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Per capire a pieno questo settore così vario e ampio, è utile concentrarsi sulle definizioni
di tali industrie e imprese, in particolare sulle ultime:
- le imprese culturali (IC) di cui abbiamo parlato prima
- le industrie culturali (IndC)
- le imprese creative (Icr)
- le industrie culturali e creative (ICC).
Possiamo dire che il dibattito sulle industrie culturali e creative nasce negli anni ‘90 a
Londra. La creatività è, come si può notare dal nome, quell’elemento fondamentale che
consente di ampliare tali attività e che dipende dal talento individuale dell’individuo,
che consente di distinguere e valorizzare prodotti normali. Inoltre, molte associazioni, nel
tempo, hanno dato il loro contributo nel definirle:
- Lo studioso Caves che definisce queste industrie come produttrici di beni e servizi per le
persone
- L’UNCTAD che basa la sua definizione sul concetto di economia creativa (arte +
creatività + innovazione = vantaggi economici), sostenendo come queste industrie siano
un insieme di arte cultura e tecnologia che hanno come imput principale il capitale
inellettuale.
- L’UNESCO che si occupa di cultura in generale, della sua dimensione economica e dei
conseguenti sviluppi.
Tutte queste definzioni risultano avere dunque dei punti in comune, sostenendo anche
come queste industrie generino benessere e valore per gli individui in una società.
Nonostante ciò, esistono comunque dei rischi da tenere in considerazione:
a)il rischio della disuguaglianza, che può essere legata a diversi fattori come ad esempio
il PIL;
b)il rischio dei cosiddetti oligopoli (ossia del dominio di poche imprese che controllano
tutto il resto);
c)conseguente rischio secondo cui i prodotti locali potrebbero sparire, creando così una
cosiddetta colonizzazione culturale.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, possiamo chiamare in causa il principio
dell’economia di scala che sostiene la seguente: appare ovvio che le industrie più grandi
abbiano possibilità economiche maggiori delle più piccole e, proprio per questo, esse
tenderanno a comprare prodotti in maggiore quantità spendendo di meno (poiché più si
compra più si avrà maggior possibilità di ottenere un’offerta sull’acquisto); cosa che
ovviamente non accadrà per le industrie minori, che hanno un budget inferiore alle prime
citate e che quindi non acquisteranno in grande quantità determinati prodotti. Possiamo
dunque dire, ad esempio, che questo è proprio ciò che accade paragonando una
multinazionale con un negozio locale.
Da mantere prensente quando si parla delle ICC è anche la questione del copyright, dove
appunto troviamo l’esaltazione delle proprietà individuali dell’uomo o, in questo caso, del
creatore, il quale a sua volta potrà diffondere il proprio lavoro senza paura di copie o
pirateria, ricevendo riconoscimento e renumerazione economica.
In sintesi, abbiamo dunque capito che i settori delle ICC presentano tre aspetti comuni e
fondamentali:
1) Intelligenza individuale
2) Legata alla questione del copyright
3) che a sua volta riguarda in concetto di creatività proprio dell’individuo.
Il primo tentativo che cerca di fare chiarezza in questo settore ampio e vario è la
cosiddetta prospettiva KEA che vede protagonista innanzitutto i settori giudicati industriali
e non industriali. Nel primo caso troviamo la produzione di beni e servizi destinati alla
diffusione di massa (ad esempio un film o un libro), mentre nel secondo caso abbiamo
invece la diffusione di prodotti che, generalmente, vengono consumati sul posto (come
una fiera o un’esposizione).
Le ICC vengono poi contenute – se così possiamo dire – in un modello a cerchio
concentrico costituito da Valentino nel 2013, dopo averlo ripreso da Throsby e che
contiene:
1) il cosiddetto nucleo, chiamato core cultural expression che ha in sé arti come la
letteratura, la musica, le arti visive e performative. Viene definito come il vero e proprio
prodotto culturale da offrire al pubblico che, ovviamente, è coperto da copyright.
2) Nel cerchio esterno al primo troviamo altre estensioni delle industrie creative
correlate sempre ad esse – e dunque al nucleo – che comprendono film, musei, gallerie,
biblioteche e arti fotografiche.
3) Nel terzo cerchio ritroviamo uno spazio ancora più ampio dedicato ai servizi per
mantenere il patrimonio culturale dedicato alla stampa, all’editoria, alla tv o alla radio.
4) Infine, nell’ultimo cerchio, nello strato più esterno, possiamo parlare di quelle che sono
altre tipologie di industrie collegate sempre e comunque al settore culturale, quali ad
esempio architettura o il design.
Un’altra prospettiva che ci è stata fornita è quella della tabella utilizzata dall’UE:
- Primo fra tutti abbiamo il nucleo, che comprende i campi artistici, quindi arti visive
performative e arte patrimoniale. Nei sottosettori del nucleo stesso ritroviamo gli ambiti
della danza, del festival, dell’artigianato, cinema e teatro.
- Poi abbiamo le industrie culturali con settori basati su film, radio o tv e sottosettori
dedicati all’editoria o alla stampa.
- In seguito abbiamo le industrie creative le quali comprendono architettura, design o
pubblicità e non sono necessariamente attività industriali. Questo terzo punto contine
anche quelli che sono i diritti di proprietà intellettuale dell’individuo (come ad esempio un
marchio).
- Infine abbiamo le industrie correlate a quelle citate in precedenza che rappresentano
settori molto ampi e vari come quello della telefonia mobile o del PC.
L’analisi economica di queste industrie culturali e creative si compone di vari principi, tra i
quali citeremo i più importanti:
1) L’arte per l’arte, ossia il sostenere l’importanza del vero e proprio prodotto culturale
prima di ogni cosa;
2)Motly crew, che vede per l’appunto il prodotto come il risultato dato dalle diverse
capacità dei lavoratori che hanno contribuito;
3) Gatekeeping, dove l’influenza sulla domanda e sulla fruizione di un prodotto da parte
del pubblico dipende dai fornitori;
4) Come abbiamo detto in precedenza, l’economia di scala;
5) La concentrazione su proprietà e controllo, ossia il controllare la distribuzione e la
produzione di un determinato prodotto fino al destinatario finale di esso;
6) Il concetto di creazione, poiché come abbiamo sempre detto il prodotto fa capo
all’opera di molti artisti;
7) La distribuzione, nella quale si devono considerare delle sottocategorie
→ la qualità del prodotto
→ il sunk cost (spendere e perdere denaro per qualcosa per cui vale la pena)
→ la capacità di coordinare i vari lavori creatività
→ il comparare le organizzazioni durature (imprese) con gli accordi singoli
(mercato)
Per quanto riguarda l’analisi economica delle ICC, possiamo dire che essa si compone di
due aspetti centrali riguardanti la produzione culturale:
1. La creazione di un contenuto a opera di artistica;
2. La distribuzione del contenuto, che è a carico anche dei cosiddetti Humdrum partners,
ossia persone, agenti in generale che favoriscono la produzione ma anche la distribuzione
di un determinato prodotto. Essi non sono necessariamente artisti, possono essere (ad
esempio) dei finanziatori. A sua volta, la distribuziione del prodotto ha diverse
sottocategorie, tra le quali ad esempio:
a. la qualità del prodotto
b. il sunk costs, ossia il denaro che si spende e che si perde definitivamente su un
prodotto (per il quale, ovviamente, deve valere la pena)
c. saper coordinare i lavori creativi.
(PAGINE 33-43)
LE IMPRESE CULTURALI.
Dopo aver definito in precedenza le imprese culturali con caratteristiche e funzioni,
andremo adesso a osservarle nel dettaglio.
Le imprese culturali comprendono teatri e fondazioni liriche, biblioteche, archivi,
festival e parchi archeologici.
1 Teatri e fondazioni liriche sono organizzazioni pubbliche o private, senza scopo di
lucro, nei quali l’accessibilità non è sempre libera. Queste imprese riguardano
principalmente le performing arts e, più in particolare, gli spettacoli dal vivo. La
caratteristica fondamentale di entrambe è sicuramente l’instantaneità, ossia la
consapevolezza di poter usufruire del “prodotto” solo in un momento specifico.
Nonostante ciò però, questo servizio non trasferibile può oramai diventare un prodotto
fisico, ad esempio un DVD, anche se questo non sostituirà la soddisfazione e il benessere
provati nel vedere quel prodotto nel momento esatto della sua produzione.
I destinatari del prodotto sono ovviamente una delle parti fondamentali del teatro o
delle fondazioni liriche, proprio perché è il pubblico che deve usufruirne e soddisfare i
propri interessi con esso, contribuendo anche allo sviluppo della collettività sociale e
culturale. Come abbiamo già detto prima, possiamo distinguere diversi tipi di servizi:
a) base → come, in questo caso, la rappresentazione stessa
b) complementare → come la prevendita dei biglietti per la rappresentazione
c) accessori → come la possibilità di un parcheggio privato che non farà perdere
tempo allo spettatore.
Le fasi generali di queste imprese sono:
4 I musei sono imprese culturali senza scopo di lucro, aperte al pubblico, al servizio della
società e del suo sviluppo. Nei musei vengono conservati beni materiali e non che
vengono poi esposti per scopi educativi, studio o di semplice diletto. Il museo è
comunicazione, secondo l’International council of museum, infatti si sostiene anche come
esso instauri una rete di relazioni con la società, per favorire il benessere e la
partecipazione di quest’ultima.
Potremmo parlare anche dei cosiddetti musei d’impresa, ad esempio un museo di moda
privato. Essi sono in continuo aumento e si occupano principalmente di arte
contemporanea.
Sta nascendo la cosiddetta internazionalizzazione dei musei, per esempio la sede del
museo del Louvre ad Abu-Dhabi; ma nascono anche nuove iniziative di retauro al fine di
migliorare un museo fino a riaprirlo e farlo apparire più ricco e interessante agli occhi dei
visitatori.
Tra i servizi dei musei troviamo:
1. Base → conservazione o catalogazione
2. Complementare → selezione opere e allestimento
3. Accessori → ad esempio il merchandising
Altro argomento interessante da trattare è la questione dei musei in Italia, che in
quest’ultimo periodo ad esempio hanno aumentato i prezzi d’ingresso (Uffizi), ma hanno
anche cercato di attirare più persone con la possibilità di andare di domenica al museo (la
1a domenica del mese è gratuita) e con le aperture notturne o ancora col cosiddetto art
bound (ossia il cercare di stimolare i privati a finanziare i musei per ottenere degli sconti in
cambio).
Da alcuni dati presi dall’Istat, possiamo inoltre notare come alcune regioni italiane, come
ad esempio la Sicilia, la Valle d’Aosta e il Trentino non possiedono musei statali
(nazionali), ma sono ricchi di musei regionali. Al contrario, per esempio, la Campania è
ricca di musei statali, basta pensare al patrimonio culturale offerto da Ercolano, Pompei o
dalla Reggia di Caserta.
Altre curiosità sono ad esempio che, da un lato, il Louvre è rimasto per anni il museo più
visitato al mondo e che, inaspettatamente, i Musei Vaticani risultano essere tra i primi
cinque nella classifica dei musei più visitati a livello mondiale.
Esistono, infine, diverse strategie che permettono ai musei di aumentare i visitatori:
- come abbiamo già detto prima, il restauro è una delle migliori soluzioni; basta
pensare che nel 2009 i musei restaurati hanno ovviamente avuto maggior attenzione e
quindi hanno “catturato” più visitatori;
- altra soluzione è quella di affiancare degli escamotages al prezzo di un biglietto del
museo: ad esempio, se un biglietto costa 18 euro possono esserci eccezioni sostenenti
che → si entra gratis se non si ha la maggior età
→ può entrare gratis chi insegna arti applicate o storia dell’arte
→ gli studenti possono accedere gratuitamente
→ e vi può accedere gratuitamente anche chiunque sia dotato di un particolare pass
Il cocetto dei musei è sicuramente molto ampio in cui è possibile fare confusione tra
musei, orti botanici o parchi naturali, ma da sottolineare ancora di più è la differenza tra
museo e parco archeologico. Quest’ultimo, può essere infatti definito come un “pezzo
di territorio” all’interno del quale vi sono testimonianze archeologiche che
rappresentano valori storici, paesaggistici e culturali. Vengono infatti definiti anche
come “musei all’aperto”.
5 I festival rappresentano prevalentemente forme di spettacolo dal vivo che si
svolgono in un arco di tempo limitato ed in un’area precisa del territorio. Tendono ad avere
un impatto economico sociale e culturale sulla collettività. Inoltre, per il loro continuo
incremento si parla addirittura di festivalizzazione della cultura. Alcuni festival che
possiamo citare, per esempio, sono Sanremo, il festival di Cannes o il festival della
letteratura di Mantova.
(CAPITOLO 2)
IL MERCATO
Il mercato è il luogo in cui avvengono gli scambi dei prodotti culturali. Alle volte, prò, il
meccanismo del mercato si blocca e comincia a non funzionare come dovrebbe. Ciò può
essere dovuto a diversi fattori:
(1) Beni pubblici
(2) Esternabilità
(3) Problemi informativi
(4) Beni meritori
(5) Valori non di mercato
(6) Morbo di Maubol
(1) I beni pubblici non si chiamano così perché appartengono allo stato, bensì per 2
motivi precisi:
- non hanno rivalità nel consumo
- è impossibile o difficile escludere qualcuno dalla loro fruizione
Sia beni di proprietà pubblica che privata possono essere beni pubblici.
I problemi che nascono nell’ambito dei beni pubblici e che interferiscono con il buon
funzionamento del mercato sono:
a. alle volte questi beni sono rari da produrre o trovare, perciò sono definiti beni
puri;
b. Rischio del free riding, ossia qualcuno che beneficia di un prodotto senza
contribuire al pagamento di quest’ultimo, di cui invece si fa carico la collettività;
c. esiste un punto in questo ambito in cui puiò intervenire l’escludibilità, quindi
qualcuno potrebbe essere escluso dalla fruizione (in questo caso i beni vengono
definiti impuri).
(2) La caratteristica dell’esternabilità sta nel fatto che alcuni beni prodotti dagli individui
possono avere effetti (positivi o negativi) su altri individui, senza che questi ultimi
paghino o siano compensati per tali effetti. Esistono, per l’appunto, esternabilità positive o
negative: nelle prime, la quantità di beni prodotta è inferiore a quella ottimale (ad esempio
la restaurazione di tre palazzi su quattro che si trovano in una zona degradata); nelle
seconde, la quantità prodotta è superiore a quella ottimale (ad esempio le emissioni
provocate da ciminiere).
(4) Beni meritori = nel caso in cui alcune decisioni degli individui su determinati tipi
di beni non dovessero essere, se così possiamo dire, sagge, interverrà lo stato ad
aiutarli. Alcuni economisti però, ad esempio, non sono d’accordo con questa teoria: essi
infatti sostengono il paternalismo del consumatore, ossia il pensare che consumare un
determinato prodotto dipenda esclusivamente dalla scelta del consumatore e da
nessun’altro.
(5) Il morbo di Maubol è una teoria secondo la quale i costi di produzione nel settore
artistico non si riducono, sostenendo come la produzione artistica sia più costosa di altri
settori. Essenzialmente, il morbo di Maubol, mette in contrapposizione una crescita nel
costo unitario del lavoro nei settori in cui non si è verificata un incremento della
produttività, in risposta a una crescita salariale avvenuta in un altro settore a
seguito dell’aumento di produttività.
Gestire una IC vuol dire mettere insieme principi e tecniche per decidere come
usare le risorse disponibili, affrontando anche il fenomeno del problem solving,
ossia la capacità di fronteggiare gli imprevisti e i problemi e saper reagire.
Queste scelte di gestione possono variare in base a diversi fattori:
1. Dimensione settore
2. Settore di cui si sta parlando
3. La struttura amministrativa del settore
Inoltre, il processo decisionale per la gestione delle IC deve rispondere alle seguenti
domande:
- Chi?
- Perchè?
- Quando?
- Dove?
- Cosa?
- Come?
Per compiere il processo di gestione entra in gioco la pianificazione strategica, ossia
usare le risorse a disposizione per raggiungere scopi e obiettivi prefissati che derivano
dalla missione dell’attivtà. Prima di entrare in dettaglio, dobbiamo sottolineare i tre
momenti nei quali entra in gioco il processo decisionale:
- fase di avvio → fase apertura di un’attività, dove si prendono decisioni di start-up
- durante la vita dell’impresa → decisioni di tipo fisiologico, relative ad esempio alle
caratteristiche o ai costi e benefici dell’impresa
- momento di crisi → decisioni di tipo patologico, ad esempio il rivedere alcune attività
per risanare o risolvere un problema.
Tornando adesso alla pianificazione, possiamo dire che ne esistono due tipologi: quella
generale (che prefissa lo scopo in sé, di lungo periodo, che si fa tenendo in
considerazione tutto ciò che ha e tutto ciò di cui ha bisogno una determinata attività al fine
di realizzare i suoi obiettivi) e quella operativa (che serve a realizzare il piano strategico,
dunque le azioni e le attività che si svolgono per concretizzare il tutto). Infatti la
pianificazione si distingue in piano operativo e piano strategico, ossia l’insieme
delle opzioni strategiche, delle decisioni direzionali e delle scelte operative – sono
processi che coinvolgono l’intera organizzazione.
Uno degli aspetti fondamentali del processo decisionale è la scelta della mission, ossia
del mettere in chiaro lo scopo per cui si fa una cosa (ad esempio lo scopo per cui si vuole
aprire un museo). Alla mission vengono affiancate la visione e il concetto di valori.
La mission è dunque l’ obiettivo dell’impresa, che si realizza nella cosiddetta visione, che
appunto è definita come un outcome della mission. Infine, abbiamo i valori, poiché
appunto bisogna capire quali valori si vogliono trasmettere con la mission e con la visione.
La pianificazione, seguita dalla mission, rappresenta dunque un’opzione strategica che
permettere anche di ottenere supporto da fondazioni, imprese ed enti pubblici. Entrambe
però (pianificazione e mission) si differenziano perché mentre la prima è spesso soggetta
a cambiamenti, la seconda deve rappresentare un concetto chiaro, non generico, che si
deve mantenere nel tempo.
Importante in questo ambito è il contesto e quindi analizzare la situazione di fronte
cui siamo. Per fare ciò, abbiamo due modalità diverse di azione:
1. ANALISI PEST → studiare le variabili esistenti all’interno del contesto, tra cui quello
politico (con le relative norme e regole), quello economico (attraverso il tasso
d’occupazione o la fiscalistà), quello sociale (derivante dal rapporto fra la cultura e
l’azienda stessa, ma anche dal genere e dall’età di un cittadino o ancora dal livello di
istruzione che egli ha) e infine quello tecnologico (ossia l’evoluzione della tecnologia che
ha portato alla formazione di nuove modalità di consumo).
2. ANALISI SWOT → essa viene definita come analisi della concorrenza basata su tre
diversi livelli:
- concorrenza diretta → vendita di prodotti alternativi ad altri
- concorrenza allargata → prodotti che potrebbero sostituirsi ad altri
- concorrenza indiretta → effettuata con prodotti già esistenti sul mercato
Ad influenzare questi livelli saranno sia variabili endogene (interne all’impresa), sia
esogene (quindi esterne all’impresa).
Ogni singola lettera della parola SWOT rappresenta caratteristiche da avere o da dover
fronteggiare all’interno della propria IC.
1) S = strenght → forza (avere competenze specialistiche, anche in ambito
tecnologico; fornire un prodotto di ottima qualità; persino l’entusiasmo e la
volontà di lavorare che dimostra il proprio staff.)
2) W = weakness → debolezza (uno dei punti da evitare, così come da evitare
devono essere la scarsità di risorse o l’assenza di un individuo capace di svolgere
al meglio le attività di gestione.)
3) O = opportunity → opportunità (ad esempio cercare di aumentare la propria
visibilità, integrare programmi educativi o migliorare il rapporto con la comunità.)
4) T = threat → minaccia (cosa che potrebbe essere rappresentata da una
riduzione della domanda, da nuovi concorrenti sul mercato o dal semplice cambio
di gusti.)
* Cosa da tenere assolutamente in mente è il cercare di annullare le debolezze per
evitare il presentarsi delle minacce.
Da tenere in mente, infatti, relativo a quest’ultima affermazione, è che i problemi in
un’azienda possono sempre venir fuori e per questo bisogna saperli affrontare,
partendo da ciò che si definisce una ridefinizione del problema, ossia il chiedersi:
- Qual è la situazione attuale e come vorrei che invece fosse (quella ideale)?
- Cos’è che ferma l’indivduo a realizzare la propria situazione ideale all’interno dell’impresa
e dunque qual è il problema?
- Identificare il problema, senza confondere le sue cause con i suoi effetti, poiché in questo
caso si andrebbe incontro a ulteriori difficoltà
- Non prendere decisioni affrettate che potrebbero rivelarsi errate.
L’esempio più comune di problema che si verifica nelle imprese riguarda i dati e, in
particolare, la loro raccolta (dunque la selezione) e la loro rielaborazione.
Per risolvere il problema esistono le cosiddette soluzioni alternative, quindi
strategie da adattere per risolvere la situazione. Esse possono essere:
– Incremento del livello di immaginazione e creatività
– L’analisi completa del problema che consente di identificare una soluzione
– Possibili soluzioni alternative tra le quali scegliere la migliore, ossia quella che
conviene di più.
Altri fattori che potrebbero entrare in gioco per migliorare la situazione potrebbero
essere anche la consultazione con gli altri membri dell’organizzazione oppure
ancora l’analisi di aspetti che prima non erano stati considerati.
Dopo questo processo, si arriva finalmente alla formulazione della risposta (ossia la
strategia definitiva che si adotterà). Ovviamente, essa non corrisponde necessariamente
alla decisione finale, poiché potrebbe semplicemente trattarsi di un altro errore; per questo
è consigliato controllare l’andamento dell’impresa attraverso attività di monitoraggio e
controllo.
Dunque, se volessimo riassumere la condotta strategica ideale (perfetta) da impostare
per una IC, potremmo scandirla nelle seguenti fasi:
1a fase → identificazione mission
2a fase → analisi competitiva
3a fase → analisi delle risorse interne dell’IC
4a fase → identificare le strategie da applicare e soprattuto in quali settori applicarle, quali
sono gli obiettivi da raggiungere e quali le risorse da usare
Inoltre, questa condotta strategica può → partire dall’alto e in questo caso prenderà il
nome di top-down poiché saranno decisioni
prese a livello centrale e solo dopo trasferite agli
altri livelli dell’impresa
→ partendo dall’analisi del problema stesso e in
questo caso verrà denominata bottom-up ed
essa si realizzerà solo se si avrà la capacità di
notare alcuni tipi di segnali relativi al problema
(come ad esempio col pubblico e coi fornitori).
Ancora possiamo parlare dei due diversi piani della condotta strategica, ossia delle
modalità d’azione, che possono essere:
- di consolidamento → dove si continua ad attuare una strategia scelta facendosi
trasportare anche dall’ambiente esterno e dunque dal contesto, senza così
applicare grandi cambiamenti.
- piano offensivo → dove invece si attuano grandi cambiamenti attraverso cui si
vuole avere un impatto sul contesto esterno, lo si vuole influenzare, non il contrario.
Proprio per questo motivo questo è un atteggiamento molto più dinamico del precedente.
Infine, la condotta strategica, può persistere per tre motivi:
1. Per avere stabilità = mantenere l’equilibrio dell’impresa senza grandi cambiamenti;
2. Per avere una crescita = ossia espandersi sul mercato, ad esempio, o coinvolgere
maggiormente la comunità;
3. Per avere una riduzione = quindi rallentare il ritmo dell’azienda o attuare una possibile
eliminazione relative ad alcune attività.
Questi tre tipi di persistenza della condotta possono concretizzarsi attraverso due opzioni:
il multi-business (diversificare le attività svolte, incrementarle) oppure il mono-business
(ossia concentrarsi esclusivamente su alcuni tipi di attività).
Tra le altre possibili strategie, il Solima parla anche della cosiddetta matrice Ansoff che
tratta i vari e possibili sviluppi verso cui un’impresa può procedere:
1) Crescita quantitativa (incremento dei clienti senza modifiche al prodotto offerto)
2) Sviluppo del mercato (fornire lo stesso prodotto ma espandendosi su nuovi mercati)
3) Sviluppo del prodotto (apportare modifiche al prodotto offerto)
4) Diversificazione (la modifica sia del servizio/prodotto offerto, sia del mercato).
In questo ambito, rientra poi la cosiddetta possibilità d’integrazione, ossia la decisione di
portare all’interno dell’attività ciò che serve per raggiungere gli scopi prefissati. Questo lo
si fa o in modo ascendente, dunque per non dipendere ad esempio dai fornitori e
realizzare le attività che si vogliono da sé; oppure in modo discendente, rappresentato
invece dall’avvicinamento al mercato di sbocco.
Per quanto riguarda la diversificazione, in particolare, potremmo dire che essa potrebbe
realizzarsi dal momento in cui l’impresa entra in un nuovo settore e dimostra di
saper competere con le imprese concorrenti (per fare ciò, è importante in questa
fase saper analizzare il nuovo contesto e raccogliere tutte le informazioni possibili).
La diversificazione può anche portare a molte garanzie di successo su nuovi mercati:
basta pensare, ad esempio, all’apertura del Louvre nella nuova sede di Abu-Dhabi.
Sono essenzialmente due le strategie per avere successo in quest’ambito: la leadership
di costo e la differenziazione.
La leadership di costo sta nella bravura di saper gestire l’azienda e le risorse disponibili,
oltre al potersi permettere di offrire e vendere prodotti a un prezzo più basso rispetto
a quello della concorrenza – si devono avere molte possibilità economiche per fare ciò.
Proprio per quest’ultima affermazione, per il settore culturale la leadership di costo non
rappresenta la soluzione migliore poiché molte volte il prezzo dei loro prodotti è già fissato
a livello amministrativo – oppure perché si parla addirittura di gratuità – o ancora si
dovrebbero avere grandi risorse economiche per potersi permettere una cosa del genere.
La differenziazione si basa invece sulla differenziazione, per l’appunto, del prodotto
offerto, ossia sulla sua unicità (che si può basare sia su tratti fisici che immateriali). Per
far ciò, importanti sono in particolare le asimmetrie informative, ovvero individui che
con le loro capacità cercano di comunicare l’unicità del prodotto. Come lo si può
fare? Una delle strategie da seguire per attuare la differenziazione è ad esempio quella di
concentrarsi su un solo target (anziani, per esempio).
In questo ambito poi hanno importanza sia la gestione direzionale che le risorse
necessarie: la prima riguarda il voler raggiungere la finalità dell’impresa
(principalmente annotando le attività che si possono fare, quali sono i punti critici delle
attività in questione o quali sono le relazioni che legano le varie attività) attraverso una
scomposizione degli obiettivi generali in parti più specifiche; la seconda riguarda
tutto ciò che concerne le risorse, dunque conoscere il fabbisogno del target e sapere
poi quante e quali risorse si possono utilizzare in risposta ad esso – in caso
contrario, ovviamente, si viene a verificare una carenza di risorse che porterà a un difficile
percorso per raggiungere gli scopi prefissati.
Parlando sempre di risorse, importantissime sono le risorse umane e la loro
coordinazione. Esse sono importanti perché portano un alto capitale intellettuale, hanno
competenze di livello elevato e guadagnano dallo svolgimento di una determinata attività
sia un incentivo intrinseco – ad esempio la soddisfazione personale – ma anche uno
estrinseco – ad esempio una renumerazione. Esistono essenzialmente due modi per
coordinarle: la specializzazione e il coordinamento, dove quest’ultimo riguarda ciò
che abbiamo detto precedentemente sulle risorse umane – ossia il trovare la sinergia,
lla collaborazione fra di esse.
La specializzazione, d’altro canto, si basa sulla divisione del lavoro, ossia su un
individuo che ha talento per un’attività e si specializza in essa: crea così un vantaggio di
costo (costi nella produzione delle attività più bassi della conocrrenza). Sempre in
quest’ambito, importanti da citare sono anche l’economia di scopo – ossia lo svolgere
più attività utilizzando meno risorse – e l’economia di scala – ossia più beni vengono
prodotti, minore sarà il costo unitario per ciascuna unità di prodotto.
L’organizzazione dell’impresa all’interno della specializzazione si compone di:
- un vertice, dove abbiamo il direttore che prende le decisioni più importanti;
- un centro decisionale, ossia coloro che decidono cosa realizzare per raggiungere gli
obiettivi prefissati
- organi operativi, che attuano e quindi realizzano le decisioni prese
- l’organo di controllo che verificano l’andamento delle attività
* Importante da ricordare è anche la delega, ossia l’affidarsi e il fidarsi – soprattutto – di
una o più persone per decisioni o per lo svolgimento di attività.
Fondamentali sono poi le relazioni fra le IC che solitamente possono essere:
– formali → dunque professionali, dove si ha una gerarchia secondo il principio di
comando
– informali → formate spontaneamente e basate ad esempio sul lavoro di gruppo
– verticali → relazioni create fra i vari livelli dell’impresa
– orizzontale → relazioni allo stesso livello gerarchico
– trasversali → si cerca di creare integrazione relazionandosi attraverso i diversi livelli
Infine, possiamo avere vari modelli organizzativi riguardanti questo contesto delle
IC:
1) Modello organizzativo funzionale: in cui gli impiegati si dividono secondo compiti e
funzioni da svolgere partendo dai problemi dell’impresa. Si distinguono tre livelli in questo
modello:
a. livello generale
b. direzione funzionale (l’amministrazione dell’IC)
c. unità organizzative inferiori (tutti i compiti operativi)
2) Modello divisionale: dove l’impresa si frammenta in più parti e si ha un
decentramento di potere decisionale, poiché ogni parte ha la propria autonomia. In
questo modello troviamo inoltre: → i centri di profitto, che hanno autonomia
amministrativa e decisionale con conseguente
controllo delle attività
→ i centri di costo, che invece dipendono dai centri di
profitto, sono a sevizio di essi.
3) Modello di gestione per progetti: questo modello ha una struttura molto flessibile e
l’occupazione del tipo di impresa lo dice il nome stesso. Nonostante ciò, però, c’è un
elevato rischio di conflitti poiché ogni gruppo dedito a un progetto vorrebbe sicuramente
cercare di avere la meglio su tutti gli altri.
4) Modello organizzativo a rete: si basa sul principio di integrazione, ossia di cercare di
integrare tutte le attività relative a ciò che non ci si poteva permettere all’interno
dell’impresa stessa. Si creano molte sinergie in questo modello, quindi abbiamo un buon
coordinamento e soprattutto una buona collaborazione poiché si cerca di arrivare e
raggiungere vari e diversi livelli d’integrazione.