le scendeva sulle tempie e sulle orecchie simile alle stanghette di un paio
di occhiali. Non riuscì a voltare la testa per guardarla. Nel cervello gli ri-
suonava un urlo. Allungò una mano e toccò il lenzuolo asciutto.
La tensione si era scaricata, provò un sollievo immediato.
Si alzò con il batticuore e indossò un'altra maglietta.
Quella zuppa di sudore la gettò nella vasca. Non riuscì a mettersi sul lato
asciutto del letto. Preferì posare un asciugamano dall'altra parte e vi si di-
stese sopra, appoggiandosi allo schienale con un bicchiere in mano. Ne
bevve un buon terzo.
Cercò di pensare a qualcosa, a qualunque cosa. Alla farmacia dove ave-
va comperato l'analgesico; forse perché, in tutta la giornata, era stato l'uni-
co momento in cui era mancato il contatto con la morte.
Gli vennero in mente i vecchi drugstores con la fontanella del seltz. Da
bambino pensava che avessero un che di furtivo. Quando si entrava, veni-
va sempre in mente l'idea di comperare un preservativo, servisse o meno.
Sugli scaffali c'erano oggetti sui quali lo sguardo non poteva indugiare
troppo.
Nella farmacia dove aveva comprato l'analgesico, invece, i contraccettivi
in confezione corredata da illustrazioni si trovavano in una scatola di per-
spex dietro il registratore di cassa, incorniciati come un'opera d'arte.
Preferiva i drugstores e i prodotti della sua infanzia. Graham aveva qua-
si quarant'anni e cominciava appena ad apprezzare l'atmosfera dei tempi
passati. Era come un'ancora di salvataggio nella tempesta.
Pensò a Smoot. Il vecchio Smoot quando Graham era bambino si occu-
pava delle bibite per conto del farmacista proprietario del drugstore locale.
Smoot, che aveva l'abitudine di bere sul lavoro, dimenticava di abbassare
le tendine della vetrina e i dolci esposti si scioglievano. Dimenticava di
spegnere la macchina per il caffè e qualcuno aveva avvertito i pompieri.
Vendeva gelati a credito ai bambini.
Ma la sua peggiore mancanza l'aveva fatta ordinando cinquanta bambole
da un commesso viaggiatore mentre il proprietario era in vacanza. Al suo
ritorno, Smoot era stato licenziato per una settimana. Poi era stata organiz-
zata una svendita delle bambole, che erano state disposte in vetrina a semi-
cerchio in modo da fissare tutte chiunque le guardasse.
Gli occhi delle bambole erano color fiordaliso. L'effetto d'insieme era
impressionante e Graham per un po' di tempo non fece che guardarle. Sa-
peva che erano solo bambole, ma si rendeva conto che attiravano l'atten-
zione. Erano così tante. Anche altri si fermavano davanti alla vetrina. Le
bambole erano di gesso, avevano tutte la stessa pettinatura, ma tutti quegli
occhi gli facevano venire ugualmente i brividi sulla faccia.
Cominciò a rilassarsi un pochino. Lo sguardo fisso delle bamboline.
Buttò giù un sorso, ansimò e soffocò un colpo di tosse. Cercò in fretta l'in-
terruttore dell'abat-jour e andò a prendere la cartelletta dalla cassettiera.
Prese i rapporti dell'autopsia dei tre figli insieme alla piantina della camera
dei genitori e li distese sul letto.
Ecco le tre macchie oblique sullo spigolo, ed ecco quelle corrispondenti
sulla moquette. Ecco la statura dei tre bambini. Fratello, sorella, il figlio
più grande. Le misure corrispondevano, per tutti e tre.
Erano stati messi uno accanto all'altro, appoggiati alla parete di fronte al
letto. Un pubblico. Un pubblico di morti. E il padre. Legato per il torace
alla spalliera, composto in modo da far sembrare che fosse seduto sul letto.
Il segno del legaccio era rimasto sulla parete sopra la spalliera.
Cosa guardavano? Niente, erano tutti morti. Ma avevano gli occhi aperti.
Guardavano lo spettacolo che aveva per protagonista il pazzo e il corpo
della signora Leeds, sul letto, accanto al marito. Spettatori. Il maniaco
guardandosi intorno li vedeva in viso.
Graham si chiese se avesse acceso una candela. Il baluginio poteva si-
mulare un'espressione. Non erano state trovate candele. Forse ci avrebbe
pensato la prossima volta. Questo primo esile legame con l'assassino irri-
tava e pungeva come una sanguisuga. Pensando, morse l'orlo del lenzuolo.
Perché li hai spostati di nuovo? Perché non li hai lasciati così? C'è
qualcosa che non vuoi farmi sapere sul tuo conto. Dev'esserci qualcosa di
cui ti vergogni. O è qualcosa che non puoi permetterti di farmi sapere?
Gli hai aperto gli occhi?
La signora Leeds era bella, vero? Hai acceso la luce dopo aver tagliato
la gola al marito per farglielo vedere mentre cadeva, vero? I guanti ti da-
vano un fastidio terribile quando la toccavi, vero?
C'erano tracce di talco sulle gambe della signora Leeds.
Non c'era talco nel bagno.
Gli parve che qualcun altro facesse queste due affermazioni con una vo-
ce piatta.
Ti sei tolto i guanti, vero? Il talco è uscito dal guanto di gomma mentre
te lo toglievi per toccarla, VERO, FIGLIO DI PUTTANA? L'hai toccata a
mani nude, poi ti sei rimesso i guanti e l'hai ripulita. Ma gli occhi agli al-
tri li hai aperti quando eri senza guanti?
Jack Crawford rispose al quinto squillo. Aveva già ricevuto molte tele-
fonate quella notte e non era affatto intontito.
«Sono Will.»
«Dimmi.»
«Price si occupa ancora di impronte latenti?»
«Sì. Ma non in generale. Adesso si occupa delle impronte dell'indice.»
«Credo che dovrebbe venire ad Atlanta.»
«Perché? L'hai detto tu che il tipo che abbiamo qui è bravo.»
«Sì, è bravo, ma non quanto Price.»
«Cosa devi fargli fare? Dove deve cercare?»
«Sulle unghie delle mani e dei piedi della signora Leeds. Sono dipinte, è
una superficie liscia. E la cornea degli occhi di tutti gli altri. Sono convinto
che si è tolto i guanti, Jack.»
«Cristo, Price deve arrivare di corsa» disse Crawford. «Oggi pomeriggio
c'è il funerale.»

«Secondo me l'ha toccata» fu il saluto di Graham.


Crawford gli allungò una coca-cola presa dalla macchina distributrice
della centrale di polizia di Atlanta. Mancavano dieci minuti alle otto.
«Sicuro, l'ha spostata» disse Crawford. «C'erano i segni sui polsi e nel-
l'incavo delle ginocchia. Ma tutte le impronte che abbiamo trovato sono
state lasciate da guanti non porosi. Comunque non preoccuparti, è arrivato
quel vecchio bastardo di Price. Sta andando all'impresa di pompe funebri.
All'obitorio hanno dato il nulla osta per la rimozione dei cadaveri ieri sera,
ma per ora l'imbalsamatore non ha ancora cominciato. Hai l'aria conciata.
Non hai dormito?»
«Un'ora, forse. Secondo me l'ha toccata a mani nude.»
«Spero che tu abbia ragione, ma al laboratorio della scientifica di Atlan-
ta giurano che non si è mai tolto i guanti, che dovevano essere del tipo da
chirurgo» spiegò Crawford. «Cerano le impronte lisce sui frammenti di ve-
tro. L'indice sul pezzo infilato nella vagina, il pollice sporco di sangue dal-
l'altra parte.»
«Deve averlo ripulito dopo averlo infilato, probabilmente per vederci ri-
flessa quella sua faccia maledetta» disse Graham.
«Quello infilato in bocca era coperto di sangue. Lo stesso per gli occhi.
Non si è mai tolto i guanti.»
«La signora Leeds era una bella donna» disse Graham. «Hai visto le foto
di famiglia, no? A me sarebbe piaciuto accarezzarle la pelle, in una situa-
zione intima, a te no?»
«Situazione intima?» ripeté Crawford. Non riuscì a impedire una nota di
disgusto nella voce. All'improvviso si frugò in tasca alla ricerca di moneti-
ne.
«Intima... erano soli. Tutti gli altri erano morti. Poteva aprirgli o chiu-
dergli gli occhi, come preferiva.»
«Come preferiva» ripeté ancora Crawford. «Naturalmente hanno cercato
di vedere se erano rimaste impronte digitali sulla pelle. Niente. Solo il se-
gno di una mano aperta sul collo.»
«Nel rapporto non si parla delle unghie.»
«Credo che le unghie fossero sporche di sangue quando hanno sparso la
polvere. Si è piantata le unghie nel palmo della mano. Non l'ha graffiato.»
«Aveva dei bei piedi.» disse Graham.
«Hmmm. Andiamo al piano di sopra» disse Crawford, «tra poco c'è l'a-
dunata.»

Jimmy Price si era portato dietro un bel po' d'attrezzatura: due casse pe-
santi, più la borsa della macchina fotografica e il treppiede. Attraversò l'a-
trio dell'Impresa pompe funebri Lombard di Atlanta producendo una serie
di clangori metallici. Era un vecchietto smunto e il suo umore non era stato
certo reso migliore dalla lunga corsa in taxi dall'aeroporto nel pieno del
traffico del mattino.
Un giovanotto altezzoso e ben pettinato lo accompagnò in un ufficio dal-
le pareti color crema e albicocca. Sulla scrivania, vuota, c'era una scultura:
Mani in preghiera.
Price stava esaminando i polpastrelli delle mani in preghiera quando en-
trò il signor Lombard in persona. Il proprietario dell'impresa controllò con
estrema cura i documenti di Price.
«Naturalmente il vostro ufficio di Atlanta o la vostra agenzia, o come si
chiama, mi ha avvertito, signor Price. Ma ieri sera abbiamo dovuto chia-
mare la polizia per allontanare uno scocciatore che cercava di prendere
delle foto per il "National Tattler", quindi preferisco essere molto pruden-
te, lei capirà. Ci hanno consegnato i corpi questa notte all'una e oggi alle
cinque ci sarà il funerale. Non possiamo perdere tempo.»
«Non ci vorrà molto» lo informò Price. «Mi serve solo un assistente di
intelligenza discreta, se ne ha uno. Per caso lei ha toccato i cadaveri, signor
Lombard?»
«No.»
«Veda di sapere chi li ha toccati. Dovrò prendere a tutti le impronte digi-
tali.»

Per gli investigatori assegnati al caso Leeds l'argomento della conferen-


za del mattino riguardava quasi esclusivamente i denti.
R.J. Springfield, soprannominato Buddy, capo della squadra investigati-
va della polizia di Atlanta, tarchiato e in maniche di camicia, aspettò in
piedi accanto alla porta insieme al dottor Dominic Princi mentre i ventitré
investigatori prendevano posto.
«Bene ragazzi, venite qui uno alla volta e fate un bel sorriso» ordinò.
«Fate vedere i denti al dottore. Bene, fateglieli vedere tutti. Cristo, Sparks,
è la tua lingua quella, o hai mandato giù uno scoiattolo? Avanti, muovete-
vi.»
Sulla parete della sala riunioni era appesa una grossa fotografia di una
chiostra di denti. A Graham ricordava quelle di celluloide che si vedevano
tanti anni prima in certi negozi. Era seduto insieme a Crawford in fondo
mentre gli investigatori si accomodavano nei banchi.
Il capo della polizia Gilbert Lewis e il suo addetto alle pubbliche rela-
zioni sedevano in disparte su due sedie pieghevoli. Lewis di lì a un'ora do-
veva affrontare una conferenza stampa.
Springfield prese la parola.
«Bene. Smettiamola di sparare cazzate. Se stamattina avete letto qualco-
sa, avrete visto che i progressi sono zero.»
«Le interviste casa per casa continueranno in un raggio di quattro isolati
intorno alla scena del delitto. L'ufficio ricerche e informazioni ci ha presta-
to due impiegati che ci daranno una mano a controllare le prenotazioni per
gli aerei e le auto a nolo a Birmingham e ad Atlanta.»
«Oggi bisognerà ricontrollare alberghi e aeroporti. Sì, oggi, di nuovo.
Dovete trovare tutte le cameriere e tutti gli uomini di fatica e anche tutti gli
impiegati. Da qualche parte deve essere senz'altro andato a lavarsi e può
darsi che abbia lasciato un po' di casino. Se trovate qualcuno che ha ripuli-
to dello sporco qualche stanza, buttate fuori tutti, mettete i sigilli e filate
con la sirena alla lavanderia. Questa volta abbiamo qualcosa da farvi mo-
strare in giro. Dottor Princi?»
Il dottor Dominic Princi, medico legale della Fulton County, si fece a-
vanti fermandosi sotto l'ingrandimento dei denti Mostrò a tutti un calco.
«Signori, i denti della persona in questione hanno questo aspetto. Lo
Smithsonian Institute di Washington l'ha ricostruiti in base ai rilievi dei
morsi che abbiamo trovato sul corpo della signora Leeds e in base al segno
che abbiamo trovato in un pezzo di formaggio nel frigorifero di casa» an-
nunciò.
«Come potete vedere, c'è un ponte sugli incisivi laterali... questo dente e
questo.» Princi indicò il calco che teneva in mano, poi il foglio appeso alle
sue spalle. «I denti non sono allineati e all'incisivo centrale manca un an-
golo. L'altro è solcato, in questa posizione. Sembra quasi il cosiddetto "sol-
co del sarto" che viene quando si ha l'abitudine di spezzare del filo coi
denti per molto tempo.»
«Ha i denti taglienti quel figlio di puttana» borbottò qualcuno.
«Come fa a essere sicuro che sia stato lui a mordere il formaggio, Doc?»
chiese un investigatore alto in prima fila.
A Princi dava fastidio sentirsi chiamare Doc ma lasciò perdere. «La sali-
va trovata sul formaggio e sui morsi apparteneva allo stesso gruppo san-
guigno» disse. «Un gruppo diverso da quello delle vittime.»
«Ottimo, dottore» disse Springfield. «Faremo fare delle copie della den-
tatura e le mostreremo in giro.»
«Non sarebbe il caso di farle pubblicare sui giornali?» chiese Simpkins,
l'addetto alle pubbliche relazioni. «Con la didascalia "Avete visto questi
denti?" o qualcosa di simile?»
«Io non ho obiezioni» consentì Springfield. «Lei?»
Lewis annuì.
Simpkins non aveva ancora finito. «Dottor Princi, i giornalisti mi chie-
deranno come mai ci sono voluti quattro giorni per avere il calco della den-
tatura. E perché è stato necessario farlo fare a Washington.»
L'agente speciale Crawford studiò il pulsante della penna a sfera.
Prince arrossì ma la voce rimase calma. «I segni lasciati dai morsi sulla
carne si distorcono quando il cadavere viene spostato, signor Simpson...»
«Simpkins.»
«Signor Simpkins, allora. Noi non avremmo potuto preparare il calco
servendoci solo dei rilievi presi sulla vittima. È per questo che è importan-
te il formaggio. È una sostanza relativamente solida ma difficile da trattare.
Bisogna prima ricoprirla di una sostanza oleosa per impedire che l'umidità
deformi il materiale usato per il calco. Solitamente è possibile effettuare un
solo tentativo. Lo Smithsonian aveva già fatto un lavoro identico per il la-
boratorio di criminologia dell'FBI. Hanno un'attrezzatura migliore e di-
spongono anche di un articolatore anatomico. Hanno la consulenza di un
odontoiatra specializzato in medicina legale. Noi no. C'è altro?»
«Si potrebbe dire che del ritardo è responsabile il laboratorio dell'FBI e
non il nostro?»
Princi lo guardò dritto negli occhi. «Quello che si potrebbe dire, signor
Simpkins, è che è stato un investigatore federale, l'agente speciale Cra-
wford, a trovare il formaggio nel frigorifero due giorni fa... dopo che i vo-
stri agenti avevano esaminato la casa da cima a fondo. Dietro mia richie-
sta, ha insistito perché il laboratorio accelerasse i lavori. Quello che si po-
trebbe dire è che sono contento che non sia stato uno dei vostri a dare un
morso a quel maledetto formaggio.»
Lewis intervenne. La sua voce profonda rimbombò nella sala riunioni.
«Nessuno vuol criticare le decisioni che lei ha preso, dottor Princi. Sim-
pkins, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di spaccarci i coglioni liti-
gando con l'FBI. Andiamo avanti.»
«Abbiamo tutti lo stesso obiettivo» disse Springfield. «Jack, hai qualco-
sa da aggiungere?»
Crawford prese la parola. Non tutti gli uomini che vedeva dinnanzi a sé
avevano un'espressione amichevole. Doveva fare qualcosa.
«Voglio solo calmare un po' le acque, capo. Anni fa c'era molta rivalità
riguardo a chi portava le stellette. Le autorità locali e quelle federali tende-
vano ad andare ognuno per la propria strada, senza collaborare. Questo ha
lasciato spazio ai delinquenti. Non è la politica dell'FBI e non è la mia po-
litica Io me ne frego di chi ha le stellette. E lo stesso vale per l'investigato-
re Graham. Se qualcuno di voi si chiede chi è, è quello seduto là in fondo.
Se il tizio che ha massacrato quella gente finisse sotto un camion della
spazzatura, mi andrebbe bene. Basta che non sia più in circolazione. Credo
che anche voi la pensiate nello stesso modo.»
Osservò gli investigatori sperando di averli calmati. Sperava che non si
sarebbero tenuti per loro eventuali indizi. Lewis intervenne.
«L'investigatore Graham si è già occupato di faccende di questo tipo.»
«Sì.»
«Lei, signor Graham è in grado di aggiungere qualcosa, di dare sugge-
rimenti?»
Crawford inarcò le sopracciglia, rivolto a Graham.
«Le dispiace venire qui?» disse Springfield
Graham avrebbe preferito potergli parlare in privato. Non voleva salire
in cattedra. Comunque andò.
Con i vestiti in disordine e la pelle bruciata dal sole non aveva affatto l'a-
ria di un agente federale. A Springfield sembrava un imbianchino che si
fosse messo il vestito buono per presentarsi in tribunale.
Gli investigatori spostarono il peso da una natica all'altra.
Quando Graham si voltò, gli occhi azzurro ghiaccio risaltarono nel viso
abbronzato.
«Solo un paio di cose» disse. «Non possiamo supporre che sia un ex ri-
coverato in un ospedale psichiatrico o che nella sua fedina ci siano atti
contro la morale. Molto probabilmente non ha nessun precedente. In caso
positivo, invece, è più probabile che si tratti di violazione di domicilio che
di aggressioni sessuali di minore importanza.
«Se ha precedenti per rissa o per maltrattamento di minori dovrebbe aver
inflitto morsi. I contributi più importanti verranno dal personale dei reparti
di pronto soccorso e da quello dell'assistenza all'infanzia.
«Vale la pena di controllare tutti i casi gravi di morsicature che ricorda-
no, senza badare a chi è stato morso o al modo in cui dicono che si sia ve-
rificato. È tutto quanto vi posso dire.»
L'investigatore alto in prima fila alzò la mano.
«Fino a questo momento però ha morso solo donne, giusto?»
«Questo è ciò che sappiamo. Tuttavia dà molti morsi. Sei molto forti alla
signora Leeds, otto alla signora Jacobi. Un bel po' più della media.»
«La media qual è?»
«In un delitto a carattere sessuale, tre. Gli piace mordere.»
«Le donne.»
«Quasi sempre nelle aggressioni sessuali i segni lasciati dai morsi porta-
no un livido al centro, il succhiotto. Nel nostro caso sono assenti. Il dottor
Princi l'ha accennato nel rapporto e io l'ho notato all'obitorio. Nessun suc-
chiotto. I morsi, per lui, potrebbero essere una manifestazione aggressiva
così come un comportamento sessuale.»
«Piuttosto debole» osservò l'investigatore.
«Vale la pena di controllare» ribatté Graham. «Vale la pena di controlla-
re tutti i casi di morsi. La gente, quando spiega come si sono verificati,
tende a mentire. I genitori di un bambino che mostra segni di morsi dicono
che si è trattato di un animale e preferiscono fargli fare l'antirabbica per
nascondere che in famiglia c'è qualcuno che usa i denti... dovreste averne
già visti di casi del genere. Vale anche la pena di chiedere agli ospedali i
nomi delle persone sottoposte all'antirabbica.»
«È tutto quello che vi posso dire.» I muscoli delle cosce di Graham
quando sedette vibrarono per la fatica.
«Vale la pena di controllare e controlleremo» disse Springfield. «E ades-
so la Squadra Furti con scasso si mette al lavoro nel vicinato insieme alla
Squadra Antifurto. Dovrete occuparvi del cane. I dati e la foto li troverete
nella pratica. Cercate di scoprire se qualche sconosciuto è stato visto col
cane. La Buoncostume e la Narcotici, finito il servizio diurno, si occupano
dei bar per sadici e omosessuali. Marcus e Whitman... voi andate al funera-
le. Avete già trovato parenti e amici di famiglia, per riconoscere eventuali
sconosciuti? Bene. Il fotografo? D'accordo. Poi portate il registro del fune-
rale all'Ufficio ricerche. Stanno già lavorando su quello di Birmingham.
Gli altri incarichi li trovate sull'ordine di servizio. Andiamo.»
«Ancora una cosa» disse Lewis. Gli investigatori tornarono a sedere.
«Ho sentito dei funzionari di questo comando chiamare l'assassino "Lupo
Marinaro". Non m'importa come lo chiamate fra voi. Capisco che un qual-
che nome dovete pur darglielo. Ma preferirei non sentire funzionari di po-
lizia che lo chiamano così in pubblico. È poco serio. Non dovrete nemme-
no usarlo nei rapporti interni. È tutto.»
Crawford e Graham ritornarono con Springfield nell'ufficio. Il capo della
divisione investigativa diede loro del caffè mentre Crawford chiamava il
centralino e trascriveva messaggi che gli erano arrivati.
«Non ho avuto la possibilità di parlarti quando sei venuto qui ieri» disse
Springfield a Graham. «Era una gabbia di matti, qui. Ti chiami Will, vero?
I ragazzi ti hanno dato tutto quello che ti serviva?»
«Sì, hanno fatto tutto il possibile.»
«Non abbiamo in mano un cazzo e lo sappiamo» proseguì Springfield.
«Oh, dalle impronte trovate nell'aiuola sappiamo come cammina. Si è
mosso tra i cespugli e cose simili, quindi sappiamo solo la misura delle
scarpe, forse la statura. L'impronta del piede sinistro è un po' più profonda:
probabilmente portava qualcosa. È un lavoro difficile. D'altra parte, però,
un paio d'anni fa in questo modo abbiamo trovato uno scassinatore. Ab-
biamo capito che aveva il morbo di Parkinson. Princi se n'è accorto. Que-
sta volta siamo sfortunati.»
«Hai un'ottima squadra» disse Graham.
«Sì, sono bravi. Ma, grazie a Dio, di solito non ci capita di lavorare su
questi casi. In tutta sincerità, voi lavorate sempre insieme — tu, Jack e il
dottor Bloom — oppure vi mettete insieme solo in casi del genere?»
«Solo in casi del genere» rispose Graham.
«Un bel gruppetto. Il capo della polizia diceva che sei stato tu a incastra-
re Lecter tre anni fa.»
«Lavoravamo con la polizia del Maryland» disse Graham. «Sono stati
loro ad arrestarlo.»
Springfield era brusco ma non stupido. Vedeva il disagio di Graham. Gi-
rò sulla sedia e prese degli appunti.
«Mi hai chiesto del cane. Ecco qui il foglio. Ieri sera un veterinario ha
telefonato al fratello del signor Leeds per dirgli che il cane ce l'aveva lui.
Leeds e il figlio maggiore gliel'avevano portato il pomeriggio prima di ve-
nire uccisi. Aveva una ferita all'addome. Il veterinario l'ha operato e adesso
sta bene. In un primo momento ha pensato che gli avessero sparato, ma
non ha trovato il proiettile. Crede che sia stato colpito con un oggetto come
un rampone per il ghiaccio o un punteruolo. Stiamo chiedendo ai vicini se
hanno visto qualcuno con il cane e oggi telefoneremo a tutti i veterinari
della zona per controllare se ci sono altri animali feriti.»
«Il cane aveva un collare con il nome dei Leeds?»
«No.»
«La famiglia Jacobi aveva un cane?» chiese Graham.
«Dovremmo saperlo» rispose Springfield. «Un momento, vediamo.»
Formò un numero interno. «Il tenente Flatt è il nostro ufficiale di collega-
mento con Birmingham... Pronto, Flatt. Il cane degli Jacobi? Ah-ha... Ah-
ha. Un minuto solo.» Posò la mano sulla cornetta. «Nessun cane. Nel ba-
gno al piano terra hanno trovato una cassettina per il gatto. Però non hanno
trovato nessun gatto. I vicini lo stanno cercando.»
«Puoi chiedere a Birmingham di cercare nel giardino e all'esterno?»
chiese Graham. «Se anche il gatto è stato ferito, può darsi che i bambini
non l'abbiano trovato in tempo e l'abbiano sepolto. Sai come fanno i gatti.
Si nascondono per morire. I cani invece tornano a casa. E puoi chiedere
anche se portava il collare?»
«Digli se gli serve una sonda di quelle per cercare il metano, gliela man-
diamo» disse Crawford. «Evita di scavare.»
Springfield comunicò la richiesta. Il telefono squillò non appena ebbe
riappeso. Era per Jack Crawford. Jimmy Price lo chiamava dall'impresa di
pompe funebri. Crawford prese la linea sul secondo apparecchio.
«Jack, ho una parziale — probabilmente di un pollice — è il frammento
di un palmo.»
«Jimmy, sei la luce dei miei occhi.»
«Lo so. La parziale è un arco semilunare ma è confusa. Devo vedere co-
sa posso fare quando torno in laboratorio. L'ho trovata sull'occhio sinistro
del primogenito. È la prima volta che mi capita una cosa del genere. Non
l'avrei mai vista, ma risaltava contro l'emorragia nel globo oculare provo-
cata dalla ferita.»
«Si potrebbe arrivare a un'identificazione?»
«Molto difficile, Jack. Se fosse l'indice forse, ma qui è come vincere alla
lotteria, lo sai. Quella del palmo l'ho trovata sull'unghia dell'alluce sinistro
della signora Leeds. Serve solo per un eventuale confronto. Siamo fortuna-
ti se riusciamo a tirarne fuori sei punti. Hanno assistito l'aiutante necroforo
e Lombard, che è notaio. Ho preso delle fotografie in sito. Può bastare?»
«Hai preso anche le impronte del personale dell'impresa?»
«Ho inchiostrato Lombard e tutti i suoi allegroni... tutte le impronte —
che dicessero di averla toccata oppure no. Adesso sono lì che si puliscono
le mani e tirano accidenti. Fammi andare a casa, Jack. Voglio lavorarci su
nella mia camera oscura. Chissà cosa c'è nell'acqua da queste parti... maga-
ri delle tartarughe.
«Posso prendere un aereo per Washington entro un'ora e farti arrivare lì
le impronte in fac-simile nel primo pomeriggio.»
Crawford rifletté un attimo. «Okay, Jimmy, ma fa le cose come si deve:
copie alla polizia e ai nostri uffici di Atlanta e dì Birmingham.»
«Senz'altro. E adesso c'è un'altra cosa di cui devo parlarti.»
Crawford alzò gli occhi al cielo. «Mi vuoi rompere i coglioni per la tra-
sferta, vero?»
«Giusto.»
«Oggi, ragazzo mio, ti do tutto quello che vuoi.»
Graham rimase a guardare fuori dalla finestra mentre Crawford riferiva
il ritrovamento delle impronte digitali.
«Davvero notevole» si limitò a dire Springfield.
Il volto di Graham era inespressivo... chiuso come quello di un ergasto-
lano, pensò Springfield.
Rimase ad osservarlo finché non fu sulla porta.

La conferenza stampa del capo della polizia stava per concludersi pro-
prio mentre Crawford e Graham uscivano dall'ufficio di Springfield. I
giornalisti si precipitarono verso il telefono. Gli intervistatori della televi-
sione stavano preparando dei "tagli". In piedi, da soli, di fronte alle tele-
camere ripetevano le domande più interessanti udite alla conferenza stam-
pa e allungavano il microfono verso il vuoto in attesa di una risposta che
sarebbe stata attaccata in seguito dalle riprese della conferenza del capo
della polizia.
Crawford e Graham scendevano dalla scalinata esterna quando un omet-
to schizzò loro davanti, piroettò su se stesso e scattò una foto. Il viso ap-
parve dietro la macchina fotografica.
«Will Graham!» esclamò. «Ti ricordi di me... Freddy Lounds? Mi occu-
pavo del caso Lecter per il "Tattler". Sono stato io a scrivere il libro.»
«Mi ricordo,» disse Graham, continuando a scendere i gradini. Lounds
scese con loro precedendoli di qualche passo.
«Quando ti hanno chiamato, Will? Cos'hai scoperto?»
«Con lei non voglio parlarne, Lounds.»
«Cosa ha in comune questo tizio con Lecter? Anche lui fa alle vittime...»
«Lounds.» Graham aveva alzato la voce, Crawford si mise subito in
mezzo. «Lounds, lei scrive delle cagate e il "National Tattler" è carta da
culo. Mi stia lontano.»
Crawford lo afferrò per un braccio. «Se ne vada, Lounds. Avanti. Will,
andiamo a fare colazione. Su, Will, andiamo.» Girarono l'angolo cammi-
nando in fretta.
«Mi spiace, Jack. Non lo sopporto, quel bastardo. Quando ero all'ospe-
dale è entrato in camera e...»
«Lo so» lo interruppe Crawford. «Sono stato io a sbatterlo fuori, per
quel che è servito.» Ricordava la foto apparsa sul "National Tattler" quan-
do il caso Lecter era ormai concluso. Lounds era entrato nella stanza del-
l'ospedale mentre Graham era addormentato. Gli aveva tolto il lenzuolo e
aveva scattato una foto della colostomia provvisoria che gli avevano fatto.
Sulla rivista l'immagine era apparsa con un rettangolo nero che nascon-
deva l'inguine. La didascalia diceva: "Le budella del poliziotto pazzo".
Si fermarono in un bar tavola calda pulito e luminoso. A Graham trema-
vano le mani. Rovesciò un po' di caffè nel piattino.
Notò che il fumo della sigaretta di Crawford infastidiva una coppia nel
séparé vicino. I due mangiavano in silenzio, la loro irritazione si mescola-
va al fumo.
In un tavolo vicino all'ingresso, due donne, evidentemente madre e fi-
glia, litigavano. Parlavano a voce bassa, il viso imbruttito dall'ira. Avverti-
va sul viso e sul collo le vibrazioni della loro rabbia.
Crawford gli stava dicendo che quello stesso mattino avrebbe dovuto te-
stimoniare in un processo a Washington. Temeva che le udienze l'avrebbe-
ro tenuto lontano dal caso. Accese un'altra sigaretta, scrutando le mani ab-
bronzate di Graham attraverso la fiamma dell'accendino.
«La polizia di Atlanta e quella di Birmingham possono confrontare le
impronte con quelle dei loro maniaci sessuali» disse Crawford. «E anche
noi. E Price è già riuscito a tirar fuori una sola impronta dallo schedario.
Basta che programmi il FINDER... abbiamo fatto un bel po' di progressi da
quando te ne sei andato.»
Il FINDER, il lettore ed elaboratore automatico di impronte digitali del-
l'FBI, era in grado di riconoscere l'impronta del pollice paragonandola alle
schede memorizzate e relative anche a responsabili di reati non sessuali.
«Quando lo becchiamo, con quell'impronta e con il segno dei denti, riu-
sciamo a metterlo al fresco» disse Crawford.
«Quello che dobbiamo fare è cercare di immaginare chi potrebbe essere,
tenendoci sulle generali. Adesso fammi un piacere. Diciamo che abbiamo
arrestato un buon sospetto. Tu lo vedi. Cos'è che non ti sorprende sul suo
conto?»
«Non lo so, Jack. Per me in questo momento non ha una faccia. Po-
tremmo perdere un mucchio di tempo a cercare della gente che ci siamo
inventati nella nostra testa. Hai parlato a Bloom?»
«Ieri sera al telefono. Bloom non crede che abbia tendenze suicide e an-
che Heimlich è del suo parere. Bloom è stato qui solo un paio d'ore, il pri-
mo giorno, ma tanto lui quanto Heimlich hanno in mano tutta la pratica.
Bloom questa settimana deve esaminare i candidati al dottorato di ricerca.
Mi ha chiesto di salutarti. Hai il suo numero di telefono a Chicago?»
«Sì, ce l'ho.»
A Graham il dottor Alan Bloom, un ometto rotondo con gli occhi tristi,
era simpatico. Bloom era uno psichiatra bravissimo, esperto in criminolo-
gia. Graham gli era riconoscente perché non aveva mai manifestato un in-
teresse professionale nei suoi confronti. Non capitava spesso, avendo a che
fare con gli psichiatri.
«Bloom ha detto che non lo sorprenderebbe se ricevessimo un messag-
gio dal Lupo Mannaro. Potrebbe scriverci un biglietto» disse Crawford.
«Sì, sulla parete di una camera da letto.»
«Bloom pensa che possa essere sfigurato o che possa credere di esserlo.
Mi ha anche detto però di non dare molto peso alla cosa. "Non vorrei che
tu ti mettessi a dare la caccia a uno che non esiste" mi ha detto. "Potresti
distrarre gli sforzi". Mi ha anche detto che gli hanno insegnato all'universi-
tà a dire queste cose.»
«Ha ragione» disse Graham.
«Tu invece potresti raccontare qualcosa sul suo conto, altrimenti non a-
vresti trovato quell'impronta» incalzò Crawford.
«Le tracce erano lì su quella maledetta parete, Jack. Non ho fatto niente
di speciale. Ehi, senti una cosa, da me non aspettarti troppo, d'accordo?»
«Oh, lo prenderemo. Ne sei convinto, vero?»
«Sì, ne sono convinto. In un modo o nell'altro.»
«E qual è questo modo?»
«Troveremo degli indizi che sono stati trascurati.»
«E l'altro?»
«Continuerà a darsi da fare finché una sera farà troppo chiasso e il mari-
to farà in tempo a prendere il fucile.»
«Altre possibilità?»
«Credi che io possa identificarlo in una stanza, in mezzo ad altre perso-
ne? No, queste cose le fa solo Ezio Pinza. Il Lupo Mannaro continuerà con
le sue imprese finché non diventeremo furbi o avremo fortuna. Non si fer-
merà.»
«Perché?»
«Perché gli piace proprio.»
«Vedi che sai qualcosa sul suo conto» osservò Crawford.
Graham tacque finché non furono usciti. «Aspetta la prossima luna pie-
na» disse a Crawford. «Poi potrai dirmi quanto so sul suo conto.»
Tornò in albergo e dormì due ore e mezzo. Si svegliò a mezzogiorno, fe-
ce una doccia e ordinò una tazza di caffè e un sandwich. Era ora di studiare
con attenzione la pratica Jacobi. Con il sapone dell'albergo lavò gli occhia-
li che gli servivano per leggere e si accomodò accanto alla finestra con la
pratica davanti. I primi minuti prestò attenzione a tutti i rumori, ai passi
nell'atrio, al tonfo lontano della porta dell'ascensore. Poi si concentrò sulla
pratica.
Il cameriere arrivò con il vassoio, bussò e rimase in attesa. Bussò di
nuovo: nessuna risposta. Infine lasciò la colazione sul pavimento davanti
alla porta e firmò il conto.

Hoyt Lewis, addetto alla lettura dei contatori per la Georgia Power
Company, parcheggiò il camioncino sotto un grosso albero nel vicolo e se-
dette alla base del tronco con il cestino della colazione. Ormai, da quando
se lo preparava da solo, non era più un piacere aprirlo. Non trovava più bi-
gliettini, non trovava più dolcetti sorpresa.
A metà del panino una voce alta lo fece sobbalzare.
«Scommetto che questo mese Ho consumato mille dollari di corrente,
non è vero?»
Lewis si voltò e vide all'altezza del finestrino il viso paonazzo di H.G.
Parsons. Parsons portava un paio di bermuda e impugnava un rastrello.
«Non capisco cosa dice.»
«Scommetto che lei dirà che questo mese ho consumato mille dollari di
corrente. Ha capito, adesso?»
«Non so cos'ha consumato perché non ho ancora letto il suo contatore,
signor Parsons. Quando lo leggerò, scriverò il numero qui su questo fo-
glietto.»
Parsons era arrabbiato per la bolletta. Si era già lamentato con la società
elettrica sostenendo di pagare troppo.
«Sto controllando i consumi» disse Parsons. «Mi rivolgerò alla commis-
sione di controllo dei servizi pubblici.»
«Vuole leggere il contatore con me? Facciamolo subito e...»
«Il contatore lo so leggere da solo. Magari lo saprebbe leggere anche lei,
se non fosse così faticoso.»
«Si calmi un attimo, Parsons.» Lewis scese dal camioncino. «Si calmi un
attimo, maledizione. L'anno scorso lei ha messo una calamita sul contato-
re. Sua moglie mi ha detto che lei era in ospedale così ho lasciato perdere e
non ho detto niente. L'inverno scorso, quando ci ha versato dentro la me-
lassa, ho fatto rapporto. Ho saputo che poi lei la bolletta l'ha pagata.
«La sua bolletta ha cominciato a salire quando lei ha modificato da solo
l'impianto elettrico. Gliel'ho detto e ridetto: c'è qualcosa in quell'impianto
che mangia corrente. Ha chiamato un elettricista per scoprire dov'è la per-
dita? No, chiama in ufficio e si lamenta di me. Ormai ne ho piene le scato-
le.» Lewis era livido di rabbia.
«Voglio andare fino in fondo» disse Parsons, arretrando verso il cortile
di casa. «La stanno tenendo d'occhio, caro il mio Lewis. C'è qualcuno che
controlla le letture prima di lei» disse dall'altra parte dello steccato. «Tra
poco vedrà che anche lei dovrà lavorare come tutti.»
Lewis innestò la marcia e si allontanò lungo il vicolo. Avrebbe dovuto
trovarsi un altro posto per terminare la colazione. Gli spiaceva. Quel gros-
so albero con la sua ombra per anni era stato il posto ideale per lo spuntino
di mezzogiorno.
Era proprio dietro la casa di Charles Leeds.

Alle cinque e mezzo del pomeriggio Hoyt Lewis si fermò con la propria
automobile davanti al Cloud Nine Lounge dove, tanto per calmarsi, buttò
giù numerosi bicchieri.
Quando telefonò alla moglie da cui era diviso riuscì solo a dire: «Mi
piacerebbe che tu mi preparassi ancora la colazione».
«Dovevi pensarci prima, signor furbacchione» rispose lei e riappese.
Giocò cupamente una partita a Shuffleboard con alcuni guardiafili e uno
spedizioniere della società elettrica, poi diede un'occhiata agli altri avven-
tori. Cominciavano a frequentarlo dei maledetti impiegati delle compagnie
aeree. Tutti con i baffetti uguali e la vocetta educata. Un po' di tempo an-
cora e avrebbero fatto diventare il Cloud Nine un pub inglese, completo di
bersaglio per le freccette. Non c'era più niente di sicuro, di stabile.
«Ehi, Hoyt. Facciamoci una birra.» Era il suo responsabile, Billy Meeks.
«Senti Billy, devo parlarti.»
«Cosa c'è?»
«Lo conosci Parsons, quel vecchio figlio di una troia, quello che telefona
sempre?»
«Già, mi ha proprio telefonato la settimana scorsa» disse Meeks. «Cosa
c'è?»
«Ha detto che qualcuno va a controllare le letture prima di me, come se
si pensasse che io non faccio il giro. Tu non crederai che faccio le letture
da casa, vero?»
«Neanche per sogno.»
«Dici sul serio, no? Voglio dire, se sono sulla lista nera di qualcuno, vor-
rei che quello si facesse avanti per dirmelo.»
«Se tu fossi sulla mia lista nera, credi che avrei paura di dirtelo in fac-
cia?»
«No.»
«Allora d'accordo. Se qualcuno ti controllasse, lo saprei. I dirigenti sono
sempre informati di situazioni del genere. Nessuno ti controlla, Hoyt. Non
devi stare a badare a Parsons. È solo un vecchio rompiscatole. Mi ha tele-
fonato la settimana scorsa e mi ha detto: "Congratulazioni, finalmente ave-
te aperto gli occhi sul conto di Hoyt Lewis". Non gli ho badato assoluta-
mente.»
«Sarebbe stato meglio denunciarlo per quel contatore» disse Lewis. «Me
ne stavo lì nel vicolo sotto un albero per far colazione quando mi è saltato
addosso. Qualcuno dovrebbe prenderlo a calci in culo.»
«Anch'io mi mettevo lì quando andavo in giro» osservò Meeks. «Ti dico
una cosa. Una volta ho visto la signora Leeds — be', forse non è il caso di
parlarne adesso che è morta — ma un paio di volte l'ho vista in cortile che
prendeva il sole in costume da bagno. Cavoli. Aveva un pancino mica ma-
le. Che peccato per tutti loro. Era proprio una bella donna.»
«Non hanno ancora preso nessuno?»
«No.»
«Peccato che quello si sia fatto i Leeds quando lì vicino c'era il vecchio
Parsons» osservò Lewis.
«Ti dirò una cosa, io alla mia vecchia le proibisco di mettersi nel cortile
dietro in costume da bagno. Lei dice che sono scemo, che non la vede nes-
suno. E io le dico che non si può mai essere sicuri che da dietro la siepe
non salti fuori un bastardo con l'affare di fuori. Ti hanno interrogato? Ti
hanno chiesto se hai visto qualcuno?»
«Sì, credo che abbiano interrogato tutti quelli che passano di lì. I postini,
tutti. Ma io quella settimana coprivo Laurelwood, dall'altra parte di Betty
Jane Drive. Ho finito ieri.» Lewis grattò con l'unghia l'etichetta della birra.
«Mi hai detto che Parsons ha telefonato la settimana scorsa?»
«Proprio.»
«Allora qualcuno dev'essere andato a leggergli il contatore. Altrimenti
oggi non sarebbe venuto lì a rompermi le scatole. Hai detto che non hai
mandato nessuno, e senz'altro non sono io quello che ha visto.»
«Forse erano quelli dei telefoni che facevano qualche controllo.»
«Forse.»
«Però non abbiamo pali in comune.»
«Pensi che dovrei avvertire la polizia?»
«Male non farebbe» disse Meeks.
«No, e magari parlare con qualche sbirro farebbe bene a Parsons. Per lo
meno quando li vede arrivare si caga sotto.»

Graham tornò alla casa dei Leeds nel tardo pomeriggio. Entrò dalla porta
principale e cercò di non guardare il disastro che l'assassino si era lasciato
dietro. Fino ad allora aveva visto solo documenti, un mattatoio e le bestie
macellate, ma dopo il fatto. Sapeva già abbastanza bene com'erano stati
uccisi. Voleva vedere come avevano vissuto.
Un'ispezione, quindi. Nel garage c'era un motoscafo di buona marca, u-
sato ma ben tenuto e una station wagon. C'erano anche mazze da golf e
una moto da cross. Trapano e altri attrezzi a motore erano praticamente
nuovi. Giocattoli per adulti.
Graham prese una mazza da golf dalla borsa, la strinse per il manico, ac-
cennò un colpo. La borsa soffiò odore di cuoio quando la ripose contro la
parete. Le cose di Charles Leeds.
In casa andò alla ricerca di tutti gli altri oggetti del capofamiglia. Nello
studiolo trovò delle stampe con soggetti di caccia. C'era anche la collana
dei classici, tutti in fila. Negli scaffali notò H. Allen Smith, Perelman e
Max Shulman. Vonnegut ed Evelyn Waugh. Su un tavolo vide aperto Beat
to Quarters, di C.S. Forester.
Nell'armadietto dello studio trovò un buon fucile di piccolo calibro, una
Nikon, una cinepresa superotto Bolex con relativo proiettore.
Graham, che non aveva quasi nulla salvo un minimo di attrezzatura da
pesca, una Volkswagen di terza mano e due casse di Montrachet, avvertì
una leggera irritazione verso quei giocattoli per adulti e se ne chiese il mo-
tivo.
Chi era Leeds? Un consulente fiscale di successo, un tifoso di football
americano, un uomo alto e snello che amava l'allegria, che si era alzato dal
letto per lottare malgrado avesse la gola squarciata.
Seguì le sue tracce in tutta la casa, come per uno strano senso di defe-
renza. Conoscere prima lui e le sue abitudini era, in un certo senso, un mo-
do di chiedere il permesso di guardare, poi, nella vita di sua moglie.
Era sicuro che fosse stata la donna ad attirare il mostro, proprio come il
frinire del grillo attrae la morte, portata dalla mosca dagli occhi rossi.
E adesso la signora Leeds.
Aveva un piccolo spogliatoio privato al piano superiore.
Fece in modo di entrare senza guardare in camera da letto. Le pareti era-
no gialle e la stanza appariva intatta, a parte lo specchio in frantumi sopra
la toilette. Sul pavimento, davanti all'armadio, c'erano un paio di mocassi-
ni, proprio come se se li fosse appena tolti. La vestaglia era attaccata a un
gancio e nell'armadio c'era quel leggero disordine, tipico di una donna che
deve tenere a posto molti altri armadi.
Trovò il suo diario in una scatola di velluto color prugna, sulla toilette.
La chiave era stata appiccicata al bordo con nastro adesivo e un'etichetta
della polizia.
Graham sedette su una sedia bianca girevole e lo aprì a caso

Martedì 23 dicembre, casa di mamma. I bambini dormono ancora.


Quando a mamma è venuta l'idea di mettere le finestre alla veranda, mi ha
dato molto fastidio l'aspetto diverso della casa ma devo dire che sono mol-
to comode e che me ne posso stare qui al caldo a guardare la neve. Quanti
Natali ancora mamma sarà in grado di gestire una casa piena di nipoti?
Molti, spero.
Ieri il viaggio per venire da Atlanta è stato difficile. Dopo Raleigh nevi-
cava. Abbiamo dovuto procedere piano. Io comunque ero già stanca per
aver dovuto preparare tutti per la partenza. Dopo Chapel Hill Charlie si è
fermato ed è sceso. Ha staccato qualche candelotto di ghiaccio da un ra-
mo per prepararmi un martini. È tornato verso la macchina alzando quelle
sue lunghe gambe per camminare nella neve; aveva neve nei capelli e sul-
le ciglia... mi ha ricordato che lo amo. Una sensazione come qualcosa che
dentro si spezza con una leggera fitta, diffondendo calore.
Spero che l'eskimo che gli ho comprato gli vada bene. Potrei restarci
secca se lui mi regalasse quel brutto anello. Mi verrebbe voglia di prende-
re a calci Madelyn in quel suo sederone grosso e cellulitico per averci fat-
to vedere il suo. Quattro diamanti che fanno ridere tanto sono grossi e co-
lor ghiaccio sporco. Era così limpido il ghiaccio dei candelotti. Il sole en-
trava dal finestrino e formava un piccolo prisma di luce dov'erano stati
spezzati. Sulla mano mentre reggevo il bicchiere mi si era formata una
macchia rossa e verde. Ne sentivo fisicamente i colori.
Mi ha chiesto che regalo volevo per Natale e io gli ho messo le mani in-
torno all'orecchio e gli ho detto: il tuo uccellone, sciocco, dentro fino in
fondo.
Gli è diventata tutta rossa la macchia di calvizie che ha in testa. Ha
sempre paura che i bambini sentano. Gli uomini non si fidano dei sussurri.

Sulla pagina era rimasta la cenere del sigaro di uno degli investigatori.
Graham continuò a leggere finché non cominciò a scendere l'oscurità,
passando attraverso l'operazione alle tonsille della figlia, e il grosso spa-
vento che la signora Leeds si era presa in giugno scoprendo un piccolo no-
dulo al seno. (Mio Dio, i bambini sono così piccoli).
Tre pagine dopo, il nodulo si era rivelato una piccola cisti benigna, poi
asportata senza difficoltà.

Oggi il dottor Janovich mi ha lasciata andare. Siamo usciti dall'o-


spedale e in macchina siamo andati al laghetto. Era molto tempo che non
ci venivamo. Non abbiamo mai tempo. Charlie aveva portato due bottiglie
di champagne ghiacciato che ci siamo bevuti dando da mangiare alle ani-
tre mentre calava il sole. È rimasto in piedi fermo sulla sponda voltandomi
la schiena; credo che abbia pianto un pochino.
Susan ha detto che aveva paura che tornassimo dall'ospedale con un al-
tro fratellino. A casa!

Graham sentì suonare il telefono in camera da letto. Uno scatto e il ron-


zio della segretaria telefonica. «Pronto, parla Valerie Leeds. Spiacente, ma
in questo momento non posso venire all'apparecchio. Lasciate il vostro
nome e il numero di telefono dopo il segnale acustico; vi richiamerò io.
Grazie.»
Graham s'aspettava quasi di sentire la voce di Crawford dopo il bip, ma
sentì solo il segnale telefonico. Chi aveva chiamato aveva anche riappeso.
Aveva sentito la sua voce, però voleva vederla. Scese nello studio.
Aveva con sé un rullino di pellicola superotto di Charles Leeds. Tre set-
timane prima di morire, Leeds lo aveva portato in un negozio dove l'ave-
vano spedito al laboratorio per lo sviluppo. Non era mai passato a ritirarlo.
La polizia aveva trovato lo scontrino nel suo portafoglio ed era andata a ri-
prenderlo. Gli investigatori l'avevano visto insieme alle istantanee di fami-
glia, sviluppate nella stessa occasione, senza trovare niente di interessante.
Graham voleva vedere i Leeds vivi. Alla polizia gli investigatori gli ave-
vano offerto un proiettore, ma Graham preferiva vedere il rullino nella ca-
sa del delitto. Con riluttanza, gli avevano dato il permesso di prenderlo dal
locale dov'erano custoditi i reperti.
Trovò schermo e proiettore nell'armadio dello studio e li sistemò, piaz-
zandosi poi nella grossa poltrona di cuoio di Charles Leeds per guardare.
Sentì qualcosa di appiccicaticcio sul bracciolo: le impronte lasciate dalle
dita dei bambini sporche di caramelle. Sulla palma della mano gli rimase
un leggero odore di caramelle.
Era un simpatico filmetto casalingo muto, realizzato con più fantasia del
solito. Cominciava con un cane, un terrier grigio, che dormiva sul tappeto
dello studio. Il cane, disturbato per un attimo dal rumore della cinepresa,
alzava la testa guardandola, poi riprendeva a dormire. Uno stacco improv-
viso mostrava il cane sempre addormentato che di colpo rizzava le orec-
chie, poi si alzava mettendosi ad abbaiare mentre la cinepresa lo seguiva in
cucina dove si era fermato in attesa, tremando e agitando la coda.
Graham si morse il labbro inferiore attendendo a sua volta. Sullo scher-
mo la porta si apriva e la signora Leeds entrava reggendo i sacchi della
spesa. Ammiccava e rideva sorpresa, rimettendosi a posto i capelli scom-
pigliati con la mano libera. Poi muoveva le labbra uscendo dal quadro; la
seguivano i bambini che portavano sacchetti più piccoli. La bambina aveva
sei anni, i due maschietti otto e dieci.
Il più giovane dei due, evidentemente un veterano dei film di casa indicò
le orecchie e le agitò. La cinepresa era piuttosto alta. Leeds era alto un me-
tro e novanta, secondo il referto dell'autopsia.
Graham era convinto che questa parte del film fosse stata girata all'inizio
della primavera. 1 bambini indossavano la giacca a vento e la signora Le-
eds era pallida. All'obitorio invece era piuttosto abbronzata e mostrava i
segni del costume da bagno.
Seguirono alcune scenette dei bambini intenti a giocare a ping pong in
cantina e di Susan, la figlia, che impacchettava un regalo in camera sua,
tenendo la lingua premuta contro il labbro superiore e un ciuffo di capelli
sulla fronte. A un certo punto allontanava i capelli con la mano paffuta,
proprio come aveva fatto la madre in cucina.
Nella scena successiva si vedeva sempre Susan nella vasca piena di
schiuma, accucciata come una ranocchia. In testa aveva una grossa cuffia
per la doccia. L'angolo di ripresa questa volta era più basso, la messa a
fuoco incerta: chiaramente era opera di uno dei fratelli. La scena terminava
con Susan che urlava rivolta alla cinepresa, coprendosi il petto con le ma-
ni, mentre la cuffia le cadeva sugli occhi.
Fatto interessante, Leeds aveva sorpreso la moglie nella doccia. La tenda
si agitava come il sipario durante una rappresentazione studentesca, poi
appariva il braccio della signora Leeds che stringeva una grossa spugna da
bagno; e la scenetta si concludeva con l'obiettivo oscurato dalla schiuma.
Chiudevano il rullino una ripresa di Norman Vincent Peale che parlava
alla televisione e una panoramica di Charles Leeds che dormiva nella pol-
trona dove ora sedeva lui.
Rimase a fissare il quadro di luce bianca sullo schermo. I Leeds gli era-
no simpatici. Gli spiaceva di essere andato all'obitorio. Pensò che anche il
pazzo entrato in casa loro avrebbe dovuto trovarli simpatici. Ma gli dove-
vano essere più simpatici ora.

Graham si sentiva istupidito, con la testa come imbottita. Nuotò nella pi-
scina dell'albergo finché non si sentì le gambe molli e uscì dalla vasca pen-
sando a due cose: un bicchiere di martini col gin e il sapore della bocca di
Molly.
Si preparò da solo il martini in un bicchiere di plastica e telefonò a
Molly.
«Pronto, delinquente.»
«Ehi, bello! Dove sei?»
«Ad Atlanta, in questo albergo maledetto.»
«Hai combinato qualcosa di buono?»
«Niente di notevole. Mi sento solo.»
«Anch'io.»
«Ho voglia.»
«Anch'io.»
«Dimmi un po', cos'hai fatto?»
«Be', oggi ho avuto una discussione con la signora Holper. Voleva resti-
tuirmi un vestito con una gran macchia di whisky sul sedere. Naturalmente
se l'era messo alla festa.»
«E che cosa le hai detto?»
«Le ho detto che non gliel'avevo venduto in quelle condizioni.»
«E lei?»
«Ha detto che non le avevo mai fatto difficoltà quando mi aveva reso i
vestiti, che per questo veniva nel mio negozio, invece di andare in altri.»
«E tu, a questo punto?»
«Oh, le ho detto che ero un po' fuori di me perché Will al telefono dice
delle fesserie.»
«Capisco.»
«Willy sta bene. Sta seppellendo delle uova di tartaruga che i cani hanno
scavato. Dimmi cosa fai tu, adesso.»
«Leggo dei rapporti. Mangio porcherie.»
«Immagino che penserai anche un bel po'.»
«Proprio così.»
«Ti posso aiutare?»
«Non ho ancora in mano niente di preciso, Molly. Non ci sono abbastan-
za indizi. Be', a dir la verità ce ne sono un sacco, ma non li ho ancora stu-
diati abbastanza.»
«Intendi restarci per un po', ad Atlanta? Non voglio seccarti dicendoti di
tornare a casa, volevo solo saperlo.»
«Non so. Senz'altro dovrò restare qui ancora qualche giorno. Mi man-
chi.»
«Hai voglia di parlare o di scopare?»
«Non credo che riuscirei a reggerlo. Forse è meglio non farlo.»
«Non fare cosa?»
«Parlare di scopare.»
«D'accordo. Comunque, ti dispiace se io ci penso?»
«Assolutamente no.»
«Abbiamo un altro cane.»
«Oh, all'inferno.»
«Dev'essere un incrocio tra un basset hound e un pechinese.»
«Dev'essere splendido.»
«Ha due palle grosse così.»
«Non preoccuparti delle sue palle.»
«Strisciano quasi per terra. Quando corre deve farle rientrare.»
«Impossibile.»
«Sì che è possibile, come fai a sapere che non si può?»
«Lo so.»
«Tu le tue le sai far rientrare?»
«Lo sapevo che ci saremmo arrivati.»
«Allora?»
«Se proprio lo vuoi sapere, una volta l'ho fatto.»
«In che occasione?»
«Da ragazzo. Dovevo saltare in fretta una rete di filo spinato»
«Perché?»
«Avevo in mano un'anguria che non avevo coltivato io.»
«Scappavi? E da chi?»
«Da un tizio che conoscevo. Aveva mollato i cani ed era uscito di casa in
mutande con il fucile da caccia. Fortunatamente ha inciampato in un gra-
ticcio dei fagioli e mi ha dato il tempo di scappare.»
«Ti ha sparato?»
«Sul momento ho pensato di sì, ma forse il rumore che ho sentito dev'es-
sermi uscito dal di dietro. Non l'ho mai saputo bene.»
«E hai saltato la rete?»
«Senza difficoltà.»
«Una mentalità criminale, anche allora.»
«Non ho una mentalità criminale.»
«Certo che non ce l'hai. Pensavo di pitturare la cucina. Di che colore ti
piacerebbe? Will? Di che colore ti piacerebbe? Sei ancora in linea?»
«Sì, ehm, gialla. Facciamola gialla.»
«Il giallo non mi sta bene. Sarei verde, a colazione.»
«Allora azzurro.»
«L'azzurro è freddo.»
«Be', allora maledizione falla color cacca di neonato, per quel che me ne
frega... No, senti, probabilmente torno a casa presto. Ce ne andiamo al co-
lorificio e compriamo un po' di roba, d'accordo? Magari anche qualche
manico nuovo o roba del genere.»
«Va bene, comperiamo qualche manico. Chissà perché ti parlo di queste
cose. Senti, ti amo, mi manchi e stai facendo la cosa giusta. Lo so che pesa
anche a te. Io sono qui e mi trovi qui quando forni a casa, in qualunque
momento, oppure possiamo vederci in qualunque posto, in qualunque
momento. È tutto.»
«Cara, cara Molly. Adesso va' a dormire.»
«Va bene.»
«Buonanotte.»
Graham rimase disteso con le mani intrecciate dietro la testa, immagi-
nando cenette con Molly. Granchi e Sancerre, la brezza salina mescolata al
vino.
Ma il suo guaio era quello di ripensare alle conversazioni. Anche ora
cominciò a farlo. Era scattato quando lei, innocentemente, aveva detto che
aveva una mentalità "criminale". Si era comportato da stupido. L'interesse
che Molly provava per lui gli era in gran parte inspiegabile.
Telefonò alla centrale di polizia e lasciò un appunto a Springfield per
dirgli che il mattino dopo voleva dare una mano nelle indagini porta a por-
ta. Non c'era nient'altro da fare.
Il gin lo aiutò a prendere sonno.
6

Sulla scrivania di Buddy Springfield erano sparse copie in carta velina


delle registrazioni di tutte le telefonate giunte alla polizia a proposito del
caso Leeds. Il martedì mattina alle sette, quando Springfield arrivò in uffi-
cio, erano già 63. La prima era sottolineata in rosso.
Annunciava che la polizia di Birmingham aveva scoperto un gatto, sep-
pellito in una scatola da scarpe dietro il garage della famiglia Jacobi. Ave-
va un fiore tra le zampe ed era stato avvolto in un asciugamano. Sul coper-
chio una mano infantile aveva scritto il suo nome. Il gatto era senza colla-
re. Un nastro legato con un fiocco teneva chiusa la scatola.
Il medico della polizia di Birmingham diceva che il gatto era stato stran-
golato. Gli aveva rasato il pelo e non aveva trovato ferite.
Springfield si picchiò la stanghetta degli occhiali sui denti.
Il terreno era morbido ed era stato possibile scavare con una pala. Nes-
sun bisogno di impiegare sonde. Comunque Graham non si era sbagliato. I
gatti vanno a nascondersi per morire, i cani invece tornano a casa.
Si umettò il pollice e cominciò a far passare la pila di note, quasi tutti
rapporti relativi a macchine sospette viste nel vicinato la settimana prece-
dente, in genere descrizioni vaghe in cui veniva indicato solo il colore e la
marca del veicolo. Quattro cittadini di Atlanta avevano ricevuto telefonate
anonime in cui li si minacciava di fargli fare la fine dei Leeds.
Il rapporto di Hoyt Lewis era a metà della pila.
Springfield chiamò il caposervizio del turno di notte.
«Cosa mi sai dire del rapporto di quel lettore dei contatori relativo a
questo Parsons? È il numero 48.»
«Ieri sera abbiamo cercato di controllare presso i servizi pubblici per ve-
dere se avevano mandato qualcuno in quel vicolo» rispose il caposervizio.
«Si mettono in contatto con noi stamattina.»
«Mettiti subito tu in contatto con loro» disse Springfield. «Controlla net-
tezza urbana e genio civile; controlla anche se sono stati rilasciati permessi
di costruzione in quel vicolo e richiamami nella mia macchina.»
Formò il numero di Will Graham. «Will? Ci troviamo tra dieci minuti
davanti al tuo albergo. Andiamo a farci un giretto.»
Alle 7 e 45 Springfield parcheggiava in fondo al vicolo. Insieme a Gra-
ham s'incamminò sui solchi che i pneumatici avevano scavato nella ghiaia.
Malgrado fosse ancora presto il sole scottava.
«Dovresti metterti un cappello» osservò Springfield. Lui ne portava uno
di paglia, calato sugli occhi.
La catena che delimitava il confine posteriore della proprietà dei Leeds
era coperta di rampicanti. Si fermarono vicino al contatore della luce fissa-
to a un palo.
«Se è passato di qui ha potuto vedere tutto il lato posteriore della casa»
disse Springfield.
In soli cinque giorni la casa dei Leeds aveva cominciato ad assumere u-
n'aria trascurata. Il prato era irregolare e dall'erba spuntavano gli steli delle
cipolle selvatiche. Nel cortile posteriore c'erano dei ramoscelli caduti. A
Graham venne l'impulso di raccoglierli. La casa sembrava addormentata,
sul portico si allungavano strisce d'ombra proiettate dagli alberi. Fermo nel
vicolo con Springfield, Graham si vide intento a osservare la finestra po-
steriore, ad aprire la porta della veranda. Stranamente, la ricostruzione del
metodo usato dall'assassino per introdursi in casa alla luce del giorno sem-
brava sfuggirgli. Vide un'altalena oscillare piano, mossa dalla brezza.
«Quello sembrerebbe Parsons» disse Springfield.
H.G. Parsons era uscito di buon'ora e zappettava un'aiuola nel cortile po-
steriore, a due case di distanza. Springfield e Graham si avvicinarono al
cancello posteriore e si fermarono accanto ai bidoni della spazzatura. I co-
perchi dei bidoni erano incatenati allo steccato.
Springfield misurò l'altezza del contatore con un metro flessibile.
Aveva con sé le informazioni relative a tutti i vicini.
Quelle di Parsons dicevano che l'uomo era stato messo in pensione anti-
cipata dall'amministrazione postale, dietro richiesta del capoufficio. Questi
aveva riferito che Parsons diventava "sempre più distratto".
C'erano anche alcuni pettegolezzi. I vicini dicevano che la moglie di
Parsons stava il più possibile dalla sorella, a Macon, e che il figlio non gli
telefonava nemmeno più.
«Signor Parsons, signor Parsons» chiamò Springfield.
Parsons posò la zappa contro il muro della casa e si avvicinò allo stecca-
to. Indossava sandali e calze bianche. L'erba e il terriccio avevano mac-
chiato le calze sull'alluce. Il viso era color rosa acceso.
Arteriosclerosi, pensò Graham. Doveva aver già preso la sua pillola.
«Sì?»
«Signor Parsons, potremmo parlarle un minuto? Speriamo che lei ci pos-
sa aiutare» disse Springfield.
«Siete della società elettrica?»
«No, sono Buddy Springfield del dipartimento di polizia.»
«Allora è per l'assassinio. Come ho già detto all'agente io e mia moglie
eravamo a Macon...»
«Lo so, signor Parsons. Volevamo farle delle domande a proposito del
contatore della luce. Ha visto...»
«Se quell'... incaricato della lettura dice che ho fatto qualcosa che non
va, è solo...»
«No, no. Signor Parsons, ha visto uno sconosciuto che leggeva il suo
contatore la settimana scorsa?»
«No.»
«Ne è sicuro? Ho saputo che lei ha detto a Hoyt Lewis di aver visto
qualcuno che leggeva il contatore prima che passasse lui.»
«È vero, gliel'ho detto. Era ora. Non la lascio cadere questa faccenda, la
commissione dei servizi pubblici riceverà un mio rapporto.»
«Certo, signore. Sono sicuro che ne terranno conto. Chi ha visto leggere
il suo contatore?»
«Non era uno sconosciuto, era qualcuno della società elettrica.»
«Come fa a saperlo?»
«Be', aveva l'aria di un ispettore.»
«Cosa indossava?»
«Quello che portano tutti, credo. Cos'è? Tuta marrone e berretto.»
«L'ha visto in faccia?»
«Se l'ho visto non me lo ricordo. Guardavo fuori dalla finestra della cu-
cina. Volevo parlargli ma ho dovuto mettermi la vestaglia e quando sono
uscito non l'ho visto più.»
«Aveva un camioncino?»
«Non mi pare di averne visto uno. Cosa succede? Perché volete sapere
queste cose?»
«Controlliamo tutti quelli che si sono fermati nel vicinato la settimana
scorsa. È importantissimo, signor Parsons. Si sforzi di ricordare.»
«Quindi è a proposito dell'omicidio. Non avete ancora arrestato nessuno,
vero?»
«No.»
«Ieri notte sono rimasto a guardare la strada. C'è voluto un quarto d'ora
prima di vedere passare una macchina della polizia. È orribile quello che è
successo ai Leeds. Mia moglie era fuori di sé. Chissà chi comprerà la loro
casa. L'altro giorno ho visto dei negri che la guardavano. Sapete, ho dovu-
to lamentarmi qualche volta coi Leeds per i bambini, ma erano gente come
si deve. Certo però che lui non voleva seguire i miei consigli per il suo pra-
to. Il dipartimento dell'agricoltura ha dei libretti eccellenti su come elimi-
nare le erbacce. Alla fine ho dovuto metterglieli nella cassetta delle lettere.
Onestamente, quando falciava il prato si soffocava per la puzza di cipolle
selvatiche.»
«Signor Parsons, quando esattamente ha visto quel tipo nel vicolo?»
chiese Springfield.
«Non sono sicuro, cercavo di pensare.»
«Ricorda in che momento della giornata? Mattino? Mezzogiorno? Po-
meriggio?»
«So come si dividono le giornate, non c'è bisogno che me lo dica lei.
Forse nel pomeriggio, non ricordo.»
Springfield si accarezzò la nuca. «Mi scusi, signor Parsons, ma devo
controllare a fondo. Potremmo entrare nella sua cucina, così lei ci mostra
da dove l'ha visto?»
«Fatemi vedere il tesserino. Tutti e due.»
In casa: silenzio, mobili lucidi, odore di chiuso. Pulito. Pulitissimo.
L'ordine disperato di una coppia anziana che comincia a vedere la propria
vita farsi incerta.
Graham avrebbe preferito rimanere fuori. Era sicuro che nei cassetti c'e-
rano posate d'argento lucide, con un guscio d'uovo tra un cucchiaio e l'altro
per evitare rigature.
Piantala e spremiamo tutto quello che si può da questo vecchio rim-
bambito.
Dalla finestra sopra il lavello si vedeva benissimo il cortiletto.
«Ecco. Soddisfatti?» chiese Parsons. «Da qui si vede là in fondo. Non
gli ho parlato, non ricordo com'era. Se vi basta, io ho un sacco di cose da
fare.»
Graham parlò per la prima volta: «Lei ha detto di essere andato a metter-
si la vestaglia e che, quando è ritornato, quello era scomparso. Quindi lei
non aveva vestiti addosso?»
«No.»
«A metà del pomeriggio? Non si sentiva bene, signor Parsons?»
«Quello che faccio in casa mia sono affari miei. Se mi va, posso anche
mettermi un costume da canguro. Perché non siete là fuori a cercare l'as-
sassino? Probabilmente perché qui dentro fa fresco.»
«So che lei è in pensione signor Parsons, quindi immagino che non ab-
bia nessuna importanza se lei si veste o no tutti i giorni. Molte volte lei non
si veste affatto, sbaglio?»
Al vecchio si gonfiarono le vene sulle tempie.
«Solo perché sono in pensione, non vuol dire che non mi vesto e non mi
tengo occupato tutti i giorni. È che avevo caldo ed ero entrato a farmi una
doccia. Lavoravo. Stavo spandendo il concime, ho lavorato dalla mattina
al pomeriggio, molto di più di quello che farete voi oggi.»
«Cosa stava facendo?»
«Concimavo.»
«In che giorno ha concimato?»
«Giovedì. Era giovedì scorso. Il concime me l'avevano consegnato la
mattina — un grosso carico — e il pomeriggio l'avevo... l'avevo sparso tut-
to. Potete chiedere al Garden Center quando è stato.»
«E così le è venuto caldo ed è rientrato per farsi una doccia. Cosa stava
facendo, in cucina?»
«Mi preparavo un tè ghiacciato.»
«E ha tirato fuori del ghiaccio? Ma il frigorifero è là lontano dalla fine-
stra.»
Parsons guardò prima la finestra poi il frigorifero, sperduto e confuso.
Gli occhi avevano un'espressione spenta, come quelli di un pesce sul banco
del mercato alla fine della giornata. Poi si illuminarono trionfanti. Si avvi-
cinò al mobiletto accanto al lavello.
«Ero qui, stavo prendendo del dolcificante quando l'ho visto. Ecco. Ecco
che cosa facevo. Adesso, se avete finito di ficcare il naso...»
«Secondo me ha visto Hoyt Lewis» disse Graham.
«Anche secondo me» disse Springfield.
«Non era Hoyt Lewis. Non era lui.» A Parsons si erano inumiditi gli oc-
chi.
«Come fa a saperlo?» chiese Springfield. «Doveva essere Hoyt Lewis e
lei ha semplicemente pensato...»
«Lewis è abbronzato per il sole. Ha i capelli tutti unti e quelle basette da
picchio.» Parsons aveva alzato la voce, parlava così in fretta che era diffi-
cile seguirlo. «Ecco perché lo so. Sicuro che non era Lewis. Quel tipo era
più pallido e aveva i capelli biondi. Si è girato per scrivere sul blocco e l'ho
visto da dietro, sotto il cappello. Biondo. Aveva la sfumatura tagliata via
dritta.»
Springfield rimase assolutamente immobile. Quando riprese a parlare il
tono era ancora scettico. «E di faccia?»
«Non so. Doveva avere i baffi.»
«Come Lewis?»
«Lewis non li ha.»
«Oh» disse Springfield. «Il viso era all'altezza del contatore. Ha dovuto
alzare gli occhi per guardarlo?»
«No, mi pare che l'avesse all'altezza degli occhi.»
«Lo riconoscerebbe, se dovesse rivederlo?»
«No.»
«Quanti anni aveva?»
«Non era vecchio. Non saprei.»
«Ha visto se c'era il cane dei Leeds vicino a lui?»
«No.»
«Senta, signor Parsons, mi rendo conto di essermi sbagliato» disse
Springfield, «lei c'è stato davvero di grande aiuto. Se non le dispiace man-
deremo qui il nostro disegnatore e se lei gli permette di mettersi qui, al ta-
volo di cucina, forse riuscirà a dargli un'idea di com'era questo tipo. Di si-
curo non era Lewis.»
«Non voglio vedere il mio nome su nessun giornale.»
«Non lo vedrà.»
Parsons li seguì all'aperto.
«Ha fatto uno splendido lavoro qui in giardino, signor Parsons» osservò
Springfield. «Dovrebbero darle un premio.»
Parsons non disse nulla. Era rosso in viso e contratto, gli occhi erano
sempre umidi. Rimase immobile nei calzoncini corti sformati, fissandoli
intensamente mentre uscivano. Poi afferrò il forcone e cominciò a lavorare
furiosamente il terreno, tirando colpi alla cieca tra i fiori, spargendo la tor-
ba sul terreno.

Servendosi della radio della macchina, Springfield svolse un controllo.


Nessuno dei servizi pubblici o degli enti municipali aveva mandato un di-
pendente nel vicolo il giorno precedente il massacro. Springfield riferì la
descrizione di Parsons e ordinò di far andare a casa sua il disegnatore. «Di-
tegli di disegnare prima il palo e il contatore, e di partire da lì. Deve facili-
tare le cose al testimone.»
«Al nostro disegnatore non piace molto andare a casa dei testimoni»
spiegò poi a Graham, mentre faceva sgusciare la Ford della polizia nel traf-
fico. «Gli piace farsi vedere dalla segretaria mentre lavora con il testimone
che lo guarda da dietro le spalle. Un commissariato è un brutto posto per
interrogare qualcuno, se non si vuole spaventarlo. Non appena avremo il
ritratto, lo faremo vedere in tutte le case del vicinato.
«Ho la sensazione che sia arrivato un soffio d'aria, Will. Debole, ma
sempre un soffio. Non ti pare? Senti, abbiamo fatto un brutto servizio a
quel povero diavolo e gliel'abbiamo tirato fuori. Adesso usiamo in qualche
modo l'informazione.»
«Se quello del vicolo è l'uomo che vogliamo, è la miglior notizia che ab-
biamo avuto finora,» osservò Graham. Era disgustato di se stesso.
«Giusto. Vuol dire che non si limita a scendere da un autobus e ad anda-
re dove gli tira. Pianifica le cose. Ha passato la notte in città. Sa dove an-
dare con un paio di giorni di anticipo. Deve avere una qualche idea. Esa-
mina il posto, uccide prima gli animali, poi la famiglia. Chissà che diavolo
deve avere in testa.» Una pausa. «Questo è un po' il tuo territorio, vero?»
«Sì. Se questo territorio è di qualcuno, immagino che debba essere mio.»
«Lo so che hai visto cose di questo genere. L'altro giorno ti sei seccato
perché ti ho chiesto di Lecter, ma ho bisogno di parlarne con te.»
«Bene.»
«In totale ha ammazzato nove persone, no?»
«Che noi sappiamo, nove. Altri due sono sopravvissuti.»
«E a quelli cosa è successo?»
«Uno è in un ospedale di Baltimora nel polmone d'acciaio. L'altro in una
clinica psichiatrica privata di Denver.»
«E cosa lo spingeva a farlo? Che tipo di pazzia era, la sua?»
Graham guardò fuori dal finestrino verso i passanti sul marciapiede. Par-
lò con voce distaccata, come se dettasse una lettera.
«Lo ha fatto perché gli piaceva. E gli piace ancora. Il dottor Lecter non è
matto, nel senso in cui noi definiamo matta la gente. Ha fatto delle cose or-
rende perché gli piaceva farle. Ma quando vuole si comporta in modo
normalissimo.»
«Come lo chiamano gli psicologi... cosa c'era che non andava in lui?»
«Dicono che è un sociopatico perché non sanno in che altro modo defi-
nirlo. Ha alcune delle caratteristiche di quelli che loro chiamano sociopati-
ci. Non ha assolutamente rimorsi o sensi di colpa. E aveva rivelato il primo
sintomo, il peggiore: fin da bambino era sadico con gli animali.»
Springfield grugnì.
«Ma non ha nessuna delle altre caratteristiche» proseguì Graham. «Non
era uno sbandato, non aveva precedenti penali. Non era poco intelligente e
afflitto da piccole manie, come la maggior parte dei sociopatici. Non è pri-
vo di sensibilità. Non sanno come definirlo. I suoi elettroencefalogrammi
mostrano un andamento strano, ma nessuno è stato in grado di capirne
molto.»
«Tu come lo definiresti?»
Graham esitò.
«Tra te e te, come lo definiresti?»
«È un mostro. Io lo vedo come una di quelle creature penose che ogni
tanto nascono negli ospedali. Le alimentano, le tengono al caldo, ma se
non le mettono in qualche macchina muoiono. Nel cervello Lecter è pro-
prio come quelli, ma di aspetto è normale e nessuno è in grado di accor-
gersene.»
«Nell'associazione dei capi di polizia ho un paio di amici che sono di
Baltimora. E gli ho domandato come avevi fatto a trovare Lecter. Mi han-
no detto che non lo sapevano. Come hai fatto? Qual è stato il primo indi-
zio, la prima cosa che hai sentito?»
«È stata una coincidenza» disse Graham. «La sesta vittima era stata uc-
cisa nel suo laboratorio. Aveva tutta un'attrezzatura per la lavorazione del
legno e teneva lì l'equipaggiamento da caccia. Era stato legato alla rastrel-
liera dov'erano appesi gli utensili e letteralmente fatto a pezzi. Tagliato e
squartato. Aveva delle frecce piantate nel corpo. Le ferite mi ricordavano
qualcosa. Ma non riuscivo a ricordare cosa.»
«E hai dovuto vedere anche quelli successivi.»
«Sì. Lecter era assatanato... i tre assassinii successivi li ha commessi nel
giro di nove giorni. La sesta vittima però sulla coscia aveva due vecchie
cicatrici. Il medico legale ha controllato all'ospedale locale: ha scoperto
che era caduto da un albero cinque anni prima, mentre cacciava con l'arco,
e si era infilato una freccia nella gamba.
«Il dottore che aveva firmato la cartella sanitaria era del reparto chirur-
gia, ma il primo ad assistere la vittima era stato Lecter, che era di turno al
pronto soccorso. C'era il suo nome sulla cartella di ricovero. Era passato un
bel po' di tempo dall'incidente, ma a me è venuto in mente che Lecter forse
ricordava se qualcosa gli era sembrato strano riguardo a quella ferita, così
andai a trovarlo nel suo ufficio. Ci aggrappavamo a qualunque cosa.
«All'epoca faceva lo psichiatra. Aveva un bell'ufficio. Mobili antichi. Mi
disse che ricordava poco di quella ferita di freccia, che la vittima era stata
portata da uno dei compagni di caccia, nient'altro.»
«Però c'era qualcosa che non mi convinceva. Pensavo che fosse qualcosa
che Lecter aveva detto, o qualcosa nello studio. Crawford e io control-
lammo tutto. Controllammo le schedature ma Lecter non aveva precedenti.
Avrei voluto potermene stare solo per un po' di tempo nel suo ufficio, ma
non avevamo niente in mano e non riuscimmo a ottenere il mandato.
Quindi andai a trovarlo di nuovo.
«Era domenica, visitava solo di domenica. Il palazzo era vuoto, solo un
paio di persone in sala d'attesa. Mi vide subito. Ad un certo punto, mentre
chiacchieravamo e lui si sforzava di darmi una mano, alzai gli occhi verso
un vecchio libro di medicina sullo scaffale sopra la sua testa. Capii che era
lui.
«Quando lo guardai di nuovo, chissà, forse avevo cambiato espressione.
Sapevo che era lui e lui sapeva che lo sapevo. Però non riuscivo a capire
perché. Non mi fidavo della sensazione. Dovevo trovare un motivo. Dissi
qualcosa e uscii nell'atrio, dove c'era un telefono a gettoni. Non volevo
metterlo in agitazione finché non fosse venuto qualcuno a darmi una mano.
Mi ero appena messo in contatto con il centralino della polizia quando lui
uscì dalla porta di servizio a piedi nudi... non l'ho sentito arrivare. Sentii il
suo respiro e poi... poi successe il resto.»
«Comunque, come avevi capito che era lui?»
«Me ne sono reso conto una settimana dopo, in ospedale. Era L'Uomo
Ferito, un'illustrazione che si trovava spesso nei vecchi trattati di medicina
come quello che avevo visto nel suo ufficio. Si vedono vari tipi di ferite di
guerra, tutte sulla stessa persona. Io quella l'avevo vista a un corso di pato-
logia che avevo seguito. La posizione della sesta vittima e le ferite assomi-
gliavano moltissimo a quelle dell'Uomo Ferito.»
«L'Uomo Ferito, hai detto? Era tutto quello che avevi in mano?»
«Proprio così. Una coincidenza che l'avessi visto. Un colpo di fortuna.»
«Altro che fortuna.»
«Se non mi credi, perché cazzo me l'hai chiesto?»
«Non ho sentito.»
«Bene. Non volevo usare questo tono. Comunque così sono andate le
cose.»
«D'accordo» concluse Springfield. «D'accordo. Grazie per avermene
parlato. Mi è utile sapere cose del genere.»
La descrizione di Parsons e le informazioni relative al gatto e al cane
rappresentavano possibili indicazioni dei metodi dell'assassino. Pareva
probabile che esplorasse la zona travestito da incaricato della lettura dei
contatori e che provasse l'impulso irresistibile di ferire gli animali dome-
stici delle vittime prima di uccidere tutta la famiglia.
Il problema immediato che la polizia si trovava a dover affrontare era
quello di decidere se era opportuno rendere pubblica o meno questa teoria.
Se il pubblico fosse stato informato dei segnali di pericolo, la polizia a-
vrebbe potuto venir avvertita in anticipo del prossimo attacco... ma proba-
bilmente anche l'assassino leggeva i giornali.
Avrebbe potuto cambiare abitudini.
All'interno del dipartimento erano fermamente convinti che dovessero
essere tenuti nascosti anche i minimi indizi, da comunicare esclusivamente
attraverso una circolare inviata ai veterinari e ai ricoveri di animali di tutta
la regione sudorientale chiedendo un rapporto immediato su tutte le mu-
tuazioni subite da animali domestici.
Questo però significava non avvertire nel miglior modo possibile i citta-
dini. Era una questione morale che provocava una situazione di disagio per
la polizia.
Venne consultato il dottor Alan Bloom di Chicago. Il dottore disse che
se l'assassino avesse letto l'avviso sui giornali probabilmente avrebbe cam-
biato il metodo di esplorazione del campo. Dubitava però che l'uomo fosse
capace di smettere di aggredire gli animali domestici, qualunque fosse il
rischio a cui andava incontro. Lo psichiatra inoltre spiegò alla polizia che
non dovevano affatto dare per scontato che rimanevano venticinque giorni
per lavorare, cioè il periodo prima della luna piena del 25 di agosto.
Il mattino del 31 luglio, tre ore dopo aver ottenuto la descrizione di Par-
sons, in una riunione telefonica tra la polizia di Birmingham e di Atlanta e
Crawford, a Washington, si giunse a una decisione. Si sarebbe inviato un
bollettino riservato ai veterinari, il quartiere sarebbe stato passato al setac-
cio con l'identikit dell'assassino, poi l'informazione sarebbe stata comuni-
cata ai giornali.
Per tre giorni Graham e gli investigatori di Atlanta calcarono i marcia-
piedi mostrando l'identikit agli abitanti del quartiere dov'erano vissuti i Le-
eds. Lo schizzo suggeriva appena i lineamenti, ma la loro speranza era
quella di trovare qualcuno che fornisse altri particolari.
La copia dell'identikit di Graham si rammollì a forza di essere bagnata
dal sudore delle mani. Spesso era difficile convincere la gente ad aprire la
porta. Di sera Graham se ne stava seduto sul letto in camera sua dopo es-
sersi cosparso di talco le vesciche provocate dal caldo. Con la mente con-
tinuava a girare intorno al problema come se fosse un ologramma. Solleci-
tava quella particolare sensazione che precede la nascita di un'idea, che pe-
rò si rifiutava di arrivare.
Intanto ad Atlanta ci furono quattro incidenti, uno dei quali mortale: le
casalinghe sparavano ai loro uomini che rincasavano tardi. Si moltiplica-
rono le telefonate degli sciacalli e al comando di polizia andò accumulan-
dosi una fila di segnalazioni inutili. La disperazione si diffondeva come u-
n'epidemia di influenza.
Crawford tornò da Washington la sera del terzo giorno, fece un salto da
Graham e lo trovò in camera che si toglieva le calze bagnate di sudore.
«Lavoro duro?»
«Prova ad andare in giro con un identikit domani mattina e vedrai.»
«Inutile, stasera la notizia passa ai telegiornali. Hai camminato tutto il
giorno?»
«Non potevo entrare nei giardini in macchina.»
«Sapevo che non ne sarebbe venuto fuori niente da quel giro porta a por-
ta» disse Crawford.
«Be', che diavolo ti aspettavi che facessi?»
«Il meglio che potevi, nient'altro.» Crawford si alzò per andarsene.
«Qualche volta, tenermi occupato con il lavoro è stato come un narcotico,
specialmente dopo che avevo smesso di sbronzarmi. Per te è lo stesso, cre-
do.»
Graham era irritato. Ovviamente si rendeva conto che Crawford aveva
ragione.
Graham per carattere tendeva a procrastinare le cose e lo sapeva. Molto
tempo prima, a scuola, aveva ovviato alla cosa con le anfetamine. Ora non
era più a scuola.
C'era qualcos'altro che poteva fare: lo sapeva da giorni. Poteva aspettare
finché la disperazione, pochi giorni prima della luna piena, non l'avrebbe
spinto a farlo. Oppure poteva farlo subito, quando ancora poteva rivelarsi
utile.
Aveva bisogno di un parere. Sentiva il bisogno di condividere un punto
di vista molto insolito; un atteggiamento mentale che doveva recuperare,
dopo quegli ultimi anni caldi e piacevoli trascorsi nei Keys.
I motivi schioccavano secchi come le ruote di un carrello delle "monta-
gne russe" che accelera dopo la prima spinta; una volta presa velocità, sen-
za rendersi conto di premersi il ventre con le mani lo disse ad alta voce.
«Devo vedere Lecter.»

Il dottor Frederick Chilton, direttore dell'ospedale di Stato di Chesapea-


ke per i pazzi criminali — il manicomio criminale di stato — girò intorno
alla scrivania per stringergli la mano.
«Il dottor Bloom mi ha telefonato ieri, signor Graham... o magari devo
chiamarla dottor Graham?»
«Non sono dottore.»
«Mi ha fatto molto piacere sentire il dottor Bloom, ci conosciamo da
tanti anni. Sieda, la prego.»
«Apprezziamo la sua collaborazione, dottor Chilton.»
«Francamente, a volte mi sembra di essere più il segretario di Lecter che
il suo custode» spiegò Chilton. «È già una seccatura il volume della sua
corrispondenza. Secondo me, alcuni studiosi ritengono che sia chic entrare
in corrispondenza con lui — in certi dipartimenti di psicologia ho visto
delle sue lettere in cornice — e per un po' è sembrato che tutti i candidati
al dottorato di ricerca nel settore volessero intervistarlo. Naturalmente so-
no contento di collaborare con lei e con il dottor Bloom.»
«Devo vedere il dottor Lecter con la massima segretezza possibile» fece
notare Graham. «E può darsi anche che debba rivederlo o telefonargli.»
Chilton annuì. «Come prima cosa, il dottor Lecter dovrà rimanere nella
sua cella. È l'unico posto — l'unico — in cui possa stare senza manette.
Una parete della cella ha una doppia grata che si apre sull'atrio. Farò porta-
re una sedia e, se lei lo desidera, anche uno schermo.»
«Devo chiederle di non passargli nessun oggetto, solo fogli di carta sen-
za fermagli né graffette. Niente raccoglitori a molla, matite o penne. Ha già
i suoi pennarelli.»
«Forse devo mostrargli del materiale che potrebbe stimolarlo» osservò
Graham.
«Può fargli vedere tutto quello che vuole, purché sia su carta morbida.
Gli passi i documenti attraverso la fessura per il cibo. Non gli allunghi nul-
la attraverso la barriera e non prenda nulla che potrebbe porgerle. I docu-
menti potrà restituirglieli sempre attraverso la fessura. Su questo insisto. Il
dottor Bloom e il signor Crawford mi hanno assicurato che lei si sarebbe
adattato a questa procedura.»
«Senz'altro,» disse Graham. Fece il gesto di alzarsi.
«So che lei è ansioso di procedere, signor Graham, ma prima vorrei dirle
una cosa che la interessa.»
«Può sembrare superfluo mettere in guardia proprio lei sul conto di Lec-
ter. Ma Lecter ha un atteggiamento molto disarmante. Quando l'hanno por-
tato qui, per un anno si è comportato perfettamente, e sembrava collabo-
rasse ai nostri tentativi di terapia. Come conseguenza — questo è avvenuto
con il direttore precedente — le misure di sicurezza intorno a lui si sono
leggermente allentate.
«Il pomeriggio dell'8 luglio 1976 ha detto di soffrire di dolori al torace.
In infermeria gli vennero tolte le manette per fargli l'elettrocardiogramma.
Uno dei secondini uscì dalla stanza un attimo per fumarsi una sigaretta e
l'altro si voltò per non più di un secondo. L'infermiera era molto svelta e
robusta. Riuscì a salvarsi un occhio.
«Questo dovrebbe essere interessante per lei.» Chilton prese la striscia di
un elettrocardiogramma da un cassetto e lo srotolò sulla scrivania. «Qui è
disteso sul lettino» disse seguendo la traccia coll'indice, «72 pulsazioni.
Qui afferra l'infermiera per la testa e se la tira addosso. E qui viene immo-
bilizzato dal secondino. Incidentalmente, non ha opposto resistenza mal-
grado il secondino gli abbia slogato la spalla. Ha notato la stranezza? Le
pulsazioni non sono mai salite oltre gli 85. Anche quando le ha strappato la
lingua.»
Chilton non riuscì a leggere nulla sul viso di Graham. Si rilassò contro lo
schienale della poltrona e intrecciò le dita sotto il mento. Aveva le mani
secche e consunte.
«Sa, quando Lecter è stato catturato pensavamo di avere la possibilità
unica di studiare un sociopatico puro,» disse Chilton. «È così raro pren-
derne uno vivo. Lecter è talmente lucido, talmente perspicace; ha studiato
psichiatria ed è un assassino plurimo. Pareva collaborasse e noi pensavamo
che potesse aprirci uno spiraglio su queste forme di aberrazione. Pensava-
mo di trovarci nella situazione di Beaumont quando studiava la digestione
attraverso la fistole nello stomaco di St. Martin.»
«In realtà, credo che attualmente non siamo più vicini a capirlo di quanto
non lo fossimo quando è entrato. Lei ha mai avuto occasione di parlare con
Lecter?»
«No. L'ho visto solo quando... l'ho visto quasi solo in tribunale. Il dottor
Bloom mi ha mostrato gli articoli apparsi sui giornali» disse Graham.
«Lui invece conosce molto bene lei, signor Graham. Ha riflettuto molto
su di lei.»
«Ha fatto delle sedute con lui?»
«Sì. Dodici. È impenetrabile. Conosce troppo bene i test perché da que-
sti se ne possa tirare fuori qualcosa. Edwards, Fabré, persino il dottor Blo-
om, hanno avuto dei colloqui. Ho qui i loro appunti. Anche per loro è ri-
sultato un enigma. Ovviamente è impossibile dire che cosa nasconda, op-
pure se capisca più di quanto non è disposto a dire. Oh, dopo la condanna
ha scritto alcuni articoli brillanti per l'"American Journal of Psychiatry",
dove però tratta problemi che non sono i suoi. Credo tema che se lo "risol-
viamo" — per così dire — nessuno si interesserà più di lui e se ne rimarrà
chiuso in una cella per tutta la vita.»
Una pausa. Chilton aveva imparato a servirsi della visione periferica per
tener d'occhio i pazienti durante i colloqui e pensava di poter osservare
Graham senza farsi accorgere.
«Qui siamo tutti dell'opinione che l'unica persona che abbia una cono-
scenza pratica di Hannibal Lecter sia lei, signor Graham. Potrebbe dirmi
qualcosa sul suo conto?»
«No.»
«C'è una domanda che si pongono alcuni del nostro staff: quando lei ha
visto le vittime degli assassinii di Lecter — il suo "stile", per così dire — è
stato per caso in grado di ricostruire le sue fantasie? E questo le è stato
d'aiuto nell'identificarlo?»
Graham non rispose.
«Siamo molto a corto di materiale relativo a casi del genere. C'è un solo
articolo apparso sul "Journal of Abnormal Psychology". Le dispiacerebbe
parlarne con qualcuno dei nostri psichiatri? No, no, non oggi — il dottor
Bloom ha insistito molto su questo. Dobbiamo lasciarla in pace. La pros-
sima volta, magari.»
Il dottor Chilton in vita sua aveva visto molta ostilità: in una certa misu-
ra la osservava anche in quel momento.
Graham si alzò. «La ringrazio, dottore, Vorrei vedere Lecter, adesso.»

Il portone d'acciaio della sezione di massima sicurezza si chiuse alle sue


spalle. Sentì il catenaccio scivolare nella sua sede. Graham sapeva che il
dottor Lecter dormiva per gran parte della mattinata. Guardò verso il fondo
del corridoio. Da dove si trovava non vedeva nella cella di Lecter, ma di-
stingueva che le luci interne erano abbassate.
Voleva osservare Lecter mentre dormiva. Voleva avere il tempo di frap-
porre una barriera. Se avesse sentito montargli nella testa la follia di Lec-
ter, doveva metterla sotto controllo immediatamente.
Per coprire il rumore dei propri passi seguì un inserviente che spingeva
un carrello con la biancheria. Era molto difficile cogliere di sorpresa il dot-
tor Lecter.
Si fermò verso la fine del corridoio. L'intera parete anteriore della cella
era chiusa da sbarre d'acciaio. Dietro le sbarre, in una posizione in cui era
impossibile afferrarla, c'era una spessa rete di nylon tesa dal soffitto al pa-
vimento per tutta la larghezza della cella. Attraverso la barriera si vedeva-
no un tavolino e una sedia inchiavardati al pavimento. Il tavolino era co-
perto di libri non rilegati e di corrispondenza. Si avvicinò alle sbarre, vi
posò le mani, poi le tolse.
Il dottor Hannibal Lecter dormiva disteso sulla branda, la testa appog-
giata a un cuscino contro la parete. Sul petto era posato, aperto, Le Grand
Dictionnaire de Cuisine di Alexandre Dumas.
Ebbe appena cinque secondi di tempo per osservarlo al di là delle sbarre,
poi Lecter aprì gli occhi e disse: «È lo stesso disgustoso dopobarba che a-
vevi in tribunale.»
«A Natale me lo regalano sempre.»
Il dottor Lecter aveva occhi castani che riflettevano puntini rossi di luce.
Graham sentì i peli che gli si rizzavano sul collo. Si posò una mano sulla
nuca.
«Natale, sì» disse Lecter. «Hai ricevuto il mio biglietto d'auguri?»
«Sì. Grazie.»
Il biglietto d'auguri natalizi del dottor Lecter era stato inoltrato a Graham
dal laboratorio criminale dell'FBI di Washington. Graham l'aveva portato
dietro casa, l'aveva bruciato, poi si era lavato le mani prima di toccare
Molly.
Lecter si alzò e si avvicinò al tavolo. Era un uomo piccolo, esile. Molto
ordinato. «Perché non ti siedi, Will? Credo che ci siano delle sedie pieghe-
voli in un armadietto da quella parte. Per lo meno mi pare che sia da lì che
arrivano.»
«L'inserviente ne sta portando una.»
Lecter rimase in piedi finché Graham non fu seduto. «E come sta l'agen-
te Stewart?» chiese.
«Sta bene.» L'agente Stewart aveva abbandonato l'FBI dopo aver visto la
cantina del dottor Lecter; ora dirigeva un motel. Graham non glielo disse.
Non credeva che Stewart sarebbe stato contento di ricevere posta da Lec-
ter.
«Una sfortuna che i suoi problemi emotivi lo abbiano sopraffatto. Se-
condo me era un giovane agente molto promettente. Tu hai mai delle diffi-
coltà, Will?»
«No.»
«Naturale che tu non ne abbia.»
Graham aveva la sensazione che Lecter riuscisse a vedergli dentro il
cranio. La sua attenzione gli sembrava una mosca chiusa dentro.
«Mi fa piacere che tu sia venuto. Quanto è passato... tre anni? I miei vi-
sitatori sono tutti professionisti. Banali specialisti in psichiatria e ottusi
dottori in psicologia di second'ordine di qualche college che nessuno ha
mai sentito nominare. Leccapenne che cercano di proteggere il loro orticel-
lo con qualche articolo sui giornali.»
«Il dottor Bloom mi ha fatto vedere il suo articolo sulle tossicomanie
chirurgiche sul "Journal of Clinical Psychiatry".»
«E...?»
«Molto interessante, persino per un profano.»
«Profano... profano, profano. Un termine interessante» disse Lecter. «Ci
sono in giro così tanti sapienti. Così tanti "esperti" che mangiano fondi al
governo. E mi dici di essere un profano. Però sei stato tu a prendermi, non
è vero, Will? Lo sai come hai fatto?»
«Sono sicuro che lei ha letto la deposizione. C'era dentro tutto.»
«No che non c'era dentro. Sai come hai fatto, Will?»
«È nella deposizione. Che importanza ha, adesso?»
«Per me non ha importanza, Will.»
«Vorrei il suo aiuto, dottor Lecter.»
«Lo immaginavo.»
«A proposito dei casi di Atlanta e di Birmingham.»
«Sì.»
«Sono sicuro che lei avrà letto gli articoli.»
«Ho letto i giornali. Non posso tirarne fuori dei ritagli. Ovviamente non
mi permettono di tenere un paio di forbici. Sai, a volte minacciano di to-
gliermi i libri. Non vorrei che pensassero che m'interesso a faccende mor-
bose.» Rise. Il dottor Lecter aveva denti piccoli, bianchi. «Vuoi sapere
come li sceglie, vero?»
«Pensavo che lei avesse qualche idea in proposito. Le chiedo di dirme-
lo.»
«E perché dovrei?»
Era una domanda che Graham aveva previsto. Al dottor Lecter difficil-
mente sarebbe venuto in mente che così si sarebbe potuta arrestare una se-
rie di omicidi multipli.
«Ci sono cose di cui lei non dispone» disse Graham. «Materiali di ricer-
ca, persino film. Ne parlerei al direttore.»
«Chilton. Devi averlo incontrato prima di venire qui. Un individuo rac-
capricciante, vero? Dimmi la verità, non ti è sembrato che brancicasse con
la tua testa come uno studentello con le mutandine di una ragazza? Ti
guarda con la coda dell'occhio. L'hai notato, vero? Non ci crederai, ma ha
cercato di sottoporre me a un test di appercezione tematica. Se ne stava se-
duto lì come lo Stregatto di Alice aspettando di veder saltar fuori un Mf
13. Pfui. Scusami, dimenticavo che non sei fra i cinti di alloro. È un car-
toncino dove si vede una donna a letto e un uomo in secondo piano. Io a-
vrei dovuto evitare di dare interpretazioni sessuali. Gli ho riso in faccia.
Lui ha lasciato perdere e ha detto a tutti che avevo evitato il carcere grazie
a una sindrome di Ganser... lasciamo perdere, è una faccenda noiosa.»
«Potrebbe aver accesso alla biblioteca di filmati dell'American Medicai
Association.»
«Non credo che mi fareste avere le cose che mi interessano.»
«Provi.»
«Per il momento ho già abbastanza da leggere.»
«Potrebbe vedere il dossier relativo a questo caso. E c'è un altro moti-
vo.»
«Avanti, ti prego.»
«Pensavo che sarebbe stato curioso di scoprire se lei è più intelligente
della persona che sto cercando.»
«E quindi, implicitamente, tu pensi di essere più intelligente, dato che
sei riuscito a catturarmi.»
«No, lo so di non essere più intelligente di lei.»
«E allora come mai mi hai preso, Will?»
«Lei aveva degli svantaggi.»
«Quali svantaggi?»
«La passione. E poi lei è pazzo.»
«Sei molto abbronzato, Will.»
Graham non rispose.
«Hai i calli sulle mani. Non sembrano più mani da poliziotto. Quel do-
pobarba è una cosa che sceglierebbe un bambino. C'è una nave sulla botti-
glia, vero?» Raramente il dottor Lecter stava a capo eretto. Quando faceva
una domanda lo teneva piegato, come se inviasse un pronostico di curiosità
verso l'interlocutore. Ancora silenzio. «Non credere di potermi persuadere
con appelli alla mia vanità intellettuale» disse Lecter.
«Non credo che ci riuscirei. O lei è disponibile oppure no. Del resto ci
sta già lavorando su il dottor Bloom che è il più...»
«Hai con te il dossier?»
«Sì.»
«Ci sono anche delle foto?»
«Sì.»
«Se me le fai vedere potrei prendere in considerazione la cosa.»
«No.»
«Fai molti sogni, Will?»
«Addio, dottor Lecter.»
«Non mi hai ancora minacciato di togliermi i libri.»
Graham si allontanò.
«Allora fammi vedere il dossier. Ti dirò cosa ne penso.»
Graham dovette schiacciare il dossier — incompleto — nella fessura.
Lecter lo ritirò.
«Il sommario è in prima pagina. Può leggerlo adesso» disse Graham.
«Ti dispiace se lo faccio in privato? Dammi un'ora.»
Graham attese su una poltroncina di plastica in una squallida sala d'a-
spetto. Arrivarono degli inservienti per prendere un caffè. Non rivolse loro
la parola. Teneva lo sguardo fisso sugli oggetti nella stanza, contento di
potersi concentrare su di essi. Dovette andare due volte alla toilette. Si sen-
tiva intontito.
Il secondino lo fece entrare di nuovo nella sezione di massima sicurezza.
Lecter sedeva al tavolo, gli occhi persi nella riflessione. Graham sapeva
che aveva trascorso gran parte del tempo guardando le fotografie.
«Questo è un ragazzo timido, Will. Mi piacerebbe moltissimo conoscer-
lo... hai considerato la possibilità che sia sfigurato? O che sia convinto di
esserlo?»
«Gli specchi.»
«Sì. Avrai notato che ha fatto a pezzi tutti gli specchi che c'erano in casa,
ma non solo per prendere i frammenti da usare. Non li pianta addosso per
ferire. Sono stati messi in modo che possa vedere se stesso. Che possa ve-
dersi nei loro occhi — in quelli della signora Jacobi e — come si chiamava
l'altra?»
«Leeds»
«Sì.»
«È molto interessante» disse Graham.»
«Non è "interessante". Tu ci avevi già pensato.»
«Avevo preso in considerazione l'ipotesi.»
«Tu sei venuto qui solo per vedermi. Tanto per sentire di nuovo quel
vecchio profumo, non è vero? Perché non te lo vai ad annusare per conto
tuo?»
«Voglio il suo parere.»
«Per il momento non ne ho.»
«Quando ne avrà uno, mi piacerebbe sentirlo.»
«Posso tenere il dossier?»
«Non ho ancora deciso» rispose Graham.
«Perché non c'è nessuna descrizione del terreno circostante? Qui c'è una
vista frontale delle case, ci sono le piantine, gli schemi delle stanze in cui
quelle persone sono morte, ma si parla poco del terreno circostante. Gli
spiazzi dietro com'erano?»
«Ampi, cintati, con un po' di siepe. Perché?»
«Perché, mio caro Will, se questo pellegrino sente di avere un rapporto
speciale con la luna, forse gli piace uscire di casa e guardarla. Prima di ri-
pulirsi, capisci. Hai mai visto del sangue sotto la luce della luna, Will?
Sembra nero. Naturalmente mantiene quella lucentezza che lo contraddi-
stingue. Se uno, tanto per fare un'ipotesi, fosse nudo, preferirebbe disporre
di un ambiente riparato all'esterno per una cosa del genere. Bisogna avere
un po' di rispetto per i vicini, eh?»
«Lei crede che uno dei fattori nella scelta delle vittime potrebbe essere il
cortile posteriore?»
«Oh, sì. E di vittime ce ne saranno altre, è ovvio. Lasciami il dossier,
Will. Lo studierò. Quando ne avrai degli altri mi piacerebbe vederli. Puoi
telefonarmi. Nelle rare occasioni in cui il mio avvocato mi chiama mi por-
tano un telefono. Prima mi facevano parlare attraverso il citofono, ma ov-
viamente tutti potevano ascoltare. Mi daresti il tuo numero di casa?»
«No.»
«Sai come hai fatto a prendermi, Will?»
«Arrivederci, dottor Lecter. Eventuali messaggi per me li può comunica-
re al numero che trova nel dossier.» Graham si allontanò.
«Sai come hai fatto a prendermi?»
Graham ormai fuori vista si dirigeva accelerando il passo verso il porto-
ne d'acciaio.
«Il motivo per cui mi hai preso è che noi due siamo uguali» fu l'ultima
cosa che Graham udì mentre il portone d'acciaio si chiudeva dietro di lui.
Era intontito ma aveva paura di ritornare in sé. Camminava a testa bassa,
senza rivolgere la parola a nessuno. Sentiva il sangue pulsargli nelle orec-
chie. Gli parve che ci volesse pochissimo per uscire. Il manicomio crimi-
nale era un unico edificio: solo cinque porte fra Lecter e il mondo esterno.
Aveva la sensazione assurda che Lecter fosse uscito insieme a lui. Si fer-
mò sull'ingresso e si guardò intorno per assicurarsi di essere solo.
Da un'auto parcheggiata sul lato opposto della strada, con il teleobiettivo
appoggiato al finestrino, Freddy Lounds riuscì a scattare un'ottima istanta-
nea a Graham di profilo sulla porta dell'ospedale con alle sue spalle le pa-
role scolpite nella pietra: "Ospedale di Stato di Chesapeake per i pazzi
criminali".
Sul "National Tattler" apparve solo un dettaglio della foto, il viso di
Graham e le ultime due parole — pazzo criminale — scolpite nella pietra.

Quando Graham se ne fu andato il dottor Hannibal Lecter se ne rimase


disteso sulla branda a luci spente. Trascorsero diverse ore.
Per un po' si dedicò alle sensazioni tattili; la trama della federa sulle ma-
ni che teneva incrociate dietro la nuca, la membrana liscia che gli delinea-
va la guancia. Poi giocherellò con gli odori. Alcuni erano concreti, altri no.
Avevano versato del cloro negli scarichi: sperma umano. Giù nell'atrio ser-
vivano del chili: tessuto kaki intriso di sudore. Graham non gli aveva volu-
to dare il numero di telefono, l'odore verde, amaro del cockleburr tagliato,
di teaweed.
Si rizzò a sedere. Graham doveva essere tornato alla vita civile. I suoi
pensieri avevano il caldo odore di ottone di un orologio elettrico.
Ammiccò diverse volte e inarcò le sopracciglia. Accese le luci e scrisse
un biglietto a Chilton chiedendogli di poter telefonare al proprio avvocato.
Per legge Lecter aveva il diritto di parlare privatamente con l'avvocato e
finora non ne aveva abusato. Siccome Chilton non gli avrebbe mai per-
messo di andare di persona al telefono gli veniva portato un apparecchio
telefonico in cella.
Arrivarono due secondini con l'apparecchio, svolgendo un lungo cavo
innestato alla presa vicina alla loro scrivania. Uno dei due teneva in mano
le chiavi, l'altro una bomboletta di Mace.
«Vada in fondo alla cella, dottor Lecter. Faccia al muro. Se si volta o si
avvicina alle sbarre prima di aver sentito scattare la serratura, le spruzzo il
Mace in faccia. Capito?»
«Ho capito benissimo» rispose Lecter. «Mille grazie per aver portato il
telefono.»
Per comporre il numero dovette infilare le mani nella rete di nylon. L'uf-
ficio informazioni di Chicago gli diede il numero del dipartimento di psi-
chiatria dell'Università di Chicago e quello dell'ufficio del dottor Bloom.
Lecter chiamò il centralino del dipartimento.
«Sto cercando di mettermi in contatto con il dottor Alan Bloom.»
«Non sono sicuro che oggi sia in sede, comunque le passo il suo uffi-
cio.»
«Un secondo solo. Mi è stato dato il nome della sua segretaria, ma pur-
troppo me lo sono dimenticato.»
«Linda King. Un attimo solo.»
«Grazie.»
Il telefono squillò otto volte prima che qualcuno prendesse la comunica-
zione.
«Ufficio di Linda King.»
«Ciao Linda. Linda?»
«Linda il sabato non viene.»
Era proprio quello che il dottor Lecter sperava. «Forse lei mi può dare
una mano, se non le spiace. Sono Bob Greer, della casa editrice Blaine and
Edwards. Il dottor Bloom mi ha chiesto di inviare una copia del libro di
Overholser, The Psychiatrist and the Law, a un certo Will Graham. Linda
avrebbe dovuto farmi avere l'indirizzo e il numero di telefono, ma non l'ha
mai fatto.»
«Io sono solo una studentessa, Linda sarà qui lun...»
«Senta, devo spedire il libro per posta entro cinque minuti e non vorrei
disturbare il dottor Bloom a casa perché lui aveva detto a Linda di man-
darmelo e non vorrei metterla nei pasticci. Deve essere lì nel suo indirizza-
rio o quello che è. Se me lo trova vengo a ballare al suo matrimonio.»
«Non c'è nessun indirizzario.»
«E se fosse una normale agenda?»
«Sì.»
«Faccia la brava, mi trovi quell'indirizzo che non le faccio più perdere
tempo.»
«Mi ripete il nome?»
«Graham. Will Graham.»
«D'accordo. Ecco, il numero di casa è 305 JL5-7002.»
«Il libro dovrei spedirglielo a casa.»
«Qui l'indirizzo di casa non c'è.»
«Ma c'è un indirizzo?»
«Federal Bureau of Investigation, Tenth and Pennsylvania, Washington,
DC. Oh, e c'è anche Casella Postale 3680, Marathon, Florida.»
«Benissimo, lei è un angelo.»
«È stato un piacere.»
Lecter si sentiva molto meglio. Pensava che avrebbe potuto fare una
sorpresina a Graham telefonandogli qualche volta e magari, se non si fosse
dimostrato cortese, avrebbe potuto far spedire da una ditta di articoli sani-
tari una borsa per colostomia, come ricordo dei vecchi tempi.

Millecento chilometri verso sud ovest, a St. Louis, nella mensa del Ga-
teway Film Laboratory, Francis Dolarhyde aspettava un hamburger. I piatti
della tavola calda erano coperti da una pellicola di plastica. Era fermo ac-
canto al registratore di cassa e beveva del caffè in un bicchiere di carta.
Una ragazza dai capelli rossi che indossava la vestaglia del laboratorio
entrò nel locale e si fermò a esaminare la distributrice automatica di dol-
ciumi. Lanciò diverse occhiate a Francis Dolarhyde, stringendo le labbra.
Alla fine gli si avvicinò e disse: «Il signor D?».
Dolarhyde si voltò. Quando non era in camera oscura metteva sempre un
paio di occhiali rossi. La ragazza si costrinse a fissare il ponte degli oc-
chiali.
«Le dispiacerebbe sedersi qui con me un minuto? Dovrei dirle una co-
sa.»
«Cosa mi puoi dire, Eileen?»
«Che sono davvero spiacente. Bob era ubriaco fradicio e — sa — faceva
un po' il pagliaccio. Non diceva sul serio. La prego, sieda. Un minuto solo.
Le dispiace?»
«Mmmm hmmm.» Dolarhyde non diceva mai «sì» aveva difficoltà a
pronunciare le sibilanti.
Sedettero. Eileen torceva un tovagliolo tra le mani.
«Al party si divertivano tutti, eravamo contenti che fosse venuto anche
lei» disse. «Eravamo davvero contenti e anche sorpresi. Lei sa com'è Bob,
non fa che imitare le voci... dovrebbero prenderlo alla radio. Ha imitato
due o tre persone, ha raccontato barzellette e simili... se vuole parla proprio
come un negro. Quando ha fatto quell'altra voce, non voleva farla sentire a
disagio. Era troppo ubriaco per sapere chi c'era al party.»
«Ridevano tutti... e a un certo punto non ridevano più» Dolarhyde evitò
di dire «hanno smesso di ridere» sempre a causa delle "s".
«È stato quando Bob ha capito quello che aveva fatto.»
«Però ha continuato.»
«Lo so» disse la ragazza, costringendosi a sollevare lo sguardo dal tova-
gliolo verso gli occhiali senza indugiare a metà strada. «Dopo me ne ha
parlato. Ha detto che non c'era nessuna intenzione, e visto che ornai c'era
dentro, ha cercato di tenere in piedi lo scherzo. Lei avrà visto quanto è di-
ventato rosso.»
«Mi ha invitato a... fare un duetto con lui.»
«Ha cercato di metterle un braccio intorno alle spalle, signor D. Voleva
che ridesse anche lei.»
«E mi è venuto da ridere, Eileen.»
«Bob è dispiaciutissimo.»
«Be', non vorrei proprio. Davvero. Glielo dica pure. E comunque qui al
laboratorio non cambierà niente. Cavoli, con un talento come quello di
Bob affronterei... battute di continuo.» Era riuscito a evitare la parola
"scherzi". «Tra non molto faremo una riunione, vedrà che non ce l'ho con
lui.»
«Bene, signor D. Lei lo conosce, dietro tutti quegli scherzi è un ragazzo
molto sensibile.»
«Come no. E anche dolce, immagino.» La voce di Dolarhyde era soffo-
cata dalla mano. Quando era seduto, teneva sempre premuta la nocca del-
l'indice contro la radice del naso.
«Mi scusi?»
«Credo che lei sia la donna adatta per lui, Eileen»
«Lo credo anch'io, davvero. Beve solo durante il weekend. Ha appena il
tempo di cominciare a rilassarsi che sua moglie lo chiama. Fa delle smor-
fie mentre le parla, ma dopo vedo benissimo che è sconvolto. Una donna
queste cose le sa.» Gli toccò leggermente il polso e nonostante gli occhiali
vide che gli occhi di Dolarhyde avevano registrato il contatto. «Non se la
prenda, signor D. Sono contenta che abbiamo parlato.»
«Anch'io, Eileen.»
Dolarhyde la osservò allontanarsi. Aveva un succhiotto nell'incavo del
ginocchio. Credeva, e non sbagliava, di non esserle simpatico. Del resto
non lo era a nessuno.
La grande camera oscura era fresca e odorava di prodotti chimici. Lavo-
rando con la luce rossa Francis Dolarhyde controllò il bagno di sviluppo
nella vasca A. Ogni ora nella vasca passavano centinaia di metri di film
fatti da dilettanti che arrivavano da tutti gli Stati Uniti. Temperatura e fre-
schezza del bagno erano critiche. La responsabilità, così come quella di
tutte le operazioni successive fino all'asciugatura erano sue. Diverse volte
al giorno doveva prendere dalla vasca campioni di film e controllarli foto-
gramma per fotogramma. Il locale era silenzioso. Dolarhyde non voleva
che i suoi assistenti chiacchierassero e comunicava con loro quasi esclusi-
vamente a segni.
Finito l'orario di lavoro rimase solo in camera oscura per sviluppare, a-
sciugare e tagliare alcuni film che aveva girato personalmente.

Tornò a casa verso le dieci di sera. Viveva da solo in una grande casa e-
reditata dai nonni che si ergeva alla fine di un viale coperto di ghiaia in
mezzo a un frutteto a nord di St. Charles, Missouri, sulla sponda opposta
del fiume Missouri rispetto a St. Louis. Il proprietario lasciava il frutteto in
abbandono. Tra gli alberi verdi ne sorgevano altri secchi e contorti. Era la
fine di luglio e in tutto il frutteto aleggiava un odore di mele marce. Di
giorno c'erano molte api. Gli abitanti più vicini vivevano a più di mezzo
chilometro di distanza.
Dolarhyde quando tornava a casa faceva sempre un giro di ispezione in-
torno alla casa; alcuni anni prima avevano tentato di rubare. Accese le luci
in tutte le stanze e si guardò in giro. Un visitatore non avrebbe creduto che
vivesse da solo. Negli armadi erano ancora appesi gli abiti dei nonni, sul
cassettone della nonna c'erano ancora le sue spazzole con il pettine. La
dentiera si trovava in un bicchiere sul comodino. L'acqua era ormai evapo-
rata da molto tempo. La nonna era morta dieci anni prima.
L'incaricato delle pompe funebri gli aveva chiesto: «Signor Dolarhyde,
le dispiacerebbe farmi avere la dentiera di sua nonna?» Aveva risposto:
«Le chiuda gli occhi e basta».
Soddisfatto di essere solo in casa, Dolarhyde salì al piano superiore, fece
una lunga doccia e si lavò i capelli.
Indossò un kimono di tessuto sintetico che dava la stessa sensazione del-
la seta e si distese sul lettino nella stanza che aveva occupato fin dall'in-
fanzia. Il casco asciugacapelli della nonna aveva una cuffia di plastica con
un tubo. Si infilò la cuffia e aspettando che i capelli asciugassero, sfogliò
una nuova rivista d'alta moda. Il disprezzo e la brutalità di alcune fotogra-
fie erano notevoli.
Cominciò a sentirsi eccitato. Mosse il paralume metallico della lampada
da tavolo illuminando una stampa sulla parete ai piedi del letto, era Il Dra-
go Rosso e La Donna Vestita di Sole.
Quell'immagine lo aveva lasciato stupefatto la prima volta che l'aveva
vista. Mai in precedenza aveva visto qualcosa che si avvicinasse alle im-
magini che aveva in testa. Sentiva che Blake doveva avergli letto nel pen-
siero, doveva aver visto il Drago Rosso. Per settimane Dolarhyde era vis-
suto con la preoccupazione che i pensieri potessero uscirgli dalle orecchie
come una nebbia luminosa, rendersi visibili nella camera oscura, danneg-
giare i film. Si era infilato dei batuffoli di cotone nelle orecchie. Poi te-
mendo che il cotone fosse troppo infiammabile, aveva provato a mettere
della paglietta di ferro. Le orecchie però sanguinavano. Infine aveva taglia-
to dei pezzettini di amianto dal supporto di un ferro da stiro e ne aveva fat-
to delle palline che poteva infilarsi nelle orecchie.
Il Drago Rosso per molto tempo era stato tutto quel che aveva. Ora non
più. Avvertì l'erezione.
Avrebbe voluto arrivarci lentamente, ma ormai non poteva più aspettare.
Chiuse i pesanti tendaggi delle finestre del salotto al piano terreno, poi
piazzò schermo e proiettore. Il nonno, malgrado le obiezioni della nonna,
in salotto aveva sistemato una poltrona dallo schienale pieghevole (la non-
na aveva subito messo un centrino sul poggiatesta). Ma ora Dolarhyde era
contento della decisione del nonno: la poltrona era molto confortevole. Po-
sò un asciugamano sul bracciolo.
Spense le luci. Reclinato nella camera al buio, avrebbe potuto trovarsi
dovunque. Al soffitto aveva appeso un impianto a luci rotanti che proietta-
vano chiazze multicolori sulle pareti, sul pavimento, sulla sua pelle. A-
vrebbe potuto benissimo essere sul lettino antigravità di un'astronave, in
una bolla di vetro tra le stelle. Quando chiudeva gli occhi gli pareva di sen-
tire i cerchietti di luce passargli sul corpo e quando li riapriva quelle pote-
vano benissimo essere le luci di una città, sopra o sotto di lui. Non c'erano
più né alto né basso. L'apparecchio, scaldandosi, aumentava la velocità di
rotazione e i circoli di luce gli passavano sul corpo, si allargavano in for-
mazione sui mobili, cadevano come piogge di meteoriti lungo le pareti.
Avrebbe potuto trovarsi in una cometa che si tuffava nella Nebulosa del
Granchio.
Un solo posto era riparato dalla luce. Dolarhyde aveva sistemato vicino
all'apparecchio un cartoncino che proiettava un'ombra sullo schermo cine-
matografico.
Qualche volta, in futuro, avrebbe fumato prima, per aumentare l'effetto.
Ma questa volta non ce n'era bisogno.
Toccò il telecomando per avviare il proiettore. Sullo schermo apparve un
rettangolo bianco che divenne grigio attraversato da una striscia rossa
mentre la testa della pellicola passava davanti all'obiettivo, poi il terrier
grigio rizzò le orecchie e corse verso la porta di cucina tremando e agitan-
do il mozzicone di coda. Uno stacco e si vide il cane correre lungo il mar-
ciapiede, voltando il muso per mordere, sempre correndo.
Ora in cucina entrava la signora Leeds con la spesa. Scoppiò a ridere e si
accarezzò i capelli. La seguirono i bambini.
Un altro stacco: l'immagine malamente illuminata di Dolarhyde nella
camera da letto del primo piano. È in piedi, nudo; davanti a lui la stampa
de Il Drago Rosso e la Donna Vestita di Sole. Indossa un paio di "occhiali
da combattimento", del tipo avvolgente, il preferito dai giocatori di ho-
ckey. Ha un'erezione che stimola con una mano.
L'immagine si fa sfuocata mentre Dolarhyde si avvicina alla cinepresa
con movimenti stilizzati; una mano si allunga per cambiare la lunghezza
focale mentre il viso riempie lo schermo. L'immagine tremola, diviene im-
provvisamente netta fermandosi su un dettaglio della bocca, il labbro supe-
riore sfigurato rovesciato all'indietro, la lingua che spunta tra i denti, un
occhio ancora nell'inquadratura. La bocca riempie lo schermo e le labbra,
vibranti, lasciano vedere i denti irregolari; lo schermo si oscura quando
l'obiettivo entra in bocca.
Le difficoltà di ripresa nel pezzo successivo sono evidenti.
Un cerchio di luce saltellante inquadra il letto sul quale Charles Leeds
cerca di liberarsi dalle coperte; la signora Leeds si rizza a sedere riparan-
dosi gli occhi, si volta verso il marito e gli posa le mani addosso poi rotola
verso il bordo del letto e cerca di alzarsi, le gambe impacciate dalle coper-
te. La cinepresa punta bruscamente verso il soffitto, le modanature passano
rapide sullo schermo, l'immagine si stabilizza. La signora Leeds è di nuovo
distesa sul letto, una macchia scura si spande sulla camicia da notte, men-
tre il marito, coprendosi il collo con le mani e un'espressione selvaggia ne-
gli occhi, fa per alzarsi. Lo schermo diventa scuro, si sente il rumore di un
taglio.
Ora la cinepresa è immobile, fissata a un treppiede. Ora sono tutti morti.
Messi in posa. Due bambini seduti contro la parete di fronte al letto, uno
contro la parete di fronte alla cinepresa. Marito e moglie sono distesi sul
letto, nascosti dalle coperte. Il signor Leeds appoggia la schiena alla spal-
liera del letto, il lenzuolo copre la corda che gli stringe il torace, la testa è
piegata di lato.
Dolarhyde entra in scena da sinistra con i movimenti stilizzati di un dan-
zatore balinese. Coperto di sangue e nudo, se si eccettuano guanti e occhia-
li, si mette in posa e saltella tra i morti. Si avvicina al lato del letto lontano
dall'obiettivo, quello della signora Leeds, prende un angolo delle coperte e,
con un colpo secco, le butta lontano fermandosi in posa come se avesse
appena eseguito una Veronica.
Guardando la scena nel salotto dei nonni, Dolarhyde si ritrovò coperto di
sudore. Con la lingua spessa leccava di continuo la cicatrice sul labbro su-
periore mugolando e stimolandosi.
Ma persino al culmine del piacere gli dispiacque vedere che nella scena
successiva aveva perso tutta la sua grazia e l'eleganza di movimenti, met-
tendosi a grufolare come un maiale, con il sedere goffamente rivolto verso
la cinepresa. Mancavano pause drammatiche e senso di pace, il crescendo
dell'azione mancava di gradualità, di ritmo... solo una frenesia brutale.
Comunque era ugualmente una cosa meravigliosa. Era meraviglioso
guardare il film. Non però quanto l'azione ripresa.
I due difetti più appariscenti, pensava, erano, uno, il fatto che nel film
non veniva mostrata la morte dei Leeds e, due, la sua interpretazione sca-
dente verso la fine. Tutti i suoi valori parevano andare perduti. Il Drago
Rosso non si sarebbe comportato così.
Bene. Aveva ancora molti film da fare e, con l'esperienza, sperava che
sarebbe riuscito a conservare un certo distacco estetico persino nei mo-
menti più intimi.
Doveva riuscirci. Questa era l'opera della sua vita, un'impresa magnifica.
Sarebbe sopravvissuta in eterno.
Doveva accelerare le cose, scegliere altri attori. Aveva già preparato una
copia di svariati picnic familiari per il 4 di luglio. Con la fine dell'estate al
laboratorio il lavoro, come sempre, aumentava di netto a mano a mano che
arrivavano i film delle vacanze. Un'altra ondata sarebbe arrivata dopo il
Giorno del Ringraziamento.
Le famiglie gli mandavano ogni giorno la loro richiesta di parteci-
pazione al film.

L'aereo da Washington a Birmingham era mezzo vuoto. Graham scelse


una poltrona accanto al finestrino senza nessuno a fianco.
Rifiutò lo squallido sandwich offerto dalla hostess e posò sul tavolino la
pratica Jacobi. Sulla cartelletta aveva elencato i dati comuni tra la famiglia
Jacobi e la famiglia Leeds.
Entrambe le coppie avevano passato da un bel po' la trentina, entrambe
avevano figli: due maschi e una femmina. Edward Jacobi aveva un altro
figlio, nato da un matrimonio precedente, che si trovava al college quando
la famiglia era stata assassinata.
In tutti e due i casi i genitori avevano un'educazione universitaria e vive-
vano in villette a un piano in un bel quartiere suburbano. La signora Jacobi
e la signora Leeds erano donne attraenti. Le famiglie avevano alcune carte
di credito della stessa organizzazione ed erano abbonate ad alcune delle
stesse riviste a grande diffusione.
Qui però gli elementi comuni terminavano. Charles Leeds era consulente
fiscale, mentre Edward Jacobi era tecnico metallurgico. La famiglia di At-
lanta era di religione presbiteriana mentre gli Jacobi erano cattolici. I Le-
eds avevano sempre vissuto ad Atlanta, gli Jacobi s'erano trasferiti a Bir-
mingham da soli tre mesi, provenienti da Detroit.
L'aggettivo "casuale" continuava a risuonare nella testa di Graham come
una goccia che cade da un rubinetto; «scelta casuale delle vittime», «nes-
sun motivo evidente»... erano le definizioni, usate dai giornali, che gli in-
vestigatori ripetevano, rabbiosi e frustrati, nella sala riunioni della squadra
omicidi.
"Casuale" però non rendeva con precisione la situazione. Graham sapeva
che i responsabili di massacri e di omicidi in serie non scelgono a caso le
vittime.
L'uomo che aveva ucciso gli Jacobi e i Leeds aveva visto in loro qualco-
sa che l'aveva attratto e spinto a fare quel che aveva fatto. Poteva conoscer-
li bene — Graham lo sperava — oppure non conoscerli affatto. Era però
sicuro che l'assassino li avesse visti qualche tempo prima di ucciderli. Li
aveva scelti perché per lui qualcosa aveva un significato preciso e, al cen-
tro di tutto, c'erano le donne. Di cosa si trattava?
C'erano alcune differenze tra i due delitti.
Edward Jacobi era stato colpito da un'arma da fuoco mentre scendeva le
scale con una torcia elettrica in mano: probabilmente era stato svegliato da
un rumore.
La signora Jacobi e i bambini erano stati uccisi con un colpo in testa; la
signora Leeds con un colpo all'addome. L'arma era una pistola automatica
9 mm in ambedue i casi. Nelle ferite erano state trovate tracce di paglietta
d'acciaio, che indicavano l'impiego di un silenziatore di costruzione arti-
gianale. Sui bossoli non c'erano impronte.
Il coltello era stato impiegato solo con Charles Leeds. Il dottor Princi
pensava che fosse a lama sottile e molto affilato, probabilmente un coltello
per tagliare la carta.
Anche per introdursi in casa erano stati impiegati due metodi diversi; nel
caso degli Jacobi era stata forzata la porta del patio, con i Leeds era stato
usato un tagliavetri.
Sulle fotografie del delitto di Birmingham non si vedeva tanto sangue
quanto ne era stato trovato in casa dei Leeds; anche nel primo caso però
sulla parete della camera da letto erano state trovate macchie di sangue a
un'altezza di una cinquantina di centimetri. Quindi anche a Birmingham
l'assassino si era preparato un pubblico. La polizia di Birmingham aveva
esaminato i cadaveri, comprese le unghie, per vedere se c'erano impronte
digitali, ma non aveva trovato nulla. Un mese dopo la sepoltura, d'estate, a
Birmingham, eventuali impronte come quelle trovate in casa Leeds non
potevano che essere scomparse.
In tutte e due le case erano stati trovati gli stessi capelli biondi, la stessa
saliva, lo stesso sperma.
Graham appoggiò le fotografie dei due gruppi familiari sorridenti allo
schienale della poltrona davanti e rimase a fissarle a lungo nel silenzio so-
speso dell'aereo.
Che cosa aveva attirato l'assassino verso di loro e non verso altri? Gra-
ham, con tutte le sue forze, voleva convincersi che ci fosse un fattore co-
mune e che presto l'avrebbe trovato.
Altrimenti avrebbe dovuto entrare in altre case per vedere che cosa gli
aveva lasciato il Lupo Mannaro.
Graham ricevette ordini dall'ufficio dell'FBI di Birmingham e annunciò
il proprio arrivo alla polizia telefonando dall'aeroporto. L'auto, una utilita-
ria noleggiata, spruzzava dal condizionatore gocce d'acqua che gli cadeva-
no sulle braccia e sulle mani.
Si fermò all'agenzia immobiliare Geehan, in Dennison Avenue.
Geehan, un uomo alto, calvo, si affrettò a venirgli incontro. Il sorriso
svanì quando Graham gli mostrò il tesserino e chiese la chiave di casa Ja-
cobi.
«Ci saranno anche dei poliziotti in uniforme?» chiese portandosi una
mano sul cranio.
«Non so.»
«Spero proprio di no, oggi devo farla vedere a due probabili clienti. Una
bella casa. La gente la vede e lascia perdere questa. Giovedì scorso ho avu-
to una coppia di Duluth, pensionati con i soldi, che non ne potevano più di
stare nella Sun Belt. Avevo già portato avanti le trattative e parlavo delle
rate — voglio dire che quelli potevano dare addirittura un terzo in contanti
— quando è arrivata un'autopattuglia. Gli hanno fatto delle domande e,
Cristo, se hanno ottenuto le risposte... Quei bravi agenti gli hanno raccon-
tato tutto, da cima a fondo: dove avevano trovato uno, dove avevano trova-
to l'altro. E, a questo punto, arrivederci caro il mio Geehan, spiacente di
averle fatto perdere tempo. Ho cercato di fargli vedere tutti gli impianti
d'allarme che ci avevamo messo ma non mi hanno dato retta. Sono filati
via lungo il vialetto sulla loro Sedan de Ville.»
«Per caso sono venuti degli uomini soli a vederla?»
«A me non l'hanno chiesto. La casa è in mano a diverse agenzie. Però
non credo. La polizia... non so quando ci ha dato il permesso di ridipinger-
la, abbiamo finito solo martedì scorso. Ci sono volute due mani di vernice,
in certi punti tre. Fuori stiamo ancora lavorando. Farà proprio un bell'effet-
to.»
«Come fa a venderla prima che venga stabilita la successione?»
«Infatti non posso concludere la vendita prima di allora, ma questo non
vuol dire che non si possa essere già pronti. Ho bisogno di fare qualcosa. Il
documento ce l'ha in mano un mio socio e gli interessi salgono giorno e
notte, anche quando si dorme.»
«Chi è l'esecutore testamentario del signor Jacobi?»
«Byron Metcalf, dello studio Metcalf e Barnes. Quanto pensa che ci sta-
rà in quella casa?»
«Non so. Finché non avrò finito.»
«Può lasciare la chiave nella cassetta delle lettere. Non c'è bisogno che
ritorni qui.»

Graham aveva la netta sensazione che la pista fosse ormai fredda. La ca-
sa era all'estrema periferia, in una zona entrata da poco a far parte della cit-
tà. Si fermò un attimo sul bordo della superstrada per controllare la mappa
poi trovò l'uscita che si immetteva su una strada secondaria asfaltata.
Era passato più di un mese dal massacro. Cosa stava facendo in quel pe-
riodo? Metteva una coppia di motori diesel in uno scafo Rybovich da 18
metri, faceva segno ad Ariaga che manovrava la gru di far scendere il mo-
tore ancora un centimetro. Molly era venuta a trovarlo nel tardo pomerig-
gio e tutti e tre si erano messi seduti sotto una tenda nel pozzetto della bar-
ca ancora in costruzione a mangiare i gamberoni portati da Molly, bevendo
birra Dos Equis fredda. Ariaga aveva spiegato come si pulivano i gamberi
d'acqua dolce, mentre i raggi del sole, spezzati dall'acqua, giocavano con-
tro il soffitto della timoneria.
Il condizionatore gli spruzzò un po' d'acqua sulla camicia. Ora si trovava
a Birmingham, non c'erano né gamberoni né gabbiani; alla sua destra si a-
privano pascoli e terreni boscosi con capre e cavalli; alla sua sinistra si e-
stendeva Stonebridge, una vecchia area residenziale con alcune ville ele-
ganti e un certo numero di case di gente ricca.
Vide l'insegna dell'agenzia immobiliare un centinaio di metri prima di
arrivare. La casa degli Jacobi era l'unica sul lato destro della strada. La lin-
fa caduta dai noci americani sulla banchina rendeva appiccicosa la ghiaia
che scrosciava contro i parafanghi dell'auto. Un carpentiere issato su una
scala stava sistemando delle grate alle finestre; salutò con un cenno della
mano Graham che a piedi girava intorno alla casa.
Su un lato si apriva un patio pavimentato con lastre di pietra e ombreg-
giato da una grossa quercia. Di notte l'albero bloccava anche la luce del
lampione sulla strada. Era da qui che il Lupo Mannaro era entrato: attra-
verso le vetrate scorrevoli. Le porte erano state sostituite, sul telaio d'allu-
minio ancora lucido si notava l'adesivo del fabbricante. Una grata di sicu-
rezza in ferro battuto le proteggeva. Anche la porta della cantina — in ac-
ciaio, fissata con chiavistelli — era nuova. Sulle lastre di pietra dell'atrio
erano sparsi i pezzi di una vasca da bagno.
Graham entrò. Pavimenti nudi e aria di chiuso. Nella casa vuota echeg-
giava il rumore dei suoi passi.
Gli specchi nuovi nei locali da bagno non avevano mai riflesso né le fac-
ce della famiglia Jacobi né quella dell'assassino. Tutti mostravano una
macchietta confusa dov'era stato staccato il cartellino del prezzo. In un an-
golo della camera da letto principale c'era un telone ripiegato. Graham vi si
sedette e rimase immobile a lungo: i raggi del sole che entravano dalla fi-
nestra nuda si mossero di una ventina di centimetri.
Non c'era nulla in quel posto. Più nulla.
Se fosse venuto qui immediatamente dopo il primo delitto, i Leeds sa-
rebbero stati ancora vivi? si chiese. Valutò quanto questo carico gli pesasse
sulle spalle.
Nemmeno quando fu uscito di casa e si ritrovò di nuovo sotto il cielo
non se ne sentì liberato.
Si fermò all'ombra di un noce, le spalle curve, le mani in tasca, e guardò
lungo il vialetto in direzione della strada che passava di fronte alla casa.
In che modo era arrivato lì il Lupo Mannaro? Senz'altro in macchina. E
dove l'aveva parcheggiata? Il vialetto di ghiaia era troppo rumoroso per
una visita notturna, pensò. La polizia di Birmingham però non era dello
stesso parere.
Andò sulla strada asfaltata, lungo la quale due fossati correvano paralleli
per tutta la lunghezza. Se il terreno era duro e asciutto doveva essere pos-
sibile attraversare il canaletto e nascondere una macchina tra i cespugli
dalla parte della casa.
Di fronte alla casa del delitto, sul lato opposto della strada, c'era l'unico
cancello di Stonebridge. Un'insegna annunciava la presenza di un servizio
di sorveglianza privato. Una macchina sconosciuta sarebbe stata notata. E
lo stesso valeva per un uomo a piedi, di notte. Eliminare l'ipotesi che l'as-
sassino avesse parcheggiato di fronte a Stonebridge.
Graham rientrò in casa e fu sorpreso di vedere che il telefono era ancora
collegato. Chiamò l'ufficio meteorologico e venne a sapere che il giorno
prima dell'assassinio erano caduti 75 mm di pioggia. Quindi i fossati dove-
vano essere pieni. Il Lupo Mannaro non aveva nascosto la macchina vicino
alla strada asfaltata.
Un cavallo nel pascolo accanto al giardino accompagnò Graham che,
passando vicino allo steccato pitturato a calce, si dirigeva verso il retro del-
la casa. Diede una caramella al cavallo e lo abbandonò all'angolo prose-
guendo lungo lo steccato dietro il garage e i fabbricati annessi.
Si fermò quando trovò la buca dove i tre bambini avevano seppellito il
gatto. Quando si trovava con Springfield alla polizia di Atlanta i fabbricati
annessi se li era immaginati bianchi. Invece erano verde scuro.
I bambini avevano avvolto il gatto in uno strofinaccio per i piatti e lo a-
vevano seppellito in una scatola da scarpe con un fiore tra le zampe.
Graham posò l'avambraccio sullo steccato e vi appoggiò la fronte.
Il funerale di un animale di casa, rito solenne dell'infanzia. Il papà o la
mamma che tornavano in casa vergognandosi di pregare. I bambini che si
guardavano l'un l'altro scoprendo di avere i nervi saldi proprio quando una
perdita lacera. Uno china la testa, tutti lo imitano, il manico della vanga è
più alto di tutti e tre. Segue una discussione per decidere se il gatto sia in
paradiso con Dio e Gesù; poi per un po' i bambini evitano di alzare la voce.
Graham, mentre se ne stava lì con il sole che gli picchiava sul collo, eb-
be una certezza: il Lupo Mannaro, proprio come aveva ucciso il gatto, a-
veva osservato i bambini seppellirlo. Doveva controllare se gli era stato
possibile.
Non aveva fatto due viaggi sul posto, uno per uccidere il gatto, il secon-
do per la famiglia. Era venuto, aveva ucciso l'animale e aveva atteso che i
bambini lo trovassero.
Impossibile determinare esattamente dov'era stata rinvenuta la bestiola.
La polizia non era riuscita a trovare nessuno che avesse parlato con gli Ja-
cobi una decina di ore prima della morte.
In che modo il Lupo Mannaro era arrivato e dove era rimasto ad attende-
re?
Oltre lo steccato, dietro la casa, crescevano dei cespugli ad altezza
d'uomo, una trentina di metri dopo iniziavano gli alberi. Graham estrasse
dalla tasca posteriore la mappa tutta spiegazzata e la aprì sullo steccato.
Dietro la casa degli Jacobi si apriva una striscia alberata larga quattrocento
metri che proseguiva in tutte e due le direzioni. Dall'altra parte del bosco
correva una strada parallela a quella davanti alla casa.
Ritornò verso la superstrada misurando la distanza con il conta-
chilometri parziale. Svoltò verso sud poi tornò sulla parallela che aveva vi-
sto sulla mappa. Azzerò di nuovo il contachilometri e proseguì lentamente
finché fu certo di essere arrivato all'altezza della casa, dall'altra parte del
bosco.
L'asfalto finiva davanti a un quartiere di case popolari sorto così di re-
cente che la mappa non lo indicava. Fermò la macchina nel parcheggio. La
maggior parte delle auto erano vecchie e malconce, due erano posate su
blocchi di legno.
Un gruppo di bambini negri giocava a pallacanestro su uno spiazzo di
terra battuta con un solo canestro privo di rete. Graham sedette un po' sul
cofano della macchina per osservarli.
Avrebbe voluto togliersi la giacca ma sapeva che la 44 Special e la mac-
china fotografica piatta appesa alla cintura avrebbero attirato l'attenzione.
Si sentiva sempre stranamente imbarazzato quando la gente gli guardava la
pistola.
I giocatori della squadra con la camicia erano otto mentre quelli a torso
nudo erano undici. Giocavano tutti. La partita veniva arbitrata per accla-
mazione.
Un piccolo, di quelli a torso nudo, gettato a terra nella mischia sotto ca-
nestro, si trascinò arrabbiato verso casa. Tornò rinfrancato da un biscotto e
si gettò di nuovo nel branco.
Le urla e i tonfi della palla gli sollevarono il morale.
Un canestro, una palla e basta. Lo colpì di nuovo la quantità di oggetti
che i Leeds possedevano. E anche gli Jacobi, secondo la polizia di Birmin-
gham, quando nel rapporto era stato escluso il furto come movente dell'o-
micidio. Barche, attrezzi sportivi e da campeggio, macchine fotografiche,
fucili e canne da pesca. Un'altra delle cose che le due famiglie avevano in
comune.
E con il pensiero dei Leeds e degli Jacobi vivi gli venne in mente anche
l'immagine di come erano stati ridotti dopo: non riuscì più a guardare la
partita. Respirò a fondo e si diresse verso l'oscurità della boscaglia, dall'al-
tra parte della strada.
Il sottobosco folto, fin dove cominciavano i pini si fece più rado quando
Graham si trovò nell'ombra fitta. Gli fu facile avanzare sul tappeto di aghi.
L'aria era calma e immobile. Negli alberi davanti a lui le ghiandaie annun-
ciarono il suo arrivo.
Il terreno scendeva leggermente verso il letto asciutto del ruscello dove
crescevano alcuni cipressi; nell'argilla rossa si vedevano le impronte degli
opossum e dei topi di campagna. C'erano anche impronte umane, alcune
lasciate da bambini. Avevano tutte i contorni incerti, era piovuto diverse
volte da quando erano state lasciate.
Oltre il ruscello il terreno riprendeva a salire trasformandosi in un misto
di terriccio e di sabbia dove crescevano le felci. Graham risalì il pendio
nella calura finché, sul limitare del bosco, non vide la luce penetrare tra gli
alberi.
Tra i tronchi si vedeva il primo piano della casa degli Jacobi.
Si tuffò di nuovo nel sottobosco che si estendeva dagli alberi fino allo
steccato che chiudeva il lato posteriore della proprietà. Quando l'ebbe at-
traversato si fermò a guardare nel cortile posteriore.
Il Lupo Mannaro avrebbe potuto benissimo lasciare la macchina nel par-
cheggio del nuovo quartiere, attraversare il bosco e arrivare dietro la casa.
Poteva benissimo aver attirato il gatto tra i cespugli per strozzarlo, poi, con
il corpo dell'animale in una mano, essersi avvicinato strisciando sulle gi-
nocchia fino allo steccato. Graham vedeva il gatto descrivere una parabola
per aria, senza girarsi per atterrare sulle zampe, e ricadere di schiena con
un tonfo sordo nel cortile.
Doveva essere successo di giorno: i bambini di notte non avrebbero né
trovato né seppellito il gatto.
Aveva atteso per vedere quando lo trovavano. Aveva atteso tutto il gior-
no nella calura del sottobosco? Se si fosse fermato vicino allo steccato sa-
rebbe stato visibile. D'altra parte, per vedere il cortile da più lontano a-
vrebbe dovuto stare in piedi, contro il sole, visibile dalle finestre di casa.
Chiaramente doveva essere tornato indietro, tra gli alberi. E fu quello che
fece anche lui.
I poliziotti di Birmingham non erano stati stupidi. Si vedeva dove si era-
no fatti strada tra i cespugli per rastrellare la zona circostante la casa. Que-
sto però prima di trovare il gatto. Cercavano indizi, oggetti lasciati cadere,
tracce... non un posto di vedetta.
Si addentrò qualche metro nel bosco poi proseguì di lato zigzagando nel-
l'ombra fitta. Arrivò in una zona collinosa da dove si vedeva parzialmente
il cortile, poi scese, avvicinandosi al limitare del bosco.
Continuò così scrutando il terreno per più di un'ora finché non notò un
bagliore a terra. Lo perse, lo ritrovò. Era l'anello di strappo di una lattina,
seminascosto tra le foglie ai piedi di un olmo, uno dei pochi tra i pini.
Lo vide da tre metri di distanza e per cinque minuti non si avvicinò esa-
minando attentamente il terreno intorno. Si accucciò e ripulì la terra dalle
foglie avvicinandosi al tronco, per evitare di rovinare eventuali tracce. Pia-
no piano, un po' alla volta, liberò dalle foglie tutta la zona intorno al tron-
co. Nessuna impronta era rimasta sul tappeto di foglie dell'anno preceden-
te.
Vicino all'anello di alluminio trovò un torsolo di mela rinsecchito e roso
dalle formiche. Gli uccelli avevano beccato i semi. Esaminò attentamente
il terreno per dieci minuti buoni. Alla fine sedette, stirò le gambe indolen-
zite e appoggiò la schiena al tronco.
Un cono di moscerini roteava in un fascio di luce. Un bruco s'inerpicava
sotto una foglia.
Su un ramo sopra la sua testa c'era un pezzo d'argilla rossa modellato
dalla suola di uno scarpone.
Graham appese la giacca al ramo e prese con cautela a salire sull'albero,
dalla parte opposta, scrutando i rami sopra il pezzo d'argilla. A una decina
di metri di altezza guardò e a circa centocinquanta metri di distanza vide la
casa. Da quell'altezza sembrava diversa, dominata dal colore del tetto. Ve-
deva benissimo il cortile e il terreno intorno ai fabbricati annessi. Da quel
punto con un buon binocolo era facilissimo vedere l'espressione di un viso.
Udiva in lontananza il rumore del traffico e, ancor più lontano, un cane
da caccia che rincorreva la preda. Poi all'improvviso il frinire di una cicala
soffocò tutto il resto.
Un grosso ramo proprio sopra di lui puntava diritto verso la casa degli
Jacobi. Graham si issò ancora e guardò dall'altra parte del tronco.
Si trovò vicino alla guancia una lattina di bibita gassata, incastrata tra il
ramo e il tronco.
«Come sei bella» sussurrò Graham alla corteccia. «Oh, Signore, sei pro-
prio bella. Vieni qui, lattina.»
Poteva averla lasciata lì un bambino.
Salì ancora muovendosi attentamente tra i ramoscelli, poi girò dall'altra
parte finché non vide in basso il ramo sul quale posava la lattina.
Un pezzo di corteccia delle dimensioni di una carta da gioco era stato
asportato lasciando apparire la parte inferiore, verdastra. Al centro del ret-
tangolo verde, inciso nel legno, Graham vide questa figura

Era un lavoro accurato, preciso, fatto con un coltello molto affilato. Non
era opera di un bambino.
Fotografò il disegno, variando con cura l'esposizione.
Dal ramo si godeva un'ottima vista migliorata oltretutto dal fatto che un
ramoscello del ramo superiore era stato tagliato. Le fibre del legno erano
comprèsse e le estremità leggermente schiacciate dalla lama.
Graham cercò dove fosse finito. Se fosse caduto sul terreno l'avrebbe
trovato. Eccolo; era rimasto preso tra le frasche, sotto; foglie marroni rin-
secchite tra le foglie verdi.
Al laboratorio avrebbero avuto bisogno delle due parti del taglio per sta-
bilire che tipo di lama era. Significava dover tornare con una sega. Prese
numerose fotografie dello spuntone, borbottando tra sé.
Credo che dopo aver ammazzato e gettato nel cortile il gatto tu sia sali-
to su quest'albero ad aspettare. Credo che tu abbia osservato i bambini e
passato il tempo sognando a occhi aperti. Quando si è fatto buio, li hai vi-
sti passare davanti alle finestre illuminate, hai visto calare gli scuri, le luci
spegnersi una dopo l'altra e, dopo un po', sei sceso e sei entrato in casa. È
così, vero? Non doveva essere troppo difficile scendere da qui con una
torcia elettrica e la luce della luna piena.
Calarsi fu piuttosto difficile. Infilò un ramoscello nell'apertura della lat-
tina, la sollevò delicatamente e scese, un ramo dopo l'altro,, con il ramo-
scello tra i denti quando doveva tenersi con tutte e due le mani.
Tornato al nuovo quartiere Graham scoprì che qualcuno aveva scritto
"Levon è un fesso" sulla fiancata della sua automobile. L'altezza a cui era
stato scritto indicava che anche i più piccoli abitanti del quartiere avevano
fatto grandi progressi nello scrivere.
Si chiese se avessero scritto qualcosa anche sull'auto del Lupo Mannaro.
Rimase per qualche minuto seduto, guardando verso la fila di finestre.
Dovevano esserci un centinaio di appartamenti. Forse qualcuno avrebbe ri-
cordato uno sconosciuto di razza bianca nel parcheggio, di sera tardi. Va-
leva la pena di provare, anche se ormai era passato un mese; bisognava
chiedere a tutti, e senza perdere tempo: aveva bisogno di chiedere l'aiuto
della polizia di Birmingham.
Respinse la tentazione di spedire direttamente la lattina a Jimmy Price a
Washington. Doveva chiedere uomini alla polizia di Birmingham. Meglio
consegnare loro quello che aveva trovato. Cercare impronte sulla lattina
era un lavoro semplice. Ma cercare i segni lasciati dall'acido contenuto nel
sudore era un'altra questione. Price avrebbe potuto farlo dopo che la poli-
zia di Birmingham avesse passato la polvere per rilevare le impronte, pur-
ché nessuno la toccasse con le dita. Meglio consegnarla alla polizia. Sape-
va che il laboratorio scientifico dell'FBI si sarebbe buttato sull'incisione
nel ramo come una mangusta rabbiosa. Copia delle foto per tutti, nessuno
avrebbe perso nulla.
Chiamò la squadra omicidi dalla casa degli Jacobi. Gli investigatori arri-
varono proprio mentre l'agente immobiliare faceva entrare dei potenziali
acquirenti.

10

Eileen stava leggendo un articolo sul "National Tattler" intitolato "Le


porcherie nel pane che mangiate!" proprio mentre Dolarhyde entrava nella
mensa. La ragazza aveva mangiato solo il ripieno del sandwich di insalata
di tonno e scartato il pane. Gli occhi di Dolarhyde, dietro le lenti rosse,
caddero sulla prima pagina del settimanale. Oltre a "Le porcherie nel pane
che mangiate!" c'erano: "Elvis nel suo rifugio d'amore segreto — Esclusi-
va!" "Incredibile speranza per i malati di cancro!" e, inquadrato a tutta pa-
gina: "Hannibal il cannibale aiuta la legge: i poliziotti lo consultano per i
massacri del Lupo Mannaro".
Si avvicinò distrattamente alla finestra mescolando il caffè con il cuc-
chiaino finché non sentì la ragazza alzarsi. Eileen gettò il vassoio nel con-
tenitore dei rifiuti; stava per gettare anche il "Tattler" quando Dolarhyde le
toccò una spalla.
«Mi daresti quel giornale, Eileen?»
«Sicuro, signor D. Lo compro solo per l'oroscopo.»
Dolarhyde andò a leggerlo nel suo ufficio, a porta chiusa.
Freddy Lounds firmava due trafiletti nel paginone centrale. L'articolo era
impostato sulla ricostruzione mozzafiato degli omicidi Jacobi e Leeds.
Siccome la polizia non aveva rivelato molti particolari, Lounds per fare ef-
fetto aveva fatto appello alla sua immaginazione.
Dolarhyde li trovò banali.
Più interessante era invece il riquadro:

PAZZO CRIMINALE CONSULTATO DAL POLIZIOTTO


CHE HA CERCATO DI UCCIDERE
di Freddy Lounds

CHESAPEAKE, MARYLAND. — I federali impegnati nella caccia al


"Lupo Mannaro", lo psicopatico che ha massacrato due intere famiglie a
Birmingham e ad Atlanta, hanno chiesto l'aiuto del più selvaggio assassino
attualmente prigioniero.
Il dottor Hannibal Lecter, delle cui abitudini innominabili abbiamo par-
lato sul nostro giornale in un articolo di tre anni fa, è stato consultato que-
sta settimana, nella cella di massima sicurezza del manicomio criminale
che lo ospita, da William (Will) Graham, asso degli investigatori federali.
Tre anni fa Graham, avendo scoperto l'identità del massacratore, fu sul
punto di morire per mano di Lecter.
Attualmente è stato richiamato in servizio — era andato anticipatamente
in pensione — per guidare la caccia al "Lupo Mannaro".
Cosa è successo durante questa bizzarra riunione tra due nemici mortali?
Cosa voleva sapere Graham?
«Per prendere un personaggio come quello ci vuole qualcuno che gli as-
somigli» ha detto un alto funzionario federale a chi scrive. Si riferiva a
Lecter, soprannominato "Hannibal il cannibale", il quale è sia uno psichia-
tra sia un assassino plurimo.
O INVECE SI RIFERIVA A GRAHAM???
Il "Tattler" è venuto a sapere che Graham, ex docente di medicina legale
all'accademia dell'FBI di Quantico, Virginia, è stato ricoverato per quattro
settimane in un centro per la cura delle malattie mentali...
I funzionali dell'FBI hanno rifiutato di spiegare come mai hanno piazza-
to in prima linea in questa disperata caccia all'uomo un individuo che ha
alle spalle un periodo di instabilità mentale.
Non è stato rivelato da che genere di disturbo mentale fosse affetto Gra-
ham, ma un ex infermiere ha detto che si trattava di uno "stato di profonda
depressione".
Garmon Evans, un aiuto infermiere un tempo dipendente del Bethesda
Naval Hospital, afferma che Graham è entrato nel reparto psichiatrico poco
dopo aver ucciso Garrett Jacob Hobbs, il "Gufo del Minnesota". Graham,
nel 1975, aveva ucciso Hobbs a colpi d'arma da fuoco, ponendo termine
agli otto mesi di terrore che questi aveva instaurato a Los Angeles.
Evans afferma che Graham, nelle prime settimane di degenza, rifiutava
di mangiare e di parlare e rimaneva sempre chiuso in se stesso.
Graham comunque, non è mai stato un agente dell'FBI. Alcune persone
a conoscenza dei segreti del servizio affermano che ciò è dovuto alle rigo-
rose procedure di selezione dell'FBI, fatte appositamente per rivelare even-
tuali segni di instabilità.
Le fonti dell'FBI sono disposte solamente ad ammettere che Graham, in
origine, ha lavorato per il laboratorio di criminologia dell'ente federale e
che, dopo gli incredibili successi ottenuti in laboratorio e sul campo, dove
aveva svolto il compito di "investigatore speciale", aveva ottenuto una cat-
tedra all'accademia dell'FBI.
Il nostro giornale è venuto a sapere che prima di prestare servizio presso
l'FBI, Graham era nella squadra omicidi della polizia di New Orleans, po-
sto che aveva lasciato per frequentare la facoltà di medicina legale dell'U-
niversità George Washington.
Uno degli agenti di New Orleans che prestava servizio con Graham, ha
osservato: «Be', si potrebbe dire che è in pensione, ma ai federali piace sa-
pere di averlo ancora a disposizione. È come avere un grosso serpente in-
nocuo sotto il pavimento. Magari non lo si vede spesso, ma fa piacere sa-
pere che è lì a mangiare le bisce velenose».
Il dottor Lecter dovrà rimanere tutta la vita chiuso in manicomio. Se do-
vesse essere dichiarato sano di mente sarebbe processato per nove omicidii
di primo grado.
L'avvocato di Lecter afferma che l'assassino passa il tempo scrivendo ar-
ticoli utili per le riviste scientifiche e che porta avanti un'"attiva corrispon-
denza" con alcuni dei più rispettati esponenti dell'ambiente psichiatrico.

Dolarhyde smise di leggere e guardò le fotografie. Erano due, accanto al


riquadro. In una si vedeva Lecter bloccato contro un'auto della polizia di
stato. L'altra era la foto di Will Graham che Freddy Lounds aveva scattato
all'ingresso dell'ospedale. Ciascuna ospitava in un piccolo riquadro una
piccola foto di Lounds.
Dolarhyde rimase a osservarle a lungo. Passò e ripassò — lentamente —
l'indice sulle figure, sensibilissimo al ruvido della carta da giornale. Gli
rimase il polpastrello sporco d'inchiostro. Lo leccò con la lingua e lo ripulì
con un kleenex. Quindi ritagliò il riquadro e se lo ficcò in tasca.

Di ritorno a casa comprò della carta igienica di quella che si scioglie nel-
l'acqua e che viene usata sulle barche e nei camper, e un vasocostrittore per
il naso.
Si sentiva bene malgrado la febbre da fieno; come molte persone che
hanno subito importanti interventi di rinoplastica, Dolarhyde non aveva
peli all'interno del naso ed era tormentato dalla febbre da fieno e da affe-
zioni delle vie respiratorie superiori.
Attese con pazienza quando un camion fermo lo tenne bloccato dieci
minuti sul ponte sul fiume Missouri che lo portava a St. Charles. Il suo
furgone nero, tutto foderato di moquette, era fresco e silenzioso. Lo stereo
suonava la musica vacua di Händel.
Picchiettò le dita sul volante seguendo la musica e si soffiò il naso. Nella
corsia accanto, in una decappottabile, vide due donne. Indossavano cal-
zoncini corti e camicette annodate sotto il seno. Dolarhyde, dall'alto del
furgone guardò giù, nella macchina. Le due ragazze sembravano stanche e
annoiate; tenevano gli occhi socchiusi, abbagliate dal sole del tramonto.
Quella sul sedile di destra appoggiava la nuca allo schienale e teneva i pie-
di sul cruscotto. Sullo stomaco, nudo, si erano formati due solchi profondi.
Dolarhyde notò un succhiotto all'interno della coscia. La ragazza lo sorpre-
se a guardare, si rizzò a sedere e incrociò le gambe. Un'espressione di fa-
stidio e di disgusto le apparve sul viso.
Disse qualcosa alla donna al volante. Ambedue guardarono dritto davan-
ti a loro. Stavano parlando di lui, lo sapeva. Si sentiva così allegro che la
cosa non riuscì a irritarlo. Poche cose ormai lo irritavano. Sapeva che stava
assumendo un'appropriata dignità.
La musica era davvero piacevole.
Le auto di fronte a Dolarhyde cominciarono ad avviarsi. La corsia ac-
canto invece era sempre ferma. Non vedeva l'ora di essere a casa. Continuò
a picchiettare le dita sul volante a ritmo di musica mentre con l'altra mano
abbassava il finestrino.
Si raschiò la gola e sputò un grumo di catarro verdastro addosso alla
donna, colpendola proprio vicino all'ombelico. Sentì alle sue spalle gli in-
sulti, lanciati con voce acuta, mescolarsi alla musica di Händel.

Il libro mastro di Dolarhyde — enorme — aveva almeno cent'anni. Rile-


gato in pelle nera, con gli angoli d'ottone, era così pesante da dover essere
sostenuto da un tavolinetto. Era sistemato nel ripostiglio chiuso a chiave in
cima alle scale. Dal momento in cui l'aveva visto all'asta fallimentare di
una vecchia tipografia di St. Louis, Dolarhyde aveva capito che doveva es-
sere suo.
Ora, fatto il bagno e indossato il kimono, aprì il ripostiglio e tirò fuori il
libro. Quando l'ebbe sistemato esattamente sotto la stampa del Drago Ros-
so, si accomodò in una poltrona e lo aprì. Al viso gli salì l'odore della carta
macchiata dal tempo.
Sulla prima pagina, a grandi lettere che aveva miniato personalmente,
erano scritte le parole dell'Apocalisse: "E venne anche un Grande Drago
Rosso...".
La prima foto che appariva nel libro era l'unica non montata con cura.
Perduta tra le pagine c'era la foto ingiallita di Dolarhyde da piccolo insie-
me alla nonna, sui gradini della grande casa. Si teneva aggrappato alla sua
sottana. La donna aveva le braccia conserte e la schiena diritta, come irri-
gidita.
Dolarhyde voltò pagina ignorandola come se fosse capitata lì per sba-
glio.
C'erano molti ritagli, i primi dei quali parlavano della scomparsa di al-
cune donne anziane a St. Louis e a Toledo. Tra l'uno e l'altro c'erano pagi-
ne coperte con la sua calligrafia: un bel corsivo in inchiostro nero, simile
alla scrittura di William Blake.
Fissati ai margini, ciuffetti di capelli si allungavano come code di come-
te fissati sul taccuino di Dio.
C'erano anche i ritagli riguardanti gli Jacobi, con i film e le diapositive
infilate in piccole tasche incollate alle pagine.
Poi venivano gli articoli sui Leeds, con relativo film.
Il soprannome "Lupo Mannaro" sulla stampa era apparso solo dopo i fat-
ti di Atlanta. In tutti gli articoli sui Leeds era stato cancellato a pennarello.
Dolarhyde fece lo stesso con il ritaglio preso dal "Tattler" ed eliminò a
colpi rabbiosi di pennarello rosso tutti i "Lupo Mannaro".
Passò a una pagina bianca e ritagliò l'articolo del "Tattler" in modo da
poterlo incollare. Era il caso di mettere l'istantanea di Graham? Le parole
"manicomio criminale" scolpite nella pietra sopra Graham lo offendevano.
Odiava l'idea di qualunque posto dove la libertà veniva limitata. Graham
aveva un'espressione che gli era ostile. Decise di metterla da parte, per il
momento.
Ma Lecter... Lecter. Non era una bella foto, la sua.
Ne aveva una migliore, andò a prenderla in una scatola che teneva nel-
l'armadio. L'avevano pubblicata dopo la cattura dello psichiatra e ne faceva
risaltare la bellezza degli occhi. Tuttavia non era del tutto soddisfacente.
Secondo lui Lecter avrebbe dovuto venir ritratto come un principe del Ri-
nascimento. E infatti lui, unico tra gli uomini, possedeva la sensibilità e
l'esperienza per comprendere la gloria, la regalità, dell'Avvento di Dolar-
hyde.
Sentiva che Lecter conosceva l'immaterialità della gente che moriva per
aiutare a raggiungere questi risultati, e che si rendeva conto che essi non
erano fatti di carne, ma di luce e di aria e di colore e di rapidi suoni che si
spengono subito quando la si trasforma. Come palloncini colorati che
scoppiano. Sapeva che sono più importanti per il cambiamento, più impor-
tanti della vita, alla quale, imploranti, si tengono aggrappati.
Dolarhyde sopportava gli urli di dolore come uno scultore sopporta la
polvere che si stacca dalla pietra che scalpella.
Lecter era in grado di capire che sangue e respiro erano semplicemente
elementi che si trasformavano per alimentare il suo Splendore, proprio
come è la combustione la fonte della luce.
Gli sarebbe piaciuto incontrare Lecter, parlargli, condividere le recipro-
che esperienze, godere della loro visione comune, essere riconosciuto da
lui come Giovanni Battista aveva riconosciuto l'Uomo venuto dopo di lui,
incombere su di lui come il Drago nella Rivelazione numero 666 di Blake,
e filmare la sua morte mentre, in agonia, si fondeva con l'energia del Dra-
go.
Si infilò un paio di guanti di gomma nuovi e andò alla scrivania. Aprì
l'involucro del rotolo di carta igienica, srotolò sette foglietti e li staccò.
Infine, con la sinistra, in una calligrafia accurata, scrisse una lettera a
Lecter.
Il modo che uno ha di parlare non rivela mai come scrive. I discorsi di
Dolarhyde erano contratti dai suoi difetti di pronuncia, veri e presunti, e la
differenza tra parole dette e scritte era stupefacente. Tuttavia scoprì che
non riusciva a esprimere la cosa più importante che sentiva dentro.
Voleva che Lecter si mettesse in comunicazione con lui. Aveva bisogno
di una risposta personale prima di potergli parlare delle cose davvero im-
portanti.
Come fare? Frugò nella scatola tra i ritagli riguardanti Lecter e li rilesse
tutti.
Finalmente trovò un metodo semplice. Riscrisse la lettera.
Quando l'ebbe riletta però gli parve che ci fosse troppa diffidenza, troppa
ritrosia. L'aveva firmata "Un tuo avido ammiratore".
Rimase per un bel pezzo a rimuginare sulla firma.
Sì, proprio "Un tuo avido ammiratore". Sollevò leggermente il mento, in
un gesto di sussiego.
Infilò in bocca il pollice coperto dal guanto, si tolse la dentiera e la posò
sulla carta assorbente.
Il palato era di forma piuttosto insolito. I denti erano normali, bianchi e
regolari, ma la plastica rosata aveva una forma tortuosa e irregolare per a-
dattarsi ai solchi e alle rientranze delle gengive. Attaccata alla placca c'era
una protesi di plastica morbida con una specie di tappo che lo aiutava a
chiudere la fessura del palato quando parlava.
Da un cassetto della scrivania estrasse un'altra dentiera. L'arcata superio-
re era identica, anche se mancava la protesi. Tra i denti contorti c'erano
chiazze scure che emettevano un leggero fetore.
Erano identici ai denti della nonna, nel bicchiere accanto al letto, al pia-
no di sotto.
Le narici vibrarono sentendo l'odore. Sorrise, con le guance incavate, in-
filò la dentiera in bocca umettandola con la lingua. Piegò la lettera all'al-
tezza della firma e vi premette i denti. Quando riaprì il foglio, la firma era
circondata da un morso di forma ovale; il suo sigillo, un imprimatur mac-
chiato di sangue disseccato.

11

Alle cinque esatte del pomeriggio l'avvocato Byron Metcalf allentò la


cravatta, si versò da bere e posò i piedi sulla scrivania.
«È sicuro di non volere niente?»
«Un'altra volta.» Graham, intento a togliersi i cardi rimasti attaccati ai
polsini, era contento che nell'ufficio ci fosse l'aria condizionata.
«Non conoscevo troppo bene gli Jacobi» spiegò Metcalf. «Erano qui so-
lo da tre mesi. Mia moglie e io siamo andati a casa loro un paio di volte a
bere qualcosa. Ed Jacobi è venuto a trovarmi appena trasferito perché vo-
leva rifare testamento; ecco come l'ho conosciuto.»
«Però lei è il suo esecutore testamentario.»
«Sì. Al primo posto aveva nominato sua moglie, poi venivo io, nel caso
in cui lei fosse deceduta o incapacitata. Ha un fratello a Philadelphia ma
suppongo che non siano troppo uniti.»
«Lei è stato viceprocuratore distrettuale?»
«Già, dal '68 al '72. Poi nel 72 ho presentato la candidatura come procu-
ratore. Ho perso, anche se di poco. Devo dire che adesso non mi spiace.»
«Qual è il suo punto di vista su quanto è successo qui, signor Metcalf?»
«La prima cosa che mi è venuta in mente riguardava Joseph Yabloski, il
dirigente sindacale.»
Graham annuì.
«C'era un movente dietro a quel delitto — il potere — mascherato come
l'aggressione di un pazzo. Abbiamo passato al setaccio tutte le carte di Ed
Jacobi... eravamo io e Jerry Estridge dell'ufficio del procuratore distrettua-
le.
«Niente. Dalla morte di Ed Jacobi nessuno cavava fuori un sacco di sol-
di. Aveva un grosso stipendio, più le percentuali su alcuni brevetti, ma
spendeva praticamente tutto. Tutto quello che aveva lo ereditava la moglie;
poi c'era un po' di terra in California intestata ai bambini e ai loro discen-
denti. Al figlio sopravvissuto aveva intestato una piccola rendita. Servirà a
pagargli altri tre anni di college. Sono sicuro che quando saranno finiti sarà
ancora al primo anno.»
«Niles Jacobi.»
«Esattamente. Quel ragazzo era una grossa rogna per Ed. Viveva con la
madre in California. È finito a Chino per furto. Ho idea che la madre sia
una sbandata. Ed è andato in California l'anno scorso a trovarlo e se l'è
portato dietro. L'ha iscritto al Bardwell Community College. Ha cercato di
tenerselo in casa, ma Niles picchiava gli altri figli e si rendeva insopporta-
bile con tutti. La signora Jacobi per un po' l'ha sopportato, ma alla fine
hanno deciso di trasferirlo in una casa dello studente.»
«Dov'era?»
«La sera del 28 giugno?» Metcalf spalancò gli occhi fissando Graham.
«La polizia se l'è chiesto. Anch'io, debbo dire. Era andato al cinema poi è
tornato a scuola. Hanno controllato. Inoltre il suo sangue è del gruppo ze-
ro. Signor Graham, devo passare a prendere mia moglie tra mezz'ora. Se
vuole possiamo riprendere la conversazione domani. Mi dica cosa posso
fare per lei.»
«Vorrei vedere gli effetti personali degli Jacobi. Diari, fotografie, qua-
lunque cosa.»
«C'è poca roba: hanno perduto quasi tutto a Detroit in un incendio, pro-
prio prima di trasferirsi qui. Niente di sospetto: Ed stava saldando qualcosa
in cantina e le scintille sono cadute su della vernice che aveva sistemato lì;
la casa è andata a fuoco.
«C'è della corrispondenza personale. L'ho messa nelle cassette di sicu-
rezza, insieme ai valori. Non mi pare di aver visto diari. Tutto il resto è sta-
to sistemato in un magazzino. Forse Niles ha qualche foto, ma ne dubito.
Senta una cosa: domani mattina alle nove e mezzo devo essere in tribunale,
però posso portarla alla banca, così potrà dare un'occhiata. Poi passo a ri-
prenderla io.»
«Ottimo» disse Graham. «Un'altra cosa. Mi servirebbero delle copie di
tutto ciò che riguarda il testamento: opposizioni, rivendicazioni, corrispon-
denza. Vorrei avere tutta la pratica.»
«Me l'ha già chiesto l'ufficio del procuratore distrettuale. So che la stan-
no confrontando con la proprietà dei Leeds ad Atlanta.»
«Comunque vorrei averne una copia anch'io.»
«Come no, una copia anche per lei. Comunque immagino che sappia che
non servirà a nulla.»
«Sì. Spero solo che salti fuori lo stesso nome, qui e ad Atlanta.»
«Anch'io.»
Gli alloggi degli studenti del Bardwell Community College erano costi-
tuiti da quattro piccoli dormitori costruiti intorno a un quadrato di terra
battuta cosparso di immondizie. Quando Graham arrivò era in pieno svol-
gimento una guerra di stereo.
Batterie opposte di altoparlanti si affrontavano dalle balconate dei vari
edifici: i Kiss contro l'Ouverture 1812. Un pallone pieno d'acqua descrisse
una parabola nell'aria e si spiaccicò in terra a tre metri da lui.
Graham si curvò per passare sotto un filo della biancheria e superò una
bicicletta per entrare nel soggiorno dell'appartamentino dove dormiva Ni-
les Jacobi. La porta della camera da letto era semiaperta, dalla fessura u-
sciva musica a pieno volume. Graham bussò.
Nessuna risposta.
Spinse la porta. Un ragazzo alto dal viso foruncoloso se ne stava seduto
su uno dei letti gemelli succhiando una pipa ad acqua lunga un metro e
venti. Sull'altro letto era distesa una ragazza in pantaloni.
Il ragazzo girò di scatto la testa per affrontare Graham. Si sforzava di ar-
ticolare un pensiero qualsiasi.
«Cerco Niles Jacobi.»
Il ragazzo sembrava sbalordito. Graham spense l'amplificatore.
«Cerco Niles Jacobi.»
«Solo un po' di roba per l'asma, amico. Non ti capita mai di bussare?»
«Dov'è Niles Jacobi?»
«Che m'inculino se lo so. Cosa vuoi da lui?»
Graham gli mostrò il pezzo di latta. «Sforzati — molto — di ricordare.»
«Oh, merda» disse la ragazza.
«La narcotici, maledizione. Senti io non valgo niente, parliamone un po',
amico.»
«Parliamo di dov'è Jacobi.»
«Credo di riuscire a saperlo» disse la ragazza.
Graham attese. La sentì passare da una stanza all'altra a chiedere. Dap-
pertutto dopo il suo arrivo si sentiva scrosciare lo sciacquone.
C'erano poche tracce di Niles Jacobi nella stanza: su una cassettiera, una
foto della famiglia. Graham tolse un bicchiere d'acqua e ghiaccio posato
sopra e pulì con la manica il cerchio bagnato.
La ragazza ritornò. «Prova allo Hateful Snake» disse.
Lo Hateful Snake, un bar, aveva le vetrine dipinte di verdescuro. Davan-
ti era parcheggiato uno strano assortimento di veicoli: grossi camion che,
senza il cassone, sembravano mutilati, utilitarie, una cabriolet color lilla,
vecchie Dodge e Chevrolet storpiate, carrozzate in modo da sembrare dra-
gsters, quattro Harley Davidson superaccessoriate.
Un condizionatore, montato nella luce sopra la porta, gocciolava inces-
santemente sul marciapiede.
Graham girò intorno al gocciolio ed entrò.
Il locale, affollato, puzzava di disinfettante e di birra rancida. La barista,
una donna ben piazzata in tuta, allungò una mano sopra la testa degli av-
ventori per dare a Graham la coca-cola che aveva ordinato. Era l'unica
donna.
Niles Jacobi, scuro di pelle e magrissimo, si trovava accanto al juke-box.
Infilò una moneta nella fessura, ma fu l'uomo accanto a lui a premere i bot-
toni.
Jacobi aveva l'aria dello studente dissoluto, quello che sceglieva la mu-
sica no.
Il compagno di Jacobi era uno strano miscuglio: volto fanciullesco, cor-
po solido e muscoloso. Indossava maglietta e jeans, decisamente scoloriti
all'altezza delle tasche, piene di oggetti. Le braccia erano nodose e le mani
grosse e brutte. Sul tatuaggio all'avambraccio sinistro, opera di un profes-
sionista, c'era scritto: "Nato per scopare". Sull'altro braccio, un rozzo ta-
tuaggio da galera: "Randy". I capelli, tagliati corti in carcere, erano ricre-
sciuti irregolarmente. Graham lo vide allungare un braccio verso il juke-
box illuminato e notò sull'avambraccio una piccola zona priva di peli.
Avvertì un blocco gelido allo stomaco.
Seguì Niles Jacobi e "Randy" tra la folla verso il fondo del locale. Li vi-
de sistemarsi in un séparé.
Si fermò a circa mezzo metro dal tavolo.
«Niles, mi chiamo Will Graham. Dovrei parlarti qualche minuto.»
Randy lo guardò di sotto in su, con un gran sorriso fasullo. Aveva un in-
cisivo guasto. «Ci siamo conosciuti?»
«No. Niles, vorrei parlare con te.»
Niles inarcò perplesso un sopracciglio. Graham si chiese cosa gli fosse
capitato a Chino.
«Stavamo parlando di cose private, qui. Fuori dai piedi» disse Randy.
Graham guardò pensieroso gli avambracci muscolosi, il pezzo di cerotto
alla piega del gomito, la zona di epidermide dove Randy aveva saggiato il
filo del coltello.
Ho paura di Randy. Spara o lascia perdere.
«Hai sentito?» esclamò Randy. «Fuori dai piedi.»
Graham sbottonò la giacca e posò sul tavolo il distintivo.
«Seduto immobile, Randy. Se provi ad alzarti, ti ritrovi due ombelichi.»
«Spiacente, signore.» Sincerità istantanea, da detenuto.
«Randy, devi farmi un piacere. Devi infilarti la mano nella tasca poste-
riore sinistra. Solo due dita. Dentro ci trovi un coltello da dodici centime-
tri. Posalo sulla tavola... Grazie.»
Graham prese il coltello e se lo lasciò cadere in tasca. Era unto.
«Adesso, nell'altra tasca c'è il portafoglio. Tiralo fuori. Hai venduto del
sangue, oggi, vero?»
«E allora?»
«E allora fammi vedere lo scontrino che ti hanno dato, quello che porti
la prossima volta alla banca del sangue. Aprilo sul tavolo.»
Il sangue di Randy era del gruppo 0. Cancellare Randy.
«Da quanto sei fuori?»
«Tre settimane.»
«Chi ti controlla per la libertà vigilata?»
«Non sono in libertà vigilata.»
«Probabilmente è falso.» Voleva provocarlo. Poteva incastrarlo perché
portava un coltello proibito. Inoltre farsi trovare in un locale dove serviva-
no alcolici era una violazione del regolamento sulla libertà vigilata. Gra-
ham sapeva che ce l'aveva con lui perché gli aveva fatto paura.
«Randy.»
«Sì.»
«Fila.»

«Non so cosa dirle, mio padre non lo conoscevo tanto bene» spiegò Ni-
les Jacobi mentre Graham lo riaccompagnava alla scuola in macchina. «Ha
lasciato la mamma quando avevo tre anni e poi non l'ho più visto... mam-
ma non l'avrebbe permesso.»
«La primavera scorsa è venuto a trovarti.»
«Sì.»
«A Chino.»
«Lo sa benissimo.»
«Sto solo cercando di metter le cose in chiaro. Cosa è successo?»
«Be', era lì in sala colloqui, tutto teso che cercava di non guardarsi in gi-
ro... c'è un sacco di gente che crede di essere allo zoo. Mamma mi aveva
parlato molto di lui, ma a vederlo non sembrava tanto cattivo. Era solo un
tizio lì in piedi, con una giacca sportiva malmessa.»
«Cosa ti ha detto?»
«Be', io mi aspettavo o che mi prendesse per il collo o che si sentisse in
colpa: è quello che capita di solito ai colloqui. Invece mi ha chiesto solo se
pensavo di poter andare a scuola. Ha detto che avrebbe chiesto l'affida-
mento se ci andavo. E se mi fossi sforzato. "Devi essere tu a darti una ma-
no. Provaci e: a pagare la scuola ci penserò io" e roba del genere.»
«Questo quanto tempo prima che tu uscissi?»
«Due settimane.»
«Niles, quando eri a Chino hai mai parlato a nessuno della tua famiglia?
A qualche compagno di cella?»
Niles Jacobi lanciò una rapida occhiata a Graham. «Oh. Oh, capisco. No.
Non di mio padre. Erano anni che nemmeno pensavo a lui, perché avrei
dovuto parlarne?»
«E qui? Hai mai portato qualche amico in casa dei tuoi genitori?»
«Del mio genitore, caso mai. Lei non era mia madre.»
«Ci hai mai portato nessuno? Compagni di scuola oppure...»
«Oppure teppisti, agente Graham?»
«Esatto.»
«No.»
«Mai?»
«Mai una volta.»
«Ti ha mai accennato a minacce, ti sembrava preoccupato per qualcosa
gli ultimi due mesi prima del fatto?»
«L'ultima volta che l'ho visto era preoccupato sì, ma per i miei voti. A-
vevo fatto un mucchio di assenze. Mi aveva comprato due sveglie. Non so
altro.»
«Hai per caso delle sue carte personali: corrispondenza, fotografie, qua-
lunque cosa?»
«No.»
«Una foto della famiglia però ce l'hai. È sulla cassettiera in camera tua.
Vicino alla pipa ad acqua.»
«La pipa ad acqua non è mia. Non mi sognerei neanche di mettermi in
bocca quello schifo.»
«La foto mi serve. La faccio riprodurre e te la rimando. Hai qualche altra
cosa?»
Jacobi estrasse una sigaretta dal pacchetto e si palpò le tasche cercando i
fiammiferi. «No, ho solo quella. Chissà perché me l'hanno data. Mio padre
che sorrideva alla signora Jacobi e a tutti i mostriciattoli. Può tenersela. Io
così non l'avevo mai visto.»

Graham aveva bisogno di sapere di più sugli Jacobi, ma le persone che li


avevano conosciuti a Birmingham gli furono di poco aiuto.
Byron Metcalf gli consegnò la chiave delle cassette di sicurezza. Lesse il
mazzetto di lettere, quasi tutte d'affari, esaminò gioielli e argenteria.
Lavorò tre giorni nel magazzino dov'erano stati messi i mobili. Di sera
lo aiutava Metcalf. Vennero aperte tutte le casse per esaminarne il conte-
nuto. Le fotografie prese dalla polizia aiutarono Graham a identificare do-
v'erano sistemati i vari oggetti.
La maggior parte dei mobili erano nuovi, comperati con i soldi dell'assi-
curazione. La famiglia Jacobi non aveva avuto quasi il tempo di lasciare
segni sulle cose di loro proprietà.
Un particolare attirò la sua attenzione: su uno dei comodini da notte, che
portava ancora le tracce della polvere per rilevare le impronte, c'era un
grumo di cera verde.
Per la seconda volta si chiese se all'assassino non piacesse la luce delle
candele.
Il dipartimento di medicina legale e la polizia di Birmingham gli comu-
nicarono volentieri i risultati delle analisi.
Per quanto riguardava la lattina trovata sull'albero, il meglio che Bir-
mingham e Jimmy Price riuscirono a tirar fuori fu l'impronta confusa della
punta di un naso.
Il laboratorio armi da fuoco dell'FBI presentò un rapporto sul ramo ta-
gliato. Il taglio era stato effettuato con una lama spessa e ricurva: un tron-
chesino.
La divisione documentazione aveva inviato il segno inciso nella cortec-
cia al dipartimento di studi asiatici della CIA a Langley.
Graham seduto su una cassa da imballaggio lesse il rapporto, piuttosto
lungo. Secondo la divisione di studi asiatici, il segno era un carattere cine-
se che significava "colpiscilo" oppure "colpiscilo in testa", un'espressione
usata talvolta nel gioco d'azzardo. Era ritenuta un ideogramma "positivo" o
"fortunato". L'ideogramma appariva anche su uno dei pezzi del Mah-
Jongg. Indicava il Drago Rosso.

12

Al quartier generale dell'FBI di Washington, Crawford parlava con Gra-


ham che gli telefonava dall'aeroporto di Birmingham. Entrò la segretaria
che con un cenno richiamò la sua attenzione.
«Il dottor Chilton del Chesapeake Hospital sull'interno 2706. Dice che è
urgente.»
Crawford annuì. «Resta in linea, Will.» Sollevò il ricevitore. «Craw-
ford.»
«Sono Frederick Chilton, signor Crawford. Sono...»
«Sì, dottore.»
«Ho qui un biglietto, o meglio, due biglietti, che sembrano scritti dal-
l'uomo che ha ammazzato quella famiglia ad Atlanta e...»
«Da dove vi è arrivato?»
«È stato trovato nella cella di Lecter. È scritto su carta igienica — im-
magini un po' — e ci sono impresse impronte di denti.»
«Può leggermelo evitando di toccarlo ulteriormente?»
Chilton, sforzandosi di rimanere calmo lesse:

Mio caro dottor Lecter,


volevo dirle che sono felice che lei si interessi di me. Poi, quando
ho saputo della sua vasta corrispondenza, mi sono chiesto se po-
tevo osare. Ma senz'altro! Non credo che lei dirà a loro chi sono,
anche se lo sapesse. A parte questo, il corpo che attualmente mi
capita di occupare è cosa di nessuna importanza.
Ciò che importa invece è la mia Trasfigurazione. So che solo lei
lo può capire. Ho alcune cose che mi piacerebbe moltissimo mo-
strarle. Un giorno, forse, se le circostanze lo permetteranno. Spero
che potremo entrare in corrispondenza...

«Signor Crawford, a questo punto c'è un pezzo di carta mancante. Poi


prosegue:

Da anni non faccio che ammirarla, ho la raccolta completa degli


articoli che la riguardano apparsi sulla stampa. A essere sinceri li
ritengo prevenuti nei suoi confronti. Come sono prevenuti quelli
che riguardano me. Ai giornalisti piace affibbiare soprannomi in-
degni, non le pare? Il "Lupo Mannaro". Si potrebbe trovare un
appellativo più inappropriato? Me ne vergognerei nei suoi con-
fronti, se non sapessi che anche lei è stato vittima delle stesse di-
storsioni.
L'agente Graham mi interessa. Per essere un piedipiatti ha un'aria
insolita, non le pare? Non molto bello, ma con un'espressione te-
nace.
Avrebbe dovuto aver imparato da lei a non immischiarsi. Perdoni
la carta da lettere. L'ho scelta perché si dissolve molto rapidamen-
te, nel caso lei fosse costretto a inghiottirla.

«Qui manca un pezzo, signor Crawford. Le leggo la conclusione:

Se sentirò sue notizie, può darsi che la prossima volta le mandi


qualcosa di significativo.
La saluta il suo
avido ammiratore

Ci fu silenzio quando Chilton ebbe finito di leggere. «È ancora in line-


a?»
«Sì. Lecter sa che il biglietto è in mano sua?»
«Non ancora. Questa mattina è stato spostato in una cella provvisoria per
procedere alla pulizia della sua. L'inserviente per pulire il lavandino invece
di usare lo straccio ha usato pezzi di carta igienica presi dal rotolo di Lec-
ter. Ha trovato il biglietto avvolto nel rotolo e me l'ha portato. Mi portano
qualunque cosa gli capiti di trovare nascosta.»
«Dov'è Lecter in questo momento?»
«Sempre nell'altra cella.»
«Da dove si trova può vedere la sua?»
«Mi lasci pensare... no, no, non può.»
«Attenda un secondo, dottore.» Tenne Chilton in attesa fissando per sva-
riati secondi, senza vederli, due tasti che ammiccavano sul telefono.
Crawford, pescatore d'uomini, vedeva il galleggiante della sua lenza
muoversi contro corrente. Riprese la comunicazione con Graham.
«Will... un biglietto, forse del Lupo Mannaro. Era nascosto nella cella di
Lecter. Il tono è quello di un ammiratore. Vuole l'approvazione di Lecter,
tu lo incuriosisci. Fa domande.»
«E in che modo Lecter dovrebbe rispondergli?»
«Non lo so ancora. Una parte della lettera è stata strappata, un'altra can-
cellata. Sembra che la corrispondenza possa continuare finché Lecter non
capirà che noi sappiamo. Voglio il biglietto per il laboratorio e voglio but-
tare all'aria la sua cella, ma è rischioso. Se Lecter mangia la foglia chi ti
dice che non avverta quel bastardo? Ci serve che continuino a comunicare,
ma ci serve anche il biglietto.»
Spiegò a Graham dov'era custodito Lecter e com'era stato trovato il bi-
glietto. «Il manicomio è a centotrenta chilometri da qui. Non posso aspet-
tarti, amico. Cosa ne pensi?»
«Dieci morti in un mese: non possiamo giocare la partita per corrispon-
denza. Io dico di correre a prenderlo.»
«Vado» disse Crawford.
«Ci vediamo tra due ore.»
Crawford fece un cenno alla segretaria. «Tesoro, ordina un elicottero.
Voglio il primo che arriva, non m'importa di chi è — se nostro, della poli-
zia, o dei marines. Mi troverò sul tetto fra cinque minuti. Chiama la sezio-
ne documenti, digli di portar su un laboratorio portatile. Di' a Herbert di
mettere insieme una squadra perquisizioni. Sul tetto. Tra cinque minuti.»
Riprese la linea di Chilton.
«Dottor Chilton, dobbiamo perquisire la cella di Lecter senza che lui
venga a saperlo. Ci serve il suo aiuto. Ha parlato a qualcuno di questa fac-
cenda?»
«No.»
«Dov'è l'uomo delle pulizie che ha trovato il biglietto?»
«Qui nel mio ufficio.»
«Per favore, lo trattenga lì, gli dica di starsene zitto. Da quanto tempo
Lecter è fuori dalla sua cella?»
«Da mezz'ora più o meno.»
«È passato più del solito?»
«No, non ancora. Ma per le pulizie ci vuole una mezz'ora circa. Tra poco
comincerà a chiedersi cos'è successo.»
«Okay, mi faccia un piacere: chiami il responsabile dei servizi, il tecni-
co, chiunque sia. Gli dica di chiudere l'acqua in tutto l'edificio e di staccare
l'interruttore generale nel raggio di Lecter. Faccia passare il responsabile
con degli utensili. Gli dica che deve fingere di aver fretta, mostrarsi scoc-
ciato, troppo preso per rispondere alle domande... capito? Dica che gli
spiegherò io. Annulli il giro del camion della raccolta delle immondizie
per oggi, se per caso non è già venuto. Non tocchi il biglietto, okay? Stia-
mo arrivando.»
Chiamò il capo sezione del laboratorio analisi scientifiche. «Brian, c'è un
biglietto che sta per arrivare in volo. Probabilmente è del Lupo Mannaro.
Precedenza immediata. Deve tornare dov'è stato trovato nel giro di un'ora,
senza segni, capelli e fibre, impronte latenti. Ti dispiace coordinare tutto
con loro?... sì. Vengo lì io a portartelo.»
Nell'ascensore, quando Crawford scese dal tetto con il biglietto, faceva
caldo — i ventidue gradi obbligatoli negli edifici governativi. Arrivò alla
sezione capelli e fibre asciugandosi il sudore dal viso, tutto scompigliato
dal vento delle pale dell'elicottero.
La sezione capelli e fibre è una piccola divisione tranquilla e indaffarata,
del laboratorio analisi scientifiche. L'unico locale è pieno di scatole conte-
nenti prove inviate dalla polizia di tutto il paese: pezzi di nastro adesivo
usati come bavaglio o come legaccio per i polsi, tessuti laceri e macchiati,
lenzuola in cui è morto qualcuno.
Crawford vide Beverly Katz attraverso la finestra di un laboratorio men-
tre si faceva strada tra le scatole. Sopra un tavolo, coperto da un foglio
bianco, era appesa una tutina da bambino. Beverly, lavorando sotto una
grossa lampada, raschiava la tuta con una spazzola di metallo, in un senso
e nell'altro. Sulla carta cadde un pochino di sabbia e di polvere, e insieme,
calando nell'aria immobile, più lento della sabbia ma più veloce della pol-
vere, un capello arrotolato. La donna si chinò sulla carta osservandolo con
gli occhi lucenti, da uccello.
Crawford la vide muovere le labbra. Sapeva cosa stava dicendo.
«Ti ho trovato.»
Diceva sempre così.
Crawford batté un dito sul vetro e Beverly Katz uscì immediatamente,
togliendosi i guanti bianchi.
«Non è stato ancora fotografato, vero?»
«No.»
«Sono pronta per gli esami nella stanza qui vicino.»
Infilò un paio di guanti puliti mentre Crawford apriva la valigetta diplo-
matica.
Il biglietto, in due pezzi, era chiuso tra due fogli di plastica. Beverly
Katz vide l'impronta dei denti e lanciò un'occhiata a Crawford, senza per-
der tempo in domande.
Crawford annuì: l'impronta era uguale a quella del morso dell'assassino
che si era portato al Chesapeake Hospital per un primo confronto.
Crawford rimase a osservarla attraverso il vetro. La vide appendere i bi-
glietti su un graticcio sottile sopra un foglio di carta bianca esaminarli con
una grossa lente di ingrandimento poi sventolarli con delicatezza. Picchiet-
tò con la lama di una spatola il graticcio e scrutò con la lente d'ingrandi-
mento la carta sotto.
Crawford diede un'occhiata all'orologio.
Beverly Katz posò il biglietto rovesciato su un altro graticcio; dalla su-
perficie tolse qualcosa con un paio di pinzette sottili come un capello.
Fotografò con un grosso rapporto d'ingrandimento i margini lacerati del
biglietto, poi lo rimise nella custodia, aggiungendo anche un paio di guanti
bianchi puliti. I guanti bianchi, che indicavano di non toccare i biglietti con
le mani, li avrebbero accompagnati fino all'analisi per la ricerca di impron-
te digitali.
«Eccolo qui» disse, restituendo la scatola a Crawford. «Un capello, me-
no di un millimetro di lunghezza. Un paio di granellini blu. Vedrò di cosa
si tratta. Che altro hai portato?»
Crawford le consegnò tre buste sigillate. «Capelli presi dalla spazzola di
Lecter. Peli dei baffi presi dal rasoio elettrico che gli lasciano usare. E que-
sti sono i peli e capelli dell'incaricato delle pulizie.»
«Ci vediamo poi» disse Beverly Katz. «Mi piacciono moltissimo i tuoi,
di capelli.»
Jimmy Price della sezione impronte latenti fece una smorfia quando vide
la carta igienica porosa. Socchiudendo gli occhi guardò sopra la spalla del
tecnico addetto al laser all'eliocadmio mentre cercavano di far apparire per
fluorescenza le impronte, se c'erano. Apparvero piccole chiazze luminose
— macchie di sudore — nient'altro.
Crawford fece per domandargli qualcosa, poi cambiò idea e attese. La
luce azzurra del laser si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali.
«Quelli che l'hanno toccato senza guanti sono tre, vero?» chiese Price.
«Sì, l'addetto alle pulizie, Lecter e Chilton.»
«Il tipo che puliva i cessi probabilmente non aveva grasso sulle mani.
Ma gli altri... è terribile questo affare.» Price mise il biglietto controluce,
tenendolo con una pinzetta. Le sue mani, mani da vecchio, non tremavano.
«Potrei sottoporlo ai vapori di iodio, ma non garantisco che le macchie poi
se ne vadano, nel poco tempo che hai.»
«E con la ninidrina? Attivandola con il calore?»
In situazioni normali Crawford non si sarebbe avventurato a dar sugge-
rimenti tecnici a Price, ma ormai si aggrappava a qualunque cosa. Aspetta-
va una risposta brusca, ma il tono di Price fu triste e sconsolato.
«No. Dopo non potremmo più lavarla via. Non posso tirarti fuori un'im-
pronta, Jack. Non ce ne sono.»
«Vaffanculo» disse Crawford.
Il vecchio si voltò. Crawford gli posò una mano sulla spalla ossuta. «Al
diavolo, Jimmy. Se c'era un'impronta, l'avresti trovata.»
Price non gli rispose. Si era già messo a scartare un altro pacchetto che
conteneva un paio di mani. Nel contenitore dei rifiuti fumava del ghiaccio
secco. Crawford vi buttò i guanti bianchi.

Con un nodo allo stomaco per il disappunto Crawford si affrettò verso la


sezione documenti dove lo attendeva Lloyd Bowman. Bowman era stato
strappato da un tribunale e l'improvviso cambiamento lo aveva sconcerta-
to. Ammiccava come se l'avessero appena svegliato.
«Congratulazioni per la tua nuova pettinatura. Sei coraggioso» disse
Bowman prendendo con movimenti rapidi e precisi il biglietto e posandolo
sul piano di lavoro. «Quanto tempo ho?»
«Venti minuti al massimo.»
I due pazzi di carta, sotto le lampade di Bowman, sembravano risplende-
re di luce propria. La carta assorbente verde scura che copriva il piano di
lavoro appariva attraverso il buco oblungo dai contorni frastagliati della
prima parte del messaggio.
«La cosa più importante, la prima cosa, è sapere in che modo dovrebbe
rispondere Lecter» disse Crawford quando Bowman ebbe finito di leggere.
«Le istruzioni per la risposta probabilmente si trovano nel pezzo man-
cante.» Bowman parlava trafficando contemporaneamente con le luci, i fil-
tri, la macchina fotografica. «Qui sopra dice "spero che potremo scambiar-
ci corrispondenza..." poi c'è il buco. Lecter l'ha cancellato con un pennarel-
lo, poi l'ha piegato e ne ha strappato la maggior parte.»
«Non ha niente con cui tagliare.»
Bowman fotografò le impronte dei denti e il verso del biglietto sotto luce
radente. La sua ombra balzava da parete a parete mentre faceva ruotare di
360° la lampada intorno al biglietto. Le mani si muovevano nell'aria come
fantasmi.
«E adesso lo sciupiamo un pochino.» Mise il biglietto tra due lastre di
vetro per appiattire il contorno frastagliato della parte mancante. I brandelli
erano sporchi di inchiostro rosso. Canticchiava sottovoce. Solo la terza
volta Crawford riuscì a capire cosa stava dicendo. «Sei tanto furbo, ma lo
sono anch'io.»
Sostituì i filtri di una piccola telecamera e mise a fuoco l'obiettivo sul
biglietto. Spense le luci nella stanza. Rimasero solo quella rosso cupa di
una lampada e quella blu verdastra del monitor televisivo.
Le parole "spero che potremo scambiarci corrispondenza" e la parte
mancante apparvero ingrandite sullo schermo. La macchia d'inchiostro era
scomparsa e vicino ai bordi apparvero frammenti di parole.
«L'anilina contenuta negli inchiostri colorati è evidente agli infrarossi»
spiegò Bowman. «Queste — qui e qui — potrebbero essere le punte di due
T. Qui, verso la fine, c'è la coda di quella che potrebbe essere una M o una
N o magari anche una R.» Bowman scattò una fotografia e riaccese le luci.
«Jack, tra due persone ci sono solo due modi per comunicare se uno dei
due non può ricevere corrispondenza: il telefono e la pubblicazione di
messaggi. Lecter può ricevere telefonate urgenti?»
«Può ricevere telefonate, ma è un sistema lento, e poi deve passare attra-
verso il centralino dell'ospedale.»
«Allora l'unico metodo sicuro è la pubblicazione.»
«Sappiamo che questo angioletto legge il "Tattler": era lì che hanno
scritto quella roba su Graham e su Lecter. Che io sappia non ne hanno par-
lato su nessun altro giornale.»
«In "Tattler" ci sono tre T e una R. La colonna degli annunci personali?
Potrebbe essere un posto dove guardare.»
Crawford chiamò immediatamente la biblioteca dell'FBI, poi telefonò al-
l'ufficio di Chicago e diede istruzioni.
Bowman finì gli esami e gli restituì la busta di plastica.
«Il "Tattler" esce questa sera» disse Crawford. «Lo stampano a Chicago
il lunedì e il giovedì. Ci faremo dare le bozze degli annunci personali.»
«Dovrei trovare qualche altro indizio... roba da poco, credo» disse Bo-
wman.
«Spediscilo di corsa a Chicago. Fammi sapere, quando ritorno dal mani-
comio» disse Crawford uscendo.

13

Il cancelletto girevole della stazione centrale della metropolitana di Wa-


shington risputò il biglietto di Graham che uscì nella calura del pomeriggio
reggendo la borsa da viaggio.
Nella Decima Strada il J. Edgar Hoover Building appariva sfuocato nella
calura. Il trasloco dell'FBI nella nuova sede era ancora in corso quando
Graham se n'era andato da Washington. Non aveva mai avuto occasione di
lavorare lì.
Crawford lo aspettava al cancello dell'accesso sotterraneo per aggiunge-
re i propri documenti a quelli frettolosamente preparati per Graham. Gra-
ham aveva un'aria stanca e affrontò con impazienza la trafila di firme.
Crawford si chiese come dovesse sentirsi, sapendo che l'assassino pensava
a lui.
Gli venne consegnato un tesserino magnetico come quello che Crawford
portava sulla giacca. Graham lo infilò nel cancelletto e si ritrovò in un lun-
go corridoio bianco. Crawford gli portava la borsa da viaggio.
«Ho dimenticato di dire a Sarah di farti venire a prendere in macchina.»
«Probabilmente così ci ho messo di meno. Il biglietto è stato rimesso a
posto? Nessun problema?»
«Nessuno» rispose Crawford. «Mi sono limitato a riportarlo dov'era.
Abbiamo allagato il pavimento del raggio. Una finta perdita, con corto cir-
cuito. Avevamo lì Simmons — adesso è vicedirettore dell'ufficio di Balti-
mora — l'abbiamo messo ad asciugare il pavimento quando hanno riporta-
to Lecter in cella. È convinto che l'abbia bevuta.»
«In aereo continuavo a domandarmi se per caso non era stato Lecter a
scriverlo.»
«Ci ho pensato anch'io finché non l'ho visto. I segni dei denti sulla carta
sono uguali a quelli trovati sui corpi delle donne. E poi è scritto con una
penna a sfera: Lecter non ne ha. Chi l'ha scritto aveva letto il "Tattler",
mentre Lecter non ha nessuna copia del "Tattler". Rankin e Willingham
hanno fatto passare la cella da cima a fondo. Un lavoro splendido, ma non
hanno trovato un bel niente. Prima hanno scattato delle Polaroid per poter
rimettere tutto a posto. Poi è entrato l'uomo delle pulizie che ha fatto quel-
lo che fa di solito.»
«Quindi tu che cosa pensi?»
«Per quanto riguarda le possibilità di identificazione, il biglietto non
serve a un accidente» disse Crawford. «Dobbiamo riuscire in qualche mo-
do a far lavorare a nostro favore il contatto, ma in questo momento proprio
non saprei come. Tra qualche minuto arriva il resto degli esami di labora-
torio.»
«Posta e telefono dell'ospedale sono controllati?»
«Viene registrato tutto quello che dice al telefono. Sabato pomeriggio ha
fatto una telefonata. A Chilton ha detto che chiamava il suo avvocato. Pur-
troppo era una linea a chiamata diretta, non siamo sicuri che l'abbia real-
mente fatto.»
«E il suo avvocato cos'ha detto?»
«Niente. Per il futuro Lecter chiamerà su una linea riservata, così non ci
fregherà più. Controlleremo tutta la sua corrispondenza, in partenza e in ar-
rivo, a cominciare dalla prossima distribuzione. Grazie al cielo non c'è bi-
sogno di mandati.»
Crawford si avvicinò ad una porta e infilò in una fessura il tesserino ap-
peso alla giacca. «Il mio ufficio nuovo. Entra. All'arredatore doveva essere
avanzata della vernice di una nave da guerra. Ecco la copia del biglietto.
Le dimensioni sono quelle dell'originale.»
Graham lo scorse due volte. Quando lesse il suo nome sentì un ronzio
acuto in testa.
«La biblioteca conferma che l'articolo che parla di Lecter e di te è uscito
solo sul "Tattler"» disse Crawford preparandosi un alka-seltzer. «Ne vuoi
uno? Meglio per te. È stato pubblicato lunedì sera, una settimana fa. È ap-
parso in edicola in tutto il paese martedì; in alcune zone — Alaska, Maine
e qualche altro posto — solo il mercoledì. Il Lupo Mannaro non può averlo
letto prima di martedì. Poi ha scritto a Lecter. Rankin e Willingham stanno
facendo passare i rifiuti dell'ospedale per cercare la busta. Brutto lavoro.
Al Chesapeake buttano via insieme carta e pannolini sporchi.»
«Comunque, Lecter non riceve il biglietto prima di mercoledì. Strappa la
parte relativa alla risposta e cancella un accenno in una riga precedente...
non so perché non abbia asportato anche quella.»
«Era in un paragrafo pieno di complimenti» disse Graham. «Non è stato
capace di rovinarli. Ecco perché non ha buttato via tutto.» Si strofinò le
tempie con le nocche.
«Bowman è convinto che Lecter cercherà di rispondere attraverso il
"Tattler". Secondo lui i due si sono accordati in quel senso. Credi che gli
risponderà?»
«Senz'altro. È un grafomane. Amicizie epistolari dappertutto.»
«Se usano il "Tattler", Lecter deve aver avuto appena appena il tempo di
far inserire la risposta nel numero che stampano stasera, anche se l'ha in-
viata per espresso il giorno che gli è arrivato il biglietto. Chester dell'uffi-
cio di Chicago è andato al "Tattler" a controllare le inserzioni. E proprio in
questo momento il giornale è in composizione.»
«Speriamo in Dio che quelli del "Tattler" non si insospettiscano» disse
Graham.
«IL capo tipografo crede che Chester sia un agente immobiliare che vuo-
le vedere in anticipo le inserzioni. Gli vende le bozze sottobanco, una a
una, a mano a mano che escono. Ce le facciamo dare tutte, tutte quelle de-
gli annunci a pagamento, tanto per fare un po' di fumo. Bene, se riusciamo
a scoprire come deve rispondere Lecter, possiamo imitare il metodo e
mandare un messaggio falso al Lupo Mannaro... Ma cosa gli diciamo? In
che modo lo utilizziamo?»
«La cosa più ovvia è quella di cercare di convincerlo a lasciare un reca-
pito» disse Graham. «Farlo abboccare con qualcosa che gli piacerebbe ve-
dere. "Fatti importanti" di cui Lecter è al corrente per avermi parlato. Un
qualche errore che lui ha commesso e che noi ci aspettiamo che ripeta.»
«Sarebbe un idiota se ci cascasse.»
«Lo so. Vuoi sapere quale sarebbe l'esca migliore?»
«Non sono sicuro di volerlo sapere.»
«L'esca migliore sarebbe Lecter.»
«E come?»
«Sarebbe un casino mettere in piedi la cosa, lo so. Potremmo farci con-
segnare Lecter — Chilton al Chesapeake non ci lascerebbe fare — e tener-
lo chiuso in condizioni di massimo isolamento in un ospedale psichiatrico
militare. Poi fingeremmo che sia fuggito.»
«Oh, Gesù.»
«Una settimana dopo la "grande fuga" mandiamo un messaggio al Lupo
Mannaro. Lecter chiede un appuntamento.»
«Ma perché diavolo uno dovrebbe aver voglia di incontrare Lecter? Vo-
glio dire, anche se è il Lupo Mannaro.»
«Per ucciderlo, Jack» Graham si alzò in piedi. Non c'erano finestre da
cui guardare fuori parlando. Si fermò davanti al manifesto delle dieci per-
sone più ricercate d'America, l'unico elemento decorativo dell'ufficio.
«Vedi, in questo modo potrebbe assorbirlo, inglobarlo: diventare migliore
di lui.»
«Mi sembri piuttosto sicuro.»
«Sbagli. Chi può esserne sicuro? Nel biglietto c'è scritto "ho alcune cose
che mi piacerebbe moltissimo mostrarle. Un giorno, forse, se le circostan-
ze lo permetteranno". Magari si tratta di un invito autentico. Non credo che
sia semplicemente una forma di cortesia.»
«Chissà cosa deve fargli vedere. Le vittime erano intatte. Non mancava
nulla, solo un po' di pelle e di capelli che probabilmente erano stati... che
parola ha usato Bloom?»
«Ingeriti» disse Graham. «Sa Dio che cos'ha. Tremont. Te li ricordi i co-
stumi di Tremont a Spokane? L'avevano legato a una barella e lui li indi-
cava col mento, perché voleva farli vedere ai poliziotti. Non sono sicuro
che Lecter riesca ad attirare allo scoperto il Lupo Mannaro, Jack. Dico solo
che è il miglior tentativo che possiamo fare.»
«Si diffonderebbe un panico incredibile se la gente pensasse che Lecter è
scappato. I giornali ci darebbero addosso. Sarà anche il miglior tentativo,
ma è meglio tenerlo per ultimo.»
«Probabilmente non si avvicinerebbe alla cassetta fermo posta, però po-
trebbe avere la curiosità di guardare da lontano, per vedere se Lecter l'ha
venduto. Se potesse farlo da una certa distanza. Dovremmo scegliere un
posto che si possa tenere sotto osservazione solo da pochi punti distanti e
tenerli sotto controllo.» La soluzione gli sembrava fiacca già mentre la di-
ceva.
«Il servizio segreto ha un posto che non ha mai usato. Dovrebbero la-
sciarcelo usare. Se però non mettiamo un avviso oggi, dobbiamo aspettare
lunedì prossimo prima che esca il numero successivo. Le rotative partono
alle cinque, ora di Washington. A Chicago hanno ancora un'ora e un quarto
per far saltar fuori l'annuncio di Lecter, se esiste.»
«E per quanto riguarda l'ordine di Lecter di pubblicare l'annuncio... non
potremmo averlo più in fretta?»
«Quelli di Chicago si sono messi in contatto con il caporeparto, tenendo-
si un po' sulle generali» rispose Crawford. «La posta la tengono nell'ufficio
del responsabile della pubblicità. Vendono nomi e indirizzi alle ditte che
vendono prodotti per gente sola, filtri d'amore, pillole afrodisiache, traffi-
canti di materiale pomo, roba tipo "conoscete splendide fanciulle asiati-
che", corsi di formazione della personalità, e simili.
«Potremmo far appello al senso sociale del direttore della pubblicità e
riuscire a dare un'occhiata, dicendogli di tenere la bocca chiusa. Però non
voglio correre il rischio che il "Tattler" ci sbrodoli tutto addosso. Ci vor-
rebbe un mandato per perquisirgli gli uffici e sequestrargli la posta. Ci sto
pensando.»
«Se non salta fuori niente a Chicago, potremmo mettere comunque un
annuncio. Se ci siamo sbagliati, riguardo al "Tattler" non ci perdiamo nien-
te» suggerì Graham.
«E se invece abbiamo ragione e mettiamo insieme una risposta basata su
quello che c'è in questo biglietto e mandiamo tutto a puttane — cioè se la
cosa gli puzza — finiamo giù per il cesso. Non ti ho chiesto di Birmin-
gham. Trovato qualcosa?»
«A Birmingham è calata la saracinesca, ormai. La casa degli Jacobi è
stata ridipinta e messa in vendita. La loro roba è finita in magazzino. Ho
controllato le casse. Quelli con cui ho parlato non conoscevano molto bene
gli Jacobi. L'unica cosa che hanno detto tutti è che marito e moglie erano
molto affettuosi tra di loro. Si accarezzavano sempre. E adesso di loro so-
no rimasti solo quattro cassoni di roba in magazzino. Avrei voluto...»
«Smettila di volere questo e quello, adesso ci sei dentro.»
«E il segno inciso sull'albero?»
«"Colpiscilo in testa"? A me non dice un bel niente» disse Crawford. «E
neanche il Drago Rosso. Beverly conosce il Mah-Jong. È perspicace, ma
non riesce a capire. Dai capelli sappiamo che non è cinese.»
«Ha tagliato il ramo con un tronchesino. Non vedo...»
Squillò il telefono. Crawford disse poche parole.
«Sono pronte le analisi, Will. Andiamo nell'ufficio di Zeller. È più gran-
de e un po' meno grigio.»
Lloyd Bowman, asciutto come un documento malgrado il caldo, li in-
contrò nel corridoio. Sventolava con ambedue le mani delle fotografie ba-
gnate e sottobraccio stringeva un fascio di fotocopie. «Jack, devo essere in
tribunale alle quattro e un quarto» disse filando via. «È per quel falsario,
Nilton Eskew, e la sua bella, Nan. È una capace di disegnare un biglietto di
banca a mano libera. Mi hanno fatto diventare matto per due anni facendo-
si i traveller's checks con una fotocopiatrice a colori. Non torno a casa sen-
za di loro. Faccio a tempo o devo telefonare al pubblico ministero?»
«Ce la fai» disse Crawford. «Siamo arrivati.»
Beverly Katz seduta sul divano dell'ufficio di Zeller, sorrise a Graham,
controbilanciando il cipiglio di Price, che le sedeva accanto.
Il capo della sezione analisi scientifiche, Brian Zeller, era giovane per la
carica che ricopriva, ma stava già perdendo i capelli e portava un paio di
occhiali con le lenti bifocali. Nella libreria alle sue spalle Graham vide il
manuale di scienza della medicina legale di H.J. Walls, il grande trattato
Medicina legale in tre volumi di Tedeschi e un'edizione antica di The
Wreck of the Deutschland di Hopkins:
«Will, credo che ci siamo già incontrati una volta» disse. «Conosci tut-
ti?... Benissimo.»
Crawford si appoggiò a braccia incrociate alla scrivania di Zeller.
«Qualcuno di voi ha fatto il colpaccio? D'accordo, avete trovato qualcosa
che indica che il biglietto non è stato scritto dal Lupo Mannaro?»
«No» disse Bowman. «Ho parlato con Chicago cinque minuti fa per co-
municare dei numeri che ho trovato impressi sul verso del biglietto. Sei-
sei-sei. Ve li faccio vedere quando arriviamo al punto. Per il momento
quelli di Chicago hanno per le mani più di duecento messaggi personali.»
Allungò a Graham un fascio di fotocopie teletrasmesse. «Le ho lette. La
solita roba: offerte di matrimonio, appelli a persone scappate. Se è tra que-
ste non so come faremo a riconoscerlo.»
Crawford scosse la testa. «Non lo so nemmeno io. Proviamo a vedere
con le tracce concrete. Jimmy Price ha fatto tutto il possibile ma non ha
trovato impronte. Tu hai trovato qualcosa, Bev?»
«Il frammento di un baffo. Peso specifico e diametro sono uguali ai
campioni di Hannibal Lecter. È uguale anche il colore, nettamente diverso
dai campioni trovati a Birmingham e ad Atlanta. Tre granellini blu e delle
macchiette scure le ho passate a Brian.» Lo indicò con un cenno delle so-
pracciglia.
«I granuli erano quelli di un normalissimo detersivo commerciale conte-
nente cloro» spiegò questi. «Devono essere caduti dalle mani dell'addetto
alle pulizie. C'erano anche alcune minutissime particelle di sangue rappre-
so. È senz'altro sangue, ma non basta per stabilire di che gruppo è.»
«Le lacerazioni alla fine del biglietto non seguono esattamente le perfo-
razioni» proseguì Beverly Katz. «Se troviamo il rotolo in mano a qualcu-
no, e se non è stato più usato, possiamo fare un confronto. È il caso di
mandare in giro una segnalazione, così gli agenti che dovessero arrestarlo
si ricorderanno di cercare il rotolo.»
Crawford annuì. «Bowman?»
«Sharon, che lavora nel mio ufficio, ha cercato di scoprire che tipo di
carta è. Carta igienica di quella usata sulle barche e nei camper. La qualità
è identica a quella della marca Wedeker, fabbricata a Minneapolis. La di-
stribuiscono in tutti gli Stati Uniti.»
Bowman allineò le fotografie su un telaio vicino alla finestra. Aveva una
voce stranamente profonda, per un ometto come lui; il cravattino a farfalla,
quando parlava, si muoveva leggermente. «Dalla calligrafia si può dire che
è una persona che di solito scrive con la destra e che, in questa occasione,
si è servito della sinistra e ha volutamente usato le maiuscole. Potete vede-
re che la scrittura è incerta e che le lettere non sono tutte delle stesse di-
mensioni.
«Le proporzioni poi mi fanno pensare che il nostro uomo sia leggermen-
te astigmatico.»
«L'inchiostro sui due pezzi del biglietto sotto la luce naturale sembra ap-
partenere alla stessa penna ma sotto un filtro colorato si nota una leggera
differenza. Ha usato due penne, deve aver cambiato nella parte del bigliet-
to mancante. Potete vedere qui dove la prima penna ha cominciato a scri-
vere male. Non doveva essere stata usata spesso: vedete che ha lasciato
una macchia all'inizio? Può darsi che sia stata tenuta con la punta in basso,
senza cappuccio, in un portapenne o in un vasetto, il che fa pensare a una
scrivania. E poi la superficie su cui è stata appoggiata la carta è abbastanza
morbida da far pensare che sia carta assorbente. Se la ritrovassimo potreb-
bero esserci rimasti i segni. Aggiungerò anche queste indicazioni al rap-
porto di Beverly.»
Bowman passò a una foto del verso del biglietto. L'immagine era stata
molto ingrandita e la superficie della carta risultava molto irregolare. Ap-
pariva l'ombra dei segni lasciati dalla pressione della penna. «Per scrivere
l'ultima parte ha ripiegato il biglietto, e sotto è rimasta la parte che in se-
guito è stata strappata. Questo ingrandimento, ripreso sotto luce obliqua,
mostra alcune impressioni. Possiamo riconoscere "666 an." Forse è qui che
la penna ha cominciato a scrivere male per cui ha dovuto ripassarci sopra.
Sono riuscito a riconoscerlo solo con una stampa molto contrastata. Per il
momento non abbiamo trovato annunci con le cifre 666.»
«La struttura delle frasi è ordinata, non ci sono incoerenze. Da come è
stato piegato il biglietto si può pensare che sia stato spedito in una busta
normale. Queste due zone scure sono macchie lasciate da inchiostro di
stampa. È probabile che il biglietto sia stato messo all'interno di un'inno-
centissima rivista.
«E questo è tutto» concluse Bowman. «Se non hai domande, Jack, vorrei
scappare in tribunale. Torno qui dopo aver testimoniato.»
«Inchiodali» disse Crawford.
Graham esaminò la colonna degli annunci personali sul "Tattler" ("Si-
gnora attraente e formosa, cinquantaduenne ma giovanile, cerca cristiano,
Leone, non fumatore, 40-70enne, senza figli. Bene accetti anche mutilati.
Perditempo astenersi. Necessaria foto".)
Preso dalle sofferenze e dalla disperazione che gli annunci rivelavano,
non si accorse che tutti gli altri se ne stavano andando finché Beverly Katz
gli rivolse la parola.
«Spiacente, Beverly. Cosa dicevi?» Guardò gli occhi luminosi e il viso,
gentile e segnato.
«Dicevo solo che mi fa piacere rivederti qui. Hai un bell'aspetto.»
«Grazie.»
«Saul sta seguendo un corso di cucina. Per adesso è ancora nella fase i-
niziale ma appena si calmano un po' le acque vieni a trovarci, così potrà fa-
re pratica su di te.»
«Verrò senz'altro.»
Zeller tornò al suo laboratorio. Rimasero solo Crawford e Graham. Con-
trollarono l'ora.
«Tra quaranta minuti il "Tattler" va in macchina» disse Crawford. Vado
e mi faccio dare la posta. Cosa te ne pare?»
«Devi farlo.»
Crawford informò Chicago dal telefono di Zeller. «Will, dobbiamo esse-
re pronti con un annuncio sostitutivo se facciamo tombola a Chicago.»
«Ci penso io.»
«Adesso organizzo la buca delle lettere.» Crawford chiamò il servizio
segreto e diede istruzioni. Quando posò il ricevitore Graham stava ancora
scribacchiando.
«Okay, per la buca è una bellezza» annunciò Crawford. «È una cassetta
per suggerimenti all'aperto, vicino a un idrante ad Annapolis. Territorio di
Lecter. Il Lupo Mannaro dovrebbe capire che è un posto che Lecter cono-
sce. Quelli del servizio segreto vanno là con il messaggio e le istruzioni. Il
nostro uomo può tener d'occhio il posto da un parco che si apre sul lato
opposto della strada. Quelli del servizio segreto giurano che il posto ha u-
n'aria innocua. L'avevano organizzato per incastrare un falsario ma poi non
ne hanno avuto bisogno. L'indirizzo è questo. E per quanto riguarda il
messaggio?»
«Dobbiamo mettere due messaggi sullo stesso numero. Nel primo si av-
verte il Lupo Mannaro che i suoi nemici gli stanno vicini più di quanto non
creda. Gli si dice che ad Atlanta ha fatto un grosso sbaglio e che, se lo ri-
pete, è perduto e che Lecter ha spedito per posta delle "informazioni segre-
te": quelle che io gli ho fatto vedere relativamente a quello che stiamo fa-
cendo, agli indizi che abbiamo in mano e così via. Infine diciamo al Lupo
Mannaro di cercare un secondo messaggio che inizia con "la tua firma".
«Il secondo messaggio comincia con "avido ammiratore..." e indica l'in-
dirizzo della buca per le lettere. Dobbiamo per forza fare così. Anche se il
linguaggio è allusivo, l'avvertimento che c'è nel primo messaggio potrebbe
incuriosire qualche esaltato. E se questo non riesce a trovare l'indirizzo,
può darsi che venga alla buca per le lettere a rovinare tutto.»
«Ottimo. Perfetto. Vuoi restare ad aspettare nel mio ufficio?»
«Preferirei fare qualcosa. Devo vedere Brian Zeller.»
«Fa' pure. Se ho bisogno di te ti recupero in fretta.»
Graham trovò il responsabile del laboratorio di sierologia.
«Brian, puoi farmi vedere un paio di cose?»
«Certo, quali?»
«Il campione che hai usato per trovare il gruppo del Lupo Mannaro.»
Zeller guardò Graham attraverso le lenti bifocali. «C'era qualcosa che
non hai capito, nel rapporto?»
«No.»
«Qualcosa di poco chiaro?»
«No.»
«Qualcosa di incompleto?» Zeller pronunciò la parola come se avesse un
brutto sapore.
«Hai messo giù un rapporto ottimo, non avrei potuto desiderarne uno
migliore. Voglio solo tenere in mano le prove.»
«Ah, ma certo. Si può fare.» Zeller era convinto che tutti gli agenti ad-
detti alle indagini conservassero le superstizioni dei cacciatori di mestiere.
Era dispostissimo ad accontentare Graham. «Siete tutti uguali.»
Graham lo seguì tra i banconi del laboratorio, carichi di apparecchiature.
«Ho visto che leggi il Tedeschi.»
«Sì» disse Zeller da sopra la spalla. «Qui, come sai, non ci occupiamo di
medicina legale, ma sul Tedeschi si trovano un sacco di cose utili. Gra-
ham. Will Graham. Sei stato tu a scrivere la monografia sul modo di de-
terminare l'ora della morte basandosi sull'attività degli insetti. Sei tu quel
Graham, vero?»
«Sì, l'ho scritta io.» Una pausa. «Hai ragione: sul Tedeschi il pezzo di
Mant e Nuorteva sugli insetti è ancora il migliore.»
Zeller fu sorpreso di sentirgli dire proprio quello che pensava lui. «Be',
ci sono più figure e una tabella di onde d'invasione. Senza offesa.»
«Certo che no. Sono più bravi. Gliel'ho detto di persona.»
Zeller prese da un armadio provette e vetrini e li posò su un tavolo. «Se
hai qualcosa da chiedermi mi trovi dove ci siamo incontrati. La luce del
microscopio si accende qui di lato.»
A Graham il microscopio non serviva. Non aveva dubbi sull'analisi di
Zeller. Non sapeva bene cosa voleva. Mise provette e vetrini contro luce,
poi guardò anche una bustina trasparente che conteneva due capelli biondi
trovati a Birmingham. In una seconda busta c'erano tre capelli scoperti sul
corpo della signora Leeds.
Sul tavolo davanti a sé aveva sangue, saliva e sperma e il vuoto in cui
cercava di materializzare un'immagine, un volto, qualcosa che sostituisse
la paura che avvertiva dentro di sé.
Dall'altoparlante nascosto nel soffitto arrivò una voce femminile. «Will
Graham si rechi urgentemente nell'ufficio dell'agente speciale Crawford.»
Trovò Sarah davanti alla macchina per scrivere, con un paio di cuffie in
testa. Crawford le guardava da dietro le spalle.
«A Chicago hanno trovato un annuncio con il 666» spiegò Crawford
senza voltarsi. Lo stanno dettando a Sarah. Dicono che è parzialmente in
codice.»
Sarah scrisse due righe.

Caro Pellegrino, mi ritengo onorato...

«È questo. È questo» disse Graham. «Lecter, quando ha parlato con me,


l'ha chiamato appunto pellegrino.»

sei bellissimo...

«Cristo,» esclamò Crawford.


Offro cento preghiere per la tua salvezza.
Troverai aiuto in Giovanni 6:22, 8:16, 9:1; Luca 1:7, 3:1; Galati
6:11, 15:2; Atti degli Apostoli 3:3; Apocalisse 18:7; Giona 6:8...

Sarah rallentava per ripetere ogni coppia di numeri all'agente che telefo-
nava da Chicago. Quando ebbe finito, l'elenco delle citazioni copriva un
quarto di pagina. Era firmata "Che tu sia benedetto, 666".
«È tutto» annunciò Sarah.
Crawford prese il telefono. «Okay, Chester, com'è andata con il respon-
sabile della pubblicità?... No, hai fatto bene... Non si capisce un bel niente,
hai ragione. Resta vicino al telefono, ti richiamo.»
«Un codice» osservò Graham.
«C'era da aspettarselo. Abbiamo ventidue minuti per trovare un messag-
gio, se riusciamo a risolverlo. Il capo tipografo ha bisogno di dieci minuti
di preavviso e di 300 dollari per infilarlo in questo numero. Bowman si
trova nel suo ufficio, hanno rimandato il processo. Telefono all'ufficio crit-
tografia della Langley. Sarah, manda subito un telex all'ufficio crittografia
della CIA. Io li avverto che sta arrivando.»
Bowman posò il messaggio sulla scrivania e lo allineò esattamente con il
piano di carta assorbente. Poi pulì accuratamente le lenti degli occhiali
senza montatura. A Graham parve che ci mettesse moltissimo.
Bowman aveva la fama di essere uno che non perdeva tempo. Anche
quelli della sezione esplosivi lo riconoscevano, e gli perdonavano di non
essere un ex marine.
«Abbiamo ancora venti minuti» disse Graham.
«Capisco. Hai telefonato a Langley?»
«L'ha fatto Crawford.»
Bowman lesse e rilesse il messaggio, lo guardò al rovescio e di lato, pas-
sò le dita lungo i margini del foglio. Quindi prese una Bibbia da uno scaf-
fale. Per cinque minuti si sentì solo il rumore del loro respiro e della velina
delle pagine.
«No» disse alla fine. «Non ce la facciamo. Meglio usare il tempo che
rimane per fare qualcos'altro, se hai qualcos'altro da fare.»
Graham gli mostrò una mano vuota.
Bowman girò intorno alla scrivania mettendosi di fronte a Graham e si
tolse gli occhiali. Sul naso si vedevano due chiazze rosee. «Sei sicuro che
questo tuo Lupo Mannaro abbia spedito solo questo biglietto a Lecter?»
«Sì.»
«Allora il codice dev'essere piuttosto facile. Devono semplicemente non
farsi capire da chi lo legge per caso. Del messaggio mancano solo poco più
di sette centimetri, non c'è molto spazio per istruzioni. I numeri non sono
quelli del codice carcerario... quello a colpi. Secondo me si basa su un li-
bro.»
Crawford si unì a loro. «Un libro?»
«Sembrerebbe proprio. Il primo numero, quel "Cento preghiere" potreb-
be essere il numero della pagina. Le coppie di numeri potrebbero essere la
riga e la lettera. Ma quale libro?»
«Non la Bibbia?» chiese Crawford.
«No, non è la Bibbia. In un primo momento l'ho pensato anch'io. Mi ha
messo fuori strada il "Galati 6:11". Andrebbe bene, ma in realtà è una
coincidenza perché poi c'è un "Galati 15:2" e il libro dei Galati ha solo sei
capitoli. Lo stesso per Giona 6:8... nel libro di Giona ci sono solo quattro
capitoli. Non ha usato la Bibbia.»
«Forse il titolo del libro è nascosto nella parte in chiaro del messaggio»
suggerì Crawford.
Bowman scosse il capo. «Non credo.»
«Allora è stato il Lupo Mannaro a indicargli il libro da usare. Deve aver-
lo specificato nel biglietto» intervenne Graham.
«Pare proprio che sia così» disse Bowman. «E se torchiassimo Lecter?
In un ospedale psichiatrico penso che le droghe...»
«Tre anni fa hanno provato a fargli del sodium amytal per scoprire dove
aveva seppellito uno studente di Princeton» disse Graham. «Gli ha detto di
andare a fare un bagno. E poi se lo spremiamo perdiamo il contatto. Se è
stato il Lupo Mannaro a scegliere il libro, doveva sapere che Lecter l'aveva
in cella.»
«So per certo che non ha ordinato libri e non ne ha chiesti in prestito a
Chilton» disse Crawford.
«Cos'è uscito sulla stampa a questo proposito, Jack? I libri che Lecter
legge.»
«Hanno detto che ha libri di medicina, di psicologia, di cucina.»
«E allora deve trattarsi di un testo fondamentale, qualcosa che il Lupo
Mannaro sa che Lecter ha senz'altro» disse Bowman. «Ci serve un elenco
dei libri che ha in cella. Tu ce l'hai?»
«No.» Graham si fissò la punta delle scarpe. «Potrei chiamare Chilton...
Un momento: quando Rankin e Willingham gli hanno perquisito la cella
hanno preso delle polaroid per poi poter rimettere tutto in ordine.»
«Ti spiace chiedergli di venire da me con le foto dei libri?» disse Bo-
wman, riempiendo la borsa.
«Dove?»
«Alla biblioteca del Congresso.»
Crawford chiamò per l'ultima volta l'ufficio crittografico della CIA. Il
computer di Langley cercava di elaborare una serie incredibile di griglie
alfabetiche. Nessun risultato. Il crittografo fu d'accordo con Bowman: pro-
babilmente il codice era basato su un libro.
Crawford guardò l'orologio. «Will, ci restano tre possibilità. Dobbiamo
decidere immediatamente. Possiamo non far pubblicare il messaggio di
Lecter. Possiamo sostituirlo con nostri messaggi in chiaro e invitare il Lu-
po Mannaro ad andare alla buca delle lettere. Oppure possiamo lasciar
pubblicare l'annuncio di Lecter così com'è.»
«Sei sicuro che siamo ancora a tempo a non farlo pubblicare?»
«Chester è sicuro che il capo della tipografia lo cancella per 500 dollari,
più o meno.»
«Non vorrei mettere un messaggio in chiaro, Jack. Probabilmente chiu-
derebbe il contatto con Lecter.»
«Già. Ma non mi va l'idea di far circolare l'annuncio di Lecter senza sa-
pere cosa dice» obiettò Crawford. «Cosa potrebbe dirgli che già non sa? Se
ha scoperto che abbiamo un'impronta parziale del pollice e che le sue im-
pronte non si trovano in nessun archivio, potrebbe tagliarsi i pollici, to-
gliersi la dentiera e farci un gran sorriso a tutte gengive in tribunale.»
«Nel riassunto che ho dato a Lecter, dell'impronta del pollice non si par-
lava. Meglio far uscire l'annuncio. Per lo meno così incoraggiamo il Lupo
Mannaro a scrivergli di nuovo.»
«E se lo incoraggiasse a fare qualche altra cosa?»
«Staremmo male per un bel po'» concluse Graham. «Comunque dob-
biamo farlo.»

Un quarto d'ora dopo a Chicago la grande rotativa del "Tattler" si mise


in moto, salì a regime finché il rombo non fece sollevare la polvere dal pa-
vimento della tipografia. L'agente dell'FBI che aspettava tra l'odor di carta
e di inchiostro prese una delle prime copie.
In prima pagina c'erano i titoli degli articoli più importanti. "Trapianto
della testa!" e poi "Gli astronomi vedono Dio!"
L'agente controllò che l'annuncio di Lecter fosse regolarmente apparso e
infilò il giornale in una busta pronta per essere spedita a Washington. A-
vrebbe rivisto quella copia e ricordato l'impronta lasciata dal suo pollice
sulla prima pagina... ma questo sarebbe accaduto anni dopo, quando a-
vrebbe portato i figli al museo criminale, durante una visita alla sede cen-
trale dell'FBI.

14

Nell'ora che precede l'alba Crawford si svegliò da un sonno profondo.


Aprì gli occhi nella stanza, al buio, e sentì il grosso seno della moglie co-
modamente posato contro la sua schiena. Non capì come mai si era sve-
gliato, finché il telefono non squillò una seconda volta. Afferrò il ricevito-
re. «Jack, parla Lloyd Bowman. Ho risolto il codice. È bene che tu lo sap-
pia subito.»
«D'accordo, Lloyd.» Cercò con i piedi le pantofole.
«Dice: Casa di Graham Marathon, Florida. Salvati. Ammazzali tutti.»
«Maledizione. Meglio che mi muova.»
«Lo so.»
Crawford entrò nello studio senza prendere la vestaglia. Telefonò due
volte in Florida, una volta all'aeroporto, poi a Graham in albergo.
«Will, Bowman è riuscito a decifrare il messaggio.»
«Cosa dice?»
«Te lo spiego tra un attimo. Adesso Stammi a sentire. È tutto a posto.
Me ne sono già occupato io, quindi non spaventarti quando te lo dico.»
«Dimmelo subito.»
«È il tuo indirizzo di casa. Lecter ha comunicato a quel bastardo il tuo
indirizzo. Un momento, Will. Lo sceriffo di Marathon ha appena mandato
due auto a Sugarloaf e da Marathon una lancia della guardia costiera sor-
veglia la casa dal mare. Il Lupo Mannaro in così poco tempo non può aver
fatto nulla. Non fare nessuna mossa. Puoi agire più in fretta se ti do una
mano io. E adesso ascolta.
«Gli agenti dello sceriffo non faranno spaventare Molly. Le auto si limi-
tano a bloccare la strada che porta alla casa e due agenti si avvicineranno
in modo da tenerla d'occhio. La puoi avvertire personalmente quando si
sveglia. Passo a prenderti tra mezz'ora.»
«Non mi troverai qui.»
«Il primo aereo per la Florida parte alle otto. Ci metteremo di meno a
farli venire qui. Gli metto a disposizione la casa di mio fratello sul Chesa-
peake. Ho un ottimo piano, Will, te lo dico appena ci vediamo. Se non sei
d'accordo, ti metto io sull'aereo.»
«Devo prendere qualcosa in armeria.»
«Ti ci porto io direttamente.»

Molly e Willy furono tra i primi a scendere dall'aereo al National Airport


di Washington. Molly riconobbe Graham in mezzo alla folla. Non sorrise
ma si voltò verso Willy e gli disse qualcosa mentre, camminando in fretta,
precedevano la fila di turisti di ritorno dalla Florida. Fece scorrere lo
sguardo su Graham, gli si avvicinò dandogli un bacio leggero. Le dita ab-
bronzate, fredde, gli toccarono la guancia.
Graham sentì addosso lo sguardo del bambino. Willy gli strinse la mano
a braccio teso.
Graham fece una battuta sul peso della valigia di Molly.
«La porto io» disse Willy.
Una Chevrolet marrone targata Maryland si accodò a loro mentre usci-
vano dal parcheggio.
Graham attraversò il ponte che portava ad Arlington e indicò il mauso-
leo di Lincoln, quello di Jefferson e il monumento a Washington, prima di
puntare verso est in direzione della baia di Chesapeake. A una quindicina
di chilometri da Washington la Chevrolet marrone si affiancò alla loro
macchina sulla corsia di destra. Il conducente li guardò con una mano al-
l'altezza della bocca e dal nulla nell'auto si materializzò una voce rauca.
«Fox Edward, tutto a posto. Buon viaggio.»
Graham prese da sotto il cruscotto il microfono nascosto.
«Ricevuto, Bobby. Tante grazie.»
L'autista della Chevrolet rallentò e fece lampeggiare la freccia.
«Per essere sicuri che non ci seguano giornalisti o roba del genere» spie-
gò Graham.
«Capito» disse Molly.
Si fermarono a pomeriggio inoltrato per mangiare un piatto di granchi in
un ristorante sulla strada. Willy andò a guardare la vasca delle aragoste.
«Non mi va proprio questa storia, Molly. Mi spiace» disse Graham.
«Adesso dà la caccia a te?»
«Non abbiamo nessun motivo per crederlo. Lecter si è limitato a sugge-
rirglielo. Lo spinge a farlo.»
«Dà una brutta sensazione.»
«Lo so. A casa del fratello di Crawford tu e Willy siete al sicuro. Non lo
sa nessuno, salvo io e Crawford.»
«Per il momento preferirei non parlare di Crawford.»
«È un bel posto, vedrai.»
Molly respirò a fondo e quando vuotò i polmoni la rabbia parve sfuggire
insieme al respiro, lasciandola esausta e tranquilla. Apparve un sorriso in-
certo. «Accidenti, giù a casa per un po' non ci ho visto più dalla rabbia.
Abbiamo qualche Crawford tra i piedi?»
«Nemmeno per sogno.» Scostò il cestino del pane per prenderle la ma-
no. «Quanto ne sa Willy?»
«Sa molto. La madre del suo amico Tommy aveva portato dal supermer-
cato uno di quei giornalacci e Tommy gliel'ha fatto vedere. C'erano un
sacco di cose sul tuo conto, evidentemente molto distorte. Diceva di
Hobbs, del posto dove sei finito dopo, di Lecter... tutto. È rimasto sconvol-
to. Gli ho chiesto se aveva voglia di parlarne. E lui mi ha domandato solo
se io lo sapevo già. Gli ho risposto di sì, che una volta io e te ne avevamo
già parlato, che mi avevi spiegato tutto prima che ci sposassimo. E poi gli
ho chiesto se voleva che gli raccontassi come stavano veramente le cose.
Mi ha detto che avrebbe chiesto direttamente a te.»
«Benissimo. Si è comportato molto bene. Che cos'era, il "Tattler"?»
«Non lo so, credo di sì.»
«Grazie tante, Freddy.» Un fiotto di rabbia nei confronti di Freddy
Lounds lo costrinse ad alzarsi dalla sedia. Andò a gettarsi dell'acqua fredda
sul viso nella toilette.

Quando squillò il telefono in ufficio, Sarah stava salutando Crawford,


pronta ad andarsene. Posò borsetta e ombrello e andò a rispondere.
«Ufficio dell'agente speciale Crawford... No, il signor Graham non è in
ufficio, ma può dire... Un attimo, glielo... sì, lo troverà domani pomerig-
gio, ma dica...»
Il tono della voce fece avvicinare Crawford.
Sarah teneva la cornetta come se la comunicazione si fosse interrotta.
«Ha chiesto di Will e ha detto che avrebbe richiamato domani pomeriggio.
Ho cercato di tenerlo in linea.»
«Chi?»
«Ha detto: "Dica solo a Graham che è il Pellegrino". Il dottor Lecter si
era rivolto così al...»
«Al Lupo Mannaro.»
Mentre Molly e Willy aprivano le valigie Graham andò al negozio di a-
limentari. Trovò dei meloni gialli maturi. Parcheggiò l'auto di fronte a ca-
sa, sul marciapiede opposto e rimase immobile per qualche minuto, le ma-
ni strette al volante. Lo imbarazzava che, per colpa sua, Molly avesse do-
vuto abbandonare quella casa che amava, costretta a finire tra sconosciuti.
Crawford aveva fatto del suo meglio. Non era una casa anonima di pro-
prietà dell'FBI con i braccioli delle poltrone ingialliti dal sudore di tante
mani. Era una villetta piacevole, pitturata di fresco, con cespugli di impa-
tiens fioriti accanto ai gradini dell'ingresso. Era ben curata, ci aveva vissu-
to una persona amante dell'ordine. Lo spiazzo dietro casa scendeva verso
la baia di Chesapeake e nell'acqua era ormeggiata una zattera.
Dietro le tende si vedeva la luce azzurrina della televisione. Molly e
Willy stavano guardando la partita di baseball.
Il padre di Willy era stato un giocatore di baseball, e anche piuttosto
bravo. Aveva conosciuto Molly sull'autobus che li portava a scuola, si era-
no sposati quando frequentavano il college.
Si erano trasferiti in Florida, portando Willy con loro, quando lui era sta-
to ingaggiato dai Cardinals. Avevano trascorso un periodo bellissimo. Le
prime due partite erano andate benissimo, poi il padre di Willy aveva co-
minciato ad avere difficoltà a deglutire. Il chirurgo aveva tentato un inter-
vento ma ormai c'erano delle metastasi. Sei mesi dopo era morto. Willy
aveva sei anni.
Willy ogni volta che poteva guardava la televisione. Molly solo quando
era sconvolta.
Graham era senza chiave. Bussò.
«Ci vado io.» La voce di Willy.
«Un momento.» Molly scostò le tendine. «A posto.»
Willy aprì la porta. Stretto in mano, all'altezza della coscia, teneva un
coltello da pesca.
Graham spalancò gli occhi. Doveva averlo portato in valigia.
Molly gli prese il sacco della spesa. «Vuoi un po' di caffè? C'è anche del
gin, ma non è la marca che piace a te.»
Quando fu andata in cucina Willy chiese a Graham di uscire in giardino
con lui.
Dal portico posteriore si vedevano le luci delle barche ancorate nella
baia.
«Will, c'è qualcosa che devo sapere per badare alla mamma?»
«Siete tutti e due al sicuro qui, Willy. Ricordi l'auto che ci è venuta die-
tro dall'aeroporto per assicurarsi che nessuno sapesse che venivamo qui?
Nessuno può sapere dove siete tu e la mamma.»
«Quel matto vuole ammazzarci, vero?»
«Non lo sappiamo. Solo che non mi sento tranquillo con lui che sa il no-
stro indirizzo.»
«Lo ammazzerai?»
Graham serrò un attimo gli occhi. «No. Io devo solo trovarlo. Poi lo
metteranno in un manicomio per curarlo, per impedirgli di far del male a
qualcuno.»
«Sai, Will, la mamma di Tommy aveva quel giornale. Diceva che tu a-
vevi ammazzato un tipo su nel Minnesota e che poi eri andato in un ospe-
dale per malati di mente. Non l'avevo mai saputo. È vero?»
«Sì.»
«Stavo per chiederlo alla mamma, ma poi mi è venuto in mente che era
meglio chiederlo a te.»
«Sono contento che tu me lo chieda direttamente. Non era un ospedale
per malattie mentali, curavano tutte le malattie.» La distinzione gli sem-
brava importante. «Io ero nel reparto psichiatrico. Ti darà fastidio saperlo.
Dato che ho sposato la tua mamma.»
«Ho promesso a papà che mi sarei preso cura di lei. E ho intenzione di
farlo.»
Graham sentiva che doveva spiegare a Willy un po' di cose. Abbastanza,
ma non troppo.
In cucina la luce si spense. Vedeva la silhouette di Molly dietro la porta
e sentiva il peso del suo giudizio. Trattando con Willy, le teneva il cuore in
mano.
Era chiaro che Willy a questo punto non sapeva più cosa chiedere. Lo
fece Graham al suo posto.
«La questione dell'ospedale è venuta fuori dopo la faccenda di Hobbs.»
«Gli hai sparato?»
«Sì.»
«E com'è successo?»
«Tanto per cominciare, Garrett Hobbs era pazzo. Aggrediva le studen-
tesse di un college e... le uccideva.»
«Come?»
«Con un coltello; comunque io trovai un truciolo di metallo sui vestiti di
una delle ragazze. Sai, come quelli che si fanno quando si filettano i tubi
dell'acqua... ti ricordi quella volta che abbiamo aggiustato la doccia all'e-
sterno?
«Io controllavo gli idraulici, gli specialisti di impianti di riscaldamento e
gente simile. Mi ci è voluto un sacco di tempo. Hobbs aveva spedito una
lettera di licenziamento a un'impresa edile dove ero andato a controllare.
L'ho vista ed era... strana. Non lavorava in nessun posto per cui andai a
trovarlo a casa sua.
«Stavo salendo le scale del suo appartamento. C'era con me un agente in
divisa. Hobbs deve averci visto arrivare. Ero quasi arrivato al pianerottolo
quando lui buttò fuori di casa sua moglie che rotolò giù per le scale. Mor-
ta.»
«L'aveva uccisa lui?»
«Già. Allora dissi all'agente di chiamare il pronto intervento. Poi però
sentii che dentro c'erano dei bambini che strillavano. Volevo aspettare, ma
non ci riuscii.»
«Sei entrato in casa sua?»
«Proprio così. Hobbs teneva una ragazza bloccata dietro le spalle e ave-
va un coltello in mano. Le stava facendo male. Così gli sparai.»
«La ragazza è morta?»
«No.»
«Si è rimessa?»
«Dopo un po' sì. Adesso sta bene.»
Willy digerì le informazioni in silenzio. Da una barca a vela all'ancora
arrivava della musica.
Aveva evitato di raccontare a Willy i particolari, ma non poteva impe-
dirsi di rivederli.
Non gli aveva raccontato della signora Hobbs sul pianerottolo, colpita da
numerose coltellate aggrappata a lui. Vedendo che non c'era più niente da
fare, sentendo le urla che uscivano dall'appartamento, liberandosi dalle dita
insanguinate della donna, aveva buttato giù la porta con una spallata.
Hobbs aveva immobilizzato sua figlia e le stava tagliando la gola; la ra-
gazza si divincolava tenendo basso il mento. La 38 fece volar via pezzi di
carne mentre Hobbs continuava a squarciarla e non voleva cadere... poi
Hobbs seduto sul pavimento che piangeva... dalla gola della figlia usciva
un gorgoglio. La tenne giù e vide che aveva la carotide tagliata, ma le arte-
rie erano salve. Lei lo guardava con gli occhi spalancati, affannati e il pa-
dre sul pavimento strillava «Visto? Visto?» finché non si era accasciato,
morto.
Era stato così che Graham aveva perso ogni fiducia nelle 38.
«Willy, quella faccenda di Hobbs mi pesava un sacco. Sai, continuavo a
ripensarci, non riuscivo a togliermela dalla mente. Alla fine non riuscivo a
pensare quasi a nient'altro. Non facevo che dirmi che avrei potuto gestirla
meglio. E poi non riuscii più a sentire niente. Non mangiavo e non parlavo
più a nessuno. Ero molto depresso. Così un dottore mi chiese di farmi ri-
coverare in ospedale e io ci andai. Dopo un po' riuscii a dimenticare. La
ragazza ferita venne a trovarmi. Si era rimessa e parlammo molto. Final-
mente dimenticai tutto e ripresi a lavorare.»
«È così brutto ammazzare qualcuno, anche se si è obbligati a farlo?»
«Willy, è una delle cose più brutte al mondo.»
«Senti, vado un momento in cucina. Vuoi qualcosa, una coca-cola?» A
Willy piaceva fare dei piccoli servizi a Graham ma aggiungeva sempre,
come per caso, che comunque l'avrebbe fatto lo stesso: non si muoveva
apposta per lui.
«Benissimo, una coca-cola.»
«La mamma dovrebbe venire fuori a guardare le luci.»
Quella sera, sul tardi, Graham e Molly andarono a sedersi sulla veranda
dietro casa. Cadeva una pioggerellina leggera e un alone di nebbia circon-
dava le luci delle barche. La brezza che saliva dalla baia faceva venire la
pelle d'oca sulle braccia.
«Questa faccenda durerà un bel po', vero?»
«Spero di no, ma può anche darsi.»
«Will, Evelyn ha detto che per questa settimana e per i primi quattro
giorni della prossima il negozio me lo può tenere lei. Dopo però devo tor-
nare a Marathon. Almeno un paio di giorni, quando arrivano i clienti. Pos-
so fermarmi da Evelyn e da Sam. Gli acquisti vado a farli per conto mio ad
Atlanta. Devo essere pronta per settembre.»
«Evelyn sa dove stai?»
«Le ho detto semplicemente che andavo a Washington.»
«Bene.»
«È difficile conservare quello che si ha, vero? Difficile averlo, difficile
conservarlo. È maledettamente scivoloso, questo pianeta.»
«Maledettamente scivoloso.»
«Torneremo a Sugarloaf, vero?»
«Certo che ci torneremo.»
«Non farti prendere dalla fretta e non correre pericoli. Me lo prometti?»
«Promesso.»
«Torni presto a Washington?»
Graham era rimasto mezz'ora a parlare al telefono con Crawford.
«Poco prima di pranzo. Se proprio vuoi andare a Marathon, dovremo or-
ganizzarci un po' domani mattina. Willy può andare a pescare.»
«Doveva domandartelo, di quell'altro tizio.»
«Lo so, ha fatto bene.»
«Quel maledetto giornalista, come si chiama?»
«Freddy Lounds.»
«Mi sa che lo devi odiare. Vorrei proprio che non avesse tirato in ballo
quella faccenda. Andiamocene a letto che ti massaggio la schiena.»
Graham provò una punta d'irritazione. Aveva dovuto giustificarsi con un
bambino di undici anni. L'aveva sentito dire che per lui non c'era niente di
male se era finito nella cella imbottita. E adesso lei gli massaggiava la
schiena. Andiamo a letto... Willy è d'accordo.
Quando sei teso, tieni la bocca chiusa, se ci riesci.
«Se vuoi stare un po' qui a pensare ti lascio solo» disse.
Graham non voleva pensare. Assolutamente. «Tu massaggiami la schie-
na che io ti massaggio davanti» disse.
«Avanti.»

I venti ad alta quota portarono via la pioggerella e il mattino dopo alle


nove il terreno fumava. In lontananza i bersagli del poligono di tiro dello
sceriffo apparivano incerti, quasi un miraggio.
L'addetto al poligono osservò con il binocolo l'uomo e la donna fermi
sulla linea di tiro per accertarsi che seguissero le regole di sicurezza.
Sul tesserino del dipartimento della giustizia che l'uomo gli aveva mo-
strato quando aveva chiesto di usare il poligono c'era scritto "investigato-
re". Poteva voler dire qualunque cosa. Al direttore del poligono non piace-
va che non fosse un istruttore patentato a insegnare il tiro alla pistola.
Comunque doveva ammettere che il federale sapeva il fatto suo.
Usavano solo un revolver calibro 22, ma l'uomo insegnava alla compa-
gna a sparare in posizione di tiro Weaver, piede sinistro leggermente in a-
vanti, revolver impugnato con tutte e due le mani, tensione isometrica del-
le braccia. La donna sparava a una sagoma umana a sette metri di distanza.
La vide provare e riprovare a estrarre l'arma dalla tasca esterna della bor-
setta. Continuarono finché il direttore non fu stanco di osservarli.
Il rumore degli spari cambiò e il direttore prese di nuovo il binocolo. Vi-
de che si erano messi delle cuffie per attutire il rumore e che la donna im-
pugnava un revolver corto e tozzo. Notò che la lampada dei bersagli si ac-
cendeva continuamente.
Quel modello di revolver lo interessava. Si avvicinò alla linea di tiro,
fermandosi a pochi metri da loro.
Voleva dare un'occhiata all'arma, ma non era il momento giusto. Riuscì
però a vederla bene mentre la donna toglieva i bossoli vuoti e inseriva cin-
que pallottole da un caricatore rapido.
Un'arma strana per un federale: una Bulldog 44 special, corta e brutta
con quella sua grossa canna. Aveva subito modifiche decisive. Vicino al
mirino la canna era forata per mantenerla equilibrata durante il rinculo, il
cane era stato accorciato e il calcio ingrossato. Aveva il sospetto che la
canna fosse scanalata, per i proiettili corazzati. Un'arma micidiale se cari-
cata con le pallottole che il federale aveva accanto. Si chiese come facesse
la donna a tenerla in mano. Interessante anche la progressione delle muni-
zioni impiegate. Prima veniva una scatola di cartucce a carica leggera con
pallottola di piombo. Seguivano delle normali cartucce corazzate e infine
veniva qualcosa che il direttore di tiro aveva raramente visto, anche se ne
aveva sentito molto parlare. Una fila di cartucce "Glaser Safety". La punta
dei proiettili sembrava una normale gomma da matita. Era però fissata a
una camicia di rame contenente pallettoni del 12 immersi in teflon liquido.
Era un proiettile leggero, progettato appositamente per ottenere un'altis-
sima velocità d'uscita e per schiantarsi contro il bersaglio liberando i pal-
lettoni. Sulla carne l'effetto era micidiale. Il direttore di tiro ricordava an-
che le statistiche. Fino a quel momento le pallottole erano state sparate
contro novanta uomini. Tutti e novanta erano stati messi istantaneamente
fuori combattimento. In ottantanove casi la morte era stata immediata. Una
vittima era sopravvissuta, sorprendendo i medici.
Le pallottole Glaser avevano un ulteriore vantaggio: non rimbalzavano,
non attraversavano le pareti, uccidendo magari una persona nella stanza
adiacente.
L'uomo si comportava con molta delicatezza, la incoraggiava, ma qual-
cosa pareva rattristarlo.
La donna aveva ormai sparato tutte le pallottole corazzate e il direttore
fu contento di vedere che riusciva a controllare benissimo il rinculo tenen-
do gli occhi aperti. È vero che per estrarre la pistola dalla borsa e sparare il
primo colpo le ci eran voluti quattro secondi, ma tre avevano colpito il
centro. Niente male per una principiante. Era in gamba.
Era di nuovo alla torre di controllo quando sentì il sibilo diabolico delle
Glaser.
La donna le aveva sparate tutte e cinque, una dopo l'altra. Questa non era
la tecnica di sparo dei federali.
Si chiese cosa diavolo vedessero in quella sagoma che solo cinque Gla-
ser avrebbero potuto uccidere.
Graham tornò alla torre per consegnare le cuffie, lasciando la sua allieva
seduta su una panchina, a testa bassa, i gomiti sulle ginocchia.
Il direttore pensava che dovesse essere soddisfatto dei risultati dell'allie-
va e glielo disse. I progressi in un giorno solo erano stati rapidissimi. Gra-
ham lo ringraziò distratto. La sua espressione lasciò sconcertato il diretto-
re. Aveva l'aria di un uomo che avesse appena subito una perdita irrime-
diabile.

15

Il "Pellegrino", l'uomo che aveva telefonato, aveva detto a Sarah che a-


vreb